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Economista e uomo politico italiano (Lecce 1858 - Roma 1943); prof. di scienza delle finanze nelle univ. di Macerata, Pavia e Roma (dal 1887), condirettore (1900-13) del Giornale degli economisti, deputato del partito radicale (1900-21); liberoscambista, si oppose al dazio sul grano e al parassitismo industriale, in difesa degli interessi economici del Mezzogiorno.
Nel 1931 fu allontanato dalla cattedra per non aver giurato fedeltà al regime fascista.
Socio nazionale dei Lincei (1932-35).
Con Il carattere dell'economia finanziaria (1888), contemporaneamente a E. Sax, ma con indirizzo diverso, gettò le basi della finanza teoretica, riconducendo il fenomeno finanziario alle leggi generali dell'economia e spiegandone le deviazioni concrete come effetti del fattore politico.
Scrisse anche: Moneta e prezzi (1885), Saggi di economia e finanza (1898), I principî dell'economia finanziaria (1928; 3a ed., 1953), La funzione della banca (1934). Molti i suoi scritti politici, tra cui importante il volume Un trentennio di lotte politiche (1930).
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DBI
di Antonio Cardini
Nacque a Lecce il 30 sett. 1858.
Il padre, Raffaele De Viti, era stato adottato da un De Marco, per
cui aveva assunto il titolo di marchese e il cognome De Viti De
Marco. Aveva ereditato inoltre il palazzo avito e larghi
possedimenti in Casamassella, presso Uggiano la Chiesa, vicino
Otranto. Il padre esercitò la professione di avvocato, fu
liberale moderato e dopo il 1861 partecipò alle deputazioni
locali di Terra d'Otranto. Suo fratello Francesco De Viti, zio del
D., fu una singolare figura di erudito; pubblicò un Saggio
di lessilogia italiana (Lecce 1871), inserendosi nel dibattito sul
problema della lingua successivo all'unificazione e proponendo di
adottare un idioma creato da una silloge dei classici italiani dal
Tre al Cinquecento. La madre, Lucia Troysi, era di origine
napoletana; suo padre, il nonno materno da cui il D. prese il
nome, Antonio Troysi, era stato giureconsulto, presidente della
Corte dei conti e ministro della Giustizia nel Regno di Napoli. La
moglie di lui, Caroline Sutton, era inglese e l'influenza della
cultura anglosassone, anche attraverso la famiglia, fu subito
assai presente nella formazione del De Viti. Egli ebbe due
fratelli, Girolamo, il primogenito, e Cesare, minore di lui, e tre
sorelle.
Crebbe nelle tenute di campagna della famiglia, e nella
città di Lecce dove frequentò sino al 1876 il
collegio di stampo militare "Giuseppe Palmieri". Nel frattempo,
nel 1875, era rimasto orfano della madre. Il padre decise quindi
di indirizzarlo allo studio della giurisprudenza, per avviarlo
alla professione legale. Lasciate Lecce e Otranto, dove
tornò, peraltro, e visse per lunghi periodi, il D.
frequentò dal 1877 la facoltà di giurisprudenza
dell'università di Roma. Qui ebbe come professore l'allora
giovanissimo Antonio Salandra; ma il docente che ricorderà
maggiormente sarà l'economista e statistico Angelo
Messedaglia, uno scienziato di orientamento positivista.
Più degli insegnanti ad esercitare una profonda influenza
su di lui fu, tuttavia, il compagno di studi più vivace e
intelligente, Maffeo Pantaleoni, con cui trascorreva molto del suo
tempo cercando di progredire oltre le lezioni loro impartite a
scuola. Grazie alla dimestichezza di entrambi con la lingua
inglese - le lettere che si scambiavano erano scritte in tale
lingua (cfr. la lettera pubblicata a cura di A. M. Fusco, in
Economia delle scelte pubbliche, I[1983], pp. 66-71) - si
accostarono da soli alla letteratura economica classica e poi ai
marginalisti, in primo luogo a W. Stanley Jevons, rivolgendo in
tal modo agli studi economici il comune desiderio di
approfondimento nelle scienze sociali. I primi studi del D.,
pubblicati sulla Rivista europea nel corso del 1879, mostrarono
una formazione intellettuale fondata sulla letteratura storica,
economica, giuridica, politica anglosassone. Il D. si
laureò nel 1881 in giurisprudenza; scongiurò il
tentativo paterno di avviarlo alla professione di avvocato
cominciando a tenere lezioni di economia all'università di
Napoli, sotto gli auspici dell'economista liberista Antonio
Ciccone.
Iniziò così una carriera accademica che lo
portò a insegnare economia politica e scienza delle finanze
a Camerino nel 1882-83, a Macerata l'anno successivo e dal 1885
scienza delle finanze a Pavia, sotto gli auspici di Luigi Cossa,
che frequentò assiduamente, così come Fedele
Lampertico. Nel 1884 e 1885 il D. subì la scomparsa del
fratello maggiore, Girolamo, e del padre. Ereditò le tenute
pugliesi, delle quali dovette curare da allora la conduzione con
il fratello Cesare. Da uno zio ereditò inoltre l'azienda "I
Veli" a Cellino San Marco, presso Brindisi, che trasformò,
con lunghi anni di investimenti, in una tenuta modello. Era ormai
un grande proprietario; ma non lasciò gli studi economici.
