De Viti De Marco, Antonio

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Economista e uomo politico italiano (Lecce 1858 - Roma 1943); prof. di scienza delle finanze nelle univ. di Macerata, Pavia e Roma (dal 1887), condirettore (1900-13) del Giornale degli economisti, deputato del partito radicale (1900-21); liberoscambista, si oppose al dazio sul grano e al parassitismo industriale, in difesa degli interessi economici del Mezzogiorno.

Nel 1931 fu allontanato dalla cattedra per non aver giurato fedeltà al regime fascista.

Socio nazionale dei Lincei (1932-35).

Con Il carattere dell'economia finanziaria (1888), contemporaneamente a E. Sax, ma con indirizzo diverso, gettò le basi della finanza teoretica, riconducendo il fenomeno finanziario alle leggi generali dell'economia e spiegandone le deviazioni concrete come effetti del fattore politico.

Scrisse anche: Moneta e prezzi (1885), Saggi di economia e finanza (1898), I principî dell'economia finanziaria (1928; 3a ed., 1953), La funzione della banca (1934). Molti i suoi scritti politici, tra cui importante il volume Un trentennio di lotte politiche (1930).

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DBI

di Antonio Cardini

Nacque a Lecce il 30 sett. 1858.

Il padre, Raffaele De Viti, era stato adottato da un De Marco, per cui aveva assunto il titolo di marchese e il cognome De Viti De Marco. Aveva ereditato inoltre il palazzo avito e larghi possedimenti in Casamassella, presso Uggiano la Chiesa, vicino Otranto. Il padre esercitò la professione di avvocato, fu liberale moderato e dopo il 1861 partecipò alle deputazioni locali di Terra d'Otranto. Suo fratello Francesco De Viti, zio del D., fu una singolare figura di erudito; pubblicò un Saggio di lessilogia italiana (Lecce 1871), inserendosi nel dibattito sul problema della lingua successivo all'unificazione e proponendo di adottare un idioma creato da una silloge dei classici italiani dal Tre al Cinquecento. La madre, Lucia Troysi, era di origine napoletana; suo padre, il nonno materno da cui il D. prese il nome, Antonio Troysi, era stato giureconsulto, presidente della Corte dei conti e ministro della Giustizia nel Regno di Napoli. La moglie di lui, Caroline Sutton, era inglese e l'influenza della cultura anglosassone, anche attraverso la famiglia, fu subito assai presente nella formazione del De Viti. Egli ebbe due fratelli, Girolamo, il primogenito, e Cesare, minore di lui, e tre sorelle.

Crebbe nelle tenute di campagna della famiglia, e nella città di Lecce dove frequentò sino al 1876 il collegio di stampo militare "Giuseppe Palmieri". Nel frattempo, nel 1875, era rimasto orfano della madre. Il padre decise quindi di indirizzarlo allo studio della giurisprudenza, per avviarlo alla professione legale. Lasciate Lecce e Otranto, dove tornò, peraltro, e visse per lunghi periodi, il D. frequentò dal 1877 la facoltà di giurisprudenza dell'università di Roma. Qui ebbe come professore l'allora giovanissimo Antonio Salandra; ma il docente che ricorderà maggiormente sarà l'economista e statistico Angelo Messedaglia, uno scienziato di orientamento positivista. Più degli insegnanti ad esercitare una profonda influenza su di lui fu, tuttavia, il compagno di studi più vivace e intelligente, Maffeo Pantaleoni, con cui trascorreva molto del suo tempo cercando di progredire oltre le lezioni loro impartite a scuola. Grazie alla dimestichezza di entrambi con la lingua inglese - le lettere che si scambiavano erano scritte in tale lingua (cfr. la lettera pubblicata a cura di A. M. Fusco, in Economia delle scelte pubbliche, I[1983], pp. 66-71) - si accostarono da soli alla letteratura economica classica e poi ai marginalisti, in primo luogo a W. Stanley Jevons, rivolgendo in tal modo agli studi economici il comune desiderio di approfondimento nelle scienze sociali. I primi studi del D., pubblicati sulla Rivista europea nel corso del 1879, mostrarono una formazione intellettuale fondata sulla letteratura storica, economica, giuridica, politica anglosassone. Il D. si laureò nel 1881 in giurisprudenza; scongiurò il tentativo paterno di avviarlo alla professione di avvocato cominciando a tenere lezioni di economia all'università di Napoli, sotto gli auspici dell'economista liberista Antonio Ciccone.

