Enciclopedia delle Scienze Sociali (1997)
di Pietro Alessandrini, Alberto Zazzaro
Risparmio
sommario: 1. Definizione. 2. Formazione e
impiego del risparmio. 3. Perché si risparmia. 4. Allocazione
intertemporale delle risorse: a) ammontare ottimale di risparmio;
b) ciclo vitale e reddito permanente; c) movente
ereditario e movente precauzionale; d) vincoli di
liquidità. 5. Struttura sociale e scelte non
ottimizzanti: a) distribuzione funzionale del reddito; b) comportamenti
abitudinari e imitativi. 6. Risparmio aggregato: a) risparmio
delle famiglie; b) risparmio privato e pubblico. 7.
Effetti macroeconomici del risparmio: a) il risparmio come
'pubblica virtù'; b) il risparmio come 'pubblico
vizio'. □ Bibliografia.
1. Definizione
Il risparmio è quella parte di reddito che non viene spesa a
scopo di consumo. La determinazione contabile del risparmio è
direttamente collegata alla definizione di questi due flussi,
reddito e consumo, che lo misurano per differenza, ed è
legata a due distinzioni fondamentali, che riguardano l'una gli
operatori e l'altra i prodotti.Nel sistema economico si individuano
tre categorie di operatori: le famiglie, le imprese, il settore
pubblico. Poiché le famiglie sono le unità di consumo,
il risparmio (reddito non consumato) si dovrebbe formare tutto
presso di esse. Ma non è così, perché parte del
risparmio viene trattenuto dagli altri due operatori, le imprese e
il settore pubblico. Pertanto il risparmio nazionale è dato
dalla somma dei risparmi privati (famiglie e imprese) e pubblici di
un paese. Le imprese, il cui scopo unico è la produzione,
risparmiano nella misura in cui trattengono presso di sé
parte degli utili, che altrimenti andrebbero distribuiti alle
famiglie. Il settore pubblico risparmia la differenza tra le entrate
(gettito fiscale e oneri sociali prelevati da famiglie e imprese) e
le spese correnti (compresi i trasferimenti sotto forma di pensioni,
sussidi e interessi sul debito pubblico). Ne consegue che per
determinare il risparmio privato non si considera il reddito
prodotto, ma quello disponibile, dopo aver tolto le imposte e
aggiunto i trasferimenti pubblici al netto degli oneri sociali.
La seconda distinzione fondamentale si riferisce ai prodotti. I
consumi conteggiati nella determinazione del risparmio privato
riguardano tutte le spese in prodotti finiti (beni e servizi)
sostenute dalle famiglie per soddisfare i bisogni personali. Questo
significa che: a) non si considerano i consumi intermedi delle
imprese, vale a dire gli acquisti di materie prime, semilavorati e
servizi a scopo produttivo, perché sono già inglobati
nel valore dei prodotti finali: se venissero sommati ai consumi
finali si avrebbe una duplicazione; b) si considerano per
convenzione anche le spese delle famiglie in beni di consumo
durevoli (mobili, elettrodomestici, ecc.), essendo difficile
computare (come in teoria andrebbe fatto) il valore del servizio
utilizzato in ciascun periodo della loro vita economica; c) fanno
eccezione le abitazioni, per le quali le spese di acquisto sono un
investimento delle famiglie, mentre il servizio d'uso può
facilmente essere misurato dal canone di affitto (effettivo per i
non proprietari, imputato per i proprietari) e va correttamente
conteggiato tra i consumi.
2. Formazione e impiego del risparmio
In quanto reddito non consumato, la prima ipotesi che si può
fare sul risparmio è quella di attribuirgli un carattere
meramente residuale. Questa visione riduttiva viene in buona parte
superata con una più attenta analisi delle scelte inerenti la
formazione e l'impiego delle risorse risparmiate.Per ogni singolo
operatore o gruppo di operatori è valida la seguente
relazione contabile: St=Yt-Ct=ΔWt, secondo la quale il risparmio S
non è soltanto reddito disponibile Y non speso in consumo C
nel periodo corrente t, ma è anche il flusso di reddito non
consumato che va a incrementare lo stock di ricchezza W (nella
formula il simbolo incrementale è rappresentato da Δ). Nelle
economie moderne la ricchezza può essere reale (stock di
capitale K) e finanziaria (stock di ricchezza finanziaria netta
RFN=AF-PF, ossia attività finanziarie al netto delle
passività finanziarie), cosicché W=K+RFN. Pertanto dal
punto di vista dell'impiego delle risorse risparmiate risulta:
St=It+ΔRFNt=Ιt+ΔAFt-ΔPFt, secondo la quale il flusso di risparmio
del periodo considerato può essere impiegato per acquistare
beni di investimento I (incremento dello stock di capitale K) e/o
nuove attività finanziarie, e/o per ridurre le
passività finanziarie (ripagare i debiti). Ciò
significa che ogni atto di risparmio incorpora una serie di
decisioni che riguardano: a) una scelta intertemporale, che
determina un trasferimento di potere di acquisto nel tempo; b) la
formulazione di aspettative circa il futuro, che incorporano le
incertezze sulle decisioni da prendere, e quindi gli atteggiamenti
nei confronti dei rischi da assumere; c) la scelta tra beni di
consumo e beni di investimento nei mercati reali; d) la scelta tra
diverse attività e passività finanziarie nei mercati
finanziari.
All'interno di questo complesso quadro di decisioni interdipendenti,
diviene irrilevante chiedersi se il risparmio sia una variabile
residuale. Si può discutere il grado di consapevolezza o di
autonomia delle scelte individuali, che è certamente
influenzato dai contesti entro i quali ciascun agente si trova ad
operare: la propria situazione, le informazioni di cui può
disporre e gli intermediari specializzati ai quali può fare
riferimento. In questo ambito generale, si possono contemplare anche
i casi limite in cui non si può risparmiare, anche volendolo,
oppure al contrario si risparmia senza averlo espressamente deciso.
Quando il reddito è molto basso non vi può essere
scelta non solo di risparmio, ma anche di consumo, che resta
vincolato ai beni di sussistenza. All'opposto, quando il livello di
reddito è elevato al punto da essere al di sopra del massimo
consumo sostenibile, non si può parlare di risparmio in
termini di rinuncia al consumo. In questo caso di risparmio
involontario resta pur sempre aperto un problema di scelta, se non a
livello di formazione, almeno a livello di impiego del risparmio. Le
possibilità di scelta sono espressamente limitate nei casi di
risparmio vincolato, che possono essere di due tipi: contrattuale e
forzoso. Nel risparmio contrattuale si esprime una scelta iniziale,
che per una serie di periodi successivi impegna il contraente a
risparmiare quote del proprio reddito da destinare a varie forme di
accumulazione presso intermediari specializzati (imprese di
assicurazione, fondi comuni di investimento, fondi pensione). Il
risparmio forzoso viene imposto dalle autorità alle famiglie
(consumi razionati, prestiti forzosi) e alle imprese (riserve e
fondi obbligatori). In questo caso si tratta di una scelta pubblica
che si sostituisce a quella individuale a fini di stabilizzazione,
controllo e sicurezza. Rientrano in questa categoria i contributi
obbligatori versati agli enti pubblici di previdenza sociale (per
pensioni, infortuni, ecc.). Queste quote di risparmio
istituzionalizzato vengono considerate nella contabilità
nazionale come trasferimenti pubblici, che si sottraggono al reddito
prodotto per contribuire a determinare il reddito disponibile Yt,
come abbiamo precisato all'inizio. Ciò significa che il
risparmio misurato in tal modo è sottostimato per gli
operatori che versano gli oneri sociali perché non tiene
conto di queste forme di risparmio obbligato. Il risparmio
può assumere valori negativi (C>Y) o, comunque, può
non essere sufficiente a finanziare l'acquisto di beni di
investimento (S-I⟨0). In queste situazioni la spesa complessiva
eccede il reddito disponibile (C+I>Y). Gli operatori che spendono
in deficit attingono alla ricchezza finanziaria (ΔRFN⟨0), liquidando
parte delle attività finanziarie accumulate in precedenza
(ΔAF⟨0) e/o chiedendo finanziamenti esterni (ΔPF>0). È
chiaro che queste operazioni possono essere portate a termine solo
se e nella misura in cui altri operatori siano disposti ad
acquistare le attività finanziarie poste in vendita oppure a
concedere i finanziamenti richiesti. In altre parole, a fronte degli
operatori in deficit vi debbono essere operatori in surplus
(S-I>0), che complessivamente spendono meno del proprio reddito
disponibile e accumulano ricchezza finanziaria (ΔRFN>0). Se vi
sono operatori che investono più di quanto risparmiano, vi
debbono essere altri operatori che risparmiano più di quanto
investono. Gli intermediari e i mercati finanziari hanno il compito
di redistribuire la ricchezza finanziaria tra questi due gruppi.