Nel 1885 uscì a Città di Castello il suo primo
volume Moneta e prezzi. Subito dopo si accinse a ricavare dal
testo delle lezioni di scienza delle finanze tenute a Pavia
l'altro suo volume fondamentale, Il carattere teorico
dell'economia finanziaria (Roma 1888), il cui testo fu letto e
commentato da Maffeo Pantaleoni. Nel 1887-88 divenne professore
straordinario di scienza delle finanze presso la facoltà di
giurisprudenza dell'università di Roma, insegnamento per il
quale fu promosso all'ordinariato nel 1898, e che tenne sino al
suo ritiro. Insieme con il Pantaleoni aveva intanto in animo di
introdurre definitivamente il marginalismo in Italia. A loro si
unì con uguali propositi l'economista napoletano Ugo
Mazzola. Nel 1889 i tre si posero in contatto con Léon
Walras allo scopo di fondare una rivista internazionale per
sostenere la teoria dell'equilibrio generale e dell'utilità
marginale. Nel luglio 1890 l'iniziativa si trasformò poi
nell'acquisto, da parte dei tre amici, del Giornale degli
economisti, del quale il D., insieme con Ugo Mazzola e Maffeo
Pantaleoni, assunse la direzione, che tenne sino al 1912. Al
gruppo si unì ben presto Vilfredo Pareto, conosciuto dal D.
al congresso della pace, organizzato nel 1889 da Ernesto Teodoro
Moneta (cfr. la lettera del D. a U. Peruzzi del 29 luglio 1890, in
A. Cardini, Stato liberale, p. 94). Il D. assunse allora le
posizioni, poi sempre mantenute, di un liberismo di stampo
anglosassone, che lo condusse ad aderire, pur con molte critiche e
riserve, al radicalismo italiano. Stabilì la sua residenza
a Roma, a palazzo Orsini, in via Monte Savello, dove fu ospitata
anche la redazione del Giornale degli economisti.
Su questa rivista il D. iniziò l'attività di
commentatore dei fatti di attualità politica ed economica,
compito che affiancò da allora alla pubblicazione di
scritti più propriamente scientifici. I quali peraltro
cominciarono ad apparire di rado, molto meditati e
sorvegliatissimi. Nel 1890 pubblicò una memoria, in onore
di Luigi Cossa, sull'economista mercantilista Antonio Serra e sul
commercio internazionale. Riprese poi ad occuparsi di problemi
finanziari e tributari affrontando la perenne questione
dell'alternativa tra imposte e prestito pubblico, in alcuni
contributi del 1893, su La pressione tributaria dell'imposta e del
prestito. Riunì questi articoli in un volume, Saggi di
economia e finanza (Roma 1898), dedicato a Maffeo Pantaleoni. Dal
1890 intraprese sempre più la strada del commento ai fatti
economici e politici di attualità, con articoli, spesso
senza firma o sotto pseudonimi, pubblicati sul Giornale degli
economisti. Con gli scritti del 1890-94 prese attivamente parte
alla campagna in favore del libero scambio, riproponendo in
particolare la questione meridionale, da tempo trascurata.
Sollevò il problema della disparità di trattamento
doganale e tributario del Mezzogiorno nei rapporti con le
rimanenti regioni italiane, usando un nuovo approccio fondato
sulla scienza economica che anticipava il metodo innovatore
successivamente adottato da Francesco Saverio Nitti. Fu segretario
del congresso degli agricoltori, riunito a Napoli nel 1891, e come
tale fu relatore di un testo che avrebbe dovuto servire da
piattaforma per le richieste di modifica in senso libero-scambista
della tariffa doganale del 1887, in vista dei trattati di
commercio con la Svizzera e con gli Imperi Centrali.
Le limpide analisi meridionalistiche del D. si unirono ad un suo
crescente impegno più direttamente politico. Fondò e
diresse insieme col Pantaleoni l'Associazione economica liberale
che agì tra il 1892 ed il 1899. Dal maggio 1892
iniziò inoltre l'esame della situazione degli istituti di
emissione con articoli e proposte legislative. Il Pantaleoni era
venuto in possesso della relazione Alvisi-Biagini sulla Banca
romana e aveva messo al corrente di ciò i suoi amici del
Giornale degli economisti, per cui si era deciso di rendere
pubblica la relazione. Al D. venne affidato l'incarico di esporre
il punto di vista tecnico-bancario della rivista, con articoli
pubblicati nel 1892-93, durante e dopo lo scandalo della Banca
romana. Ammesso come socio corrispondente all'Accademia dei
Lincei, rielaborò successivamente queste pagine sparse in
una vera e propria teoria della banca, che espose nel 1898 in una
memoria per gli atti dell'Accademia. Sotto la pressione degli
scandali bancari si era intanto dimesso Giolitti, che
lasciò la presidenza del Consiglio a Crispi, aspramente
criticato dal D. per la repressione, nel 1894, dei Fasci siciliani
e per la politica finanziaria del ministro delle Finanze e ad
interim del Tesoro Sonnino.
Egli sostenne che, nel quadro di emarginazione economica e
politica del Mezzogiorno, le istituzioni liberali nate dal
Risorgimento non rappresentavano una garanzia, perché le
classi dirigenti locali fornivano alle maggioranze parlamentari
deputati obbedienti in cambio della negligenza del prefetto nei
confronti delle clientele che dominavano le province. Al contrario
la democrazia ed il progresso industriale (secondo H. Spencer, cui
il D. si ispirava) avrebbero dovuto procedere con lento ma sicuro
cammino nel paese, muovendo dal tronco liberale.
Al principio degli anni Novanta il D. iniziò ad attendere
al trattato di economia finanziaria che vide la luce nel 1892-93,
ma solo sotto forma di lezioni litografate per gli studenti;
queste stesure provvisorie si susseguirono poi, per alcuni
decenni, sino al 1923, senza che egli si decidesse a darle alle
stampe. Dimostrazione di un lavoro incessante di riflessione
scientifica, mai abbandonato ed al tempo stesso mai soddisfatto
dei risultati raggiunti. Nel 1895 sposò a Firenze
l'americana Harriette Lathrop Dunham, da cui ebbe, fra il 1896 ed
il 1900, tre figli, James, Etta e Lucia; con la moglie si
recò negli Stati Uniti.
