da http://www.criticamente.com

 

MARX – ENGELS

SULL’ITALIA
Scritti e Lettere




Indice

K. Marx, Lettera al direttore de «L'Alba».

F. Engels, La più recente prodezza della casa di Borbone

F. Engels, Il primo atto dell’Assemblea nazionale tedesca a Francoforte

K. Marx, La Concordia di Torino

F. Engels, La lotta di liberazione io Italia e la causa del suo attuale insuccesso.

F. Engels, La Kölnische Zeitung sull’Italia

K. Marx, Il movimento rivoluzionario in Italia

F. Engels, La guerra in Italia e Ungheria

F. Engels, La sconfitta dei piemontesi

K. Marx, F. Engels, Terza rassegna internazionale

K. Marx, L’insurrezione italiana

K. Marx, I moti a Milano

K. Marx, Kossuth e Mazzini

K. Marx, L’indirizzo di Mazzini

K. Marx, Agitazione in Italia

F. Engels, Gli eserciti d’Europa .

K. Marx, Sull’unificazione dell’Italia

F. Engels, L’occupazione austriaca dell’Italia

F. Engels, Probabilità della guerra imminente .

F. Engels, Po e Reno

F. Engels, L’inevitabilità della guerra

F. Engels, Le prospettive della guerra

K. Marx, Austria, Russia e Germania nella guerra»

K. Marx, Il Manifesto di Mazzini

K. Marx, Che cosa ha guadagnato l’Italia?

K. Marx,  La pace»

K Marx, Il trattato di Villafranca

F. Engels, La guerra italiana
K. Marx, Luigi Napoleone e l’Italia

K. Marx, Un punto di vista radicale sulla pace

F. Engels, Savoia, Nizza e Reno

F. Engels, Brescia .

K. Marx, Garibaldi in Sicilia — La situazione in Prussia

F. Engels, Garibaldi in Sicilia

K. Marx, Notizie interessanti dalla Sicilia — La lite di Garibaldi con La Farina — Una lettera di Garibaldi

F. Engels, Il movimento garibaldino

F. Engels, L’avanzata di Garibaldi

F. Engels, Garibaldi in Calabria

K. Marx, La situazione in Prussia — La Prussia, la Francia e l’Italia

K. Marx,  da «Il Capitale». (Libro primo. Nota dell’autore n. 189).

K,  Marx,  da  «Quarto  rapporto  annuale  del  Consiglio  Generale  dell’Associazione Internazionale degli Operai

F. Engels, Sulla partecipazione di Mazzini alla fondazione del l’Internazionale .

F. Engels, Sul mandato di Giuseppe Boriani

F. Engels, Dichiarazione del Consiglio Generale ai giornali italiani in merito agli articoli di Mazzini sull’Internazionale

F.  Engels,  Lettera  al  direttore  del  Gazzettino  Rosa.  Dal  riassunto  di  un  discorso  di Friedrich Engels sulla situazione dell’Internazionale in Italia e Spagna

F. Engels, Sulle persecuzioni del membro dell’Internazionale Theodor Cuno

F. Engels, da « Nota per il Consiglio Generale» .

K.  Marx,  F.  Engels,  da  «L’Alleanza  Internazionale  della  Democrazia  Socialista  e l’Associazione Internazionale degli Operai»

F. Engels, da «In seno all’Internazionale»

F. Engels, In Italia

F. Engels, da «Gli operai europei nel 1877»

F. Engels, da «La funzione della violenza nella storia»

F. Engels, Risposta all’onorevole Giovanni Bovio

F. Engels, Al lettore italiano

F. Engels, La futura rivoluzione italiana e il partito socialista

F. Engels, Al III Congresso del Partito socialista dei lavoratori italiani

F. Engels, Saluto ai socialisti siciliani

F. Engels, Il socialismo internazionale e il socialismo italiano



Dall’epistolario

Engels a Marx, 9 maggio 1851

Marx a Joseph Weydemeyer, 11 settembre 1851 Marx a Engels, 13 settembre 1851

Engels a Marx, 28 settembre 1851

Engels a Marx, 11 febbraio 1858

Marx a Engels, 23 febbraio 1853

Marx a Engels, 8 ottobre 1858

Marx a Ferdinand Lassalle, 4 febbraio 1859   

Engels a Marx, 4 novembre 1859

Engels a Ludwig Kugelmann, 8 e 20 novembre 1867

Engels a Marx, 28 agosto 1868

Engels a Carlo Cafiero, 1° luglio 7871

Engels a Carlo Cafiero, 16 luglio 1871

Engels a Carlo Cafiero, 28 luglio 2871
Engels a Wilhelm Liebknecht, 4 novembre 1871

Engels a Theodor Cuno, 13 novembre 1871

Engels a Willielm Licbknecht, 18 gennaio 1872

Engels a Paul Lafargue, 29 gennaio 1872

Engels a Theodor Cuno, 24 gennaio 1872

Engels a Johann Philipp Becker, 76 febbraio 1872

Engels a Laura Lafargue, 11 marzo 1872

Engels a Gennaro Bovio, 16 a 2872

Engels a Theodor Cuno, 22 (-28] aprile 1872

Engels a Theodor Cuno, 7-8 maggio 1872

Engels a Theodor Cuno, 10 giugno 1872

Engels a Friedrich a Adolf Sorge, 2 novembre 1872

Engels a Friedrich a Adolf Sorge, 16 novembre 1872

Engels a Friedrich a Adolf Sorge, 14 dicembre 1872

Engels a Marx, 23 febbraio 1877
Engels a Karl Kautsky, 7 febbraio 1882

Engels a Laura Lafargue, 12 febbraio 1893
Engels a Friedrich Adolph Sorge, 23 febbraio 1894

Engels a Paul Lafargue, 18 dicembre 1894
Engels a Pasquale Martignetti, 8 gennaio 1895

Engels a Friedrich Adolph Sorge, 16 gennaio 1895

Engels a Conrad Schmidt, 12 marzo 1895


K. Marx

Lettera al direttore de «L'Alba»1

Signore,

sotto il titolo della Nuova Gazzetta Renana ( Neue Rheinische Zeitung ) e sotto  la direzione del sig. Karl Marx si pubblica fin dal primo giugno prossimo futuro un nuovo giornale quotidiano in questa città di Colonia. Questo giornale seguirà, nel nostro settentrionale, i medesimi principi democratici che L'Alba rappresenta in Italia. Non può dunque essere dubbiosa la posizione che prenderemo relativamente alla questione pendente fra l'Italia e l'Austria. Difenderemo la causa dell'indipendenza italiana, combatteremo a morte il dispotismo austriaco in Italia, come in Germania e in Polonia. Tendiamo fraternamente la mano al popolo italiano e vogliamo provargli che il popolo tedesco si rifiuta di prendere parte all'oppressione esercitata su di voi dagli stessi uomini che da noi hanno sempre combattuto la libertà. Vogliamo fare tutto il possibile per preparare l'unione e la buona intelligenza di due grandi e libere nazioni che un nefasto sistema di governo ha fatto credersi finora nemiche l'una dell'altra. Domandiamo dunque che la brutale soldatesca austriaca sia senza ritardo ritirata dall'Italia, e che il popolo italiano sia messo nella posizione di poter pronunziare la sua volontà sovrana rispettando la forma di governo che vuole scegliere.

Per metterci nella condizione di conoscere gli affari italiani e per darvi l'occasione di giudicare della sincerità delle nostre promesse, vi proponiamo di cambiare il vostro giornale con il nostro; cosìcché vi indirizziamo la Nuova Gazzetta Renana e voi ci indirizzerete L'Alba regolarmente ogni giorno. Ci lusinghiamo che vi piacerà accettare questa proposta e vi preghiamo di cominciare l'invio de L'Alba il più presto possibile, finché possiamo profittarne già per i primi nostri numeri.

Se si trovasse che aveste altre comunicazioni da indirizzarci, vi invitiamo di farlo, promettendovi che tutto quello che può servire la causa della democrazia, nell'uno o nell'altro paese, troverà, da parte nostra, sempre tutta l'attenzione possibile.

Salute e fraternità

La direzione della Nuova Gazzetta Renana

II Direttore: dott. Karl Marx Scritta alla fine di maggio del 1848.

Pubblicata su L'Alba n. 258, 29 giugno 1848

Note

1 La lettera di Marx fu pubblicata su L’Alba il 29 giugno 1848 con il seguente cappello della redazione:
«Pubblichiamo la seguente lettera indirizzataci da Colonia per  testimoniare quali  sentimenti nutrono  a riguardo dell’Italia i generosi alemanni, i quali aspirano caldamente a stringere un legame fraterno tra le nazioni Italiana e Germanica, inimicate dai despoti dell’Europa»


F. Engels

La più recente prodezza della casa di Borbone2

La casa di Borbone non e ancora giunta al termine della sua gloriosa carriera. Certo, la sua bianca bandiera, negli ultimi tempi, è stata piuttosto insozzata; certo, i suoi gigli reclinavano miserevolmente il capo sul punto d'appassire, Carlo Lodovico di Borbone si è venduto un ducato e ne ha dovuto abbandonare ignominiosamente un altro; Ferdinando dì Borbone ha perduto la Sicilia3, ed ha dovuto, a Napoli, concedere una Costituzione alla rivoluzione; Luigi Filippo pur essendo soltanto un cripto-borbone, ha fatto la fine di tutti i Borboni di Francia, passando oltre la Manica, in Inghilterra. Ma il Borbone di Napoli ha splendidamente vendicato l'onore della famiglia.

Le Camere vengono convocate a Napoli. Il giorno dell'apertura deve servire alla battaglia decisiva contro la rivoluzione. Campobasso, uno dei capi della polizia del famigerato Del Carretto, viene richiamato di nascosto da Malta; gli sbirri, con i loro vecchi capì alla testa, ripercorrono per la prima volta dopo parecchio tempo via Toledo, armati e a gruppi, disarmano i cittadini, strappano loro gli abiti di dosso, li costringono a radersi i baffi. Arriva il 14 maggio, giorno di apertura delle Camere. Il re pretende che le Camere s'impegnino sotto giuramento a non modificare la Costituzione da lui concessa. Le Camere rifiutano. La Guardia nazionale si dichiara solidale coi deputati. Si scende a tratte, il re cede, i ministri si dimettono. I deputati chiedono che il re renda pubbliche, con un suo proclama, le con cessioni accordate. Il re promette il proclama per il giorno seguente. Ma durante la notte tutte le truppe dei presidi vicini entrano a Napoli. La Guardia nazionale si accorge di essere stata tradita; innalza delle barricate, dietro le quali si schierano 5-6.000 uomini. Ma di fronte ad essi vi sono 20.000 soldati, in parte napoletani, in parte svizzeri, con 18 cannoni: fra gli uni e gli altri, per il momento neutrali, stanno i 20.000 lazzaroni di Napoli.

Il 15 mattina gli svizzeri dichiarano ancora che essi non avrebbero attaccato il popolo. Ma in via Toledo un agente di polizia, che si è mescolato al popolo, spara sui soldati; quasi contemporaneamente il Forte di Sant'Elmo inalbera la bandiera rossa e, a questo segnale, i soldati attaccano le barricate. Ha inizio un'orribile carneficina; le Guardie nazionali sì difendono eroicamente contro forze quattro volte superiori e contro i cannoni dei soldati. Si combatte dalle 10 del mattino fino a mezzanotte; nonostante la grande preponderanza della soldatesca il popolo avrebbe vinto, se la condotta vergognosa dell'ammiraglio francese Baudin non avesse deciso i lazzaroni a unirsi al partito del re.

L'ammiraglio Baudin si trovava di fronte a Napoli con una squadra francese abbastanza forte. La semplice ma tempestiva minaccia di bombardare il Castello ed i forti avrebbe costretto Ferdinando a cedere. Ma Baudin, vecchio servitore di Luigi Filippo, abituato ai tempi dell'entente cordiale4 in cui l'esistenza della flotta francese era appena tollerata, se ne restò tranquillo, e così decise i lazzaroni, che già stavano per abbracciare la causa popolare, a schierarsi a fianco delle truppe.

Con questo atto del Lumpenproletariat napoletano, la disfatta della rivoluzione era decisa. Guardie svizzere, soldati di linea napoletani e lazzaroni si gettarono tutti insieme sui combattenti delle barricate. I palazzi della via Toledo, spazzata dalla mitraglia, rovinavano sotto le cannonate dei soldati; la banda furibonda dei vincitori si riversa per le case, trafigge gli uomini, infilza i bambini, violenta ed assassina le donne, saccheggia tutto ed abbandona alle fiamme le abitazioni devastate. I lazzaroni si dimostrarono qui i più rapaci, gli svizzeri i più brutali. E’ impossibile descrivere le infamie e gli atti di barbarie che hanno accompagnato la vittoria dei mercenari borbonici, quattro volte più numerosi e meglio armati, e dei lazzaroni, che sono stati sempre sanfedisti5, sulla Guardia nazionale di Napoli, che è stata quasi sterminata.

Alla fine, è stato troppo perfino per l'ammiraglio Baudin. Sempre nuovi fuggiaschi giungevano sulle sue navi, e raccontavano quel che accadeva in città. Il sangue francese dei suoi marinai ribolliva. E finalmente, quando la vittoria del re era già decisa, egli pensò al bombardamento. A poco a poco il macello cessò: non si assassinava più nelle strade, ci si accontentava di rapine e di stupri; ma i prigionieri venivano condotti nei forti e senz'altro fucilati. A mezzanotte tutto era finito, il potere assoluto di Ferdinando era, di fatto, ristabilito, e l'onore della casa di Borbone lavato nel sangue italiano.

Questa è la più recente prodezza della casa di Borbone. E, come sempre, proprio gli svizzeri decìsero con le loro armi le sorti della lotta a favore dei Borboni e contro il popolo. Il 10 agosto 1792, il 29 luglio 1830, negli scontri di Napoli del 18206 — dappertutto vediamo i nipoti di Tell e Winckelried7 nel ruolo di lanzichenecchi, di mercenari di una dinastia il cui nome è divenuto già da tempo in tutta Europa sinonimo di monarchia assoluta. Ora, s'intende, questo finirà presto. I cantoni più progressisti sono riusciti, dopo lunghe controversie, ad ottenere il divieto delle capitolazioni militari8; i figli gagliardi della libera, vecchia Svizzera non potranno più calpestare le donne napoletane, inebriarsi di rapine nelle città in rivolta e, in caso di sconfitta, non verranno immortalati con l'effige dei leoni di Thorvaldsen, come avvenne per i caduti del 10 agosto9.

La casa di Borbone può per il momento tirare di nuovo il nato. La reazione, ricominciata dal 24 febbraio, non ha avuto in nessun luogo una vittoria così decisiva come a Napoli; e appunto da Napoli e dalla Sicilia era partita la prima delle rivoluzioni di quest'anno. Ma il torrente rivoluzionario, che è dilagato sulla vecchia Europa, non si lascia arginare da complotti e colpi di Stato assolutisti. Con la controrivoluzione del 15 maggio, Ferdinando di Borbone ha posto la prima pietra della Repubblica italiana. Già la Calabria è in fiamme, un governo provvisorio è proclamato a Palermo; anche gli Abruzzi insorgeranno, gli abitanti di tutte le esauste province marceranno su Napoli e uniti al popolo della città, trarranno vendetta del regal traditore e dei suoi brutali lanzichenecchi. E se Ferdinando cadrà, egli avrà almeno la soddisfazione di aver vissuto e di esser caduto da vero Borbone.

Note

2 Il titolo è dell’Istituto di marxismo-leninismo presso il CC del PCUS.

3 Si tratta della rivoluzione di Palermo del 12 gennaio 1848 e della cacciata dalla Sicilia delle truppe napoletane che nel 1848-1849 dette impulso ai moti rivoluzionari negli Stati italiani.

4 Entente cordiale (Intesa cordiale), l’accordo di collaborazione nelle questioni internazionali stabilitosi tra Francia ed Inghilterra all’inizio degli anni ‘30 del XIX secolo.

5 Sanfedisti, erano così chiamati i componenti dei reparti terroristici creati dal potere pontificio all’inizio del XIX sec. per lottare contro il movimento di liberazione nazionale in Italia.

6 Il 10 agosto 1792, giorno della fine della monarchia francese, abbattuta dalla rivoluzione borghese della fine del XVIII sec.

Il 29 luglio 1880 fu abbattuta la dinastia dei Borboni.

Nel 1820 a Napoli divampò la rivoluzione carbonara repressa dalle potenze della Santa Alleanza.

7 Guglielmo Tell e Arnold Winltelried, eroi leggendari svizzeri sorti durante la guerra di liberazione contro gli Asburgo.

8 Si tratta degli accordi sulle milizie mercenarie stipulati dai cantoni svizzeri con gli Stati europei dalla metà del sec. XV fino alla metà del sec. XIX. Nel corso delle rivoluzioni borghesi del XVIII-XIX sec, queste milizie furono uno strumento della controrivoluzione monarchica.

9 Il monumento del Leone, opera di Thorvaldsen, fu eretto a Lucerna per commemorare i mercenari svizzeri caduti il 10 agosto 1792 durante la difesa del palazzo reale di Parigi assalito dal popolo insorto.

Scritto il 31 maggio 1848.

Pubblicato sulla Neue Rheinische Zeitung n. 1, 1° giugno 1848


F. Engels

II primo atto dell'Assemblea nazionale tedesca a Francoforte10

Colonia. L'Assemblea nazionale tedesca infine si è mossa! Ha preso finalmente una decisione che ha un immediato effetto pratico: si è ingerita nella guerra austro-italiana11.

E come lo ha fatto? Ha proclamato l'indipendenza dell'Italia? Ha mandato un corriere a Vienna con l'ordine per Radetzky e Welden di ritirarsi subito al di là dell'Isonzo? Ha inviato un messaggio di congratulazioni al governo provvisorio milanese?12 Niente di tutto questo! Essa ha dichiarato che avrebbe considerato ogni attacco contro Trieste come caso bellico. In altri termini l'Assemblea nazionale tedesca, d'intesa cordiale con il Bundestag, permette agli austriaci di perpetrare in Italia le più gravi brutalità, di saccheggiare, uccidere, lanciare razzi incendiari su ogni città e su ogni villaggio (vedi qui sotto Italia) e di ritirarsi poi tranquillamente sul territorio neutrale della Federazione tedesca!13 Essa permette agli austriaci di far invadere ogni momento la Lombardia da croati e panduri14, che partono dal suolo tedesco, ma vuole proibire agli italiani di inseguire gli austriaci battuti fino al loro nascondiglio! Essa permette agli austriaci di bloccare, partendo da Trieste, Venezia, nonché le foci del Piave, del Brenta e del Tagliamento, ma nega agli italiani ogni azione ostile contro Trieste!

L' Assemblea nazionale tedesca non poteva comportarsi più vilmente di quanto abbia fatto con questa decisione. Le è mancato il coraggio di sanzionare apertamente la guerra contro l’Italia. Le è mancato ancor più il coraggio di proibire al governo austriaco questa guerra. In tale situazione imbarazzante essa prende — per giunta con grida di acclamazione, per coprire col clamore la sua segreta paura — la decisione su Trieste, la quale formalmente né approva né disapprova la guerra contro la rivoluzione italiana, ma in sostanza l’approva.

Questa decisione rappresenta una dichiarazione di guerra all’Italia ma una dichiarazione indiretta e perciò doppiamente vergognosa per una nazione forte di quaranta milioni di anime come quella tedesca.

La decisione dell’Assemblea di Francoforte provocherà un’ondata di sdegno in tutta Italia. Se gli italiani possono ancora dar prova di fierezza e di energia, devono rispondere bombardando Trieste e facendo una marcia sul Brennero.

Note

10 Si tratta del parlamento pangermanico riunitosi a Francoforte nel maggio 1848 per unificare il paese ed elaborare una Costituzione pangermanica. L’Assemblea, composta prevalentemente di rappresentanti della borghesia liberale, si trasformò in una sede di puri verbalismi e non seppe adempiere i compiti prefissi. La Costituzione imperiale, elaborata già negli anni della reazione, non poté essere tradotta in atto, e l’Assemblea fu sciolta nel giugno del 1849.

11 La guerra austro-italiana. Alla guerra di liberazione dell’Italia dal dominio austriaco (marzo 1848 - agosto 1849) presero parte le truppe del Piemonte, del Regno delle due Sicilie e di altri Stati italiani. Per la pavida politica della casa Savoia, allarmata dallo sviluppo del movimento rivoluzionario, la guerra finì con la vittoria dell’Austria che conquistò così la Lombardia e Venezia.

12  Il governo provvisorio di Milano si formò il 22 marzo 1848, quando, grazie alla vittoriosa rivolta popolare, le truppe austriache furono scacciate dalla città. Vi entrarono a far parte i rappresentanti della borghesia liberale con a capo G. Casati.

13 La Federazione tedesca (1815-1867), unione di 35 principati (per lo più tedeschi) e di quattro Libere Città. L’Unione, in cui l’Austria esercitava una funzione preminente, non si poneva l’obiettivo dell’unificazione politica ed economica del popolo tedesco in quanto strumento della reazione. Il suo organo rappresentativo
— la Dieta federale — non aveva nè armi nè denaro e le sue disposizioni non erano obbligatorie per i governi degli Stati membri.

14 Panduri, formazioni militari che prestavano servizio nell’ambito dell’esercito austriaco come truppe irregolari di fanteria.

Scritto il 22 giugno 1848.

Pubblicato sulla Neue Ruteinische Zeitung n. 23, 23 giugno 1848



K. Marx

«La Concordia» di Torino15

Abbiamo recentemente ricordato che L’Alba, il giornale che si pubblica a Firenze, ci ha fraternamente teso la mano al di sopra delle Alpi16. C’era da aspettarsi che un altro giornale, La Concordia di Torino, foglio di tendenza opposta, assumesse un atteggiamento opposto, seppure non ostile. In uno dei suoi numeri precedenti La Concordia diceva che la Neue Rheinische Zeitung prende a cuore ogni partito, purché esso sia «oppresso». A questa invenzione non molto intelligente essa è stata mossa dal nostro giudizio sugli avvenimenti di Praga, dalla nostra simpatia per il partito democratico nelle sue prese di posizione contro i reazionari Windischgràtz e compagni. Nel frattempo, forse, il giornale torinese si sarà fatte delle idee più chiare sul cosìddetto movimento cèco.

Recentemente, tuttavia, La Concordia ha sentito ancora la necessità di dedicare alla
Nuova Gazzetta Renana un articolo più o meno dottrinario. Avevano letto nel nostro giornale il programma del Congresso operaio convocato a Berlino17 e la lettura degli 8 punti che gli operai devono discutere li ha seriamente preoccupati.

Dopo aver tradotto fedelmente e per intero gli otto punti, La Concordia comunica una specie di critica con le parole seguenti:

in queste proposte di è molto di vero e di giusto, ma La Concordia tradirebbe la sua missione, se non levasse la sua voce contro gli errori dei socialisti.

Noi, per parte nostra, ci leviamo contro «l’errore» de La Concordia, che consiste nel prendere per nostro il programma stabilito dalla Commissione per il Congresso operaio, che noi non abbiamo fatto altro che riprodurre. Comunque siamo pronti ad entrare in discussione con La Concordia sui problemi dell’economia politica, purché il suo programma offra qualcosa di più che non delle banali frasi filantropiche e alcuni dogmi presi d’accatto dai liberoscambisti.

Note

15 Non si sa ancora se attribuire l’articolo in questione a Marx oppure a Engels

16 Nell’articolo di Engels Politica estera tedesca, pubblicato sulla Neue Rheinische Zeitung il 3 luglio 1848, è riportato il seguente brano della lettera redazionale de L’Alba: «Vi ringraziamo di tutto cuore della stima alla quale voi tenete la nostra povera Italia. Mentre vi assicuriamo che tutti gli italiani sanno chi è che veramente lede e combatte la libertà, che il loro mortale nemico non è il possente magnanimo popolo tedesco, ma il suo governo dispotico, ingiusto e crudele; mentre vi assicuriamo che ogni vero italiano sospira il momento in cui, libero, potrà di nuovo tendere la mano al fratello tedesco, che, una volta ristabiliti i suoi imprescittibili diritti, saprà difenderli e rispettarli egli stesso, e farli rispettare da tutti i suoi fratelli; mentre confermiamo la nostra fiducia nei principi il cui sviluppo voi ponete per compito; ci firmiamo con osservanza i vostri devoti amici e fratelli (firm.) L. Alinari

Scritto il 23 luglio 1848.

Pubblicato su Neue Rheinische Zeitung n. 55, 25 luglio 1848



F Engels

La lotta di liberazione in Italia e la causa del suo attuale insuccesso

Con la stessa rapidità con cui, nel marzo, furono cacciati dalla Lombardia, gli austriaci sono ora tornati da trionfatori, e già sono entrati a Milano.

Il popolo italiano non ha indietreggiato dinanzi a nessun sacrificio. A prezzo del suo sangue e dei suoi averi esso era pronto a condurre a termine l’opera iniziata e a conquistare con la lotta la sua indipendenza nazionale.

