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Storia della Francia
Origini
Le invasioni barbariche del 5° sec. eliminarono
rapidamente il dominio romano sulla Gallia tanto che nel 476,
alla caduta dell’impero d’Occidente, vi sussisteva ancora soltanto
una piccola zona romana attorno a Soissons; il resto del territorio
faceva parte di tre distinti regni barbarici: a S quello dei
visigoti, che si estendeva anche su buona parte della Penisola
Iberica, a E quello dei burgundi, comprendente pure buona parte dei
territori dell’attuale Svizzera, e a N quello dei franchi sali.
Ma i primi due regni erano destinati a scomparire assai presto e
l’inizio della storia della F. medievale si può far
coincidere con le imprese militari dei franchi sali e della loro
dinastia, che prese il nome di merovingia dal re Meroveo, federato
dell’impero, sebbene fino all’843 ca. si debba parlare piuttosto di
regnum Francorum, con implicazioni territoriali sensibilmente
diverse, anziché di Francia.
Morto nel 482 il re merovingio Childerico, il governo dei franchi
sali di Tournai passò al giovane Clodoveo, che pose fine alla
presenza dei romani di Soissons (486-487) e riuscì a
costituire il proprio popolo in un regno compatto e ad assicurargli
una notevole espansione. Con la vittoria di Vouillé (507) su
Alarico II, Clodoveo assorbì il regno dei visigoti, a
eccezione della Settimania, occupata dall’ostrogoto re Teodorico.
Il programma espansionistico di Clodoveo fu realizzato, attraverso
fasi alterne, dai suoi successori. La concezione tipica dei franchi,
che il regno fosse proprietà privata della dinastia, da
dividere come un patrimonio, produsse alla morte di Clodoveo (511)
la spartizione del regnum Francorum tra i figli Teodorico (re di
Metz), Clodomiro (re di Orléans), Childeberto (re di Parigi),
Clotario (re di Soissons). Tuttavia, per il momento, tale divisione,
foriera di futuri, aspri contrasti, non arrestò il processo
di espansione della monarchia merovingia.
Nel 558 Clotario I poté nuovamente riunire in uno solo i vari
regni franchi, ma alla sua morte (561) prevalse nuovamente il
criterio patrimoniale e il regno fu diviso tra i quattro figli del
defunto. Si aprì così un nuovo periodo di guerre
civili in cui la dinastia merovingia, sebbene potesse annoverare dei
ritorni di potenza e di relativa unità territoriale con
Clotario II (613-629) e il figlio Dagoberto (629-638), finì
con l’esautorare sé stessa. Il regnum Francorum era ormai
diviso in Austrasia, Neustria, Borgogna e Aquitania.
Lo strumento dell’aristocrazia per soppiantare il potere monarchico
fu la nuova istituzione dei maggiordomi o maestri di palazzo, capi
dell’aristocrazia locale e di fatto, se non di diritto, veri
sovrani. Costoro raggiunsero una notevole potenza già nella
prima metà del 7° secolo. In Austrasia si affermò
Pipino II (di Héristal), figlio di un maestro di palazzo; fu
suo figlio, Carlo Martello, a imporre un dominio effettivo su
Neustria, Austrasia e Aquitania, ricostituendo l’unità del
regno. Così, quando l’ondata islamica superò i
Pirenei, Carlo Martello, effettivo detentore del potere in F.,
poté fermarla a Poitiers (732 o 733) e successivamente
liberare le zone ove i musulmani si erano annidati (Avignone,
Béziers ecc.).
Con la scomparsa di Carlo Martello (741), si profilò subito
un nuovo corso politico sotto i figli e successori Carlomanno
(maggiordomo di Austrasia) e Pipino (maggiordomo in Neustria e
Borgogna): nel 745 la monarchia merovingia, formalmente mai
abrogata, conobbe un nuovo esponente nella persona di Chilperico
III, e la politica di Carlo Martello di spoliazione dei benefici
ecclesiastici cedette il posto a una politica di protezione del
clero. Così, quando il volontario ritiro di Carlomanno dal
potere (747) ebbe lasciato il campo libero al fratello Pipino,
questi mise termine alla monarchia merovingia e si fece proclamare
re dall’assemblea dei grandi (751). Il papa Zaccaria approvò
e il suo successore Stefano III, spinto dalla minaccia longobarda,
si recò nel 753 alla corte di Pipino, consacrando lui e i
suoi figli col sacro crisma, e dando così alla nuova
dinastia, che fu poi detta carolingia, un carattere sacerdotale e
sacro.
Con il regno di Pipino (751-768) iniziò un periodo nuovo
nella storia dei franchi che si dilatò, con il suo successore
Carlomagno (768-814), quasi a storia dell’Occidente europeo.
Carlomagno combatté con successo contro longobardi (774),
arabi, sassoni (772-804), avari, creando un dominio che si estendeva
dall’Ebro all’Elba, dalla Frisia a parte dell’Italia. Durante il suo
regno promosse una vasta opera di riordino legislativo e giuridico e
favorì un’importante, per quanto effimera, rinascita
intellettuale. All’antico regnum Francorum, sempre sussistente, si
sovrappose, con la consacrazione di Carlomagno a imperatore, da
parte di Leone III (800), l’universalità del Sacro romano
impero1 sorto in quell’occasione.
Una dimensione propriamente francese della storia dei Carolingi si
rintraccia durante le lotte tra il successore di Carlomagno,
Ludovico il Pio (814-840), che con l’Ordinatio imperii dell’817
aveva tentato di affermare il criterio dell’unità imperiale,
e i figli che a ciò si ribellarono, e poi durante le lotte
intestine tra quegli stessi figli. L’esito di questo travaglio fu il
Trattato di Verdun (843), che sancì la divisione dell’impero
carolingio in tre zone che prefiguravano tre rispettive future
entità politiche: mentre a Lotario restò il titolo
imperiale, la Lotaringia e l’Italia, a Carlo il Calvo (843-877)
toccò il territorio francese tranne le terre a E della Mosa,
Saona e Rodano, e a Ludovico il Germanico il regno orientale tra
l’Elba e il Reno. Con il trattato di Ribemont (880) il confine tra
le future Francia e Germania venne spostato a O della Mosa e sulla
Schelda.
Carlo il Calvo venne riconosciuto come re dei franchi occidentali e
lui e i suoi successori, pur continuando a nutrire aspirazioni
imperiali, assunsero di fatto una figura sempre meglio definita di
sovrani di un determinato territorio.
Deposto Carlo il Grosso (887), che si era dimostrato incapace di
affrontare l’invadenza normanna, l’aristocrazia francese scelse come
re un proprio pari, il difensore di Parigi dai normanni, Eude o
Oddone (887-898), figlio di Roberto il Forte, conte di Parigi.
Per un secolo la F. oscillò fra gli ultimi rampolli della
gloriosa dinastia carolingia e quelli della nuova dinastia dei conti
di Parigi, mentre la stessa autonomia della F. veniva messa
più di una volta in pericolo dall’intervento degli imperatori
tedeschi.
Nel 987 la partita fu definitivamente vinta da Ugo Capeto (figlio e
successore del potentissimo conte di Parigi Ugo), che i grandi
riconobbero loro sovrano.
La monarchia feudale.
La nuova monarchia, che sarà poi detta capetingia, fu una
monarchia tipicamente feudale. I re si consideravano signori di
diritto di tutte le terre che si estendevano dalla Schelda all’Ebro;
ma di fatto erano signori solo del Paese a N della Senna,
l’Île-de-France. I re Capetingi si trovarono a lungo
nell’impossibilità di imporre alcuna politica unitaria.
Riuscirono comunque ad attuare una lenta e costante espansione del
possesso regio diretto e un rafforzamento del potere, mirando a
imporre la successione dinastica in linea maschile.
Un crescente prestigio religioso circondava la figura del re, in
relazione alla consacrazione divina che riceveva per il tramite
della Chiesa e alle virtù taumaturgiche che venivano
attribuite ai sovrani per la loro funzione.