Poiché i loro squilibri sono di segno opposto e si
compensano, nell'aggregato il risparmio complessivo risulta uguale
agli investimenti complessivi (S=I). Pertanto in un'economia la
formazione di risparmio influisce sull'offerta di risorse
disponibili per l'accumulazione e lo sviluppo, mentre la sua
distribuzione tra gli operatori o, più precisamente, la
dissociazione tra risparmiatori netti (che risparmiano più di
quanto investono) e investitori netti (che investono più di
quanto risparmiano) contribuisce a determinare la dimensione e le
caratteristiche del sistema finanziario.
3. Perché si risparmia
L'analisi delle diverse spiegazioni del risparmio offerte dalla
teoria economica può essere svolta su tre piani interrelati:
l'individuazione delle motivazioni personali, la selezione delle
variabili esplicative, il contesto teorico di riferimento.Le
motivazioni personali in grado di giustificare un singolo atto di
risparmio possono essere molteplici. Keynes (v., 1936, cap. 9) ne
elenca otto: la precauzione, la previdenza, il calcolo, il
miglioramento, l'indipendenza, l'iniziativa, l'orgoglio, l'avarizia.
È indiscutibile che questi moventi abbiano un loro peso nel
determinare l'ammontare di reddito risparmiato e tutti, più o
meno esplicitamente, hanno di fatto trovato posto nella teoria
economica.Sul piano della selezione delle variabili esplicative, la
discussione riguarda principalmente il diverso ruolo attribuito alle
seguenti variabili chiave: il reddito corrente Y, i flussi di
reddito attesi per il futuro Ya, il tasso di interesse r e lo stock
di ricchezza W. Quest'ultima variabile, essendo il risultato dei
risparmi accumulati in precedenza, tiene implicitamente conto
dell'influenza dei redditi passati. Si registra un sostanziale
accordo sul fatto che lo stimolo a risparmiare diminuisca
all'aumentare del rapporto W/Y tra ricchezza e reddito. Sulla
rilevanza e sul ruolo delle altre variabili la discussione è
più ampia e controversa. In realtà la selezione dei
nessi causa-effetto è condizionata da un complesso di fattori
oggettivi che interagiscono, con risultati non facilmente
prevedibili e misurabili. Tra essi vanno ricordati i fattori
demografici (età, speranza di vita, nucleo familiare), i
fattori legati al reddito (tipologia, livelli relativi e
prevedibilità), i condizionamenti sociali, i vincoli di
liquidità, le garanzie istituzionali (età di
pensionamento, previdenza sociale, stabilità politica).
È, però, al terzo livello dell'analisi, relativo al
contesto teorico di riferimento, che si possono rilevare le
divergenze più profonde sulla spiegazione del risparmio. In
questo caso entrano in gioco le diverse scuole di pensiero, con
ipotesi sul comportamento umano e sulla struttura della
società che differiscono in modo sostanziale. Da questo punto
di vista, in estrema sintesi si possono distinguere due impostazioni
fondamentali: la prima analizza il risparmio come scelta di
ottimizzazione intertemporale, dettata dal desiderio di modificare
la distribuzione del proprio consumo nel tempo, ed eventualmente di
quello dei discendenti e/o ascendenti, al fine di massimizzare la
propria utilità; la seconda esclude o comunque non si pone in
modo esplicito problemi di comportamenti ottimizzanti, ma inserisce
l'analisi del risparmio nel contesto dei processi di accumulazione,
della struttura sociale e dei comportamenti convenzionali e
imitativi. Schematizzando, la prima di queste impostazioni
può essere riferita alla concezione del risparmio propria
della teoria neoclassica, mentre la seconda può farsi
risalire al pensiero degli economisti classici, di Marx e di Keynes,
ed è stata ripresa e sviluppata da un insieme eterogeneo di
autori e di scuole di pensiero che, seguendo Lavoie (v., 1992),
possiamo raggruppare sotto il titolo generico di teorie
postclassiche del risparmio.
4. Allocazione intertemporale delle risorse
Per i fondatori del pensiero neoclassico (Stanley Jevons, Carl
Menger, Léon Walras), come per i loro continuatori (anche
odierni), il problema fondamentale cui la scienza economica è
chiamata a dare risposta è quello di individuare
l'allocazione ottimale di risorse scarse e date fra usi alternativi.
Al centro dell'analisi è posto l'individuo, il cui obiettivo
è universalmente dato dalla massimizzazione della propria
utilità. Non vi è spazio per le classi o per altri
aggregati sociali. Ogni individuo è un soggetto economico
indistinto, pienamente razionale e consapevole, che sulla base delle
sue preferenze e delle sue dotazioni iniziali di risorse
deciderà come e quanto impegnare le capacità
lavorative e allocare il reddito tra diversi usi, presenti e futuri.
Dato questo contesto teorico, come sottolinea Claudio Napoleoni (v.,
1956, p. 1336), il motivo 'fondamentale' che spiega ogni atto
individuale di risparmio non può che essere il desiderio di
redistribuire nel tempo le entrate, presenti e future, con
l'obiettivo di massimizzare la propria utilità. Per i
neoclassici, dunque, quanto risparmiare equivale alla decisione di
quando consumare.La teoria neoclassica del risparmio può
perciò essere caratterizzata come un'applicazione della
teoria delle scelte del consumatore a un problema di allocazione
intertemporale. Mentre questa impostazione risulta già chiara
nei primi autori marginalisti, è solo con Irving Fisher (v.,
1930) che la teoria neoclassica del risparmio assume una forma
analitica compiuta (ma non vanno dimenticati i contributi
anticipatori di Umberto Ricci: v., 1926), che a tutt'oggi
rappresenta lo schema di riferimento (v. Deaton, 1992).
a) Ammontare ottimale di risparmio
La teoria neoclassica del risparmio si fonda sulle seguenti
assunzioni: a) l'individuo è razionale e ha un comportamento
massimizzante; b) le sue preferenze sono esogenamente date,
strettamente personali e a lui perfettamente note; c) le preferenze
sono monotone (in altri termini, quantità più elevate
di consumo sono sempre preferite a quantità inferiori) e
continue (ossia, una riduzione del consumo oggi può essere
sempre compensata da un adeguato aumento del consumo domani); d) il
consumo è un'attività istantanea.Nella sua
formulazione più semplice la teoria analizza il caso di un
individuo che ha preferenze definite solo sul consumo, in termini
reali, relativo a due periodi di tempo successivi, descritte dalla
funzione di utilità U=u(c₁,c₂). In ogni periodo egli dispone
di un certo reddito da lavoro che può consumare o
risparmiare. In un modello completo andrebbero analizzate
simultaneamente sia le scelte di consumo che l'offerta di lavoro.
