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Storico e uomo politico italiano (Torino 1789-1853). Figlio di Prospero, fu chiamato fin dal 1807 a svolgere incarichi pubblici, dapprima al Consiglio di Stato a Parigi, poi al governatorato di Toscana; nel 1809 fu segretario della Consulta per l'organizzazione dell'amministrazione imperiale in Roma; fu poi liquidatore dei conti a Lubiana e quindi ancora a Parigi presso il Ministero di Polizia (1812). Fu tuttavia sempre ostile a Napoleone e alla Francia; da questa ostilità nacque il primo progetto storiografico di Balbo, che nel 1817, mentre era addetto all'ambasciata sabauda di Madrid, scrisse gli Studi sulla guerra d'indipendenza di Spagna e di Portogallo, pubblicati solo nel 1847.
Entrato nell'esercito piemontese, fu coinvolto nei moti insurrezionali del 1820-21 ancorché non vi avesse aderito e fu costretto a dimettersi dall'esercito; esiliato, poteva nel 1824 tornare in patria restando però per due anni al confino nelle sue proprietà di Camerano.
Nel 1830 pubblicava la sua Storia d'Italia, dalla caduta dell'Impero romano al 774, cui seguirono, tra molti altri lavori di storia e di politica, le Speranze d'Italia (1844) dove, in previsione di un'espansione austriaca verso i Balcani, Balbo auspicava la riunione degli Stati italiani in una confederazione guidata dal Piemonte.
Nel 1846 pubblicò il Sommario della storia d'Italia, il cui filo conduttore è il motivo, insistentemente ribadito, dell'indipendenza dallo straniero.
Tra le altre opere di Balbo sono da ricordare la Vita di Dante (1839) e le Meditazioni storiche (1842-45), ispirate al tentativo, tipicamente neoguelfo, di conciliare la religione cattolica con il progresso moderno.
Nel marzo 1848 Carlo Alberto lo nominò presidente del primo ministero costituzionale; ma il gabinetto si dimise dopo quattro mesi per l'inettitudine di Balbo all'azione politica.
Txt.: Storia d'Italia
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    DBI
    
    di Ettore Passerin d'Entrèves
    
    Nacque in Torino da Prospero e da Enrichetta
    Taparelli d'Azeglio il 21 nov. 1789. Orfano della madre già
    nel 1792, fu affidato, col fratello cadetto Ferdinando e colla
    sorella Paolina, alle cure della nonna materna del padre, Teresa
    Beraudo di Pralormo, moglie in seconde nozze del conte G. B. Bogino,
    il ministro riformatore, "nobile e fiera vecchia", che aveva
    già contribuito all'educazione dello stesso Prospero, tenuto
    sempre dal B. come esempio di virtù civiche e di pratica
    saggezza. Esemplare giudicò più tardi la "difesa
    diplomatica" dello Stato sabaudo occupato dai Francesi, dopo la "vil
    tregua" di Cherasco e la pace di Parigi del '96, che il ministro
    Damiano di Priocca e Prospero B., ambasciatore a Parigi, dovevan
    sostenere fino alla caduta del debole Carlo Emanuele IV. Condotto a
    Parigi nel '98, il B. seguì il padre anche nelle
    peregrinazioni dell'esilio: a Barcellona e a Bologna, prima di
    Marengo, poi più a lungo a Firenze tra il 1800 ed il 1802. Di
    Firenze doveva ricordare molte bellezze, ed alcuni memorabili
    incontri: "V. Alfieri, che veniva per casa a noi, e da cui si
    andava", in primo luogo (Autobiografia,p.355). Tornato a Torino nel
    1802, il B. continuò ad avere per maestro il padre, che
    insegnava anche ad altri giovani delle famiglie amiche, coadiuvato
    dal conte M. S. Provana per le materie scientifiche. In questo
    gruppo di giovani sorse una "ragazzata d'accademia" detta "dei
    Concordi": essa rispecchiava anche certe iniziali aspirazioni
    patriottiche, collegate ad una resistenza culturale contro
    l'assimilazione del Piemonte alla Francia imperiale.
    
    Più marcato il motivo guelfo-italico nel più anziano
    fra i "Concordi", Carlo Vidua, che indusse per primo il B. ad
    ammirare la resistenza nazionale degli Spagnoli, fatta in nome della
    religione e delle tradizioni patrie; pre-liberali piuttosto che
    guelfi appaiono, invece, gli ideatori dell'accademia, Luigi Ornato e
    Luigi Provana del Sabbione. Presto il culto del forte sentire
    alfieriano doveva farsi comune a tutto il gruppo d'amici, cui si
    sarebbe aggiunto anche Santorre di Santarosa: in tutti troviamo
    precoci motivi e orientamenti romantici, e qualche anticipazione
    delle tesi neoguelfe che avranno corso nell'età della
    restaurazione.
    
    Nel 1805 il B. doveva interrompere i prediletti studi di matematica
    per la sua cattiva salute, ma nel 1806-1807 poteva frequentare un
    corso di fisica dell'illustre Vassalli-Eandi. Sempre nel 1807 il
    padre cercava di sottrarlo a una nomina non desiderata presso il
    Consiglio di Stato napoleonico, ma nel 1808 non poteva impedire che
    partisse, al seguito del generale Menou, divenuto governatore
    generale della Toscana unita ormai all'impero, col titolo di
    segretario generale. Così restavano anche interrotti gli
    studi di legge, iniziati nell'autunno precedente, e cominciava per
    il B. un quinquennio di servizio nell'amministrazione imperiale.
    
