Nazionalismo
Enciclopedie on line
Insieme delle dottrine e dei movimenti che attribuiscono un ruolo
centrale all'idea di nazione e alle identità nazionali. Il n. si è
storicamente manifestato in due forme: come ideologia di liberazione
delle nazioni oppresse e come ideologia della supremazia di una
nazione sulle altre.
Le origini
Il concetto nacque con la Rivoluzione francese, in stretta
connessione con le idee democratiche di J.-J. Rousseau, secondo il
quale la sovranità spettava alla nazione nel suo complesso,
concepita come un corpo unitario composto di individui eguali. Il
giacobinismo, in particolare, pose un nesso inscindibile tra popolo
e nazione, eliminando ogni realtà intermedia. Queste idee furono
esportate con le guerre della Francia rivoluzionaria e napoleonica
e, dopo la Restaurazione, furono il punto di riferimento del cd. 'n.
dell'autodeterminazione', nel contesto della tradizione liberale e
democratica.
L'età del nazionalismo
Dopo l'unificazione italiana e tedesca, dagli anni Settanta del 19°
sec., il n. iniziò a configurarsi come ideologia della politica di
potenza da parte di uno Stato. Con la seconda rivoluzione
industriale, l'ingresso delle masse nella vita economica implicò la
ricerca di una strategia di integrazione politica che condusse alla
piena identificazione tra nazione e Stato, con il fine di realizzare
una solidarietà nazionale che superasse le divisioni di classe.
Nazionalismo e guerra
Sul piano internazionale il n. fu alla radice (tra 19° e 20° sec.)
della competizione tra le nazioni europee e dello scontro
imperialistico tra le grandi potenze. All'inizio del 20° sec.
sorsero movimenti nazionalisti (per es. l'Action française, la Lega
pangermanica, l'Associazione nazionalista italiana) volti a
contrastare i regimi democratici e a disinnescare i conflitti
sociali (e la minaccia socialista). Questo tipo di n., teso a
esaltare l'identità nazionale e la politica di potenza, contribuì in
modo decisivo allo scoppio della Prima guerra mondiale. In Italia il
n. fu una delle componenti essenziali del fascismo e diede luogo
all'esaltazione dello Stato. In Germania, invece, si legò al
concetto di razza e alimentò, in questa veste, l'ideologia nazista.
Con la Seconda guerra mondiale questi tipi di n. caddero in
discredito.
La versione del n. fondata sull'autodeterminazione dei popoli
continuò invece ad avere un ruolo storico, alimentando i movimenti
di liberazione dal colonialismo nei paesi del Terzo Mondo.
Forme di n. fortemente identitario si sono sviluppate nei paesi ex
comunisti dopo la caduta dei regimi totalitari (per es. nella ex
Iugoslavia).
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1996)
di Francesco Tuccari
Sommario: 1. La parola e la cosa. 2. I caratteri e lo sviluppo del
nazionalismo moderno. □ Bibliografia. 1. La parola e la cosa
Nel linguaggio politico e nel lessico delle scienze storico-sociali
il termine 'nazionalismo' viene abitualmente impiegato per indicare
fenomeni di natura e di scala assai diverse. Con esso, infatti, si
fa di volta in volta riferimento al processo storico complessivo
della formazione dello Stato nazionale; all'insieme delle idee,
delle teorie e delle ideologie che in vario modo affermano il
principio del valore eminente della 'nazione'; ai movimenti
organizzati e ai partiti che sulla base di tali teorie progettano di
fondare, di consolidare o di espandere il proprio Stato nazionale; a
uno specifico sentimento di appartenenza, che può essere altresì
'naturale' o 'costruito'; e ancora, a un complesso di meccanismi di
comunicazione e di integrazione sociale che svolgono una funzione
decisiva nei processi di modernizzazione.
La parola è stata anche utilizzata in relazione a differenti epoche
storiche. Se vi è, infatti, un generale consenso nel collocare gli
inizi dell''età del nazionalismo' intorno alla seconda metà del
XVIII secolo, non sono mancati tentativi di retrodatare tali inizi
all'età del Rinascimento, di post-datarli alla svolta del 1870,
oppure ancora di individuarne tracce significative nel Medioevo o
nell'epoca dell'antico Israele. Rispetto alla stessa storia degli
ultimi due secoli, infine, il termine sembra implicare una vera e
propria coincidentia oppositorum (v. Winkler, 1985). Esso è stato
associato nel medesimo tempo alle lotte di liberazione nazionale che
si svolsero nell'Europa dell'Ottocento e ai disegni di oppressione e
di conquista che sconvolsero il pianeta nel secolo delle due guerre
mondiali; alle politiche imperialistiche delle grandi potenze
europee e alle ideologie antimperialistiche delle nazioni emergenti
del Terzo Mondo; a partiti di 'destra' e di 'sinistra'; a movimenti
razzisti e democratici; a orientamenti reazionari e progressisti; a
personaggi come Herder, Fichte, Mazzini e Wilson o come Corradini,
Maurras, Mussolini e Hitler.
Prima di fissare i caratteri fondamentali del nazionalismo e di
analizzare i tempi e i ritmi del suo sviluppo, è quindi necessario
ricostruire la storia di una parola che è divenuta nel corso del
tempo eminentemente polisemica. Come vedremo, ciò significa seguire
il percorso estremamente complesso e a tratti frammentario di un
termine-concetto che dal linguaggio normativo delle passioni
politiche si è progressivamente introdotto nel vocabolario delle
scienze storico-sociali. Almeno in parte, poi, la storia della
parola è già una storia della cosa.
A differenza del termine nazione che fu coniato già in epoca romana,
la parola nazionalismo è una creazione relativamente recente. Prima
del XVIII secolo essa fu impiegata in rarissimi casi per indicare le
nationes universitarie, vale a dire le corporazioni di studenti e
professori in cui erano tradizionalmente suddivisi, sin dal
Medioevo, i grandi atenei europei. In questo senso Nationalismus
viene menzionato nello Hübner-Staats-Lexicon del 1704 (v.