Ma al suo coraggio, al suo entusiasmo, al suo spirito di sacrificio, in nessun luogo hanno risposto coloro che detenevano il potere. Apertamente o segretamente, essi hanno fatto di tutto, non per mettere in opera i mezzi ad essi affidati per la liberazione dalla brutale tirannia austriaca, ma per paralizzare la forza popolare e per ripristinare in sostanza, il più presto possibile, l’antico ordine di cose.

Il papa, [ndr Pio IX] giorno per giorno sempre più lavorato e conquistato dalla politica austro-gesuitica, ha posto ogni sorta di ostacoli sulla via del ministero Mamiani, tutti gli ostacoli di cui dispone per i suoi legami coi «neri» e coi «giallo-neri»18 Quanto al ministero stesso, esso pronunciava grandi discorsi patriottici di fronte alle due Camere, ma non aveva l’energia necessaria per tradurre in atto le sue buone intenzioni.

In Toscana, il governo si è presentato con belle parole, ma con ancora più scarsi fatti. Ma tra i principi nazionali, il nemico principale della libertà italiana è stato ed è Carlo Alberto. Gli italiani avrebbero dovuto ad ogni ora ripetere e osservare il detto: «Dagli amici mi guardi Iddio, ché dai nemici mi guardo io!». Di Ferdinando di Borbone non c’era da avere gran paura: da molto tempo egli era ormai smascherato. Carlo Alberto, invece, si faceva osannare come «la spada d’Italia », come l’eroe il cui brando avrebbe rappresentato la più sicura garanzia (Iella libertà e dell’indipendenza d’Italia.

I suoi emissari sciamavano per tutta l’Italia settentrionale e lo dipingevano come l’unico uomo che avrebbe potuto salvare e che avrebbe effettivamente salvato la patria. Ma perché ciò divenga possibile — essi dicevano — è necessaria la formazione di un regno dell’Italia settentrionale. Solo in tal modo egli disporrebbe del potere necessario non sol tanto per resistere all’Austria, ma anche per cacciarla fuori dall’Italia. L’ambizione, che aveva spinto Carlo Alberto ad allearsi coi carbonari19 che poi aveva traditi, questa ambizione si era ora più che mai risvegliata in lui e gli faceva sognare un’ampiezza di poteri e una gloria di fronte alle quali sarebbe ben presto impallidito lo splendore di tutti gli altri principi italiani. Tutto il movimento popolare del l’anno 1848, egli credeva di poterlo confiscare a beneficio della sua miseranda persona. Pieno di odio e di diffidenza contro tutti gli uomini veramente liberali, si circondava di persone più o meno devote all’assolutismo e inclini a favorire la sua ambizione di re. Alla testa dell’esercito pose dei generali di cui non doveva temere la superiorità intellettuale o le opinioni politiche, ma che non godevano la fiducia dei soldati e non possedevano il talento necessario a condurre felicemente a termine la guerra. Egli si faceva chiamare pomposamente il «liberatore» d’Italia mentre a quegli stessi che avrebbe dovuto liberare imponeva, come condizione, il suo giogo. Le circostanze gli erano favorevoli come raramente avviene a un uomo. La sua cupidigia, la sua brama di aver molto e, possibilmente, tutto, gli ha fatto infine perdere anche ciò che già aveva conquistato. Finché l’annessione della Lombardia al Piemonte non fu completamente decisa, finché durò la possibilità di una forma di governo repubblicana, egli restò, nei suoi campi trincerati, immobile di fronte agli austriaci, per quanto essi fossero allora relativamente deboli. Egli lasciò Radetzky, d’Aspre, Welden, ecc. conquistare una città e una fortezza dopo l’altra nelle province venete: non si mosse. Venezia gli parve meritevole del suo aiuto solo quando si rifugiò sotto la sua corona. Lo stesso avvenne per Parma e Modena. Intanto Radetzky si era rafforzato e, di fronte all’incapacità e alla cecità di Carlo Alberto e dei suoi generali, aveva potuto prendere tutte le misure necessarie per l’attacco e per la vittoria decisiva. L’esito è noto.

D’ora in poi gli italiani non possono porre e non porranno più la loro liberazione nelle mani di un principe o di un re; per la loro salvezza essi devono anzi, al più presto, mettere da parte come inservibile questa « spada d’Italia». Se l’avessero fatto prima, se avessero messo a riposo il re e il suo regime assieme con tutti i suoi seguaci, e avessero realizzato un’unione democratica, oggi probabilmente non vi sarebbero più austriaci in Italia. Così invece hanno soltanto sofferto per nulla tutti gli orrori di una guerra condotta dai loro nemici con barbaro furore; non soltanto hanno affrontato invano i più duri sacrifici, ma si trovano anche abbandonati senza protezione alla sete di vendetta degli uomini della reazione austro-metternichiana e delle loro soldatesche. Chi legge i manifesti indirizzati da Radetzky agli abitanti della Lombardia, da Welden alla popolazione delle Legazioni romane, comprenderà che Attila con le sue schiere di unni deve ora apparire agli italiani come un angelo di misericordia. La reazione e la restaurazione è completa. Il duca di Modena soprannominato « l carnefice», che aveva anticipato agli austriaci 1.200.000 fiorini per la guerra, torna anche lui. I popoli si sono scavata tante volte la fossa con la loro ingenuità, che debbono ormai rinsavire e imparare un po’ dai loro nemici. I modenesi lasciarono che se ne andasse tranquillamente quel duca che durante il suo governo ave va fatto incarcerare, impiccare e fucilare migliaia di persone per le loro tendenze politiche. In contraccambio ora lo vedono tornare per esercitare con raddoppiata libidine il Suo sanguinano ufficio di principe.

La reazione e la restaurazione è completa. Ma è solo provvisoria. Lo spirito rivoluzionario è troppo profonda mente penetrato nel popolo, perché esso possa esser domato a lungo. Milano, Brescia ed altre città hanno mostrato nel marzo20 di che cosa sia capace questo spirito. L’eccesso dei mali condurrà ad una nuova sollevazione. Profittando delle amare esperienze degli ultimi mesi, l’Italia saprà evitare nuove illusioni ed assicurare la sua indipendenza sotto la bandiera unitaria democratica.

Note

17 Il Congresso operaio (Berlino, 23 agosto - 3 settembre 1848) fu convocato per iniziativa di alcune organizzazioni operaie. Il suo programma, pubblicato senza commento in una corrispondenza da Berlino sulla Neue Rheinische Zeitung, avanzava rivendicazioni corporativistiche che nella pratica distoglievano gli operai dalla lotta rivoluzionaria.

18 I neri vuoI dire gesuiti; il nero e il giallo sono i colori della bandiera austriaca.

19 Si veda la nota 6.

20 Nel marzo 1848 in molte città italiane scoppiarono insurrezioni rivoluzionarie popolari. A Milano e a Brescia si conclusero con la capitolazione e la cacciata delle truppe austriache.

Scritto l’11 agosto 1848.

Pubblicato sulla Neue Rheinische Zeitung n. 73, 12 agosto 1848


F. Engels

La «Kölnische Zeitung» sull’Italia

Siamo stati condannati ieri a sentire un letterato, il signor Wilhelm Jordan di Berlino, sputar sentenze politiche dal punto di vista della storia universale. Il destino ci perseguita implacabile. Oggi ci tocca la stessa sorte: la principale conquista del marzo consiste nel fatto che i letterati hanno preso in appalto la politica.

Il signor Levin Schϋcking di Miinster, la quarta o quinta ruota del carro pubblicitario del signor Dumont, ha pubblicato nella Kölnische Zeitung un articolo su «la nostra politica in Italia».

E che dice «il mio amico Levin dagli occhi di fantasma21»?

Nessun momento è stato mai, per la Germania, più propizio dell’attuale per fissare la sua politica nei confronti dell’Italia su di una base sana, che dia la speranza di durare per secoli. Noi abbiamo gloriosamente [! Grazie al tradimento di Carlo Alberto] lavato l’onta di cui le nostre bandiere erano state macchiate da un popolo che, nella fortuna facilmente diviene tracotante; alla testa di un esercito insuperabile, ammirevole non soltanto nella vittoria e nella battaglia, ma anche nella pazienza e nella tenacia, il Barbabianca ha piantato la gloriosa [! ?] aquila bicipite della Germania sulle mura della città insorta, la stesso dove, più di seicento anni or sono, l’imperiale Barbarossa fece sventolare questa medesima bandiera, come simbolo della sovranità della Germania sull’Italia. Questa sovranità ancor oggi ci appartiene.

Così parla il signor Levin Schücking della Kölnische Zeitung.

Quando i croati e i panduri di Radetzky, dopo una lotta durata cinque giorni, furono cacciati da Milano da un popolo inerme; quando «l’ammirevole esercito», rotto a Goito, si ritirava su Verona, allora la musa politica del «mio amico Levin dagli occhi di fantasma» taceva! Ma quando grazie al tradimento vile quanto maldestro di Carlo Alberto — tradimento che noi abbiamo cento volte predetto — l’esercito austriaco, rafforzato, ha ottenuto una immediata vittoria, da allora i pubblicisti della vicina Germania fanno la loro ricomparsa, tuonano che «l’onta è stata lavata», arrischiano dei paralleli fra Federico Barbarossa e Radetzky Barba- bianca; da allora l’eroica Milano, che ha fatto la rivoluzione più gloriosa del 1848, è divenuta semplicemente una «città insorta»; da allora a noi tedeschi, cui, non è mai appartenute nulla, appartiene la «sovranità sull’Italia»!

«Le nostre bandiere»! Gli stracci gialli e neri della reazione metternichiana, che vengono calpestati a Vienna, queste sono le bandiere del signor Schücking della Kölnische Zeitung!
«La gloriosa aquila bicipite della Germania»! Questo mostro araldico, al quale a Jemappes, a Fleurus, a Millesimo, a Rivoli, a Neuwied, a Marengo, a Hohenlinden, a Uhlm, ad Austerlitz, a Wagram22  la rivoluzione armata ha strappato le penne, questo è il «glorioso» cerbero del signor Schücking della Kölnische Zeitung .

Quando gli austriaci venivano battuti, essi erano degli austriaci che seguivano l’esempio della Sonderbund23 quasi quasi dei traditori della patria; da quando Carlo Alberto è caduto nella trappola, da quando gli austriaci sono tornati al Ticino, essi sono divenuti «tedeschi», siamo «noi» che abbiamo compiuto tutte queste gesta. Noi non abbiamo nulla in contrario a che la Kölnische Zeitung pensi di aver vinto le battaglie di Volta e di Custoza e di aver conquistato Milano24 ma allora essa si assume la responsabilità di tutti i misfatti e le infamie ben note di quell’esercito di barbari «ammirevole nella pazienza e nella tenacia», così come a suo tempo essa si è assunta la responsabilità dei massacri di Galizia.

Questa sovranità ancora oggi ci appartiene. L’Italia e la Germania sono nazioni che la natura e la storia hanno legato assieme, che sono provvidenzialmente destinate a stare unite, che sono apparentate come la scienza e l’arte, come il pensiero e il sentimento, come il signor Brüggemann ed il signor Schücking l

E proprio per questo, da duemila anni, tedeschi e italiani si sono sempre combattuti, proprio per questo gli italiani hanno ogni volta scosso il giogo tedesco, proprio per questo il sangue tedesco ha tante volte arrossato le strade di Milano, per dimostrare che la Germania e l’Italia «sono provvidenzialmente destinate a stare unite»!

Proprio perché l’Italia e la Germania «sono apparentate» Radetzky e Welden hanno fatto bombardare, incendiare, saccheggiare tutte le città del Veneto!

Il mio amico Levin dagli occhi di fantasma chiede ora che noi abbandoniamo la Lombardia fino all’Adige, perché il popolo non ci vuole, anche se alcuni poveri «cittadini » (così dice l’erudito signor Schücking invece di contadini) hanno accolto con gioia gli austriaci. Ma se noi ci comportiamo da «popolo libero», «allora esso ci offrirà volentieri la mano, per lasciarsi condurre da noi sulla via che da solo non può percorrere, sulla via della libertà

Ma davvero! L’Italia, che si è conquistata la libertà di stampa, i giurati, la Costituzione, prima che la Germania si risvegliasse dal suo più pigro sonno; l’Italia, che a Palermo ha combattuto la prima rivoluzione di quest’anno25  l’Italia, che senz’armi ha vinto a Milano gli
«insuperabili» austriaci, l’Italia non può percorrere il cammino della libertà senza essere guidata per mano  dalla Germania, cioè da un Radetzky! Certo questo è vero, se a percorrere il cammino della libertà sono necessarie un’Assemblea di Francoforte,  un potere centrale insignificante, lo spezzettamento in 89 staterelli e la Kölnische Zeitung.

Ma basta. Perché gli italiani si lascino «guidare alla libertà» dai tedeschi, il signor Schücking tiene il Tirolo italiano e il Veneto, per darlo in feudo a un arciduca austriaco, e manda «2.000 soldati imperiali della Germania meridionale per far sì che il vicario di Cristo abbia la pace nella sua casa».

Ma, ahimè

Ai russi e ai francesi appartiene la terra, Il mare appartiene ai britanni;
Ma noi possediamo nel regno aereo dei sogni Un dominio incontestato.
Là esercitiamo l’egemonia, Là non siamo spezzettati; Gli altri popoli invece si sono sviluppati nel basso mondo26

E lassù, nel regno aereo dei sogni, ci appartiene anche «la sovranità sull’Italia». Nessuno lo sa meglio del signor Schücking. Dopo aver sviluppato questa bella politica della sovranità, a vantaggio e a edificazione del Reich tedesco, egli conclude sospirando:

Una tale politica grande, magnanima, degna di una potenza quale è il Reich tedesco, è stata sempre, purtroppo, considerata da noi come fantastica, e così seguiterà probabilmente ad essere considerata per lungo tempo ancora!

Noi raccomandiamo che il Sig. Schücking venga posto sullo Stelvio come custode e sentinella dell’onore tedesco. Da lassù il bellicoso corsivista della Kölnische Zeitung terrà d’occhio  l’Italia  e  vigilerà  affinché  nessun  titolo,  per  quanto  piccolo,  comprovante  la
«sovranità della Germania sull’Italia» vada perduto: solo allora la Germania potrà dormire tranquilla.

Note


21 Dalla poesia La Rosa del poeta rivoluzionario tedesco F. Freiligrath (1810-1876).

22 Qui vengono elencate le battaglie tra austriaci e francesi durante la rivoluzione francese e il periodo del Direttorio, del Consolato e dell’impero, in cui l’esercito austriaco fu sconfitto, e cioè: Jemappes (6 novembre 1792), Fleurus. (26 giugno 1794), Millesimo (13-14 aprile 1796), Rivoli (14-15 gennaio 1797), Neuwied (18
aprile  1797), Marengo  (14  giugno  1800),  Hohenlinden  (3  dicembre  1800), UhIm  (17  ottobre  1805),  e
Wagram (5-6 luglio 1809) (si vedano pure le note 63, 64, 66, 69).

23 Sonderbund, lega separatista dei sette cantoni cattolici svizzeri economicamente arretrati costituitasi nel 1843. L’unione di questi cantoni cattolici aveva lo scopo di opporsi alle trasformazioni progressiste borghesi e di difendere i privilegi della Chiesa e dei gesuiti. Nel luglio 1847 la Dieta deliberò lo scioglimento della Sonderbund, il che servi di pretesto per cominciare, ai primi di novembre, le ostilità contro gli altri cantoni. Il 23 novembre 1847 le truppe della Sonderbund furono sbaragliate dall’esercito dei governo federale.

24 Volta e Custoza, due località dell’Italia settentrionale presso le quali l’esercito austriaco guidato da Radetzky sconfisse quello piemontese il 25 e il 26-27 luglio 1848, dopodiché, il 6 agosto, poté occupare Milano.

25 Si veda la nota 3.

26 Citazione da H. Heine, Germania. Una fiaba invernale, cap VII.

Scritto il 26 agosto 1848.

Pubblicato sulla Neue Rheinische Zeitung n. 87, 27 agosto 1848


K. Marx

Da: Il movimento rivoluzionario in Italia

Finalmente, dopo sei mesi di sconfitte quasi ininterrotte della democrazia, dopo una serie dei più inauditi trionfi della controrivoluzione, finalmente appaiono di nuovo i sin tomi di una prossima vittoria del partito rivoluzionario, L’Italia, il paese la cui sollevazione ha costituito il prologo della sollevazione europea deI 1848, la cui caduta è stata il prologo della caduta di Vienna, l’Italia si solleva per la seconda volta. La Toscana ha ottenuto un ministero democratico, e Roma si è ora conquistato il suo.

Londra, 10 aprile; Parigi, 15 maggio e 25 giugno; Milano, 6 agosto; Vienna, 1° novembre27 queste sono le quattro grandi date della controrivoluzione europea, le quattro pietre miliari che segnano le tappe percorse nella sua ultima marcia trionfale...

Il gran colpo successivo fu la caduta di Milano. La riconquista di Milano da parte di Radetzky costituisce di fatto il primo grande avvenimento europeo dopo la vittoria di giugno a Parigi. L’aquila bicipite sulla guglia del Duomo di Milano significava non soltanto la caduta dell’Italia intera, ma anche la resurrezione del centro di gravità della controrivoluzione europea, la resurrezione dell’Austria. L’Italia battuta e l’Austria risorta: che poteva pretendere di più la controrivoluzione? E di fatto, con la caduta di Milano l’energia rivoluzionaria si infiacchì momentaneamente.

Mamiani cadeva a Roma, e i democratici venivano battuti in Piemonte; e al tempo stesso il partito reazionario risollevava il capo in Austria, e dal suo centro, dal quartiere generale di Radetzky, ricominciava con rinnovato ardire a tessere i suoi fili in tutte le province. Solo ora Jellachich prende l’offensiva, solo ora si realizza in pieno la grande alleanza della controrivoluzione con gli slavi dell’Impero austriaco.

Dei piccoli intermezzi, nei quali la controrivoluzione ottenne vittorie locali e conquistò singole province, della batosta di Francoforte, ecc., non voglio qui parlare. Tali fatti hanno una importanza locale, forse nazionale, non europea.

Finalmente, il 10 novembre fu compiuta l’opera, cominciata nella giornata di Custoza28 come Radetzky era entrato a Milano, Windischgrätz e Jellachich entravano a Vienna. Il metodo di Cavaignac è stato applicato, e con successo29 al focolaio più importante e più attivo della rivoluzione tedesca: a Vienna come a Parigi la rivoluzione è stata soffocata nel sangue e nelle macerie fumanti.

Ma sembra quasi che la vittoria del 1° novembre debba segnare al contempo il punto in cui il moto a ritroso si inverte, in cui subentra una crisi. Un tentativo di ripetere in Prussia, punto per punto, le prodezze di Vienna, è fallito; nel caso più favorevole, anche se il paese dovesse lasciar cadere l’Assemblea costituente, la Corona può aspettarsi solo una mezza vittoria, non decisiva; in ogni caso la prima scoraggiante impressione della sconfitta di Vienna è spezzata, spezzata dal grossolano tentativo di copiarla in ogni dettaglio.

E mentre il nord dell’Europa è già ripiombato nella servitù del 1847, o difende faticosamente dalla controrivoluzione le conquiste dei primi mesi, l’Italia di nuovo improvvisamente si solleva. Livorno, la sola città italiana che dalla caduta di Milano è stata spronata ad una vittoriosa rivoluzione, Livorno ha finalmente comunicato il suo slancio democratico a tutta la Toscana, ha imposto un ministero decisamente democratico, più decisamente democratico di quel che non si sia mai avuto con una monarchia, e così decisamente democratico quale solo pochi se ne sono avuti con una qualsiasi repubblica; un ministero che, alla caduta di Vienna e al ristabilimento dell’Impero austriaco, risponde con la proclamazione dell’Assemblea costituente italiana. E l’incendio rivoluzionario, che questo ministero democratico ha acceso tra il popolo italiano, ha attecchito: a Roma il popolo, la Guardia nazionale e l’esercito sono insorti come un sol uomo, hanno abbattuto il ministero esitante, controrivoluzionario, hanno conquistato un ministero democratico. La prima rivendicazione soddisfatta è quella di un governo fondato sul principio della nazionalità italiana, cioè la partecipazione alla Costituente italiana proposta da Guerrazzi.

Che il Piemonte e la Sicilia seguiranno è fuor di dubbio. Essi seguiranno come han seguito l’anno scorso.

Ed ora? Segnerà questa seconda resurrezione dell’Italia, nel termine di tre anni, come è avvenuto per la precedente, l’alba di un nuovo slancio della democrazia europea? Sembra quasi che debba essere così.

Note

27 Il 10 aprile 1818, in seguito all’intervento delle truppe e dei constable speciali, a Londra fallì la manifestazione dei cartisti con la quale si intendeva di presentare al parlamento la terza petizione per l’approvazione della Carta popolare.
Il 15 maggio 1848 con l’aiuto della guardia nazionale borghese fu repressa l’azione rivoluzionaria degli operai di Parigi.
Il 25 giugno 1848 fu affogata nel sangue l’insurrezione del proletariato parigino, la prima grande battaglia tra
proletariato e borghesia.
Il 6 agosto 1848 l’esercito austriaco occupò Milano.
Il 1 novembre 1848 le truppe austriache entrarono a Vienna e repressero la rivolta rivoluzionaria.

28 Si veda la nota 24.

29 Si veda la nota 27.

Scritto il 29 novembre 1848.

Pubblicato sulla Neue Rheinische Zeitung n. 156, 30 novembre 1848



F. Engels

Da : La guerra in Italia e Ungheria

La guerra in Italia è incominciata.30 Con questa guerra la monarchia asburga si è addossata un fardello sotto il qua le probabilmente soccomberà.

Fino a quando l’Ungheria non è stata in guerra aperta contro l’intera monarchia, ma svolgeva soltanto episodiche operazioni militari contro gli slavi meridionali, per l’Austria non era tanto difficile cavarsela con gli italiani, solo a metà interessati alla rivoluzione, sparpagliati, paralizzati dal triplice tradimento dei loro principi. E tuttavia quale fatica è costata questa vittoria! Dapprima bisognava che il papa [Pio IX] e il granduca di Toscana ritirassero — direttamente o indirettamente — le loro truppe dal Veneto; dapprima bisognava che Carlo Alberto e i suoi capitani, in parte incapaci, in parte venduti, tradissero apertamente la causa dell’Italia; ma soprattutto bisognava, mediante una politica perfida e apparenti concessioni, che ora i magiari, ora gli slavi meridionali fossero costretti ad inviare proprie truppe in Italia, prima che Radetzky potesse riportare la sua vittoria sul Mincio. Si sa che soltanto i reggimenti di frontiera degli slavi meridionali, introdotti in massa in Italia, hanno posto di nuovo in condizioni di combattere il disorganizzato esercito austriaco.

Poi, fino a quando durava l’armistizio con il Piemonte, fino a quando doveva soltanto mantenere la precedente consistenza numerica del suo esercito in Italia, senza doverlo rafforzare in modo eccezionale, l’Austria poteva dirigere il grosso dei suoi 600.000 soldati contro l’Ungheria, poteva respingere continuamente i magiari da una posizione al l’altra e poteva anche riuscire, grazie ai rinforzi che arriva vano quotidianamente, a sconfiggere infine le forze armate magiare. A lungo andare Kossuth, così come Napoleone, non avrebbe potuto resistere a una tale superiorità di forze.

Ma la guerra in Italia cambia molto lo stato delle cose. Dal momento in cui divenne certa la cessazione dell’armistizio, l’Austria fu costretta a raddoppiare il quantitativo di truppe inviate in Italia, dovette dividere le sue reclute appena chiamate alle anni fra Windischgrätz e Radetzky.  In tal  modo,  è da  supporre  che nessuno  di  loro possa  ricevere  rinforzi sufficienti.

Mentre per i magiari e per gli italiani si tratta solo di guadagnar tempo — il tempo necessario a procurarsi e fabbricare le armi, il tempo per fare della milizia territoriale e delle guardie nazionali soldati pronti all’attivo servizio di guerra, il tempo per rivoluzionare il paese — l’Austria, invece, ogni giorno che passa si indebolisce sempre più rispetto ai suoi avversari.

Mentre Roma, la Toscana e lo stesso Piemonte a causa della guerra vengono coinvolti sempre più nella rivoluzione e ogni giorno sono costretti a dar prova di sempre maggiore energia rivoluzionaria, mentre essi possono attendere la crisi che si avvicina a grandi passi in Francia, in Austria ogni giorno guadagna sempre più terreno e ogni giorno si organizza sempre meglio il terzo elemento disorganizzante: l’opposizione slava..

…….Rivolgiamoci ora al teatro di guerra italiano. Qui l’esercito piemontese si è attestato su un grande arco lungo il Ticino e il Po. La sua prima linea si stende da Arona attraverso Novara, Vigevano, Voghera a Castel San Giovanni davanti a Piacenza. Le truppe di riserva stanno a qualche miglio indietro sul Sesia e sul Bormida nei pressi di Vercelli, Trino e Alessandria. All’estremo fianco destro, nei pressi di Sarzana al confine tosco-modenese, sta un corpo d’armata distaccato al comando di La Marmora, pronto ad aprirsi un varco attraverso i passi della Lunigiana verso Parma e Modena, per unirsi sulla sinistra al fianco destro dell’esercito principale e sulla destra agli eserciti toscano e romano, per attraversare a seconda delle circostanze il Po e l’Adige e operare nel Veneto.