Iniziò così una carriera accademica che lo portò a insegnare economia politica e scienza delle finanze a Camerino nel 1882-83, a Macerata l'anno successivo e dal 1885 scienza delle finanze a Pavia, sotto gli auspici di Luigi Cossa, che frequentò assiduamente, così come Fedele Lampertico. Nel 1884 e 1885 il D. subì la scomparsa del fratello maggiore, Girolamo, e del padre. Ereditò le tenute pugliesi, delle quali dovette curare da allora la conduzione con il fratello Cesare. Da uno zio ereditò inoltre l'azienda "I Veli" a Cellino San Marco, presso Brindisi, che trasformò, con lunghi anni di investimenti, in una tenuta modello. Era ormai un grande proprietario; ma non lasciò gli studi economici. Nel 1885 uscì a Città di Castello il suo primo volume Moneta e prezzi. Subito dopo si accinse a ricavare dal testo delle lezioni di scienza delle finanze tenute a Pavia l'altro suo volume fondamentale, Il carattere teorico dell'economia finanziaria (Roma 1888), il cui testo fu letto e commentato da Maffeo Pantaleoni. Nel 1887-88 divenne professore straordinario di scienza delle finanze presso la facoltà di giurisprudenza dell'università di Roma, insegnamento per il quale fu promosso all'ordinariato nel 1898, e che tenne sino al suo ritiro. Insieme con il Pantaleoni aveva intanto in animo di introdurre definitivamente il marginalismo in Italia. A loro si unì con uguali propositi l'economista napoletano Ugo Mazzola. Nel 1889 i tre si posero in contatto con Léon Walras allo scopo di fondare una rivista internazionale per sostenere la teoria dell'equilibrio generale e dell'utilità marginale. Nel luglio 1890 l'iniziativa si trasformò poi nell'acquisto, da parte dei tre amici, del Giornale degli economisti, del quale il D., insieme con Ugo Mazzola e Maffeo Pantaleoni, assunse la direzione, che tenne sino al 1912. Al gruppo si unì ben presto Vilfredo Pareto, conosciuto dal D. al congresso della pace, organizzato nel 1889 da Ernesto Teodoro Moneta (cfr. la lettera del D. a U. Peruzzi del 29 luglio 1890, in A. Cardini, Stato liberale, p. 94). Il D. assunse allora le posizioni, poi sempre mantenute, di un liberismo di stampo anglosassone, che lo condusse ad aderire, pur con molte critiche e riserve, al radicalismo italiano. Stabilì la sua residenza a Roma, a palazzo Orsini, in via Monte Savello, dove fu ospitata anche la redazione del Giornale degli economisti.

Su questa rivista il D. iniziò l'attività di commentatore dei fatti di attualità politica ed economica, compito che affiancò da allora alla pubblicazione di scritti più propriamente scientifici. I quali peraltro cominciarono ad apparire di rado, molto meditati e sorvegliatissimi. Nel 1890 pubblicò una memoria, in onore di Luigi Cossa, sull'economista mercantilista Antonio Serra e sul commercio internazionale. Riprese poi ad occuparsi di problemi finanziari e tributari affrontando la perenne questione dell'alternativa tra imposte e prestito pubblico, in alcuni contributi del 1893, su La pressione tributaria dell'imposta e del prestito. Riunì questi articoli in un volume, Saggi di economia e finanza (Roma 1898), dedicato a Maffeo Pantaleoni. Dal 1890 intraprese sempre più la strada del commento ai fatti economici e politici di attualità, con articoli, spesso senza firma o sotto pseudonimi, pubblicati sul Giornale degli economisti. Con gli scritti del 1890-94 prese attivamente parte alla campagna in favore del libero scambio, riproponendo in particolare la questione meridionale, da tempo trascurata. Sollevò il problema della disparità di trattamento doganale e tributario del Mezzogiorno nei rapporti con le rimanenti regioni italiane, usando un nuovo approccio fondato sulla scienza economica che anticipava il metodo innovatore successivamente adottato da Francesco Saverio Nitti. Fu segretario del congresso degli agricoltori, riunito a Napoli nel 1891, e come tale fu relatore di un testo che avrebbe dovuto servire da piattaforma per le richieste di modifica in senso libero-scambista della tariffa doganale del 1887, in vista dei trattati di commercio con la Svizzera e con gli Imperi Centrali.

Le limpide analisi meridionalistiche del D. si unirono ad un suo crescente impegno più direttamente politico. Fondò e diresse insieme col Pantaleoni l'Associazione economica liberale che agì tra il 1892 ed il 1899. Dal maggio 1892 iniziò inoltre l'esame della situazione degli istituti di emissione con articoli e proposte legislative. Il Pantaleoni era venuto in possesso della relazione Alvisi-Biagini sulla Banca romana e aveva messo al corrente di ciò i suoi amici del Giornale degli economisti, per cui si era deciso di rendere pubblica la relazione. Al D. venne affidato l'incarico di esporre il punto di vista tecnico-bancario della rivista, con articoli pubblicati nel 1892-93, durante e dopo lo scandalo della Banca romana. Ammesso come socio corrispondente all'Accademia dei Lincei, rielaborò successivamente queste pagine sparse in una vera e propria teoria della banca, che espose nel 1898 in una memoria per gli atti dell'Accademia. Sotto la pressione degli scandali bancari si era intanto dimesso Giolitti, che lasciò la presidenza del Consiglio a Crispi, aspramente criticato dal D. per la repressione, nel 1894, dei Fasci siciliani e per la politica finanziaria del ministro delle Finanze e ad interim del Tesoro Sonnino.

Egli sostenne che, nel quadro di emarginazione economica e politica del Mezzogiorno, le istituzioni liberali nate dal Risorgimento non rappresentavano una garanzia, perché le classi dirigenti locali fornivano alle maggioranze parlamentari deputati obbedienti in cambio della negligenza del prefetto nei confronti delle clientele che dominavano le province. Al contrario la democrazia ed il progresso industriale (secondo H. Spencer, cui il D. si ispirava) avrebbero dovuto procedere con lento ma sicuro cammino nel paese, muovendo dal tronco liberale.

Al principio degli anni Novanta il D. iniziò ad attendere al trattato di economia finanziaria che vide la luce nel 1892-93, ma solo sotto forma di lezioni litografate per gli studenti; queste stesure provvisorie si susseguirono poi, per alcuni decenni, sino al 1923, senza che egli si decidesse a darle alle stampe. Dimostrazione di un lavoro incessante di riflessione scientifica, mai abbandonato ed al tempo stesso mai soddisfatto dei risultati raggiunti. Nel 1895 sposò a Firenze l'americana Harriette Lathrop Dunham, da cui ebbe, fra il 1896 ed il 1900, tre figli, James, Etta e Lucia; con la moglie si recò negli Stati Uniti.