    A Firenze aveva modo di frequentare il Fossombroni, don Neri
    Corsini, il Puccini, e stringeva amicizia con Gino Capponi,
    più vicino a lui negli anni e nelle aspirazioni. Nel maggio
    del 1809 veniva a un tratto nominato segretario della Consulta che
    doveva, sotto la direzione del generale Miollis, organizzare
    l'amministrazione imperiale in quella Roma che stava appunto per
    essere strappata al pontefice: il 17 maggio Napoleone firmava a
    Schönbrunn il decreto che riuniva gli Stati pontifici
    all'impero, e al B. toccava di controfirmare, come segretario, il
    decreto della Consulta che applicava e convalidava la volontà
    imperiale. Ne doveva provare vergogna, come conferma la posteriore
    Autobiografia: certo fu scosso dallo "spettacolo rimproveratore" del
    coraggio che dimostrava una parte notevole del clero nel resistere a
    Napoleone, e in specie nel far noti, malgrado ogni divieto, i
    decreti papali di scomunica. Ma soltanto nel 1811 egli riusciva a
    staccarsi da quell'incarico, e assumeva, dopo breve sosta a Torino,
    quel posto di auditore al Consiglio di Stato, a Parigi, che gli era
    stato destinato nel 1807. "A me fu dato un solo affare a riferire;
    un fascio, anzi un monte di carte... contenente una parte della
    liquidazione di Roma". Forse per non essersi adattato a
    sabrer,secondo il termine allora corrente, quel lavoro, il B. fu
    mandato come "liquidatore" nel nuovo dipartimento illirico, dove
    doveva aver per superiore il Las Casas, poi compagno di Napoleone a
    Sant'Elena. Più importante il soggiorno, reduce da Lubiana, a
    Parigi, nel primi mesi del 1812, per i rapporti che da allora si
    fanno più stretti, con la famiglia di Cl.-Emm. Pastoret, che
    il padre del B. aveva aiutato a fuggire, quand'era stato condannato
    alla deportazione dal Direttorio, dopo il colpo di stato del 3
    fruttidoro. La moglie del Pastoret, Adelaide-Luisa Piscatory,
    illustre come fondatrice dei primi asili d'infanzia a Parigi e come
    organizzatrice d'opere d'assistenza pubblica, avrebbe dissuaso il B.
    dall'attentare addirittura alla vita del despota, nel momento in cui
    gli veniva imposto un incarico sgradito ed umiliante, alle
    dipendenze del ministro di polizia Savary. Tramite i Pastoret,
    scrive il B. nell'Autobiografia, "conobbi... gli uomini non sempre i
    più grandi per potenza, ma i più distinti per
    qualità, che fossero in tutta Francia... in quella benedetta
    casa... le dovetti più che l'ospitalità... quella
    fiducia in sé che è necessaria per operare" (pp. 345
    s.).
    
    Alle prime reazioni, piuttosto affettive che ragionate, contro il
    despotismo napoleonico, s'aggiungeva intanto un nuovo motivo
    d'amarezza e di risentimento: il fratello minore del B. periva nella
    campagna di Russia, ed egli non lo ritrovava fra i suoi, quando
    riusciva a tornare a Torino con attestati di debole salute,
    soggiornandovi per circa un anno fra il '12 ed il '13. Ma nel '13,
    riassunto il suo incarico presso il Consiglio di Stato, e staccato
    finalmente dalla sezione che dipendeva dal Savary, si faceva inviare
    verso il fronte di guerra in Germania, e giungeva sul "fatal campo
    di Lipsia" il giorno stesso della grande disfatta francese, di cui
    dava poi una colorita descrizione nella citata Autobiografia (pp.
    349-53). Va notato, in questa descrizione, il cenno su di un suo
    incontro con parecchi ufficiali della "guardia reale d'Italia", che
    manifestavano la loro ostilità contro l'imperatore ed i
    Francesi, coi quali pur avevano fin allora combattuto, e "parlavan
    d'Italia altamente, generosamente".
    
    Alla caduta dell'edificio politico napoleonico, tornato al servizio
    dei suoi sovrani, quale tenente del corpo di Stato Maggiore, il B.,
    che aveva già conosciuto un alto ufficiale napoleonico
    d'origine piemontese, animato da patriottici sentimenti, A. Derege
    di Gifflenga, e cominciato a frequentarlo, avrebbe cercato di nuovo
    l'occasione di avvicinarlo. Ed infatti durante i Cento Giorni questi
    lo avrebbe chiamato a far parte dell'avanguardia dell'esercito
    sabaudo, che stava muovendosi contro le truppe di Murat, ma che poi,
    volgendosi in direzione opposta contro le forze francesi sul confine
    di Savoia, giungeva ad occupare Grenoble. Il B., che aveva steso
    appunto un memoriale per proporre che "s'entrasse in Delfinato con
    quello che si potesse raccozzare bene o male di truppe nostre,
    contro all'invasore che minacciava noi e l'Italia non men che la
    Francia" (p. 363), dava le dimissioni dall'esercito non appena
    appreso che era stata stipulata una pace duratura.
    
    Prospero B., guardato inizialmente con sospetto a corte, otteneva
    nel 1816 l'incarico di ambasciatore a Madrid e riusciva a farvi
    nominare come gentiluomo d'ambasciata il figlio, che vi sarebbe
    rimasto fino ai primi del '19.
    
    Al B. balenò subito l'idea di farsi storico della "guerra
    d'indipendenza fatta dal 1808 al 1814 dagli Spagnuoli contro
    Napoleone... per l'esempio che parevagli utile a mostrare, per
    quando che sia, alla patria" (nel 1847, in effetti, pubblicava gli
    Studii sulla guerra d'indipendenza di Spagna e di Portogallo,stesi a
    Madrid nel '17: le preoccupazioni pedagogico-politiche dominano, in
    modo assai caratteristico, sulle esigenze propriamente
    storiografiche). Nell'Autobiografia egli rivela pure come
    l'esperienza fatta in circa tre anni di soggiorno in Spagna
    rassodasse le sue tendenze liberali e costituzionali, mostrandogli
    gli errori dell'"assoluta legittimità" e i vizi d'una
    monarchia arbitraria e dominata dalla camarilla (pp. 366 s.).
    D'altra parte, i patrioti spagnoli del 1809 e del 1812 avevano
    "mescolato di troppo le dispute di libertà interna" alle
    più urgenti battaglie per l'indipendenza: questo pensava il
    B. nel 1844, mentre stendeva le Speranze d'Italia. A Madrid si
    legava inoltre con gli inviati francese, duca di Laval, ed inglese,
    sir Henry Wellesley; nel periodo in cui doveva rimanere da solo,
    come incaricato d'affari, in attesa del nuovo ambasciatore che
    succedeva al padre, chiamato a coprire la carica di presidente del
    Magistrato della Riforma a Torino, cioè negli ultimi mesi del
    1818 e nei primi mesi del '19, si legava maggiormente ad uno
    studioso americano, Giorgio Ticknor. Nel suo diario questi doveva
    poi scrivere che i due Balbo, padre e figlio, gli erano apparsi come
    le figure più interessanti fra tutti i diplomatici incontrati
    a Madrid. Scriveva inoltre che il B. gli appariva "coltissimo, di
    buon gusto, pieno di sentimento per tutto ciò che è
    grande e bello, e letteralmente divorato dall'entusiasmo... Non
    pensa ad altro che all'Italia... e sogna il grande progetto di
    riunire l'Italia in una nazione difesa dalla barriera delle Alpi
    dalle invasioni del Nord" (Life, Letters and Journal of G. T., I,
    Boston 1909, p. 209).
    