Kemiläinen, 1964; v. Smith, 1971; v. Koselleck e altri, 1992). Il
termine ricompare poi nella seconda metà del XVIII secolo, in
relazione a un concetto ormai compiutamente moderno di nazione. Lo
si ritrova dapprima in un breve ma fondamentale passo di Ancora una
filosofia della storia per l'educazione dell'umanità di J.G. Herder
(1774), poi in uno scritto dell''illuminato' bavarese Adam Weishaupt
(1787) e quindi, alla vigilia del nuovo secolo, nei Memoires pour
servir à l'histoire du jacobinisme dell'abate Barruel (1798). Nel
primo di questi testi Herder impiega la parola nazionalismo in
un'accezione decisamente peggiorativa, unendo al sostantivo
Nationalism (sic) l'aggettivo eingeschränkt (gretto, limitato). Non
è peraltro chiaro il contesto preciso di questo uso linguistico.
Secondo Federico Chabod (v., 1961) Herder avrebbe qui "crea[to] la
parola nazionalismo" per indicare il complesso di quei "pregiudizi
nazionali" che nel suo schema rendono i popoli felici, saldi e
fiorenti (v. anche Viroli, 1995). Da una nuova lettura del testo
emerge tuttavia un quadro almeno in parte diverso, su cui ha
recentemente insistito Guido Franzinetti (v., 1996): lungi dal
coniare una nuova parola, con l'espressione "gretto nazionalismo"
Herder avrebbe inteso stigmatizzare ironicamente un uso spregiativo
del termine probabilmente già consolidato prima del 1774. Se si
prescinde tuttavia da Von dem deutschen Nationalgeist di Friedrich
Carl von Moser (1766), dove compare l'espressione nationalistische
Fühlung (v. Siccardo, 1984), di tale uso non si conoscono precedenti
esempi.
È altresì nel senso negativo criticato da Herder che la parola
Nationalismus riappare in uno scritto di Adam Weishaupt del 1787,
ripubblicato poi in una seconda edizione nel 1793. "Con la nascita
delle nazioni e dei popoli - vi si legge - il mondo ha cessato di
essere una grande famiglia, un unico impero: il grande legame della
natura è stato distrutto [...]. Gli uomini hanno smesso di
riconoscersi sotto un nome comune [...] e il nazionalismo ha preso
il posto dell'amore per l'umanità [...]. Fu allora permesso di
disprezzare gli stranieri, di ingannarli e di offenderli. E una
simile virtù fu chiamata patriottismo". Questo passo fu citato
testualmente, ma in chiave fortemente polemica, nei Memoires di
Augustin Barruel, a cui è stata per qualche tempo erroneamente
attribuita la paternità del termine (v. Godechot, 1970; per contro
v. Bertier de Sauvigny, 1970; v. Franzinetti, 1996). Furono peraltro
proprio i Memoires - presto tradotti in inglese, italiano, tedesco,
portoghese, spagnolo, polacco e olandese - a fissare nelle
principali lingue europee quel significato peggiorativo che abbiamo
incontrato per la prima volta, sebbene in un contesto critico,
nell'opera di Herder.
Nel corso del XIX secolo la parola entrò nel linguaggio corrente, ma
con grandi difficoltà e, in ogni caso, soltanto a partire dagli anni
trenta-quaranta. Secondo l'Oxford English Dictionary in Inghilterra
essa comparve per la prima volta nel 1844, come sinonimo di 'egoismo
nazionale'. In Germania, invece, essa non è riportata né
dall'Allgemeines Handwörterbuch der philosophischen Wissenschaften
di W.T. Krug (1828), né dal Deutsches Staatswörterbuch di J.K.
Bluntschli (1862), né dal Deutsches Wörterbuch di J.W. Grimm (1889),
che pure riportano un gran numero di derivati del termine nazione.
In Francia la parola è registrata dal Larousse nel 1874 come un
neologismo, mentre non compare ancora nel Littré del 1866. Essa fu
in verità impiegata già nel 1813 dal giornalista e patriota tedesco
Rudolf Zacharias Becker in un memorandum redatto per rispondere alle
accuse mossegli dai tribunali napoleonici, ma si tratta di un caso
precoce e isolato, in cui tra l'altro la parola viene utilizzata in
senso positivo, come sinonimo di patriottismo, senza alcuna
relazione con l'uso fissato da Herder, Weishaupt e Barruel. Fu
altresì il vecchio Metternich, in una conversazione con il cattolico
ultramontano Louis Veuillot (v., 1860) avvenuta a Bruxelles intorno
alla metà del secolo, ad attestare un uso almeno relativamente
diffuso della parola nationalisme in Francia. In quel contesto,
anzi, egli suggerì al suo interlocutore un principio più generale
affermando che "quando la lingua francese aggiunge la desinenza isme
a un sostantivo essa tende a caricare la cosa menzionata di un'idea
di disprezzo e di degradazione" - una tesi, questa, che lo stesso
Veuillot riconfermò nei suoi Mélanges citando una lettura del
controrivoluzionario spagnolo Donoso Cortés. Di un simile uso,
tuttavia, non possediamo precisi riscontri. E la circostanza è
almeno apparentemente strana nel paese di Barruel e della grande
nation. Bertier de Sauvigny ha avanzato in proposito un'ipotesi
convincente, e cioè che, proprio in ragione della sua valenza
tipicamente negativa, la parola nationalisme stentò ad affermarsi là
dove gli eventi straordinari della grande Rivoluzione avevano
conferito alla parola nazione - si pensi solo a Sieyès e alla
Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 - un
significato quasi sacro.