Dirimpetto, sulla riva sinistra del Ticino e del Po sta Radetzky. Come è noto, il suo esercito è diviso in due corpi d’armata, uno dei quali occupa la Lombardia, l’altro il Veneto. Mentre nel Veneto non si registra alcuno spostamento di truppe, si sente dire da ogni parte che Radetzky in Lombardia concentra tutto il suo esercito sul Ticino. Egli ha ritirato tutte le sue truppe da Parma e a Modena ha lasciato solo alcune centinaia di soldati nella cittadella. Varese, Como, la Val d’Intelvi e la Valtellina sono completamente libere dalle truppe e sono scomparse persino le guardie doganali.

Tutte le forze di cui dispone Radetzky, in tutto 50.000 uomini, sono schierate lungo il Ticino da Magenta a Pavia e lungo il Po da Pavia a Piacenza.

Si dice che Radetzky avesse un piano molto spavaldo: attraversare subito con questo esercito il Ticino e marciare direttamente su Torino, sfruttando l’inevitabile smarrimento
degli italiani. Bisogna ricordare che già l’anno scorso Radetzky ha avuto più di una volta simili brame napoleoni che e che già allora esse gli sono costate caro. Questa volta però al suo piano si è opposto tutto il consiglio di guerra ed è stato deciso di ripiegare, senza dare una battaglia decisiva, verso l’Adda, l’Oglio e in caso di necessità persino verso il Chiese per ricevere là rinforzi dal Veneto e dall’Illiria.

Dipenderà dalla capacità di manovra dei piemontesi e dall’ardore bellico dei lombardi, se gli austriaci riusciranno a compiere questo ripiegamento senza perdite e se essi riusciranno a fermare per molto tempo i piemontesi. Il pendio meridionale delle Alpi, cioè il Comasco, la Brianza, il Bergamasco, la Valtellina e il Bresciano, ora per la maggior parte abbandonati dagli austriaci, è adattissimo alla guerra partigiana nazionale. Gli austriaci concentrati in pianura, devono abbandonare le montagne. Qui sull’ala destra austriaca, i piemontesi, dopo una rapida avanzata delle loro truppe leggere, possono organizzare in breve tempo la guerriglia per minacciare i fianchi dei reparti austriaci e, in caso di disfatta di un corpo d’armata, la ritirata stessa delle truppe imperiali, per tagliare i rifornimenti ed estendere l’insurrezione fino alle Alpi Tridentine. Garibaldi sarebbe qui al posto giusto. Ma non gli verrà in mente di servire ancora una volta sotto il traditore Carlo Alberto31.

L’esercito tosco-romano, appoggiato da La Marmora, dovrà occupare la linea del Po da Piacenza a Ferrara, attraversare il più presto possibile il Po e poi l’Adige, separare Radetzky dal corpo d’armata austro-veneziano e operare al suo fianco sinistro o possibilmente nelle sue retrovie. Difficilmente esso arriverà con sufficiente rapidità per influire sulle prime operazioni di guerra.

Ma è soprattutto il comportamento dei piemontesi che decide tutto. Il loro esercito è buono e dotato di spirito combattivo, ma, se sarà tradito di nuovo come l’anno scorso, esso sarà inevitabilmente battuto. I lombardi chiedono le armi per battersi contro gli oppressori; ma se un oscillante governo borghese paralizzerà di nuovo, come l’anno scorso, l’insurrezione di massa, Radetzky potrà fare ancora una volta il suo ingresso a Milano.

Contro il tradimento e la pusillanimità del governo c’è un solo rimedio: la rivoluzione. E probabilmente saranno necessari proprio un nuovo tradimento di Carlo Alberto, un nuovo atto di infedeltà della nobiltà e della borghesia lombarde per fare fino in fondo la rivoluzione italiana e insieme ad essa la guerra di liberazione italiana. Ma allora guai ai traditori!

Note

30 Il 12 marzo 1849 Carlo Alberto, re di Sardegna, ruppe l’armistizio del 9 agosto 1848 con l’Austria. Il 20 marzo ripresero le ostilità. Il 23 marzo, però, l’esercito piemontese si vide già sconfitto. Carlo Alberto abdicò. Il 26 marzo, Vittorio Emanuele II nuovo re di Sardegna, concluse l’armistizio, e quindi (il 6 agosto) la pace con gli austriaci.

31 Nell’estate 1848, durante la rivoluzione nell’Italia settentrionale, Garibaldi aveva offerto suo aiuto a Carlo Alberto. Ma abbandonati a se stessi dal comando piemontese, i garibaldini furono costretti a combattere da soli contro gli austriaci. Sconfitti, si ritirarono in Svizzera.

Scritto il 27 marzo 1849.

Pubblicato sulla Neue Rheinische Zeitung n. 257, 28 marzo 1849



F Engels

La sconfitta dei piemontesi

I

Il tradimento di Ramorino ha dato i suoi frutti. L’esercito piemontese è  stato completamente sconfitto presso Novara e respinto verso Borgomanero, ai piedi delle Alpi. Gli austriaci hanno occupato Novara, Vercelli e Trino e la via di Torino è loro aperta.

Mancano per ora informazioni più precise. È però fin da ora accertato che senza Ramorino, che ha permesso agli austriaci d’incunearsi fra le divisioni piemontesi, e di isolarne così una parte, la vittoria sarebbe stata impossibile.

Che anche Carlo Alberto abbia tradito è ormai indubitabile. Se lo ha fatto soltanto per mezzo di Ramorino o anche in altro modo, non potremo saperlo che più tardi.

Ramorino è quello stesso avventuriero che, dopo una carriera più che equivoca durante la guerra polacca del 1830-31, scomparve con la cassa durante la spedizione di Savoia32  del 1834, proprio il giorno in cui la cosa diventava seria. È lo stesso che più tardi a Londra vendette all’ex duca di Brunswick un piano di conquista della Germania per 1.200 sterline.

Il solo fatto che si sia ricorsi a un simile cavaliere d’industria dimostra fino a che punto Carlo Alberto, che temeva i repubblicani di Genova e di Torino più degli austriaci, meditasse fin da principio il tradimento.

Che dopo questa disfatta ci si aspetti la rivoluzione e la proclamazione della repubblica a Torino, si vede dal fatto che si cerca di provvedere e di evitarla con l’abdicazione di Carlo Alberto in favore del suo primogenito.

La disfatta dei piemontesi conta più di tutte le farse imperiali tedesche messe insieme. È la disfatta di tutta la rivoluzione italiana. Dopo la sconfitta del Piemonte, è la volta di Roma e di Firenze.

Ma se tutti gli indizi non ci ingannano, è appunto questa disfatta della rivoluzione italiana che sarà il segnale dello scoppio della rivoluzione europea…..

…….. La sconfitta degli italiani è amara. Nessun popolo, eccettuato il polacco, è stato così vergognosamente oppresso dalla tirannia di vicini più potenti, nessuno ha cercato così spesso e così coraggiosamente di scuotere il proprio giogo. E ogni volta questo popolo infelice ha dovuto soccombere di fronte ai suoi oppressori. Il risultato di tutti gli sforzi, di tutte le lotte, è solo una nuova sconfitta. Ma se questa sconfitta ha come conseguenza una rivoluzione a Parigi e fa scoppiare una guerra europea i cui sintomi s’intravedono dappertutto; se dà impulso a un nuovo movimento su tutto il Continente, movimento che, questa volta, avrà ben altro carattere che quello dell’anno scorso, allora gli italiani stessi avranno motivo di rallegrarsene.

II

Secondo le ultime notizie provenienti dall’Italia, la sconfitta dei piemontesi presso Novara non è affatto così decisiva come affermava il telegramma spedito a Parigi.

I piemontesi sono battuti, tagliati fuori da Torino e ricacciati sulle montagne. Questo è tutto.

Se il Piemonte fosse una repubblica, se il governo di Torino fosse rivoluzionario e avesse il coraggio di usare i mezzi rivoluzionari nulla sarebbe perduto. Ma l’indipendenza italiana sta per esser perduta, e non per l’invincibilità del le armi austriache, ma per la codardia della monarchia piemontese.

Perché gli  austriaci  hanno vinto? Perché il tradimento di Ramorino ha separato due divisioni dell’esercito piemontese dalle altre tre e perché queste tre divisioni isolate sono state battute dalla superiorità numerica degli austriaci Le tre divisioni sono ora ricacciate ai piedi delle Alpi Pennine.

I piemontesi commisero fin dall’inizio un gravissimo errore contrapponendo agli austriaci soltanto un esercito regolare e volendo condurre una delle solite, honnêtes guerre borghesi. Un popolo che vuole conquistare la sua indipendenza non deve limitarsi ai soliti mezzi di guerra. Sollevazione in massa, guerra rivoluzionaria, guerriglia dappertutto, ecco l’unico mezzo con cui un piccolo popolo può vincere uno grande, e un esercito meno forte resistere contro un esercito più forte e meglio organizzato.

Gli spagnuoli ne hanno fatto l’esperienza fra il 1807 e il 1812 33, e gli ungheresi la stanno facendo oggi.

Chrzanowski era stato battuto presso Novara e tagliato fuori da Torino, Radetzky era a 9 miglia    da Torino. Per una monarchia come il Piemonte, anche se monarchia costituzionale, le sorti della campagna erano così decise. La pace fu chiesta a Radetzky. Ma in una repubblica ciò non avrebbe deciso niente. Se la vigliaccheria inevitabile delle monarchie, che non hanno mai il coraggio di ricorrere ai mezzi rivoluzionari estremi, se questa vigliaccheria non l’avesse trattenuto, la sconfitta di Chrzanowski sarebbe potuta diventare una fortuna per l’Italia.

Se il Piemonte fosse una repubblica, scevra di riguardi per le tradizioni monarchiche, avrebbe dinnanzi a sé una via aperta per concludere la campagna in ben altro modo.

Chrzanowski è stato respinto verso Biella e Borgomanero; là dove le Alpi Svizzere rendono impossibile ogni ulteriore ritirata, dove due o tre anguste vallate rendono quasi impossibile ogni dispersione dell’esercito, sarebbe stato molto facile concentrare tutto l’esercito e con una marcia audace rendere infruttuosa la vittoria di Radetzky.

Se i capi dell’esercito piemontese avessero del coraggio rivoluzionario, se sapessero che c’è a Torino un governo rivoluzionario deciso a tutto, essi saprebbero bene il da farsi.

Presso il Lago Maggiore, dopo la battaglia di Novara, c’erano da 30 e 40.000 soldati piemontesi. Questo corpo, concentrato in due giorni, poteva essere gettato sulla Lombardia dove non si trovavano nemmeno 12.000 austriaci, avrebbe potuto occupare Milano, Brescia, Cremona, organizzare l’insurrezione generale, battere alla spicciolata i singoli corpi austriaci che arrivavano dal Veneto e mandare così all’aria tutta la base d’operazione di Radetzky.

Radetzky invece di marciare su Torino avrebbe dovuto fare dietro-front e sarebbe stato costretto a ritornare in Lombardia, incalzato dalla mobilitazione in massa dei piemontesi che avrebbe naturalmente dovuto appoggiare l’insurrezione lombarda.

Questa vera guerra nazionale, una guerra come quella condotta dai lombardi nel marzo 1848, quando cacciarono Radetzky oltre l’Oglio ed il Mincio, questa guerra  avrebbe attirato tutta l’Italia e infuso ben altre energie ai romani e ai toscani.

Mentre Radetzky era ancora tra il Po e il Ticino, incerto se avanzare o retrocedere, i piemontesi e i lombardi avrebbero potuto marciare su Venezia, liberarla, unire a sé La Marmora e le truppe romane, molestare e indebolire il maresciallo austriaco con numerose azioni di guerriglia, dividere le sue truppe e finalmente batterlo. La Lombardia contava sull’arrivo dei piemontesi; ed è già insorta senza aspettarli. Solo le roccaforti austriache tenevano a bada le città lombarde. Diecimila soldati piemontesi erano già in Lombardia, se ne fossero entrati ancora 20 o 30.000 la ritirata di Radetzky sarebbe stata resa impossibile.

Ma la sollevazione in massa, l’insurrezione generale del popolo sono mezzi di fronte ai quali la monarchia indietreggia. Sono mezzi che solo la repubblica adopera, il 1793 ne ha dato la prova. Sono mezzi il cui impiego implica il terrore rivoluzionario, e quando mai si è visto un monarca disposto a questo?

Ciò che ha dunque rovinato gli italiani non è la sconfitta di Novara o quella di Vigevano: è la codardia e la moderazione a cui la monarchia li costringe. La battaglia perduta di Novara aveva unicamente uno svantaggio strategico: gli italiani erano tagliati fuori da Torino mentre gli austriaci avevano la via aperta. Questo svantaggio poteva non avere nessuna importanza se la battaglia perduta fosse stata immediatamente seguita da una vera guerra rivoluzionaria, se quel che rimaneva dell’esercito italiano si fosse subito proclamato fulcro dell’insurrezione nazionale di massa, se la stessa guerra dell’esercito regolare, strategica e honnête, si fosse trasformata in una guerra di popolo, come quella che i francesi fecero nel 1793.

Ma che cosa diciamo mai! Guerra rivoluzionaria, insurrezione di massa e terrore sono cose che la monarchia non accetterà mai. Concluderà la pace col suo peggiore nemico dello stesso rango piuttosto che allearsi col popolo.

Carlo Alberto  potrà  essere o non essere un traditore: la corona di Carlo Alberto, la monarchia sarebbe bastata per spingere l’Italia verso la rovina.

Ma Carlo Alberto è un traditore. Tutti i giornali francesi portano la notizia di un grande complotto controrivoluzionario europeo fra tutte la grandi potenze, d’un piano di campagne della controrivoluzione per ottenere la sottomissione definitiva di tutti i popoli europei. La Russia, l’Inghilterra, la Prussia, l’Austria, la Francia e la Sardegna hanno firmato il patto di questa nuova Santa Alleanza.

Carlo Alberto aveva l’ordine di cominciare la guerra contro l’Austria, di farsi battere e di dare in questo modo la possibilità agli austriaci di ristabilire la «calma» in Piemonte, a Firenze, a Roma e di accordare dovunque delle Costituzioni ispirate dalla legge marziale. Carlo Alberto avrebbe ottenuto per questo Parma e Piacenza, i russi avrebbero pacificato l’Ungheria, la Francia sarebbe diventata uno Stato imperiale e così la calma sarebbe ritornata in Europa. Questo, secondo i giornali francesi, il grande piano della controrivoluzione. E questo piano spiega il tradimento di Ramorino e la sconfitta degli italiani.

Con la vittoria di Radetzky la monarchia ha però ricevuto un nuovo colpo. La battaglia di Novara e la successiva paralisi dei piemontesi dimostrano che un popolo, in casi estremi, quando ha bisogno di tendere tutte le proprie forze per la sua salvezza, non può trovare più serio ostacolo della monarchia. Se l’Italia non vuole perire a causa della monarchia, bisogna che la monarchia in Italia perisca al più presto.

III

Ora finalmente le vicende della campagna piemontese fino alla vittoria austriaca di Novara diventano per noi chiare e palesi.

Mentre Radetzky faceva intenzionalmente circolare la voce che si sarebbe tenuto sulla difensiva e che sarebbe indietreggiato verso l’Adda, concentrava invece silenziosamente le sue truppe a Sant’Angelo e a Pavia. Grazie al tradimento del partito reazionario- austriacante di Torino egli era perfettamente informato di tutti i piani, di tutte le disposizioni di Chrzanowski, di tutte le posizioni occupate dal suo esercito ed era invece riuscito a ingannare  completamente  i  piemontesi  sui  propri  piani.  Di  qui  lo  schieramento  dei
piemontesi sulle due rive del Po, disposto per l’avanzata simultanea da tutte le parti, con movimento concentrico, su Milano e su Lodi.

Tuttavia se l’esercito piemontese avesse opposto una seria resistenza al centro, mai sarebbero stati possibili i rapidi successi che Radetzky è riuscito ad ottenere. Se il corpo di Ramorino gli avesse sbarrato la strada presso Pavia, vi sarebbe stato il tempo sufficiente per impedirgli di passare il Ticino fino all’arrivo dei rinforzi. Frattanto sarebbero potute sopraggiungere anche le divisioni che stavano sulla riva destra del Po, presso Arona; l’esercito piemontese, disposto parallelamente al Ticino, copriva Torino ed era più che sufficiente per mettere in fuga l’esercito di Radetzky. Naturalmente bisognava contare sul fatto che Ramorino facesse il suo dovere.

Non lo fece. Permise a Radetzky di attraversare il Ticino, si che il centro piemontese fu spezzato e le divisioni che si trovavano sulla riva opposta del Po rimasero isolate. In fondo da questo momento le sorti della campagna erano segnate.

Radetzky dispose tutte le sue forze, da 60 a 70.000 uomini, con 120 cannoni, tra il Ticino e l’Agogna e attaccò le cinque divisioni piemontesi di fianco. Grazie alla sua schiacciante superiorità numerica attaccò le quattro divisioni più vicine presso Mortara, Garlasco e Vigevano il giorno 21; occupò Mortara, costringendo così i piemontesi a ritirarsi su Novara. In tal modo minacciava l’unica strada rimasta aperta verso Torino, quella che da Novara passa per Vercelli e Chivasso.

Ma questa strada era già perduta per i piemontesi. Per riunire le loro truppe e soprattutto per permettere il congiungimento della divisione Solaroli, che si trovava sull’estrema ala sinistra, presso Arona, essi dovettero far di Novara il punto centrale delle loro operazioni, mentre, in altre condizioni, avrebbero potuto schierarsi su nuove posizioni dietro la Sesia.

Praticamente già tagliati fuori da Torino non potevano fare altro che accettare la battaglia presso Novara o gettarsi verso la Lombardia, organizzarvi la guerra di popolo e abbandonare Torino al suo destino, alle riserve e alle guardie nazionali. In questo caso Radetzky si sarebbe ben guardato dall’andare oltre.

Ma tale caso presupporrebbe che la sollevazione di massa fosse stata preparata anche in Piemonte. Il che non era. La guardia nazionale borghese fu armata, ma la massa del popolo rimase inerme, per quanto insistente fosse la richiesta delle armi depositate negli arsenali.

La monarchia non osò rivolgersi a questa forza irresistibile, quella stessa forza che aveva salvato la Francia nel 1793.

I piemontesi dovettero dunque accettare la battaglia presso Novara, per quanto fosse sfavorevole la loro posizione e grande la superiorità del nemico.

Quarantamila piemontesi (dieci brigate) con un’artiglieria relativamente debole erano opposti a tutte le forze austriache, almeno 60.000 uomini con 120 cannoni.

L’esercito piemontese era schierato sui due lati della strada di Mortara, sotto le mura di Novara. L’ala sinistra, due brigate comandante da Durando, si appoggiava su una posizione abbastanza forte, la Bicocca.
Al centro, tre brigate comandate da Bes si appoggiavano su una fattoria, la Cittadella.  L’ala  destra,  due  brigate  sotto  il  comando  di  Perrone,  si  appoggiava  all’altipiano  di Cortenuova (strada di Vercelli).

Dei due corpi di riserva, uno di due brigate sotto il comando del duca di Genova era disposto sulla sinistra, il secondo, composto di una brigata più la Guardia, sotto il comando del duca di Savoia, l’attuale re [Il futuro Vittorio Emanuele II], si trovava sull’ala destra. Lo schieramento degli austriaci risulta, dal loro bollettino, meno chiaro.

Il secondo corpo austriaco, al comando di d’Aspre, attaccò per primo l’ala sinistra dei piemontesi, mentre dietro di esso marciavano il terzo corpo comandato da Appel oltre al corpo di riserva e al quarto corpo. Gli austriaci riuscirono a spiegare completamente le loro truppe in ordine di battaglia e a condurre un attacco concentrico su tutti i punti dello schieramento piemontese, con una tale preponderanza di forze che i piemontesi ne furono schiacciati.

La chiave del fronte piemontese era la Bicocca; se gli austriaci se ne fossero impossessati, il centro e l’ala sinistra dei piemontesi sarebbero stati annientati o costretti a rendere le armi.

L’attacco principale era quindi diretto contro l’ala sinistra piemontese, il cui punto d’appoggio più importante era la Bicocca. Vi si combatté con molto accanimento, ma per lungo tempo senza risultato.

Anche il centro fu attaccato con molta veemenza. La Cittadella fu perduta e ripresa parecchie volte da Bes.

Quando gli austriaci si accorsero che qui urtavano contro una resistenza troppo forte rivolsero nuovamente il grosso delle loro forze contro l’ala sinistra piemontese. Le due divisioni piemontesi furono rigettate sulla Bicocca e infine la Bicocca stessa fu conquistata. Il duca di Savoia si gettò con le riserve sugli austriaci, ma invano. La superiorità numerica degli imperiali era troppo grande, la posizione fu perduta e con questo la battaglia fu decisa. Ai piemontesi non rimase che una unica ritirata, verso le Alpi, per Biella e Borgomanero.

E questa battaglia, preparata dal tradimento e vinta per la forza del numero, è chiamata dalla Kölnische Zeitung, che per tanto tempo ha smaniato invocando una vittoria

una battaglia che brillerà in tutti i tempi (!) nella storia delle guerre, poiché la vittoria del vecchio Radetzky è il risultato di manovre combinate con tanta abilità e di un così splendido coraggio, quale non si era più visto dai giorni di Napoleone, il grande demone delle battaglie (!!!)

Che Radetzky — o piuttosto Hess, suo capo di stato maggiore — abbia portato a termine con abilità il suo complotto con Ramorino, siamo d’accordo. Ma anche vero che dopo il tradimento di Grouchy a Waterloo, non si era più commessa un’infamia paragonabile a quella di Ramorino. Radetzky non appartiene alla classe del «demone delle battaglie», Napoleone, ma piuttosto a quella di Wellington. E a entrambi le vittorie sono costate più denari in contanti che coraggio e abilità.

Non ci soffermeremo sulle altre menzogne diffuse ieri sera dalla Kölnische Zeitung, secondo cui i deputati democratici di Torino sarebbero fuggiti, i lombardi avrebbero agito come «gentaglia codarda», ecc. ecc. Gli ultimi avvenimenti le hanno già confutate. Queste menzogne dimostrano soltanto la gioia della Kölnische Zeitung per il fatto che la grande Austria, per di più col tradimento, ha schiacciato il piccolo Piemonte.

Note

32 Si tratta della marcia dei rivoluzionari emigrati italiani del 1834, intrapresa su iniziativa di Mazzini. Dalla Svizzera i rivoltosi irruppero nella Savoia, ma furono sbaragliati dalle truppe austriache.

33 Si tratta della guerra di liberazione nazionale del popolo spagnolo contro la conquista napoleonica negli anni 1807-1812, sostenuta principalmente da reparti di guerriglieri.

Scritto dal 30 marzo al 3 aprile 1849.

Pubblicato sulla Neue Rheinische Zeitung nn. 260, 261 e 263, 31 marzo, 1 e 4 aprile 1849


K. Marx, F. Engels

Da: Terza rassegna internazionale

……. La massa del popolo naturalmente si interessa poco del cardinale Wiseman. Ai giornali invece egli offre, data l’odierna scarsità di notizie, un argomento benvenuto per lunghi articoli e violente diatribe contro Pio IX. Il Times chiede addirittura ché il governo provochi, per punire le sue soverchierie, un’insurrezione nello Stato pontificio, e spinga contro di esso il signor Mazzini e l’emigrazione italiana. Il Globe, organo di Palmerston, trae un parallelo estremamente spiritoso fra la bolla del papa e l’ultimo manifesto di Mazzini. Il papa, esso dice, reclama una supremazia spirituale sull’Inghilterra e nomina vescovi in partibus infidelium34  Qui a Londra risiede un governo italiano in partibus infidelium, alla testa del quale sta l’antipapa35 signor Mazzini. La supremazia che il signor Mazzini non solo reclama, ma esercita veramente nei possedimenti pontifici, anch’essa di natura puramente spirituale. Le bolle del papa hanno un contenuto puramente religioso; lo sono anche i manifesti di Mazzini.

Essi predicano una religione, essi si appellano ai credenti, essi hanno per motto: Dio ed il popolo. Noi ci chiediamo se esista forse fra le pretese di entrambi qualsiasi altra differenza all’infuori di questa: il signor Mazzini rappresenta almeno la religione della maggioranza del popolo al quale egli parla — poiché in Italia non c’è quasi nessuna altra religione all’infuori di quella del Dio ed il popolo — mentre il papa no.

Mazzini ha approfittato, del resto, di questa occasione per compiere un passo in avanti. Insieme con gli altri membri del Comitato nazionale italiano egli ha lanciato da Londra il prestito di 10 milioni di franchi, approvato a suo tempo dalla Costituente di Roma36 in azioni da 100 franchi e ciò proprio per acquistare armi e munizioni. Non si può negare che questo prestito ha più probabilità di successo del fallito prestito volontario del governo austriaco in Lombardia37.

