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Uomo politico italiano (Mordano 1895 - Bologna 1988). Combattente
della prima guerra mondiale, dirigente del fascismo emiliano
(deputato dal 1921), passò da posizioni rivoluzionarie a
posizioni più moderate e filocostituzionali. Membro del Gran
Consiglio del fascismo dal 1923, sottosegretario agli Interni
(1924-25) e agli Esteri (1925-29), ministro degli Esteri (1929-32),
ambasciatore a Londra (1932-39; notevole la sua politica di
riconciliazione con l'Inghilterra), ministro guardasigilli (1939;
riforma fascista dei codici) e presidente della Camera dei fasci e
delle corporazioni. La seduta del Gran Consiglio del 24 luglio 1943
e l'ordine del giorno che vi trionfò furono opera di G. (che
era stato contrario all'entrata in guerra), il quale fu pertanto
condannato a morte in contumacia dal tribunale di Verona (1944). Nel
dopoguerra visse all'estero e trascorse in Italia gli ultimi anni.
Pubblicò volumi di memorie.
*
DBI
di Paolo Nello
GRANDI, Dino. - Nacque a Mordano, presso Imola, il 4 giugno 1895, da
Lino e Domenica Gentilini.
Il padre era un piccolo imprenditore agricolo fattosi da sé;
la madre una maestra elementare. In famiglia il G. respirò
un'aria di robusto patriottismo, alimentata da memorie
risorgimentali ancora fresche; e si appassionò presto alla
politica in un clima caratterizzato dalle lotte contadine della
Valle Padana. In casa poté conoscere A. Costa, amico dei
suoi; ed ebbe, come insegnanti elementari, un socialista e un
repubblicano, protagonisti di accese discussioni col padre, liberale
e monarchico, ma con un debole per la passione nazionale di G.
Mazzini.
Al liceo classico Ariosto di Ferrara il G. incontrò Italo
Balbo, fervente repubblicano; e si accostò a Pagine libere,
rivista di un sindacalismo rivoluzionario attivissimo nella
città estense. Nel pensionato cattolico, dove viveva, il G.
fu introdotto alle idee della Lega democratica nazionale
postmurriana, per la quale inizialmente simpatizzò.
Innamoratosi delle opere di A. Oriani, seguì con passione le
riviste allora dette d'avanguardia, con particolare interesse per La
Voce di G. Prezzolini. Si formò, così, nell'atmosfera
severamente contestatrice del giolittismo in nome del nazionalismo e
del radicalismo nazionale in politica e del neoidealismo e delle
"filosofie della vita" sul piano della lotta al positivismo in campo
culturale.
Iscrittosi, nel 1913, a giurisprudenza nell'ateneo bolognese, il G.
si scoprì vocato alla professione giornalistica. Decisivo fu
l'incontro con N. Quilici e, tramite lui, con M. Missiroli,
direttore de Il Resto del carlino.
Il primo lo avviò al praticantato, portandoselo dietro, fra
l'altro, sia a Vienna alla vigilia dell'attentato di Sarajevo, sia a
Roma, dove il G. fece il "pastonista" parlamentare, timidamente
accostandosi agli ambienti del grande giornalismo dell'epoca
(conobbe anche personalmente Prezzolini). Il secondo gli fece da
maestro; e in specie la sua opera Monarchia socialista
rafforzò nel G. la convinzione che la questione sociale
dovesse trovare la sua soluzione in un rinnovamento e potenziamento
della funzione dirigente del liberalismo senza cedimenti alla
controcultura socialista. Solo così il movimento di ascesa
dei ceti popolari avrebbe potuto servire la causa del compimento
dello Stato risorgimentale, eliminando la frattura tra paese legale
e paese reale con la nazionalizzazione delle masse; mentre G.
Giolitti era accusato di indebolire lo Stato, "infeudandone" pezzi
alle organizzazioni extraistituzionali e internazionalistiche del
socialismo. Non stupisce che il G., spintovi dallo stesso Quilici,
abbia più che simpatizzato, in questo periodo, per il
"giovane liberalismo" di G. Borelli, e poi per i gruppi
nazional-liberali, staccatisi dall'Associazione nazionalista
italiana dopo la sua svolta antiliberale del 1914. Tanto da operare,
il G., nel 1915, quale segretario di redazione del neonato
settimanale L'Azione, fondato e diretto da P. Arcari e A. Caroncini
(allievo di V. Pareto e M. Pantaleoni e professore a Bologna).
Inviato dal Resto del carlino a raccogliere notizie sulla famosa
riunione della direzione socialista che espulse B. Mussolini, nel
novembre 1914, il G. volle, tuttavia, manifestare subito per
iscritto la sua ammirazione per il "convertito" all'interventismo.