Nationalisme e poi 'nazionalismo' conobbero quindi una maggiore
diffusione al di là dei confini francesi. Essi vennero infatti
ripetutamente e consapevolmente impiegati da Giuseppe Mazzini per
indicare una forma patologica, degenerata e pericolosa del legittimo
"sentimento di nazionalità": così, per la prima volta, in un
articolo pubblicato su "La jeune Suisse" nel marzo del 1836, e poi
nuovamente in un testo del 1848, dove si contrappone in modo
esplicito l'"esprit de nationalisme" all'"esprit de nationalité".
Ancora nel 1861, in un contesto molto simile a quello che abbiamo
incontrato nello scritto herderiano, Mazzini scriveva che la
Germania non deve coltivare "un gretto nazionalismo", una brutale
politica di espansione ai danni del diritto di tutti i popoli alla
libertà, ma solo il proprio patrimonio spirituale e morale.
Un'affermazione questa - sia detto per inciso - che rende meno netta
la distinzione introdotta da Chabod (v., 1961) fra l'idea di nazione
propria della tradizione franco-italiana (da Mazzini a Renan) e
quella propria della tradizione tedesca (da Herder a Hitler).
Tra XIX e XX secolo, nel contesto più generale dell'età
dell'imperialismo, furono soprattutto i movimenti della destra
radicale ad appropriarsi del termine nazionalismo. A esso, tuttavia,
fu conferita allora una valenza positiva: così ad esempio da Maurice
Barrès e da Charles Maurras, da Enrico Corradini e, poi, dal
fascismo italiano e dal nazismo tedesco, il quale peraltro rimase
soprattutto legato alle retoriche della razza e del popolo inteso in
senso etnico, al Volk più che alla Nation. Classica la formulazione
corradiniana: "Certamente anche noi vogliamo essere buoni Italiani,
e se il patriottismo significa amor di Patria, anche noi siam
patrioti. [...] Ma con tutto ciò il nazionalismo è qualcosa di
diverso dal patriottismo. È anzi, sotto un certo aspetto, l'opposto
[...]. Il patriottismo è altruista, il nazionalismo è egoista. Non
godano i perfetti borghesi a sentirci confessare il nostro egoismo,
perché tutto abbiamo di diverso da loro, e soprattutto l'egoismo. Ma
certo il nazionalismo è egoista. È l'egoismo dei cittadini rispetto
alla nazione" (v. Corradini, 1911).
Dopo Marx - che non colse ancora il significato dirompente che le
questioni nazionali avrebbero assunto verso la fine del secolo e che
interpretò di conseguenza tali questioni alla stregua di fenomeni
rilevanti ma premoderni, destinati cioè a esaurirsi nel corso della
transizione dal capitalismo alla società senza classi - nel
movimento socialista la parola mantenne la sua tradizionale valenza
peggiorativa. Essa fu anzi spesso utilizzata - soprattutto
nell'epoca della Seconda Internazionale - per stigmatizzare gli
stessi avversari interni al partito. In Inghilterra, al contrario,
nationalism iniziò ad assumere un significato positivo o quantomeno
neutrale già verso la fine del secolo, probabilmente - com'è stato
osservato - in relazione all'emergere della questione irlandese (v.
Franzinetti, 1996).
Dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale il termine si è
nuovamente caricato di pesanti connotazioni negative. Peraltro non
dappertutto. Nel quadro dei processi di decolonizzazione e della
lotta antimperialistica delle nazioni emergenti, esso ha spesso
acquisito il significato positivo che Mazzini attribuiva al concetto
di nazionalità. Esemplare, in questo senso, un intervento accademico
del birmano Htin Aung, rettore dell'Università di Rangoon (il testo
è del 1955): "Se il nazionalismo va oltre i suoi limiti,
distruggendo altre nazioni, allora non è più nazionalismo. Il
nazionalismo è come la libertà. Si ama la libertà solo se non si
apprezza soltanto la propria, ma anche quella degli altri. Il
nazionalismo è il nemico dell'imperialismo" (cit. in Lemberg, 1964).
Nella lingua inglese e nella cultura angloamericana, invece,
nationalism è rimasta una parola priva di implicazioni normative,
che indica in modo generico e puramente descrittivo il complesso
delle dottrine e dei movimenti orientati in senso nazionale. Nelle
principali lingue dell'Europa continentale infine - in tedesco, in
francese e in italiano -, il termine ha mantenuto, in qualche caso
rafforzandole, le tradizionali connotazioni peggiorative delle
origini e tende quindi a designare una condizione surriscaldata,
esasperata e in alcuni casi 'patologica' della coscienza o della
politica nazionale.
Contemporaneamente a questi sviluppi - ma soltanto a partire dagli
anni venti e trenta del XX secolo - le scienze storico-sociali hanno
iniziato a occuparsi in maniera sistematica del problema del
nazionalismo. Fin dal principio, tuttavia, esse hanno impiegato la
parola nazionalismo in un senso assai ampio e per ciò stesso
neutrale. In questa prospettiva l'opera di Carlton J.H. Hayes - il
primo dei grandi 'padri fondatori' dello studio scientifico del
nazionalismo - ha un'importanza fondamentale. In essa, infatti,
nationalism viene a indicare idee e principî di valore opposto da un
punto di vista normativo: così negli Essays on nationalism (1926),
dove il termine è riferito al più puro e sincero patriottismo e
nello stesso tempo allo spirito di intolleranza, al militarismo e
all'imperialismo; così, ancora, nel saggio Two varieties of
nationalism (1928), in cui la medesima opposizione viene per così
dire storicizzata nella duplice categoria del "nazionalismo
originario" e del "nazionalismo derivato"; e così, soprattutto, in
The historical evolution of modern nationalism (1931), dove compare
la tipologia divenuta poi classica del nazionalismo "umanitario"
(Bolingbroke, Rousseau, Herder), "giacobino" (Robespierre),
"tradizionale" (Burke, Bonald, Schlegel), "liberale" (Bentham,
Humboldt, von Stein, Guizot, Mazzini, Cavour), "integrale" (Maurras,
Barrès, Mussolini, Treitschke) ed "economico" (List, ma più in
generale i fautori di politiche protezionistiche, autarchiche e poi
imperialistiche).