    Chiusa la parentesi spagnola, il B. si sentì ripreso dalla
    "smania militare" ed accettò il grado di maggiore in un
    reggimento, per scendere alla pratica, dopo i "lunghi studi fatti da
    cinque anni (per consiglio principalmente del Gifflenga) nella
    teorica" (Autobiografia, p. 371). Gli impegni militari lo portarono
    a Genova, dove poté valutare le difficoltà che
    nascevano dall'imperfetta connessione fra le province liguri, di
    recente acquisto, ed il resto dello Stato sabaudo. Parlava anche di
    questo nella fitta corrispondenza con gli amici più cari di
    Torino, L. Ornato, Santorre Santarosa, L. Provana del Sabbione: le
    aspirazioni vaghe dei "Concordi" si stavano ora precisando, al di
    là delle premesse alfieriane e dell'opposizione a Napoleone.
    
    In queste lettere, in gran parte tuttora inedite, scambiate fra i
    quattro amici, s'intravvede però già qualche
    differenza di opinione politica, e il dissenso si acuisce, fra il B.
    e il Santarosa, nel '20, quando si pone il dilemma fra il metodo
    della legalità, dell'evoluzione riformistica, e quello del
    moto popolare e militare, al quale il Santarosa inclina, per gli
    stimoli dei settari con i quali è in contatto, e per la
    suggestione esercitata dagli esempi di Spagna e di Napoli (si veda
    la Professione di fede politica mandatagli dal B., da Genova, edita
    in Ricotti, App. 6, pp. 393-95). Il B. definisce "infame" il moto
    militare, ed osserva che lo Stato sabaudo si smembrerebbe, in caso
    di rivoluzione: si vede così quanto egli fosse fiducioso
    nella missione dello Stato dinastico, che voleva porre al servizio
    della nazionalità italiana, ma senza metterlo in crisi.
    
    In quei mesi Prospero B., passando alla segreteria degli Interni
    (dal settembre 1819), cercava appunto di dar vita al difficile
    ideale di un riformismo paternalistico, ma liberaleggiante: il
    figlio avrebbe più tardi rimpianto che i suoi sforzi si
    fossero infranti fra le tenaci resistenze e i sospetti dei ministri
    reazionari, e le impazienze dei giovani che erano giunti a
    sollecitare le confuse ambizioni dello stesso principe di Carignano,
    Carlo Alberto, per una "guerra nazionale" contro l'Austria. Il B.
    doveva agire come moderatore, fra le opposte intransigenze, sia
    nelle giornate dei moti studenteschi torinesi del gennaio, sia in
    quelle ben più drammatiche del marzo del '21. Ma egli doveva
    riuscire soltanto a scontentare gli uni e gli altri: utopistica
    appare la sua idea di chiedere in ginocchio al reggente di concedere
    una costituzione modellata sui migliori esempi d'Inghilterra o di
    Sicilia, prima che l'agitazione degenerasse in rivoluzione. Del
    resto, lo stesso Prospero B. fu per un decennio in disgrazia, mentre
    il figlio, benché risultasse immune da ogni imputazione di
    fronte ai superiori, nell'esercito doveva subire misure più
    severe, l'esilio e il confino.
    
    Aveva il B. dato qualche motivo ai provvedimenti, sia dichiarando
    che "voleva rimaner amico prìvato", benché "avversario
    politico e militare dei capi della rivoluzione", sia col dimettersi
    dal grado e dall'ufficio nel momento in cui il Sallier de la Tour
    gli mostrava una lettera di Carlo Felice "che gli diceva
    d'allontanarlo dal quartier generale" (Autobiografia,p. 378).
    Ottenuto un passaporto, si recava a Parigi, ed ivi visitava
    più volte l'esule Santarosa. Più a lungo risiedeva a
    Susa in Provenza, presso la famiglia della seconda moglie del padre,
    Maddalena des Isnards. Mentre già credeva di poter
    rimpatriare, nel 1822, veniva esiliato "per misura economica,e vuol
    dire senza forma di giudizio e nemmen decreto" (Vita, in Ricotti,
    App. 2, p. 384). Il 23 apr. 1823 sposava Felicita "figlia del barone
    di Villeneuve e di Laura di Ségur, pronepote di D'Aguessau",
    e con lei passava ancora un anno fra Chenonceaux e Parigi. Nel 1824
    otteneva di ritornare in Piemonte, ma restava confinato nella
    propria terra di Camerano per altri due anni.
    
    Il B., ormai più che trentenne, si staccava da quella
    "prattica", da quella via dell'azione, che continuava a costituire
    il suo ideale segreto. Ma la crisi del '21 aveva stimolato la sua
    vocazione di studioso, di scrittore politico, di pubblicista, oltre
    a spingerlo verso l'indagine storica: già a Madrid aveva
    lavorato sulle antiche costituzioni di Castiglia e di Aragona; aveva
    abbozzato un romanzo storico e altri scritti minori; fra il '22 e il
    '23 stendeva tutta una serie di brevi saggi sulla missione della
    dinastia sabauda, sulla nobiltà in Italia, sul principio di
    legittimità, sul "sistema di equilibrio" in Europa, ecc.
    Più importanti gli abbozzati Pensieri ed esempi di morale e
    di politica (collo stesso titolo, avrebbe poi scritto un altro
    insieme di saggi nel 1832-33: soltanto questi sarebbero stati
    pubblicati postumi, nel 1854); notevoli pure le
    Considérations sur le soulèvement des Grecs,che
    mostrano com'egli seguisse attentamente i vari movimenti
    indipendentistici, e guardasse soprattutto alla Francia liberale e
    cristiana, come ad un fulcro della nuova politica europea. Alla
    Francia assegnava anche un compito di mediazione fra i patrioti
    radicali di Spagna e d'Italia, e l'opposto radicalismo reazionario,
    in favore del vero "partito nazionale italiano", moderato e
    riformatore. Si augurava fin dal 1821 che l'Austria
    "s'inorientasse", per il bene dell'Italia e dell'Europa.
    
    Nel 1830 uscivano dal Pomba, a Torino, i due tomi della Storia
    d'Italia,in cui, partendo dalla crisi conclusiva dell'Impero romano,
    giungeva appena a trattare della dominazione dei Longobardi, fino al
    774. Nello stesso anno, pubblicava una traduzione degli Annali di
    Tacito, che veniva poi completata con quella delle altre opere dello
    stesso autore, nel 1832. Ritentava, in quello stesso periodo, la via
    del dramma storico, sempre scegliendo soggetti patriottici, e
    meditava sugli scritti del Cousin, che lo inducevano a scriver anche
    qualche pagina di riflessioni filosofiche: di tutti questi inediti
    ci dà conto il Ricotti.
    
