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    Uomo politico e storico (Messina 1815 - Torino 1863). Repubblicano,
    prese parte, in Sicilia, ai moti del 1837 e alla rivoluzione del
    1848. Esule in Francia e poi a Torino, aderì (1856) alla
    monarchia e fu collaboratore di Cavour. Inviato (1860) in Sicilia
    per promuoverne l'annessione al Piemonte, fu espulso da Garibaldi.
    Deputato dal 1960.
    
    Vita e attivitàDopo iniziali tentativi letterarî
    (diresse lo Spettatore Zancleo), il suo atteggiamento favorevole ai
    moti del 1837 lo costrinse a esulare in Toscana, dove tornò
    nel 1841. Proseguendo i suoi studî storici, pubblicò
    allora l'Italia nei suoi monumenti, ricordanze e costumi (1842);
    Studi storici sul sec. XIII (1842); e una grande Storia d'Italia
    narrata al popolo italiano (1846-54), d'intonazione neoghibellina.
    Nel 1847 diresse a Firenze il giornale L'Alba, che fu tra i primi a
    tendenza democratico-sociale, e si recò poi in Sicilia allo
    scoppio della rivoluzione (1848). Eletto deputato alla camera dei
    Comuni, fece parte della missione incaricata di offrire la corona di
    Sicilia al duca di Genova; fu quindi ministro dell'Istruzione e,
    dopo la caduta di Messina, della Guerra, spiegando in questo ultimo
    incarico una febbrile attività. Dopo la rivoluzione,
    esulò in Francia, dove scrisse una Istoria documentata della
    rivoluzione siciliana (1850-51) e una Storia d'Italia dal 1815 al
    1850 (1851-52). Tornato in Italia, fondò a Torino la Rivista
    contemporanea e scrisse un romanzo storico (Gli Albigesi, 1855). Di
    formazione repubblicana, La F. nel 1856 aderì alla monarchia,
    divenendo fidato collaboratore di Cavour, la cui politica
    appoggiò efficacemente presso l'opinione pubblica con la
    Società nazionale (fondata appunto nel 1856). Superata la
    crisi determinata dalle dimissioni di Cavour dopo Villafranca, La F.
    riorganizzò la Società nazionale scioltasi nel 1859, e
    nel 1860 si recò in Sicilia, con l'incarico di affrettarne
    l'annessione al Piemonte: ma Garibaldi, deciso a conservare la sua
    autonomia fino al compimento dell'impresa, lo espulse
    clamorosamente. Tornò in Sicilia qualche mese dopo, ma la
    violenta ostilità delle frazioni autonomista e repubblicana
    lo costrinse di nuovo a lasciare l'isola. Deputato dal 1860,
    passò all'opposizione dopo la morte di Cavour.
    
    *
    
    DBI
    
    di Antonino Checco
    
    LA FARINA, Giuseppe. 
    
    Nacque a Messina il 20 luglio 1815 da Carmelo e da Anna Muratori.
    Sulla sua formazione esercitarono un peso fondamentale la temperie
    politico-culturale cittadina, da tempo sorda all'indirizzo
    separatista e più di recente apertasi alla predicazione
    unitaria mazziniana, e l'influenza del padre, professore di
    aritmetica e geometria nel collegio Carolino, che nel 1828 era stato
    arrestato per la sua appartenenza alle sette e tradotto a Favignana
    insieme con il figlio tredicenne.
    
    Nel 1832 il L. cominciò a frequentare i corsi di diritto,
    disciplina in cui, senza mai appassionarsi, si laureò nel
    1835 a Catania; lo interessavano piuttosto gli studi letterari che
    gli consentirono di entrare in rapporti più stretti con quel
    nucleo cospicuo d'intellettuali e scrittori che, in contatto con
    Napoli e con i nuclei studenteschi calabresi, avevano trovato nel
    movimento romantico la via di un possibile rinnovamento politico.
    
    Dal 1833 il L. esordì come pubblicista, prima collaborando a
    Lo Spettatore zancleo - intorno al quale si raccolsero C. Gemelli,
    G. Morelli, R. Mitchell, F. Bisazza, e G. Saccano - poi, dal 1835,
    scrivendo articoli, recensioni e rassegne di vario genere in un
    altro periodico, Il Faro, e pubblicando in particolare un Elogio del
    cavaliere Vincenzo Bellini (Messina 1836), già letto in una
    seduta dell'Accademia Peloritana (26 nov. 1835) in occasione della
    morte del compositore.
    