Con il successore di Filippo I, Luigi VI (1108-37), si ebbe il primo
tentativo organico di affermare la sovranità della corona:
egli si preoccupò anzitutto d’imporre la sua autorità
ai vassalli diretti ribelli e di ristabilire la pace nelle proprie
campagne; in un secondo momento di controbilanciare il potere
nobiliare ricercando anche un più diretto collegamento con i
nuovi ceti emergenti nella città. Luigi VI operò anche
un’accorta politica matrimoniale, riuscendo a combinare l’unione tra
suo figlio, il futuro Luigi VII (1137-80), ed Eleonora, erede del
ducato di Aquitania (1127): con queste nozze la dinastia capetingia
portava i suoi confini ai Pirenei. Ma quando Luigi ripudiò la
moglie Eleonora, questa strinse nuove nozze con il più
temibile vassallo avversario della dinastia francese, Enrico
Plantageneto, conte d’Angiò e duca di Normandia e, dal 1154,
re d’Inghilterra.
Il conflitto che scoppiò tra Enrico II e Luigi VII
continuò anche sotto il successore di Luigi VII, Filippo
Augusto (1180-1223), che approfittò della difficile
situazione dell’Inghilterra sotto Riccardo I e suo fratello Giovanni
Senzaterra, riuscendo a confiscare agli inglesi la maggior parte dei
loro possedimenti sul continente. La vittoria riportata dai francesi
a Bouvines nel 1214 contro le forze dello stesso Giovanni, del conte
di Fiandra e dell’imperatore, risultò un vero trionfo della
monarchia. Filippo Augusto riorganizzò l’amministrazione del
regno, dando spazio all’elemento borghese e istituendo magistrati
regi e tribunali d’appello, e fissò definitivamente la
capitale del regno a Parigi, che con la sua università
divenne presto uno dei maggiori centri di irradiazione di cultura in
Europa.
I successori ne continuarono la politica e consolidarono le
conquiste, anche se la repentina morte di Luigi VIII (1223-26) rese
necessaria una reggenza, funestata da torbidi di carattere feudale.
Con Luigi IX (1226-70) la F. raggiunse l’apice del suo prestigio
morale e politico: il re «santo» venne spesso invocato
dagli altri sovrani europei come arbitro delle loro contese. Luigi
IX svolse un’intensa, anche se sfortunata, politica meridionale e
mediterranea, perseguendo a un tempo, nella sesta e nella settima
crociata, l’antico ideale della conquista cristiana e le più
recenti sollecitazioni a una politica di potenza provenienti dal
nuovo re di Sicilia, il fratello Carlo d’Angiò. Sul piano
interno, domò una rivolta della grande feudalità,
mentre nei confronti dell’Inghilterra Luigi ottenne, con il Trattato
di Parigi del 1259, la formale rinuncia di Enrico III alle pretese
sui possessi inglesi nel continente. Con il regno di Luigi IX si
perfezionò l’organizzazione del potere regio.
Con i suoi successori Filippo III l’Ardito (1270-85) e Filippo IV il
Bello (1285-1314) il programma di espansione e di egemonia della
potenza francese venne perseguito con finalità esclusivamente
politiche. Ne seguì tuttavia un aspro contrasto con papa
Bonifacio VIII, che culminò nella cattura del pontefice (col
noto episodio dello «schiaffo di Anagni», 1303), con
l’elezione di un papa francese, Clemente V (1305) e il trasferimento
della sede pontificia ad Avignone (1309). Nella lotta che lo vide
opporsi al potere pontificio, Filippo poté valersi del
concorso di tutta la nazione, forte anche del sostegno dei
rappresentanti dei ceti borghesi chiamati per la prima volta a
sedere negli Stati generali del 1302 a fianco della nobiltà e
del clero. Filippo ampliò inoltre i possessi regi
aggiungendovi la Champagne e il Lionese. Proclamato re di Navarra
(1289), riuscì ad annettersi la Fiandra di lingua francese
(1304).
Lo Stato nazionale.
Prima che la F. potesse divenire realmente un forte Stato, era
necessario che il duello anglo-francese avesse fine. Questo duello
si riaccese alla morte di Carlo IV (1328) per l’opposizione del re
d’Inghilterra Edoardo III a riconoscere l’avvento sul trono francese
del ramo capetingio dei Valois; e fu la guerra dei Cent’anni2,
che nel suo periodo centrale si trasformò anche in guerra
intestina della feudalità francese, divisa tra le due opposte
fazioni degli armagnacchi (fautori, per lo più, dei re di F.)
e dei borgognoni (fautori degli inglesi). A dispetto dei durissimi
colpi subiti, la F. seppe trovare, grazie all’azione di Giovanna
d’Arco, l’energia necessaria per superare il pericolo. La pace del
1453 ridusse così il dominio inglese in F. alla sola Calais,
che venne riunita alla F. solamente nel 1558.
Rimarginate, nel corso del regno di Carlo VII (1422-61), le
più gravi ferite del lungo conflitto, la monarchia francese
riacquistava in pieno la sua potenza per l’abile politica del figlio
e successore Luigi XI (1461-83), il quale completò l’opera di
indebolimento della feudalità iniziata dai suoi antecessori.
Sconfitto nel 1468 dal potente duca di Borgogna Carlo il Temerario,
Luigi XI poté comunque portare innanzi il suo programma
approfittando della lotta che oppose il duca di Borgogna agli
svizzeri e che si concluse con la sconfitta e la morte di Carlo
nella battaglia di Nancy (1477). Parte dei possessi di Carlo
passarono agli Asburgo quale dote di sua figlia Maria, sposa di
Massimiliano I. Luigi XI tuttavia riuscì ad annettersi la
Borgogna. Occupato l’Angiò, si annetteva nel 1480 anche la
Provenza per l’estinzione del ramo angioino e, con il matrimonio del
figlio Carlo VIII con Anna di Bretagna, preparava la riunione alla
corona francese di quest’ultimo grande dominio feudale.
La lotta per l’egemonia in Europa.
Con l’avvento al trono di Carlo VIII (1483-98), la politica francese
subì una svolta: cessato lo scontro con gli Asburgo, Carlo
VIII si rivolse alla Penisola Italiana, rivendicando contro gli
aragonesi i suoi diritti in Italia sull’eredità degli
Orléans-Visconti e degli Angioini. Iniziarono così le
guerre d’Italia, condotte inizialmente da Carlo e poi continuate da
Luigi XII, con un iniziale successo francese. Ma fu proprio in
Italia che la politica francese vide risorgere davanti a sé
gli Asburgo, divenuti gli eredi della politica italiana degli
Aragonesi nella persona di Carlo V imperatore, e re di Castiglia e
di Aragona.
Le mire francesi sull’Italia furono ben presto rintuzzate nella
guerra combattuta a partire dal 1521 tra Carlo V e il successore di
Luigi XII, Francesco I; la F. si trovò addirittura costretta
sulla difensiva contro il disegno dell’impero universale di Carlo V
che accerchiò in una morsa di ferro la nazione francese. Dal
1521 al 1559 il conflitto ebbe sorti alterne, ma la strapotenza,
almeno iniziale, di Carlo V non riuscì mai a infliggere un
colpo decisivo alla F. e la Pace di Cateau-Cambrésis,
sostanzialmente, sancì la vittoria del successore di
Francesco I, Enrico II (1547-59); l’accerchiamento ispano-asburgico
era rotto, non essendo più il regno di Spagna unito ai
possessi ereditari asburgici né alla corona imperiale, e se
la Penisola Italiana restava chiusa alla F., questa tuttavia
accresceva il proprio territorio nazionale con Calais, Metz, Toul e
Verdun. La contrapposizione alla Spagna si trasferì anche nel
Nuovo Continente.
Contestando la validità del Trattato di Tordesillas (1494),
che aveva trasformato la rotta atlantica in una prerogativa
esclusiva di Spagna e Portogallo, Francesco I aveva posto le
premesse per la nascita della Nuova F., il dominio di maggiore
estensione all’interno di quello che divenne il primo impero
coloniale francese. In nome di Francesco I, i navigatori Giovanni da
Verrazzano (1524-28) e Jacques Cartier (1534-41) raggiunsero il Nord
America e si spinsero fino al Brasile, nel tentativo di individuare
un passaggio verso il Pacifico. La sostanziale vittoria francese era
dipesa in parte dalle complicazioni religiose sorte in seno
all’impero di Carlo V per effetto della Riforma protestante;
tuttavia la Riforma, con le guerre di religione, mise in serio
pericolo l’esistenza dello Stato francese. Infatti i calvinisti
francesi (ugonotti) si fecero anche portavoce della reazione
dell’alta nobiltà alle tendenze accentratrici della
monarchia. D’altra parte, le persecuzioni religiose e la guerra
civile spinsero il mondo protestante ad accentuare le posizioni
antimonarchiche e i numerosi libelli dei monarcomachi giunsero a
ipotizzare il tirannicidio.