    Morto Carlo Felice nell'aprile del '31, il B. stendeva una memoria
    Des Conseils provinciaux et du Conseil d'Etat,in cui pareva
    ripiegare sulle posizioni care al padre, e già da noi
    accennate: ma lo stesso Prospero veniva poi deluso dal modo di
    attuazione dell'istituto che pure egli aveva consigliato,
    cioè dal Consiglio di Stato a cui il nuovo re Carlo Alberto
    dava vita con l'editto del 20 ag. 1831. Affidando a Prospero la
    presidenza d'una sezione, il re ne escludeva invece il figlio,
    confermando la diffidenza nei suoi confronti. Colpito duramente, nel
    novembre del '33, dalla morte della moglie, da cui aveva avuto otto
    figli, il B. sposava in seconde nozze, nel '36, la figlia del conte
    Galeani Napione. Nel marzo del '37 moriva anche Prospero e al B.
    riusciva sempre più amara l'inazione.
    
    Il Ricotti ha pubblicato, a tale proposito, una sua significativa
    lettera del 1835, in cui deplorava di non poter combattere la buona
    battaglia, in favore delle libertà civili non viziate dallo
    spirito di fanatismo livellatore e rivoluzionario, perché nel
    Piemonte di Carlo Alberto il tormento della censura impediva persino
    di pensare con indipendenza, di scrivere con chiarezza (Ricotti,
    App. 10, p. 420).
    
    Si possono tralasciare alcuni scritti minori pubblicati fra il 1829
    (le Quattro Novelle che ebbero sei edizioni fra il 1829 e il 1854)
    ed il 1836 (sono di quest'anno le lettere all'abate Peyron su La
    letteratura ne' primi XI secoli dell'èra
    cristiana,ripubblicate fra le Lettere di politica e di
    letteratura,che uscirono nel 1855 presso il Le Monnier, e la lettera
    a C. Cantù, edita soltanto postuma in questa raccolta, su La
    civiltà e la moralità nel mondo antico e nel nuovo).
    Occorre invece accennare allo sforzo ch'egli fece per assimilare in
    quegli anni i risultati della ricerca erudita e della critica
    storica germanica, di cui si ha un segno nella traduzione delle
    Vicende delle costituzioni delle città lombarde di Enrico
    Leo, edita nel 1836 a Torino, ed in certe lezioni su I titoli e la
    potenza dei conti, duchi e marchesi dell'Italia settentrionale, e in
    particolare dei conti di Torino,lette alla Reale Accademia delle
    Scienze di Torino nel febbr. 1833, e da questa pubblicate nelle
    Memorie (t. XXXVIII, 1835, pp. 241-291. Tali lezioni, ripubblicate
    insieme ad altri scritti storici minori e a un saggio sull'Italia
    nel periodo carolingio a cura di C. Boncompagni, formano il volume
    Il regno di Carlomagno in Italia,Firenze 1862).
    
    Per le discussioni sul metodo storico con altri studiosi italiani,
    cfr. Lettere inedite di C. Troya e di C. B., Napoli 1869, edite dal
    Mandarini.
    
    Un cauto tentativo di pedagogia etico-politica, spezzata in massime
    moraleggianti, si ha nei secondi Pensieri ed Esempi, scritti vari
    anni prima pubblicati soltanto nel 1854, con altri "pensieri" in
    parte già editi sulle Letture popolari,il periodico di L.
    Valerio; vi si univano inoltre i Dialoghi del maestro di scuola,che
    risultano pure, dal contesto, posteriori al '30 ma anteriori al '40,
    e che contengono qualche interessante accenno autobiografico.
    
    I concetti sui quali più volentieri insiste il B. son
    già quelli di civiltà e progresso nell'ambito della
    "cristianità" (in polemica sia con le tesi illuministiche e
    sansimoniane, sia con quelle dei retrogradi); di diritti, doveri e
    affetti patriottici, che egli vuole indirizzare specialmente
    all'acquisto dell'indipendenza, ma conciliando sempre il
    patriottismo piemontese con quello italiano,i doveri di fronte alla
    nazione con quelli di fronte allo Stato sabaudo, aventi per sfondo
    le esigenze di "legittimità e legalità, che son
    tutt'uno" (p. 81). Sono i temi che verranno approfonditi e
    sviluppati nelle opere maggiori del B., di carattere storico e
    politico, con un'insistenza quasi ossessiva. Un bel gruppo di
    scritti minori (fra i quali spicca una lettera, Del naturale dei
    piemontesi),degli stessi anni dei Pensieri ed Esempi,furono riuniti
    fra le Lettere di politica e di letteratura: anche qui troviamo
    affrontati gli stessi temi, e qualche cenno che sta fra la storia e
    l'autobiografia: così il severo giudizio sul governo
    piemontese sotto la Restaurazione "la mediocrità produce le
    eliminazioni, e le eliminazioni riproducono la mediocrità":
    p. 261), ma anche l'affermazione che non sia lecito abbandonare il
    proprio paese e porlo in stato d'accusa dal di fuori (Alfieri,
    espatriato, è colpevole in tal senso, secondo il B., anche se
    parlò per "correggere i propri concittadini": p. 261).
    
    Nel 1837-38 il B. lavorò ad una Vita di Dante,che uscì
    presso il Pomba, in due volumi, nel 1839. Dal punto di vista
    politico lo scritto aveva un valore stimolante, specialmente dove
    attribuiva tutti i mali sofferti dalla nazione italiana, a partire
    dall'età dei liberi Comuni, all'aver essa ottenuto soltanto
    un'"incompiuta indipendenza"; dal punto di vista del gusto
    letterario non era priva di significato, recando un forte contributo
    alla rivalutazione di Dante, nel quadro della idealizzazione ancora
    in parte alfieriana, ma più pienamente romantica, del forte
    sentire,e della missione civile del libero scrittore.
    
    Le successive edizioni furon condotte tutte su questa prima
    torinese: la quarta e più maneggevole, in un solo volume,
    uscita nel 1851 presso il Le Monnier, reca le note aggiunte da E.
    Rocco nell'edizione napoletana del 1840. Fu tradotta in francese nel
    1844, e in inglese nel 1852. Severamente giudicata da C. Cattaneo,
    in un famoso articolo sul Politecnico (vol.I, fasc. 4, aprile 1839;
    e ora in Scritti critici,Firenze 1954, pp. 61 ss.), specialmente in
    quanto il B. introduceva una tesi politica stravagante nella sua
    interpretazione: "quando il signor B. si chiama guelfo, anzi ci
    vuole in Italia tutti guelfi, siamo tentati di guardarlo attoniti,
    come uno dei Sette Dormienti,che si sveglia a finire d'un discorso
    cominciato cinquecento anni fa", l'opera del B. aveva tuttavia, per
    il Cattanco, il pregio di "destare un senso di affezione e di
    pietà per la bell'anima e, la dolorosa vita del grande
    Alighieri".
    