    Di questa esperienza romantica del L. restano però
    soprattutto gli studi di dantistica, svolti nell'alveo
    dell'interpretazione laica e ghibellina, l'adesione, mediata dalla
    lettura delle opere di G. Romagnosi, alla categoria interpretativa
    dell'incivilimento e l'ammirazione per S. Pellico. Proprio la
    ricezione da parte del L. di spunti presenti nelle Mie prigioni e
    nelle successive Addizioni di P. Maroncelli attesta quanto egli si
    fosse inserito nei circuiti cittadini inclini a elaborare progetti
    politici di segno cospirativo.
    
    A metà degli anni Trenta il L. entrò nell'appena
    costituito Comitato democratico avendo a fianco tra gli altri
    Gemelli, Morelli, G. Grano, esponente di una ricca famiglia di
    mercanti messinesi e tra i primi referenti di Mazzini in Sicilia, A.
    Catania, ricco mercante maltese, e il medico E. Pancaldo.
    
    Arrestato insieme con il padre e il fratello Silvestro per avere
    diffuso una pubblicazione clandestina contro la polizia (1836), alla
    stretta repressiva che colpì la Sicilia il L. rispose
    rappresentando la sua città nella riunione di tutte le
    società segrete siciliane convocata a Palermo e prendendo poi
    parte al moto popolare che, facendo leva sulla epidemia del colera e
    sull'aumento di prezzo dei generi alimentari, a metà 1837 si
    andò sviluppando nelle città della Sicilia orientale.
    Fu allora denunciato da una spia e messo nella impossibilità
    di svolgere qualunque tipo di attività persino di tipo
    letterario o genericamente culturale, cosa che lo indusse a lasciare
    Messina e a portarsi, insieme con la moglie Luisa Di Francia, in
    Toscana, dove giunse il 29 agosto (Livorno) per poi passare a
    Firenze (12 settembre).
    
    La città ("la divina Firenze dei caffè e dei circoli")
    gli aprì molte possibilità di crescita culturale: si
    abbonò al gabinetto di lettura di G.P. Vieusseux; conobbe
    vari intellettuali, tra cui G.B. Niccolini; visitò le
    biblioteche; commissionò le copie dei ritratti dei pittori
    messinesi richiestegli dal padre; approfondì progetti di
    nuovi commenti alla Commedia e prese visione dei manoscritti
    dell'Alfieri; partecipò alla preparazione del congresso degli
    scienziati italiani in un contesto cui non era estraneo l'intento
    politico e cospirativo. Poi, con la stessa curiosità,
    visitò Roma e, accolto nell'atelier di scultura di Pietro
    Tenerani (1776-1869), ne ottenne un ritratto in bassorilievo.
    
    Di questo suo primo esilio, oltre alla testimonianza contenuta nel
    primo volume dell'Epistolario curato da Ausonio Franchi, altre
    più dettagliate notizie si trovano nei suoi Ricordi della
    Toscana e di Roma (in Il Faro, 1838, n. 16, pp. 180-235); allo
    stesso periodo risale lo scritto Sulla vera effigie di Gesù
    Cristo, inviato alla Accademia Peloritana e letto in sua assenza
    nella seduta del 24 marzo 1838 (poi in Memorie storiche e letterarie
    della R. Acc. Peloritana, a cura di G. Oliva, Messina 1884, pp. 106
    ss.).
    
    Rientrato a Messina sul finire del marzo 1838, il L., usando come
    copertura l'attività di avvocato, entrò nel
    ricostituito Comitato democratico che aveva come referente nel
    comitato centrale di Napoli il medico messinese G. Raffaele.
    Interlocutore assai attivo del comitato era, da Malta, N. Fabrizi,
    che nel 1839 aveva fondato la Legione italica appunto per
    rilanciare, dopo gli insuccessi mazziniani del 1833-34, l'iniziativa
    rivoluzionaria facendo leva sulla Sicilia.
    