Le cui ragioni finì per condividere assai più di
quelle di A. Salandra, tanto da essere protagonista, insieme con S.
Panunzio, del grande comizio studentesco per la guerra, organizzato
all'Università di Ferrara, nell'aprile 1915, dal Fascio
rivoluzionario estense.
Entrata l'Italia nel conflitto nel maggio successivo, il G.
presentò invano domanda di arruolamento volontario.
Richiamato alle armi con la sua classe, fu ufficiale degli alpini,
guadagnandosi sul campo la promozione a capitano, oltre a una
medaglia d'argento e a una di bronzo.
Partì con la camicia rossa sotto quella di ordinanza e con
l'entusiasmo tipico della sua generazione educata alla scuola
"carducciana"; convinto, come tanti coetanei, di andare a compiere
il Risorgimento con una guerra di popolo, che avrebbe "educato" e
"riformato" la nazione, costituendola in unità morale e
proiettandola da protagonista sul proscenio europeo. La lunga e dura
realtà del conflitto di trincea, così poco
romanticamente garibaldino e così tanto anonimo nella sua
natura di estenuante cozzo di logoramento di mezzi e di masse, lo
restituì al dopoguerra voglioso, soprattutto, di
normalità privata.
Approfittando delle speciali provvidenze per gli studenti ex
combattenti, tra la fine del 1919 e i primi del 1920 il G. si
laureò e conseguì il diploma di procuratore legale. La
sua tesi in economia politica, per la quale chiese lumi anche a
Pareto, G. Salvemini e F. Turati, e di cui fu relatore F. Flora,
rivelava fin dal titolo una fede liberista: "La Società delle
Nazioni e il libero scambio", visto, quest'ultimo, quale unica
soluzione per impedire una nuova "lotta di classe internazionale"
fra nazioni "proletarie" e nazioni "plutocratiche".
Il G. continuava, infatti, a proclamarsi liberale, come attestato
dalla sua assidua collaborazione a La Libertà economica di A.
Giovannini; ma coniugava tale idea con categorie desunte dal
nazionalismo, dagli eretici della sinistra, da certe sintesi operate
nel crogiolo interventista. Fu, pertanto, convinto assertore della
tesi dei due pesi e delle due misure adottate dagli ex alleati in
materia di giustizia internazionale, con conseguente "mutilazione"
della vittoria italiana; avversò duramente il "bolscevismo"
nostrano, ma sperò in una conversione al liberalismo e alla
nazione del socialismo riformista; considerò positivamente il
leninismo quale atto di ribellione di una nuova Russia
nazionalrivoluzionaria alle "prepotenze" degli occidentali,
equiparando il significato di tale rivoluzione a quello, per
l'Italia, dell'impresa fiumana di G. D'Annunzio.
Deluso dagli esiti di un dopoguerra così diverso dai sogni
del "maggio radioso", e ormai rassegnato alla resa dello Stato
liberale, la cui classe dirigente gli appariva incapace di
rinnovarsi, il G. si sarebbe probabilmente dedicato solo
all'avvocatura o al giornalismo, se non fosse stato fatto oggetto, a
Imola, di un attentato da parte di elementi dell'estrema sinistra
nell'ottobre 1920. Subito dopo i tragici fatti di palazzo d'Accursio
(21 novembre), il G. si iscrisse al Fascio di combattimento di
Bologna, dove assunse immediatamente un ruolo di primo piano, come
direttore dell'organo L'Assalto, per divenire in seguito segretario
politico regionale dei fasci emiliano-romagnoli.
Inizialmente il G. attribuì al fascismo una semplice funzione
"reattiva", di restaurazione della legalità, tanto da cercare
un dialogo con i socialisti per convincerli a schierarsi su
posizioni turatiane. Ma poi il solco scavato dalle violenze,
l'entusiasmo per le vittorie conseguite dallo squadrismo, la nuova
realtà dei sindacati nazionali edificati sulle macerie delle
brutalizzate organizzazioni della sinistra, persuasero il G. del
contrario. E cioè che il fascismo, pur rimanendo, alla lunga,
un fenomeno transitorio, rappresentasse in toto la nazione, e che,
dunque, da esso sarebbero dovuti nascere nuovi partiti e sindacati
in sostituzione di quelli vecchi, giudicati o antinazionali o
nazionalmente inadeguati.
Eletto deputato nella lista del Blocco nazionale nel maggio 1921 (ma
dichiarato decaduto, perché sotto i trent'anni, nel giugno
1922), il G. si oppose al patto di pacificazione (voluto da
Mussolini nell'estate di quello stesso anno) per non privare i
sindacati nazionali della Valle Padana dell'indispensabile ombrello
dello squadrismo.