    Intorno al 1840-41 gli interessi eruditi sembrano attenuarsi
    ulteriormente nella mente del B.: egli stende i Pensieri sulla
    storia d'Italia,che avrebbero poi visto la luce soltanto postumi,
    nella serie delle sue opere edita dal Le Monnier, raccogliendo le
    sue riflessioni intorno a quest'idea centrale: le lettere, le arti,
    la cultura acquistano un valore solo in quanto sono azione e servono
    di stimolo all'indipendenza nazionale. Questa viene contrapposta
    alla "libertà politica", cosa "incerta, in teorica", "varia
    nella pratica", fonte di dispute e dissidi: non per la sola Italia,
    ma per ogni nazione europea è consigliabile la forma
    monarchica; in Italia poi l'utopia delle repubblichette è
    tanto pericolosa, come il sogno dello Stato unitario machiavellico.
    
    Il papato, col potere temporale, coll'indipendenza della Chiesa,
    è, secondo il B., un elemento essenziale della "missione
    d'Italia", che "fu capo e guida... all'intera Cristianità"
    quando seppe adempite bene a quel suo ufficio, che può
    risolversi in un "soffrire e trionfare", ma anche in un "martirio
    continuo", a favore del corpo della "repubblica cristiana",
    cioè dell'insieme delle nazioni cristiane, ma più
    ancora di quel principio animatore della civiltà cristiana
    ch'è l'indipendenza della Chiesa (si veda specialmente la
    conclusione dell'opera, intitolata appunto "Della missione d'Italia
    nella cristianità", e in questa più specialmente le
    pagine in difesa del "principato" dei papi). Pur nel raccogliere
    tutte le sue riflessioni, o la sua filosofia della storia, intorno
    ai concetti di civiltà cristiana, di indipendenza della
    Chiesa, di indipendenza nazionale, il B. non riduceva però in
    posizione del tutto subordinata l'esigenza della libertà
    morale e politica, che aveva sentito così fortemente fino
    dagli anni giovanili: pur raccomandando d'intenderla "in senso
    moderato", la libertà è posta dal B. al centro della
    storia, poiché "è quella che fa la civiltà"
    (Pensieri..., p.47); e precisa ancora: "La civiltà moderna
    non poteva nascere se non nelle città italiane solo libere
    nel medio evo; nata poi, poté spandersi in paesi più o
    meno lontani da libertà..." (p. 48). Coerentemente a queste
    idee, definisce i maggiori ostacoli del progresso civile e morale in
    Italia: la censura è il principale, e la libertà di
    stampa è indispensabile per la libertà politica, ma
    non può esser richiesta "prima che sia conseguita la
    indipendenza compiuta" (p. 332). La "libera pubblicità" resta
    comunque un ideale per il B., che la connette alla fede nella
    verità, e nel suo trionfo "sol ch'abbia campo giusto e
    aperto" (p. 333).
    
    Di altri scritti minori elaborati od abbozzati dal B. fra il '41 e
    il '42 dice il Ricotti (notevoli alcuni articoli editi nelle Letture
    di famiglia,e l'inedita Idea della civiltà cristiana,da cui
    doveva, però, trarre non pochi elementi per le Speranze
    d'Italia). Nei primi mesi del '42 il B. portava più innanzi
    le sue ambizioni di filosofo della storia, stendendo le Meditazioni
    storiche,pubblicate in forma di dispense dall'editore Pomba, fra
    l'estate del '42 ed il marzo del '45 (nelle due edizioni postume del
    Le Monnier, Firenze 1854-1855 furono aggiunte tre meditazioni
    inedite, ed un frammento, alle quattordici già edite).
    
    Dalla "filosofia della storia d'Italia" il B. passava qui a
    teorizzare una filosofia della storia dell'umanità, e tentava
    una storia universale nel piano della rivelazione cristiana,
    inserendo poi, di suo, uno schema in cui al progressivo
    peggioramento pre-cristiano si contrapponeva il miglioramento, il
    progresso dei popoli cristiani. Notava infatti come al fiorire della
    civiltà (intesa come "complesso di condizioni sociali" di
    progresso) e della cultura ("complesso di condizioni intellettuali")
    si contrapponesse pur sempre nell'antichità pre-cristiana una
    decadenza negli elementi morali, nella virtù. Ilvero
    progresso consiste dunque secondo il B. in un armonico associarsi
    dei predetti elementi, assegnando tuttavia il primo posto alla
    virtù: le sue meditazioni si aggirano "sulle varianti armonie
    della civiltà, della coltura, della virtù e della
    religione" (Meditazione VII). "Lareligione vera ha senza dubbio
    portata la Cristianità a un apice di civiltà non mai
    arrivato" (ibid.). Vi è una feconda gara delle nazioni
    cristiane sul cammino della civiltà, della cultura e della
    virtù, benché poi si mantenga fra tutte, nella
    comunità internazionale, "una solidarietà, una
    comunanza" che tende a far cadere le barriere intermedie, a portare
    le "nazioni figliuole" coloniali all'indipendenza e al livello delle
    "nazioni madri", a completare la formazione nazionale e
    l'indipendenza di popoli come l'italiano ("se l'inorientarsi
    dell'Austria lascerà alla nazione raccoglitrice di tutta la
    antica civiltà, educatrice di tutta la cristiana,
    lascerà luogo alla nazione Italiana di raccogliersi in
    sé, di essere tutta intiera indipendente..." : Meditazione
    XVII, ad finem).
    
    Uscito alla luce il Primato del Gioberti nel 1843, il B. ne
    ricevette ben altra scossa, e notò appunto che si trattava,
    più che d'un libro, di un'azione, benché dissentisse
    poi nel modo di concepire il "primato", e volesse sottolineare che
    "prima di mirare a primati, si vuole arrivare a parità, e che
    la prima parità colle nazioni indipendenti è
    l'indipendenza". Per questo stendeva le Speranze
    d'Italia,dedicandole al Gioberti e dicendosi apertamente ispirato
    dall'opera sua. Risolveva non senza coraggio, ma sempre da leale
    suddito di Carlo Alberto, il problema di pubblicare uno scritto
    relativamente audace, e non certo gradevole all'Austria (che
    già aveva proibito il Primato nel Lombardo-Veneto), chiedendo
    ed ottenendo dal suo sovrano di stamparlo all'estero (uscì a
    Parigi nel '44; seguono due edizioni di Capolago, nel '44 e nel '45,
    quella di Napoli del '48, poi quella postuma di Firenze nel '55,
    nella quale troviamo riunite tutte le appendici del'44-'46, le
    aggiunte del '47, e uno scritto del '44 sulla questione d'Oriente;
    non vi si trova invece più in epigrafe il porro unum est
    necessarium,di cui il B. aveva sentito l'inopportunità, da un
    punto di vista religioso, poco prima di morire). Pur partendo dai
    suoi già noti schemi di filosofia della storia, il B.
    attingeva, nelle Speranze,ad una lucidità, ad una
    concretezza, ad una certa coerenza ed organicità, che resero
    presto illustre l'opera sua.
    