Fu un'esperienza culturale che influì molto sul suo modo di
pensare e sulle sue vedute in merito alle vicende politiche e
sociali. La consorte fu assai vicina all'attività del D.;
femminista, si occupò di politica e di cultura, scrivendo
sul Giornale degli economisti.
Di ritorno dagli Stati Uniti, nel marzo 1897 il D. si
presentò come candidato ministeriale sotto il governo di
Antonio di Rudinì, al quale lo aveva avvicinato l'amico
Gaetano Mosca. Si presentò nel collegio di Gallipoli, ma
venne sconfitto dal crispino Nicola Vischi. Nel 1896-97
tentò anche di acquistare e dirigere la Nuova Antologia
(come risulta da una lettera al Mosca del 30 ag. 1897: cfr. A
Cardini, A. D., p. 76) per farne una tribuna del liberismo;
finì però col rinunciare all'impresa. Coprendo il
disavanzo del Giornale degli economisti, neassunse di fatto, nel
periodo 1897-1899, la direzione politica, scontrandosi con
Vilfredo Pareto, che non approvava le sue posizioni. Allontanatosi
il Pareto, il D. pensò di coinvolgere nella vita della
rivista uomini come Gaetano Mosca, Guglielmo Ferrero, Francesco
Papafava, ma solo nel caso di quest'ultimo la collaborazione
proseguì a lungo e fruttuosamente. Nel 1898
s'impegnò nell'iniziativa di fondare un grande periodico di
cultura liberale, chiedendo, su suggerimento di Antonio Labriola,
la partecipazione del giovane Benedetto Croce (cfr. A. Labriola,
Lettere a Benedetto Croce, 1885-1904, Napoli 1975, p. 285; A.
Cardini, A. D., p. 94). La cosa non ebbe peraltro attuazione
pratica. Nel periodo in cui diresse, solo, il Giornale degli
economisti il D. scrisse ogni mese la "Cronaca" e molti articoli
d'attualità economica e politica che costituiscono un
complesso rilevante di scritti liberali e democratici sulla crisi
di fine secolo. Fu soprattutto il saggio intorno ai disordini del
maggio 1898 a riscuotere vasti e prolungati consensi. Le sue
posizioni antiautoritarie e favorevoli all'ostruzionismo
dell'Estrema furono calorosamente approvate dall'Avanti! e dal
Partito socialista italiano.
Egli si trovò così al centro di una complessa rete
culturale e politica, che avrebbe potuto volgere in favore del
movimento liberale e democratico che sperava di costituire.
Preferì invece recarsi nuovamente negli Stati Uniti,
lasciando a Francesco Papafava la "Cronaca" politica del Giornale
degli economisti, chequesti terrà poi sino al 1909. Al
rientro in Italia nel 1901 prenderà posizione con alcuni
articoli sul Corriere di Napoli e sul Mattino, in occasione della
nuova scadenza dei trattati commerciali e ancora in difesa
dell'agricoltura e delle esportazioni meridionali.
Nel dicembre 1901, essendo rimasto vacante il collegio di
Gallipoli, si presentò nuovamente come candidato, sostenuto
sul Secolo da Guglielmo Ferrero, nonché da Ettore Sacchi e
dal Pantaleoni, allora deputato radicale.
Fu suo avversario il candidato socialista Stanislao Senape De
Pace, che, sconfitto, si presenterà contro di lui anche
nelle successive elezioni del 1904, 1909, 1913. In Parlamento
pronunziò nel 1902-1903 discorsi di taglio
meridionalistico. Accompagnò queste prese di posizione
parlamentari ad una serie di conferenze tenute nel 1903-1904 in
numerose città (Lecce, Napoli, Bologna, Firenze, Milano,
Torino), i cui testi vennero pubblicati nel 1905 a Palermo con il
titolo Per il Mezzogiorno e per la libertà commerciale,
unitamente ai polemici articoli scritti alla fine del 1903, e
diffusi in opuscoli a migliaia di copie, in occasione del
clamoroso scontro con Napoleone Colajanni sul problema del
protezionismo.
Nel dibattito sulla questione del Mezzogiorno, assai diffuso nel
1901-1904, il D. e F. S. Nitti, entrambi radicali, avanzarono
proposte alternative riguardo alla soluzione dei problemi
meridionali. Risultarono poi prevalenti le idee, favorevoli
all'intervento statale, del Nitti piuttosto che quelle liberiste
del D. (A. Cardini, A. D., p. 134).
Egli sostenne le sue convinzioni basate su liberalismo,
democrazia, pacifismo, contrapposti a protezionismo, nazionalismo,
imperialismo, nella conferenza di fondazione della Lega
antiprotezionista, tenuta nel marzo 1904, con la partecipazione di
sindacalisti rivoluzionari, di repubblicani, di radicali, di
socialisti, di liberali. In tale occasione conobbe Luigi Einaudi e
Gaetano Salvemini, dei quali fu in senso lato maestro. I suoi
programmi non vennero adottati dal partito radicale nel congresso
del 1904, né nei successivi, anche se nelle elezioni di
quello stesso anno egli venne ancora eletto come deputato
radicale. Fu membro, nell'età giolittiana, del Consiglio
direttivo della Direzione centrale di statistica del ministero
dell'Agricoltura, Industria e Commercio; curò gli atti
dell'Istituto internazionale d'agricoltura. Come deputato fu nella
commissione Bilancio della Camera e propose una riforma tributaria
e doganale globale, studiando il sistema inglese. Nel dicembre
1905 si oppose al modus vivendi con la Spagna, in difesa dei vini
meridionali. Sostenne la necessità dell'organizzazione del
partito liberale e radicale secondo l'esempio anglosassone,
attaccando Giolitti per le sue maggioranze, che impedivano tale
processo di aggregazione. Osteggiò nel 1907 la divisione in
blocchi clericali e anticlericali, che trascuravano a suo avviso i
veri problemi del paese. Indicò il momento degli avanzi di
bilancio e della conversione della rendita come il più
propizio alla riforma tributaria che da tempo era attesa. Nel
1908, in occasione della crisi internazionale per la Bosnia
Erzegovina, criticò la politica estera italiana
giudicandola troppo incline a favorire la Triplice Alleanza. Fu
eletto ancora deputato nel collegio di Gallipoli nelle elezioni
del 1909. Difese in Parlamento l'agricoltura pugliese,
caldeggiò una politica dei trasporti favorevole ai piccoli
porti. Si interessò dei consorzi antifillosserici del
Salento e della produzione vinicola della regione. Aveva intanto
costruito una grande fattoria con moderne case contadine e
piantagioni modello a Cellino San Marco (Brindisi).