Per quanto ci risulta, a prescindere da una schematica tipologia dei
"sentimenti nazionalisti" elaborata dal politologo Max Sylvius
Handman nel 1921, di una così radicale relativizzazione e
neutralizzazione della parola non esistono tracce prima di Hayes.
Certo, come abbiamo già visto, nella lingua inglese nationalism
iniziò ad assumere valenze in qualche modo neutrali già verso la
fine del secolo XIX. All'epoca degli Essays, tuttavia, nel
linguaggio dominante delle passioni politiche 'nazionalismo'
indicava principalmente una politica di egoismo nazionale. E ciò sia
per gli 'apostoli della nazionalità' alla Mazzini, che la
deprecavano, sia per i nazionalisti come Maurras, Barrès e
Corradini, che ne esaltavano invece le virtù. Il fatto che Hayes
abbia associato alla parola nationalism non soltanto ciò che Mazzini
e Corradini intendevano per nazionalismo, ma anche il suo contrario
- l'"esprit de nationalité" del primo e il "patriottismo" del
secondo - segna senza dubbio, quantomeno dal punto di vista
terminologico, una svolta di grande rilievo, le cui ragioni si
possono ascrivere tanto all'esigenza metodologica di una maggiore
neutralità scientifica quanto all'esperienza concreta e drammatica
della prima guerra mondiale e, quindi, delle ambiguità storicamente
connesse alla realizzazione del principio wilsoniano
dell'autodeterminazione dei popoli.
Sta di fatto, comunque, che da allora in avanti nella letteratura
scientifica il termine nazionalismo si è complessivamente
spoliticizzato, è divenuto una parola priva di connotazioni
normative forti. Nello stesso tempo, tuttavia, esso è diventato un
concetto estremamente articolato e complesso. Esso non si riferisce
più soltanto a un insieme variamente consapevole ed elaborato di
idee e di teorie che possono poi iscriversi in costellazioni di
significato e di valore radicalmente differenti. Ma indica anche -
ed è questa l'altra fondamentale novità introdotta da Hayes -
fenomeni strutturalmente eterogenei quali il processo storico
concreto della formazione dello Stato nazionale, una disposizione
d'animo più o meno cosciente degli individui e delle collettività e,
ancora, i movimenti organizzati che pongono al centro di programmi
politici coscientemente e coerentemente perseguiti le più diverse
teorie della nazione e dello Stato nazionale: un complesso di
fenomeni, in breve, suscettibili di essere fissati in definizioni,
interpretazioni, classificazioni e cronologie assai differenti le
une dalle altre.
È per l'appunto nel segno di questa accezione larga, spoliticizzata
e articolata della parola che si è venuta svolgendo, negli ultimi
settant'anni, la ricerca accademica e scientifica sul nazionalismo.
Per Hans Kohn (v., 1944 e 1962) - che è considerato il secondo padre
fondatore di questa letteratura - esso rappresenta in primo luogo
uno "stato d'animo che permea la grande maggioranza di un popolo e
che pretende di permeare tutti i suoi membri". In questo senso, se
il nazionalismo diventa una forza storica operativa e consapevole
nell'epoca di Rousseau e di Herder, della Rivoluzione americana e
della Rivoluzione francese, della democrazia e dell'industrialismo,
esso ha comunque una preistoria frammentaria ma assai significativa
che dall'epoca dell'antico Israele giunge fino all'età
dell'illuminismo, quando il nazionalismo moderno inizia a legare i
suoi destini ai due diversi percorsi delle società aperte,
pluralistiche e liberali dell'Europa occidentale e delle società
chiuse, autoritarie e conservatrici dell'Europa centro-orientale.
Anche per Louis L. Snyder (v., 1954 e 1968) il nazionalismo è in
primo luogo uno stato d'animo, un 'sentimento politico'. Esso,
tuttavia, è soprattutto una delle forze più intense e al tempo
stesso più ambigue della storia degli ultimi due secoli: "una forza
per l'unità" (Germania e Italia), "una forza per lo status quo"
(Imperi austro-ungarico, russo e tedesco), "una forza per
l'indipendenza" (Polacchi, Ucraini, Cechi, Slovacchi, Croati,
Baltici e Finlandesi), "una forza per la fraternità" (irrendentismo
italiano, greco, serbo, rumeno, bulgaro), "una forza per
l'espansione coloniale" (Gran Bretagna, Francia, Portogallo, Spagna,
Belgio, Paesi Bassi),"una forza per l'aggressione" (Germania
guglielmina e poi nazista, Italia fascista, Giappone militarista),
"una forza per l'espansione economica" (Stati Uniti e Unione
Sovietica) e, ancora, "una forza per l'anticolonialismo' (in Asia,
Africa e Medio Oriente).
Per Eugen Lemberg (v., 1964) il nazionalismo è un fenomeno al tempo
stesso psicologico, sociologico e storico. Esso è infatti il
prodotto di un 'bisogno di appartenenza' al gruppo (v. anche Shafer,
1955 e 1972) che attiva un complesso di forze vincolanti e
integrative le quali generano, attraverso diverse fasi di sviluppo,
la nazione o lo Stato nazionale. In questo senso il nazionalismo è
una realtà pressoché universale. Nella sua forma più matura tuttavia
- vale a dire in quanto 'nazionalismo ideologico' contrapposto al
'nazionalismo primitivo' - esso inizia a manifestarsi soltanto
nell'età del Rinascimento. Da allora, in epoche diverse a seconda
dei differenti contesti storici, esso si sarebbe sviluppato ovunque:
dapprima nella forma del 'nazionalismo risorgimentale', propria
della fase del risveglio dei popoli, e poi in quella del
'nazionalismo integrale', propria della fase degli egoismi nazionali
- una dicotomia, questa, che ricorda assai da vicino l'antinomia
introdotta da Hayes tra il nazionalismo 'originario' e quello
'derivato'.