    Nella stessa sua moderazione, elevata quasi alla dignità di
    principio, non mancano le note vigorose, come quando, nel cap. X,
    stendeva l'apologia d'un ipotetico principe italiano "forte
    d'animo... forte della fede antica e provata de' suoi popoli, forte
    degli apparecchi legislativi, e dello sperimento del governo
    consultativo", che sapesse passare da queste premesse a forma di
    "governo deliberativo". Ammetteva però che si trattasse di
    "decisione piena di pericoli, feconda di disunioni, distraente
    dall'impresa d'indipendenza" e perfino "nociva" a questa: che era
    come giustificare la politica di quel Carlo Alberto, al quale
    sembrava rivolta l'esortazione or ora citata: e si comprende che un
    recensore inglese giudicasse l'opera addirittura come ispirata dal
    sovrano, ed il B. dovesse rispondere ch'egli era invece appena
    "tollerato", come scrittore, e non certo ufficioso. Un'altra
    contraddizione, nell'opera del B., fu argutamente rilevata nel noto
    epigramma del Salvagnoli: dopo aver dato tanto peso all'idea
    dell'indipendenza nazionale, alla virtù "come mezzo
    necessario d'indipendenza"; dopo aver condannato senza ambagi gli
    stranieri "oppressori e corruttori, l'uno e l'altro insieme", poteva
    sembrare che il B. indulgesse ad un certo fatalismo
    provvidenzialistico, nel dar tanto peso ad un'occasione storica
    ch'egli giudicava immancabile, e che voleva s'aspettasse con
    utopistica "longanimità": la spartizione dell'impero
    ottomano, e l'inorientarsi inevitabile dell'Austria. Lo stesso B.
    ricordava nell'appendice V delle Speranze,intitolata L'anno
    1846,come "una persona meglio di lui informata della condizione
    presente dell'impero austriaco" l'avesse criticato in tal senso,
    suggerendogli di tener conto di un'altra "più probabile
    speranza", quella dello "sfasciarsi" dell'impero austriaco: e
    ammettendo il difetto, il B. giungeva ora a tener conto di tale
    eventualità, e vedeva nei fatti di Galìzia del '46 il
    "principio della fine" per quell'impero. Ma a dir questo,
    così recisamente, era mosso anche dall'"atto di resistenza
    italiana", che definiva "inaspettato" e "non più udito",
    compiuto allora da Carlo Alberto, e registrato dall'opinione
    pubblica italiana in modo ugualmente disusato, benché si
    trattasse soltanto di un "affaruccio diplomatico-doganale
    austro-sardo". Non voleva predicare odio, ma predicava ormai
    più apertamente resistenza attiva alle prepotenze austriache,
    e prevedeva imminenti "occasioni maggiori", e si diceva certo che
    "il popolo italiano si mostrasse degno di esse, e degno di quella
    civiltà cristiana che lo circonda" (ediz. 1855, pp. 374-76).
    Lo incoraggiava pure, in quell'anno fatidico per l'Italia,
    l'atteggiamento del nuovo papa, di Pio IX, che senz'esser stato
    "uomo di parte", né "liberale", era già vicino, dopo
    sei mesi di saggio e benefico governo, a giungere, come sovrano,
    dove il Gioberti aveva auspicato che un papa italiano giungesse,
    cioè "al primato della opinione, della potenza italiana"; e
    poco gli restava a diventare "guida dell'opinione e della
    civiltà cristiana" come pontefice (pp. 384 ss.). Infine il B.
    esaltava la straordinaria concordia fra Italiani, già adusati
    a tante divisioni e contrasti e da questa constatazione un po'
    idillica prendeva poi lo spunto per esortare i principi italiani a
    concedere più ampie libertà ai popoli (pp. 375 ss.).
    Ma in una lettera confidenziale al Gioberti, del 1° nov. 1846,
    aveva già più realisticamente tenuto conto delle
    polemiche con lo stesso progredire del movimento d'opinione, e
    ravvivate dallo stesso Gioberti con la pubblicazione dei
    Prolegomeni,nei quali attaccava, come è noto, i gesuiti, anzi
    creava quasi un nuovo mito, per scindere la tradizione cattolica dal
    supposto gesuitismo. Il B. lo esortava ad acquietare la "tempesta di
    Gesuiti qui suscitata da lui" e a scrivere un "libro pacificatore"
    per compiere l'"opera della moderazione", da lui iniziata
    (Carteggì di V. Gioberti,V, Lettere di illustri italiani,a
    cura di L. Madaro, Roma 1937, pp. 164-167). Il Gioberti avrebbe
    pubblicato, invece, il Gesuita moderno...
    
    Nella battaglia condotta dai pubblicisti di parte moderata, fra il
    '46 ed il '47, il B. aveva intanto gettato un altro scritto di
    grandissimo rilievo, il Sommario della storia d'Italia. Improvvisato
    in poco più di quaranta giorni per l'Enciclopedia popolare
    del Pomba e del Predari, rappresentava però il frutto maturo
    di molti anni di appassionata meditazione sul passato e sul presente
    della sua patria: la passione che lo animava, piuttosto morale e
    politica che propriamente scientifica ed erudita, dava vigore e
    calore al suo scritto, che non era tanto un'opera di storia, quanto
    "l'ammonimento di un uomo diritto e saldo, spiritualizzato dalla
    lunga macerazione, atto perciò ad incidere profondamente
    nelle coscienze" (N. Valeri, in C. B.Pagine scelte precedute da un
    saggi0, Milano 1960, p. 45).
    
    Nello stile come nella sostanza, al notato vigore s'accompagnava
    tuttavia quella monotonia, quel martellamento di assiomi un po'
    dogmaticamente assunti, di cui doveva parlare B. Croce in alcune
    pagine critiche sulla storiografia cattolico-liberale. Non per
    questo si potranno sottovalutare certe istanze contro gli eccessi
    delle tesi patriottiche, contro le "teorie dell'isolamento"; contro
    le pretese al primato o a diversi primati; certe riserve di fronte
    al riformismo autoritario del Settecento "o non bisogna educare i
    popoli, o bisogna compier loro educazione... non bisogna voler
    parere, e non esser liberali". Infine, nell'appendice sugli anni dal
    1814 al 1849, scritta per la nona edizione del 1852, ma non
    compiuta, e pubblicata solo nell'edizione decima, postuma, del 1856,
    troviamo un interessante giudizio sul regno di Carlo Alberto: per un
    verso, il B. ne onora la memoria dedicandogli il volume, "scritto
    già tra gli urgenti desideri del gran tentativo di lui,
    omaggio postumo ora di gratitudine", e definendolo "sommo martire
    dell'indipendenza", e "somma vittima delle invidie italiane"; ma poi
    dice che il suo regno era stato caratterizzato da "titubanze
    continuate fin presso alla fine".
    