Un colpo veramente serio che l’Inghilterra ha assestato in questi ultimi tempi a Roma e all’Austria, è il suo trattato commerciale con la Sardegna. Questo trattato mina il progetto austriaco di un’unione doganale italiana e assicura all’insurrezione italiana commercio inglese e alla politica borghese inglese un notevole terreno nell’Alta Italia.

Note

34 In partibus infidelium Denominazione del vescovo che non risiede nella sede apostolica in quanto in loco è vietato il culto cattolico, L’espressione fu spesso usata da Marx e da Engels nei riguardi dei diversi governi all’estero che si costituivano senza tener conto della situazione politica reale esistente nei vari paesi.

35 Nei periodi dello scisma (XIV-XV sec.) non fu rara l’elezione di due papi contemporaneamente che si definivano a vicenda usurpatore e antipapa.

36 L’Assemblea costituente composta in maggioranza di democratici borghesi mazziniani fu eletta il 21 gennaio 1849. Il 9 febbraio 1849 essa decretò la decadenza del papato e la proclamazione della repubblica. Il potere esecutivo della repubblica era accentrato nelle mani del triumvirato con a capo Mazzini. Caduta la repubblica nel luglio 1849, gran parte dei deputati emigrò in Inghilterra, dove con Mazzini e i suoi seguaci formò il comitato provvisorio nazionale, Per mandato degli elettori, il comitato fu incaricato di accendere prestiti nell’interesse della causa nazionale e di occuparsi di tutti i problemi riguardanti i cittadini italiani.

37 Nella primavera del 1850 il governo austriaco emise nel Lombardo-Veneto il cosiddetto prestito volontario per 120 milioni di lire. Non avendo suscitato il minimo entusiasmo, il governo ricorse a mezzi coercitivi.

Pubblicato sulla Neue Rheinische Zeitung , Politisch ökonomische Revue , nn 5 – 6, 1850


K. Marx

Da: L’insurrezione italiana

…… Dal telegrafo elettrico siamo stati informati che il 6 ha avuto luogo una insurrezione a Milano38 che sono stati affissi dei manifesti, uno di Mazzini e l’altro di Kossuth, i quali esortano gli ungheresi dell’esercito austriaco a unirsi ai rivoluzionari; che l’insurrezione è stata dapprima soffocata, ma poi è ricominciata; che gli austriaci di stanza nell’arsenale sono stati massacrati, ecc.; che le porte di Milano sono state chiuse. I giornali governativi francesi, è vero, comunicano due altri dispacci, datati l’uno da Berna l’8, l’altro da Torino il 9, secondo i quali la sommossa e stata definitivamente repressa il 7. Ma il mancato arrivo di ogni informazione diretta al ministero degli esteri inglese negli ultimi due giorni, viene considerato come un sintomo favorevole dagli amici dell’Italia.

Corrono voci a Parigi che a Pisa, a Lucca e in altre città regni una grande agitazione.

A Torino, il ministero è stato convocato in tutta fretta, in seguito a una comunicazione del console austriaco, per deliberare sulla piega che hanno preso le cose in Lombardia.

Le prime notizie pervennero a Londra il 9 febbraio, il qual giorno, per singolare coincidenza, è anche l’anniversario della proclamazione della Repubblica romana del 184939 della decapitazione di Carlo I nel 1649 e della deposizione di Giacomo Il nel 1689.

In quanto alle possibilità dell’attuale insurrezione a Milano, v’è poca speranza di successo a meno che alcuni reggimenti austriaci non passino nel campo rivoluzionario. Lettere di privati da Torino, che dovrei ricevere tra qualche giorno, mi permetteranno probabilmente di fornirvi un resoconto particolareggiato di tutta la faccenda……

Note

38 Si tratta della insurrezione di Milano scatenata il 6 febbraio 1853 da Mazzini con l’appoggio degli emigrati rivoluzionari ungheresi. La rivolta che si proponeva l’abbattimento del dominio austriaco fallì nonostante la partecipazione operaia, perché, ordita come una congiura, non teneva conto della realtà della situazione.

39 Si veda la nota 36.

Scritto l’11 febbraio 1853.

Pubblicato sulla New York Daily Tribune n. 3701, 25 febbraio 1853



K. Marx

Da: I moti a Milano

Non appena a Milano fu schiacciato lo scoppio rivoluzionario Radetzky diede ordine di intercettare tutte le comunicazioni con il Piemonte e la Svizzera. Voi avrete già ricevuto le scarse notizie che fu permesso di far passare dall’Italia in Inghilterra. Richiamo la vostra attenzione su un tratto caratteristico degli avvenimenti di Milano.

Il tenente maresciallo conte di Strassoldo, nel suo primo decreto del 6 corrente, pur imponendo a Milano il più rigoroso stato d’assedio, ammette chiaramente che il grosso della popolazione non ha affatto preso parte alla recente insurrezione. Radetzky, nel successivo proclama del 9 corrente, datato da Verona, capovolge la dichiarazione del suo subordinato, e approfitta della ribellione per ottenere denaro con un falso pretesto. Egli infligge a tutte le persone che notoriamente non appartengono al partito austriaco multe di entità illimitata, a beneficio della guarnigione. Nel suo proclama dell’11 corrente, egli dichiara che « la grande maggioranza degli abitanti, con poche lodevoli eccezioni, non è disposta a sottomettersi al dominio imperiale», e impartisce alle autorità giudiziarie, cioè alle corti marziali, la disposizione di sequestrare la proprietà di tutti i complici, il quale ultimo termine viene spiegato nel nodo seguente:

Che tale complicità consista semplicemente nella omissione della denuncia a cui ognuno è tenuto

Egli avrebbe potuto anche confiscare immediatamente tutta Milano adducendo il pretesto che, essendo l’insurrezione scoppiata il giorno 6, gli abitanti della città non avevano denunciato il fatto il giorno precedente. Chi non diventa spia e informatore per conto degli Asburgo corre il rischio di divenire la preda legale del croato40. In una parola, Radetzky proclama un nuovo sistema di saccheggio indiscriminato.

L’insurrezione di Milano è significativa in quanto è un sintomo della crisi rivoluzionaria che incombe su tutto il continente europeo. Ed è ammirevole in quanto atto eroico di un pugno di proletari che, armati di soli coltelli, hanno avuto il coraggio di attaccare una cittadella e un esercito di 40 mila soldati tra i migliori d’Europa mentre i figli italiani di Mammona41 danzavano, cantavano e gozzovigliavano in mezzo alle lacrime e al sangue della loro nazione umiliata e torturata. Ma come gran finale dell’eterna cospirazione di Mazzini, dei suoi roboanti proclami e delle sue tirate contro il popolo francese, è un risultato molto meschino. È da supporre che d’ora in avanti si ponga fine alle rėvolutions improvisėes come le chiamano i francesi. Si è mai sentito che grandi improvvisatori siano anche grandi poeti? In politica avviene come in poesia. Le rivoluzioni non sono mai fatte su ordinazione. Dopo la terribile esperienza del ‘48 e del ‘49, occorre qualcosa di più degli appelli sulla carta fatti da capi lontani per suscitare rivoluzioni nazionali.

Note

40 Croati, formazioni di fanteria leggera dell’esercito austriaco. arruolate prevalentemente fra i croati, altre nazionalità slave e fra gli ungheresi.

41 Mammona, spirito malefico che, nella religione cristiana, significa demone in generale, falso nome della ricchezza che incarna avidità, cupidigia, bramosia di denaro, ricchezza mondana divinizzata e adorata.

Scritto il 22 febbraio 1858.

Pubblicato sulla New York Daily Tribune n. 8710, 8 maggio 1853



K. Marx

Da: Kossuth e Mazzini42

……..Gli amici di Mazzini affermano ora, all’unanimità, che l’insurrezione di Milano è stata imposta a lui e consoci da circostanze che non era in grado di controllare. Ma, da un lato, è insito nella natura delle congiure di essere trascinate a scoppiare prematuramente o per tradimento o per caso. D’altra parte, se per tre anni voi gridate azione, azione, azione, se il vostro vocabolario rivoluzionario si riduce a una sola parola, «insurrezione», non potete attendervi di mantenere sufficiente autorità da ordinare in qualsiasi momento: non ci dovrà essere un’insurrezione. Comunque sia, la brutalità degli austriaci ha trasformato l’insuccesso milanese proprio nell’inizio di una rivoluzione nazionale. Leggete, per esempio, quel che dice oggi il ben informato organo di lord Palmerston, il Morning Post::

Il popolo di Napoli sta attendendo un moto che deve sicuramente avvenire nell’impero austriaco. Allora, tutta l’Italia, dalle frontiere del Piemonte alla Sicilia, insorgerà e tristi calamità seguiranno. Le truppe italiane si sbanderanno, i cosìddetti soldati svizzeri reclutati dopo la rivoluzione del 1848 non salveranno i sovrani d’Italia. Una impossibile repubblica attende l’Italia. Questo sarà sicuramente l’ultimo atto del dramma che ebbe inizio nel 1848. La diplomazia ha esaurito tutte le sue risorse per i principi d’Italia.

Aurelio Saffi, che controfirmò il proclama di Mazzini e che ha fatto un giro per l’Italia prima dell’insurrezione, ammette in una lettera al Daily News che «le classi superiori sono immerse o nell’indifferenza o nella disperazione», e che soltanto il «popolo di Milano», i proletari

abbandonati senza guida ai loro istinti, hanno conservato la fiducia nei destini della patria e, di fronte al dispotismo dei proconsoli austriaci e agli assassini legali dei tribunali militari, si sono preparati all’unanimità a far vendetta.

Ora, è un grande progresso per il partito mazziniano l’essersi finalmente convinto che, persino nel caso di insurrezioni nazionali contro il dispotismo straniero, esistono quelle che si è soliti chiamare differenze di classe, e che nei moti rivoluzionari, ai giorni nostri, non è alle classi superiori che si deve guardare. Forse i mazziniani faranno un altro passo avanti e arriveranno a capire che devono occuparsi seriamente delle condizioni materiali della popolazione italiana delle campagne se vogliono che il loro «Dio e popolo» abbia un’eco. Intendo soffermarmi in un’altra occasione sulle condizioni materiali in cui si trova  la maggior parte della popolazione rurale, condizioni che l’hanno resa se non reazionaria almeno indifferente alla lotta nazionale d’Italia.

Note

42 Il titolo è dell’Istituto di marxismo-leninismo presso il CC del PCUS.

Scritto il 18 marzo 1853.

Pubblicato sulla New York Daily Tribune n. 3733, 4 aprile 1853



K. Marx

Da: L’indirizzo di Mazzini

La stampa quotidiana di Londra manifesta con grande ostentazione tutto il suo orrore e il suo sdegno morale per l’indirizzo diramato da Mazzini e trovato in possesso di Felice
Orsini, capo della Banda nazionale n. 2, destinata a insorgere nella Lunigiana, regione che abbraccia parte dei territori di Modena e Parma e del regno di Piemonte. In questo indirizzo si esorta il popolo ad «agire di sorpresa, come il popolo di Milano ha tentato e tenterà ancora di fare». L’indirizzo dice quindi: «Il pugnale, se colpisce all’improvviso, colpisce nel segno, rende un buon servizio e tiene il posto dei moschetti». Questo la stampa londinese lo presenta come un invito aperto all” «assassinio a tradimento». Ora vorrei sapere in qual modo, in un paese come l’Italia dove non esistono i mezzi per una resistenza aperta  e  le  spie della polizia sono ovunque, un movimento insurrezionale potrebbe aver una grande probabilità di successo se non si facesse ricorso alla sorpresa! Vorrei sapere con qual tipo di armi dovrebbe combattere il popolo italiano — se davvero deve combattere contro le truppe austriache — se non con quelle che gli sono state lasciate: con i pugnali che l’Austria non è riuscita a portar via. Mazzini non dice affatto di servirsi del pugnale per assassinare vilmente il nemico disarmato; egli esorta invece a servirsene «di sorpresa», ma nella piena luce del giorno, come a Milano, dove un pugno di patrioti, armati soltanto di coltelli, si precipitarono sui corpi di guardia delle ben armate guarnigioni austriache. Ma [dice il Times]

il costituzionale Piemonte dovrà subire la stessa sorte di Roma, di Napoli e della Lombardia!

E perché no? Non fu forse il re di Sardegna [Carlo Alberto] a tradire la rivoluzione italiana nel 1847 e nel 1848, ed è forse possibile trasformare l’Italia in repubblica con un re di Piemonte, più di quanto non sia possibile trasformare in repubblica la Germania con un re di Prussia? E questo basti in quanto alla moralità dell’indirizzo di Mazzini. In quanto al suo valore politico la questione è diversa. Da parte mia penso che Mazzini sbagli tanto nell’opinione che ha del popolo piemontese quanto nei suoi sogni di una rivoluzione italiana, la quale, secondo lui, dovrebbe attuarsi non già grazie alle possibilità favorevoli che offrono le complicazioni europee, ma grazie all’azione individuale di cospiratori italiani che agiscano di sorpresa.

Scritto il 29 novembre 1853.

Pubblicato sulla New York Daily Tribune n. 3948, 12 dicembre 1853



K. Marx

Da: Agitazione in Italia43

In Italia, governo e popolo sono entrambi in preda a una strana eccitazione. Il generale La Marmora, ministro piemontese della guerra, ha ordinato che si formino campi militari in Savoia, a Saint-Maurice, ad Alessandria e persino in Sardegna. Soldati in congedo illimitato sono stati ri chiamati in gran numero sotto le armi. Simultaneamente si stanno approvvigionando le fortezze di Alessandria e Casale. D’altra parte, il maresciallo Radetzky ha parimenti ordinato la costituzione di un campo tra Verona e Volta, dove oltre
20.000 soldati vengono addestrati ogni giorno in operazioni di guerra su scala ridotta (guerre). Agitazioni causate dal carovita si sono avute a Codogno, a Casalpusterlengo e in alcune città lombarde. Circa duecento persone sono state arrestate e condotte a Mantova. Secondo lettere da Napoli, numerosi arresti sono stati effettuati laggiù come pure in Sicilia, dove il figlio del conte Carafa è stato imprigionato. Re Bomba [Ferdinando II] sta prendendo misure straordinarie per gli armamenti di mare e di terra. Ha dato ordine che la fortezza di Gaeta sia tenuta pronta per fare fronte a qualunque evento. Ha dichiarato che tutta l’Europa è appestata e a tutti i battelli che arrivano viene imposta una rigida quarantena. Tutte le navi provenienti dal Portogallo, da Glasgow e dagli Stati sardi sono sottoposte a una quarantena di dieci giorni; quelle provenienti dalla Toscana e dagli Stati romani, di sette giorni. Poiché quasi tutti i paesi devono ormai sottostare a simili restrizioni, l’arrivo di una nave costituisce un avvenimento eccezionale. La corrispondenza dall’estero per via di terra è soggetta a tutte quelle misure precauzionali che si osservano trattandosi di cose provenienti da paesi colpiti dalla peste. Le comunicazioni con gli Stati del papa continuano attraverso Montecassino e Sora e gli Abruzzi, ma si sta stabilendo un cordone sanitario lungo tutta la frontiera.

Note

43 Il titolo è dell’Istituto di marxismo-Ieninismo presso il CC del PCUS.

Scritto il 14 luglio 1854.

Pubblicato sulla New York Daily Tribune n. 4142, 28 luglio 1854



F. Engels

Da: Gli eserciti d’Europa

II. L’esercito sardo

Questo esercito è composto di dieci brigate di fanteria, dieci battaglioni di bersaglieri, quattro brigate di cavalleria, tre reggimenti di artiglieria, un reggimento di genieri, un corpo di carabinieri (polizia) ed un corpo di cavalleria leggera della Sardegna.

Le dieci brigate di fanteria sono formate di una brigata di guardia, quattro battaglioni di granatieri, due battaglioni di cacciatori e nove brigate di linea, pari a diciotto reggimenti di tre battaglioni ciascuno. A questi si aggiungono dieci battaglioni di bersaglieri, uno per ogni brigata, sì che nell’esercito sardo i reparti di fanteria leggera ottimamente addestrati sono ora molto più numerosi che in ogni altro esercito.

C’è inoltre un battaglione di rifornimento per ogni reggimento. Dal 1849, la forza dei battaglioni si è ridotta moltissimo per motivi finanziari. Sul piede di guerra, un battaglione dovrebbe annoverare circa 1.000 unità, ma in tempo di pace non vi sono più di 400 uomini. Il resto è stato mandato in congedo illimitato.

La cavalleria conta quattro reggimenti di cavalleria pesante e cinque di cavalleria leggera. Ogni reggimento ha quattro squadroni da campo e uno di riserva. Sul piede di guerra, un reggimento dovrebbe contare circa 800 uomini nei quattro squadroni da campo, ma in pace si giunge a malapena al numero di 600.

I tre reggimenti di artiglieria consistono di un reggimento di operai ed artificieri, un reggimento di artiglieria da fortezza (dodici compagnie) e uno di artiglieria da campo (sei a piedi, due a cavallo, due batterie pesanti di otto cannoni ciascuna). Le batterie leggere hanno cannoni da otto libbre, e obici da ventiquattro libbre; le batterie pesanti, cannoni da sedici libbre; in tutto ottanta cannoni.

Il reggimento di genieri ha dieci compagnie, cioè 1.100 uomini circa. I carabinieri (a cavallo e a piedi) sono molto numerosi per un regno così piccolo, e contano circa 3.200 uomini. La cavalleria leggera, che fa servizio di polizia nell’isola di Sardegna, ha in forza circa 1.100 uomini.

L’esercito sardo,  nella prima campagna contro Ì’Austria44 nel  1848,  raggiungeva certamente il numero di 70.000 uomini. Nel 1849, era molto vicino ai 130.000. In seguito si ridusse a circa 45.000 uomini. Quanti ne conti ora è impossibile dire, ma non c’è dubbio che, dalla stipulazione del trattato con l’Inghilterra e con la Francia45 si è di nuovo accresciuto.

Questa grande elasticità dell’esercito piemontese, che gli permette di accrescere e di diminuire in ogni momento la forza sotto le armi, deriva da un sistema di reclutamento molto affine a quello della Prussia; e in realtà la Sardegna potrebbe dirsi, sotto molti aspetti, la Prussia d’Italia. C’è negli Stati sardi un obbligo simile per ogni cittadino di servire nell’esercito, benché, a differenza della Prussia, siano ammesse le sostituzioni; ed il tempo  che  dura  quest’obbligo consiste, come in Prussia, di un periodo di servizio effettivo e di un altro periodo durante il quale il soldato dimesso dai ranghi rimane nella riserva ed è passibile di richiamo in tempo di guerra. Il sistema è una via di mezzo tra il metodo prussiano e quello del Belgio e degli Stati tedeschi minori. Così, richiamando le riserve, la fanteria può essere portata da un numero di circa 30.000 uomini a 80.000. La cavalleria e l’artiglieria da campo non sarebbero passibili che di un piccolo aumento, poiché in queste armi i soldati devono generalmente rimanere presso il reggimento durante tutto il periodo di servizio.

L’esercito piemontese è bello e marziale come qualsiasi altro in Europa. Come i francesi, i piemontesi sono di piccola statura, specialmente la fanteria: le guardie del re non raggiungono in media nemmeno i cinque piedi e quattro pollici; ma con la divisa di buon gusto, col portamento militare, con la corporatura robusta ma agile, e coi bei lineamenti italiani, hanno aspetto migliore di molti corpi di uomini di più grossa taglia. Vestiario ed equipaggiamento, per la fanteria di linea e per le guardie, seguono il principio francese, con pochi dettagli mutuati dagli austriaci. I bersaglieri hanno una divisa caratteristica: un berretto da marinaio con un pennacchio pendente di penne di gallo e una tunica marrone. La cavalleria porta corte giacche marroni che arrivano appena all’osso sacro. Il fucile a percussione è l’arma di tutta la fanteria; i bersaglieri hanno corte carabine tirolesi, armi buone ed utili, ma inferiori al Minié sotto ogni aspetto. La prima linea della cavalleria è di solito armata di lancia; non sappiamo se anche la cavalleria leggera conserva questo armamento. Il calibro di otto libbre per le batterie a cavallo ed a piedi armate alla leggera dà loro sugli altri eserciti del continente il medesimo vantaggio che avevano i francesi finché mantennero quel calibro; ma le batterie pesanti da sedici libbre fanno dell’artiglieria da  campo  sarda  la  più  pesante  del  continente.  Che  questi  cannoni,  una  volta  in postazione, possano fare un ottimo lavoro si è visto alla Cernaia46 dove il loro preciso tiro contribuì in gran parte al successo degli Alleati e fu universalmente ammirato.

Di tutti gli Stati italiani il Piemonte ha la migliore posizione per creare un buon esercito. La pianura del Po e dei suoi affluenti produce cavalli eccellenti, ed un tipo umano bello e alto, il più alto fra gli italiani, straordinariamente adatto al servizio di cavalleria e di artiglieria pesante. I monti che circondano questa pianura da tre parti, a nord, a ovest, e a sud, sono abitati da vigorose popolazioni di uomini meno alti, ma forti ed attivi, industriosi e di mente acuta come tutti i montanari. Sono loro a formare il grosso della fanteria, e specialmente dei bersaglieri, un corpo militare quasi uguale agli chasseurs de Vincennes47 per addestramento, ma sicuramente superiore a loro per forza fisica e sopportazione della fatica.

Le istituzioni militari del Piemonte sono, tutto considerato, molto buone, e,  di conseguenza, gli ufficiali sono altamente qualificati. Ancora nel 1846, però, l’influenza dell’aristocrazia e del clero aveva parte preponderante nella loro formazione. Fino a quell’epoca, Carlo Alberto non conosceva che due mezzi di governo, il clero e l’esercito; infatti si diceva dappertutto nelle altre parti d’Italia che in Piemonte di tre uomini che s’incontravano per strada uno era un soldato, uno un prete, e solo uno su tre un civile. Ora naturalmente le cose non stanno più così; l’influenza dei preti è meno che nulla, e, benché la nobiltà abbia in mano molti brevetti da ufficiale, la guerra del 1848-49 ha lasciato sull’esercito una certa impronta di carattere democratico che non sarà facile distruggere. Alcuni corrispondenti dalla Crimea di giornali inglesi hanno affermato che gli ufficiali piemontesi erano quasi tutti «gentiluomini di nascita», ma al contrario noi conosciamo personalmente più di un ufficiale piemontese che viene dalla gavetta, e possiamo con sicurezza asserire che la massa dei capitani e dei tenenti è composta ora di uomini che si sono guadagnati le spalline con atti di valore contro gli austriaci, o che per lo meno non hanno legami con l’aristocrazia.

A nostro parere, il più bel complimento che si possa fare all’esercito piemontese è contenuto nell’opinione espressa da uno dei suoi ex avversari, il generale Schönhals, quartiermastro dell’esercito austriaco nel 1848-49. Nelle sue Memorie delle campagne italiane questo generale, uno dei migliori ufficiali dell’esercito austriaco, ed uomo violentemente avverso in ogni senso a tutto quanto sapesse di indipendenza italiana, tratta l’esercito piemontese, in tutto e per tutto, col più grande rispetto.


La loro artiglieria [egli dice] consiste di uomini scelti, sottufficiali capaci e bene istruiti, i materiale è buono, ed il calibro superiore a! nostro. .. La cavalleria è un’arma tutt’altro che disprezzabile; la prima linea porta la lancia ma poiché soltanto un cavaliere molto bene addestrato può maneggiare bene quest’arma, non oseremmo dire che questa innovazione si risolva proprio in un miglioramento. La loro scuola di equitazione, però, è ottima. .... A Santa Lucia, entrambe le parti combatterono con ardimento straordinario, I piemontesi attaccarono con grande vivacità e impeto — tanto piemontesi che austriaci compirono molti atti di grande valore personale. .. L’esercito piemontese  ha  diritto  a  menzionare  senza  arrossire  il  giorno  di Novara [e così via]48

Allo stesso modo, il generale prussiano Willisen, che partecipò a parte della campagna del 1848, e che è tutt’altro che favorevole all’indipèndenza italiana, parla in alti termini dell’esercito piemontese.

Dal 1848, una certa parte d’Italia guarda al re di Sardegna come al futuro capo dell’intera penisola. Benché lungi dall’aderire a tale opinione, noi tuttavia crediamo che se l’Italia riconquisterà mai la sua libertà, le forze piemontesi saranno il principale strumento militare per attingere tale fine, e formerànno nello stesso tempo il nucleo del futuro esercito italiano. Dovranno sopportare, prima che ciò avvenga, più di una rivoluzione interna, ma gli eccellenti elementi militari che contengono sopravvivranno a tutto questo, e potranno anche trarre profitto dall’essere immessi in un esercito davvero nazionale.