    Parallelamente al lavorio clandestino, il L. portava avanti anche
    quello culturale e velatamente propagandistico. Chiusi nel dicembre
    1835 lo Spettatore zancleo e nel giugno 1838 Il Faro, nell'ottobre
    1839 fondò, insieme con F. Bisazza e D. Ventimiglia, La
    Sentinella del Peloro; quasi coeva fu la nascita della
    Società del gabinetto letterario modellata sull'analoga
    iniziativa del Vieusseux e presto affiancata dall'edizione di un
    foglio, denominato Il Maurolico, e più tardi Giornale del
    Gabinetto letterario, che annoverava tra i collaboratori M. d'Ayala,
    S. Chindemi, V. Capialbi e L. Vigo. Ma lo stretto controllo cui vide
    sottoposto il proprio lavoro giornalistico costrinse nel 1841 il L.
    a tornare nell'esilio fiorentino.
    
    Infatti, mentre negli anni 1839-41 le sue recensioni e i suoi saggi
    di storia dell'arte pubblicati nella Sentinella del Peloro non
    incontrarono ostacoli, furono i lavori con riferimenti storici
    locali che subirono gravi mutilazioni (Messina e i suoi monumenti,
    Messina 1840) ovvero non furono autorizzati, come nel caso di un
    dramma scritto per raccogliere fondi per la costruzione di un
    piccolo monumento in memoria del matematico messinese A. Jaci.
    
    Esclusi i lavori per "campare la vita", frutto della collaborazione
    con il raffinato editore Bardi (L'Italia con i suoi monumenti e le
    sue leggende, Firenze 1842; La Svizzera storica e artistica, I-VII,
    ibid. 1842-43; La China considerata nella sua storia, ne' suoi riti,
    ne' suoi costumi, nella sua industria, nelle sue arti, e ne'
    più memorabili avvenimenti della guerra attuale, I-IV, ibid.
    1843-47), l'attività culturale del L. in quegli anni
    fiorentini si volse tutta, anche sotto il profilo dei suoi contatti
    diretti ed epistolari, alla maturazione di un ruolo e di una scelta
    più netti. Nel 1842 apparve lo studio su Dante e il suo tempo
    (Studi storici sul secolo XIII, Firenze 1842; 2ª ed., Bastia
    1857), prodotto maturo di ricerche e raccolte documentarie del primo
    esilio fiorentino e romano, solo in parte precedentemente utilizzate
    e ora sistemate all'interno dello studio del contesto politico e
    culturale del secolo di mezzo. L'opera, tuttavia, risultava pensata
    e collocata entro la chiave interpretativa laico-ghibellina e
    risorgimentale, in chiara antitesi con la rievocazione neoguelfa del
    Medioevo. Tale orientamento trovò conferma nel sostegno
    convinto offerto dal L. a G.B. Niccolini (che gli aveva inviato
    copia del suo Arnaldo da Brescia e che gli chiedeva cosa pensasse
    delle aspre critiche rivoltegli da C. Balbo nelle Speranze
    d'Italia). All'accusa di Balbo, secondo cui il Niccolini s'era
    allontanato dalla scuola italiana dei Manzoni, Pellico, Rosmini,
    Cantù e Gioberti, per abbracciare quella straniera, il L.
    replicò che quest'ultima non era "ateistica" ma antipapale, e
    che in ciò il Niccolini seguiva la scuola italiana di Dante,
    Machiavelli, Giannone e Alfieri. Nel carteggio con lo storico M.
    Amari, in esilio a Parigi dopo la stampa a Palermo del celebre
    studio su Un periodo delle istorie siciliane del secolo XIII (poi
    ristampato nel 1843 a Parigi con il titolo più esplicito La
    guerra del vespro siciliano), il L., mentre gli esprimeva la propria
    solidarietà, lo invitava a ristampare la sua opera a Firenze,
    a collaborare all'Archivio storico del Vieusseux (collaborazione,
    poi, effettivamente avviata nell'ottobre 1844) e lo informava di
    avere in corso una Storia delle opinioni guelfe e ghibelline dalla
    loro origine a noi (lavoro non pubblicato e poi inserito nella
    Storia d'Italia narrata al popolo italiano, i cui primi volumi
    furono stampati nel 1846).
    