La contestazione dei fascisti padani fu, allora, durissima, al punto
da causare quasi la spaccatura del movimento; e proprio il G., con
Balbo, venne inviato a visitare D'Annunzio a Gardone per offrirgli
la guida dello squadrismo ribelle. La deludente risposta del "vate",
la constatazione che per il fascismo Mussolini rimaneva un leader
insostituibile, l'esperienza del congresso romano dell'Augusteo -
tenutosi, nel novembre successivo, al chiuso d'un teatro e in un
clima quasi di "assedio" -, così inusitata per capi e capetti
abituati a spadroneggiare in periferia, convinsero il G. della
bontà di molte delle ragioni del contestato. Perciò,
una volta ottenuti il sacrificio del patto e il riconoscimento del
peso del fascismo padano in un movimento non più solo
"milanese", il G. fu il primo, fra i "signori" della rivolta, a
rendersi conto della necessità di assecondare la linea
politico-parlamentare di Mussolini, giudicando assolutamente
velleitaria, e quindi suicida, l'opposta attitudine "rivoluzionaria"
dei ras di provincia.
Durante la marcia su Roma il G. - capo di stato maggiore del
quadrumvirato fascista - fu persino più moderato di
Mussolini: tanto da dover subire l'accusa di tentata "mutilazione"
della vittoria per essersi dichiarato favorevole a una soluzione
V.E. Orlando o Salandra. Sottoposto a un periodo di "quarantena"
politica, nel corso del quale rifiutò di fatto l'offerta
mussoliniana del vicecommissariato generale per l'emigrazione, il G.
fu poi eletto deputato nell'aprile 1924, e ricoprì la carica
di vicepresidente della Camera. Durante la crisi seguita
all'assassinio di G. Matteotti il G. sostenne intransigentemente
Mussolini, da cui fu nominato sottosegretario all'Interno nel luglio
1924 (ministro L. Federzoni).
Al Viminale il G. si distinse per il totale allineamento con le
posizioni di Mussolini: avverso, ovviamente, all'antifascismo,
contrastò anche l'"illegalismo" del radicalismo fascista,
predicando l'assoluta necessità della "normalizzazione" del
Partito nazionale fascista (PNF) e della sua stretta subordinazione
allo Stato. Agli uni oppose il principio dell'irreversibilità
della conquista fascista del potere; agli altri il dovere per il
fascismo, ottenuto il governo, di farsi Stato, risolvendo la
rivoluzione in una nuova legalità, con inevitabile sacrificio
della "santa canaglia" estremista, da lui giudicata sempre dannosa
una volta finito il tempo delle barricate. Non a caso, quando a
Firenze, il 31 dic. 1924, a tre giorni dal famoso discorso
mussoliniano alla Camera del gennaio 1925, le camicie nere di T.
Tamburini si presentarono in forze davanti al carcere delle Murate
per liberare i camerati reclusi, il G. ordinò personalmente
ai carabinieri di sparare sui fascisti in caso di attacco.
Nel maggio 1925 il duce volle il G. sottosegretario agli Esteri
(ministro Mussolini) con l'esplicito incarico di fascistizzare un
dicastero quasi nemmeno lambito dai nuovi venuti. Sulle prime il G.
non apprezzò affatto questo suo allontanamento dalla politica
interna e di partito (a vantaggio di L. Arpinati a Bologna), e
giudicò la decisione un ingrato cedimento alle richieste del
segretario del PNF, R. Farinacci (cogliendo in parte nel segno). Ben
presto, tuttavia, la scelta mussoliniana si dimostrò
azzeccata e lo stesso G. arrivò a definire gli Esteri la vera
vocazione della sua vita.
L'opera del G. consistette essenzialmente nella massiccia
immissione, mediante concorso, di elementi fascisti nei ruoli
ministeriali, nell'assunzione in proprio delle funzioni di
segretario generale (cioè di capo della "carriera"), nella
ristrutturazione del dicastero e nella riforma dell'intero
ordinamento diplomatico e consolare.
Nel settembre 1929 il G. fu promosso ministro con l'incarico di
rendere unitaria, organica e autonoma la politica estera italiana.
Ormai pressoché risolto il problema della stabilizzazione del
regime, e parzialmente rimessasi in movimento la situazione
internazionale, il duce intendeva dinamicizzare la diplomazia
fascista, fin lì subalternizzata alle esigenze prioritarie
della politica interna. Di qui la decisione di "delegare" a un altro
la conduzione del ministero, anche per poter eventualmente usare il
G. come capro espiatorio in caso di insuccesso. La scelta
dimostrava, poi, quanto Mussolini apprezzasse il lavoro di un uomo
che identificava ormai il fascismo nella dittatura "di salute
pubblica" del duce e concepiva il rapporto tra quest'ultimo e i
gerarchi nei termini di quello tra Napoleone e i suoi marescialli.