In una prospettiva molto diversa, Elie Kedourie (v., 1960) ha
definito il nazionalismo come "una dottrina inventata in Europa
all'inizio del XIX secolo" che, attraverso la fortuna di un
complesso di idee filosofiche proprie della tradizione occidentale,
avrebbe creato, insieme alla decisiva esperienza della Rivoluzione
francese, un "nuovo stile della politica", fortemente ideologico da
un lato ed estremamente ambiguo dall'altro. Allo stesso modo, per
Maurizio Viroli (v., 1995) il nazionalismo è un sistema più o meno
coerente di idee. Più esattamente: è un 'linguaggio' politico
tipicamente moderno che ha progressivamente oscurato - dalla seconda
metà del XVIII secolo fino alla seconda guerra mondiale - il
linguaggio apparentemente molto simile, ma in realtà profondamente
diverso, del patriottismo repubblicano. Per Miroslav Hroch (v.,
1985) e per Eric J. Hobsbawm (v., 1990), ancora, il nazionalismo
costituisce rispettivamente un fenomeno derivato rispetto
all'esistenza storica e concreta delle nazioni e - esattamente al
contrario - una realtà politica, un programma che 'costruisce'
quegli oggetti artificiali che sono le nazioni stesse. Per entrambi,
tuttavia, la storia del nazionalismo è innanzitutto la storia dei
gruppi politici che hanno sviluppato in varie forme l'agitazione
patriottica e i movimenti nazionalistici di massa. Per Ernest
Gellner (v., 1983), infine, il nazionalismo è "un principio politico
che sostiene che l'unità nazionale e l'unità politica dovrebbero
essere perfettamente coincidenti".
Al di là delle tradizionali distinzioni tra nazionalismi
'universalistici' ed 'egoistici' e sulla scorta dell'importante
studio di Karl W. Deutsch (v., 1953), esso è soprattutto una
funzione specifica dei processi di modernizzazione: impensabile
nelle società agricole tradizionali (le società 'agro-letterate') e
per contro indispensabile - come principio di integrazione sociale e
di legittimazione politica - nelle moderne società industriali di
massa.Questa rapida rassegna di alcune tra le più rilevanti
definizioni e classificazioni del nazionalismo non esaurisce in
alcun modo il quadro estremamente articolato e in continua
espansione della letteratura scientifica sull'argomento. A essa si
dovrebbero infatti aggiungere ancora - per citare solo alcuni nomi -
i lavori ormai classici di Boyd C. Shafer (v., 1955 e 1972), di
Anthony D. Smith (v., 1971 e 1986), di Hugh Seton-Watson (v., 1977),
di John Breuilly (v., 1982), di August Winkler (v., 1985), di
Theodor Schieder (v., 1991), di Benedict Anderson (v., 1983), di
Peter Alter (v., 1985), di Walker Connor (v., 1994) e di Hagen
Schulze (v., 1994). E si dovrebbe ancora fare riferimento alle
classificazioni elaborate dallo psicologo Gustav Ichheiser (v.,
1941) e da sociologi come Louis Wirth (v., 1936) e Konstantin
Symmons-Symonolewicz (v., 1965). Per non parlare poi dello
sterminato numero di studi e ricerche sulle varie vicende nazionali
dei nazionalismi vecchi e nuovi, che assai spesso introducono
elementi di riflessione di carattere più generale - come accade ad
esempio nel già citato lavoro di Hroch, che ha per oggetto i
movimenti di liberazione nazionale europei di piccole dimensioni.
In questo contesto tuttavia - vale la pena di ribadirlo - era
soprattutto necessario mostrare: a) come le scienze storico-sociali
abbiano fatto sin dal principio un uso tipicamente neutrale e
spoliticizzato del termine nazionalismo; b) come un tale uso della
parola - per quanto poi ridefinita, aggettivata e riclassificata -
non corrisponda affatto, se non nella lingua inglese, né al
linguaggio inevitabilmente normativo della politica degli ultimi due
secoli, né alla percezione comune che soprattutto in questo secolo
si è avuta e si continua ad avere dei nazionalismi; c) come nella
letteratura scientifica il concetto di nazionalismo abbia assunto
significati estremamente diversi a seconda che si siano ricostruite
la storia o le logiche di un'idea, di un movimento politico, di un
sentimento di appartenenza o, ancora, del processo più generale
della formazione dello Stato nazionale.
Sulla base di questa letteratura ma, nello stesso tempo, di una
definizione in qualche modo meno larga di quelle che abbiamo sinora
indicato, nel capitolo che segue fisseremo schematicamente i
caratteri fondamentali del nazionalismo considerando soprattutto i
tempi e i ritmi del suo sviluppo nella storia degli ultimi due
secoli. 2. I caratteri e lo sviluppo del nazionalismo moderno
Come si è detto in principio, vi è un generale consenso sul fatto
che il nazionalismo costituisce un fenomeno tipicamente ed
esclusivamente moderno. In effetti, nel senso ampio che abbiamo
sinora incontrato nella letteratura e a maggior ragione in quello
più ristretto che qui ci interessa, affinché esso iniziasse a
dispiegare la sua straordinaria efficacia storica dovevano
svilupparsi alcuni decisivi presupposti, variamente collegati l'uno
all'altro e tali da indurre radicali trasformazioni nella sfera dei
comportamenti collettivi.