    Fu, tuttavia, con Matteo Palizzi. Dramma storico (Firenze 1845) - e,
    soprattutto, con la Prefazione - che il L., in vista di possibili
    mutamenti del contesto italiano e quasi riconsiderando la sua
    stagione romantica, definì contenuti, forme e finalità
    del suo rinnovato impegno di letterato e scrittore.
    
    Da questo versante la Prefazione risulta essere documento
    programmatico della finalità sociale del lavoro
    intellettuale, così come dei generi e dei canoni letterari a
    esso più consoni: l'"utile" inteso nel suo significato di
    corretto coinvolgimento popolare e di suscitatore di passioni e di
    eroi positivi; la "coscienza" quale emancipazione dal fatalismo,
    dalla superstizione, dallo scetticismo, dal conflitto tra
    autorità e libertà. Ne discendevano la predilezione
    per il "teatro come scuola dei popoli, il romanzo popolare, le
    narrazioni storiche, il giornalismo politico" e "l'assunzione, come
    vincoli vitali della scrittura e misura del giudizio critico, dei
    parametri dell'utilità e dell'interesse del popolo" (G.
    Resta, G. L. scrittore, in G. L.Atti, 1989, p. 121).
    
    Sullo sfondo dell'intensa produzione letteraria e del lavoro
    intellettuale di quegli anni si precisava la sua scelta
    dell'unitarismo, così come, in linea con le indicazioni
    mazziniane, era netto il rifiuto sia del municipalismo sia del
    neoguelfismo, che erano le soluzioni avanzate dalla pubblicistica
    moderata di matrice giobertiana e azegliana.
    
    Per il L., invece - come peraltro risulta dall'Epistolario - tutte
    le vicende insurrezionali del 1843-45 stavano a dimostrare quanto
    ogni progresso della condizione dell'Italia fosse indissolubilmente
    legato alla conquista di nuovi e più liberi ordinamenti,
    strappati attraverso una lotta aperta, visibile e tale da allargare
    il numero dei cittadini consapevoli del suo valore e significato. Il
    problema era fare emergere, fra le tante proposte, richieste di
    riforma e aperture dei principi, l'opzione più valida, quella
    unitaria.
    
    Una frase del L., contenuta in una lettera a M. Amari, sintetizza
    efficacemente la miscela di sentimenti contrapposti: "I balbiani
    sono in gran lavori; ne sperate voi nulla? Io no. E pure chi
    naufraga si attacca spesso anche a un ferro rovente" (Epistolario,
    I, p. 290). Grande realismo dunque, ma anche consapevolezza del
    prospettarsi di un punto di svolta. Alla legge sulla libertà
    di stampa in Toscana si era accompagnata la fondazione e il successo
    del suo foglio, L'Alba (14 giugno 1847), di orientamento liberale e
    con collaboratori come E. Mayer, G. Mazzoni, F. Marmocchi, C.
    Rusconi, P. Thouar, A. Vannucci, G.B. Niccolini. E mentre il
    fallimento del moto di Reggio Calabria e Messina (1-2 sett. 1847) lo
    spingeva a considerare con molto scetticismo le aspettative popolari
    e politiche suscitate da Pio IX che giudicava, così come il
    governo toscano, troppo legato all'Austria, L'Alba veniva
    accentuando il suo orientamento radicaleggiante e laico; d'altronde
    molte delle riforme reclamate nelle campagne di stampa del giornale
    (per non parlare delle questioni del lavoro, che tanto interesse
    avevano destato in Germania), esclusa l'istituzione della guardia
    civica, non trovavano udienza presso il governo toscano, attento a
    sedare ogni manifestazione di protesta popolare.
    