Fu un'esperienza culturale che influì molto sul suo modo di pensare e sulle sue vedute in merito alle vicende politiche e sociali. La consorte fu assai vicina all'attività del D.; femminista, si occupò di politica e di cultura, scrivendo sul Giornale degli economisti.

Di ritorno dagli Stati Uniti, nel marzo 1897 il D. si presentò come candidato ministeriale sotto il governo di Antonio di Rudinì, al quale lo aveva avvicinato l'amico Gaetano Mosca. Si presentò nel collegio di Gallipoli, ma venne sconfitto dal crispino Nicola Vischi. Nel 1896-97 tentò anche di acquistare e dirigere la Nuova Antologia (come risulta da una lettera al Mosca del 30 ag. 1897: cfr. A Cardini, A. D., p. 76) per farne una tribuna del liberismo; finì però col rinunciare all'impresa. Coprendo il disavanzo del Giornale degli economisti, neassunse di fatto, nel periodo 1897-1899, la direzione politica, scontrandosi con Vilfredo Pareto, che non approvava le sue posizioni. Allontanatosi il Pareto, il D. pensò di coinvolgere nella vita della rivista uomini come Gaetano Mosca, Guglielmo Ferrero, Francesco Papafava, ma solo nel caso di quest'ultimo la collaborazione proseguì a lungo e fruttuosamente. Nel 1898 s'impegnò nell'iniziativa di fondare un grande periodico di cultura liberale, chiedendo, su suggerimento di Antonio Labriola, la partecipazione del giovane Benedetto Croce (cfr. A. Labriola, Lettere a Benedetto Croce, 1885-1904, Napoli 1975, p. 285; A. Cardini, A. D., p. 94). La cosa non ebbe peraltro attuazione pratica. Nel periodo in cui diresse, solo, il Giornale degli economisti il D. scrisse ogni mese la "Cronaca" e molti articoli d'attualità economica e politica che costituiscono un complesso rilevante di scritti liberali e democratici sulla crisi di fine secolo. Fu soprattutto il saggio intorno ai disordini del maggio 1898 a riscuotere vasti e prolungati consensi. Le sue posizioni antiautoritarie e favorevoli all'ostruzionismo dell'Estrema furono calorosamente approvate dall'Avanti! e dal Partito socialista italiano.

Egli si trovò così al centro di una complessa rete culturale e politica, che avrebbe potuto volgere in favore del movimento liberale e democratico che sperava di costituire. Preferì invece recarsi nuovamente negli Stati Uniti, lasciando a Francesco Papafava la "Cronaca" politica del Giornale degli economisti, chequesti terrà poi sino al 1909. Al rientro in Italia nel 1901 prenderà posizione con alcuni articoli sul Corriere di Napoli e sul Mattino, in occasione della nuova scadenza dei trattati commerciali e ancora in difesa dell'agricoltura e delle esportazioni meridionali.

Nel dicembre 1901, essendo rimasto vacante il collegio di Gallipoli, si presentò nuovamente come candidato, sostenuto sul Secolo da Guglielmo Ferrero, nonché da Ettore Sacchi e dal Pantaleoni, allora deputato radicale.

Fu suo avversario il candidato socialista Stanislao Senape De Pace, che, sconfitto, si presenterà contro di lui anche nelle successive elezioni del 1904, 1909, 1913. In Parlamento pronunziò nel 1902-1903 discorsi di taglio meridionalistico. Accompagnò queste prese di posizione parlamentari ad una serie di conferenze tenute nel 1903-1904 in numerose città (Lecce, Napoli, Bologna, Firenze, Milano, Torino), i cui testi vennero pubblicati nel 1905 a Palermo con il titolo Per il Mezzogiorno e per la libertà commerciale, unitamente ai polemici articoli scritti alla fine del 1903, e diffusi in opuscoli a migliaia di copie, in occasione del clamoroso scontro con Napoleone Colajanni sul problema del protezionismo.

Nel dibattito sulla questione del Mezzogiorno, assai diffuso nel 1901-1904, il D. e F. S. Nitti, entrambi radicali, avanzarono proposte alternative riguardo alla soluzione dei problemi meridionali. Risultarono poi prevalenti le idee, favorevoli all'intervento statale, del Nitti piuttosto che quelle liberiste del D. (A. Cardini, A. D., p. 134).