Il primo e il più ovvio di questi presupposti è lo sviluppo di una
moderna idea di nazione che, attraverso percorsi complessi e
differenziati, giunse a compimento nella seconda metà del XVIII
secolo, con le filosofie di Herder e di Rousseau. Il secondo
presupposto - su cui ha insistito soprattutto Ernest Gellner ma su
cui aveva già posto l'accento, seppure in termini diversi, Hans Kohn
- è la crisi terminale delle società cetuali e agro-letterate della
vecchia Europa e, in prospettiva, la progressiva affermazione delle
moderne società industriali di massa. Il terzo presupposto - che
vale in verità soprattutto rispetto al modello rousseauiano di
nazione, ma che dopo la Rivoluzione francese doveva legarsi
indissolubilmente e problematicamente al principio
dell'autodeterminazione nazionale - è il progressivo trionfo dei
principî della sovranità popolare e della democrazia, che doveva
stabilire un legame strutturale tra il concetto di popolo e quello
di nazione. Il quarto presupposto infine - su cui ha fissato
recentemente l'attenzione Jean-Luc Chabot (v., 1986; v. anche
Winkler, 1985) - è il più generale processo di secolarizzazione del
mondo e di ogni forma di agire associato, che, producendo tra
l'altro la crisi definitiva delle formule della monarchia assoluta
di diritto divino, creò lo spazio per nuove forme di legittimazione
del potere, a cui doveva rispondere la concatenazione di nazione,
democrazia e sovranità teorizzata in modo classico da Sieyès.
Da questi quattro punti di vista - che sono poi quelli quasi senza
eccezioni universalmente richiamati nella letteratura, da Hayes a
Kohn, da Shafer a Winkler, da Seton-Watson a Hobsbawm - l'età che si
apre con Rousseau e Herder, con la Rivoluzione americana e la
Rivoluzione francese, con l'avvento dell'industrialismo e della
democrazia segna un punto di svolta davvero decisivo. È l'epoca in
cui sorgono o iniziano a intravvedersi le nazioni moderne. Con le
parole di Kohn, è il periodo da cui prende avvio l'"epoca del
nazionalismo".
Fondamentale fu soprattutto l'esperienza della grande Rivoluzione:
non soltanto perché essa fissò in maniera definitiva e irreversibile
il binomio nazione-popolo e il concetto della sovranità popolare in
contrapposizione alle concezioni dinastiche e territoriali dello
Stato; non soltanto perché tali concetti, esportati con le armi
nell'Europa di antico regime, continuarono a rimanere, anche
nell'epoca della Restaurazione, un punto di riferimento decisivo per
la lotta delle nazionalità emergenti; ma anche perché proprio
l'avventura della Grande Nation (v. Godechot, 1956) e più in
generale l'epoca napoleonica prefigurarono sotto alcuni aspetti,
seppure in modo assai problematico, il nazionalismo inteso come
l'ideologia espansionistica e aggressiva dello Stato-nazione.Nella
storia ulteriore delle nazioni e dei nazionalismi dovevano tuttavia
prodursi nuove e radicali trasformazioni.
All'idea di nazione di Rousseau e Herder, di Fichte e di Mazzini -
che era ancora strutturalmente legata ai principî universalistici
dell'umanità o al progetto di un'Europa dei popoli - subentrò nei
teorici del nazionalismo 'integrale' il concetto ben più sinistro
del 'sacro egoismo nazionale': ciò che per l'appunto sia Mazzini che
Corradini definivano, senza aggettivi, 'nazionalismo'. Nello stesso
tempo, come hanno mostrato Hroch e poi Hobsbawm, mutò radicalmente
la struttura dei movimenti e dei gruppi nazionalistici i quali,
superata la fase puramente letteraria e folclorica dei
'risvegliatori' e quella dell''agitazione patriottica' da parte
delle prime minoranze militanti, riuscirono a conquistarsi un ampio
seguito di massa. Nello stesso tempo, ancora, il nazionalismo
divenne progressivamente l'ideologia - integrativa all'interno e
aggressiva e militaristica all'esterno - di grandi e consolidati
Stati di potenza. Questa triplice svolta si produsse intorno agli
anni settanta del XIX secolo, dopo che la fondazione del Reich
bismarckiano pose al centro dell'Europa - contro l'antica saggezza
della diplomazia europea fin dall'epoca della pace di Vestfalia
(1648) - uno Stato forte che doveva rendere fatalmente impossibile
uno stabile equilibrio tra le grandi potenze e possibili le due
guerre mondiali. È questa, per l'appunto e in senso stretto, l'epoca
del nazionalismo tout court, o perlomeno del suo apogeo.
Contemporaneamente a questo sviluppo dominante - strettamente
vincolato alle dinamiche e ai conflitti dell'età dell'imperialismo -
rimase altresì attivo un nazionalismo dell'autodeterminazione,
seppure di segno più ambiguo rispetto al modello mazziniano: e ciò
dapprima nell'epoca del lento declino dei grandi Imperi
sovranazionali asburgico e ottomano e poi, dopo la loro dissoluzione
all'indomani della prima guerra mondiale, nell'epoca wilsoniana.
Rispetto a tali trasformazioni la storia delle nazioni e dei
nazionalismi tra il 1789 e il 1945 pone il problema di individuare
delle scansioni che siano dotate di senso e al tempo stesso
efficaci. Negli anni cinquanta L. Snyder ha individuato nella storia
del nazionalismo contemporaneo quattro diverse fasi: la fase del
nazionalismo integrativo (1815-1871), in cui il nazionalismo avrebbe
operato come una "forza per l'unità" (così, ovviamente, nel caso
dell'unificazione italiana e tedesca); la fase del nazionalismo
smembrante (1871-1890), segnata dall'aspirazione all'indipendenza o
all'autonomia di minoranze poste sotto il dominio di Stati
sovranazionali quali l'Impero asburgico e quello ottomano; la fase
del nazionalismo aggressivo (1900-1945), che fu alla radice dei
conflitti imperialistici che produssero le due guerre mondiali; la
fase del nazionalismo contemporaneo (dal 1945 in poi),
caratterizzata dai movimenti di liberazione anticolonialisti del
dopoguerra.