Nella versione semplificata che qui presentiamo, però, avendo
assunto che solo il consumo genera utilità, si ha che
l'individuo offre in maniera anelastica tutta la sua dotazione di
forza lavoro al saggio di salario corrente, ragione per cui il
reddito da lavoro che egli guadagna nei due periodi è dato,
rispettivamente, da: y₁=w₁l₁; y₂=w₂l₂, dove wi (i=1, 2) rappresenta
il salario prevalente sul mercato nei due periodi considerati, e li
l'ammontare di forza lavoro disponibile. Si immagini, infine, che
nel primo periodo il nostro individuo sia libero di dare o di
prendere a prestito, al tasso di interesse r, qualsiasi somma di
denaro, con l'unico vincolo di non lasciare debiti al termine del
secondo periodo. Al tempo 1, quindi, il suo consumo sarà dato
da c₁=y₁-T, dove T è un titolo che rappresenta
un'attività (quando c₁⟨y₁) o una passività finanziaria
(quando c₁>y₁). Al tempo 2, invece, il consumo sarà pari a
c₂=y₂+(1+r)T. Isolando T dall'equazione del consumo relativo al
primo periodo e sostituendo il valore così trovato
nell'equazione del consumo al tempo 2 otteniamo il vincolo di
bilancio intertemporale, c₁+c₂/(1+r)=y₁+y₂/(1+r), che ci dice che il
valore attuale di tutti i consumi presenti e futuri dell'individuo
deve essere uguale al valore attuale di tutti i suoi redditi.
L'obiettivo che l'individuo si pone è quello di massimizzare
la propria funzione di utilità, rispettando il vincolo di
bilancio. Matematicamente il problema può essere risolto
applicando il metodo di Lagrange, da cui risulta che
l'utilità è massima quando U₁/(1+r)=U₂, dove U₁ e U₂
indicano le utilità marginali del consumo nel primo e nel
secondo periodo e c₁+c₂/(1+r)=y₁+y₂/(1+r). Dal momento che il
fattore (1+r) può essere inteso come il prezzo del bene
'consumo oggi' in termini del bene 'consumo domani', possiamo anche
dire che il nostro individuo massimizza la sua utilità
complessiva quando distribuisce le sue risorse in maniera tale da
eguagliare l'utilità marginale del consumo nei due periodi di
tempo ponderata per i rispettivi prezzi, rispettando il vincolo di
bilancio intertemporale. Questo risultato può essere
facilmente generalizzato al caso di H periodi.
Per la teoria neoclassica, dunque, nel caso in cui gli individui non
incontrano vincoli sul mercato del credito, i fattori che
influenzano la distribuzione intertemporale del consumo sono solo
tre: le preferenze individuali, il tasso dell'interesse e il valore
delle risorse complessivamente disponibili durante il periodo di
riferimento. Nessun effetto ha invece la distribuzione temporale del
flusso dei redditi. In altre parole, una variazione del reddito
corrente non ha alcuna influenza sui consumi, sia correnti che
futuri, se non nella misura in cui, a parità di redditi
futuri, essa incide sull'ammontare complessivo delle risorse
disponibili nel corso degli H anni presi in esame. L'effetto sul
consumo di una variazione delle scadenze temporali con cui si
verificano le entrate può, infatti, essere completamente
neutralizzato dal ricorso al mercato del credito. Ovviamente, dati i
consumi, una redistribuzione dei redditi farà aumentare il
risparmio in quei periodi nei quali le entrate sono cresciute e lo
farà ridurre in quelli in cui sono diminuite. Il tasso
dell'interesse, invece, ha un effetto ambiguo sulle decisioni di
risparmio. Un aumento del tasso dell'interesse, ad esempio, da un
lato rende più costoso il bene 'consumo oggi' rispetto al
bene 'consumo domani' facendo apparire più conveniente la
posticipazione del consumo e, quindi, il risparmio (effetto
sostituzione), dall'altro, garantendo flussi di redditi da interesse
più elevati, consente di aumentare il livello dei consumi
futuri senza per questo diminuire quelli correnti (effetto reddito).
Lo schema di ragionamento che abbiamo appena presentato è
alla base di tutte le più recenti teorie neoclassiche del
risparmio. Esso, infatti, risulta estremamente flessibile,
consentendo, attraverso una semplice variazione degli argomenti
compresi nella funzione di utilità o nel vincolo di bilancio
intertemporale, l'analisi dei più disparati motivi
individuali e di numerosi vincoli sulle scelte di risparmio, come,
ad esempio, i vincoli di liquidità. Di seguito, molto
brevemente, presentiamo alcune di queste teorie.
b) Ciclo vitale e reddito permanente
Nella sua versione più semplice la teoria del ciclo
vitale, introdotta da Franco Modigliani e Richard Brumberg (v.,
1954; per un'interessante anticipazione v. Del Vecchio, 1915),
afferma che gli individui risparmiano parte dei redditi guadagnati
durante la loro vita lavorativa per far fronte ai consumi nelle fasi
conclusive della vita, quando non saranno più in grado di
produrre reddito. Si consideri un individuo che vive V anni, non
dispone di ricchezza iniziale, guadagna un reddito da lavoro
costante e noto, y, durante i primi L anni della sua vita, e
desidera mantenere costanti i suoi consumi nel tempo. Date queste
ipotesi, le scelte di risparmio possono essere facilmente descritte
utilizzando la figura, nella quale per semplificare si assume
che il tasso di interesse sia nullo. Il nostro individuo guadagna un
reddito vitale pari a yL, e ogni anno consuma una quota costante,
yL/V, di tale reddito. Durante la vita lavorativa, dunque, egli
effettuerà ogni anno un risparmio positivo pari a [(V-L)/V] y
che, come è facile verificare, a parità di reddito
vitale, risulta tanto più alto quanto più lungo
è il periodo di inattività rispetto alla durata della
vita. Nei primi L anni di vita egli accumula ricchezza, W, la quale
raggiunge il suo valore massimo nell'ultimo anno lavorativo, in cui
sarà pari a L volte il risparmio annuale. Durante i V-L anni
di inattività, invece, egli decumula la sua ricchezza
effettuando un risparmio negativo annuale pari sempre a yL/V, in
maniera tale che nel V-esimo anno di età egli avrà
consumato per intero tutti i risparmi accumulati nei primi L anni di
lavoro (nella figura l'area NS, risparmio negativo, dev'essere
uguale all'area PS, risparmio positivo).
Le principali conclusioni cui giunge la teoria del ciclo vitale sono
che solo gli individui attivi risparmiano e che in ciascun periodo
il consumo dipende dalla lunghezza prevista del periodo di
inattività e dal reddito vitale, ma non da quello corrente.
Per molti versi simile alla teoria del ciclo vitale è la
teoria del reddito permanente presentata da Milton Friedman (v.,
1957). La differenza principale tra le due è che nel modello
di Friedman la durata della vita è considerata infinita, per
cui non vi è alcuna distinzione tra periodo lavorativo e
periodo di inattività. Friedman suddivide il flusso di
reddito di un individuo in due componenti: una permanente, misurata
da una annualità del valore attuale dei flussi di reddito
attesi nel futuro; l'altra transitoria, data dagli scostamenti
inattesi del reddito effettivo dal reddito permanente. Per Friedman,
il consumo è funzione solo del reddito permanente, mentre
ogni scostamento del reddito effettivo da quello permanente viene
assorbito dal risparmio. La teoria del reddito permanente è
stata, poi, ulteriormente sviluppata da Robert Hall (v., 1978), che,
introducendo l'ipotesi di aspettative razionali, ha mostrato che con
il passaggio da un periodo all'altro il consumo (e il risparmio)
resta costante a meno di una quantità casuale che in media
assume valore zero.
c) Movente ereditario e movente precauzionale
Gran parte dell'evidenza disponibile non sembra immediatamente
conciliabile con le conclusioni cui giungono le teorie del ciclo
vitale e del reddito permanente. In primo luogo, i dati mostrano
chiaramente che il risparmio degli anziani non solo non è
fortemente negativo, ma può essere anche positivo, al
contrario di quanto prevede la teoria del ciclo vitale (v. Danziger
e altri, 1982-1983). In secondo luogo, il consumo sembra mantenere
una relazione positiva, ed empiricamente rilevante, con il reddito
corrente. In realtà, entrambe queste evidenze possono
facilmente trovare spiegazione all'interno dello stesso modello
neoclassico, purché si rimuovano alcune ipotesi
semplificatrici chiaramente irrealistiche (assenza di lasciti
ereditari, certezza dei redditi futuri e della durata della vita,
mercati del credito perfetti).