Le gravi difficoltà in cui era costretta a dibattersi,
spinsero la reggente Caterina de’ Medici ad attuare una difficile
politica di equilibrio, che di volta in volta la rendeva schiava ora
dei Borboni, ugonotti, ora dei Guisa, cattolici. Mentre la corona
trovava la salvezza solo in atti di spietata energia (tipica la
strage della notte di s. Bartolomeo del 1572), le guerre di
religione si susseguirono incessantemente e la F. stessa divenne la
posta di un più ampio gioco diplomatico internazionale.
L’assassinio di Enrico III (1589), risposta al precedente assassinio
del duca di Guisa, lasciò come diretto erede al trono Enrico
di Borbone Navarra, il capo degli ugonotti. Per rimuovere l’ostacolo
religioso Enrico si convertì al cattolicesimo. Arrivato per
ben due volte fino alle porte di Parigi ma sempre respinto, Enrico
IV trovò un alleato decisivo nella stanchezza che il governo
dei Sedici aveva generato nella borghesia e nel popolo di Parigi e,
alla fine, fu invocato come unico re di F. dagli Stati generali del
1593.
Riaffermata la potenza francese all’estero nella guerra contro la
Spagna (1595-98), pacificato il Paese garantendo i diritti dei suoi
ex correligionari con l’Editto di Nantes (1598), Enrico IV
(1589-1610) diede un notevole impulso alla vita economica del regno,
ma cadde vittima del fanatico cattolico F. Ravaillac (1610).
Maria de’ Medici, reggente per il piccolo Luigi XIII (1610-43)
cercò di allineare la F. su posizioni di intransigente
cattolicesimo controriformista, il che riaccese i conflitti con la
nobiltà. Divenuto maggiorenne (1617), Luigi XIII assunse
direttamente il potere, anche se in un rapporto conflittuale con la
regina madre che si risolse definitivamente solo nel 1630. Dal 1624
aveva accettato che entrasse a far parte del Consiglio del re il
cardinale di Richelieu, pur sapendo che questi era stato l’uomo di
C. Concini e di Maria de’ Medici.
L’azione di Richelieu si svolse in una duplice direzione:
all’interno, si adoperò per limitare il potere politico della
nobiltà e diede impulso alla centralizzazione
dell’ordinamento amministrativo della F., la cui spina dorsale
divennero progressivamente, in luogo dei governatori nobili, gli
intendenti di provenienza borghese, veri funzionari dello Stato;
all’estero, si propose l’espansione territoriale francese e
l’indebolimento degli Asburgo.
Ambedue le direttive politiche del Richelieu furono proseguite dal
successore Mazzarino, non appena questi ebbe partita vinta
sull’estremo sussulto della classe nobiliare e di tutti coloro che
erano stati danneggiati dall’assolutismo monarchico. Grazie alla
minorità di Luigi XIV (1643-1715) e ai vincoli affettivi che
lo univano alla reggente Anna d’Austria, grazie anche al fatto che
Luigi XIV, una volta proclamato maggiorenne, gli mantenne
integralmente il precedente potere, il Mazzarino fu fino alla morte
(1661) l’assoluto arbitro della Francia.
Con le paci di Vestfalia (1648) e dei Pirenei (1659) egli ottenne la
sconfitta degli Asburgo sia d’Austria sia di Spagna. Mantenne la
Germania in uno stato di grande frammentazione politica e militare,
condizione basilare per l’affermarsi dell’egemonia francese in
Europa; con il matrimonio tra Luigi XIV e l’infanta Maria Teresa
pose le premesse per le future rivendicazioni francesi sulla Spagna;
all’interno, la politica antinobiliare e assolutistica del Richelieu
fu proseguita sistematicamente, sebbene con minore duttilità.
L’età di Luigi XIV. La crisi dell’assolutismo monarchico.
Preso in mano il potere effettivo nel 1661, Luigi XIV, detto il Re
Sole, portò alla sua massima espressione la politica dei
grandi ministri e pose il proprio assolutismo anche a base della
politica religiosa: combatté i protestanti (revoca
dell’Editto di Nantes, nel 1685) e i giansenisti, entrò in
aspri contrasti col papato per alcuni privilegi dell’ambasciatore
francese a Roma e soprattutto per i quattro articoli della
dichiarazione gallicana del 1682. Sebbene il re, in teoria,
governasse da solo, Luigi XIV, almeno nella prima parte del suo
regno, ascoltò e attuò i consigli di ministri assai
esperti: si deve al Vauban il pregevole sistema difensivo delle
grandi fortezze, a M. Le Tellier e a suo figlio
François-Michel marchese di Louvois la riorganizzazione
dell’esercito francese.
Ma nulla eguagliò per importanza la politica economica e
finanziaria di J.-B. Colbert, il quale, dopo aver risanato le
finanze compromesse dal disordine precedente, iniziò una
nuova politica economica di tipo mercantilista, che, se a lungo
andare si rivelò dannosa per aver reso più aspri e
meno sanabili i contrasti internazionali, fu tuttavia uno strumento
mirabile per realizzare il programma di Luigi XIV, assolutista
all’interno e imperialista all’estero.
Il regno di Luigi XIV fu, infatti, caratterizzato da una serie quasi
ininterrotta di campagne militari volte a guadagnare le frontiere
naturali e a piegare ancora una volta gli Asburgo. Le guerre furono
quanto mai fortunate all’inizio: la guerra di devoluzione, con la
Pace di Aquisgrana del 1668, diede a Luigi XIV numerose città
fiamminghe; la guerra di Olanda, con il successivo Trattato di
Nimega del 1678, attribuì alla F. altre città
fiamminghe e la Franca Contea; la politica delle «Camere di
riunione» portò all’annessione di Strasburgo e Casale.
Non diedero invece apprezzabili vantaggi né la guerra della
Grande alleanza del 1688-97, né la guerra di Successione
spagnola del 1701-14. A parte l’innegabile successo in Spagna
(insediamento di Filippo V d’Angiò, su quel trono), la lunga
guerra risultò dannosa alla F., che ne uscì con le
frontiere non compromesse, ma con le finanze esauste e le energie
infrante. Al termine degli scontri di religione, la corona francese
aveva recuperato le sue ambizioni coloniali e aveva promosso la
fondazione di Quebec e di altri insediamenti commerciali legati al
mercato delle pellicce, nell’area del fiume San Lorenzo. La presenza
francese si era quindi estesa a S, lungo la fascia atlantica, e alla
fine del 17° sec. era giunta a comprendere i governatorati di
Acadia, Canada, Baia di Hudson, Terranova e Louisiana (bacino del
Mississippi) e le isole caraibiche di Guadalupa, Guiana e Martinica,
con la parte occidentale di Haiti. I timidi tentativi di
penetrazione nell’America del Sud, erano stati invece vanificati
dalla Spagna, che in seguito alla fusione con la corona di
Portogallo (1580), era divenuta la potenza egemone nella metà
meridionale del continente, e nell’America Centrale e istmica.
Con la creazione del Consiglio della Nuova Francia (1663), la
fisionomia delle colonie francesi, in origine quella di semplice
rete di scali commerciali fortificati sul modello portoghese e
olandese, aveva assunto un’impronta invece molto simile a quella dei
limitrofi domini spagnolo e inglese. Piantagioni di zucchero e
cotone, per esempio, erano sorte anche in Louisiana, e avevano
richiesto l’introduzione di schiavi africani. Si era inoltre
deteriorato il rapporto tra i colonizzatori francesi e le
popolazioni indigene, colpite dai primi provvedimenti di espulsione
o repressione.