Egli sostenne le sue convinzioni basate su liberalismo, democrazia, pacifismo, contrapposti a protezionismo, nazionalismo, imperialismo, nella conferenza di fondazione della Lega antiprotezionista, tenuta nel marzo 1904, con la partecipazione di sindacalisti rivoluzionari, di repubblicani, di radicali, di socialisti, di liberali. In tale occasione conobbe Luigi Einaudi e Gaetano Salvemini, dei quali fu in senso lato maestro. I suoi programmi non vennero adottati dal partito radicale nel congresso del 1904, né nei successivi, anche se nelle elezioni di quello stesso anno egli venne ancora eletto come deputato radicale. Fu membro, nell'età giolittiana, del Consiglio direttivo della Direzione centrale di statistica del ministero dell'Agricoltura, Industria e Commercio; curò gli atti dell'Istituto internazionale d'agricoltura. Come deputato fu nella commissione Bilancio della Camera e propose una riforma tributaria e doganale globale, studiando il sistema inglese. Nel dicembre 1905 si oppose al modus vivendi con la Spagna, in difesa dei vini meridionali. Sostenne la necessità dell'organizzazione del partito liberale e radicale secondo l'esempio anglosassone, attaccando Giolitti per le sue maggioranze, che impedivano tale processo di aggregazione. Osteggiò nel 1907 la divisione in blocchi clericali e anticlericali, che trascuravano a suo avviso i veri problemi del paese. Indicò il momento degli avanzi di bilancio e della conversione della rendita come il più propizio alla riforma tributaria che da tempo era attesa. Nel 1908, in occasione della crisi internazionale per la Bosnia Erzegovina, criticò la politica estera italiana giudicandola troppo incline a favorire la Triplice Alleanza. Fu eletto ancora deputato nel collegio di Gallipoli nelle elezioni del 1909. Difese in Parlamento l'agricoltura pugliese, caldeggiò una politica dei trasporti favorevole ai piccoli porti. Si interessò dei consorzi antifillosserici del Salento e della produzione vinicola della regione. Aveva intanto costruito una grande fattoria con moderne case contadine e piantagioni modello a Cellino San Marco (Brindisi). Osteggiò nel 1909 alla Camera le convenzioni marittime, proposte dal ministro Giovanni Bettolo. Approvò nel 1911 la campagna dei socialisti contro il "rincaro dei viveri". Si oppose al monopolio statale delle assicurazioni, ma fu favorevole al suffragio universale maschile, si pronunziò a favore del voto femminile e del divorzio.

Quale membro della giunta elettorale parlamentare difese con fermezza la posizione del Salvemini, che chiedeva l'annullamento della elezione del 1909 a Gioia del Colle per i metodi denunciati con il pamphlet Il ministro della malavita. Si stabilì allora uno stretto rapporto d'amicizia tra lui e il Salvemini, durato sino all'esilio di quest'ultimo. Nel 1912 lasciò definitivamente la proprietà e la direzione del Giornale degli economisti, del quale si disinteressava ormai da tempo. A differenza del Salvemini approvò la guerra di Libia. Scrisse sull'impresa alcuni articoli per Il Popolo, un giornale di Gallipoli. Tuttavia affiancò il Salvemini allorché questi smascherò i falsi carteggi Rohlfs-Camperio-Crispi intorno alla fertilità della Tripolitania. Divenne da allora assiduo collaboratore dell'Unità. Sul settimanale pubblicò tra l'altro, nel 1913, l'importante Programma d'azione democratica, rivolto a liberali, socialisti, repubblicani, radicali, per una piattaforma democratica e liberista comune. Claudio Treves e Filippo Turati lo attaccarono però aspramente su Critica sociale.

Le elezioni del novembre 1913 lo videro soccombere nel collegio di Gallipoli, sconfitto dal candidato socialista Stanislao Senape De Pace. Nel periodo in cui non fu deputato il D. fu consigliere comunale a Roma, sempre per il partito radicale. Entrò a far parte inoltre del direttivo dell'importante Associazione radicale romana, della quale divenne presidente. La sua sconfitta elettorale fu accompagnata da una violenta polemica sulla sua presunta adesione al patto Gentiloni. Il D. fu attaccato anche dalla stampa nazionalista e criticò a sua volta il programma protezionista e nazionalista di Alfredo Rocco e Filippo Carli (1914).

Fu l'animatore del congresso radicale del 30 gennaio-2 febbr. 1914, nel quale venne approvato un o.d.g., da lui proposto, antigiolittiano e antiprotezionista. Fu inoltre la figura preminente, con Einaudi e Salvemini, della nuova Lega antiprotezionista e del movimento liberista che si sviluppò, trovando spazio soprattutto negli ambienti democratici, tra la fine del 1913 e i primi mesi del 1914. Tracciò le linee programmatiche di questa compagine nel saggio, Il problema doganale e l'attuale momento politico (Firenze 1914), pubblicato immediatamente prima dello scoppio della grande guerra. Fu all'inizio favorevole alla posizione di neutralità, ma dal settembre-ottobre 1914 era già fautore del nostro intervento a fianco dell'Intesa contro quella che riteneva l'aggressione del militarismo e dell'autoritarismo tedeschi. Insieme con Salvemini e Leonida Bissolati sostenne tenacemente l'interventismo democratico. Si presentò nel marzo del 1915 come candidato del collegio di Gallipoli, rimasto vacante per la morte di Senape, e venne eletto ancora una volta deputato, con un programma di impronta interventista. Dopo aver preso parte alle manifestazioni del "maggio radioso", diresse dal giugno al dicembre 1915 La Voce, della quale era editore Giuseppe Prezzolini, ma dopo un'aspra lite con quest'ultimo si ritirò dal periodico. Si fece nel 1915 promotore di una Lega italo-britannica per favorire l'accordo e la conoscenza reciproca tra i popoli dell'Intesa. Riprese la campagna liberista nel 1916 e, dall'agosto, affiancò Salvemini nell'impresa di pubblicare di nuovo L'Unità, che uscì nel dicembre, diretta da entrambi.

In questa serie del periodico, oltre alle polemiche consuete contro il protezionismo e l'interventismo statale, pubblicò numerosi scritti di politica estera, ispirati al programma wilsoniano, che condivideva dal 1912; individuò inoltre il carattere di svolta storica dell'intervento americano e della rivoluzione russa. Si interessò particolarmente della "questione adriatica"; nella sua casa romana si tennero gli incontri promossi dall'Unità allo scopo di stabilire un'intesa, scevra di nazionalismi, tra i due popoli, per la definizione del confine italo-jugoslavo.