Il desiderio di lasciare un'eredità è stato da sempre
considerato uno dei principali moventi del risparmio. Tale desiderio
può essere dettato da motivi altruistici o anche dal semplice
piacere personale di lasciare un patrimonio. La teoria neoclassica
ha analizzato entrambe queste ragioni, in un caso inserendo nella
funzione di utilità del risparmiatore anche la funzione di
utilità dei suoi discendenti (v. Becker, 1974), nell'altro,
introducendo direttamente nella funzione di utilità
individuale la somma lasciata in eredità (v. Yaari, 1965).
L'incertezza riguardo i redditi e i propri bisogni futuri o sulla
durata della vita è alla base di quella parte del risparmio
che viene definita precauzionale (v. Deaton, 1992). In questo caso
il risparmio rappresenta una forma di assicurazione contro eventi
futuri incerti e sfavorevoli ed è tanto maggiore quanto
più incerto è l'evento contro cui ci si intende
tutelare.
d) Vincoli di liquidità
Un'altra ipotesi forte dei modelli fin qui presentati è
quella del libero accesso al mercato del credito e del suo perfetto
funzionamento. È questa, infatti, l'ipotesi che consente di
considerare il reddito corrente una variabile marginale nelle
decisioni di consumo. Tuttavia, è evidente che molto spesso
gli individui non hanno accesso al mercato del credito o, comunque,
non nella misura in cui desidererebbero. In questo caso gli
individui possono non essere più in grado di allocare il
proprio reddito nel tempo in maniera ottimale, vedendosi così
costretti a scelte inferiori. Supponiamo, ad esempio, di trovarci di
fronte a un individuo il cui consumo ottimale al tempo t è
maggiore del suo reddito. Se la sua domanda di credito viene
razionata, egli deve accontentarsi di consumare il reddito
guadagnato. Ecco che la presenza dei vincoli di liquidità
ridà un peso decisivo al reddito corrente nel definire il
sentiero temporale del consumo.
5. Struttura sociale e scelte non ottimizzanti
Riassumendo, la teoria neoclassica individua l'ammontare ottimale di
risparmio personale in ogni periodo di tempo come soluzione di un
problema di allocazione intertemporale delle risorse. Ciò,
però, a partire da alcune assunzioni iniziali molto
restrittive, che impongono una descrizione del comportamento umano
per certi versi poco realistica e determinano l'estromissione
dall'analisi di alcuni importanti moventi al risparmio e di
importanti variabili esplicative.La rimozione di una o più di
queste ipotesi rappresenta il comune denominatore delle altre teorie
del risparmio, alle quali ora rivolgiamo la nostra attenzione.
a) Distribuzione funzionale del reddito
Un approccio completamente diverso alla teoria del risparmio
è seguito da coloro che prendono le mosse dalla struttura
della società, composta di classi e aggregati sociali aventi
obiettivi e vincoli differenti. Questa impostazione è alla
base della teoria economica classica ed è stata ripresa con
vigore nel secondo dopoguerra dalle scuole postkeynesiane e
neoricardiane.
Dagli economisti classici (Adam Smith, David Ricardo, Thomas Robert
Malthus, Nassau William Senior, John Stuart Mill) l'argomento del
risparmio viene generalmente affrontato nell'ambito del problema
dell'accumulazione del capitale. Per essi il risparmio è
nuovo capitale: "Tutto ciò che un individuo risparmia dal suo
reddito lo aggiunge al suo capitale impiegandolo egli stesso per
mantenere un numero addizionale di lavoratori produttivi, oppure
mettendo in grado di far ciò qualche altra persona,
prestandoglielo per un interesse, cioè per una parte dei suoi
profitti" (v. Smith, 1776; tr. it., p. 332).
La decisione di quanto risparmiare equivale alla decisione di quanto
investire. Risparmio e investimento non possono divergere: quando
varia il primo deve variare anche il secondo. Un rallentamento del
risparmio può essere causato solo da una riduzione del saggio
del profitto corrente e/o di quello atteso, mentre nessun ruolo
autonomo viene svolto dal tasso dell'interesse, che resta
semplicemente una grandezza che si adegua al saggio del profitto (v.
Ricardo, 1817, cap. 27).
Ma il profitto, oltre a essere il principale incentivo a
risparmiare, è anche la principale fonte di risparmio. Nel
sistema teorico dei classici, infatti, i lavoratori non possono
effettuare alcun risparmio in quanto il salario reale è
fissato al livello di sussistenza dalle leggi della concorrenza sul
mercato del lavoro e, nel lungo periodo, dall'agire del principio
malthusiano della popolazione. Ma non risparmiano nemmeno i
proprietari terrieri, le cui rendite sono in genere impiegate nel
consumo e nella ricerca del lusso. I capitalisti, allora, sono le
uniche persone a disporre delle risorse e ad avere gli incentivi per
risparmiare e accumulare capitale produttivo. "Il grande scopo della
loro vita - scrive Malthus (v., 1836²; tr. it., p. 345) -
è quello di risparmiare una fortuna". Tuttavia, nello schema
dei classici la ricerca del profitto, sebbene sia il movente
principale del risparmio, è comunque sempre finalizzata al
consumo: "Nessun uomo produce se non con l'obiettivo di consumare o
di vendere, e nessuno vende se non con l'intenzione di acquistare
qualche altra merce" (v. Ricardo, 1817, ed. 1951, p. 290). Come
è stato sottolineato (v. Napoleoni, 1956; v. Graziani, 1980),
è a partire da questa particolare impostazione del problema
del risparmio e dell'accumulazione che si fa strada il principio del
consumo e della massimizzazione dell'utilità come fine ultimo
di qualsiasi attività economica, concetto che sarà poi
posto alla base della teoria neoclassica. Nello stesso tempo si
introduce l'idea che il capitalista sia l'unico soggetto a possedere
la virtù della parsimonia, che sola gli consente di sostenere
i sacrifici e di godere dei benefici dell'astinenza dal consumo (v.
Senior, 1836).
In netta contrapposizione con questa interpretazione si pone Marx,
per il quale il capitalista è mosso al risparmio e
all'accumulazione dalla necessità di accumulare profitti in
quanto tali. "Il capitalista è rispettabile solo come
personificazione del capitale; in tale qualità condivide
l'istinto assoluto per l'arricchimento proprio del tesaurizzatore.
Ma ciò che in costui si presenta come mania individuale, nel
capitalista è effetto del meccanismo sociale, all'interno del
quale egli non è altro che una ruota dell'ingranaggio" (v.
Marx, 1867; tr. it., p. 648). Per Marx, quindi, come per i classici,
il profitto è il principale movente del risparmio, ma
stavolta la ricerca del profitto viene presentata come
necessità storica, dettata dai meccanismi propri del sistema
economico capitalistico, e non come desiderio o virtù
individuale.