III Gli eserciti italiani minori

L’esercito del papa quasi non esiste se non sulla carta. I battaglioni e gli squadroni non sono mai completi e non formano più di una debole divisione. C’è inoltre un reggimento di guardie svizzere, il solo corpos sul quale il governo possa fare un certo affidamento. Gli eserciti della Toscana, di Parma e di Modena sono troppo insignificanti per parlarne qui; basti dire che sono organizzati in tutto e per tutto sul modello austriaco. C’è, inoltre, l’esercito napoletano, del quale pure meno si parla è meglio è. Non ha mai brillato gran che di fronte al nemico e, sia combattendo per il re, come nel 1799, sia per la Costituzione, come nel 1821, si è distinto per le sue fughe.49 Anche nel 1848-49 l’esercito dei napoletani fu dovunque battuto dagli insorti e se non fosse stato per gli svizzeri, il re Bomba non sarebbe ora sul trono. Durante l’assedio di Roma, Garibaldi mosse con un pugno di uomini contro la divisione napoletana e la batté due volte.50 L’esercito di Napoli, si calcola che in tempo di pace raggiunga le 26 o 27 mila unità, ma nel 1848 annoverava senz’altro quasi 49.000 uomini e sul piede di guerra avrebbe raggiuilto il numero di 64.000. Di tutte queste truppe, solo gli svizzeri sono degni di menzione. Sono divisi in quattro reggimepti di due battaglioni ciascuno, ed al completo dovrebbero contare 600 uomini per battaglione, cioè 4.800 uomini. Ma i quadri ora sono sovraccarichi, cosìcché ogni battaglione ha in forza circa 1.000 uomini (il quarto, detto reggimento Bernese, ne conta da solo 2.150), e il numero complessivo può essere calcolato intorno ai 9.000. Queste sono truppe davvero di primo ordine, comandate da ufficiali loro connazionali, e indipendenti, nell’organizzazione ed amministrazione interne, dal governo di Napoli. Essi furono assoldati per la prima volta nel 1824 o nel 1825, quando il re, non fidandosi più dell’esercito che proprio poco tempo prima si era rivoltato, ritenne necessario circondarsi di una forte guardia del corpo. I trattati o «capitolazioni», come furono chiamati, furono conclusi con diversi cantoni per trenta anni; furono concessi alle truppe il codice penale di guerra svizzero e l’organizzazione militare svizzera; il soldo fu fissato in misura tripla di quello dei soldati napoletani nativi; le truppe furono reclutate tra volontari in ogni cantone, dove furono costituiti uffici di reclutamento. Furono concesse pensioni agli ufficiali in ritiro, ai veterani, ai feriti di guerra. Se, allo spirare dei trent’anni, la capitolazione non fosse stata rinnovata, i reggimenti avrebbero dovuto sciogliersi. La Costituzione svizzera attuale proibisce il reclutamento per servizio all’estero, e le capitolazioni furono perciò abrogate dopo il 1848; il reclutamento cessò, per lo meno apertamente, in Svizzera, ma a Chiasso e in altre località della Lombardia furono costituiti dei depositi, e molti agenti di reclutamento continuarono segretamente il loro lavoro in territorio svizzero. Il governo napoletano era così bramoso di reclutare gli svizzeri che non ricusò di accogliere i rifiuti dei rifugiati politici che si trovavano allora in Svizzera. Il re di Napoli, in tali circostanze, confermò i privilegi accordati ai soldati svizzeri dalle capitolazioni, e nello scorso agosto, allo spirare cioè dei trenta anni, con un decreto speciale prolungò di nuovo questi privilegi fino a quando gli svizzeri rimarranno al suo servizio.

Note

44 Si veda la nota 11.

45 Si tratta della convenzione militare franco-inglese col Piemonte del 26 gennaio 1855, con la quale il Piemonte s’impegnava a fornire nella guerra contro la Russia un corpo di 15.000 soldati, mentre la Francia e l’Inghilterra si facevano garanti dell’integrità dei possedimenti sardi. Con la partecipazione alla guerra di Crimea il Piemonte intendeva ingraziarsi l’appoggio di Napoleone III alla annessione dei possedimenti italiani ancora sotto il dominio austriaco.

46 Durante la guerra di Crimea, il 4 agosto 1855, nella battaglia sul fiume Cernaia presso Sebastopoli, le truppe alleate franco-italo-inglesi sconfissero l’esercito russo.

47 Chasseurs de (tiratori di) Vincennes. formazioni di fanteria leggera francese

48 Qui F. Engels cita il libro di K. Schönhals uscito anonimo: Erinnerungen eines österreichischen veteranen aus dem italienischen Kriege der Jahre 1848 und 1849. Bd. I, S. 116, 167, 223; Bd. Il, S. 239. Stutgart und Tϋbingen, 1852 (Le memorie di un veterano austriaco sulla guerra italiana degli anni 1848 e 1849. VoI. I, pp. 116, 167, 223; vol Il, p. 239. Stoccarda e Tubinga, 1852).

49 Nel 1799 durante la guerra della Francia contro la coalizione europea, alla quale prendeva parte il Regno delle due Sicilie, l’esercito di Ferdinando IV fu sbaragliato e Napoli fu occupata dai francesi.
Nel luglio 1820 i rivoluzionari borghesi — carbonari — con l’appoggio dell’esercito si sollevarono contro l’assolutismo napoletano e imposero una Costituzione moderata e liberale. Però, l’Austria, in conformità alle delibere del congresso di Leibacli della Santa Alleanza, intervenne contro Napoli. Le truppe austriache sbaragliarono l’esercito napoletano e occuparono la città. Il regime assolutista fu restaurato.

50 Si tratta della partecipazione del regno di Napoli all’intervento francese e austriaco (maggio-luglio 1849) contro la Repubblica romana. Per due volte consecutive le formazioni repubblicane guidate da Garibaldi misero in rotta le truppe napoletane.

Scritto nel periodo tra giugno e settembre 1855.

Pubblicato sulla rivista Putnam’s Monthly nn. 32, 33. 36 in agosto, settembre, dicembre. 1855



K. Marx

Sull’unificazione dell’Italia51

Non diversamente dal fanciullo che grida «al lupo!»52, gli italiani hanno così ripetutamente affermato che «l’Italia è in fermento e alla vigilia d’una rivoluzione», e le teste coronate d’Europa hanno così spesso cianciato di una «sistemazione della questione italiana», che non dovrebbe far meraviglia se oggi la comparsa del lupo passasse inosservata, e se una vera rivoluzione e una guerra generale in Europa dovessero scoppiare e coglierci di sorpresa! L’Europa del 1859 ha un aspetto decisamente guerriero e se l’atteggiamento ostile, gli evidenti preparativi della Francia e del Piemonte per una guerra contro l’Austria dovessero andare in fumo, non è improbabile che l’odio ardente degli italiani contro i loro oppressori, unito alle loro sofferenze sempre maggiori, troverebbe sfogo in una rivoluzione generale. Ci limitiamo a dire «non improbabile», perché, se la speranza differita fa male al cuore, il ritardato adempimento di una profezia rende inclini allo scetticismo. Però, se dobbiamo dar credito alle notizie dei giornali inglesi, italiani e francesi, la situazione morale di Napoli è un fac samile della sua struttura fisica, e un torrente di lava rivoluzionaria non produrrebbe maggior sorpresa di una nuova eruzione del vecchio Vesuvio. Persone che ci scrivono dagli Stati pontifici insistono in particolare sui sempre più frequenti abusi del governo clericale e sulla convinzione, profondamente radicata nella popolazione romana, che riforme e miglioramenti sono impossibili, che l’unico rimedio sarebbe il totale rovesciamento di detto governo, che non si è fatto ricorso a questo rimedio già da tempo solo a causa della presenza delle truppe svizzere, francesi ed austriache53 e che, ad onta di questi ostacoli materiali, un tentativo di questo genere può esser fatto ogni giorno ed ogni ora.

Dalla Venezia e dalla Lombardia, le notizie sono più precise, ci ricordano molto da vicino i sintomi che contraddistinsero la fine del 1847 e l’inizio del 184854 in quelle province. L’astinenza dall’uso del tabacco e dei manufatti austriaci è universale, e così pure gli appelli al popolo a non frequentare i luoghi pubblici di divertimento. Le ben studiate dimostrazioni di odio offerte all’arciduca [Ferdinando Massimiliano] e a tutti i funzionari austriaci sono giunte a tal punto che il principe Alfonso Parcia, nobile italiano devoto alla casa Asburgo, non ardì, nella pubblica via, togliersi il cappello al passaggio dell’arciduchessa; la punizione inflitta al principe per tale reato, sotto forma di ordine dell’arciduca di allontanarsi immediatamente da Milano, agisce sulla classe cui appartiene quest’ultimo come incentivo ad associarsi al grido popolare di «fuori i tedeschi!». Se a queste silenziose dimostrazioni di malcontento popolare aggiungiamo le risse quotidiane tra popolani e soldatesca, invariabilmente provocate dai primi, la rivolta degli studenti di Pavia e la conseguente chiusura della università, abbiamo davanti agli occhi una replica del prologo alle cinque giornate di Milano del 1848 55.

Ma, mentre siamo convinti che l’Italia non può rimanere eternamente nella sua attuale condizione, dato che anche la strada più lunga deve pur avere una fine, mentre sappiamo che un’attiva organizzazione si va sviluppando in tutta la penisola, non siamo in grado di dire se queste manifestazioni siano interamente il frutto dello spontaneo ribollire della volontà popolare, o se non siano alimentate dagli agenti di Luigi Napoleone e del suo alleato, il conte di Cavour. A giudicare dalle apparenze, il Piemonte, spalleggiato dalla Francia e forse dalla Russia, medita un attacco contro l’Austria nella primavera. Dall’accoglienza fatta all’ambasciatore austriaco a Parigi sembrerebbe che l’imperatore non nutra intenzioni benevole verso il governo rappresentato dal signor Hϋbner56 dalla concentrazione di forze così imponenti ad Algeri è più che naturale supporre che le ostilità contro l’Austria dovrebbero cominciare con un attacco diretto contro le sue province italiane; i preparativi bellici del Piemonte, le dichiarazioni, che altro non sono se non dichìarazioni di guerra all’Austria, pubblicate quotidianamente dalla stampa piemontese ufficiale e semiufficiale, danno consistenza alla congettura che il re si varrà del primo pretesto per varcare il Ticino. Inoltre, la notizia che Garibaldi, l’eroe di Montevideo e di Roma57 è stato chiamato a Torino, è confermata da fonti private e degne di fede. Cavour ha avuto un colloquio con Garibaldi, lo ha informato delle prospettive di una prossima guerra e gli ha suggerito di raccogliere ed organizzare dei volontari.

L’Austria, una delle principali parti in causa, dimostra chiaramente di prestar fede alle voci. Pur disponendo già di 120.000 uomini, concentrati nelle sue province italiane, essa sta aumentando le sue forze con tutti i mezzi immaginabili; e recentemente ha allestito in fretta un rinforzo di 30.000 uomini. Le opere di difesa di Venezia, Trieste, ecc. sono aumentate e rinforzate, e in tutte le altre province i proprietari terrieri e gli allevatori di bestiame sono obbligati a fornire i loro stalloni perché occorrono cavalli da sella per la cavalleria e gli zappatori. E l’Austria, mentre da un lato non trascura i preparativi necessari per resistere secondo la «prudente maniera austriaca», si premunisce anche contro la eventualità di una disfatta. Dalla Prussia — il Piemonte della Germania — i cui interessi sono diametralmente opposti ai suoi, l’Austria non può sperare altro se non, al massimo, la neutralità. La missione del barone Seebach, suo ambasciatore a Pietroburgo, sembra aver mancato completamente lo scopo di ottenere una qualche prospettiva di aiuto in caso di attacco. I piani dello zar [* Alessandro Il] nella questione del Mediterraneo, dove egli pure ha gettato l’ancora58 coincidono troppo da vicino, in più di un punto ed in misura non trascurabile, con quelli del suo ex avversario di Parigi, ed ora fedele alleato, per consentirgli di difendere l’Austria «riconoscente»59

La ben nota simpatia che il popolo inglese manifesta per gli italiani, grazie all’odio che questi sentono per il giogo tedesco rende molto dubbio che qualcuno dei ministri inglesi ardisca appoggiare l’Austria, per quanto tutti siano più che desiderosi di farlo.  Inoltre,  l’Austria,  al  pari  di  molti  altri,  sospetta  astutamente  che  il  sedicente «vendicatore di Waterloo» [Napoleone II] ( non abbia per nulla rinunciato al suo vivo desiderio di umiliare la «perfida Albione»60 e che, preferendo non sfidare il leone nella sua tana, non si periterà di lanciargli una sfida all’est, attaccando, unitamente alla Russia, l’Impero turco (ad onta dei suoi giuramenti di lasciare inviolato quell’Impero), mobilitando così la metà delle forze inglesi sui campi di battaglia orientali, mentre da Cherbourg ne terrebbe l’altra metà in forzata inazione per proteggere le coste inglesi. Quindi, nel caso in cui si venga realmente alla guerra, l’Austria ha la sconfortante sensazione di dover contare unicamente su di sé; e uno dei molti espedienti per ridurre al minimo le sue perdite, in caso di sconfitta, è degno di nota per la sua impudente sagacia. Le caserme, i palazzi, gli arsenali e gli altri edifici pubblici in tutto il Lombardo-Veneto, la cui costruzione e manutenzione sono costate imposte esorbitanti, sono considerati, nientemeno, proprietà dell’Impero. In questo momento il governo sta costringendo i vari municipi ad acquistare questi palazzi a prezzi favolosi, adducendo come motivo che in avvenire intende affittarli anziché possederli. Che i municipi riusciranno mai a vedere un centesimo dell’affitto è nella migliore delle ipotesi cosa molto dubbia, persino nel caso in cui l’Austria dovesse mantenere il suo dominio; ma, se dovesse essere cacciata da tutto o da una parte qualsiasi del territorio italiano, si congratulerà con se stessa del suo abile piano di convertire in moneta contante, facilmente trasferibile, una gran parte del suo minacciato tesoro. Si afferma inoltre che essa non lesina gli sforzi per trasmettere al papa [Pio IX.], al re di Napoli [Ferdinando II] e ai duchi di Toscana, Parma e Modena la sua decisione di resistere fino all’ultimo a tutti i tentativi del popolo o delle teste coronate di cambiare l’ordine delle cose esistente in Italia.

Ma nessuno meglio dell’Austria stessa sa quanto sarebbe vano ogni sforzo di questi poveri strumenti per fronteggiare la marea del l’insurrezione popolare o dell’intervento straniero. E mentre la guerra contro l’Austria è la fervida aspirazione di ogni cuore veramente italiano, noi non possiamo dubitare che la grande maggioranza degli italiani consideri molto dubbi — per non dir peggio — i risultati di una guerra iniziata dalla Francia e dal Piemonte. Mentre nessuno può nel suo intimo credere che l’assassino di Roma possa, in virtù di una qualsiasi metamorfosi umana, trasformarsi nel Redentore della Lombardia, una piccola frazione favorisce il disegno di Luigi Napoleone di sistemare Murat sul trono di Napoli e finge di prestar fede alle sue intenzioni di allontanare il papa dall’Italia o di confinarlo nella città o nella Campagna romana, e di aiutare il Piemonte ad annettersi tutta l’Italia settentrionale. Vi è poi un partito, piccolo ma onesto, il quale immagina che l’idea di una corona italiana abbagli Vittorio Emanuele, così come si supponeva abbagliasse suo padre [Carlo Alberto] crede che il re attenda ansiosamente la prima occasione per sfoderare la spada per ottenere la corona e che, unicamente per conquistarsi il tesoro agognato, egli voglia approfittare dell’aiuto della Francia o di chiunque altro. Una classe molto più larga, che conta aderenti in tutte le province oppresse dell’Italia, specialmente in Lombardia e fra l’emigrazione lombarda, pur non nutrendo nessuna fiducia particolare nel re piemontese, dice tuttavia: «Siano i loro scopi quelli che sono, ma il Piemonte ha un esercito di 100.000 uomini, una flotta, degli arsenali ed un tesoro; lasciamo che getti il guanto della sfida all’Austria; noi lo seguiremo sul campo di battaglia; se sarà fedele, avrà la sua ricompensa; se non adempirà la sua missione, la nazione sarà forte abbastanza per proseguire la battaglia ingaggiata e continuarla fino alla vittoria».

Il partito nazionale italiano, al contrario, denuncia come una calamità nazionale l’inizio di una guerra italiana d’indipendenza sotto gli auspici della Francia e del Piemonte. Quel che conta per questo partito non è, come spesso erroneamente si suppone, se l’Italia, una volta liberata dallo straniero, sarà unita sotto un governo repubblicano o monarchico, bensì il fatto che i mezzi proposti non riusciranno ad assicurare l’Italia agli italiani, e, nel migliore dei casi, riusciranno soltanto a sostituire un giogo straniero con un altro egualmente oppressivo. Questo partito crede che l’uomo del 2 dicembre61 non farà mai la guerra, a meno che non vi sia costretto dalla crescente impazienza del suo esercito o dal contegno minaccioso del popolo francese; che, costretto in tal modo, sceglierebbe l’italia come teatro della guerra allo scopo di attuare il piano di suo zio [Napoleone I]: fare del Mediterraneo un «lago francese», scopo che egli raggiungerebbe mettendo Murat sul trono di Napoli; che, dettando condizioni all’Austria, egli mira a compiere la vendetta, cominciata in Crimea, dei trattati del 1815, quando l’Austria fu una delle parti che dettarono alla Francia condizioni estremamente umilianti per la famiglia Bonaparte. Questo partito considera il Piemonte come mero strumento della Francia, convinto che Napoleone III, raggiunti i suoi scopi, non arrischiandosi ad assistere l’Italia nel conseguire quella libertà che egli nega alla Francia, concluderà una pace con l’Austria è soffocherà tutti gli sforzi degli italiani per continuare la guerra. Se l’Austria sarà stata capace di conservare il suo territorio, il Piemonte dovrà contentarsi di annettersi i ducati di Parma e Modena; ma se l’Austria avrà avuto la peggio nella lotta, la pace sarà conclusa sull’Adige, il che lascerà tutta la Venezia e parte della Lombardia nelle mani degli odiati austriaci. Questa pace sull’Adige si afferma, è già stata oggetto di un tacito accordo tra la Francia e il Piemonte.

Questo partito, pieno di fiducia nel trionfo della nazione nel caso di una guerra nazionale contro l’Austria, sostiene che, dovesse la guerra scoppiare con Napoleone come ispiratore, ed il re di Sardegna come dittatore, gli italiani non avrebbero più la possibilità né di muovere un passo senza il consenso dei capi accettati, né di sottrarsi in alcun modo ai tranelli della diplomazia, e di qui risulterebbero capitolazioni e trattati con cui sarebbero ribadite le loro catene. Questo partito ricorda la condotta del Piemonte verso Venezia e Milano nel 1848, e a Novara nel 184962, ed esorta i suoi connazionali a trar profitto dall’amara esperienza della loro fatale fiducia nei principi.

Tutti i suoi sforzi sono diretti a completare l’organizzazione della penisola, ad indurre il popolo ad unirsi in uno sforzo supremo e ad incominciare la lotta soltanto quando si sentirà capace di iniziare la grande insurrezione nazionale, che, deposti il papa, Bomba e Co., renderebbe disponibili gli eserciti, le flotte e il materiale bellico delle rispettive province per sterminare lo straniero. Il partito nazionale, considerando l’esercito e il popolo piemontese come ardenti campioni della libertà italiana, pensa che il re di Piemonte avrà, volendo, ampie possibilità di venire in aiuto alla causa della libertà e dell’indipendenza d’Italia; ma che qualora si rivelasse reazionario, l’esercito e il popolo passeranno dalla parte della nazione. Se invece egli giustificherà la fiducia riposta in lui dai suoi fautori, gli italiani non mancheranno di dimostrargli la loro gratitudine in modo tangibile. In ogni caso, la nazione sarà in una posizione tale da poter decidere dei propri destini, e quel partito, comprendendo che una rivoluzione vittoriosa in Italia sarà il segnale di una lotta generale delle nazionalità oppresse per sbarazzarsi dei loro oppressori, non teme un intervento della Francia, perché Napoleone avrà troppi grattacapi in casa sua per immischiarsi negli affari di altre nazioni, sia pure allo scopo di favorire e suoi piani ambiziosi. A chi tocca, tocca - come dicono gli italiani.

Noi non ci avventuriamo a pronosticare se scenderanno prima in campo i rivoluzionari oppure gli eserciti regolari. Quel che sembra abbastanza certo è che una guerra incominciata in qualsiasi parte d’Europa non finirà dove ha avuto inizio; e se, invero, la guerra è inevitabile, noi ci auguriamo sinceramente e di cuore che essa possa apportare una vera e giusta soluzione della questione italiana e delle numerose altre questioni, che, se non saranno risolte, continueranno di tempo in tempo a turbare la pace dell’Europa e, per conseguenza, ad impedire il progresso e la prosperità di tutto il mondo civile.

Note

51 Il titolo è dell’Istituto di marxismo-leninismo presso il CC del PCUS.

52 Qui Marx si ispira alla nota favola di Esopo Il pastore e gli agricoltori.

53 Le truppe francesi e austriache si trovarono a Roma e sul territorio dello Stato della Chiesa a cominciare dalla repressione della rivoluzione italiana del 1848-1849. Gli svizzeri erano la guardia papale.

54 Verso la fine del 1847 e l’inizio del 1848 si ebbero dei moti antiaustriaci a Venezia e in Lombardia, che facevano parte dell’Impero austriaco. Nel movimento di liberazione nazionale ebbero una particolare funzione gli intellettuali borghesi. Un po’ ovunque venivano avanzate petizioni con rivendicazioni di riforme amministrative ed economiche. La popolazione boicottava i prodotti industriali e i tabacchi d’importazione austriaca. I circoli clandestini repubblicani organizzavano manifestazioni che non di rado sfociavano in scontri cori le truppe e la polizia.

55 Si tratta della rivolta popolare di Milano del 18-22 marzo 1848, che segnò l’inizio della rivoluzione italiana dei 1848-1849. Durante le famose cinque giornate le truppe austriache furono scacciate dalla città e il 22 marzo fu costituito il governo provvisorio di cui entrarono a far parte i liberali borghesi (si veda pure la nota 12).

56 Il I° gennaio 1859 al ricevimento del corpo diplomatico, Napoleone III rivolgendosi all?ambasciatore austriaco Hϋbner si rammaricò che le relazioni tra i due paesi «fossero divenute meno amichevoli che nel passato». La dichiarazione portò ad un conflitto diplomatico con l’Austria, Va però detto che la guerra era stata già decisa da un pezzo, dato che nel luglio 1858 a Plombières era stato firmato il patto segreto tra Francia e Piemonte che ricompensava la partecipazione francese al prossimo conflitto con la Savoia e Nizza.

57 Negli anni 1842-1846 Garibaldi prese parte alla lotta di liberazione nazionale del popolo uruguaiano contro il dittatore argentino Rosas. La legione degli emigrati rivoluzionari italiani ebbe un ruolo importante nella difesa di Montevideo e in altre battaglie. Il governo dell’Uruguay con un decreto speciale esaltò le prove d’eroismo della legione,
Nel febbraio-luglio 1849 Garibaldi fu a capo della difesa della Repubblica romana formatasi dopo la rivolta popolare. Per alcuni mesi l’esercito repubblicano respinse con successo l’offensiva delle truppe francesi, austriache e napoletane intervenute per reprimere la rivoluzione.

58 Si tratta  dell’accordo  commerciale  dell’agosto  1858  tra  la  Russia  e  il  Piemonte  circa  concessione
temporanea alla Società marittima e commerciale russa della parte orientale della baia di Villafranca, presso Nizza, per l’ancoraggio, il rifornimento e il raddobbo delle navi.

59 Marx ironeggia a proposito della «gratitudine» dimostrata dal l’Austria alla Russia zarista per l’aiuto prestato da quest’ultima nel reprimere la rivoluzione ungherese degli anni 1848-1849. Coll’acutizzarsi del problema orientale, nella politica estera dell’Austria si profilò una corrente di ostilità nei confronti della Russia, che trovò la sua espressione nella locuzione proverbiale attribuita al capo del governo austriaco Schwarzerberg: «L’Austria avrà ancora a stupire il mondo per la grandiosità della sua ingratitudine».

60 Albione, antica denominazione delle Isole Britanniche. L’espressione «perfida Albione» entrò in uso ai tempi della rivoluzione francese quando il governo britannico si fece promotore di svariate coalizioni antifrancesi.

61 Si tratta di Napoleone III, che la notte del 1° - 2 dicembre 1851 portò a termine il colpo di Stato controrivoluzionario che provocò la caduta della Seconda Repubblica (1848-1851).