Questo modello, che pure descrive con una certa efficacia le
dinamiche attivate dai nazionalismi del XIX e del XX secolo, ci
sembra poco soddisfacente. Per almeno tre ragioni. Innanzitutto
perché con la dizione puramente cronologica di "nazionalismi
contemporanei" lascia altamente indefinita la natura dei
nazionalismi della decolonizzazione (va sottolineato, del resto, che
Snyder scrive a ridosso degli eventi). In secondo luogo, perché
risulta francamente un po' incerta la distinzione tra un
nazionalismo "integrativo" e uno "smembrante", dato che per certi
aspetti anche l'Italia e la Germania preunitarie appartenevano in
parte o in tutto a realtà politico-statuali più ampie, quali lo
stesso Impero asburgico e la Confederazione germanica; e dato che
anche in seguito - si pensi solo a quanto accadde dopo la prima
guerra mondiale con la dissoluzione dell'Impero austroungarico e di
quello ottomano - il nazionalismo continuò ininterrottamente a
scomporre e ricomporre realtà politico-statuali più o meno
consolidate. In terzo luogo, e soprattutto, perché una simile
tipologia tende a suggerire l'idea che, al di là delle sue
differenti dinamiche (integrare, smembrare, ecc.), il nazionalismo
rimarrebbe fondamentalmente identico a se stesso, una realtà che
muta soltanto in superficie, nei suoi predicati o nelle sue
funzioni, e non nella sua natura: un'idea, questa, assai dibattuta e
problematica in sede storiografica, a prescindere qui da qualsiasi
questione terminologica.
È dunque più opportuno ricorrere, come si è già detto, a uno schema
più tradizionale: quello cioè che individua un punto di svolta
decisivo nella storia delle nazioni e dei nazionalismi contemporanei
nel decennio compreso tra l'unificazione italiana (nel 1861-1870) e
quella tedesca (1870-1871). Tra gli anni della Restaurazione e
quelli in cui furono realizzate l'unificazione nazionale italiana e
quella tedesca il linguaggio della nazione e dei nazionalismi svolse
- a questo primo livello ci sembra ancora utile la tipologia di
Snyder - una funzione di carattere prevalentemente integrativo.
Esso, cioè, stimolò e registrò al tempo stesso gli sviluppi delle
lotte per la libertà, l'indipendenza e l'unità delle nazionalità
oppresse, dando così un significato forte, e in qualche modo
'progressivo', alla costruzione di nuove entità politico-statuali
fondate sul principio dell'autodeterminazione dei popoli. Così
avvenne per l'appunto - e su grande scala - nel caso dell'Italia e
della Germania: si pensi a Mazzini da un lato, e agli uomini del
Parlamento di Francoforte dall'altro. Certo, i processi di
unificazione politica furono poi portati di fatto a compimento
dall'alto, grazie cioè all'iniziativa militare e diplomatica di
Stati dinastici consolidati quali il Piemonte dei Savoia e di Cavour
e la Prussia degli Hohenzollern e di Bismarck. Sta di fatto, in ogni
caso, che il linguaggio della nazione rimase ancora pressoché
interamente costruito sull'idea di ricostituire la (presunta) unione
originaria di popoli - per l'appunto le 'nazioni' - che si trovavano
a essere sottomessi al dominio diretto o all'egemonia di Stati o
dinastie 'straniere'.
In questa prima fase dunque - come è stato da più parti osservato -
almeno in linea di principio l'idea di nazione fu il veicolo di un
senso di appartenenza più che di esclusione. Non generò ancora
guerre di 'conquista', ma solo guerre di 'liberazione' (anche se i
confini tra i due tipi di conflitto possono diventare assai labili,
come doveva dimostrare il tentativo hitleriano di 'liberare' i
tedeschi dell'Europa centro-orientale). E soprattutto, si venne a
configurare come un principio in qualche modo universalizzabile,
conciliandosi così con i progetti di una riorganizzazione
dell'Europa su basi federalistiche.
Dopo la costruzione degli Stati nazionali italiano e tedesco - e
dunque a partire dall'ultimo trentennio del XIX secolo - per lo meno
in Europa la sintassi della nazione e dell'idea di nazione prese a
trasformarsi in maniera più o meno radicale, secondo alcune linee
già peraltro anticipate dal corso dell'unificazione bismarckiana del
mondo tedesco. Il mutamento in questo senso decisivo fu che la
'nazione' cessò di essere l'ideologia di un'élite politica e/o
intellettuale impegnata nella costruzione di una più ampia unità
politica e statuale per divenire, senza residui, l'ideologia
legittimante e primaria di uno Stato ormai consolidato e dotato, per
definizione, degli attributi caratteristici della sovranità. Di uno
Stato, cioè, che all'interno - in quanto Stato burocratico
centralizzato - rivendicava il monopolio dei mezzi
dell'amministrazione e della coercizione fisica, e che all'esterno -
in quanto Stato-potenza nel senso rankiano - andava confrontandosi
con altri Stati sovrani nell'arena sostanzialmente anarchica della
politica internazionale. Beninteso: fin dal XVI-XVII secolo gli
Stati moderni avevano iniziato a definirsi in questo duplice senso,
vale a dire come Stati burocratici e di potenza.
È solo a partire dalla seconda metà dell'Ottocento tuttavia - con la
rilevante anticipazione della Grande Nation francese all'epoca della
Rivoluzione e delle guerre napoleoniche - che tali Stati fecero
ricorso sistematico alle ideologie della nazione abbandonando il
riferimento alle retoriche della dinastia o a quelle puramente
politiche della ragion di Stato. Così avvenne, per fare solo due
esempi classici, nella Francia di Napoleone III e poi della Terza
Repubblica, e nella Prussia-Germania di Bismarck e poi di Guglielmo
II. In ragione di questo nuovo e diverso riferimento, l'idea di
nazione continuò a svolgere un importante ruolo di tipo integrativo,
sostenuto tra l'altro dai processi di democratizzazione e da
istituzioni pubbliche quali la scuola e l'esercito.