La suddivisione della società in classi, scomparsa dalla
teoria neoclassica, viene rimessa al centro dell'analisi
dall'economista polacco Michael Kalecki ed è ripresa dalla
teoria postkeynesiana del risparmio e della distribuzione avanzata
negli anni cinquanta e sessanta da diversi autori, tra i quali
Nicholas Kaldor, Luigi Pasinetti e Joan Robinson. L'idea centrale
è che le scelte individuali di risparmio non possono essere
trattate in maniera unitaria, trascurando l'appartenenza degli
individui alle diverse categorie sociali o la natura del reddito
percepito. In particolare, l'ipotesi è che la propensione
media al risparmio dei lavoratori sia più bassa della
propensione media al risparmio dei capitalisti. Tuttavia, messa da
parte l'ipotesi dei classici secondo la quale il salario è
fissato al livello di sussistenza, la differenza nelle propensioni
al risparmio va giustificata facendo riferimento alla natura del
reddito piuttosto che all'appartenenza a una determinata classe
sociale. Ed è questa, infatti, la strada esplicitamente
percorsa da Kaldor (v., 1966; tr. it., p. 202) per il quale
"l'elevata propensione a risparmiare parte dei profitti [è]
una caratteristica legata alla natura del reddito da impresa e non
alla ricchezza (o ad altre peculiarità) degli individui che
ne hanno".
b) Comportamenti abitudinari e imitativi
Altri autori hanno rifiutato l'idea che il risparmio personale
sia sempre il risultato di una scelta razionale e ottimizzante,
dettata da un sistema di preferenze individuali, esogene al
funzionamento del sistema economico. Un simile rifiuto si ritrova
dietro "la legge psicologica fondamentale" di Keynes per la quale,
"di norma e in media, gli uomini sono disposti ad accrescere il loro
consumo con l'aumentare del reddito, ma non tanto quanto l'aumento
del loro reddito" (v. Keynes, 1936; tr. it., p. 256). Nel
giustificare questa legge, Keynes non fa alcun riferimento a
comportamenti ottimizzanti, bensì rimanda alla natura
abitudinaria dell'agire umano e all'esistenza di una precisa
gerarchia nei bisogni. La prima darebbe ragione del fatto che un
individuo, posto di fronte a variazioni inattese del reddito,
è portato "a risparmiare l'eventuale differenza fra il suo
reddito effettivo e la spesa corrispondente al suo tenore di vita
abituale" (p. 257). L'ordinamento gerarchico dei bisogni
spiegherebbe, invece, perché a livelli di reddito più
alti si accompagnino in genere più alti livelli di risparmio:
"Infatti la soddisfazione dei bisogni primari immediati di un uomo e
della sua famiglia è usualmente un movente più forte
di quelli verso l'accumulazione, i quali acquistano un'influenza
effettiva soltanto quando si è raggiunto un margine di
conforto" (p. 257). D'altra parte, i comportamenti abitudinari e
l'imperfetto funzionamento del principio di sostituibilità
sono anche alla base dello scarso peso che Keynes attribuisce alle
variazioni del tasso dell'interesse nell'influenzare le decisioni di
risparmio individuali: "Non vi sarà molta gente che
modificherà il proprio modo di vivere perché il saggio
di interesse è caduto dal 5 al 4%, se il suo reddito
complessivo è lo stesso di prima" (p. 253). Solo tassi di
interesse stabilmente e considerevolmente più alti,
modificando le consuetudini sociali, sono in grado di determinare un
cambiamento radicale della propensione al risparmio, "benché
sarebbe difficile dire in quale direzione, salvo che alla luce
dell'esperienza effettiva" (p. 253).
Come Keynes, anche James Duesenberry (v., 1949) pone al centro della
sua teoria del risparmio le consuetudini e i comportamenti
abitudinari. Per Duesenberry gli individui, una volta acquisito un
certo standard di vita, non sono facilmente disposti a modificarlo.
Ciò significa che quando il reddito corrente risulta
inferiore al reddito più alto guadagnato in passato, in
riferimento al quale sono definiti gli stili di vita, gli individui
non riducono il loro consumo, bensì sacrificano il risparmio
in precedenza accumulato o addirittura, se possono, ricorrono
all'indebitamento. Inoltre, ciascun individuo forma le proprie
abitudini di consumo in maniera non indipendente da quanto fanno gli
altri. Per Duesenberry, infatti, la cultura della società in
cui viviamo, che individua nel tenore di vita in termini di consumo
uno dei fondamentali criteri di valutazione dei meriti e delle
capacità delle persone, spinge ciascuno a confrontarsi con i
soggetti che dispongono di un reddito immediatamente superiore al
proprio, al fine di emularne la domanda di beni di consumo (effetto
dimostrazione). Ciò implica che, quando è solo il
proprio reddito ad aumentare, un individuo, salendo nella scala
gerarchica dei redditi, mostrerà normalmente una più
alta propensione media al risparmio. Quando, invece, è il
reddito dell'intera collettività a crescere, restando
inalterata la distribuzione relativa dei redditi, gli effetti di
dimostrazione non vengono messi in moto e la propensione media al
risparmio di ciascun individuo si manterrà grosso modo
costante.
Altri autori che hanno sottolineato l'importanza dei comportamenti
imitativi nel definire le scelte individuali di risparmio e
l'endogeneità delle preferenze sono John Galbraith e Stephen
Marglin. Per Galbraith (v., 1977³) nella società
industriale i desideri di cosa e quanto consumare sono continuamente
ed endogenamente stimolati e manipolati dalle imprese attraverso il
ricorso alla pubblicità e ad altre forme di promozione delle
vendite. Dato ciò, secondo Marglin (v., 1984, p. 144) sembra
ragionevole "supporre che la pressione a spendere sia troppo grande
perché una tipica famiglia possa resistervi". Da questo punto
di vista, il risparmio individuale sarebbe un fenomeno
essenzialmente accidentale, che si verifica solo in presenza di
aumenti inattesi del reddito. A differenza di quanto sostenuto dalla
teoria del reddito permanente, però, un simile comportamento
sarebbe dettato non dall'aspettativa che l'aumento del reddito sia
solo temporaneo, quanto piuttosto dal fatto che occorre del tempo
per imparare come spendere i soldi (v. Lavoie, 1992). Ma anche il
semplice atto del consumare richiede l'impiego di tempo. Per alcuni
il reddito corrente può essere talmente elevato da non avere
il tempo di consumarlo tutto (v. cap. 2). In questi casi "il
risparmio è il risultato non voluto di decisioni di guadagno
e di spesa separate nel tempo e tra di loro non coordinate" (v.
Scitovsky, 1986, p. 72, corsivo nostro).
6. Risparmio aggregato
La somma delle decisioni individuali su quanta parte del reddito
risparmiare porta a determinare il risparmio aggregato delle
famiglie. A questa grandezza vanno aggiunti i risparmi delle imprese
e del settore pubblico per ottenere il risparmio nazionale (v. cap.
1). In una economia aperta agli scambi internazionali un paese non
è vincolato a bilanciare risparmi e investimenti complessivi.
Se il risparmio nazionale eccede gli investimenti, il paese è
in surplus: cede risorse reali e acquista ricchezza finanziaria nei
confronti del resto del mondo. Se investe più di quanto
risparmia, il paese è in deficit: acquista risorse reali in
cambio di ricchezza finanziaria (liquida attività finanziarie
o aumenta il proprio indebitamento sull'estero). Si tratta di
definizioni contabili che valgono sia a livello individuale (v. cap.