Osteggiò nel 1909 alla Camera le convenzioni marittime,
proposte dal ministro Giovanni Bettolo. Approvò nel 1911 la
campagna dei socialisti contro il "rincaro dei viveri". Si oppose
al monopolio statale delle assicurazioni, ma fu favorevole al
suffragio universale maschile, si pronunziò a favore del
voto femminile e del divorzio.
Quale membro della giunta elettorale parlamentare difese con
fermezza la posizione del Salvemini, che chiedeva l'annullamento
della elezione del 1909 a Gioia del Colle per i metodi denunciati
con il pamphlet Il ministro della malavita. Si stabilì
allora uno stretto rapporto d'amicizia tra lui e il Salvemini,
durato sino all'esilio di quest'ultimo. Nel 1912 lasciò
definitivamente la proprietà e la direzione del Giornale
degli economisti, del quale si disinteressava ormai da tempo. A
differenza del Salvemini approvò la guerra di Libia.
Scrisse sull'impresa alcuni articoli per Il Popolo, un giornale di
Gallipoli. Tuttavia affiancò il Salvemini allorché
questi smascherò i falsi carteggi Rohlfs-Camperio-Crispi
intorno alla fertilità della Tripolitania. Divenne da
allora assiduo collaboratore dell'Unità. Sul settimanale
pubblicò tra l'altro, nel 1913, l'importante Programma
d'azione democratica, rivolto a liberali, socialisti,
repubblicani, radicali, per una piattaforma democratica e
liberista comune. Claudio Treves e Filippo Turati lo attaccarono
però aspramente su Critica sociale.
Le elezioni del novembre 1913 lo videro soccombere nel collegio di
Gallipoli, sconfitto dal candidato socialista Stanislao Senape De
Pace. Nel periodo in cui non fu deputato il D. fu consigliere
comunale a Roma, sempre per il partito radicale. Entrò a
far parte inoltre del direttivo dell'importante Associazione
radicale romana, della quale divenne presidente. La sua sconfitta
elettorale fu accompagnata da una violenta polemica sulla sua
presunta adesione al patto Gentiloni. Il D. fu attaccato anche
dalla stampa nazionalista e criticò a sua volta il
programma protezionista e nazionalista di Alfredo Rocco e Filippo
Carli (1914).
Fu l'animatore del congresso radicale del 30 gennaio-2 febbr.
1914, nel quale venne approvato un o.d.g., da lui proposto,
antigiolittiano e antiprotezionista. Fu inoltre la figura
preminente, con Einaudi e Salvemini, della nuova Lega
antiprotezionista e del movimento liberista che si
sviluppò, trovando spazio soprattutto negli ambienti
democratici, tra la fine del 1913 e i primi mesi del 1914.
Tracciò le linee programmatiche di questa compagine nel
saggio, Il problema doganale e l'attuale momento politico (Firenze
1914), pubblicato immediatamente prima dello scoppio della grande
guerra. Fu all'inizio favorevole alla posizione di
neutralità, ma dal settembre-ottobre 1914 era già
fautore del nostro intervento a fianco dell'Intesa contro quella
che riteneva l'aggressione del militarismo e dell'autoritarismo
tedeschi. Insieme con Salvemini e Leonida Bissolati sostenne
tenacemente l'interventismo democratico. Si presentò nel
marzo del 1915 come candidato del collegio di Gallipoli, rimasto
vacante per la morte di Senape, e venne eletto ancora una volta
deputato, con un programma di impronta interventista. Dopo aver
preso parte alle manifestazioni del "maggio radioso", diresse dal
giugno al dicembre 1915 La Voce, della quale era editore Giuseppe
Prezzolini, ma dopo un'aspra lite con quest'ultimo si
ritirò dal periodico. Si fece nel 1915 promotore di una
Lega italo-britannica per favorire l'accordo e la conoscenza
reciproca tra i popoli dell'Intesa. Riprese la campagna liberista
nel 1916 e, dall'agosto, affiancò Salvemini nell'impresa di
pubblicare di nuovo L'Unità, che uscì nel dicembre,
diretta da entrambi.
In questa serie del periodico, oltre alle polemiche consuete
contro il protezionismo e l'interventismo statale, pubblicò
numerosi scritti di politica estera, ispirati al programma
wilsoniano, che condivideva dal 1912; individuò inoltre il
carattere di svolta storica dell'intervento americano e della
rivoluzione russa. Si interessò particolarmente della
"questione adriatica"; nella sua casa romana si tennero gli
incontri promossi dall'Unità allo scopo di stabilire
un'intesa, scevra di nazionalismi, tra i due popoli, per la
definizione del confine italo-jugoslavo.