Tale ruolo, tuttavia, poteva adesso caricarsi - come spesso accadde
soprattutto nei regimi autoritari e totalitari del XIX e del XX
secolo - di implicazioni profondamente illiberali, legittimando
retoricamente tendenze all'omologazione e all'irreggimentazione che
potevano a loro volta autorizzare la persecuzione di presunti
'nemici' interni: elementi 'antinazionali' quali l'ebreo, il
socialista, l'internazionalista. Nello stesso tempo, in questa nuova
costellazione, l'idea di nazione poteva di nuovo retoricamente
legittimare e alimentare - come di fatto avvenne nell'età
dell'imperialismo - la volontà di potenza dello Stato nazionale, le
logiche classiche della ragion di Stato, l'oppressione coloniale, la
nozione di una missione specifica dello Stato-nazione nella politica
mondiale, e quindi la guerra.
Se si scompone il quadro che abbiamo sin qui schematicamente
delineato si possono fissare alcune conclusioni più generali. La
prima conclusione è che nel corso del suo sviluppo tra gli inizi
dell'Ottocento e la prima metà del Novecento il linguaggio della
nazione e del nazionalismo opera su due costellazioni di teorie e di
pratiche politiche radicalmente diverse: fino al 1860-1870 circa, la
tradizione del pensiero liberale e democratico; dopo di allora, le
ideologie dell'imperialismo. La seconda conclusione è che risulta
davvero opportuno distinguere tra 'idea di nazione', esprit de
nationalité o 'nazionalitarismo' da un lato e 'nazionalismo'
dall'altro, dato che furono proprio i contemporanei a utilizzare il
termine nazionalismo, o gretto nazionalismo, per indicare e
deplorare le profonde trasformazioni che il 'principio di
nazionalità' venne a subire quando cessò di essere legato alla lotta
di liberazione dei popoli oppressi per vincolarsi invece alla
politica di potenza degli Stati burocratici centralizzati e alle
logiche della ragion di Stato. La terza conclusione è che, come
ideologia dello Stato burocratico e di potenza le retoriche
nazionalistiche dovevano poi produrre effetti assai diversi se
interpretate alla Renan, vale a dire nel senso di una comunità che
vuole riconoscersi in quanto nazione, o invece nel senso di una
comunità oggettivamente definita da fattori quali la lingua, il
territorio, la cultura, l'etnia. Soprattutto in questo secondo caso
infatti, e in modo particolare in quelle varianti che identificarono
poi tout court la nazione con la razza, le ideologie nazionalistiche
furono veicoli di rappresentazioni dell'appartenenza e
dell'esclusione assai più radicali. Le quali non dovevano generare
soltanto la guerra contro il nemico 'esterno' e l'opposizione contro
il nemico 'interno', ma anche il genocidio e, durante il secondo
conflitto mondiale, l'Olocausto. Una quarta conclusione, infine,
riguarda il nesso tra Stato e nazione e quindi, in un senso più
specifico, tra Stato nazionale e nazionalismo.
Nella seconda metà dell'Ottocento prevaleva ancora l'idea secondo
cui la nazione doveva essere intesa in qualche modo come un'entità
preesistente allo Stato nazionale: un'entità per così dire
'scoperta' o riscoperta dalle classi colte e posta in essere nella
sua dimensione politico-statuale dalle classi politiche e dirigenti
di aspiranti, nuovi o consolidati Stati nazionali. Già Benedetto
Croce, peraltro, aveva messo in guardia contro simili
interpretazioni, sostenendo che nel caso esemplare della nazione
italiana non si poteva certo sostenere che la nazione esistesse
prima della sua volontà di divenire Stato. Hobsbawm, su questa
medesima lunghezza d'onda, ha dimostrato più in generale come non
siano tanto le nazioni a generare lo Stato nazionale quanto
piuttosto gli Stati e le istituzioni statali a produrre quegli
artefatti ideologici che sono le nazioni: preparate già dalla
monarchia di antico regime e poi poste in essere nel XIX secolo
dalle élites dirigenti degli Stati nazionali. In un senso assai
simile Ernest Gellner ha affermato che è il nazionalismo a generare
le nazioni e non viceversa. Soprattutto per quanto riguarda la
seconda fase della parabola delle nazioni e dei nazionalismi, il
periodo compreso tra il 1860-1870 e il 1945, rimane quindi
persuasiva la tesi di Mario Albertini (v., 1960) secondo cui i
nazionalismi altro non sarebbero che l'ideologia specifica dello
Stato centralizzato e burocratico moderno.
Dopo il 1945, in ragione del suo totale discredito, il nazionalismo
ha cessato di essere un'ideologia sostenibile nella vecchia Europa e
nel contempo ha perso di senso di fronte alla divisione del pianeta
in sfere di influenza, alla guerra fredda e alla politica dei
blocchi. Esso è tuttavia riemerso come una delle ideologie portanti
dei processi di decolonizzazione e di liberazione nazionale dei
paesi del Terzo Mondo, manifestando importanti analogie con il
'risveglio dei popoli' europei del secolo precedente ma anche un più
accentuato carattere artificiale e ingegneristico. Esso ha avuto
anche una funzione integrativa assai importante nei processi di
modernizzazione, ma spesso nel quadro di costruzioni politiche
autoritarie o, come nel caso dell'America Latina, populiste.
Condizionato dalle logiche planetarie del bipolarismo, indebolito -
soprattutto nel continente africano - dalla persistenza del
tribalismo, in un rapporto complicato con i cosiddetti movimenti
'panistici' e con i fondamentalismi religiosi, questo nuovo
nazionalismo non ha impresso tuttavia il suo marchio alla politica
mondiale, come accadde invece nell'epoca classica del nazionalismo.
Non per questo però si può affermare, con Hobsbawm (v., 1990), che
il nazionalismo ha cessato di essere uno dei motori fondamentali
della storia contemporanea. All'indomani della caduta del Muro di
Berlino (1989) e poi della disintegrazione dell'Unione Sovietica,
infatti, sembrano riprodursi, in forme straordinariamente violente,
quelle stesse dinamiche 'smembranti' che tra XIX e XX secolo
caratterizzarono la lunga agonia dell'Impero asburgico e dell'Impero
ottomano. Con esiti ancora francamente imprevedibili.