La consegna ricevuta dal "capo" prevedeva che l'Italia approfittasse
del rinnovato attrito franco-tedesco, dopo la fase distensiva di A.
Briand e G. Stresemann, per costringere Parigi a soddisfare le
richieste di Roma, ottenendone in cambio la collaborazione per la
difesa dell'ordine europeo.
Pur consapevoli che la questione dell'indipendenza austriaca avrebbe
continuato a dividere Italia e Germania, Mussolini e il G.
intendevano esibire una politica di "fredda equidistanza" tra Parigi
e Berlino per convincere la prima a saldare il "debito" contratto
con gli Italiani nel 1919 a Versailles. In tale ottica sarebbe stato
necessario conseguire l'obiettivo dell'intesa con la Francia prima
che la Germania costituisse una minaccia reale per tutti; impresa,
questa, per nulla facile, visto che Parigi riteneva di avere con
Roma il coltello austriaco dalla parte del manico, e che l'Italia
pretendeva di essere riconosciuta dalla Francia come grande potenza
a livello paritario in Europa e nel Mediterraneo.
Per premere sulla controparte il G. finì per giudicare non
sufficienti né le iniziative antifrancesi nell'area
danubiano-balcanica (satellizzazione dell'Albania, nonché
sostegno al revisionismo ungherese e ai separatismi macedone e
croato), né i segnali distensivi lanciati alla Germania.
Decise, allora, di mutare atteggiamento nei confronti della
Società delle Nazioni, trasformandola nel polmone della sua
azione diplomatica. E ciò non per un improvviso amore per
l'istituzione tanto invisa al fascismo quanto per l'opinione che
Ginevra fosse comunque la sede di dibattimento delle grandi
questioni europee e potesse costituire un ottimo campo di manovra
per una potenza mirante a ottenere per via diplomatica un rango
superiore a quello corrispondente alla sua effettiva forza economica
e militare. Occorreva, in sostanza, mostrarsi sostenitori della
Società delle Nazioni al solo scopo di servirsene in funzione
dei programmi italiani.
Autorizzato da Mussolini all'impiego del "più spudorato
linguaggio della menzogna", il G. inaugurò una stagione del
tutto anomala nella politica estera fascista, caratterizzata da una
linea apparentemente societaria, locarnista, persino disarmista e
pacifista. Tutto ciò al fine di accreditare gli Italiani
presso gli Inglesi (e, al di fuori della Società delle
Nazioni, presso gli Americani) quali soci più affidabili dei
Francesi in materia di stabilizzazione europea, "nevrastenizzando"
al contempo Parigi con l'attraversare sistematicamente i suoi piani,
col patrocinare la causa della pari dignità tedesca, con
l'avanzare proposte miranti a far ricadere sulla Francia la
responsabilità dell'eventuale fallimento delle trattative in
corso sul disarmo (a proposito delle quali basterà ricordare
la Conferenza navale di Londra del 1930 e quella generale di Ginevra
del 1932).
L'azione del G. valse, indubbiamente, ad accrescere il prestigio
internazionale dell'Italia fascista, che ebbe ottimi rapporti con
Londra e con Washington. Ma - a parte un'avance di P. Laval nel
luglio 1931, lasciata cadere da Roma, perché giudicata
prematura, nonostante un esplicito riferimento all'Etiopia - essa
non recò il frutto di un decisivo ammorbidimento francese,
né quello di una significativa pressione britannica su Parigi
a beneficio del punto di vista italiano. Al contrario, l'aggravarsi
della crisi economica e politica europea sfociò in un
rafforzamento dell'intesa anglo-francese, manifestatosi alla
Conferenza di Losanna sui debiti e le riparazioni di guerra, nel
luglio 1932. Già sottoposto a frequenti e pesanti critiche
all'interno per una politica giudicata contraria all'ideologia
fascista, il G. scontò l'insuccesso con il licenziamento,
svolgendo la funzione preventivata di capro espiatorio di una linea
voluta, in realtà, da Mussolini; anche se il G. aveva finito
per distinguervisi per fervore societario.
Fu Balbo, da tempo ai ferri corti con l'ex amico per rivalità
personale e per dissidio politico, a rendersi clamorosamente
portavoce, su Il Popolo d'Italia del 31 luglio, del malcontento
fascista e della volontà di uno stile più "littorio"
in diplomazia. Ma che il duce non fosse così insoddisfatto
del proprio collaboratore fu dimostrato dalla successiva
destinazione del G.: la strategica ambasciata di Londra. La Gran
Bretagna avrebbe dovuto svolgere un ruolo centrale nel progetto
mussoliniano di patto a quattro, ovvero di "direttorio" europeo, con
Roma e Londra a elementi arbitrali dell'attrito franco-tedesco,
negli auspici così foriero di una vantaggiosa, per l'Italia,
intesa italo-francese.