    L'11 febbr. 1848 il L. si rimise in viaggio per tornare a Messina,
    già in rivolta e ripetutamente bombardata dai Borboni. Al suo
    arrivo fu nominato membro del Comitato di guerra e colonnello delle
    truppe; con Gemelli partecipò ai lavori per l'apertura del
    Parlamento e si batté invano per una soluzione monocamerale.
    Eletto deputato nel collegio messinese, fece approvare dal
    Parlamento un progetto di legge sul porto franco e sull'abolizione
    del macinato e, dichiarati decaduti i Borboni per un decreto da lui
    stesso dettato in quanto segretario della Camera dei comuni,
    cercò di far rinviare la scelta della monarchia
    costituzionale; poi, con E. Amari e il barone Pisani, prese parte
    alla missione diplomatica per ottenere il riconoscimento politico
    del nuovo assetto della Sicilia presso le corti di Roma, Toscana e
    Piemonte. Caduto il ministero Stabile e composto quello di V.
    Fardella marchese di Torrearsa, il L. fu chiamato al ministero
    dell'Istruzione (agosto 1848), in una fase in cui l'esclusione dai
    dicasteri di membri della Camera alta e la nomina di F. Cordova alle
    Finanze avevano incrinato i rapporti tra i due rami del Parlamento;
    e tutto ciò quando già si minacciava da parte di
    Ferdinando II l'invio di truppe in Sicilia e si approssimavano le
    prime sconfitte del Piemonte contro l'Austria.
    
    All'ottimismo palermitano (si assumeva come cosa ormai accolta dal
    Borbone lo sgombero della Cittadella, che invece continuava a
    scaricare bombe sulla città) corrisposero l'eroica resistenza
    di Messina alle truppe borboniche, la sua caduta insieme con quella
    di Milazzo e la chiamata al ministero della Guerra (settembre 1848)
    del L., accolta per senso del dovere ma nella consapevolezza
    dell'assoluta scarsità di armi, munizioni, denaro e di alti
    ufficiali in grado di assumere compiti di comando delle operazioni
    militari; e quando si mise al lavoro, gli giunse da Palermo la
    comunicazione dell'armistizio già concluso. Accusato in
    Parlamento di imperizia nella conduzione delle cose militari, il L.
    tentò di fare approvare dalle Camere un progetto di legge per
    la formazione di un corpo di sicurezza interna che sostituisse la
    guardia nazionale, che era stata creata dal rivoluzionario P. Calvi,
    ministro degli Interni, ma che progressivamente si era imposta allo
    stesso esecutivo: e però l'opposizione al progetto fu tanto
    forte da costringere il Torrearsa e l'intero esecutivo a dimettersi,
    quando peraltro dalla Toscana e da Roma giungevano notizie che
    dovevano incoraggiare condotte più responsabili e unitarie.
    
    La lotta interna si fece invece più feroce dando vita a
    circoli e giornali di tendenze opposte, rivelatori della netta
    contrapposizione tra chi auspicava la rottura armata della tregua e
    credeva ancora nella possibilità di resistere e chi invece
    era pronto, con la mediazione di Inghilterra e Francia, a cedere le
    armi. Insieme con M. Raeli, F. Crispi, G. Natoli, P. Paternostro e
    C. Papa, il L. costituì e si mise a capo di una legione
    universitaria destinata a operare in appoggio alle truppe regolari;
    ma, giunto a Misilmeri, gli fu comunicato di rientrare a Palermo e
    di sciogliere la legione avendo le Camere accettato la resa. Caddero
    nel vuoto tutti i tentativi suoi e di pochi altri deputati per
    convincere il presidente R. Settimo a respingere la resa
    incondizionata.
    
    Su questi avvenimenti il L. sarebbe tornato con la Istoria
    documentata della rivoluzione siciliana e delle sue relazioni co'
    governi italiani e stranieri (1846-49), edita nel 1850 dalla
    Tipografia Elvetica di Capolago, e anche nella corrispondenza
    privata, per mettere l'accento sulle molte divisioni interne, sulle
    persistenze indipendentiste presenti in parte dello schieramento
    liberale, anche quando si era profilata la possibilità di una
    federazione italiana di Stati, sull'azione dissolvente della
    diplomazia straniera, soprattutto francese, e sul mutamento della
    politica italiana dopo la seconda disfatta piemontese a Novara.
    