62 Carlo Alberto temendo la diffusione del movimento repubblicano in Italia fece di tutto per non prestare aiuto a Venezia e a Milano, che nel 1848 si erano sollevate contro il dominio austriaco. Costretto a dichiarare guerra all’Austria sotto la pressione delle masse popolari, dopo i primi insuccessi si affrettò a concludere l’armistizio (agosto 1848) e dopo la sconfitta di Novara (23 marzo 1849) capitolò da traditore nonostante la lotta eroica dell’esercito piemontese e del popolo italiano. In una serie di articoli sulla Neue Rheinische Zeitung Engels mise a nudo il carattere infido della monarchia piemontese


Scritto intorno al 5 gennaio 1859

Pubblicato come articolo di fondo sulla New York Daily Tribune n. 5541, 24 gennaio 1859



F. Engels

L’occupazione austriaca dell’Italia

Quando il generale Bonaparte, nel 1796, discese dalle Alpi Marittime, la grande settimana di Dego, Millesimo, Montenotte e Mondovi gli fu sufficiente per conquistare tutto il Piemonte e la Lombardia.63 Le sue colonne avanzarono senza incontrar resistenza finché non raggiunsero il Mincio. Ma qui le cose cambiarono. Furono fermate dalle mura di Mantova, e occorsero nove mesi al più grande generale dell’epoca per vincere questo ostacolo. Tutta la seconda parte della prima campagna d’Italia è imperniata sulla conquista di Mantova. Rivoli, Castiglione, Arcole e la marcia attraverso la valle del Brenta sono tutte operazioni subordinate a quel grande obiettivo.64 Due volte Napoleone  fu fermato da una fortezza: la prima volta a Mantova, la seconda a Danzica.65 Napoleone sapeva molto bene che Mantova era la chiave d’Italia. Una volta impadronitosene, non la lasciò più fino al giorno in cui dovette lasciare la corona, e fino quel giorno il suo dominio sull’Italia non corse mai un serio pericolo.

Data la configurazione geografica dell’Italia, è chiaro che una qualsiasi potenza in grado di tenerne la parte settentrionale, la Gallia Cisalpina dei romani, domina tutta la penisola. Il bacino del Po è sempre stato il campo di battaglia in cui si sono decisi i destini dell’Italia. Qui si sono combattute tutte le battaglie decisive per la supremazia in Italia, da Marignano a Pavia, da Torino, Arcole, Rivoli, Novi e Marengo, fino a Custoza e Novara.66 Ed è naturale. Francesi o tedeschi, chiunque cacci il suo avversario dalla valle del Po, lo stacca dalla lunga penisola e stacca la penisola dai suoi alleati. Ridotta alle sole sue risorse, la penisola, che è la parte meno popolata e meno progredita, non tarda ad essere soggiogata. Ora, nel bacino del Po, Mantova è la posizione più centrale. È equidistante dall’Adriatico e dal Mediterraneo, circa 70 miglia da entrambi, e col concorso di un esercito operante può efficacemente chiudere ogni accesso alla penisola. A ciò si aggiungano gli immensi vantaggi tattici della sua posizione, nel mezzo di un lago, con tre teste di ponte che favoriscono le sortite in una zona intersecata da corsi d’acqua, fatto questo che contribuisce ad isolare le varie parti d’un esercito assediante, e non ci sarà più da meravigliarsi che la tradizione voglia che chi tiene Mantova domina l’Italia.

Queste poche considerazioni saranno sufficienti a dimostrare che non sarebbe meno facile cacciare gli austriaci dall’Italia, anche se essi occupassero soltanto Mantova. Ciò che in altri tempi il primo capitano dell’epoca impiegò nove mesi a fare, non poteva farlo un ex capitano dell’artiglieria svizzera67  in minor tempo. Ma da un punto di vista militare, la Lombardia è immensamente cambiata dal 1796, anzi dal 1848. La campagna del 1848 è, in un certo senso, il rovescio di quella del 1796. Se il 1796 ha mostrato che cosa Mantova significa in una guerra difensiva, il 1848 ha mostrato che cosa Mantova, Peschiera, Legnago e Verona assieme significano in una guerra offensiva; e da allora questa splendida posizione, forse la migliore in Europa, è stata rifinita e preparata in ogni modo possibile e con una diligenza, uno studio e un ensemble che torna a tutto onore dello stato maggiore e del genio austriaci.

Guardate la carta. Dal lago di Garda al Po scorre il Mincio, fiume di modeste proporzioni, guadabile in molti punti nell’estate, ma, nell’insieme, non inadatto come posizione difensiva. La lunghezza della linea, che va misurata da Peschiera a Borgoforte, sebbene la seconda località si trovi al di là del fiume, è di circa 30 miglia, cosìcché un esercito posto nel centro può raggiungere le due estremità con un giorno di marcia. Protetta a destra (nord) dal lago e dalle Alpi tirolesi, e a sinistra dal Po, questa breve linea di 30 miglia è la prima linea di difesa di cui può disporre un esercito austriaco contro un nemico proveniente da occidente. E questo non è il solo vantaggio della posizione. Più indietro, quasi parallelo al lago, al Mincio e al Po, ad una distanza che varia tra le dieci e le trenta miglia, scorre l’Adige, che forma una seconda e assai più robusta linea di difesa ed è in ogni stagione un ostacolo superabile soltanto con ponti. Questa doppia linea, basta un’occhiata alla carta per rendersene conto, limita naturalmente il Tirolo e le limitrofe province austriache in un tutto compatto; ne è, da un punto di vista militare, il necessario complemento; e su questo è fondata la massima politica degli austriaci secondo cui la linea del Mincio è necessaria alla difesa della Germania e il Reno deve essere difeso sul Po.

La posizione, forte già per natura, è stata resa ancor più forte dalla mano dell’uomo. La linea del Mincio è stata tagliata in due dalla fortezza di Mantova. Questa è così vicina alla foce dcl fiume, che la parte della linea a sud della fortezza non desta eccessive preoccupazioni. La linea viene così ad essere ancora accorciata di sette o otto miglia: all’estremità meridionale si appoggia a una fortezza di prim’ordine che forma teste di ponte su entrambe le rive del fiume; nell’altra, dove il fiume esce dal lago, è difesa da Peschiera, una posizione non molto forte tanto che fu occupata dai piemontesi nel 1848, ma sufficiente per resistere a puntate offensive e perciò è mantenibile finché gli austriaci fanno una guerra di posizione; nel contempo essa permette loro di sboccare sulla riva destra del Mincio.

Fino al 1815 la linea dell’Adige fu trascurata. Dal 1797 al 1809 segnò il confine tra l’Austria e l’Italia; nel 1815 l’Austria si assicurò il possesso di entrambe le rive del fiume. Dietro Mantova,  alla  distanza  di  circa  25  miglia,  sorgeva  la  piccola  fortezza  di  Legnago, sull’Adige; ma dietro Peschiera la città più vicina, Verona, non era fortificata. Gli austriaci non tardarono ad accorgersi che, per rendere la posizione veramente forte come avrebbe dovuto essere, Verona doveva essere fortificata. E così fecero. Ma con la lentezza abituale dell’antidiluviana Austria, i lavori furono trascurati a tal punto che nel  1848, quando scoppiò la rivoluzione, la parte sulla riva sinistra, orientale, del fiume, che avrebbe potuto essere rivolta contro l’Austria, era passabilmente fortificata, mentre il lato verso il nemico era rimasto relativamente indifeso.

Radetzky e i suoi capi di stato maggiore, Hess a Schönhals, quando la rivoluzione li cacciò da Milano, si misero subito al lavoro per correggere questo difetto. Sulle alture che circondano Verona ad occidente furono costruiti trinceramenti per proteggere i bastioni della città dal fuoco diretto del nemico. E fu una fortuna per l’Austria averlo fatto. La linea del Mincio doveva essere abbandonata. Peschiera fu assediata dai piemontesi, i quali si spinsero fin sotto le difese di Verona. Ma qui furono costretti a fermarsi. La battaglia di Santa Lucia (6 maggio 1848) mostrò loro che ogni ulteriore tentativo contro le difese di Verona era del tutto inutile.

Eppure tutta l’Italia settentrionale era nelle mani dell’esercito rivoluzionario. Radetzky non teneva che le sue quattro fortezze, servendosi di Verona come campo trincerato per il suo esercito. Fronte, fianchi, e in parte le retrovie erano in potere del nemico, infatti persino le comunicazioni con il Tirolo erano minacciate e talvolta interrotte. Tuttavia una divisione comandata dal generale Nugent riuscì ad aprirsi la strada attraverso l’insorta campagna veneta e a congiungersi con lui, verso la fine di maggio. Fu allora che Radetzky mostrò quel che era possibile fare con quella magnifica posizione che aveva allora terminato di organizzare. Nell’impossibilità di resistere più a lungo negli ormai esausti dintorni  di Verona e troppo debole per affrontare il nemico in una battaglia campale, egli con un’audace ed abile manovra spostò il suo esercito a Mantova passando per Legnago e, prima che il nemico potesse rendersi conto di quel che stava accadendo, mosse da Mantova per attaccarlo sulla riva destra del Mincio; penetrò nelle sue linee costringendo il grosso dell’esercito piemontese a ritirarsi da Verona. Tuttavia, non poté impedire la caduta di Peschiera e, ottenuti tutti i possibili risultati dalla sua marcia su Mantova, riunì di nuovo le sue truppe, e ancora per Legnago mosse su Vicenza, la strappò agli italiani, riprendendo così il controllo di tutta la regione veneta, riallacciando le sue linee di comunicazione e assicurandosi nelle retrovie le risorse di un ampio e ricco territorio; dopodiché si ritirò di nuovo nella sua roccaforte di Verona, dalla quale i piemontesi non riuscirono a trovare la maniera di snidarlo tanto che perdettero un intero mese per non combinare nulla. Nel frattempo erano sopraggiunte tre forti brigate austriache e le sorti della guerra cambiarono. In tre giorni Radetzky spazzò via i piemontesi, dalle alture tra l’Adige e il Mincio, e, aggirando il loro fianco destro da Mantova, diede loro una lezione tale che essi non accettarono più battaglia finché non ebbero ripassato il Ticino.

Da questa campagna di Radetzky si può vedere quel che un generale può fare con un esercito inferiore quando si appoggi a un ben difeso sistema di corsi d’acqua. Dovunque i piemontesi si trovassero, comunque cercassero di stabilire un fronte, non potevano attaccare gli austriaci; e quel brancolare nel buio a cui furono ridotte le operazioni militari nelle ultime cinque settimane prima della loro disfatta definitiva, mostra  chiaramente quanto fossero disperatamente legati. In che cosa consisteva dunque la forza della posizione di Radetzky? Semplicemente in questo: le fortezze non soltanto lo proteggevano da un attacco, ma costringevano il nemico a dividere le sue forze, mentre egli sotto la loro protezione poteva operare, con tutte le sue forze, in qualunque punto volesse, contro quella parte del nemico che gli capitava di fronte. Peschiera neutralizzava un buon numero di truppe; mentre Radetzky si trovava a Verona, Mantova ne neutralizzava un’altra parte, e non appena egli andò a Mantova, i piemontesi furono costretti a lasciare un corpo in
osservazione a Verona. C’è di più; gli italiani dovettero operare su tutt’e due le rive del fiume con corpi separati, nessuno dei quali poteva accorrere rapidamente in aiuto dell’altro, mentre Radetzky, grazie alle sue fortezze e alle sue teste di ponte, poteva spostare a piacimento la massa delle sue forze da una sponda all’altra. Vicenza e la terraferma veneta non sarebbero mai cadute se i piemontesi avessero avuto la possibilità di difenderle. Data la situazione, Radetzky le prese entrambe, mentre i piemontesi erano tenuti in scacco dalle guarnigioni di Verona e di Mantova.

In Algeria, i francesi, quando devono far transitare una colonna attraverso una zona ostile68 formano quattro quadrati di fanteria, li pongono ai quattro angoli di un rombo e dispongono la cavalleria e l’artiglieria al centro. Se gli arabi attaccano, il fuoco concentrato della fanteria li respinge, e non appena nelle loro file si è creato il disordine, la cavalleria si scaglia su di loro e l’artiglieria stacca gli avantreni per inseguirli a cannonate. La cavalleria, se respinta, trova un sicuro rifugio dietro i quadrati della fanteria. Un sistema di fortezze è per un esercito inferiore in campo quel che il quadrato di fanteria è per la cavalleria, specialmente se le fortezze sono situate tra una rete di corsi d’acqua. Verona, Mantova, Peschiera, Legnago formano i quattro angoli di un quadrato, e finché almeno tre di esse non vengono prese, un esercito inferiore non può essere costretto ad abbandonare la posizione. Ma come si possono prendere? Peschiera, in vero, è destinata sempre a cadere facilmente se gli austriaci non possono tenere il campo; ma nel 1848 non si tentò nemmeno di bloccare Mantova da tutte le parti e tanto meno di cingerla di assedio. Per bloccare Mantova occorrono tre eserciti: uno sulla riva occidentale e uno su quella orientale del Mincio per assediarla, e un altro per proteggere l’assedio da parte di attacchi degli austriaci dislocati a Verona. Manovrando abilmente tra i fiumi e le fortezze ciascuno di questi tre eserciti può essere attaccato, ad libitum, da tutte le forze austriache. Come si può tenere a lungo una città assediata in queste circostanze? Se Mantova, da sola, richiese al generale Bonaparte nove mesi d’assedio prima di cadere per fame, quanto forte sarà se difesa da un esercito che s’appoggia a Verona, Legnago e Peschiera, capace di manovrare con le forze unite su tutt’e due le rive del Mincio e dell’Adige, esercito al quale non si potrebbe mai tagliare la ritirata, disponendo esso di due vie di comunicazione, una attraverso il Tirolo e l’altra attraverso la terraferma veneta? Non esitiamo a definire questa posizione una delle più forti d e, poiché gli austriaci non solo l’hanno preparata perfettamente, ma ne comprendono anche appieno l’importanza, crediamo che 150.000 austriaci, rinchiusi in essa, non abbiano da temere un numero doppio di avversari.

Ma supponiamo che vengano  battuti e cacciati dalla città. Supponiamo  che perdano Mantova, Peschiera e Legnago. Finché essi tengono Verona e non sono stati completamente eliminati dal campo, possono rendere molto rischiosa la marcia di un esercito francese in direzione di Trieste e Vienna. Mantenendo Verona come avamposto, possono ritirarsi nel Tirolo, recuperare le proprie forze, e costringere di nuovo il nemico a dividere le sue: una parte deve cingere d’assedio Verona, un’altra difendere la valle dell’Adige; rimarranno a sufficienza per marciare su Vienna? In questo caso l’esercito tirolese potrebbe piombare loro addosso attraverso quella valle del Brenta, la cui importanza strategica gli austriaci hanno appreso dal generale Bonaparte nel 1796 subendo una così severa lezione. Un esperimento di tal fatta sarebbe decisamente un errore, a meno che non ci fosse un altro esercito per difendere la via diretta alla Germania; poiché, se il grosso dell’esercito austriaco dovesse essere respinto nelle Alpi tirolesi, il nemico potrebbe ancora sorpassarlo e arrivare a Vienna prima che gli austriaci potessero uscire dal dedalo delle colline, Ma se Vienna è fortificata (il che, crediamo, si sta facendo), allora questa considerazione cade. L’esercito potrebbe ancora arrivare in tempo a soccorrerla e potrebbe ridurre la difesa della frontiera della Carinzia a una costante presenza sulle Alpi, sul fianco sinistro dell’invasore, minacciando di piombargli addosso o da Bassano o da Congeliano, e di impadronirsi delle sue vie di comunicazione non appena sia passato oltre.

Questa difesa indiretta del confine tedesco meridionale è, sia detto fra parentesi, la miglior risposta all’argomento con cui gli austriaci difendono la loro occupazione dell’Italia ha: la linea del Mincio è la frontiera naturale della Germania a sud. Se così fosse, il Reno sarebbe la frontiera naturale della Francia. Ogni argomento calzante nel primo caso, può essere applicato in pieno nel secondo. Ma, fortunatamente, né la Francia ha bisogno del Reno né la Germania del Po e del Mincio. Chi aggira, è a sua volta aggirato. Se infatti attraverso il Veneto si aggira il Tirolo, attraverso il Tirolo s’aggira tutta l’Italia. Il passo di Bormio conduce diritto a Milano, e può servire per preparare una Marengo a un nemico che attacchi Trieste e Gradisca; così servi il Gran San Bernardo a Melas quando questi attaccò la linea del Varo69 In guerra, in fin dei conti, chi tiene il campo più a lungo e meglio, è sicuro di vincere. La Germania tenga saldamente il Tirolo e potrà permettere agli italiani della pianura di agire come meglio credono. Finché i suoi eserciti tengono il campo, poco importa che le appartenga politicamente il Veneto — che dal punto di vista militare è do minato dalla sua frontiera alpina — e questo dovrebbe esserle sufficiente.

Naturalmente si tratta di una questione che riguarda solo l’Italia e la Germania. Non appena ci si mette di mezzo la Francia, le cose cambiano, e se la Francia getta tutto il suo peso sulla bilancia, è più che naturale che ciascuno dei due combattenti rinsaldi le sue posizioni quanto più è possibile. La Germania può certo permettersi di rinunciare alla linea del Mincio e a quelle dell’Adige, ma a patto di consegnarle soltanto all’Italia, e a nessun’altra nazione.

Fin qui, noi abbiamo considerato le possibilità di una guerra difensiva soltanto da parte degli austriaci. Ma, nel caso si venisse a una guerra, la loro posizione è tale che si imporrebbe il piano per una campagna offensiva; ma di ciò parleremo un’altra volta.

Note

63 Sono qui elencate le battaglie della fase iniziale della campagna di Bonaparte del 1796-1797. Passato all’offensiva da Nizza, aprile 1796, attraverso i valichi alpini l’esercito di Bonaparte sbaragliò il gruppo d’armate austriache presso Montenotte (12 aprile 1796). L’altro raggruppamento  austriaco,  incorporato nell’esercito alleato piemontese, fu sconfitto dalle truppe napoleoniche il 13-14 aprile presso Millesimo e il 14-13 dello stesso mese i francesi sgominarono nei pressi di Dego il distaccamento mandato in aiuto. La battaglia decisiva avvenne il 22 aprile a Mondovì dopodiché i piemontesi si ritirarono in disordine verso Torino.

64 L’assedio di Mantova ebbe inizio nel giugno del 1796 mentre il grosso dell’esercito napoleonico continuava ad operare contro le truppe austriache che facevano tentativi per sbloccare la fortezza. Il 5 agosto 1796 Bonaparte sconfisse l’esercito austriaco guidato da Whϋrmser presso Castiglione; nella prima metà del 1796 di nuovo sbaragliò Io stesso esercito nella Valle del Brenta; nella battaglia di Arcole (il 15-17 novembre 1796) i francesi sgominarono un altro esercito mandato in aiuto di Mantova; il 14-13 gennaio 1797 Bonaparte vinse la battaglia di Rivoli. Il 2 febbraio 1797, alla fine di un assedio di nove mesi, Mantova capitolò.

65 L’assedio di Danzica ebbe inizio nel marzo del 1807 durante la guerra di Napoleone contro la quarta coalizione europea antifrancese. La guarnigione della fortezza composta da truppe prussiane e da un reparto alleato russo oppose un’accanita resistenza. Le operazioni della guarnigione furono appoggiate da un altro reparto russo che tentava di sbloccare la città. Fu solo alla fine del maggio 1807 che la fortezza si arrese con tutti gli onori di fronte alle preponderanti truppe napoleoniche.

66 La battaglia di Marignano (13-14 settembre 1515), una tra le più importanti nelle guerre di Francia, Spagna e dell’impero germanico in Italia (1494-1559). Qui l’esercito di Francesco I, re di Francia, sconfisse le truppe mercenarie svizzere al soldo del duca di Milano. Il 24 febbraio 1525 le truppe di Francesco I furono sbaragliate presso Pavia dall’esercito di Carlo V. Nel 1706 nella battaglia di Torino gli italiani sgominarono l’esercito francese che da 117 giorni assediava la città.
Nella battaglia di Novi Ligure (15 agosto 1799) le troppe russo-austriache guidate da A. Suvorov sconfissero l’esercito francese di Jauhbert e così si concluse la cacciata dei francesi dall’Italia settentrionale.
Nella battaglia di Marengo (14 giugno 1800) l’esercito di Bonaparte sbaragliò le truppe austriache. A riguardo delle battaglie di Custoza e di Novara si vedano le note 24 e 62.

67 Nel testo inglese gioco di parole: Captain vuol dire «capitano» nonché «condottiero». L’ex capitano dell’artiglieria svizzera è Luigi Bonaparte che visse molti anni in quel paese, si naturalizzò svizzero e nel 1834 divenne capitano del reggimento d’artiglieria del cantone di Berna.

68 Nel 1830 il governo francese iniziò la sua guerra coloniale in Algeria, che, con qualche intervallo durò per quarant’anni. Solo nel 1871 la Francia riuscì a farne una colonia.

Scritto a metà febbraio 1859.

Pubblicato sulla New York Daily Tribune n. 5575, 4 marzo 1859



F. Engels

Probabilità della guerra imminente

In Europa i più zelanti amici della pace cominciano ad abbandonare l’ultima debole speranza che la pace sarà mantenuta, e invece di discutere le possibilità di una soluzione

Ci si riferisce alla campagna italiana del 1800. Melas, comandante in capo delle truppe austriache, attaccò con successo l’ala destra dell’esercito francese presso il fiume Varo, ma nella seconda metà del maggio 1800 Bonaparte, valicate le Alpi, lo prese alle spalle. Il 2 giugno, caduta Milano, i francesi passarono sulla riva meridionale del Po e il 14 giugno sgominarono gli austriaci a Marengo.
pacifica, oggi discutono le probabilità di vittoria dei futuri belligeranti. Ci sia dunque permesso di continuare le nostre osservazioni sul carattere militare della valle del Po, e sulle possibilità di manovra che essa offre all’esercito franco-sardo e a quello austriaco, opposti l’uno all’altro.

Abbiamo già descritto la forte posizione degli austriaci sul Mincio e sull’Adige70 Occupiamoci ora dell’altra parte.

Il Po, nel suo corso generale da occidente ad oriente, forma un’ansa piuttosto ampia, scorrendo per circa sedici miglia da nord-ovest a sud-est e dirigendosi poi di nuovo verso est. Questa ansa si trova nel territorio sardo, a circa venticinque miglia dalla frontiera austriaca. All’angolo nord, la Sesia che scorre dalle Alpi verso sud, e, all’angolo sud, la Bormida che dagli Appennini scorre verso nord, confluiscono nel Po. Numerosi piccoli corsi d’acqua si gettano nell’uno o nell’altro di questi fiumi presso il loro punto di confluenza con il fiume principale, cosìcché il territorio che si stende ad occidente offre sulla carta l’immagine di un vasto sistema di corsi d’acqua i quali, dall’anfiteatro montuoso che circonda il Piemonte da tre lati, si dirigono tutti verso un centro comune, simili ai raggi tracciati dalla circonferenza al centro di un cerchio. Questa è la più forte posizione difensiva del Piemonte, come fu ben riconosciuto da Napoleone; ma, trascurata da lui come dal governo sardo che succedette al dominio francese, fu organizzata per la difesa soltanto dopo i disastri del 184971. Anche allora le opere difensive furono erette con tale lentezza ed economia che oggi ancora sono incomplete, e opere che dovrebbero avere carattere permanente vengono ora portate a termine come semplici lavori campali per la difesa in primavera.

Sul Po, circa quattro miglia a monte della confluenza con la Sesia, si trova Casale, che è stata e viene tuttora fortificata affinché costituisca il punto d’appoggio del fianco settentrionale, o di sinistra, della posizione. Alla confluenza del Tanaro e della Bormida, otto miglia a monte della confluenza di quest’ultima con il Po, si trova Alessandria, la migliore fortezza del Piemonte, che ora sta diventando il punto centrale di un vasto campo trincerato, e copre l’ala meridionale, o destra, della posizione. Le due città distano l’una dall’altra sedici miglia, e il Po scorre parallelamente alla strada che le unisce, ad una distanza di cinque o sei miglia. L’ala sinistra di un esercito schierato su questa posizione è coperta in primo luogo dalla Sesia, e quindi da Casale e dal Po; l’ala destra è coperta da Alessandria e dai fiumi Orba, Bormida, Belbo e Tanaro, che confluiscono tutti nei pressi di Alessandria. Il fronte (la prima linea) è coperto dall’ansa del Po.

Se la Sardegna concentra un esercito di 80-90.000 uomini in questa posizione, potrà disporre di circa 50.000 uomini per la manovra, pronti a piombare sui fianchi di ogni esercito che tentasse di aggirare la posizione dalla parte di Novi ed Acqui a sud, o dalla parte di Vercelli a nord. Torino può dunque considerarsi ben protetta da questa posizione, tanto più che in questa capitale c’è una cittadella che può essere presa solo con un regolare assedio, e nessun esercito che aggirasse questa posizione potrebbe sostenere un assedio senza aver prima sloggiato l’esercito piemontese dal suo campo trincerato. Ma la posizione di Casale e di Alessandria offre un punto debole: essa manca di profondità e le sue retrovie sono completamente scoperte. Gli austriaci, tra il Mincio e l’Adige, hanno un quadrilatero protetto da quattro fortezze, una in ciascun angolo; sul Po e sulla Bormida i piemontesi hanno una linea con due fortezze su ciascun fianco ed un fronte ben difeso, ma le loro retrovie sono completamente  scoperte. Ora, aggirare Alessandria dal sud sarebbe azzardato e relativamente inutile; ma Casale può essere aggirata dal nord, se non da Vercelli, almeno da Sesto Calende, Novara, Biella, Santhià e Crescentino; e se un esercito numericamente superiore passasse il Po, a monte di Casale, e attaccasse a tergo i piemontesi, questi sarebbero immediatamente costretti a rinunciare ai vantaggi di una posizione solidamente trincerata, e a combattere in campo aperto. Sarebbe questa la contropartita di Marengo, benché sull’opposta sponda della Bormida.