    Con le Speranze e col Sommario il B. aveva attinto al punto
    più alto del suo apostolato etico-politico: ma l'aprirsi di
    crescenti possibilità di libera discussione pareva
    moltiplicare le sue forze e risuscitare in lui quella vocazione di
    pubblicista e di scrittore politico che la censura piemontese aveva
    soffocato. Fra molti scritti composti in quel periodo di eccezionale
    fecondità, emergono le Lettere politiche,indirizzate al
    Farini, e stese fra il dicembre del '46 e l'aprile del '47 (edite in
    parte nel '47 a Torino, e per intero fra le Lettere di politica e
    letteratura,cit.). Notevole pure il programma del giornale Il
    Risorgimento,apparso sul primo numero, il 15 dic. '47, a cui
    seguivano poi diversi articoli, specie nei primi mesi del '48, e
    fino alla vigilia della tanto desiderata concessione dello Statuto.
    Ma già il confronto fra tali articoli e quelli d'altri
    collaboratori del giomale, da C. Cavour a M. A. Castelli, a R.
    d'Azeglio, ecc., fa sentire come il B. andasse progressivamente
    chiudendosi nel guscio del suo dottrinarismo, benché si
    sforzasse di seguire il moto dell'opinione, e avesse il merito di
    stimolare in tal senso il titubante Carlo Alberto, ben meno
    chiaroveggente e sensibile di lui.
    
    Son da vedere, per questo specialmente, le critiche e le esortazioni
    contenute in un memoriale al re dell'ottobre del '47, riferite in
    parte dal Ricotti, e stampate per intero da E. Passamonti, in
    IlRisorgimento Italiano,VI (1913), pp. 763-826: da notare che il B.
    non osava spingersi fino a chiedere una costituzione. Inoltre va
    ricordato il rifiuto di far parte di una Commissione superiore di
    revisione, cioè di censura, rifiuto giustificato con un
    preciso riferimento alle sue convinzioni liberali, in una lettera
    pure citata dal Ricotti. In uno scritto del novembre del '47,
    intitolato Prime parole sulla situazione nuova dei popoli liguri e
    Piemontesi,e pubblicato prima sull'Antologia italiana,poi in
    estratto dal Pomba, e infine in appendice alla quinta edizione delle
    Speranze, ilB. affronta un tema che riprende poi nel primo numero
    del Risorgimento: le riforme devono tendere a perfezionare l'unione
    politica e giuridico-amministrativa tra le diverse parti degli Stati
    italiani, abolendo anche gli organi ed istituti peculiari, i "corpi
    consultivi diversi". Il B. rivaluta insomma l'accentramento e il
    livellamento istituzionale, sia pur proponendo di porre nuovi organi
    rappresentativi al centro come valida garanzia di libertà
    (nel Risorgimento si raccoglie, però, qualche voce
    diversamente orientata). Per lo Stato sabaudo, situato a cavallo
    delle Alpi, e con popoli diversi per lingua e per cultura, il B.
    avrebbe dovuto tener conto dell'evidente contraddizione fra
    unità statale-dinastica e unità nazionale, ma egli
    credeva di risolvere il problema dichiarando nettamente
    l'opportunità di salvare l'unità dello Stato sabaudo
    come strumento della nazionalità italiana, appellandosi
    inoltre a una tradizione di otto secoli di storia comune
    (Speranze,ed. cit., p. 481).
    
    Quando s'apre la discussione alla Camera dei Pari francese sugli
    affari d'Italia, nel gennaio del '48, il B. vi dedica tre articoli,
    e si accosta al Cavour nel giudicare severamente la politica
    austrofila del Guizot, di cui però si augura "la conversione,
    non la caduta" (n. 17, del 19 gennaio). Poi concentra la sua
    attenzione, insieme con M. d'Azeglio, sul problema della
    costituzione di forti eserciti regolari negli Stati dell'Italia
    centrale, tenendo però fermo il concetto di un'egemonia
    militare e quindi politica del Piemonte nell'auspicata
    confederazione italica: giunge a definire "divino" l'esercito
    piemontese-italiano! In un articolo del 3 febbraio ammette
    senz'ambagi che l'annunzio d'una costituzione, dato da Ferdinando di
    Borbone, il 29 gennaio, "ha instaurato il secondo periodo" e aperto
    una nuova fase del Risorgimento: si può quindi immaginare con
    quanto entusiasmo egli commenti poi l'annuncio dello Statuto
    piemontese, in un ampio articolo del 10 febbraio.
    
    Chiamato da Carlo Alberto a presiedere la commissione che doveva
    elaborare la legge elettorale, il B. seppe dirigerne e accelerarne
    l'opera, che fu compiuta in quindici giorni, ed è notevole
    che, nonostante la fretta, la legge elaborata reggesse poi alla
    prova del tempo. L'8 marzo Carlo Alberto, subendo a malincuore la
    necessità di ricorrere a uomini "nuovi", finì per
    chiamare il B. a comporre il primo ministero costituzionale
    piemontese, e con lui chiamò un genovese, il marchese Lorenzo
    Pareto. Questi, insieme al marchese Vincenzo Ricci, pure genovese,
    creò le prime difficoltà al B., facendo proprie le
    esigenze di correnti d'opinioni alquanto più avanzate ma
    piuttosto venate di particolarismo ligure. Il B. seppe respingere
    quello che pareva umiliante per il governo (la distruzione del forte
    del Castelletto, o la sua consegna alla Guardia civica), accentuando
    la già menzionata esigenza di salvare l'unità dello
    Stato. Per contro, egli accettava la linea di politica estera
    proposta dal Pareto: conservava però le sue tipiche premesse
    sull'egemonia militare-politica piemontese nella lega con gli altri
    principi italiani, definendola come "una specie di protettorato di
    fatto", e giustificandola con il maggior onere che lo Stato sabaudo
    assumeva nel difendere tutti gli altri, con forze più
    numerose e meglio organizzate. Nella politica interna, il B. si
    pronunciava contro ogni revisione dello Statuto, ma faceva suo il
    principio derivato dalla tradizione costituzionale inglese,
    dell'onnipotenza parlamentare (da non confondere col parlamentarismo
    più avanzato). Il Parlamento doveva essere immediatamente
    convocato. Avrebbe voluto che il Gioberti entrasse nel ministero, ma
    Carlo Alberto s'oppose. Fu questa una seconda ragione di debolezza
    del ministero: la questione della fusione della Lombardia col
    Piemonte, e l'ostilità del B. all'idea d'una Costituente,
    anche se rinviata a data incerta, contribuì ad aggravare i
    dissidi fra il B. e i suoi colleghi, nel maggio. Quando poi fu
    riunito il Parlamento (dal 9 maggio), il B. vi dovette rappresentare
    il ministro della Guerra, Franzini, ch'era al campo, mentre
    paradossalmente sospirava un'occasione di abbandonare egli stesso il
    suo posto per combattere (ma un suo breve intervento sul fronte, a
    fine aprile, doveva invece accentuare i sospetti che nutriva contro
    di lui il capo del governo provvisorio di Milano, Gabrio Casati,
    come risulta dal carteggio di quest'ultimo col conte C. di
    Castagnetto).
    