    Tra gli ultimi a lasciare l'isola, il 22 apr. 1849 il L. si
    imbarcò alla volta di Marsiglia e di lì, il 1°
    giugno 1849, raggiunse Parigi. Non gli fu applicata l'amnistia del
    restaurato regime borbonico; similmente, il padre e il fratello non
    poterono riprendere le loro attività professionali e
    d'insegnamento, per cui al dolore della sconfitta e dell'esilio si
    sommarono le gravi condizioni economiche familiari. Ripresi
    immediatamente i contatti con l'editore Guigoni, il L. si
    gettò nel lavoro di redazione della Storia d'Italia dal 1815
    al 1850 e nella stesura di una Storia della rivoluzione siciliana,
    disponendo, a suo dire, di documenti di prima mano connessi alle
    cariche da lui ricoperte e ai rapporti diplomatici fra la Sicilia e
    gli altri Stati d'Italia. In effetti l'opera fu completata nel corso
    dell'anno e pubblicata nel luglio del 1850, aggiungendosi
    polemicamente alle altre (G. Pepe, G. La Masa) e dando la stura alle
    ricostruzioni polemiche di altri protagonisti (G. Raffaele, P.
    Calvi).
    
    Nel 1851 apparvero a Torino i 6 volumi della Storia d'Italia dal
    1815 al 1850 (che L. Zini avrebbe proseguito portandola fino al
    1866): oltre a ribadirvi gli antichi convincimenti sul temporalismo
    come più valido punto d'appoggio per la dominazione
    straniera, il L. riaffermava la sua idea di libertà, come
    essa prende via via corpo e si manifesta nella eterna lotta contro
    il principio di autorità. Ma affioravano qua e là
    nell'opera, sulla scorta del fallimento della rivoluzione siciliana,
    riflessioni e dubbi sulla bontà dei metodi rivoluzionari e
    sulla legittimazione dei gruppi dirigenti, e ne derivava la scelta
    d'isolamento del L. a Parigi rispetto ai travagli e alle
    difficoltà operative insorti nei rapporti tra Mazzini e gli
    esuli italiani, costituitisi in Comitato democratico. Tra il L. e
    Mazzini corse allora nei mesi di maggio-giugno 1851 un carteggio che
    ruotava intorno a due grandi questioni: quella della più
    produttiva organizzazione della rappresentanza degli esuli e della
    composizione dei comitati; e quella, conseguente, delle basi
    politico-dottrinarie dell'iniziativa, da cui dipendeva il tipo di
    sbocco istituzionale della rivoluzione nazionale.
    
    Comunque, sollecitato dallo stesso Mazzini, il L. non rifiutò
    di collaborare alla costituzione del comitato parigino; si
    professò repubblicano convinto ma si disse avverso
    all'ipotesi di un governo insurrezionale concentrato nelle mani di
    pochi uomini, avanzata da A. Saliceti sulla stampa e data per
    accettata dal Comitato nazionale (con istruzioni segrete ai comitati
    interni ai vari paesi), quando lo stesso Comitato sulla questione
    aveva aperto una discussione che era ancora in atto. E che la
    questione non fosse di metodo, ma politica, lo palesavano
    l'esperienza dell'insorgenza del 12 genn. 1848 a Palermo e la
    dannosa - a giudizio del L. - prevenzione e preclusione settaria
    rispetto al rapido mutamento delle condizioni della lotta politica e
    nei confronti di gruppi e personaggi di orientamento eterodosso.
    
    Si trattava in sostanza per il L. di respingere la rigidità
    dottrinaria e l'esclusivismo settario che avevano caratterizzato le
    insurrezioni precedenti e che si erano rese inaccettabili dopo che
    la questione nazionale era entrata nel novero delle grandi questioni
    europee. Con la lettera a Mazzini del 3 giugno 1851 il L. lasciava
    dunque scorgere il suo orientamento per il futuro: "Io sono qual era
    pria del 48, qual fui nel 48 e 49, cioè unitario e
    repubblicano. Non credo che oggi le due questioni si possan
    dividere; ma in ogni caso io sono unitario innanzi tutto,
    perché per me primo bisogno d'Italia è essere"
    (Epistolario, I, p. 415); e pochi mesi dopo: "La repubblica è
    per me il modo d'essere e l'unità l'essere; e se i fati ci
    niegassero un'Italia repubblicana, sarebbe per me stoltezza non
    volere un'Italia" (ibid., p. 417).
    