Si dissociò nel 1917 dal partito radicale, ritenendo troppo nazionalista la linea di politica estera da questo adottata. Aderì al Fascio parlamentare di difesa nazionale e attaccò aspramente Nitti e Giolitti. I suoi scritti sulla guerra furono riuniti nel febbraio 1918, per le edizioni dell'Unità (Firenze), con il titolo La guerra europea. Lasciò nel dicembre 1918 la direzione del periodico, che tornò a Firenze guidato dal solo Salvemini. Nel 1919 uscirono a Roma riuniti in opuscolo, con la prefazione di Salvemini, i suoi Problemi del dopo guerra. Fu presidente della commissione parlamentare per la riforma elettorale che introdusse il sistema proporzionale. Venne ancora eletto deputato nelle elezioni del 1919, nel collegio di Terra d'Otranto, e aderì al gruppo del Rinnovamento alla Camera, dal quale si dissociò peraltro nell'agosto 1920, con l'accusa, lanciata pubblicamente, che esso era divenuto protezionista e nazionalista. Seguì i congressi democratici degli "unitari", divenne favorevole ad una riforma agraria e alla statizzazione della siderurgia, anche se ritenne ormai perdute le speranze, accarezzate per trenta anni, di costituire un forte partito liberale e democratico in Italia. Non si presentò alle elezioni del 1921, turbato da quella che considerava una "guerra civile" tra "bolscevichi" e fascisti, entrambi a suo avviso nemici della democrazia e del liberalismo. Si ritirò in disparte dopo l'avvento di Mussolini, considerando tramontato e deluso il suo ideale di veder affermati in Italia un nuovo liberalismo e una nuova democrazia.

Si dedicò alla stesura del trattato di Scienza delle finanze, che finalmente nel 1923 venne stampato a Roma.

Una seconda edizione vide la luce nel 1928, e una edizione tedesca fu pubblicata nel 1932. Per impulso di Luigi Einaudi, che gli fu vicino in quegli anni, una nuova edizione italiana uscì a Torino nel 1934; ristampata con alcune modifiche nel 1939, essa risultò infine definitiva. La sua opera ebbe traduzioni, oltre che in tedesco, in spagnolo e inglese e il D. ne ricevette fama internazionale. Ripubblicò inoltre il trattato del 1898 su La funzionedella banca (Torino 1934), pure tradotto in tedesco.

Nel 1929 Umberto Zanotti Bianco ed Emesto Rossi vollero riunire una scelta dei suoi scritti politici sotto il titolo Un trentennio di lotte politiche 1894-1922 (Roma s.d. [ma 1930]), una raccolta destinata a rendere classico nella letteratura politica italiana il suo pensiero, liberale e liberista.

Nel 1931il D. rifiutò il giuramento di fedeltà al fascismo e si ritirò dall'insegnamento; per le stesse ragioni lasciò nel 1934 l'Accademia dei Lincei. Nella prefazione all'edizione tedesca del trattato di scienza delle finanze (1932) testimoniò la sua solidarietà ad Ernesto Rossi, carcerato quale esponente di Giustizia e libertà.

Malato da anni, il D. morì a Roma il 1º dic. 1943.

Il D. occupa un posto di primo piano nell'affermazione dell'indirizzo marginalistico negli studi economico-finanziari in Italia a cavallo fra Otto e Novecento. In questo senso il suo nome si accompagna a quello di Maffeo Pantaleoni, Vilfredo Pareto ed Enrico Barone.

Scrive Luigi Einaudi: "Dei quattro, il De Viti De Marco è forse il meno subitamente affascinante. Il viso fine, dai tratti puri, il sorriso incoraggiante e nel tempo stesso leggermente ironico, l'eloquio non fluido, che talvolta cerca le parole e le trova alla fine terse e precise, il fare semplice da gran signore rivelano a prima vista l'origine aristocratica ... Forse all'indole schiva, non altera, ma non incoraggiante per la comune dei giovani, si deve se De Viti De Marco non ha costituito quella che si suole chiamare una "scuola" di cultori di scienza finanziaria; ma noi tutti che abbiamo studiato i problemi di finanza da trent'anni in qua riputiamo lui "il" maestro" (Prefazione a A. De Viti De Marco, Principî dieconomia finanziaria [1934], Torino 1961, p. 15).

Tratti caratteristici della produzione scientifica del D. sono l'esiguità in termini quantitativi (almeno secondo gli standard del suo tempo) e l'asperità dello stile. Definito "sterile" da F. S. Nitti in una lettera del 1895 a Luigi Albertini, il D. pagò lo scotto di questa ritrosia a mettere per iscritto il suo pensiero con la nomina tardiva a ordinario, avvenuta soltanto nel 1898, dieci anni dopo la vittoria nel concorso a cattedra. Ma è soprattutto il secondo aspetto a colpire. Quasi ostentando indifferenza per le esigenze del lettore, il D. segue il proprio ragionamento riducendone all'osso l'argomentazione e al minimo i riferimenti bibliografici (talché risulta difficile risalire alle sue "fonti" di ispirazione). Questa estrema asciuttezza ha sconcertato molti critici, per cui si trova scritto che in lui "assai spesso mancano i passaggi logici fra un pensiero e l'altro" (E. Rossi, Le prime basi teoriche della finanza dello Stato democratico, in La Riforma sociale, XXXIII, vol. XXXVII [1926], p. 155) e addirittura che i suoi Principî sono "un monumento alla confusione" (recens. di H. Simons in Journ. of pol. economy, XLV [1937], p. 713), ma anche, al contrario, che "il nesso logico [nel D.] è rigorosissimo e dà un vero godimento spirituale specie a menti educate alla logica matematica" (A. Cabiati, La "Finanza" di A. D., in Giorn. degli economisti e rivista di statistica, LXVII [1928], p. 882), e che i Principî sono "probabilmente il miglior trattato teorico di finanza pubblica che sia mai stato scritto" (rec. di F. Benham in Economica, [1934], p. 364).