Si dissociò nel 1917 dal partito radicale, ritenendo troppo
nazionalista la linea di politica estera da questo adottata.
Aderì al Fascio parlamentare di difesa nazionale e
attaccò aspramente Nitti e Giolitti. I suoi scritti sulla
guerra furono riuniti nel febbraio 1918, per le edizioni
dell'Unità (Firenze), con il titolo La guerra europea.
Lasciò nel dicembre 1918 la direzione del periodico, che
tornò a Firenze guidato dal solo Salvemini. Nel 1919
uscirono a Roma riuniti in opuscolo, con la prefazione di
Salvemini, i suoi Problemi del dopo guerra. Fu presidente della
commissione parlamentare per la riforma elettorale che introdusse
il sistema proporzionale. Venne ancora eletto deputato nelle
elezioni del 1919, nel collegio di Terra d'Otranto, e aderì
al gruppo del Rinnovamento alla Camera, dal quale si
dissociò peraltro nell'agosto 1920, con l'accusa, lanciata
pubblicamente, che esso era divenuto protezionista e nazionalista.
Seguì i congressi democratici degli "unitari", divenne
favorevole ad una riforma agraria e alla statizzazione della
siderurgia, anche se ritenne ormai perdute le speranze,
accarezzate per trenta anni, di costituire un forte partito
liberale e democratico in Italia. Non si presentò alle
elezioni del 1921, turbato da quella che considerava una "guerra
civile" tra "bolscevichi" e fascisti, entrambi a suo avviso nemici
della democrazia e del liberalismo. Si ritirò in disparte
dopo l'avvento di Mussolini, considerando tramontato e deluso il
suo ideale di veder affermati in Italia un nuovo liberalismo e una
nuova democrazia.
Si dedicò alla stesura del trattato di Scienza delle
finanze, che finalmente nel 1923 venne stampato a Roma.
Una seconda edizione vide la luce nel 1928, e una edizione tedesca
fu pubblicata nel 1932. Per impulso di Luigi Einaudi, che gli fu
vicino in quegli anni, una nuova edizione italiana uscì a
Torino nel 1934; ristampata con alcune modifiche nel 1939, essa
risultò infine definitiva. La sua opera ebbe traduzioni,
oltre che in tedesco, in spagnolo e inglese e il D. ne ricevette
fama internazionale. Ripubblicò inoltre il trattato del
1898 su La funzionedella banca (Torino 1934), pure tradotto in
tedesco.
Nel 1929 Umberto Zanotti Bianco ed Emesto Rossi vollero riunire
una scelta dei suoi scritti politici sotto il titolo Un trentennio
di lotte politiche 1894-1922 (Roma s.d. [ma 1930]), una raccolta
destinata a rendere classico nella letteratura politica italiana
il suo pensiero, liberale e liberista.
Nel 1931il D. rifiutò il giuramento di fedeltà al
fascismo e si ritirò dall'insegnamento; per le stesse
ragioni lasciò nel 1934 l'Accademia dei Lincei. Nella
prefazione all'edizione tedesca del trattato di scienza delle
finanze (1932) testimoniò la sua solidarietà ad
Ernesto Rossi, carcerato quale esponente di Giustizia e
libertà.
Malato da anni, il D. morì a Roma il 1º dic. 1943.
Il D. occupa un posto di primo piano nell'affermazione
dell'indirizzo marginalistico negli studi economico-finanziari in
Italia a cavallo fra Otto e Novecento. In questo senso il suo nome
si accompagna a quello di Maffeo Pantaleoni, Vilfredo Pareto ed
Enrico Barone.
Scrive Luigi Einaudi: "Dei quattro, il De Viti De Marco è
forse il meno subitamente affascinante. Il viso fine, dai tratti
puri, il sorriso incoraggiante e nel tempo stesso leggermente
ironico, l'eloquio non fluido, che talvolta cerca le parole e le
trova alla fine terse e precise, il fare semplice da gran signore
rivelano a prima vista l'origine aristocratica ... Forse
all'indole schiva, non altera, ma non incoraggiante per la comune
dei giovani, si deve se De Viti De Marco non ha costituito quella
che si suole chiamare una "scuola" di cultori di scienza
finanziaria; ma noi tutti che abbiamo studiato i problemi di
finanza da trent'anni in qua riputiamo lui "il" maestro"
(Prefazione a A. De Viti De Marco, Principî dieconomia
finanziaria [1934], Torino 1961, p. 15).
Tratti caratteristici della produzione scientifica del D. sono
l'esiguità in termini quantitativi (almeno secondo gli
standard del suo tempo) e l'asperità dello stile. Definito
"sterile" da F. S. Nitti in una lettera del 1895 a Luigi
Albertini, il D. pagò lo scotto di questa ritrosia a
mettere per iscritto il suo pensiero con la nomina tardiva a
ordinario, avvenuta soltanto nel 1898, dieci anni dopo la vittoria
nel concorso a cattedra. Ma è soprattutto il secondo
aspetto a colpire. Quasi ostentando indifferenza per le esigenze
del lettore, il D. segue il proprio ragionamento riducendone
all'osso l'argomentazione e al minimo i riferimenti bibliografici
(talché risulta difficile risalire alle sue "fonti" di
ispirazione). Questa estrema asciuttezza ha sconcertato molti
critici, per cui si trova scritto che in lui "assai spesso mancano
i passaggi logici fra un pensiero e l'altro" (E. Rossi, Le prime
basi teoriche della finanza dello Stato democratico, in La Riforma
sociale, XXXIII, vol. XXXVII [1926], p. 155) e addirittura che i
suoi Principî sono "un monumento alla confusione" (recens.
di H. Simons in Journ. of pol. economy, XLV [1937], p. 713), ma
anche, al contrario, che "il nesso logico [nel D.] è
rigorosissimo e dà un vero godimento spirituale specie a
menti educate alla logica matematica" (A. Cabiati, La "Finanza" di
A. D., in Giorn. degli economisti e rivista di statistica, LXVII
[1928], p. 882), e che i Principî sono "probabilmente il
miglior trattato teorico di finanza pubblica che sia mai stato
scritto" (rec. di F. Benham in Economica, [1934], p. 364).