    Sul piano privato seguì un periodo denso di dolori per
    l'arresto del fratello Silvestro, per la condanna a ventiquattro
    anni di galera di due suoi cognati e per la perdita del padre.
    Spostatosi a Tours nel luglio 1853, trovò sostegno
    nell'ospitalità di Ernesta Fumagalli Torti e nell'amicizia di
    V. Gallina, mentre le lezioni private d'italiano lo aiutavano a
    sopperire alle necessità economiche, aggravate dalla perdita
    durante la rivoluzione delle rendite e dei risparmi. L'interruzione
    degli studi non gli impedì tuttavia di scrivere il romanzo
    storico Gli Albigesi che stamperà nel 1855 a Genova.
    
    Durante il suo esilio in Francia (1849-54) oltre i lavori già
    citati furono pubblicati: Un chapitre de l'histoire de la
    révolution sicilienne de 1848-49. Campagne d'avril…, Paris
    1850 (ed. it., Firenze 1850); Storia delle contenzioni fra la
    podestà ecclesiastica e la civile dai tempi di Gregorio VII
    ai nostri, Torino 1853.
    
    Il 21 ag. 1854 il L. rientrò in Italia e si stabilì a
    Torino. Si diede subito a preparare con l'editore Pomba un nuovo
    periodico, la Rivista enciclopedica italiana, chiamando a
    collaborare, fra gli altri, A. Vannucci e G. Montanelli.
    Difficoltà finanziarie sopraggiunte provocarono la chiusura
    della testata nel giugno 1856, non prima però che il L.
    avesse pubblicato (cfr. vol. II, 1855, pp. 3-8) un importante
    articolo, Della partecipazione del Piemonte alla guerra d'Oriente,
    in cui erano rintuzzate le polemiche mazziniane; alla fine del
    conflitto apparve anche un indirizzo di plauso a Cavour redatto
    insieme con M. d'Ayala.
    
    Parallelamente, partiva la sua propaganda filopiemontese diretta
    agli esuli meridionali a Malta, a Genova e in Francia. Poi, con
    l'adesione al progetto di D. Manin e G. Pallavicino, dal 1°
    giugno 1856 il L. prese a fare uscire il Piccolo Corriere d'Italia,
    mentre con l'opuscolo Murat e l'Unità italiana confutava
    decisamente l'eventualità che ai problemi del Regno borbonico
    si desse la soluzione murattiana, caldeggiata da gruppi di esuli
    meridionali. Prese di qui l'avvio di rapporti politici molto stretti
    con Cavour e di una strategia avente due obiettivi di fondo:
    rafforzare la rete organizzativa della Società nazionale;
    mantenere in vita, attraverso l'ascendente dello stesso L., i
    contatti tra il governo piemontese e gli esponenti più in
    vista della Sinistra democratica, onde affiancare alla via
    diplomatica alcuni atti insurrezionali mirati.
    
    I fatti di Lunigiana (25-26 luglio 1856), con il coinvolgimento di
    esponenti moderati, la tolleranza sulla presenza clandestina di
    Mazzini a Genova per preparare un moto insurrezionale nel
    Mezzogiorno e in Sicilia nell'estate del 1857 (su cui peraltro
    già dal 1855 lavorava lo stesso L.), la partecipazione di G.
    Nicotera alla spedizione di Sapri in qualità di agente
    cavouriano, testimoniano a sufficienza che, almeno sino
    all'attentato di F. Orsini a Parigi (gennaio 1858), la strategia
    cavouriana sembrò produrre effetti positivi. Quanto alla
    rivoluzione antiborbonica, il L. sosteneva la necessità che
    essa scoppiasse in Sicilia al grido di "Italia e Vittorio Emanuele"
    e quindi con un indirizzo unitario, il solo che avrebbe consentito
    l'adesione dei liberali napoletani e reso possibile il sostegno
    militare di uno Stato militarmente organizzato per contrastare la
    reazione dell'esercito borbonico.
    
    Fondando la Società nazionale italiana (1857) e ottenendo
    l'adesione di Garibaldi, il L., che della Società assunse la
    segreteria, compì l'atto politico più qualificante in
    vista di quell'insurrezione dell'Italia centrale che avrebbe
    accompagnato la guerra contro l'Austria; non poté però
    impedire che tra gli esponenti moderati dell'emigrazione siciliana
    emergesse un vasto schieramento attardato ancora su rivendicazioni
    indipendentiste e antinapoletane (F. Ferrara, V. D'Ondes Reggio, E.
    Amari, F.P. Perez), spinte sino all'accettazione di restaurazioni
    murattiane o alla ricerca di tutele inglesi.
    