Anche se la scienza delle finanze fu il suo principale campo di interessi scientifici, il D. si cimentò soprattutto negli anni giovanili in ricerche di teoria monetaria e creditizia, denotando profonde conoscenze storico-analitiche, oltre che tecniche. In Moneta e prezzi, ossia il principio quantitativo in rapporto allaquestione monetaria precisa i fondamenti e i limiti di validità della teoria quantitativa della moneta - la ben nota relazione causale fra quantità di moneta in circolazione e livello generale dei prezzi - mostrandone il collegamento con la teoria classica della distribuzione dei metalli preziosi.

Quando però si passi da un'economia basata sulla sola moneta metallica a un'economia metallico-fiduciaria e creditizia, la proporzionalità fra aumento della massa metallica e l'aumento dei prezzi non è più valida. Il credito fa assumere alla moneta metallica il ruolo di "compensazione" fra crediti e debiti, riducendone il fabbisogno. Ne consegue che un aumento della riserva metallica detenuta dalle banche, producendo un allargamento del credito, si ripercuoterà sui prezzi in maniera amplificata (cfr. Moneta e prezzi, p. 47). Il credito è parimenti fattore di instabilità e di crisi. Gli errori di previsione circa l'aumento della domanda e il rialzo dei prezzi condurrà al peggioramento delle posizioni debitorie degli imprenditori-mutuatari rispetto ai capitalisti-mutuanti, finché attraverso il rialzo del saggio di interesse e l'abbassamento del saggio del profitto non si raggiungera un nuovo equilibrio.

Temi non distanti il D. affronta nel saggio Le teorie economiche di Antonio Serra (in Memorie del R. Ist. lombardo di scienze e lettere, classe di lettere, scienze storiche e mor., XVII [1890], rist. in A. De Viti De Marco, Saggi di economia e finanza, Città di Castello 1898, pp. 3-58), che costituisce altresì un apprezzabile modello di storia analitica del pensiero economico.

Il Serra - nell'affrontare la questione della scarsità di moneta nel Regno di Napoli all'inizio del XVII secolo - mostra di avere una esatta teoria dei pagamenti internazionali e spiega con essa il cambio sfavorevole e il deflusso d'oro dal Regno; ma non possiede la teoria quantitativa della moneta - che pure della prima è indispensabile complemento - e quindi incorre nell'ingenuo errore mercantilistico di voler impedire con misure coattive l'esportazione dei metalli preziosi.

Infine, in La funzione della banca (in Rendiconti della R. Accad. dei Lincei, classe di sc. mor., storiche e filologiche, s. 5, VII [1898], rist. ampl. col sottotitolo Introduzione allo studio dei problemi monetari e bancari contemporanei, con pref. di L. Einaudi, Torino 1934) il D. riprende e amplia gli spunti precedenti per costruire una teoria della banca come organismo preposto alla "compensazione" fra due specie di credito: quello cambiario, che il cliente cede alla banca, e quello bancario, che la banca cede al commerciante.

"La moneta non interviene in questa operazione elementare ... Essa confina il suo ufficio al saldo delle differenze" (La funzione..., ed. 1934, p. 45). La riserva metallica ha dunque l'ufficio di coprire le differenze fra crediti attivi e passivi; se questi crescono o diminuiscono nello stesso valore assoluto, l'ammontare della riserva resterà invariato, evidenziando il carattere di "baratto" fra crediti compiuto dalla banca (ibid., p. 71). Così circoscritta la funzione ortodossa della banca, il D. la distingue da quella degli istituti di credito speciale (mobiliare, fondiario, ecc.), i quali invece provvedono al fabbisogno di "investimenti", da tenere ben distinti dai "pagamenti" (ibid., p. 60). Corollario di questa concezione è l'affermazione - contenuta nell'edizione del 1934 -secondo cui la banca di per sé non "crea credito", come invece sostenevano i "modernisti" (cioè gli economisti intorno a J. M. Keynes). Questa posizione sembrò anacronistica ad alcuni recensori del tempo (G. Capodaglio in Giorn. degli econ. e rivista di stat., L [1935], pp. 252-55;F. di Fenizio, ibid., pp. 256 s.); ma è da rilevare che l'intento del D. era di riportare la banca alle sue funzioni istituzionali, dopo le distorsioni operate dall'avvento della banca mista di cui era stato critico attento e severo (cfr. A. De Viti De Marco, Proroga o corsoforzoso?, in Giorn. degli economisti, VI, s. 2, vol. I [1891], pp. 1-16).