Anche se la scienza delle finanze fu il suo principale campo di
interessi scientifici, il D. si cimentò soprattutto negli
anni giovanili in ricerche di teoria monetaria e creditizia,
denotando profonde conoscenze storico-analitiche, oltre che
tecniche. In Moneta e prezzi, ossia il principio quantitativo in
rapporto allaquestione monetaria precisa i fondamenti e i limiti
di validità della teoria quantitativa della moneta - la ben
nota relazione causale fra quantità di moneta in
circolazione e livello generale dei prezzi - mostrandone il
collegamento con la teoria classica della distribuzione dei
metalli preziosi.
Quando però si passi da un'economia basata sulla sola
moneta metallica a un'economia metallico-fiduciaria e creditizia,
la proporzionalità fra aumento della massa metallica e
l'aumento dei prezzi non è più valida. Il credito fa
assumere alla moneta metallica il ruolo di "compensazione" fra
crediti e debiti, riducendone il fabbisogno. Ne consegue che un
aumento della riserva metallica detenuta dalle banche, producendo
un allargamento del credito, si ripercuoterà sui prezzi in
maniera amplificata (cfr. Moneta e prezzi, p. 47). Il credito
è parimenti fattore di instabilità e di crisi. Gli
errori di previsione circa l'aumento della domanda e il rialzo dei
prezzi condurrà al peggioramento delle posizioni debitorie
degli imprenditori-mutuatari rispetto ai capitalisti-mutuanti,
finché attraverso il rialzo del saggio di interesse e
l'abbassamento del saggio del profitto non si raggiungera un nuovo
equilibrio.
Temi non distanti il D. affronta nel saggio Le teorie economiche
di Antonio Serra (in Memorie del R. Ist. lombardo di scienze e
lettere, classe di lettere, scienze storiche e mor., XVII [1890],
rist. in A. De Viti De Marco, Saggi di economia e finanza,
Città di Castello 1898, pp. 3-58), che costituisce
altresì un apprezzabile modello di storia analitica del
pensiero economico.
Il Serra - nell'affrontare la questione della scarsità di
moneta nel Regno di Napoli all'inizio del XVII secolo - mostra di
avere una esatta teoria dei pagamenti internazionali e spiega con
essa il cambio sfavorevole e il deflusso d'oro dal Regno; ma non
possiede la teoria quantitativa della moneta - che pure della
prima è indispensabile complemento - e quindi incorre
nell'ingenuo errore mercantilistico di voler impedire con misure
coattive l'esportazione dei metalli preziosi.
Infine, in La funzione della banca (in Rendiconti della R. Accad.
dei Lincei, classe di sc. mor., storiche e filologiche, s. 5, VII
[1898], rist. ampl. col sottotitolo Introduzione allo studio dei
problemi monetari e bancari contemporanei, con pref. di L.
Einaudi, Torino 1934) il D. riprende e amplia gli spunti
precedenti per costruire una teoria della banca come organismo
preposto alla "compensazione" fra due specie di credito: quello
cambiario, che il cliente cede alla banca, e quello bancario, che
la banca cede al commerciante.
"La moneta non interviene in questa operazione elementare ... Essa
confina il suo ufficio al saldo delle differenze" (La funzione...,
ed. 1934, p. 45). La riserva metallica ha dunque l'ufficio di
coprire le differenze fra crediti attivi e passivi; se questi
crescono o diminuiscono nello stesso valore assoluto, l'ammontare
della riserva resterà invariato, evidenziando il carattere
di "baratto" fra crediti compiuto dalla banca (ibid., p. 71).
Così circoscritta la funzione ortodossa della banca, il D.
la distingue da quella degli istituti di credito speciale
(mobiliare, fondiario, ecc.), i quali invece provvedono al
fabbisogno di "investimenti", da tenere ben distinti dai
"pagamenti" (ibid., p. 60). Corollario di questa concezione
è l'affermazione - contenuta nell'edizione del 1934
-secondo cui la banca di per sé non "crea credito", come
invece sostenevano i "modernisti" (cioè gli economisti
intorno a J. M. Keynes). Questa posizione sembrò
anacronistica ad alcuni recensori del tempo (G. Capodaglio in
Giorn. degli econ. e rivista di stat., L [1935], pp. 252-55;F. di
Fenizio, ibid., pp. 256 s.); ma è da rilevare che l'intento
del D. era di riportare la banca alle sue funzioni istituzionali,
dopo le distorsioni operate dall'avvento della banca mista di cui
era stato critico attento e severo (cfr. A. De Viti De Marco,
Proroga o corsoforzoso?, in Giorn. degli economisti, VI, s. 2,
vol. I [1891], pp. 1-16).
Positivista come la maggior parte degli scienziati sociali del suo
tempo, il D. evitò gli eccessi dello scientismo e
dell'apriorismo metafisico allora in voga, rifacendosi
all'insegnamento di Angelo Messedaglia, di cui tracciò un
esemplare ritratto intellettuale (Commemorazione di A.
Messedaglia, in Giorn. degli econ, XVI, s. 2, vol. XXI [1901], pp.