La proiezione dei commerci francesi nell’altra metà del
globo, aveva frattanto prodotto risultati affini a quelli del Nord
America: in Senegal erano stati aperti empori per il commercio di
avorio e schiavi, e sempre sulla rotta orientale delle Indie erano
sorte numerose colonie come Pondicherry (1674). Erano state
istituite anche la Compagnia delle Indie occidentali e quella delle
Indie orientali (1664), specializzata in merci di maggiore pregio
come la seta e le spezie. Le Compagnie rappresentarono un tassello
chiave del mercantilismo francese, ossia della politica economica
elaborata da Colbert e si ispirarono al modello delle omonime
società inglese e olandese. Tuttavia quella francese non si
sviluppò mai in un’organizzazione di operatori commerciali
privati, rimanendo piuttosto dipendente dall’iniziativa statale.
Nonostante gli ingenti investimenti della corona e della stessa
famiglia Colbert, l’aristocrazia francese rimase riluttante
all’impresa, conservando un’ottica prevalentemente mediterranea e
dimostrandosi scarsamente sensibile all’attrattiva del commercio
marittimo.
Questo aspetto ebbe conseguenze decisive per il colonialismo
francese, come dimostra il caso del barone John Law, studioso di
economia, cui fu concesso di fondare una Banca generale legata ai
profitti dei possedimenti francesi in Mississippi (1716). A fronte
degli alti dividendi promessi agli azionisti, i risultati si
rivelarono deludenti, e il timore di perdere i capitali investiti
generò il panico fra gli investitori, decretando il
fallimento dell’iniziativa e la fuga di Law. Un clima che
influenzò grandemente il confronto commerciale fra F. e
Inghilterra, contrasti che hanno anzi suggerito la definizione di
«seconda guerra dei Cent’anni» (1688-1789).
La reggenza del duca di Orléans, troppo personalisticamente
interessata, per il piccolo Luigi XV (1715-74), poi il noncurante
sistema di governo dello stesso re aggravarono la situazione
lasciata in eredità dal Re Sole. Sul piano interno, furono
anni di ripresa degli ordini privilegiati e di spericolata politica
finanziaria; i gesuiti furono espulsi; nel 1771 furono soppressi i
parlamenti.
Con il Trattato di Utrecht (1713), che sancì il passaggio
dell’Acadia agli inglesi, era cominciata anche l’espansione
dell’impero coloniale inglese, a danno di quello francese,
proseguita con la guerra dei Sette anni (1756-63), durante la quale
questi ultimi conquistarono la maggior parte della Nuova Francia e
la Spagna ottenne l’intera Louisiana. I francesi conservarono il
possesso delle isole caraibiche e dei possedimenti nelle Indie
orientali, ma il primo impero coloniale francese si era dissolto, e
né il sostegno che la F. garantì ai futuri Stati
Uniti, né la successiva stagione rivoluzionaria e
napoleonica, poterono ricomporlo.
Per esempio, la campagna d’Egitto (1798), di cui fu protagonista lo
stesso Napoleone, si tradusse in un insuccesso e la riconquistata
Louisiana (1800) venne infine venduta agli USA (1803), a causa della
rivolta antifrancese che era frattanto scoppiata a Haiti e che
portò all’indipendenza dell’isola.
Nel 1770 fu sciolta anche la Compagnia delle Indie orientali,
provvedimento che ancora una volta incrinò il rapporto di
fiducia tra la corona e gli azionisti privati, a danno dell’intera
economia francese. Anche i tratti linguistici e culturali che sono
ancora oggi caratteristici di ampie zone del Canada fanno parte dei
lasciti di questa prima colonizzazione.
Battuta dall’Inghilterra sul piano delle ambizioni coloniali, la F.
riuscì però a compensare questa sconfitta col
rafforzamento della propria posizione europea e mediterranea e, alla
fine, approfittando della rivolta delle tredici colonie inglesi
dell’America Settentrionale, col suo intervento, prima di volontari
(La Fayette ecc.) poi di forze regolari, riuscì a prendersi
la rivincita sulla nemica Inghilterra (Pace di Versailles del 1783).
La Rivoluzione.
La guerra americana tuttavia aggravò il bilancio dello Stato;
l’opinione pubblica, sostenuta dagli esponenti dell’Illuminismo,
reclamava una riforma radicale dell’assetto amministrativo e
politico del Paese. Il nuovo sovrano Luigi XVI (1774-92), debole e
indeciso, non seppe contrastare la riscossa degli ordini
privilegiati. Ristabiliti i parlamenti, appoggiata e poi rinnegata
la politica di R.-J. Turgot (1774-76), che aveva abolito le
corporazioni, il re finì con lo scontentare tutte le classi.
Il debito pubblico apriva le porte alla Rivoluzione, che si
prospettava, ai suoi primi inizi, come reazione dei privilegiati
all’assolutismo monarchico e come rivoluzione nobiliare (1787-89:
duplice assemblea dei notabili; richiesta di convocazione degli
Stati generali).
L’apertura degli Stati generali (5 maggio 1789) segnò
l’inizio della fase propriamente borghese della Rivoluzione:
convocati entro il vecchio sistema monarchico-feudale allo scopo di
fornire al sovrano i mezzi per colmare il deficit di bilancio, per
volontà del Terzo stato, cioè della borghesia, essi si
trasformarono in Assemblea nazionale costituente (9 luglio) e si
arrogarono il potere di dotare la F. di una Costituzione e di
risanarne le piaghe. Dall’Assemblea la spinta rivoluzionaria
passò al Paese; si ebbero così, accanto alla
rivoluzione borghese, una rivoluzione popolare, il cui momento
più saliente fu l’assalto alla Bastiglia e la sua distruzione
(14 luglio), e una rivoluzione contadina (assalti ai castelli,
fenomeno della «grande paura» ecc.).
La confluenza di queste tre forze provocò i due atti
più solenni di questo inizio rivoluzionario: il voto della
notte del 4 ag. 1789, col quale l’Assemblea costituente abolì
tutti i privilegi di natura feudale, e quello (20-26 ag.) della
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, vero atto di
morte dell’ancien régime. L’opposizione della corte e
l’atteggiamento oscillante del re Luigi XVI da una parte,
l’organizzazione dell’opinione pubblica in club dall’altra, diedero
nuova esca al torrente rivoluzionario: il 5-6 ott. turbe di popolo
parigino, rovesciatesi a Versailles, costrinsero la famiglia reale e
l’Assemblea stessa a trasferirsi a Parigi, ove, sotto la diretta e
continua pressione della piazza, la situazione precipitò. La
monarchia, tuttavia, si salvò grazie alla volontà
dell’alta borghesia, i cui deputati, timorosi della carica eversiva
popolare, nel sett. 1791 fecero giungere in porto una Costituzione
basata sul sistema censitario e sulla monarchia costituzionale; il
1° ott. 1791, sciolta l’Assemblea costituente, fu eletta
l’Assemblea legislativa, prevista appunto dalla Costituzione.
La fase successiva, che vide il prevalere deciso delle forze
propriamente rivoluzionarie e il tracollo della monarchia, fu
strettamente connessa alla minaccia straniera, determinata
dall’alleanza austro-prussiana in funzione antifrancese e
antirivoluzionaria. Dopo i primi rovesci, divenuta la monarchia
ancora più sospetta, ne derivò, dopo le manifestazioni
del 20 giugno 1792, la giornata del 10 ag., in buona parte opera di
Danton, con l’arresto del re e della sua famiglia e la proclamazione
fatta dall’Assemblea della decadenza della monarchia.
Seguirono, in settembre, le stragi di centinaia di
«sospetti» e la proclamazione (21 sett.) della
Repubblica da parte della nuova assemblea, la Convenzione, eletta a
suffragio universale in sostituzione della Legislativa, e riunitasi
lo stesso giorno della vittoria di Valmy (20 sett.).
Si apriva così un nuovo periodo, caratterizzato dalla
definitiva liquidazione del passato e dall’aggravarsi del pericolo
esterno. L’occupazione francese del Belgio seguita alla grande
vittoria di Jemappes (6 nov. 1792) e poi l’esecuzione del re avevano
indotto l’Inghilterra, la Spagna e alcune minori potenze europee
alla guerra; la prima coalizione antifrancese (1° febbr. 1793)
otteneva decisivi successi già nel marzo, rioccupando per la
vittoria di Neerewinden il Belgio e penetrando in F. da E, mentre
truppe spagnole oltrepassavano il confine meridionale. All’incubo
dell’occupazione militare straniera si aggiungeva inoltre il
precipitare della situazione finanziaria interna per le eccessive
emissioni di assegnati, il duello mortale tra i girondini e i
giacobini e la rivolta antirivoluzionaria scoppiata in vari luoghi
(Vandea, soprattutto, e Bretagna).