Descritte così le due basi di operazione nel bacino del Po, quella degli austriaci nel precedente articolo, quella dei franco-piemontesi qui sopra, vediamo ora come potrebbero essere utilizzate. Uno sguardo alla carta mostra che tutto il settore nord-orientale delle Alpi appartiene alla Svizzera, da Ginevra a circa un miglio dal passo dello Stelvio, e di conseguenza è, per incominciare, territorio neutrale, fino al giorno in cui o l’uno o l’altro dei belligeranti non giudicherà opportuno violarlo. Dato che gli svizzeri dispongono oggigiorno di forze piuttosto rilevanti a scopo difensivo, non è probabile che una cosa simile accada subito al principio della guerra. Per il momento, quindi, considereremo la Svizzera come veramente neutrale ed inaccessibile a tutt’e due le parti. In tal caso, ai francesi rimangono solo quattro strade per entrare in Piemonte. L’armata di Lione dovrà passare per la Savoia e il Moncenisio. Un contingente di minori proporzioni potrà passare per Brianvon e il Monginevro; entrambi scenderanno dalle montagne per ricongiungersi a Torino. L’esercito concentrato in Provenza può in parte, da Tolone, marciare attraverso Nizza e il Col di Tenda, e in parte può essere trasportato, per via di mare, a Genova in un tempo molto più breve. Questi due corpi hanno il loro punto di concentramento ad Alessandria. Vi sono ancora alcune altre strade, che però o sono inadatte al passaggio di grossi contingenti di truppe, o sono subordinate a quelle già ricordate, e fanno capo agli stessi punti di concentramento.

Il dispositivo dell’esercito francese d’Italia — possiamo ora azzardarci a designarlo con questo nome — è già stato fatto in conformità con questo stato di cose. I due principali punti di concentramento sono Lione e Tolone, con un contingente minore nella valle del Rodano, fra i due punti, pronto ad avanzare attraverso Brianvon. Allo scopo di concentrare rapidamente un forte esercito francese nella valle del Po, dietro Alessandria e Casale, è infatti necessario servirsi di tutte le strade sopra indicate: i contingenti più forti passeranno per Lione e il Moncenisio, i più piccoli per Brianvon e il Monginevro, e la maggior parte possibile del l’esercito della Provenza dovrà essere trasportata a Genova per via mare; poiché mentre un corpo proveniente dal Varo, attraverso il Col di Tenda impiegherebbe più di dieci giorni per raggiungere Alessandria, via mare da Tolone a Genova impiega ventiquattro ore, e da Genova può portarsi ad Alessandria con tre o quattro giorni di marce forzate.

Ora, supponendo, come è lecito supporre, che l’Austria dichiari la guerra non appena un battaglione francese metta piede in Piemonte, come può comportarsi l’esercito austriaco in Italia?  Può  rimanere  in  Lombardia,  attendendo,  le  armi  al  piede,  che  si  concentrino
200.000 francesi e 50.000 piemontesi, e poi ripiegare davanti a loro sulla sua base di operazioni sul Mincio, abbandonando tutta la Lombardia. Questa linea di condotta demoralizzerebbe le truppe austriache, e la vittoria ottenuta così inaspettatamente a buon mercato incoraggerebbe i loro avversari. Oppure può aspettare l’attacco dei francesi e dei piemontesi nella pianura lombarda; in questo caso sarebbe battuto dal numero superiore, disponendo soltanto di 120.000 uomini contro una forza doppia ed essendo, inoltre, ostacolato dall’insurrezione italiana che scoppierebbe in tutto il paese. Potrebbe, è vero, ripiegare sulle sue fortezze, ma questa splendida base di operazioni sarebbe ridotta ad una difesa passiva, la forza offensiva campale essendosi esaurita. Lo scopo principale per cui era stato creato quel sistema di fortezze — per servire cioè di base ad un esercito più debole per attaccare sotto la sua protezione e con successo un esercito più forte — andrebbe completamente perduto, fino al momento in cui arrivassero rinforzi dall’interno
dell’Austria; e nel frattempo Peschiera potrebbe cadere, Legnago potrebbe cadere, e le vie di comunicazione attraverso la regione veneta sarebbero perdute. Entrambe le soluzioni che abbiamo prospettato sarebbero svantaggiose e, in realtà, inammissibili, a meno che non fossero imposte dalle circostanze. Ma resta un’altra soluzione.

Gli austriaci possono mettere in campo almeno 120.000 uomini. Se scelgono bene il momento, possono trovarsi di fronte solo i 90.000 piemontesi, dei quali solo 50.000 posso no essere utilmente impiegati. I francesi giungono per quattro strade, tutte convergenti su Alessandria. Gli angoli che formano queste quattro strade, compresi nella zona determinata dalla linea Genova-Alessandria-Moncenisio, complessivamente assommano circa a 140 gradi; sicché non c’è nemmeno da pensare che i diversi corpi francesi prima di concentrarsi possano aiutarsi reciprocamente. Ora, se gli austriaci scelgono bene il momento — e abbiamo visto nel ‘48 e nel ‘49 che possono farlo — e marciano sulla base d’operazioni piemontesi, attaccandola frontalmente oppure aggirandola dal nord, ci azzardiamo a dire che, con tutto il rispetto per il coraggio dei piemontesi, essi avrebbero pochissime probabilità di successo contro un numero superiore di austriaci; e una volta che i piemontesi fossero eliminati dal campo e ridotti alla difesa passiva delle loro fortezze, gli austriaci potrebbero attaccare con forze superiori ciascun corpo francese separatamente non appena esso sbocca dalle Alpi o dagli Appennini, e anche se fossero obbligati a ripiegare, la loro ritirata sarebbe protetta, fintantoché la neutralità svizzera copre il loro fianco settentrionale, e l’esercito al suo arrivo a Mantova sarebbe ancora in grado di sostenere una difesa attiva, offensiva, della sua base di operazioni.

Un’altra possibilità per gli, austriaci sarebbe di prendere posizione nei dintorni di Tortona e attendere l’arrivo della colonna francese diretta da Genova ad Alessandria, nel momento in cui essa deve esporre il suo fianco agli austriaci. Ma si tratterebbe soltanto di un’offensiva incompleta per ché i francesi potrebbero rimanere tranquillamente a Genova finché le altre colonne non fossero concentrate ad Alessandria; nel qual caso gli austriaci sarebbero non sol tanto sopraffatti, ma correrebbero anche il rischio di essere tagliati fuori dal Mincio e dall’Adige.

Nell’ipotesi che gli austriaci siano battuti e debbano ritirarsi verso la loro base di operazioni, i francesi, non appena si spingono oltre Milano, corrono il rischio di essere aggirati. La strada dello Stelvio dal Tirolo conduce diritto a Milano attraverso la valle dell’Adda; la strada del Tona le, per la valle dell’Oglio, e la strada della Giudicaria, attraverso la val di Chiese, conducono entrambe nel cuore della Lombardia e alle spalle di qualsiasi esercito che at tacchi il Mincio da occidente. Dal Tirolo, l’Austria aggira tutto il Lombardo-Veneto, e, se ha fatto i preparativi necessari, può riserbare ai suoi avversari, ogni giorno, una Marengo nella pianura lombarda. Finché la Svizzera rimane neutrale, l’Austria può attaccare il Piemonte senza temere che si ricorra a questo stratagemma contro di lei.

Dunque in Italia, nella situazione attuale, ciò che più conviene all’Austria è l’offensiva. Piombare nel bel mezzo di un esercito che si sta concentrando è una di quelle magnifiche grandi manovre che Napoleone sapeva eseguire così bene. E contro nessun altro le esegui con maggior successo che contro gli austriaci: lo provano Montenotte, Millesimo, Mondovi e Dego; lo provano Abensberg e Eckmϋhl.72 Gli austriaci, dal canto loro, hanno brillantemente  provato  di  aver  ben  appresa  da  lui  quest’arte  a  Sommacampagna73   a

Tutt’e due le battaglie sono fasi di quella più grossa durata cinque giorni presso Ratisbona (Baviera) nell’aprile 1809 tra le truppe del Napoleone I e quelle austriache nel corso della guerra austro-francese del 1809. La battaglia di Ratisbona finì con la sconfitta e la ritirata dell’esercito austriaco.
Il 23 luglio 1848 nella battaglia di Sommacampagna le truppe austriache guidate da Radetzlcy sbaragliarono l’esercito piemontese. La battaglia preluse alla sconfitta di Costoza (si veda pure la nota 24).
Custoza e soprattutto a Novara. Perciò la stessa manovra sembrerebbe oggi più conforme al metodo di combattere degli austriaci, e quantunque richieda grande oculatezza e perfetta tempestività, gli austriaci si lascerebbero sfuggire dalle mani immense probabilità di successo ove si limitassero alla semplice difesa dei loro territori.

Note

70 Si veda l’occupazione austriaca dell’Italia
71 Si veda la sconfitta dei piemontesi.

Scritto alla fine di febbraio 1859. Pubblicato come articolo di fondo sulla New York Daily Tribune n. 5586, 17 marzo 1859



F. Engels

Da: Po e Reno

Ancor più del Belgio, l’Italia settentrionale è da secoli il campo di battaglia sul quale tedeschi e francesi hanno combattuto le guerre chi li hanno visti di fronte. Il possesso del Belgio e della valle del Po è, per chi attacca, la condizione necessaria sia per un’invasione tedesca della Francia, sia per un’invasione francese della Germania: soltanto questo possesso rende completamente sicuri i fianchi e le spalle dell’invasore. Soltanto il caso di una neutralità assolutamente certa di questi paesi potrebbe costituire un’eccezione; e ciò fino ad ora non si e verificato.

Se è vero che la sorte della Francia e della Germania si è indirettamente decisa fin dai tempi di Pavia74 sui campi di battaglia della valle padana, là pure si è decisa, direttamente e immediatamente, la sorte dell’Italia. Con i grandi eserciti regolari dell’epoca moderna, con la  crescente  potenza della Francia e della Germania, con la decadenza politica dell’Italia, la vecchia Italia propriamente detta, a sud del Rubicone, perdette ogni importanza militare, e il possesso della vecchia Gallia Cisalpina implicò inevitabilmente il predominio sulla stretta e allungata penisola. Nel bacino del Po e dell’Adige, sulla costa genovese, veneta e romagnola, risiedeva la popolazione più fitta, era concentrata l’agricoltura più fiorente, l’industria più attiva, il più animato commercio dell’Italia. La penisola, ossia Napoli e lo Stato della Chiesa, rimasero relativamente stazionari nel loro sviluppo storico; la loro potenza guerriera da secoli non contava più nulla. Chi possedeva la valle del Po, tagliava le comunicazioni terrestri della penisola con il resto del continente e, all’occasione, poteva sottometterla con poca fatica. Così fecero due volte i francesi nelle guerre della Rivoluzione, così due volte gli austriaci in questo secolo. Perciò soltanto il bacino del Po e dell’Adige ha importanza per la guerra…..

……..Finché l’Impero tedesco75 esistette come una effettiva potenza militare, finché, in conseguenza di ciò, poneva la base dei suoi attacchi contro l’Italia nella Svevia superiore e nella Baviera, esso poteva aspirare all’assoggettamento dell’Italia settentrionale per motivi politici, mai però per motivi puramente militari. Nelle lunghe lotte combattute per l’Italia, la Lombardia è stata ora tedesca, ora indipendente, ora spagnuola, ora austriaca; ma la Lombardia, non bisogna dimenticarlo, era separata da Venezia, e Venezia era indipendente. E, sebbene la Lombardia possedesse Mantova, essa non comprendeva tuttavia proprio  la  linea  del Mincio  e  il  territorio tra il  Mincio  e l’Isonzo, senza il  cui possesso, come ora ci è stato assicurato, la Germania non può dormire sonni tranquilli. La Germania (per mediazione dell’Austria) è venuta nel completo possesso della linea del Mincio solo nel 1814. E se anche la Germania, come corpo politico, non ha avuto la parte più brillante nel XVII e XVIII secolo, è certo tuttavia che la colpa di ciò non si dovette ad ogni modo al mancato possesso della linea del Mincio.

Veramente il completamento strategico dei confini degli Stati e la loro delimitazione secondo linee atte alla difesa sono venuti in auge da quando la Rivoluzione francese e Napoleone hanno creato eserciti più mobili e con questi eserciti hanno percorso l’Europa in tutte le direzioni. Nella guerra dei Sette anni76 il campo di operazioni di un esercito era limitato ancora a una sola provincia, si compivano, intorno a singole fortezze, posizioni o basi di operazioni, manovre che duravano dei mesi; oggi invece in ogni guerra si prende in considerazione la configurazione del terreno di intere regioni e l’importanza che prima si attribuiva a singole posizioni tattiche si dà oramai soltanto a vasti gruppi di fortificazioni, a lunghe linee fluviali o a catene di monti alte e fortemente pronunciate. E, sotto questo rapporto, linee come quelle del Mincio e dell’Adige sono veramente di un’importanza di gran lunga maggiore di quel che non lo fossero una volta.

Consideriamo dunque un po’ queste linee.

Tutti i fiumi che scorrono ad est del Sempione dalle Alpi nella pianura dell’Italia settentrionale fino al Po, o direttamente al mare Adriatico, formano, con il Po o da soli, un gomito concavo verso oriente. Sono perciò più adatti alla difesa di un esercito stabilito ad oriente che di uno stabilito ad occidente. Si osservi il Ticino, l’Adda, l’Oglio, il Chiese, il Mincio, l’Adige, il Brenta, il Piave, il Tagliamento; ogni fiume da solo o insieme alla parte del Po con la quale con fluisce forma un arco di cerchio, il cui centro si trova spostato verso oriente. Perciò l’armata che sta sulla riva sinistra (orientale) è in condizioni di prendere una posizione centrale arretrata, dalla quale può raggiungere in un tempo relativamente breve qualsiasi punto del fiume seriamente minacciato; esso tiene la «linea interna» del Jomini77 marcia sul raggio o sulla corda, mentre il nemico deve manovrare lungo la circonferenza, che è più lunga. Se l’esercito della riva destra si trova sulla difensiva, questa circostanza gli sarà pure sfavorevole; il nemico è protetto nei suoi finti attacchi dalla località e le stesse più brevi distanze dai singoli punti della periferia, che gli erano di vantaggio nella difesa, danno ora al suo attacco una preponderanza decisiva. Così dunque le linee fluviali lombardo-venete sono per queste ragioni favorevoli a un’armata tedesca nella difensiva e nell’offensiva, sfavorevoli invece per un esercito italiano o italo-francese; e se a tutto questo si viene ad aggiungere ancora la già prevista circostanza che i passi del Tirolo aggirano tutte queste linee, non c’è veramente nessun motivo per dubitare della sicurezza della Germania, anche se non rimanesse più sul territorio italiano nessun soldato austriaco; infatti, questo territorio lombardo ci appartiene ogni volta che lo vogliamo.

Del resto queste linee di fiume lombardi sono per lo più senza importanza e poco adatte a una seria difesa. Astrazion facendo dallo stesso Po, del quale parleremo più oltre, troviamo in tutto il bacino soltanto due posizioni effettiva mente importanti per la Francia o per la Germania; esse sono state giustamente valutate nella loro importanza dai rispettivi stati maggiori e avranno nella prossima guerra la funzione decisiva. In Piemonte, un miglio sotto Casale, il Po piega il suo corso, fin qui volto ad est, scorre per tre miglia buone in direzione sud-sud-est, poi volta di nuovo verso est. Nella curva settentrionale confluisce da nord la Sesia, in quella meridionale, da sud-ovest, la Bormida. Con questa si uniscono immediatamente prima della confluenza, proprio vicino ad Alessandria, il Tanaro, l’Orba e il Belbo, formando un insieme di linee fluviali confluenti a raggiera verso un punto centrale, il cui punto d’incrocio principale è protetto dal campo trincerato di Alessandria.

Un esercito, uscendo da Alessandria, può spostarsi a piacere dall’una all’altra riva dei fiumi minori, può difendere la linea del Po che sta immediatamente di fronte, può passare il Po a Casale, del pari fortificata, oppure operare sul la riva destra del Po nella direzione della corrente. Questa posizione, rafforzata da sufficienti fortificazioni, è l’unica che protegge il Piemonte e che può servire come base di operazioni offensive contro la Lombardia e i Ducati. Essa ha però il difetto di non essere affatto profonda, sI che può essere sia aggirata che sfondata con un attacco frontale, condizione questa molto sfavorevole; un attacco potente e abile la ridurrebbe ben presto al campo trincerato di Alessandria, ancora  incompleto: e manca ogni punto d’appoggio per valutare quanto quest’ultimo libererebbe i difensori dalla necessità di battersi in condizioni sfavorevoli, poiché non si conoscono né le fortificazioni più recenti né il grado di completezza da esse raggiunto. L’importanza di questa posizione per la difesa del Piemonte da attacchi provenienti da oriente era stata già riconosciuta da Napoleone, che di conseguenza aveva fatto nuovamente fortificare Alessandria. Gli avvenimenti del 1814 non confermarono la forza difensiva del luogo: quanto esso valga oggi, avremo forse presto occasione di vedere.

La seconda posizione che rappresenta per il Veneto, di fronte ad attacchi provenienti da occidente, ciò che Alessandria rappresenta per il Piemonte, e anche molto di più, è quella del Mincio e dell’Adige. Uscendo dal lago di Garda, il Mincio scorre per quattro miglia fino a Mantova in direzione sud, si allarga presso Mantova fino a formare una specie di lago circondato da paludi e scorre quindi in direzione sud-ovest fino al Po. Il tratto del corso tra le paludi mantovane e lo sbocco è troppo breve per servire al passaggio di un’armata, in quanto il nemico, sbucando da Mantova, potrebbe prendere l’armata alle spalle e costringerla alla battaglia nelle condizioni più sfavorevoli. Un aggiramento dal sud dovrebbe compiere un giro più ampio e attraversare il Po a Revere o a Ferrara. Dalla parte settentrionale la posizione del Mincio è protetta dall’aggiramento per un lungo tratto dal lago di Garda, si che la linea del Mincio che bisogna effettivamente difendere, da Mantova a Peschiera, è lunga solo 4 miglia e su ciascuno dei fianchi si appoggia a una fortezza, che assicura una via d’uscita sulla riva destra, Il Mincio stesso non è un ostacolo notevole e le rive si sovrastano vicendevolmente secondo la località; per questo la linea, prima del ‘48, aveva in certo modo una cattiva fama e, se non fosse stata notevolmente rafforzata in virtù di una particolare circostanza, difficilmente sarebbe diventata molto celebre. Ma questa particolare circostanza è che 4 miglia più a monte scorre l’Adige, il secondo fiume dell’Alta Italia, con un arco quasi parallelo al Mincio e al corso inferiore del Po, formando così una seconda, più forte posizione, che è rafforzata dalle due fortezze sull’Adige, Verona e Legnago. Le due linee fluviali, con le loro quattro fortezze, costituiscono insieme, per un esercito tedesco o austriaco attaccato dall’Italia o dalla Francia, una posizione difensiva così forte che nessun’altra in Europa può esserle paragonata, e tale che un esercito, che possa ancora entrare in campo dopo aver costituito delle guarnigioni, può, in questa posizione, affrontare tranquillamente l’assalto di una forza due volte maggiore. Che cosa valga questa posizione, lo ha dimostrato Radetzky nel 1848. Dopo la rivoluzione di marzo a Milano78 la diserzione dei reggimenti italiani e il passaggio del Ticino da parte dei piemontesi, egli si ritirò con il resto delle sue truppe, circa 45.000 uomini, verso Verona. Dopo la ritirata delle guarnigioni, forti di 15 mila uomini, gli rimanevano disponibili poco più di 30.000 uomini all’incirca. Di fronte a lui stavano tra il Mincio e l’Adige 60.000 piemontesi, toscani, modenesi e parmigiani. Alle sue spalle faceva la sua comparsa l’armata di Durando, formata da circa 45.000 uomini tra truppe papaline, napoletane e volontari79. Gli era rimasto soltanto il collegamento attraverso il Tirolo e anche questo era minacciato, sebbene soltanto lievemente, dai volontari lombardi. Tuttavia Radetzky resistette. La guardia dinanzi a Peschiera e a Mantova distolse ai piemontesi tante truppe che essi poterono presentarsi il 6 maggio all’assalto della posizione di Verona (battaglia di Santa Lucia) soltanto con quattro divisioni, da 40 a 45.000 uomini; Radetzky poté impiegare, con la guarnigione di Verona, 36.000 uomini. L’equilibrio sul campo di battaglia, se si tiene conto della forte posizione difensiva tattica degli austriaci, era ristabilito e i piemontesi furono battuti. La controrivoluzione del 15 maggio a Napoli liberò Radetzky della presenza dei 15.000 napoletani80 e ridusse l’esercito del retroterra veneto a circa 30.000 uomini, dei quali però soltanto 5.000 svizzeri pontifici e circa altrettanti italiani facenti parte delle truppe di linea pontificie potevano essere impiegati in campo aperto; il resto era costituito da volontari. L’armata di riserva di Nugent, che si era costituita nell’aprile sull’Isonzo, si apri facilmente il varco attraverso queste truppe e si riunì il 25 maggio con Radetzky a Verona, forte di circa 20.000 uomini. Ora il vecchio feldmaresciallo poteva finalmente uscire dalla difesa passiva. Per liberare Peschiera, assediata dai piemontesi, e per creare intorno a sé più spazio libero, egli intraprese la famosa marcia di fianco verso Mantova con l’intero suo esercito (27 maggio); sboccò di qui il 29 sulla riva destra del Mincio, assalì la linea nemica a Curtatone, e avanzò il 30 contro Goito, alle spalle e sui fianchi degli italiani. Ma in quello stesso giorno cadeva Peschiera; il tempo era sfavorevole, e Radetzky non si sentiva ancora abbastanza forte per una battaglia decisiva. Marciò dunque di nuovo il 4 giugno attraverso Mantova in ritirata verso l’Adige, inviò il corpo di riserva a Verona e si diresse con il resto delle sue truppe attraverso Legnago verso Vicenza, che era stata fortificata da Durando e da lui occupata con 17.000 uomini. Il 10 attaccò Vicenza con
30.000 uomini, l’11 Durando capitolava dopo la valorosa difesa. Il secondo corpo d’armata (d’Aspre) occupò Padova, l’alta valle del Brenta e in generale la terraferma veneziana e poi raggiunse il primo a Verona; una seconda armata di riserva sotto Welden si avvicinava dall’Isonzo. Durante questo tempo e fino al momento decisivo della campagna, i piemontesi concentrarono, con superstiziosa ostinazione, tutta la loro attenzione sull’altipiano di Rivoli, che essi mostravano di ritenere, dal tempo della vittoria di Napoleone, la chiave dell’Italia, ma che nel 1848 in realtà non aveva più alcuna importanza, da quando gli austriaci si erano di nuovo aperta una sicura comunicazione col Tirolo, attraverso la Vallarsa, e soprattutto anche la comunicazione diretta con Vienna, attraverso l’Isonzo. Nello stesso tempo però bisognava fare anche qualche cosa contro Mantova; essa fu quindi bloccata dalla parte destra del Mincio, operazione questa che non poteva avere nessun altro scopo che quello di documentare la perp dominante nel campo piemontese, di sparpagliare l’esercito per tutto  il tratto lungo otto miglia, da Rivoli a Borgoforte, e per di più di dividerlo per mezzo del Mincio in due tronconi che non potevano aiutarsi reciprocamente.

Quando dunque fu fatto il tentativo di bloccare Mantova anche dalla riva sinistra, Radetzky, che frattanto aveva riunito a sé i 12.000 uomini di Welden, si decise a sfondare lo schieramento piemontese nel suo centro indebolito e a battere quindi singolarmente le truppe che si andavano raccogliendo. Il 22 luglio fece attaccare Rivoli, che i piemontesi sgomberarono il 23; il 23 avanzò egli stesso da Verona con 40.000 uomini contro la posizione di Sona e Sommacampagna, difesa soltanto da 14.000 piemontesi, la prese e sconvolse così l’intero schieramento nemico. L’ala sinistra piemontese fu respinta interamente al di là del Mincio il 24, e l’ala destra, che si era nel frattempo concentrata e marciava contro gli austriaci, fu sconfitta il 25 a Custoza; il 26 l’intero esercito austriaco passò il Mincio e batté ancora una volta i piemontesi a Volta. Con ciò la campagna era terminata; subito dopo, senza opporre resistenza, i piemontesi passarono di nuovo al di là del Ticino.