Il G. si era già attirato molte simpatie in terra d'Albione e
pareva l'uomo giusto per trattare con gli Inglesi; e, in effetti,
divenne un anglofilo sincero e adottò persino un certo stile
britannico. Non solo: come ambasciatore si dimostrò
abilissimo nello sfruttare l'arma dell'amicizia personale, comunque
cruciale con gli Anglosassoni. E non mancò di suscitare
l'ammirazione di diplomatici e politici operanti a Londra,
abbellendo la sede di Grosvenor square con opere d'arte prelevate
dai magazzini dei nostri musei, dove esse giacevano inutilizzate.
Riorganizzò, poi, tutta la "macchina" dell'ambasciata,
adeguandola, a modo suo, alle esigenze del regime cui apparteneva.
Grosvenor square divenne, pertanto, il centro di una molteplice
attività organizzativa e propagandistica, rivolta non solo
alla comunità italiana, ma anche agli interlocutori
britannici, e che tornò assai utile nei momenti di maggior
contrasto tra Roma e Londra, a cominciare dall'affaire abissino.
Freddo nei confronti dell'"universalfascismo" e ostile
all'interferenza ideologica nella politica estera, il G. sostenne le
camicie nere di O. Mosley più per dovere (cioè per
obbedienza a Roma) che non per convinzione. Salvo una prima, breve
illusione, egli non credette mai alla possibilità di una
"fascistizzazione" del sistema politico inglese; e dunque
giudicò più conveniente operare sui tradizionali
partiti britannici, senza escludere i laburisti, almeno fino alla
crisi etiopica. Con i conservatori, infatti, il G. giocò la
carta del Mussolini anticomunista e "disciplinatore" del popolo
italiano; con i laburisti quella del Mussolini riformatore sociale,
grazie al corporativismo; con entrambi valorizzò la ben
diversa moderazione del duce rispetto ad A. Hitler sulle questioni
europee. Particolare fu la cura dedicata dal G. ai rapporti con la
stampa britannica; e in ciò gli giovò assai l'amicizia
acquisita con lord W. Beaverbrook e lord H. Rothermere, proprietari
di importanti testate.
Fermo alla concezione della transitorietà del fascismo (che,
a suo parere, in quanto regime a partito unico, non sarebbe
sopravvissuto a Mussolini) e a quella della sua esclusiva funzione
di strumento dell'imperialismo italiano, il G. non ebbe mai alcuna
debolezza per il nazionalsocialismo, se non come spauracchio da
agitare davanti alla Francia per costringerla a patti con l'Italia.
Fu, dunque, favorevole all'uso della carta tedesca a scopo tattico,
ma nella inalterata convinzione che gli interessi strategici di Roma
e Berlino rimanessero opposti. Persuaso, al pari di Mussolini, che i
tempi del revanscismo germanico sarebbero stati più lenti di
quanto poi, invece, avvenne, il G. giudicò raggiunti gli
obiettivi italiani con l'intesa Mussolini-Laval del gennaio 1935 e
con il "fronte di Stresa" dell'aprile successivo. Intransigente sul
"diritto" italiano a "marciare" in Etiopia, il G. arrivò ad
"annacquare" i rapporti inviati a Roma sull'ostilità inglese
alla campagna abissina, pur di spingere il duce a trarre il dado nel
momento della sua incertezza sull'attitudine britannica; e
contribuì a combinare un pasticcio, come dimostrato
dall'invio della Home Fleet nel Mediterraneo, in settembre, e dalle
sanzioni della Società delle Nazioni, in novembre. Capita
l'antifona, il G. usò lo stesso metodo per comporre quanto
prima il dissidio anglo-italiano e impedire un eccessivo
avvicinamento italo-tedesco.
Il G. e R. Vansittart, sottosegretario permanente al Foreign Office,
negoziarono di fatto il piano Laval-Hoare, che andò a un
passo dalla composizione diplomatica del conflitto già nel
dicembre 1935; e fu il G., disobbedendo a Mussolini, a votare con
Londra e Parigi contro Berlino, in sede di Consiglio della
Società delle Nazioni, sulla questione della
rimilitarizzazione della Renania (marzo 1936). Pure decisiva
risultò, naturalmente, la mediazione del G., a impresa
etiopica conclusa, per il ritiro della Home Fleet dal Mediterraneo e
la revoca delle sanzioni nel luglio 1936, tanto che il Daily Express
arrivò a definire l'ambasciatore italiano "the winner". Solo
l'inizio della guerra civile spagnola indusse un irritatissimo
Mussolini a non trasferire il G. a Rodi o Buenos Aires, come
suggerito dal geloso neoministro degli Esteri, G. Ciano, entrato in
carica nel mese precedente.