2) sia a livello aggregato. L'analisi del risparmio che si forma in
un sistema economico e delle determinanti della sua evoluzione
richiede l'individuazione non solo del contributo di ciascun gruppo
di operatori, ma anche degli effetti di composizione tra le varie
fonti di risparmio e, in particolare, delle interazioni possibili
tra risparmio delle famiglie, delle imprese e del settore pubblico.
a) Risparmio delle famiglie
L'insieme dei fattori che influiscono sulle decisioni
individuali di risparmiare, preso in esame nei capitoli precedenti,
può dar luogo a effetti di composizione sul risparmio
aggregato nella misura in cui essi agiscono in modo diverso nel
tempo e tra le varie categorie di individui. Una forma sintetica in
uso nella letteratura (v. Hammer, 1986; v. Bosworth e altri, 1991)
per mettere in evidenza questi effetti è data dalla seguente
formula,
nella quale a livello aggregato la propensione media al risparmio
delle famiglie sf=Sf/Yf viene ottenuta dalla sommatoria delle
propensioni medie sg di ciascun gruppo di famiglie g ponderate per
le rispettive quote in termini di reddito yg=Yg/Yf, e di popolazione
qg=Pg/P. Se tutti i gruppi avessero la stessa propensione al
risparmio, una variazione dei pesi yg e qg non avrebbe alcuna
influenza sulla propensione aggregata. Al contrario, in presenza di
gruppi di famiglie con diverse propensioni a risparmiare, la
propensione media aggregata al risparmio può variare in
seguito a mutamenti che intervengano in almeno uno dei tre fattori
esplicitati nella sommatoria. Ciò significa, ad esempio, che
una diminuzione nella quota di reddito risparmiata dalle famiglie
può dipendere non solo da una minore propensione al risparmio
dei singoli gruppi di famiglie, ma anche da una redistribuzione di
reddito a favore dei gruppi meno propensi a risparmiare, o anche da
un crescente peso di questi gruppi in termini di quote di
popolazione.I gruppi di famiglie significativamente rilevanti per
l'analisi della formazione del risparmio aggregato possono essere
formati in base a varie caratteristiche distintive. Le più
comuni sono la classe di reddito e l'età del capofamiglia.
Sono certamente importanti anche altri fattori, alcuni già
messi in evidenza nei capitoli precedenti, vale a dire: il tipo di
reddito (autonomo o dipendente), le sue prospettive, il tempo di
permanenza in una data classe di reddito e le abitudini conseguenti,
la dotazione di ricchezza accumulata, la disponibilità di
credito, la dimensione della famiglia, il luogo nel quale essa vive
e il contesto sociale di riferimento, le forme previdenziali scelte,
il sistema dei valori che regola i rapporti intergenerazionali
(egoismo o altruismo). Nel lungo periodo è probabile che
entrino in gioco variazioni in molti di questi fattori con effetti
combinati sulla propensione media al risparmio che nell'aggregato
non sono facilmente prevedibili. È nota in letteratura la
divergenza di risultati nella stima della relazione
risparmio-reddito a seconda che si usino dati di breve periodo, con
indagini campionarie sui bilanci familiari in un determinato anno, o
serie storiche di lungo periodo. All'aumentare del reddito, la
propensione media al risparmio nel breve periodo risulta crescente,
come previsto dalla teoria keynesiana, mentre a lungo termine
risulta costante, a dimostrazione del fatto che, con il passare
degli anni, i mutamenti strutturali dell'economia tendono a
modificare i comportamenti degli operatori e quindi anche le
relazioni risparmio-reddito (v. Kuznetz, 1946).
D'altro canto, le stesse indagini sui bilanci familiari mettono in
evidenza che il passaggio a classi di reddito più elevate
comporta mutamenti sistematici in una serie di fattori, oltre al
reddito, che incidono direttamente sulla propensione al risparmio e
che, se ignorati, portano a sovrastimare l'effetto reddito su di
essa. Nell'aggregato, nelle classi superiori di reddito si riscontra
una maggiore presenza di attivi, di lavoratori indipendenti, di
capifamiglia in età matura, all'apice della carriera, che
hanno una maggiore propensione al risparmio degli inattivi, dei
lavoratori dipendenti, dei giovani agli inizi della carriera, che
sono più presenti nelle classi inferiori di reddito. Inoltre
nelle classi inferiori c'è una maggiore quota sia di famiglie
che avevano redditi passati più elevati sia di famiglie che
si attendono redditi futuri più elevati. Entrambi i gruppi
familiari tendono a risparmiare di meno, anche se per ragioni
opposte. Nel primo gruppo prevalgono i fattori di inerzia
nell'adattare il tenore di vita a un reddito calante; nel secondo
prevalgono i fattori di spinta ad anticipare il tenore di vita di un
reddito atteso crescente. Il contrario avviene nelle classi
superiori di reddito, dove la combinazione prevalente è
quella di famiglie che in passato avevano redditi inferiori e di
famiglie che in futuro si attendono (o temono) una flessione delle
possibilità di guadagno. Sulle prime agiscono fattori di
inerzia nell'adattarsi alle maggiori potenzialità di spesa;
sulle seconde agiscono fattori precauzionali che le portano a
contenere i consumi. Il risultato congiunto della provenienza da
classi di reddito inferiori e del timore di tornarci porta a
incrementare i consumi in misura meno che proporzionale e i risparmi
in misura più che proporzionale all'aumentare del livello di
reddito.
Questi fattori dinamici contribuiscono a spiegare la relazione
diretta che si riscontra tra il tasso di sviluppo e la quota
aggregata di risparmio. Modigliani (v., 1986) sottolinea come questa
relazione si ottenga soprattutto come risultato di una variazione
dei pesi nella distribuzione del reddito tra attivi e inattivi,
visto che un alto tasso di crescita avvantaggia i primi rispetto ai
secondi. Le rilevazioni statistiche mettono in evidenza che nei
paesi e, per ciascun paese, nei periodi in cui si registrano alti
tassi di sviluppo la propensione al risparmio tende ad aumentare
rispetto a quanto accade dove e quando il tasso di sviluppo è
inferiore. Un esempio emblematico è fornito dai mutamenti di
tendenza che sono apparsi evidenti nell'ultimo quarto del XX secolo
nell'economia mondiale. Dopo le crisi petrolifere degli anni
settanta nei maggiori paesi industrializzati, tra i quali l'Italia,
si è registrata una flessione nei tassi di sviluppo e una
concomitante flessione nella quota di reddito risparmiato. Questo
risultato è stato ottenuto in presenza di altri mutamenti
significativi e interrelati, quali la flessione nel tasso di
crescita della popolazione, la liberalizzazione dei mercati
finanziari, l'incremento dei deficit e dei debiti del settore
pubblico.L'inversione di tendenza nello sviluppo demografico
è la risultante dell'aumento della speranza di vita e della
caduta del tasso di fertilità, che a loro volta sono una
delle conseguenze degli alti livelli di sviluppo raggiunti dai paesi
avanzati (a seguito degli alti tassi di sviluppo dei decenni
precedenti). Si assiste a un progressivo invecchiamento della
popolazione, con un effetto netto sulla formazione del risparmio
aggregato destinato a cambiare di segno nel tempo. In una prima fase
prevale l'effetto positivo del declino della quota di inattivi
giovani, dovuto alla minore natalità. Successivamente
è da attendersi che prevalga l'effetto negativo della quota
crescente di inattivi anziani, dovuto al prolungamento della vita.
Nella maggior parte dei paesi industrializzati si è avuta una
flessione della propensione a risparmiare pur in presenza di
un'evoluzione della struttura per età della popolazione che
nell'ultimo quarto di secolo è stata ancora favorevole alla
formazione di risparmio. Ciò significa che, in questo
periodo, la caduta tendenziale della quota di reddito risparmiata
dalle famiglie è stata determinata principalmente da cause
extrademografiche, con la prospettiva di un aggravamento dovuto a
una progressiva inversione degli effetti demografici.
b) Risparmio privato e pubblico
Le indagini sui bilanci familiari condotte negli anni ottanta
(v. Bosworth e altri, 1991; per l'Italia, v. Jappelli e Rossi, 1989)
mettono in evidenza che non vi sono state differenze significative
per gruppi di età né, in primo luogo, nei livelli
delle quote di reddito risparmiate, né, in secondo luogo, nei
loro andamenti che registrano un calo generalizzato in tutti i
gruppi. Pertanto, l'impatto negativo della struttura per età
dovuto all'invecchiamento della popolazione, che come si è
detto non era ancora operante, non ci sarebbe comunque stato,
perché gli anziani non hanno mostrato una minore
capacità di risparmio rispetto agli attivi. Le cause
extrademografiche che, nel periodo preso in considerazione nella
nostra analisi, hanno contribuito all'attenuazione delle differenze
di comportamento dei gruppi familiari vanno ricercate principalmente
nell'ampia estensione della copertura del sistema di sicurezza
sociale e nella maggiore efficienza del sistema finanziario.