Sgominato il partito della gironda nella giornata del 2 giugno 1793,
il potere si accentrò nelle mani del vero capo del partito
giacobino, M. Robespierre. Fu il «periodo del terrore»,
dominato dal Comitato di salute pubblica e contraddistinto da uno
sforzo continuo e fortunato contro la pressione militare straniera,
da un esperimento di economia regolata (legge del Maximum),
dall’ascesa politica delle classi meno abbienti (artigiani
soprattutto).
Ma la lotta intrapresa da Robespierre con le ali estreme del suo
stesso partito (la destra dantonista e la sinistra hebertista),
insieme con gli eccessi della sua dittatura, provocarono il crollo
della politica giacobina e la giornata del 9 termidoro (27 luglio
1794).
Con la caduta di Robespierre e la reazione termidoriana cessò
la fase radicale della Rivoluzione; la parte più ricca della
borghesia riprese il sopravvento e, varata la Costituzione dell’ott.
1795, ebbe inizio il periodo del Direttorio, oscillante senza posa
tra una possibile restaurazione monarchica (colpo di Stato del 22
fiorile VI, cioè 11 maggio 1798) e una ripresa neogiacobina.
Si giunse allora, grazie anche alle incessanti guerre che
provocarono la trasformazione del soldato-cittadino del 1793 in
soldato professionale, all’instaurazione della dittatura militare di
Napoleone.
Il periodo napoleonico.
I travolgenti successi conseguiti a partire della campagna d’Italia
del 1796 proiettarono Napoleone Bonaparte ai vertici della vita non
solo militare, ma anche politica della F. del Direttorio. In seguito
al successo delle imprese militari, che con l’invio di sempre
maggiori contributi finanziari dai Paesi sottomessi salvarono il
bilancio della F. rivoluzionaria, crebbe il peso politico del potere
militare, soprattutto allorché le sorti della guerra
ritornarono a essere rovinose per la F., e le incertezze politiche
del Direttorio, corroso all’interno da contrasti e ondeggiante fra
una politica filomonarchica e una ripresa di azione montagnarda,
ebbero scontentato un po’ tutti.
Abbandonando l’impresa di Egitto, sbarcato a Fréjus il 9 ott.
1799, Napoleone attuò il colpo di Stato del 18-19 brumaio
(9-10 nov. 1799) che pose fine al Direttorio e iniziò quel
governo personale che lentamente si andò precisando sotto il
profilo costituzionale. Per prima cosa Napoleone riorganizzò
l’ordinamento politico attraverso varie costituzioni a carattere
sempre più autoritario. Il Concordato del 1801 pose fine alla
crisi religiosa, controbilanciato dagli articoli organici dell’anno
successivo. Un’intensa opera legislativa e l’emanazione di nuovi
codici, resero per sempre più profondo e irreversibile il
distacco dall’ancien régime, promossero lo sviluppo
dell’economia francese e, con la creazione della Banca di F., il 18
genn. 1800, la regolamentazione del credito nazionale. Infine, dopo
una nuova fortunata campagna in Italia (vittoria di Marengo),
Napoleone realizzò la pace con Austria e Inghilterra
(1801-02), conservando le conquiste rivoluzionarie del Belgio e
dell’Italia (repubblica Cisalpina, dal 1805 regno d’Italia).
L’acme della potenza napoleonica si ebbe nel 1809, allorché
l’Austria, battuta a Wagram, firmò la Pace di Vienna e
concesse la mano dell’arciduchessa Maria Luisa a Napoleone, che per
le nuove nozze aveva ripudiato l’imperatrice Giuseppina. Ma la
reazione nazionale della Spagna, il sostanziale fallimento del
grande blocco marittimo, decretato il 21 nov. da Berlino per isolare
l’Inghilterra, le scissioni nella stessa famiglia Bonaparte e,
soprattutto, il continuo tributo di sangue e di ricchezza,
cominciarono a minare la potenza napoleonica; la disastrosa campagna
di Russia (1812) e le reazioni nazionali dei popoli oppressi fecero
il resto: persa la partita militare nella grande battaglia di Lipsia
(16-18 ott. 1813), dopo un’estenuante campagna di F., mirabile per
perizia strategica ma impotente a capovolgere il rapporto delle
forze in campo, Napoleone il 6 apr. 1814 fu costretto a
sottoscrivere a Fontainebleau la propria abdicazione, per ritirarsi
all’Isola d’Elba.
Dalla Restaurazione al Secondo impero.
Per volontà soprattutto dello zar Alessandro e per
l’attività del partito realista, furono restaurati i Borboni
nella persona di Luigi XVIII (1814-24). Il regime politico della
Restaurazione, interrotto all’inizio dalla breve parentesi del
ritorno di Napoleone dall’Elba e dei Cento giorni, fu di tipo
costituzionale, basato su una «carta» concessa dal
sovrano dall’alto, attraverso un atto della sua spontanea
volontà autolimitatrice. Essa prevedeva la condivisione da
parte del re del potere legislativo con un Parlamento bicamerale,
formato da una Camera alta di nomina regia e una Camera dei deputati
eletta su strettissima base censitaria.
Nonostante la ristrettezza della partecipazione popolare, la vita
politica francese dopo il 1815 ebbe due momenti ben diversi: nel
primo, durato fino al 1824, l’avveduto senso politico di Luigi XVIII
impedì che la restaurazione monarchica e il ritorno dei
nobili emigrati assumessero un carattere di totale e assoluta
negazione dei frutti del periodo rivoluzionario e napoleonico.
Il secondo invece s’identificò nella volontà
reazionaria di Carlo X (1824-30), che fece suo il programma degli
ultras, suscitando notevoli opposizioni nel Paese. Ciò ebbe
l’effetto di provocare la rivoluzione del popolo di Parigi (24-28
luglio 1830) e l’avvento di una nuova monarchia, quella di Luigi
Filippo d’Orléans (1830-48), che diede una nuova
Costituzione, più liberale, anche se basata su un sistema
elettorale più largo di quello precedente ma pur sempre
censitario. Tuttavia il fatto politico più importante fu
costituito dal cambiamento delle basi di legittimazione della
sovranità monarchica. A differenza di Luigi XVIII e Carlo X,
Luigi Filippo d’Orléans fu infatti re non più di
Francia, ma dei francesi, a sottolineare la riaffermazione del
principio della legittimazione dal basso in luogo di quella per
diritto divino.
Il regime orleanista si dimostrò in grado di promuovere una
notevole crescita economica e una forte affermazione sociale
dell’alta borghesia. Ben presto tuttavia il fervore delle nuove idee
democratiche portò a una crescente richiesta di allargamento
delle basi della vita politica, non accolta dalla monarchia. Il
divieto del governo di tenere, il 21 febbr. 1848, il grande
banchetto che l’opposizione costituzionale aveva progettato per
premere in favore di una riforma elettorale, fu la scintilla per un
nuovo scoppio rivoluzionario: il 24 febbr. fu proclamata la
Repubblica e costituito un governo provvisorio.
La Seconda repubblica, opera del partito repubblicano e degli operai
di Parigi, nacque con un volto decisamente democratico-socialista;
ma il popolo delle campagne era estraneo agli ideali repubblicani e
l’Assemblea costituente risultò composta in prevalenza da
moderati e democratici: l’insurrezione operaia del giugno 1848 fu
repressa nel sangue dal generale L.-E. Cavaignac e la Seconda
repubblica iniziò rapidamente quel processo di distacco dalla
democrazia che l’avrebbe portata dalla presidenza del principe Luigi
Napoleone (10 dic. 1848), allo stretto connubio di questo coi
cattolici, che ebbe in politica estera il corrispettivo del
soffocamento della Repubblica romana del 1849, al colpo di Stato del
2 dicembre 1851, e infine alla proclamazione del Secondo impero
(1852) di Napoleone III.