    All'intenso lavorio svolto dal L. nel 1858 per la sollevazione e
    l'invio di volontari per l'imminente conflitto, soprattutto
    dall'Italia centrosettentrionale, si accompagnò l'infittirsi
    dei rapporti con Garibaldi e la definizione di un piano per
    l'insurrezione di Massa e Carrara, concordato con lo stesso Cavour.
    Nello stesso tempo il L. diffondeva il suo Credo politico della
    Società nazionale italiana e La rivoluzione, la dittatura e
    le alleanze (Torino 1859), un vero e proprio manifesto programmatico
    di un'organizzazione che non voleva avere più nulla di
    settario e si proponeva di affiancare concretamente l'azione
    diplomatica condotta dal Cavour in Europa. In questa ottica la
    Società nazionale raccoglieva fondi, reclutava volontari dai
    vari Stati italiani e li smistava verso Torino (compresi i disertori
    dell'esercito austriaco), e dalle colonne del Piccolo Corriere
    confutava le critiche rivolte da Mazzini alla politica sabauda.
    
    I frutti della strategia lafariniana si cominciarono a raccogliere
    quando allo scoppio della guerra con l'Austria tennero dietro le
    sollevazioni popolari nell'Italia centrale.
    
    La crisi venne dopo, allorché, adirato per la cessione di
    Nizza e della Savoia, Garibaldi lasciò la presidenza della
    Società nazionale e riprese a lavorare con i mazziniani per
    un rilancio dell'iniziativa democratica. Per non restare tagliato
    fuori, il L. si adoperò per riprendere i contatti con
    Garibaldi e convincere lo stesso Cavour a non ostacolare la partenza
    dei garibaldini da Quarto, agevolandone anzi la navigazione verso la
    Sicilia, onde evitare possibili e pericolose digressioni verso lo
    Stato pontificio. Politicamente anche più importante fu
    l'azione con cui il L. procurò alla spedizione l'appoggio
    degli affiliati siciliani della Società nazionale e
    creò il Fondo per un soccorso alle province non ancora
    libere.
    
    Caduta Palermo, Cavour - preoccupato per le prime misure prese da F.
    Crispi come segretario della dittatura - inviò il L. in
    Sicilia insieme con F. Cordova (1° giugno 1860), trascurando il
    fatto che il L., che era stato eletto deputato nel collegio di Busto
    Arsizio (VII legislatura), per aver votato a favore della cessione
    di Nizza era considerato da Garibaldi alla stregua di un nemico; a
    ciò si aggiunga che i due cavouriani si resero protagonisti
    di alcune iniziative plateali volte a enfatizzare il pericolo
    repubblicano e a ottenere l'annessione immediata dell'isola, e come
    tali sgradite a Garibaldi che il 7 luglio ordinò l'arresto e
    quindi l'espulsione del L.; pari trattamento fu volutamente
    riservato a due spie.
    
    In Sicilia il L. poté tornare solo il 2 dic. 1860 in veste di
    consigliere della Luogotenenza per la sicurezza e gli affari
    interni. Non riuscendo però a mitigare l'opinione negativa di
    chi gli rimproverava il suo unitarismo, il 27 genn. 1861 dovette
    rinunciare alla carica e tornare a Torino. Qui, dopo l'apertura
    solenne del Parlamento (VIII legislatura, 18 febbr. 1861), il L.,
    eletto nel II collegio di Messina, fu nominato vicepresidente della
    Camera elettiva, ai cui lavori partecipò interessandosi
    soprattutto al tema della separazione della potestà civile da
    quella religiosa. Altri contributi parlamentari importanti
    riguardarono il decentramento amministrativo, da lui avversato, il
    disavanzo dello Stato, la vendita straordinaria dei titoli della
    rendita pubblica, la libertà d'associazione, il brigantaggio.
    
    Nell'estate del 1863, già in precarie condizioni di salute,
    il L. si recò a Messina a riabbracciare la madre e i suoi
    amici più cari. Tornato a Torino a metà agosto, il 5
    sett. 1863 non sopravvisse a una violenta apoplessia cerebrale.