432-56). Prevalentemente metodologico è anche il primo suo
studio di scienza delle finanze, Il carattere teorico
dell'economia finanziaria, che si apre con una critica della
distinzione, anch'essa allora comune, fra "scienza" e "arte"
economica. Anche le normae agendi, infatti, quando si traducono in
comportamenti dell'operatore pubblico diventano fattori causali
passibili di analisi scientifica. Assertore della simmetria fra
l'economia privata e quella pubblica, il D. afferma che l'una e
l'altra studiano "l'attività che esplica un soggetto avente
bisogni per l'acquisizione di utilità esterne atte a
soddisfarli" (Il carattere teorico..., p. 44). Ne consegue che
oggetto della scienza delle finanze non è che cosa lo Stato
debba fare, ma come esso soddisfi una particolare categoria di
bisogni, quelli "collettivi", i quali si differenziano dai bisogni
"individuali" dell'economia privata per il differente modo in cui
sono sentiti dalla collettività. Caratteristica dei bisogni
collettivi è l'eterogeneità, che vanifica i
tentativi di sommatoria aritmetica e consente solo quella
algebrica. Lo Stato ha il compito di mediare fra i vari bisogni
contrastanti. Qui entra in gioco la costituzione politica, alla
quale il D. - che è coetaneo di Gaetano Mosca - annette
grande importanza. La storia insegna che vi sono due modi opposti
in cui lo Stato può determinare i bisogni da soddisfare e
ripartire il costo dei servizi pubblici sulla collettività.
Il primo modo è quello dello Stato assoluto o "mopolistico"
di ancien régime, quando la classe dirigente è
fiscalmente immune, ma è esclusiva beneficiaria della spesa
pubblica finanziata dalle imposte; il secondo modo è quello
dello Stato "cooperativo" di democrazia liberale rappresentativa,
quando si realizza la piena identità di governanti e
governati, e quindi la piena corrispondenza fra la
disutilità del prelievo e l'utilità del beneficio
del servizio pubblico. Questi concetti, che intendevano gettare un
ponte fra la dottrina politica liberale e la concezione
marginalistica del calcolo finanziario, furono ripresi e ampliati
da Luigi Einaudi con la sua parabola della "finanza periclea", in
trasparente polemica con l'indirizzo corporativo fascista (cfr. L.
Einaudi, Ipotesi astratte ed ipotesi storiche e dei giudizi di
valore nelle scienze economiche, in Atti della R. Acc. delle sc.
di Torino, LXXVIII [1942-43], rist. in L. Einaudi, Scritti
economici, storici e civili, a cura di R. Romano, Milano 1973, pp.
371-398).
Nelle opere successive il D. da una parte approfondì
l'analisi dei bisogni collettivi e della loro soddisfazione,
dall'altra quella della ripartizione del carico dei servizi
pubblici tenendo presente soprattutto lo schema dello Stato
"cooperativo" (mentre lo schema dello Stato "assoluto" gli
servì soprattutto per mostrare l'evoluzione storica degli
istituti finanziari). In Entrate patrimoniali e demanio (in Giorn.
degli econ., IX [1894], rist. in Saggi di economia e finanza, pp.
127-184) precisa il collegamento fra l'economia finanziaria e
quella privata.
I beni demaniali (strade, fortezze, ecc.) consistono in beni
"diretti", atti a soddisfare bisogni pubblici (viabilità,
difesa, ecc.), ma entrano a loro volta nell'economia privata come
beni strumentali della produzione. Invece i beni patrimoniali
dello Stato (il legno delle foreste, ecc.) consistono in beni "di
secondo grado", in quanto debbono essere trasformati in beni
pubblici attraverso la loro vendita e l'impiego del ricavato in
opere pubbliche (per es. la costruzione di una strada). Ma per i
privati che li acquistano i beni patrimoniali sono beni diretti,
destinati a soddisfare bisogni individuali. Questi concetti sono
la premessa per la sua teoria dello Stato "fattore di produzione".
Tuttavia il D. ritenne la distinzione fra bisogno individuale e
bisogno collettivo non determinabile a priori, ma sulla base
dell'osservazione e dell'esperienza storica. Per esempio,
avversò il progetto di esercizio di Stato del servizio
telefonico in quanto a suo parere il bisogno connesso non aveva
ancora il carattere di generalità (L'industria dei telefoni
e l'esercizio di Stato, in Giorn. degli econ., V [1890], pp.
279-306).
Nelle varie edizioni delle dispense universitarie (cfr. Appunti di
scienza delle finanze dalle lezioni del prof. De Viti De Marco
raccolti stenograficamente dallo studente Astralli, Roma s.d.) e
finalmente nei già citati Principî di economia
finanziaria il D. svolse magistralmente la propria teoria del
passaggio dalla tassa all'imposta, assumendo un continuo controllo
dei consociati sull'economicità dei servizi pubblici.
Mentre il controllo sulla tassa è "postumo", in quanto
avviene tramite il consumo del servizio, quello sull'imposta
è preventivo, in quanto avviene tramite la preliminare
anticipazione allo Stato dei mezzi finanziari necessari alla
produzione del servizio.
In particolare, il ponte di passaggio dalla tassa all'imposta
è individuato nel prezzo d'abbonamento, per cui l'impresa
erogatrice preleva dall'utente una somma fissa in cambio dell'uso
illimitato del servizio. "Il prezzo d'abbonamento - scrive
icasticamente il D. - è la culla dell'imposta"
(Principî..., p. 103).
Inoltre, mentre per la tassa la domanda è individuata, per
l'imposta si presume che la domanda sia fatta da tutta la
collettività; l'indice presuntivo di tale domanda è
il reddito. "Il consumo dei servizi pubblici generali è
proporzionale al reddito di ogni cittadino" (ibid., p. 117).