Fino al 1859 il Secondo impero fu rigorosamente autoritario e in
politica estera si unì all’Inghilterra contro la Russia nella
guerra d’Oriente. Sotto il regno di Napoleone III, proseguendo una
linea che era stata già inaugurata da Carlo X con la
conquista dell’Algeria nel 1830, si ricostituì anche un
impero coloniale francese; nuova concentrazione di domini che crebbe
ulteriormente nei primi decenni della Terza repubblica (1870-1940) e
poi in seguito alla Prima guerra mondiale, e che non ebbe più
una prevalente impronta atlantica, ma fu espressione del
rafforzamento degli interessi francesi in diverse regioni
dell’Africa e in Asia (Medio Oriente e Indocina soprattutto).
Continenti in cui, venuta meno l’ingerenza della rete commerciale
olandese (18° sec.), a fronte della debole iniziativa tedesca e
degli altri Stati europei, e del crollo dell’impero turco (al
termine della Prima guerra mondiale), il più importante
interlocutore e obbligato alleato della Francia fu la Gran Bretagna.
Lo dimostra il caso del canale di Suez, costruito nel corso di un
solo decennio (1859-69) per iniziativa dei francesi, che
cambiò la storia dei rapporti commerciali tra Europa, Africa
e Oriente, e quella della navigazione a vapore. I britannici
entrarono rapidamente in possesso di ampie quote di partecipazione
alla gestione del canale (1875), che ebbe un’importanza fondamentale
anche rispetto alla penetrazione europea nell’Africa centrorientale
e in Asia. Rotto o quanto meno indebolito l’accordo coi cattolici,
restii ad accettare la politica che Napoleone III andava svolgendo
in Italia con Cavour, l’impero acquistò, non senza momentanei
sussulti autoritari, una fisionomia liberale e parlamentare.
Nel 1870 l’imperatore, pesantemente provocato da Bismarck,
dichiarò guerra alla Prussia; ma a Sedan (2 sett. 1870)
l’esercito francese fu sconfitto e lo stesso Napoleone III fatto
prigioniero. Due giorni dopo, a Parigi, furono proclamate la Terza
repubblica e la costituzione di un governo provvisorio di difesa
nazionale.
La Terza repubblica.
La guerra con la Prussia ebbe fine con gli accordi del 26
febbr.-1° marzo 1871: essi giunsero dopo mesi di resistenza
dell’assediata Parigi e di guerra popolare contro l’invasione,
guidata da L. Gambetta, ma non prima che Bismarck avesse realizzato
il suo intento d’indurre i principi tedeschi a costituire sotto
Guglielmo di Hohenzollern l’impero germanico.
Le gravi condizioni di pace imposte dai tedeschi spinsero Parigi
contro il governo, uscito dalle elezioni dell’8 febbr. 1871, e
contro il capo provvisorio dello Stato A. Thiers, che aveva
sottoscritto quei patti: ma la reazione nazionale si accompagnava
alla rivoluzione sociale e un moto operaio e piccolo-borghese il 18
marzo 1871 s’impadronì di Parigi e tenne, con il nome di
Comune, il potere fino al 28 maggio 1871, allorché la
rivoluzione fu repressa in maniera sanguinosa e spietata dal governo
del Thiers che risiedeva a Versailles.
La sconfitta della Comune dava alla Terza repubblica un carattere
inequivocabilmente conservatore; lo Stato trovava una definizione
dell’assetto costituzionale solo nel 1875, con appena un voto di
maggioranza, e si sarebbe dovuto attendere il 1879 per vederlo
consolidato, dopo il fallito colpo di Stato di M.-E.-P. MacMahon.
Legittimisti, monarchici costituzionali e bonapartisti minarono la
Terza repubblica nei suoi primi anni di vita; fu necessario superare
le gravi crisi del boulangismo (1887-89), dello scandalo della
Compagnia per il taglio dell’istmo di Panamá (1892) e,
soprattutto, la crisi provocata dall’ingiusta condanna del capitano
Dreyfus, prima che la Terza repubblica potesse superare il pericolo
di un’involuzione clericale e dittatoriale, e porre le premesse di
uno sviluppo democratico borghese. Solo attraverso una lunga
campagna in favore di Dreyfus, che per l’ostinazione dei circoli
clericali provocò di rimbalzo un periodo di acceso
anticlericalismo, la politica francese incominciò a svolgersi
entro il normale binario parlamentare.
La vita della Terza repubblica, al di là delle debolezze e
dei contrasti politici interni, fu comunque sostenuta da un florido
sviluppo economico che consentì alla F. di pagare rapidamente
le pesanti indennità della guerra del 1870-71 con la Prussia
e di condurre una politica di espansione coloniale in Africa.
L’Africa francese fu costituita da tre grandi concentrazioni di
territori: quelli della fascia mediterranea musulmana, dove la F.
impose gradualmente la sua amministrazione (Algeria, 1830; Tunisia,
1881; Marocco francese, 1904), condizionando in modo sensibile anche
i caratteri culturali (religiosi, linguistici) dell’area, l’Africa
occidentale francese, che all’inizio del 20° sec. comprendeva il
Senegal, la Costa d’Avorio, la Guinea e il Sudan francese (Mali), il
Niger, la Mauritania e l’Alto Volta (Burkina Faso), e infine
l’Africa equatoriale francese (1910), ovvero il Gabon, parte del
Congo, l’Ubangi-Shari e il Ciad. Nel 1890 era nato anche il
protettorato del Madagascar.
In Asia, la penetrazione francese si concentrò in Indocina, a
partire dal 1858, e portò alla nascita dell’Unione indocinese
(1887), che arrivò a comprendere Cambogia, Laos, Cocincina,
Annam e Tonchino, colonie legate soprattutto alla produzione e al
commercio di tè, caffè, carbone e caucciù.
Il rafforzamento della presenza francese in Africa creò fasi
di alta tensione sia con l’Italia a proposito della Tunisia sia con
l’Inghilterra nella gara per la spartizione dell’Africa centrale,
sia con la Germania nella crisi marocchina. Il capitalismo francese
divenne uno dei soggetti principali della vita economica
internazionale effettuando forti investimenti in Russia, di cui
finanziò parte cospicua del processo di modernizzazione e di
industrializzazione, fornendo una corrispondenza anche sul piano
finanziario all’alleanza che il governo francese e il governo russo
sottoscrissero in funzione antitedesca, in vista di quella rivincita
sull’umiliazione di Sedan che la F. si prese con la Prima guerra
mondiale.
Il primo dopoguerra.
Uscita vincitrice, la F. recuperò i confini del 1870 e impose
alla Germania condizioni di pace durissime nell’intento di
annientare preventivamente qualunque velleità di rivincita e
di esercitare un’effettiva egemonia sul continente europeo.
L’accordo franco-britannico di Sykes-Picot (1916) pose inoltre le
basi del nuovo assetto del Medioriente, ove nacquero aree di
influenza francese (Siria e Libano), da un lato, e inglese
dall’altro (Iraq, Palestina e Giordania). L’emergere
dell’isolazionismo negli Stati Uniti e il rifiuto inglese di
garantire le frontiere per impedire qualsiasi ritorno offensivo
della Germania, spinsero la F. a realizzare tutto un sistema di
alleanze e di amicizie coi giovani Stati (Polonia, Romania,
Cecoslovacchia, Iugoslavia) in funzione antitedesca.
Un atteggiamento diverso e più conciliante fu assunto da A.
Briand, che insieme a G. Stresemann (1925-29) si fece interprete dei
principi animatori della Società delle nazioni. A partire dal
1930 si assisté all’insorgere di movimenti di ispirazione
fascista, la cui aggressiva avanzata fu bloccata dallo sciopero
generale del 12 febbraio 1934, in cui i cortei socialista e
comunista si fusero, preparando il terreno per il patto
d’unità d’azione concluso nell’estate, e poi alla proposta di
Fronte popolare lanciata a socialisti e radicali dal leader
comunista M. Thorez.
La vittoria nel maggio 1936 del Fronte popolare suscitò
grandi aspettative, anche a livello internazionale, ma non
riuscì a evitare la radicalizzazione dello scontro politico
interno (il gabinetto del socialista L. Blum si dimise nel giugno
1937), rendendo incerta e debole la politica estera della F. alla
vigilia del secondo conflitto mondiale.