Più in generale, entrano in gioco le complesse interazioni
tra le famiglie e gli altri operatori istituzionali che partecipano
alla formazione, alla gestione e all'utilizzo del risparmio
nazionale: il settore pubblico, le imprese e gli intermediari
finanziari.
Nei principali paesi industrializzati il settore pubblico ha fatto
fronte alla flessione nei tassi di sviluppo con una politica fiscale
espansiva, derivante da minori entrate e da maggiori spese,
soprattutto per trasferimenti a sostegno dell'attività
economica e dei redditi. Quando ciò avviene si registra una
riduzione del risparmio pubblico a favore del reddito disponibile
del settore privato. Se il comportamento degli operatori privati non
cambiasse, si avrebbe un incremento del risparmio privato. In
realtà l'azione redistributiva dello Stato mette in moto una
serie di mutamenti comportamentali e di effetti di composizione, il
cui risultato netto finale sul risparmio privato non è
facilmente prevedibile. Dipende, innanzitutto, da quali categorie di
operatori vengono favorite dall'impatto fiscale espansivo. L'effetto
sul risparmio è certamente maggiore se quest'ultimo va a
vantaggio dei redditi delle imprese e degli occupati indipendenti, e
minore nel caso dei dipendenti, dei disoccupati, degli inattivi (v.
Fuà, 1961). In secondo luogo, dipende dalle forme di
intervento. Una politica espansiva nella sicurezza sociale che vada
a vantaggio dei pensionati e sia condotta, con un sistema a
ripartizione, in deficit tra oneri pagati dagli attivi e
trasferimenti pubblici erogati agli inattivi anziani (quindi a danno
del risparmio pubblico), ha due effetti contrastanti sul risparmio
aggregato delle famiglie. Da un lato sostiene i redditi degli
anziani e, di conseguenza, la loro capacità di risparmiare;
dall'altro induce gli attivi a risparmiare meno, perché si
sentono più tutelati per la vecchiaia. Entrambi gli effetti
contribuiscono a spiegare il livellamento verso il basso della
propensione al risparmio per gruppi di età rilevato dalle
indagini campionarie. Questo meccanismo ha operato in modo evidente
in Italia (v. Rossi e Visco, 1995), dove la politica della sicurezza
sociale è stata molto espansiva e dove il graduale passaggio
a una politica più restrittiva a partire dagli anni novanta
determina una sensibile inversione di tendenza nel comportamento dei
risparmiatori. Una terza possibile connessione tra risparmio
pubblico e risparmio privato passa attraverso il debito pubblico,
che provoca un effetto flusso e un effetto stock. Il flusso di
interessi pagati a servizio del debito aumenta il reddito
disponibile dei possessori di titoli pubblici e, per questa via, ne
sostiene il risparmio. Lo stock di titoli pubblici può avere
un'influenza ambigua sulla propensione al risparmio del settore
privato, che diminuisce se i titoli pubblici vengono considerati
ricchezza effettiva o, al contrario, aumenta se i privati sono
lungimiranti e altruisti (verso le generazioni future) al punto da
accumulare di più in vista di future tasse per ripagare il
debito (v. Barro, 1974). La rilevanza empirica di quest'ultimo
effetto di compensazione tra risparmio privato e debito pubblico
è controversa. Modigliani e Jappelli (v., 1993) escludono che
abbia operato per l'Italia, dove hanno invece agito l'inflazione e
l'illusione monetaria. In termini reali il risparmio pubblico
è stato maggiore e quello privato minore di quanto registrato
in termini nominali.
La necessità di collocare e di gestire un debito pubblico
più elevato e di contenere un possibile effetto spiazzamento
a danno del finanziamento degli investimenti privati ha indotto i
paesi industrializzati a liberalizzare i sistemi finanziari e, per
questa via, a favorire la concorrenza, la circolazione e
l'innovazione dei flussi finanziari. Questa politica ha sviluppato
un più efficiente collegamento tra operatori in surplus e
operatori in deficit e ha consentito di attenuare i vincoli di
liquidità, a vantaggio non solo della spesa pubblica e degli
investimenti, ma anche della propensione a consumare. È
questa una delle spiegazioni più plausibili della flessione
generalizzata della propensione al risparmio. I mercati finanziari
più efficienti aumentano le possibilità di
diversificazione e di copertura dei rischi, diffondono le
informazioni a disposizione degli operatori, riducono l'illusione
monetaria, rendono più trasparenti e significativi i prezzi e
i rendimenti delle attività finanziarie pubbliche e private.
7. Effetti macroeconomici del risparmio
Le varie posizioni assunte riguardo al ruolo e agli effetti del
risparmio possono essere ricondotte essenzialmente a due tesi
contrapposte. Da un lato vi sono coloro che vedono nel risparmio la
fonte da cui trae alimento il processo di accumulazione del capitale
e della ricchezza di un paese, per i quali esso non può
rappresentare un ostacolo alla piena occupazione delle risorse.
Dall'altro lato vi sono coloro che considerano il risparmio come una
conseguenza dello sviluppo economico, la quale, a sua volta, in
certe circostanze, può provocare una interruzione del
processo di sviluppo e determinare il ristagno della produzione e
dell'occupazione. In definitiva, mentre per i sostenitori della
prima tesi il risparmio è una virtù non solo
individuale, ma anche collettiva, per coloro che sostengono la
seconda tesi il risparmio da 'virtù privata' può
trasformarsi, nel processo di aggregazione, in 'pubblico vizio'.
a) Il risparmio come 'pubblica virtù'
La radice fondamentale di questa tesi si ritrova nel pensiero
dei classici, secondo i quali il reddito non consumato viene sempre
immediatamente impiegato per occupare lavoratori produttivi (v.
§ 5a). Questi, essendo in grado con il loro lavoro di
riprodurre un valore superiore a quello del salario loro versato,
assicurano un guadagno al risparmiatore sotto forma di profitti o di
interessi e consentono al sistema economico di svilupparsi. Il
risparmio volontario è, dunque, un ingrediente indispensabile
al processo di crescita economica. "La parsimonia, e non
l'operosità - scrive Smith (v., 1776; tr. it., p. 332) -
è la causa immediata dell'incremento del capitale". Sebbene
il risparmio consenta all'economia di crescere, l'operare della
legge dei rendimenti decrescenti gli impedisce di influenzare il
tasso di crescita di lungo periodo: con il procedere
dell'accumulazione la produttività del lavoro tenderà
costantemente a ridursi, finché l'economia raggiungerà
lo stato stazionario. Il risparmio, attraverso l'accumulazione del
capitale, può però favorire il progresso tecnico, che,
come l'esperienza storica insegna, può rallentare l'operare
di questa legge. Infine, l'identificazione delle decisioni di
risparmio e di investimento consente ai classici, con le eccezioni
di Malthus, Sismondi e Marx, di accogliere senza riserve la legge di
Say (o legge degli sbocchi), per la quale ogni offerta crea la
propria domanda effettiva, che mai può rappresentare un
fattore limitativo della produzione.
Nonostante il contesto analitico sia nettamente distinto, sugli
effetti del risparmio la teoria neoclassica giunge a risultati
simili a quelli ottenuti dall'economia classica. I neoclassici
scartano l'ipotesi che risparmio e investimento siano identici e
riconoscono che le scelte di risparmiare e di investire sono, in
genere, da attribuire a individui diversi. Tuttavia esiste un
meccanismo di mercato in grado di assicurare l'uguaglianza tra le
due grandezze. Tale meccanismo viene individuato nelle variazioni
del tasso di interesse, visto come il prezzo richiesto dai
risparmiatori per astenersi dal consumo presente e versato dagli
investitori per realizzare l'accumulazione di capitale desiderata.