Gli anni seguenti furono assai difficili per il G., preoccupato per
le conseguenze negative sulle relazioni italo-britanniche
dell'intervento italiano in Spagna e dell'Asse Roma-Berlino. Fervido
sostenitore di F. Franco in funzione anticomunista e antisovietica,
il G. fece di tutto per convincere gli Inglesi che l'Italia non
aveva mira alcuna sulla penisola iberica e che avrebbe ritirato i
propri "volontari" appena garantita la vittoria ai "nazionali"
spagnoli. Al contempo si adoperò per un'intesa paritaria fra
i due Imperi, quale unico mezzo per impedire un epilogo matrimoniale
del "fidanzamento" italo-tedesco, previa anche pressione britannica
sui Francesi perché abbandonassero la linea degli
intransigenti "jamais" opposti alle ulteriori richieste italiane. Su
questo cammino il G. individuò tre ostacoli: A. Eden, J. von
Ribbentrop, G. Ciano.
Del primo ebbe ragione nel febbraio 1938, quando N. Chamberlain
sostituì al Foreign Office Eden con lord E. Halifax, pure per
effetto dei rapporti diretti instaurati con il G. grazie anche allo
spregiudicato uso, da parte del G., di ogni mezzo per convincere il
premier, inclusa l'invenzione di inesistenti messaggi personali di
Mussolini al primo ministro britannico. Verso il secondo
nutrì un'avversione permanente, nata nel periodo in cui, fra
l'ottobre 1936 e il febbraio 1938, Ribbentrop fu ambasciatore
tedesco a Londra ed esecutore del "doppio gioco" germanico mirante a
usare la minaccia italiana per invogliare gli Inglesi a un'intesa
con Berlino. Del terzo il G. diffidava assai, non ritenendolo capace
di "moderare" Mussolini, di padroneggiare con equilibrio una
situazione delicatissima, di vincere la propria ambizione
protagonistica, che lo induceva, anzi, a un'attitudine "eccitatrice"
del duce in Spagna, con Hitler e nelle aree di tensione con l'Impero
britannico (a cominciare dal mondo arabo). Ma più di tutti lo
preoccupava Mussolini, che il G. giudicava sempre meno il
Realpolitiker e il "cancelliere" del passato, in quanto sempre
più posseduto dal "demone" ideologico e cesaristico, e quindi
dalle sirene della solidarietà totalitaria con il Führer
e del mito, dal duce stesso creato, della propria
infallibilità e dell'invincibilità del fascismo.
Il lavoro del G. - svolto non di rado indipendentemente dalle
istruzioni di Roma, e, talora, addirittura in contrasto con esse -
contribuì alla firma sia del gentlemen's agreement, nel
gennaio 1937, sia, soprattutto, degli "accordi di Pasqua" (aprile
1938), con cui Londra riconobbe formalmente l'Impero italiano, con
mutua garanzia dello status quo mediterraneo. Creato conte di
Mordano nel giugno 1938, il G. riuscì anche a spingere
Chamberlain a rivolgere un appello personale a Mussolini, nel
settembre successivo, per esortarlo a convincere Hitler al negoziato
sulla questione dei Sudeti, aprendo così la strada alla
conferenza di Monaco. Ma non riuscì ovviamente, il G.,
né a persuadere gli Inglesi a privilegiare l'amicizia
italiana rispetto a quella francese, né, tanto meno, a
impedire il Patto d'acciaio (maggio 1939), che fu all'origine del
suo stesso richiamo da Londra (luglio successivo), con sincero
dolore di quei britannici favorevoli a una distensione definitiva
con l'Italia.
Analogamente a quanto accaduto nel 1925, anche nel 1939 Mussolini
impose al G. un radicale cambiamento d'attività,
affidandogli, tuttavia, un incarico difficilmente interpretabile
nell'ottica del siluramento: ministro di Grazia e Giustizia per il
completamento, fra l'altro, della riforma dei codici. Il ritorno al
governo di un fascista del tipo del G. fu volutamente un messaggio
rivolto agli interlocutori esteri e agli stessi elementi radicali
del partito. Di fatto il G. si oppose a ogni interferenza del PNF
nel funzionamento della giustizia e nella stesura dei codici civile,
di procedura civile e navale (entrati in vigore il 21 apr. 1942),
valendosi anzi, nel relativo "cantiere", della collaborazione di
giuristi antifascisti, come P. Calamandrei, ed ebrei, come C.
Vivante.