Dopo il mancato sostegno del governo di Fronte popolare alla Spagna
repubblicana impegnata nella guerra civile, la sostanziale
subalternità alla Gran Bretagna in politica estera condusse
il governo del conservatore Daladier ad appoggiare la politica
dell’appeasement nei confronti della Germania nazista, e a essere
tra i promotori di quel Patto di Monaco (1938) che di fatto
sancì l’incapacità delle democrazie europee di trovare
subito la forza di opporsi frontalmente all’aggressività
hitleriana.
La Seconda guerra mondiale e la Quarta repubblica.
L’inizio del conflitto colse la F. in un momento di difficile
tensione interna per la politica deflazionista del governo e per il
contrasto tra quanti sostenevano una ferma reazione all’espansione
hitleriana e quanti non intendevano «morire per
Danzica». Si completava intanto la costruzione di quella
«linea Maginot» che avrebbe dovuto difendere la F. dalle
armate tedesche. Dichiarata la guerra dal gabinetto Daladier alla
Germania il 3 sett. 1939, le operazioni militari si trascinarono
senza sviluppo fino al maggio 1940 (periodo della cd. drôle de
guerre).
Caduto il governo Daladier, il 20 marzo 1940 si costituiva un
gabinetto P. Reynaud con un solo voto di maggioranza. Iniziatasi la
grande offensiva tedesca, perduta la battaglia per il Belgio e
profilandosi già quella per la F., Reynaud corse ai ripari,
rafforzando la propria compagine governativa con l’inclusione di
uomini di grande prestigio come P. Pétain. Il 5 giugno ebbe
inizio la battaglia vera e propria, che in maniera drammatica
sgretolò ogni possibile resistenza dell’esercito francese.
Reynaud diede le dimissioni e fu sostituito subito da Pétain
che, con la mediazione dell’ambasciatore spagnolo, intavolò
le trattative di armistizio con la Germania (dal 22 anche con
l’Italia). La F. fu così divisa in una zona amministrata e
governata direttamente dagli occupanti (l’Alsazia e la Lorena
unilateralmente inglobate nel Reich, i dipartimenti del Nord e del
Nord-Est riattacca ti amministrativamente alla Kommandantur di
Bruxelles) e una zona cosiddetta libera sotto Pétain, che
aveva posto a Vichy la sede del governo collaborazionista. La
Resistenza francese si manifestò fin dal 18 giugno 1940,
all’estero, con il radiomessaggio lanciato da Londra dal generale C.
De Gaulle, mentre nel territorio metropolitano fu sulle prime solo
rifiuto a collaborare con i tedeschi; con la primavera del 1941 essa
assunse consistenza organizzativa e significato politico. Lo sbarco
alleato del nov. 1942 nell’Africa settentrionale ebbe come effetto
di eliminare la F. di Vichy: le truppe tedesche passavano l’11 nov.
1942 la linea di demarcazione e occupavano effettivamente tutta la
Francia. Di converso, la resistenza esterna e quella interna
divennero un unico movimento, con il collegamento tra il Comitato
francese di liberazione nazionale – guidato da De Gaulle ad Algeri –
e il Consiglio nazionale della Resistenza presieduto da J. Moulin e
poi da G. Bidault. Il 2 giugno 1944 i due organismi della Resistenza
crearono ad Algeri il governo provvisorio della Repubblica.
Iniziata con lo sbarco alleato in Normandia (6 giugno 1944), la
liberazione fu coadiuvata dai maquis (il movimento di partigiani,
prevalentemente urbano) e dall’insurrezione di Parigi (19-25 ag.
1944). Il ritorno di Parigi alla libertà (25 agosto, arrivo
di De Gaulle) e la costituzione di un primo governo provvisorio
diretto dal generale (5 sett.) significarono la messa a fuoco dei
problemi della ricostruzione: ripristinata subito la legalità
repubblicana, il problema costituzionale fu affrontato da una prima
Assemblea costituente (21 ott. 1945-5 maggio 1946) e, respinta da un
referendum popolare la Costituzione da questa elaborata, da una
seconda Assemblea costituente (2 giugno-13 ott. 1946), la quale
diede vita alla Quarta repubblica.
Nella nuova Costituzione, i territori coloniali che erano rimasti
sotto il controllo francese assunsero la denominazione di Territori
d’oltremare (TOM) e in seguito quella di Dipartimenti d’oltremare
(DOM), che è ancora in vigore per definire la fisionomia
politica di alcune isole caraibiche, come Guadalupa, Martinica e
Guiana francese (l’antica colonia penale dell’isola del Diavolo), o
dell’Oceano Indiano (Réunion). De Gaulle intanto, dimessosi
da capo del governo provvisorio nel gennaio 1946, in polemica contro
il sistema dei partiti, dava vita al movimento di destra
Rassemblement du peuple français; le alleanze di governo
basate sulla collaborazione dei partiti della Resistenza
(socialisti, comunisti e Mouvement républicain populaire)
entrarono in crisi con la decadenza dei ministri comunisti (1947).
I governi successivi si orientarono verso un liberalismo
conservatore. Il governo Bidault profilò l’inserimento della
F. nel blocco occidentale ma non riuscì a realizzare un
accordo con il Vietnam. Se l’adesione alla NATO costituì
l’approdo di un lungo dibattito interno, a tormentare la politica
francese vennero i problemi dell’Indocina, sui quali si infransero i
brevi governi del 1949-54. Dopo l’elezione di R. Coty alla
presidenza della Repubblica (dic. 1954), a dirimere la questione
dell’Indocina intervenne il governo Mendès-France (giugno
1954-genn. 1955) che ritirò le truppe francesi. I problemi si
spostavano ora nell’Africa settentrionale francese, dove alle
richieste di autonomia e alla lotta dell’Esercito di liberazione del
Maghreb, sostenuta dal Cairo, il governo Faure (genn. 1955-genn.
1956) oppose una decisa resistenza.
Né lo spostamento a sinistra determinato dalle elezioni del
genn. 1956 mutò radicalmente gli indirizzi del governo; nel
marzo 1956 il governo Mollet (genn. 1956-maggio 1957) riconobbe
l’indipendenza di Marocco e Tunisia, ma in linea contraria si pose
l’intervento armato franco-britannico in Egitto a seguito della
nazionalizzazione del canale di Suez, peraltro risoltosi in un
fallimento militare e politico.
In Algeria intanto la lotta per l’indipendenza avviata nel 1954 dal
Fronte di liberazione nazionale nel 1956-57 sfociava nel susseguirsi
di una serie di azioni di guerriglia dell’FLN e dell’Armata di
liberazione nazionale e di risposte repressive dell’esercito
francese, finché, nel 1958, in Algeri un comitato di salute
pubblica guidato dal gen. dei paracadutisti J. Massu si mise alla
testa della popolazione francese reclamando un più incisivo
intervento. In una situazione interna di gravissima tensione, il
presidente Coty (1° giugno 1958) affidò il potere a de
Gaulle; la camera votò pieni poteri per sei mesi con un
mandato per la revisione della costituzione e per la soluzione del
problema algerino. Il 28 sett. 1958 un referendum diede vita a una
libera comunità della F. con i Territori d’oltremare.
La Quinta repubblica.
Approvata il 28 sett. 1958 dall’80% degli elettori, la nuova
Costituzione diede alla nazione un regime semipresidenzialista, con
un presidente eletto da rappresentanti locali, il quale nominava il
suo primo ministro e, di fatto, i ministri; poteva indire
referendum, di fronte a un Parlamento indebolito e facile da
sciogliere, ma che conservava il potere decisivo della fiducia al
governo. Nel gennaio 1961 venne indetto un referendum sulla
questione algerina, in cui il 75,2% dei cittadini francesi si
pronunciò a favore dell’autodeterminazione dell’Algeria. Tra
i coloni francesi e nell’esercito si accese la rivolta:
l’Organisation de l’armée secrète (OAS) seminò
il terrore in Algeria, mentre in F. la tensione cresceva. Il 5
ottobre il prefetto di Parigi Papon instaurò il coprifuoco
per i «francesi mussulmani d’Algeria». Il 17 una
manifestazione di protesta degli immigrati fu duramente repressa
dalla polizia; molti manifestanti furono picchiati e arrestati,
alcuni di loro vennero uccisi a colpi d’arma da fuoco o annegati
nella Senna. Papon ammise tre morti, 64 feriti e 11.538 arresti, ma
storici come P. Vidal-Naquet parlarono di circa due o trecento morti
(48 sarà la cifra riconosciuta dopo quarant’anni dal rapporto
dell’avvocato della corte di Cassazione, Geronimi).