Questo criterio non comporta, secondo il D., l'adozione di un
sistema fiscale proporzionale piuttosto che progressivo, in quanto
si dovrà tener conto di numerosi fattori extraeconomici (la
"lotta di interessi" fra le classi di contribuenti) ed economici
(diversi effetti sull'accumulazione del capitale, ecc.). Nel
capitolo XII dei Principî, intitolato Teoria politica
dell'imposta proporzionale e progressiva, il D. osserva che
l'ascesa del proletariato non ha condotto all'affermazione
dell'imposta progressiva, in quanto i partiti socialisti hanno
mostrato di preferire la politica dei benefici speciali: chiaro
riferimento all'Italia giolittiana, giudicata secondo l'ottica
radical-liberista. Le preferenze del D. vanno peraltro a un
sistema di imposte proporzionali sulle fortune medie e alte, con
sgravi sulle fortune inferiori. Il D. giustifica il potere
impositivo statale con la teoria dello Stato "fattore di
produzione", che partecipa al processo di formazione del reddito
netto, definito come "la massa dei beni di primo grado
[cioè finali] annualmente prodotti e consumati" (ibid., p.
218).
Un esempio numerico nel capitolo XV dei Principî descrive il
processo di produzione e distribuzione di 120 quintali di pane fra
cinque produttori, uno dei quali è lo Stato. Il D. mostra
che è indifferente che quest'ultimo prelevi la propria
quota di 24 quintali al termine del processo, quando il pane si
trova presso il fornaio, oppure prelevi il 20 per cento del prezzo
degli aratri venduti dal fabbricante al granicoltore, poi il 20
per cento del grano venduto dal granicoltore al mugnaio, e
così via. Nell'uno e nell'altro caso si saranno evitate le
duplicazioni, e il reddito lordo si sarà tradotto in netto.
Corollario della teoria dello Stato fattore di produzione è
che "ogni particella di reddito nasce gravata dal relativo debito
tributario" (ibid., p. 222). Il principio del reddito come
prodotto gli fa respingere la teoria dell'esenzione tributaria del
risparmio - sostenuta in Italia principalmente dall'Einaudi, sulla
scorta di J. S. Mill - in quanto la depurazione è
già avvenuta eliminando dal computo i beni intermedi e
identificando il reddito con i beni finali. Il risparmio non
può essere ulteriormente dedotto, perché è
reddito anch'esso, e deve essere tassato, perché altrimenti
"chi risparmia agli interessi composti" (cioè risparmia
l'intero reddito derivante dall'impiego del risparmio) "cessa di
essere contribuente" (ibid., p. 230). Grande rilievo ha nei
Principî la teoria della traslazione delle imposte. Essa
parte dalla critica alla teoria tradizionale - risalente agli
economisti classici - che considera l'imposta come un aggravio dei
costi di produzione, non tenendo conto dell'utilità
proveniente dai servizi pubblici finanziati dall'imposta; e che si
pone dall'esclusivo punto di vista del produttore, trascurando le
variazioni di domanda del consumatore. Ma il D. osserva che se si
introduce l'ipotesi di variazioni della domanda, e se si tiene
conto dell'intervallo necessario ad adeguare l'offerta alla nuova
domanda, si avrà traslazione dell'imposta anche nel caso
del monopolio, in quanto il punto di Cournot, che determina
l'equilibrio del monopolista, si sposta. Questa trattazione - che
occupa il capitolo IX dei Principî - è svolta secondo
l'ottica dell'equilibrio economico generale: "il vecchio
equilibrio è rotto dalla nuova direzione della domanda dei
privati e dello Stato; da cui nasceranno mutazioni in più o
in meno nel sistema dei prezzi precedenti e quindi necessari
fenomeni di traslazione; a cui seguirà la reazione dei
produttori per raggiungere il nuovo equilibrio" (ibid., pp. 161
s.).
Infine, il D. confermò e approfondì la teoria
ricardiana dell'identità di pressione fra prestito perpetuo
e imposta straordinaria una tantum (La pressione tributaria
dell'imposta e del prestito, in Giorn. degli econ., VIII [1893],
pp. 38-67; rist. ampl. col titolo Contributo alla teoria del
prestito pubblico, in Saggi di economia e finanza, pp. 61-123;cfr.
anche il cap. XXIX dei Principî).
Fedele alla sua concezione simmetrica di economia privata ed
economia pubblica, il D. parte da un individuo il quale, dovendo
fronteggiare una spesa straordinaria, è chiamato a
scegliere fra alienare una parte del suo patrimonio e indebitarsi.
Anche nella collettività nazionale l'esigenza di finanziare
una spesa straordinaria con un'imposta una tantum
costringerà alcuni contribuenti a vendere il proprio
patrimonio, altri (che non intendono vendere) a contrarre mutui
con capitalisti. Ma se lo Stato invece opterà per il
prestito pubblico, non farà altro che sostituire un
rapporto pubblicistico unico alla rete di rapporti privatistici
fra debitori e creditori. Da una parte, infatti, si
indebiterà verso i capitalisti sottoscrittori del prestito;
dall'altra sarà creditore - tramite un'imposta ordinaria
per il servizio degli interessi del prestito - degli stessi
contribuenti che avrebbero contratto debiti con i capitalisti
nell'ipotesi precedente. Nulla cambia sostanzialmente, se non che
la garanzia statale del prestito tiene bassi i saggi di interesse.
Anche la questione del trasferimento dell'onere del prestito sulle
generazioni future (che secondo una opposta teoria sarebbero
aggravate in perpetuo del carico del debito) viene risolta dal D.
osservando che "in ogni caso gli eredi o ricevono un patrimonio
decurtato della somma capitale, ovvero sono tenuti al pagamento
continuativo dei relativi interessi; il che ... è una
parità finanziaria" (Principî, p. 408). Questa teoria
è valida peraltro solo se si assume stabilità
assoluta nelle condizioni economiche e sociali.