Ciò fa sì che, sia pure attraverso una strada
differente, la legge di Say trovi conferma anche nella teoria
neoclassica: tutto il reddito distribuito viene interamente speso, o
nell'acquisto di beni di consumo o in beni di investimento, e il
risparmio non può mai essere in eccesso rispetto alle
esigenze del sistema economico. Così come nei classici, anche
nella teoria neoclassica tradizionale il saggio di risparmio non
è in grado di influenzare nel lungo periodo il tasso di
crescita di equilibrio. Per la produttività marginale
decrescente del capitale, l'accumulazione non andrà oltre il
punto in cui il rendimento di un nuovo investimento è pari al
sacrificio di ritardare il consumo. Solo a partire dal lavoro di
Paul Romer (v., 1986), nell'ambito dell'economia neoclassica sono
stati sviluppati nuovi modelli teorici (i cosiddetti modelli di
crescita endogena) che, rimuovendo in forme diverse l'ipotesi di
produttività marginale decrescente del capitale, hanno
mostrato che un aumento della propensione al risparmio porta con
sé anche un incremento del tasso di crescita di lungo periodo
(v. Barro e Sala-i-Martin, 1995).
b) Il risparmio come 'pubblico vizio'
L'avversione nei confronti del risparmio è un
atteggiamento molto antico. Secondo Schumpeter (v., 1954; tr. it.,
vol. I, p. 397), Turgot nel sostenere, nelle Réflexions del
1766, che è la parsimonia la causa immediata
dell'accumulazione di capitale e dello sviluppo dell'economia
"rompeva con una tradizione ostile al risparmio", di cui la Favola
delle api scritta da Bernard de Mandeville nel 1714 era una delle
espressioni più autorevoli. Tuttavia, le prime formulazioni
organiche dell'argomento si ritrovano negli scritti di Lauderdale,
Malthus e Simonde de Sismondi. In particolare Malthus, nella famosa
controversia con Ricardo sulla possibilità che nel sistema
economico si venga a formare un eccesso generalizzato di offerta di
merci, ammoniva che "la conversione del reddito in capitale spinta
fino a un certo punto deve lasciare disoccupate le classi
lavoratrici diminuendo la domanda effettuale di prodotti" (v.
Malthus, 1836²; tr. it., p. 284). In casi simili, "l'adozione
di abitudini parsimoniose oltre un certo limite può essere
accompagnata subito dagli effetti più disastrosi, e in
seguito da una notevole diminuzione della ricchezza e della
popolazione" (ibid.). Sebbene si discuta in che misura Malthus possa
essere considerato un precursore di Keynes (v. le diverse posizioni
di Garegnani, 1964-1965; v. Pasinetti, 1974; v. Graziani, 1980), a
lui va quantomeno ascritto il merito di aver intuito che la domanda
effettiva di prodotti può rappresentare un fattore limitativo
della produzione.
L'idea, invece, che l'esistenza preventiva di risparmio volontario
sia condizione necessaria a che possa essere attuato un investimento
produttivo viene posta esplicitamente in discussione da Joseph
Schumpeter (v., 1934⁴). In un'economia monetaria un imprenditore,
per avviare una nuova attività produttiva, ha bisogno di
moneta al fine di procurarsi i mezzi di produzione e può
ottenerla solo in due modi: distogliendo dalla circolazione quella
già esistente, cioè raccogliendo i risparmi, oppure
ottenendo un finanziamento dalle banche che creano così nuova
moneta. Tuttavia, se si fa un passo indietro, è facile
rendersi conto che i risparmi monetari derivano dai redditi
distribuiti in passato, ossia dallo svolgimento di precedenti
attività produttive. Ciò implica che "se
considerassimo il risparmio come uno dei fattori principali, dai
quali trae origine il cambiamento economico, includeremmo tra le
premesse parte di quanto invece cerchiamo di spiegare" (v.
Schumpeter, 1939; tr. it., p. 109). Quindi, l'ipotesi che le risorse
monetarie necessarie all'attività produttiva provengano solo
dai risparmi è, in teoria e in pratica, insostenibile. Per
quanto riguarda le risorse reali da impiegare nella nuova
attività produttiva, queste, se già pienamente
occupate nella produzione, saranno sottratte agli impieghi
precedenti attraverso un aumento dei prezzi (reso possibile
dall'espansione del credito) che comprimerà il valore reale
dei redditi esistenti e imporrà ai loro possessori un
risparmio forzato. In conclusione, per Schumpeter il risparmio
è un fenomeno che trova spiegazione nello sviluppo economico,
piuttosto che esserne la causa.Ma è con Keynes che la tesi
della inessenzialità del risparmio per la produzione e dei
suoi potenziali effetti negativi sull'occupazione ottiene la
formulazione più nota e completa. Nel criticare la legge di
Say e nel proporre il principio della domanda effettiva, Keynes
parte dalla considerazione che, mentre è sempre vero che il
valore della produzione coincide con la somma dei redditi
distribuiti, nulla garantisce che il valore delle vendite sia pari
al costo della produzione. Poiché l'obiettivo delle imprese
è quello di realizzare profitti, saranno le prospettive
concrete di vendita a governare le scelte di investimento. Per
Keynes investimenti e risparmi non dipendono dalle stesse variabili.
La domanda di investimenti dipende dal confronto tra le prospettive
di profitto, che trovano espressione nell'efficienza marginale del
capitale, e il tasso di interesse a cui l'impresa può
indebitarsi. Il risparmio è legato al reddito corrente
secondo la "legge psicologica fondamentale" (v. § 5b). Un atto
di risparmio, sostiene Keynes (v., 1936; tr. it., p. 373), "non
è una sostituzione di una domanda futura a una domanda
presente di consumo, ma è una diminuzione netta di tale
domanda". Perciò la domanda effettiva può risultare
inferiore al reddito distribuito e la piena occupazione non
realizzarsi. Il risparmio, inoltre, non assumendo la forma di una
domanda futura di un bene specifico, potrebbe addirittura
contribuire a deprimere, piuttosto che a stimolare gli investimenti.
D'altra parte in Keynes il risparmio non ha nemmeno un'influenza
diretta sul tasso di interesse, che viene "determinato esogenamente
rispetto al processo di generazione del reddito" (v. Pasinetti,
1974; tr. it., p. 65). Non esiste un saggio di interesse 'naturale'
che eguagli risparmio e investimento e in corrispondenza del quale
la legge di Say sia rispettata. L'interesse è un fenomeno
puramente monetario, "altamente convenzionale", che dipende dalle
scelte delle autorità monetarie e dalle attese degli
operatori. Di qui, la ben nota conclusione "fondamentale" cui giunge
Keynes, secondo la quale, "il mercato degli investimenti può
divenire congestionato a causa della mancanza di liquidità.
Mai potrà essere congestionato per una carenza di risparmio"
(v. Keynes, 1937, p. 669). Definito il tasso di interesse in maniera
indipendente dal risparmio, nel mercato si formerà una
domanda autonoma di investimenti che, attraverso il meccanismo del
moltiplicatore della spesa, determinerà il livello di
equilibrio del reddito (non necessariamente di piena occupazione) e
consentirà la formazione di un ammontare di risparmi
esattamente pari agli investimenti. È pertanto il risparmio
che si adegua al livello degli investimenti deciso autonomamente
dalle imprese, e non viceversa.L'analisi della relazione
risparmi-investimenti di Schumpeter e di Keynes è stata di
recente ripresa e sviluppata, sia pure in modi diversi, dalle teorie
postkeynesiane, da quelle neoricardiane e dalle teorie circuitiste
(per una rassegna, v. Lavoie, 1992; v. Graziani, 1994).