Positivista come la maggior parte degli scienziati sociali del suo tempo, il D. evitò gli eccessi dello scientismo e dell'apriorismo metafisico allora in voga, rifacendosi all'insegnamento di Angelo Messedaglia, di cui tracciò un esemplare ritratto intellettuale (Commemorazione di A. Messedaglia, in Giorn. degli econ, XVI, s. 2, vol. XXI [1901], pp. 432-56). Prevalentemente metodologico è anche il primo suo studio di scienza delle finanze, Il carattere teorico dell'economia finanziaria, che si apre con una critica della distinzione, anch'essa allora comune, fra "scienza" e "arte" economica. Anche le normae agendi, infatti, quando si traducono in comportamenti dell'operatore pubblico diventano fattori causali passibili di analisi scientifica. Assertore della simmetria fra l'economia privata e quella pubblica, il D. afferma che l'una e l'altra studiano "l'attività che esplica un soggetto avente bisogni per l'acquisizione di utilità esterne atte a soddisfarli" (Il carattere teorico..., p. 44). Ne consegue che oggetto della scienza delle finanze non è che cosa lo Stato debba fare, ma come esso soddisfi una particolare categoria di bisogni, quelli "collettivi", i quali si differenziano dai bisogni "individuali" dell'economia privata per il differente modo in cui sono sentiti dalla collettività. Caratteristica dei bisogni collettivi è l'eterogeneità, che vanifica i tentativi di sommatoria aritmetica e consente solo quella algebrica. Lo Stato ha il compito di mediare fra i vari bisogni contrastanti. Qui entra in gioco la costituzione politica, alla quale il D. - che è coetaneo di Gaetano Mosca - annette grande importanza. La storia insegna che vi sono due modi opposti in cui lo Stato può determinare i bisogni da soddisfare e ripartire il costo dei servizi pubblici sulla collettività. Il primo modo è quello dello Stato assoluto o "mopolistico" di ancien régime, quando la classe dirigente è fiscalmente immune, ma è esclusiva beneficiaria della spesa pubblica finanziata dalle imposte; il secondo modo è quello dello Stato "cooperativo" di democrazia liberale rappresentativa, quando si realizza la piena identità di governanti e governati, e quindi la piena corrispondenza fra la disutilità del prelievo e l'utilità del beneficio del servizio pubblico. Questi concetti, che intendevano gettare un ponte fra la dottrina politica liberale e la concezione marginalistica del calcolo finanziario, furono ripresi e ampliati da Luigi Einaudi con la sua parabola della "finanza periclea", in trasparente polemica con l'indirizzo corporativo fascista (cfr. L. Einaudi, Ipotesi astratte ed ipotesi storiche e dei giudizi di valore nelle scienze economiche, in Atti della R. Acc. delle sc. di Torino, LXXVIII [1942-43], rist. in L. Einaudi, Scritti economici, storici e civili, a cura di R. Romano, Milano 1973, pp. 371-398).

Nelle opere successive il D. da una parte approfondì l'analisi dei bisogni collettivi e della loro soddisfazione, dall'altra quella della ripartizione del carico dei servizi pubblici tenendo presente soprattutto lo schema dello Stato "cooperativo" (mentre lo schema dello Stato "assoluto" gli servì soprattutto per mostrare l'evoluzione storica degli istituti finanziari). In Entrate patrimoniali e demanio (in Giorn. degli econ., IX [1894], rist. in Saggi di economia e finanza, pp. 127-184) precisa il collegamento fra l'economia finanziaria e quella privata.

I beni demaniali (strade, fortezze, ecc.) consistono in beni "diretti", atti a soddisfare bisogni pubblici (viabilità, difesa, ecc.), ma entrano a loro volta nell'economia privata come beni strumentali della produzione. Invece i beni patrimoniali dello Stato (il legno delle foreste, ecc.) consistono in beni "di secondo grado", in quanto debbono essere trasformati in beni pubblici attraverso la loro vendita e l'impiego del ricavato in opere pubbliche (per es. la costruzione di una strada). Ma per i privati che li acquistano i beni patrimoniali sono beni diretti, destinati a soddisfare bisogni individuali. Questi concetti sono la premessa per la sua teoria dello Stato "fattore di produzione". Tuttavia il D. ritenne la distinzione fra bisogno individuale e bisogno collettivo non determinabile a priori, ma sulla base dell'osservazione e dell'esperienza storica. Per esempio, avversò il progetto di esercizio di Stato del servizio telefonico in quanto a suo parere il bisogno connesso non aveva ancora il carattere di generalità (L'industria dei telefoni e l'esercizio di Stato, in Giorn. degli econ., V [1890], pp. 279-306).

Nelle varie edizioni delle dispense universitarie (cfr. Appunti di scienza delle finanze dalle lezioni del prof. De Viti De Marco raccolti stenograficamente dallo studente Astralli, Roma s.d.) e finalmente nei già citati Principî di economia finanziaria il D. svolse magistralmente la propria teoria del passaggio dalla tassa all'imposta, assumendo un continuo controllo dei consociati sull'economicità dei servizi pubblici. Mentre il controllo sulla tassa è "postumo", in quanto avviene tramite il consumo del servizio, quello sull'imposta è preventivo, in quanto avviene tramite la preliminare anticipazione allo Stato dei mezzi finanziari necessari alla produzione del servizio.

In particolare, il ponte di passaggio dalla tassa all'imposta è individuato nel prezzo d'abbonamento, per cui l'impresa erogatrice preleva dall'utente una somma fissa in cambio dell'uso illimitato del servizio. "Il prezzo d'abbonamento - scrive icasticamente il D. - è la culla dell'imposta" (Principî..., p. 103).