Inoltre il G. puntò sempre, persino in piena guerra, a
sottolineare e valorizzare la diversa natura del diritto fascista e
di quello nazionalsocialista, da lui definiti specchio di due
identità nazionali irriducibili l'una all'altra. Infine egli
si dichiarò fermo sostenitore della continuità dello
Stato dal Risorgimento al fascismo, e, in qualità di
guardasigilli, cioè di "coscienza del re", si atteggiò
a difensore dei meccanismi "costituzionali", a cominciare, in epoca
di vicenda "diarchica", dalle prerogative della Corona. E
ciò, in realtà, per significare la propria avversione
al totalitarismo "integrale" così di moda nel fascismo di
fine anni Trenta, che giudicava troppo incline all'imitazione dei
camerati del Führer.
Scoppiata la guerra, nel settembre 1939, il G. sarebbe stato
favorevole alla denuncia del Patto d'acciaio per inadempienza
tedesca, invece che alla semplice "non belligeranza" filogermanica.
In ogni caso, il comune atteggiamento ostile all'intervento italiano
spinse G. Ciano a chiedere, dopo la morte del padre Costanzo, che
fosse il G. a prenderne il posto, alla fine di novembre del 1939,
alla presidenza della Camera dei fasci e delle corporazioni.
Vivamente preoccupato dal possibile effetto sul duce dell'attacco
hitleriano a Ovest nell'aprile 1940, il 21 dello stesso mese il G.,
unico fra i gerarchi, scrisse un'inutile lettera a Mussolini,
esortandolo a non entrare in un conflitto tutt'altro che deciso e
che, piuttosto, imponeva all'Italia di fortificarsi e di riarmare
per fronteggiare in piena libertà qualsiasi futuro.
Entrata l'Italia in guerra, il 10 giugno seguente, il G. si
adeguò al motto inglese "right or wrong, my country", e
sperò naturalmente, finché lo ritenne possibile, nella
vittoria delle armi italiane. Il disastroso esito della campagna di
Grecia, cui egli partecipò, inviato al fronte con gli altri
gerarchi, da tenente colonnello degli alpini, lo convinse della
necessità di una pace separata, onde evitare agli Italiani la
satellizzazione alla Germania. Per questo il G. rifiutò la
carica di governatore civile di un'Ellade piegata e occupata solo
grazie all'aiuto tedesco, senza, tuttavia, poter fare
alcunché, a Roma, per modificare il corso degli eventi. Anzi,
dimesso da ministro nell'ambito del "cambio della guardia"
governativo del febbraio 1943 (che costò il posto anche a
Ciano e a G. Bottai), ma, ricevuto il collare dell'Ordine
dell'Annunziata nel marzo successivo, il G. provò a
convincere il re a licenziare Mussolini, trovandolo, però,
assai refrattario, e comunque disponibile a muoversi esclusivamente
nel caso di un voto di sfiducia al duce da parte di un organo
costituzionale.
Unicamente nel corso delle drammatiche vicende del luglio 1943,
seguite al vittorioso sbarco angloamericano in Sicilia, si
presentò al G. l'occasione per tentare di attuare i propri
propositi, grazie, paradossalmente, a un "pronunciamento" di
gerarchi guidati da C. Scorza e Farinacci, che "estorse" a Mussolini
la convocazione del Gran Consiglio. Fu allora che il G., sostenuto
soprattutto da Federzoni e, con qualche equivoco, da Bottai,
concepì il noto ordine del giorno (comunicato pure al "capo"
nel corso di un lungo colloquio svoltosi a palazzo Venezia il 22),
che provocò, il 25 luglio, la caduta del duce, al termine di
una drammatica seduta in cui si dimostrarono decisive l'energia e la
risolutezza dello stesso G. ma anche l'impossibilità, per
Mussolini, di accettare l'opposta linea radical-assista di Scorza e
Farinacci.
Il programma del G. prevedeva la restituzione al re dei suoi poteri
politici e militari, la formazione di un governo di unità
nazionale aperto all'antifascismo monarchico e cattolico,
nonché privo di gerarchi, un immediato rovesciamento del
fronte per trattare con gli ex nemici già da alleati di
fatto. Ciò al fine di evitare la resa a discrezione e di
tentare il traghettamento del paese dal fascismo al postfascismo,
invece che all'antifascismo (cioè, secondo il G., al
comunismo), salvando la monarchia e il "meglio" del fascismo stesso:
un sistema politico costituzional-autoritario, l'ordinamento
corporativo, la nazionalizzazione delle masse, una, sia pur ridotta,
dimensione di potenza per l'Italia.
Il governo di P. Badoglio (cui il G. avrebbe preferito di gran lunga
E. Caviglia, perché di Badoglio non si fidava) prese un'altra
strada e, del resto, gli Angloamericani, per ragioni diverse, non
avevano alcuna intenzione di usare la manica larga con gli Italiani.