All’Algeria intanto, venne accordata l’indipendenza, ciò che
determinò l’esodo nella madrepatria di un milione di
«rimpatriati» (1962). De Gaulle, contestato ormai da una
parte della sua stessa maggioranza (destra tradizionale e MRP),
propose con un referendum l’elezione del presidente a suffragio
universale e sciolse l’assemblea che aveva rovesciato il governo
Pompidou. Ottenne il 62% di sì e, grazie alla legge
elettorale maggioritaria, una maggioranza parlamentare di gollisti
fedeli e di moderati raccolti intorno a V. Giscard d’Estaing.
La diplomazia intanto era segnata dalla grandeur: la bomba atomica
nazionale, la force de frappe (1960) per compensare la perdita delle
colonie; l’ancoraggio alla politica atlantica temperato dal
riconoscimento della Repubblica popolare di Cina (1964), dalla
condanna della guerra americana in Vietnam (1966) e dal distacco
francese dal comando integrato della NATO (1966).
In ambito europeo, costante dell’azione politica di De Gaulle fu la
creazione di un asse franco-tedesco. Nel 1965, De Gaulle venne
rieletto, ma soltanto dopo un ballottaggio con F.-M. Mitterrand,
candidato delle sinistre.
Nel maggio 1968 si intrecciarono la crisi giovanile, la protesta
operaia e sindacale, difficoltà economiche ed esitazioni
politiche. Dieci milioni di scioperanti, che peraltro ottennero
importanti risultati, seguirono la rivolta studentesca: il governo
ne fu travolto e De Gaulle abbandonò Parigi per incontrarsi a
Baden Baden col generale Massu, comandante delle truppe francesi di
stanza in Germania. Ma poco dopo egli offrì al Paese, ora
stanco del disordine, le elezioni anticipate, in cui i gollisti,
aiutati dal clima di tensione, ebbero il 38% dei voti e, per effetto
del sistema elettorale, la maggioranza dei seggi. Nonostante
ciò, De Gaulle puntò alle riforme; tentò di
fare approvare, tramite referendum (apr. 1969), una modifica
costituzionale che prevedeva fra l’altro un decentramento
dell’amministrazione a livello regionale e una riduzione dei poteri
del Senato, ma, sconfitto anche in seguito alla defezione dei suoi
alleati moderati, diede le dimissioni.
Pompidou, capo naturale della maggioranza parlamentare, vinse le
presidenziali (1969), in cui la SFIO fu ridotta ai minimi termini
(5% dei voti). La morte di Pompidou (1974) diede il via a un duello
elettorale a destra tra Chaban-Delmas e Giscard d’Estaing,
rappresentante del liberalismo modernizzatore. L’appoggio dei
gollisti pompidoliens (J. Chirac) favorì Giscard, che
raggiunse il 51% al secondo turno delle presidenziali, contro il 49%
per Mitterrand, leader del Partito socialista. Dato che il recente
sorpasso del PS sul PCF aveva condotto alla rottura a sinistra, la
F. appariva ora divisa in quattro gruppi, pressappoco uguali, dei
quali due governavano senza riuscire ad accordarsi.
Motivi di tensione sociale, aggiunti alle rivalità a destra e
al crollo del PCF al 15%, che rassicurò alcuni settori
elettorali, facilitarono l’elezione di Mitterrand alla presidenza,
con il 51% dei voti (1981). Il governo P. Mauroy (1981-84), cui
partecipò il PCF, realizzò numerose riforme
(abolizione della pena di morte, nazionalizzazioni, imposta sul
capitale, settimana di 39 ore, pensionamento a 60 anni, abbozzi di
cogestione nelle imprese ecc.), ma la crisi economica obbligò
a scegliere il rigore e il blocco dei salari (1983). Con il governo
di L. Fabius (1984-86), senza i comunisti, l’inflazione cadde al 5%,
diminuì il carico fiscale, ma non la disoccupazione, e parve
abbandonata ogni idea di riforma.
Nel 1988, rieletto Mitterrand (54%) contro Chirac, lo scioglimento
dell’assemblea non dette che una maggioranza relativa al PS. Le
elezioni politiche del marzo 1993 vedevano la forte affermazione
dell’alleanza di centrodestra (giscardiani e gollisti) e il tracollo
socialista; Mitterrand nominava primo ministro E. Balladur.
Dalla fine del 20° all’inizio del 21° secolo.
Alle elezioni presidenziali del 1995 il Partito socialista
candidò L. Jospin. A destra, Chirac ebbe la meglio su
Balladur, ma il dato più rilevante fu il 15% dei voti
ottenuto dal Front national di J.-M. Le Pen, che combinava insieme
motivi diversi della tradizione dell’estrema destra francese
(nazionalismo, antisemismo, razzismo, xenofobia e
antieuropeismo). Nel ballottaggio Chirac ebbe il sopravvento,
divenendo il nuovo presidente della Repubblica, con A. Juppé
alla guida del governo.
Una politica decisamente neoliberista, sollecitata anche
dall’esigenza di accordarsi ai dettami del Trattato di Maastricht,
si tradusse in tagli alle spese sociali e ai salari del settore
pubblico.
In contrapposizione alla linea di Mitterrand, caratterizzata da
convinto europeismo, avvicinamento agli Stati Uniti e rapporto
preferenziale con la Germania, Chirac sembrò voler
resuscitare la grandeur gollista, rivendicando per la F. un ruolo
primario nel consesso mondiale. Nel 2000, un referendum ridusse il
mandato presidenziale da 7 a 5 anni. Nel 2002, alle elezioni
presidenziali, Chirac conseguì una vittoria quasi
plebiscitaria, votato nel turno di ballottaggio da un elettorato
(anche di sinistra) timoroso di un eventuale successo di Le Pen, la
cui clamorosa affermazione al primo turno aveva sollevato sconcerto
nel Paese.
In campo internazionale, sulla questione dell’Iraq (marzo 2003)
prendendo le distanze dagli USA Chirac ribadì il veto
francese a ogni intervento militare, mentre all’interno l’esecutivo
guidato da J.-P. Raffarin dovette affrontare la riforma del welfare.
La bocciatura in sede referendaria della Costituzione europea del
2005 determinò la crisi del governo e di tutta la politica
comunitaria. Raffarin rassegnò le dimissioni e gli succedette
D. de Villepin, il cui governo, per primo in Europa, sospese il
Trattato di Schengen dopo gli attentati di matrice islamica (luglio)
a Londra.
Sulla riforma del diritto del lavoro esplose la collera delle
periferie parigine per le condizioni di esclusione dei giovani
maghrebini e africani, che mise anche in luce l’aspra lotta per la
successione a Chirac che opponeva il premier al ministro degli
Interni N. Sarkozy, dal 2004 presidente dell’Union pour un mouvement
populaire, il partito di centrodestra nato due anni prima
dall’unione di forze politiche di ispirazione gollista, centrista e
liberale. Poco dopo manifestazioni di piazza obbligavano il governo
al ritiro di fatto della legge sul contratto di primo impiego.
Nel 2007, al termine dei due mandati di Chirac, la campagna
elettorale per le presidenziali fu caratterizzata da un’offerta
programmatica nuova, attenta alle sfide economiche e sociali, alla
politica europea e alla modernizzazione delle istituzioni, in
evidente discontinuità con la politica passata caratterizzata
da sostanziale immobilismo. Al ballottaggio Sarkozy, candidato della
destra, alfiere del rilancio dei valori conservatori e
dell’identità nazionale, prevalse sulla socialista S. Royal.
Il governo di F. Fillon, riconfermato all’indomani delle elezioni
legislative, vedeva peraltro l’ingresso di alcune personalità
chiave dell’opposizione.