    Quando nacquero i primi dubbi e dissapori sulla condotta della
    guerra, sulla quale il B. non aveva mai potuto influire, parve
    ch'egli fosse troppo indulgente, troppo preoccupato di giustificare
    tutto e tutti. Allora egli sentì che il ministero da lui
    presieduto apparteneva alla categoria deteriore dei "governi di
    coalizione"; e si manifestò anche la sua incapacità di
    "superare il dissidio fra interessi sabaudi e interessi nazionali,
    fra orgoglio del primato subalpino e fede nella patria comune, fra
    ragion di stato e guerra di popolo... fra indipendenza imposta dai
    Piemontesi e indipendenza conquistata dagli Italiani" (N. Valeri, C.
    B. Pagine scelte...,cit., p. 38), e toccò ai giobertiani quel
    compito di mediazione fra radicali democraticheggianti e difensori
    della politica dinastico-piemontesista, che il B. non aveva saputo
    assolvere. Il B. aveva chiesto di dimettersi due volte, fin dal
    maggio, poi insistette insieme a tutti i colleghi: "rimanemmo
    dimissionari agonizzanti, impotenti un altro mese e mezzo", annotava
    in una prefazione ai Saggi sul governo rappresentativo in Italia,
    del '49-'50; anche questa situazione ambigua, di cui il B. doveva
    portare il peso, era un frutto dell'ambiguo atteggiamento del re,
    che in sostanza continuava a procedere autocraticamente, disdegnando
    di consigliarsi con i ministri costituzionali. La caduta del
    ministero avvenne poi il 26 luglio 1848.
    
    Il B. restava in Parlamento come semplice deputato, eletto dal
    collegio di Chieri, poi dal 2° collegio di Torino nella terza e
    quarta legislatura, e, accettando con coraggio, dopo il favore
    dell'opinione, l'impopolarità nata dalle speranze cadute,
    riprendeva inflessibilmente le sue tesi guelfe e conservatrici.
    
    Nella tornata del 28 febbr. 1849 si alzava a difendere il potere
    temporale dei papi, dichiarando, però, che "in teoria la
    potenza temporale... non è per nulla necessaria alla
    religione cattolica". Il 17 genn. 1850 presentava la relazione sul
    trattato di pace coll'Austria, a nome della commissione parlamentare
    a ciò delegata. Poco più tardi, il 25 febbraio, si
    opponeva alla legge per l'abolizione del foro ecclesiastico proposta
    dal ministero d'Azeglio, dichiarando che "non si può, non si
    deve mutare [un diritto], se non col consenso, con l'accordo di chi
    ne è materialmente in possesso". Il 29 giugno 1852 avrebbe
    ancora fatto opposizione ad una proposta di legge sul matrimonio
    civile, affermando che, senza prender posizione sul diritto dello
    Stato di statuire in materia, non gli sembrava comunque opportuno
    che se ne ingerisse, sostenendo così implicitamente che
    convenisse non innovare in tal campo. Fu tacciato, per queste prese
    di posizione, di spirito retrivo.
    
    Un aspetto invece più modemo, più liberale, delle sue
    convinzioni politiche era apparso chiaro nella missione che aveva
    accettato dallo stesso ministero d'Azeglio, di recarsi come
    mediatore presso Pio IX, a Gaeta, nel maggio-luglio del '49: aveva
    invano tentato di "persuadere Pio IX e il suo ministro di fare come
    noi, di tenersi stretto allo Statuto da lui dato".
    
    Notevoli gli scritti che il B. riuscì ancora a stendere in
    quegli ultimi tre anni di vita, benché fosse tornato da Gaeta
    quasi cieco (Ricotti, p. 283). Alludiamo soprattutto ai già
    citati saggi sul governo rappresentativo, ed allo scritto incompiuto
    Della politica nella presente civiltà,che emergono fra cose
    minori ed abbozzi di quest'epoca e che furono poi raccolti sotto il
    titolo Della monarchia rappresentativa in Italia (Firenze 1857).
    Curiosamente, il B. giungeva allora, dopo il fallimento dell'impresa
    d'indipendenza, che attribuiva principalmente alle distrazioni e
    alle discordie generate dalle inopportune ambizioni di
    libertà e di unità, a rivalutare il momento della
    libertà.
    
    Scriveva: "ora è tempo di ripigliare l'opera della nostra
    libertà, di ordinarla, di assodarla, di radicarla, di farla
    universalmente accetta e forte in Italia" per creare una nuova
    piattaforma all'indipendenza futura (prefaz. cit., edita in Della
    monarchia rappresentativa..., cit., p. 9). Più che mai
    metteva in guardia gli Italiani contro l'egocentrismo nazionale, e
    additava all'Italia la via dell'Europa: "Moderiamo la nostra stolta
    ambizione! Limitiamola ad entrare, quasi onesta famiglia in una
    città, onesta nazione nella grande repubblica europea". In
    tal modo poneva un limite alla retorica dei giobertiani e dei
    radicali democraticheggianti, e lasciava un'eredità viva alla
    scuola politica moderata e costituzionale: altrettanto vigorosamente
    antiretorica la proposta da lui fatta alla Camera, in sede di
    discussione della ratifica al trattato di pace coll'Austria.
    Proponeva di approvarlo "senza discussione, ma colla sola protesta
    del silenzio". La proposta fu tuttavia respinta.
    
    Un ultimo episodio di politica attiva veniva a turbare le
    meditazioni del B., precocemente invecchiato, anzi consumato da
    tante esperienze dolorose, da tante difficoltà: al cadere dei
    ministero d'Azeglio, nell'ottobre del '52, egli fu richiesto ancora
    da Vittorio Emanuele II, perché formasse una nuova compagine
    ministeriale. Il B. volle anzitutto avere il Rével alle
    Finanze, ed era incline persino a cedergli la presidenza del
    Consiglio, poi interpellò il Cavour, ma mentre il
    Rével prevedeva di non trovar sufficiente appoggio nella
    Camera dei deputati, il Cavour notava che un avvicinamento fra il B.
    e lui avrebbe avuto effetti politici negativi. Il B. finì per
    declinare l'incarico, e continuò ad intervenire in
    parlamento, come deputato, fino ai primi del '53 (il 12 gennaio
    diede chiarimenti sull'episodio or ora riferito, il 7 febbraio disse
    ancora qualche parola per regolare la discussione). Il 3 giugno del
    1853 morì a Torino.