Il G. non approvò affatto né la natura non politica
del ministero (di militari e funzionari), né l'arresto di
Mussolini, né la decisione di proseguire la guerra al fianco
della Germania, né le successive misure contro i gerarchi con
aperture all'antifascismo. Solo il 18 ag. 1943 ottenne di essere
inviato a trattare con gli Inglesi, che egli s'illudeva di poter
ammorbidire; ma non giocò alcun ruolo nelle trattative
armistiziali, se non quello di contribuire, con il suo viaggio in
Spagna e Portogallo, a depistare i Tedeschi. Sempre fedele al re
(nonostante le critiche per la gestione della crisi, ufficialmente
rivolte al capo del governo e al ministro della Real Casa, P.
Acquarone) e sottoposto a un'occhiuta vigilanza da parte dei
"servizi" della Repubblica sociale italiana (RSI; i relativi
rapporti da Estoril, sulla costa lusitana, nuova residenza del G.,
furono sempre visionati e vistati personalmente da Mussolini) e dei
nazisti (che provarono anche a rapirlo), il G. fu naturalmente
condannato a morte in contumacia al processo di Verona del gennaio
1944 ed ebbe i beni posti sotto sequestro dalla RSI (gli furono in
buona parte restituiti nel dopoguerra, previo concordato).
La sua carriera politica ebbe termine definitivo quando F.D.
Roosevelt pose il veto, alla fine di settembre del 1943, a un suo
reimpiego in incarichi di governo, probabilmente quale nuovo
ministro degli Esteri dopo la liberazione di Roma, secondo il
desiderio manifestato da Vittorio Emanuele III a uno scettico
Badoglio. Ai guai giudiziari con i fascisti, seguirono quelli con
gli antifascisti.
Non potendo ottenere l'estradizione del G. dal Portogallo, in quanto
la convenzione del 1878 non prevedeva il caso del reato politico,
nel periodo del governo di F. Parri l'alto commissario per le
sanzioni contro il fascismo, P. Nenni, tentò la via della
traduzione del G. davanti alla corte alleata per i crimini di
guerra; ma ne fu impedito con sdegno dagli Inglesi, Eden in testa.
Giudicandosi un "vinto" e un "sopravvissuto" nel mondo politico del
dopoguerra, temendo l'avvento del comunismo in Italia e mirando a
rifarsi un'esistenza esclusivamente privata, il G. non
approfittò della sentenza di assoluzione, emessa nel 1947
dalla corte d'assise speciale di Roma al termine del processo
intentatogli quale ex gerarca fascista, per rientrare subito in
patria. Dal Portogallo, dove aveva condotto vita assai modesta, si
spostò a San Paolo del Brasile, iniziandovi una nuova
fortunata carriera nel campo delle professioni e degli affari.
Prima aprì uno studio di avvocato internazionale, decollato
grazie all'incarico di consulenza legale ricevuto da J.P. Kennedy,
che era stato per un periodo suo collega in quanto ambasciatore
statunitense a Londra. Poi fondò, in Brasile, una
società per la vendita di trattori agricoli della FIAT,
riuscendo a rompere il monopolio dei Rockefeller. Infine
diventò vicepresidente della Techint di A. Rocca.
Tornato in Italia a fine anni Cinquanta, il G. creò ad
Albareto (Modena) un'azienda agricola modello. Nonostante alcune
sollecitazioni di parte monarchica, egli non volle più
svolgere alcun ruolo politico, salvo intervenire discretamente,
quando richiesto, in difesa di interessi italiani presso ambienti
statunitensi e inglesi, sempre molto disponibili con lui, rimasto
assai legato anche a W. Churchill. Grande amico dell'ambasciatrice
statunitense in Italia dal 1953 al 1956, Clara Boothe Luce, consorte
del proprietario di Time-Life, il G. esercitò pure opera
mediatrice tra l'Ente nazionale idrocarburi (ENI) di E. Mattei
(personaggio dal G. stimato) e le compagnie petrolifere
statunitensi.
Salvo qualche intervento giornalistico (in particolare la
riflessione Ecco Mussolini, pubblicata su Epoca il 18 apr. 1965),
solo negli anni Ottanta il G., definendosi né nostalgico
né pentito, ritenne che vi fossero le condizioni per fornire
la sua versione dei fatti. Videro, così, la luce volumi in
cantiere da gran tempo, come quelli sul 25 luglio e sulla politica
estera italiana tra il 1929 e il 1932, nonché quello delle
memorie, in cui il G. cercò soprattutto di spiegare il suo
particolare "mussolinismo", controverso rapporto di "fedeltà
disubbidiente" con il duce, nel tentativo di dimostrare di non aver
mai tradito il proprio paese, e nemmeno, al di là delle
apparenze, il proprio capo.
Il G. morì a Bologna il 21 maggio 1988.