Inoltre, mentre per la tassa la domanda è individuata, per l'imposta si presume che la domanda sia fatta da tutta la collettività; l'indice presuntivo di tale domanda è il reddito. "Il consumo dei servizi pubblici generali è proporzionale al reddito di ogni cittadino" (ibid., p. 117). Questo criterio non comporta, secondo il D., l'adozione di un sistema fiscale proporzionale piuttosto che progressivo, in quanto si dovrà tener conto di numerosi fattori extraeconomici (la "lotta di interessi" fra le classi di contribuenti) ed economici (diversi effetti sull'accumulazione del capitale, ecc.). Nel capitolo XII dei Principî, intitolato Teoria politica dell'imposta proporzionale e progressiva, il D. osserva che l'ascesa del proletariato non ha condotto all'affermazione dell'imposta progressiva, in quanto i partiti socialisti hanno mostrato di preferire la politica dei benefici speciali: chiaro riferimento all'Italia giolittiana, giudicata secondo l'ottica radical-liberista. Le preferenze del D. vanno peraltro a un sistema di imposte proporzionali sulle fortune medie e alte, con sgravi sulle fortune inferiori. Il D. giustifica il potere impositivo statale con la teoria dello Stato "fattore di produzione", che partecipa al processo di formazione del reddito netto, definito come "la massa dei beni di primo grado [cioè finali] annualmente prodotti e consumati" (ibid., p. 218).

Un esempio numerico nel capitolo XV dei Principî descrive il processo di produzione e distribuzione di 120 quintali di pane fra cinque produttori, uno dei quali è lo Stato. Il D. mostra che è indifferente che quest'ultimo prelevi la propria quota di 24 quintali al termine del processo, quando il pane si trova presso il fornaio, oppure prelevi il 20 per cento del prezzo degli aratri venduti dal fabbricante al granicoltore, poi il 20 per cento del grano venduto dal granicoltore al mugnaio, e così via. Nell'uno e nell'altro caso si saranno evitate le duplicazioni, e il reddito lordo si sarà tradotto in netto.

Corollario della teoria dello Stato fattore di produzione è che "ogni particella di reddito nasce gravata dal relativo debito tributario" (ibid., p. 222). Il principio del reddito come prodotto gli fa respingere la teoria dell'esenzione tributaria del risparmio - sostenuta in Italia principalmente dall'Einaudi, sulla scorta di J. S. Mill - in quanto la depurazione è già avvenuta eliminando dal computo i beni intermedi e identificando il reddito con i beni finali. Il risparmio non può essere ulteriormente dedotto, perché è reddito anch'esso, e deve essere tassato, perché altrimenti "chi risparmia agli interessi composti" (cioè risparmia l'intero reddito derivante dall'impiego del risparmio) "cessa di essere contribuente" (ibid., p. 230). Grande rilievo ha nei Principî la teoria della traslazione delle imposte. Essa parte dalla critica alla teoria tradizionale - risalente agli economisti classici - che considera l'imposta come un aggravio dei costi di produzione, non tenendo conto dell'utilità proveniente dai servizi pubblici finanziati dall'imposta; e che si pone dall'esclusivo punto di vista del produttore, trascurando le variazioni di domanda del consumatore. Ma il D. osserva che se si introduce l'ipotesi di variazioni della domanda, e se si tiene conto dell'intervallo necessario ad adeguare l'offerta alla nuova domanda, si avrà traslazione dell'imposta anche nel caso del monopolio, in quanto il punto di Cournot, che determina l'equilibrio del monopolista, si sposta. Questa trattazione - che occupa il capitolo IX dei Principî - è svolta secondo l'ottica dell'equilibrio economico generale: "il vecchio equilibrio è rotto dalla nuova direzione della domanda dei privati e dello Stato; da cui nasceranno mutazioni in più o in meno nel sistema dei prezzi precedenti e quindi necessari fenomeni di traslazione; a cui seguirà la reazione dei produttori per raggiungere il nuovo equilibrio" (ibid., pp. 161 s.).

Infine, il D. confermò e approfondì la teoria ricardiana dell'identità di pressione fra prestito perpetuo e imposta straordinaria una tantum (La pressione tributaria dell'imposta e del prestito, in Giorn. degli econ., VIII [1893], pp. 38-67; rist. ampl. col titolo Contributo alla teoria del prestito pubblico, in Saggi di economia e finanza, pp. 61-123;cfr. anche il cap. XXIX dei Principî).

Fedele alla sua concezione simmetrica di economia privata ed economia pubblica, il D. parte da un individuo il quale, dovendo fronteggiare una spesa straordinaria, è chiamato a scegliere fra alienare una parte del suo patrimonio e indebitarsi. Anche nella collettività nazionale l'esigenza di finanziare una spesa straordinaria con un'imposta una tantum costringerà alcuni contribuenti a vendere il proprio patrimonio, altri (che non intendono vendere) a contrarre mutui con capitalisti. Ma se lo Stato invece opterà per il prestito pubblico, non farà altro che sostituire un rapporto pubblicistico unico alla rete di rapporti privatistici fra debitori e creditori. Da una parte, infatti, si indebiterà verso i capitalisti sottoscrittori del prestito; dall'altra sarà creditore - tramite un'imposta ordinaria per il servizio degli interessi del prestito - degli stessi contribuenti che avrebbero contratto debiti con i capitalisti nell'ipotesi precedente. Nulla cambia sostanzialmente, se non che la garanzia statale del prestito tiene bassi i saggi di interesse. Anche la questione del trasferimento dell'onere del prestito sulle generazioni future (che secondo una opposta teoria sarebbero aggravate in perpetuo del carico del debito) viene risolta dal D. osservando che "in ogni caso gli eredi o ricevono un patrimonio decurtato della somma capitale, ovvero sono tenuti al pagamento continuativo dei relativi interessi; il che ... è una parità finanziaria" (Principî, p. 408). Questa teoria è valida peraltro solo se si assume stabilità assoluta nelle condizioni economiche e sociali.