Questa breve narrazione della campagna del 1848 di mostra in modo più convincente di tutte le ragioni teoriche la forza della posizione del Mincio e dell’Adige. Giunti nel quadrilatero tra le quattro fortezze, i piemontesi dovettero distaccare tante truppe, che la loro offensiva, come dimostra la battaglia di Santa Lucia, ne era già spezzata, mentre Radetzky, non appena giunsero i primi rinforzi, si poté muovere in piena libertà tra le fortezze, prendere come base ora Mantova, ora Verona, oggi minacciare sulla riva destra del Mincio le spalle del nemico e pochi giorni dopo assalire Vicenza, e mantenere costantemente la iniziativa delle operazioni. I piemontesi hanno commesso certamente errori sopra errori; ma è proprio la forza di una posizione che mette il nemico in difficoltà e quasi lo costringe a commettere degli errori. La guardia, non più l’assedio, alle singole fortezze lo costringe a dividersi, a indebolire la forza offensiva che ha a sua disposizione: i fiumi lo costringono a raddoppiare questa divisione e pongono i suoi corpi d’armata, così divisi, più o meno nell’impossibilità di venirsi reciprocamente in aiuto. Quali enormi forze ci vogliono per assediare Mantova quando un’armata pronta alla battaglia può ad ogni momento irrompere dai forti avanzati di Verona!

Mantova da sola nel 1797 fu in grado di fermare l’esercito vittorioso del generale Bonaparte. Soltanto due volte una fortezza riuscì ad incutergli rispetto: Mantova e, dieci anni più tardi, Danzica. Tutta la seconda parte della campagna del 1797 — Castiglione, Medole, Calliano, Bassano, Arcole, Rivoli81 — ha come centro Mantova, e solo dopo che questa fortezza è caduta il vincitore osa avanzare verso oriente e al di là dell’Isonzo. Allora Verona non era fortificata; nel 1848, della fortezza di Verona era pronto soltanto il muro di cinta sulla riva destra dell’Adige e la battaglia di Santa Lucia fu combattuta sul terreno nel quale subito dopo sono state costruite le ridotte austriache, e in seguito i forti avanzati permanenti; solo in tal modo il campo trincerato di Verona diventa il nucleo, il ridotto di tutta la posizione, che ha guadagnato così enormemente in potenza...

Supponiamo che l’intera Italia sia indipendente, unita e alleata con la Francia per una guerra offensiva contro la Germania. Da tutto ciò che abbiamo detto finora deriva che, in questo caso,  la  linea  di  operazioni  e  di  ritirata  dei  tedeschi  non  sarebbe  la  Vienna-Klagenfurt-Treviso ma quella Monaco-Innsbruck-Bolzano e Monaco-Fϋssen-Finstermϋnz- Glurns; e che i loro punti di sbocco nella pianura lombarda sono situati tra la Valsugana e il confine svizzero. Qual è dunque il punto d’attacco decisivo? Evidentemente quella parte dell’Alta Italia che mette in comunicazione la penisola con il Piemonte e la Francia, il medio corso del Po da Alessandria a Cremona. Ma i passi tra il lago di Garda e il lago di Como sono tali da permettere largamente ai tedeschi l’avanzata in questo territorio e da tener loro aperta la ritirata per la stessa via, nel peggiore dei casi attraverso il passo dello Stelvio. In questo caso le fortezze del Mincio e dell’Adige, che abbiamo presupposto essere in possesso degli italiani, sarebbero lontane dal campo di battaglia decisiva. La sistemazione di una guarnigione nel campo trincerato di Verona con relative forze, sufficienti per l’offensiva, sarebbe soltanto un’inutile dispersione di forze da parte del nostro nemico. Oppure si aspetta che gli italiani in massa sbarrino ai tedeschi la valle dell’Adige sul prediletto altipiano di Rivoli? Da quando è stata costruita la via dello Stelvio (attraverso il passo dello Stelvio) lo sbocco della valle dell’Adige ha perduto molta della sua importanza. Ma, dato il caso che Rivoli dovesse figurare di nuovo come la chiave dell’Italia e che la forza di attrazione costituita dall’esercito italiano così accampato fosse sufficiente a spingere i tedeschi a compiere l’attacco, a che cosa servirebbe allora Verona? Essa non chiude la valle dell’Adige, altrimenti la marcia degli italiani verso Rivoli sarebbe superflua. Per coprire la ritirata in caso di una sconfitta, è sufficiente Peschiera, che offre un passaggio sicuro del Mincio e che quindi assicura l’ulteriore marcia verso Mantova o Cremona. Uno schieramento di massa di tutte le forze combattenti italiane tra le quattro fortezze, come per aspettare qui l’arrivo dei francesi senza dover essere provocate a battaglia, dividerebbe però fin dall’inizio della campagna le forze avversarie in due tronconi e si renderebbe possibile di fare impeto con le forze riunite sulla loro linea di congiungimento, prima contro i francesi, e, dopo aver battuto questi, di intraprendere il processo, certamente un po’ lungo, di sloggiamento degli italiani dalle loro fortificazioni. Una terra come l’Italia, il cui esercito nazionale è posto immediatamente, nel caso di un attacco da nord e da oriente che abbia successo, nel dilemma di dover scegliere come base o il Piemonte o la penisola, un paese siffatto deve evidentemente avere i suoi grandi impianti difensivi nella regione in cui l’esercito può trovarsi di fronte a questo dilemma. La confluenza del Ticino e dell’Adda nel Po offre qui dei punti di appoggio. Il generale von Willisen (Campagna d’italia del 1848)82 voleva che ambedue questi punti fossero fortificati dagli austriaci. A parte il fatto che questo già non va, perché essi non possiedono la zona necessaria (presso Cremona la riva destra del Po è di Parma, e a Piacenza essi hanno soltanto il diritto di guarnigione), per di più ambedue questi punti sono troppo avanzati per costituire un’importante posizione difensiva, in un paese in cui gli austriaci saranno circondati in ogni guerra da insurrezioni; inoltre Willisen, il quale non può vedere due fiumi congiungersi senza far subito dei piani per un campo trincerato, dimentica che né il Ticino né l’Adda sono linee che offrono possibilità di difesa e quindi, anche secondo la sua opinione, non proteggono il territorio retrostante. Ma quello che sarebbe per gli austriaci un inutile spreco, è per gli italiani indubbiamente una buona posizione. Per loro il Po è la linea principale di difesa; il triangolo Pizzighettone-Cremona-Piacenza con Alessandria a sinistra e Mantova a destra, sarebbe un’efficace difesa di questa linea e permetterebbe all’esercito sia di attendere coperto l’arrivo di alleati stranieri, sia anche, se si dà il caso, di avanzare all’offensiva nella pianura, che è di importanza decisiva, tra la Sesia e l’Adige.

Il generale von Radowitz così si espresse all’Assemblea nazionale di Francoforte83 se la Germania non possedesse più la linea del Mincio, essa sarebbe respinta nella posizione in cui si verrebbe a trovare ora soltanto dopo una campagna militare completamente sfortunata. La guerra sarebbe allora immediatamente trasferita in territorio tedesco; essa comincerebbe sull’Isonzo e nel Tirolo italiano e tutto il territorio tedesco meridionale fino alla Baviera sarebbe aggirato, così che anche in Germania la guerra dovrebbe essere combattuta sull’Isar invece che sull’alto Reno.

Il generale von Radowitz mostra di avere giudicato abbastanza giustamente le cognizioni militari del suo pubblico. È giusto: se la Germania abbandona la linea del Mincio essa rinuncia a tanto terreno e a tante posizioni quante ai francesi e gli italiani ne frutterebbe una campagna completamente fortunata. Ma anche così la Germania è ancora lungi dall’essere respinta nella posizione in cui la metterebbe una campagna sfortunata; oppure forse un forte, intatto esercito tedesco, che si raduna ai piedi delle Alpi bavaresi e marcia attraverso i passi del Tirolo per entrare in Lombardia, è nelle stesse condizioni di un esercito scompaginato e demoralizzato da una campagna sfortunata, che si affretta al Brennero braccato dal nemico? Le possibilità di successo che offre un’offensiva sferrata da una posizione che domina da parecchi punti di vista il punto di congiungimento tra francesi e italiani sono forse uguali a quelle che ha un esercito sconfitto di riportare la sua artiglieria al di là delle Alpi? Prima di avere la linea del Mincio, abbiamo occupato l’Italia assai più volte che da quando l’abbiamo; chi vorrà mettere in dubbio che, in caso di bisogno, possiamo ripetere ancora una volta il giuoco?

Per quanto poi concerne il punto che senza la linea del Mincio la guerra sarebbe condotta immediatamente in Baviera e in Carinzia, anche questo non è esatto. Tutta la nostra esposizione tende a dimostrare che senza la linea del Mincio la difesa del confine meridionale tedesco può avvenire soltanto passando all’offensiva. A ciò porta la natura montagnosa delle province tedesche di confine, che non possono servire come campo di battaglia decisivo; a ciò porta la posizione favorevole dei passi alpini. Il campo di battaglia giace nelle pianure davanti ad essi. Là noi dobbiamo discendere e questo non ce lo può impedire nessuna potenza sulla terra. Una premessa più favorevole all’offensiva di quella che ci viene offerta qui, nel caso più sfavorevole di un’alleanza franco-italiana non è facile immaginarla. Essa può essere appoggiata dal miglioramento delle strade alpine e da fortificazioni agli incroci stradali nel Tirolo, capaci d’opporre, in caso di ritirata, una resistenza sufficiente se non a fermare completamente il nemico, almeno a costringerlo a distaccare notevoli forze per proteggere i suoi collegamenti. Per quanto riguarda le strade alpine, tutte le guerre combattute nelle Alpi ci dimostrano che anche la maggior parte delle principali vie prive di fondo stradale e molte mulatterie sono valicabili per tutte le specie di armi, senza straordinaria fatica. Date queste circostanze, un’offensiva tedesca nella Lombardia dovrebbe essere preparata veramente in modo da avere tutte le probabilità di successo. Certamente noi potremmo tuttavia essere sconfitti; e allora si verificherebbe il caso di cui parla Radowitz. Che cosa accadrebbe con Vienna scoperta e la Baviera minacciata di aggiramento attraverso il Tirolo?

In primo luogo è chiaro che nessun battaglione nemico può ardire di attraversare l’Isonzo finché l’esercito tedesco del Tirolo non è stato respinto interamente e irrimediabilmente al di là del Brennero. Dal momento in cui la Baviera costituisce la base di operazioni tedesca contro l’Italia, da quel momento una offensiva italo-francese in direzione di Vienna non ha in verità nessuno scopo, essa sarebbe una inutile dispersione di forze. Ma anche dato che Vienna fosse ancora un centro così importante che valesse la pena per il nemico di distaccare le forze principali del suo esercito per conquistarla, ciò dimostra semplicemente che Vienna deve essere fortificata. L’avanzata di Napoleone nel 1797, le invasioni dell’Italia e della Germania nel 1805 e nel 1809 sarebbero potute finire molto male per i francesi, se Vienna fosse stata fortificata. Un’offensiva lanciata da tali distanze corre sempre il pericolo di liquidare le sue ultime forze di fronte a una capitale fortificata. Del
resto, anche ammesso che il nemico abbia rigettato al di là del Brennero  l’esercito tedesco, quale margine di superiorità dovrà presupporsi per rendere possibile un’efficace dislocazione di forze nell’interno dell’Austria!

Ma come vanno le cose per quanto riguarda l’aggiramento dell’intera Germania meridionale attraverso l’Italia? In realtà, se la Lombardia aggira la Germania fino a Monaco, quanto allora la Germania aggira l’Italia? In ogni caso almeno fino a Milano e Pavia. Le possibilità fin qui sono dunque uguali. Ma, in virtù dell’ampiezza molto maggiore della Germania, un esercito che si trovi sull’alto Reno, e che venga «aggirato» attraverso l’Italia in direzione di Monaco, non avrebbe bisogno per questo di ritirarsi immediatamente. Un campo trincerato nell’alta Baviera o una temporanea fortificazione di Monaco, raccoglierebbe l’armata del Tirolo battuta e arresterebbe ben presto l’offensiva del nemico avanzante, mentre all’armata dell’alto Reno rimarrebbe la possibilità di scegliere come basi di operazioni Ulma e Ingolstadt oppure il Meno, e quindi, nel caso peggiore, di cambiare la base di operazioni. In Italia, invece, tutto è diverso. Se un esercito italiano viene aggirato ad occidente attraverso i passi del Tirolo, non resta altro che scacciarlo dalle sue fortezze e tutta l’Italia è conquistata. La Germania in una guerra contro Francia e Italia unite ha sempre più eserciti, almeno tre, e la vittoria o la sconfitta dipende dal risultato complessivo di tutte e tre le campagne. L’Italia offre spazio per un solo esercito; ogni divisione sarebbe un errore; e se questo solo esercito è annientato, l’Italia è così conquistata. Per un esercito francese in Italia le comunicazioni con la Francia sono in ogni caso la cosa principale; e non appena questa linea di comunicazioni non è più limitata al Col di Tenda e a Genova, tosto essa offre il fianco ai tedeschi che sono nel Tirolo e ciò avviene tanto più, quanto più avanti i francesi si spingono in Italia. Il caso di una irruzione dei francesi e degli italiani in Baviera attraverso il Tirolo deve essere in verità previsto dal momento in cui vengono nuovamente condotte in Italia guerre tedesche e la base delle operazioni risulta spostata dall’Austria alla Baviera. Ma, con adatte opere di fortificazione, costruite secondo il principio moderno per cui le fortezze ci sono per servire agli eserciti, e non gli eserciti per servire alle fortezze, la punta di questa invasione può essere spezzata molto più facilmente che quella di una invasione tedesca in Italia. E perciò non c’è bisogno di farsi uno spauracchio di questo cosìddetto «aggiramento» di tutta la Germania meridionale. Il nemico che aggiri un’armata tedesca dell’alto Reno attraverso l’Italia e il Tirolo, deve avanzare fino al mar Baltico prima di poter godere dei frutti di questo aggiramento. La marcia di Napoleone da Jena a Stettino84 difficilmente però può essere ripetuta nella direzione Monaco-Danzica.

Noi non contestiamo in nessun modo che la Germania, se abbandona la linea dell’Adige e del Mincio, rinuncia ad una posizione difensiva molto forte. Ma che questa posizione sia necessaria per la sicurezza del confine meridionale tedesco, questo noi lo contestiamo assolutamente. Certamente se si parte, come sembra che facciano i sostenitori della opposta opinione, dal presupposto che un esercito tedesco venga battuto ogni volta che si fa vedere, allora si può pensare che l’Adige, il Mincio e il Po ci siano assolutamente necessari. Ma allora in verità non ci possono servire più a nulla; allora non ci sono d’aiuto nè fortezze né eserciti, allora non ci resta altro da fare che passare subito sotto le forche caudine85. Noi abbiamo un’opinione diversa della forza militare della Germania e siamo perciò completamente paghi di vedere il nostro confine meridionale garantito dai vantaggi che esso offre per un’offensiva in territorio lombardo.

Ma qui entrano in gioco anche considerazioni politiche che non possiamo lasciare da parte. Dal 1820 86 in poi il movimento nazionale in Italia è uscito ringiovanito e più potente da ogni sconfitta. Ci sono pochi paesi i cui cosìddetti confini naturali corrispondano così fedelmente ai confini della nazionalità e siano insieme così netti. Una volta che in un tale paese, che per di più conta 25 milioni di abitanti, il movimento nazionale si è rafforzato, esso non può più aver pace, finché una parte del paese, tra le migliori e più importanti politicamente e militarmente, e con essa circa un quarto dell’intera popolazione, è soggetta a una dominazione straniera e antinazionale. Dal 1820 l’Austria regna in Italia ormai soltanto con la violenza, con la repressione di ripetute insurrezioni, col terrore dello stato d’assedio. Per mantenere la sua dominazione in Italia è necessario  all’Austria trattare i suoi avversari politici, cioè ogni italiano che si senta italiano, peggio dei delinquenti comuni. La maniera in cui sono stati trattati, e qua e là ancora vengono trattati, i prigionieri politici italiani da parte dell’Austria, è inaudita nei paesi civili. Con particolare predilezione gli austriaci hanno cercato di coprire d’infamia i rei di delitti politici in Italia trattandoli col bastone, sia col fine di spremerne confessioni sia con il pretesto della pena. Fiumi di indignazione morale sono stati versati sul pugnale italiano, sull’assassinio politico; ma sembra ci si sia completamente dimenticati che è stato il bastone austriaco a provocarlo. I mezzi dei quali si deve servire l’Austria per mantenere la sua dominazione in Italia sono la migliore dimostrazione che questa dominazione non può durare più a lungo. La Germania che, nonostante Radowitz, Willisen e Hailbronner, non ha per quella dominazione lo stesso interesse dell’Austria, la Germania è certamente messa nella condizione di domandarsi se poi questo interesse sia abbastanza grande da controbilanciare i numerosi svantaggi che ad essa sono legati.

L’Alta Italia è un’appendice che alla Germania in ogni caso serve soltanto in guerra, ma che in pace può esserle solo di danno. Gli eserciti necessari a mantenerne il possesso sono divenuti dal 1820 in poi sempre più numerosi e dal 1848, nella pace più completa, raggiungono i 70.000 uomini, che si trovano continuamente come in terra nemica, e debbono a ogni momento aspettarsi un attacco. La guerra del 1848-49 e l’occupazione dell’Italia fino ad oggi, nonostante il pagamento dell’indennità di guerra da parte del Piemonte, i ripetuti contributi lombardi, i prestiti forzosi e le imposte straordinarie, è costata all’Austria evidentemente molto di più di quel che l’Italia non le abbia fruttato dal 1848. E tuttavia dal 1848 al 1854 il paese è stato sistematicamente trattato come un possedimento puramente provvisorio, dal quale si prende tutto quel che si può prima di sgomberarlo. Soltanto a partire dalla Guerra d’oriente87 la Lombardia è tornata per un paio d’anni a condizioni meno anormali; ma quanto durerà tutto questo, con le attuali complicazioni, ora che il sentimento nazionale italiano di nuovo pulsa con tanta violenza?

Ma, cosa molto più importante, il possesso della Lombardia vale tutto l’odio, tutta la fanatica ostilità che ci ha attirato in tutta l’Italia? Vale la corresponsabilità nelle misure punitive con cui l’Austria — nel nome e nell’interesse della Germania, come ci viene assicurato — rafforza colà la sua dominazione? Vale esso le continue intromissioni nelle faccende interne del resto d’Italia, senza le quali, secondo la prassi fin qui seguita e secondo le assicurazioni austriache, la Lombardia non può essere mantenuta, e che rendono sempre più acceso l’odio degli italiani contro di noi tedeschi? In tutte le considerazioni militari fatte fin qui abbiamo sempre presupposto il caso peggiore, quello di una alleanza della Francia con l’Italia. Fintanto che noi manteniamo il possesso della Lombardia, l’Italia è senza dubbio l’alleata della Francia in ogni guerra francese contro la Germania. Appena noi l’abbandoniamo, questo viene a cessare. Ma è nostro interesse mantenere quattro fortezze e con questo assi curare a noi la fanatica inimicizia e ai francesi l’alleanza di 25 milioni di italiani?

Le interessate dicerie sull’incapacità politica degli italiani e sulla loro vocazione ad esser soggetti alla dominazione tedesca o a quella francese, così come le diverse congetture sulla possibilità o meno di un’Italia unita, ci sembrano piuttosto sorprendenti in bocca a tedeschi. Quanto tempo è che noi, la grande nazione tedesca, che conta il doppio degli abitanti dell’Italia, siamo sfuggiti alla «vocazione» ad esser soggetti o ai francesi o ai russi? Ed è stata fino ad oggi risolta in pratica la questione dell’unità o non unità della Germania? Non siamo noi in questo momento, secondo ogni probabilità, alla vigilia di avvenimenti che matureranno una decisione su questi due problemi per il nostro avvenire? Abbiamo dimenticato completamente Napoleone ad Erfurt o l’appello austriaco alla Russia alle conferenze di Varsavia o la battaglia di Bronnzell88?

Vogliamo per un momento ammettere che l’Italia debba rimanere sotto l’influenza o tedesca o francese. In questo caso, al di fuori delle simpatie, decide soprattutto ancora la situazione geografico:militare dei due paesi che esercitano questa influenza. Vogliamo ammettere che le forze militari della Francia e della Germania siano eguali, sebbene la Germania evidentemente possa essere molto più forte. Ma noi crediamo di aver dimostrato che, nel più favorevole dei casi, se cioè rimangono aperti ai francesi il Vallese e il Sempione, la loro influenza militare diretta comprende solo il Piemonte, ed essi debbono prima vincere una battaglia per estenderla al territorio posto più innanzi, mentre la nostra influenza si estende su tutta la Lombardia e sul punto di collegamento tra il Piemonte e la penisola; e per toglierci questa influenza bisogna prima sconfiggerci. Ma, dove esiste una tale disposizione geografica alla dominazione, l’influenza della Germania non ha nulla da temere dalla concorrenza francese.

Il generale Hailbronner diceva recentemente nella Augsburger Abendszeitung  press’a poco così: la Germania ha ben altra missione che quella di servire da parafulmine contro la tempesta che si addensa sul capo della dinastia bonapartista. Con lo stesso diritto gli italiani possono dire: l’Italia ha ben altra missione che quella di servire da cuscinetto ai tedeschi contro i colpi che sferra loro la Francia e di riceverne come ringraziamento delle bastonate dagli austriaci. Ma se la Germania ha interesse a mantenere un tale cuscinetto, ciò può avvenire in ogni modo molto meglio se essa sta in buoni rapporti con l’Italia, se rende giustizia al movimento nazionale e lascia agli italiani le cose d’Italia finché essi non si immischiano nelle cose tedesche. L’opinione di Radowitz che, se l’Austria se ne va oggi, domani la Francia debba avere il dominio dell’Alta Italia, era a suo tempo così poco fondata come ancora lo era tre mesi fa, così come stanno le cose oggi, sembra che essa debba diventare una realtà, ma nel senso opposto a quello di Radowitz. Se i 25 milioni di italiani non possono mantenere la loro indipendenza, tanto meno lo dovrebbero i due milioni di danesi, i quattro milioni di belgi, i tre milioni di olandesi. Ciò nondimeno noi non sentiamo i difensori della dominazione tedesca in Italia lamentarsi per la dominazione francese o svedese su questi paesi e pretendere che venga sostituita da una dominazione tedesca.

Per quanto riguarda la questione dell’unità noi pensiamo: o l’Italia può diventare unita, e allora essa avrà una propria politica, che necessariamente non sarà né tedesca né francese e quindi non potrà essere più dannosa a noi che ai francesi; o essa rimane divisa, e allora la divisione ci assi cura degli alleati in Italia in ogni guerra contro la Francia.

Ad ogni modo questo è certo: sia che noi abbiamo la Lombardia o no, avremo sempre una notevole influenza in Italia, finché saremo forti in casa nostra. Se noi lasciamo che l’Italia sbrighi da sé i propri affari, verrà meno da sé l’odio degli italiani contro di noi e la nostra naturale influenza su di loro diventerà in ogni modo molto più notevole e può anche arrivare, a certe condizioni, a una vera e propria egemonia. Invece dunque di cercare la nostra forza nel possesso di territorio straniero e nell’oppressione di una nazionalità straniera, alla quale soltanto il pregiudizio può negare la possibilità di un avvenire, faremo meglio a preoccuparci di essere uniti e forti in casa nostra.

Note

74 Si veda la nota 66.

75 Si tratta del Sacro Romano Impero costituitosi nella metà del X sec, ed esistito formalmente fino al 1806. Nei sec. XI-XIII gli imperatori germanici condussero accanite lotte contro Roma per il dominio sull’Italia.

76 La guerra dei sette anni (1756-1763), tra le due coalizioni europee: anglo-prussiana, da una parte, e franco-russo-austriaca, dall’altra. Provocata dallo scontro degli interessi delle potenze feudali-assolutistiche (Prussia, Austria, Russia, Francia) e le aspirazioni colonialistiche delle rivali Francia e Inghilterra, finì con l’espansione dell’Impero coloniale britannico a spese dei possedimenti francesi e con l’aumento  della potenza della Russia; Austria e Prussia nel complesso rimasero nell’ambito delle rispettive frontiere.

77 Il termine usato da A. Jomini nei suo libro Précis de l’art de la guerre, ou Nouveau tableau analytique des principales combinaisons de la stratégie, de la grande tactique et la politique militaire (Compendio dell’arte della guerra, ossia Nuova tabella analitica di combinazioni principali della strategia, della grande tattica e della politica militare). La prima edizione fu stampata a Parigi nel 1838.

78 Si veda la nota 55.

79 Nel marzo 1848 sotto la pressione delle masse popolari sollevatesi in tutta l’Italia contro il dominio austriaco, Pio IX e Ferdinando Il, re di Napoli, furono costretti a mandare truppe nell’Italia settentrionale. Però la loro missione liberatrice risultò quanto mai breve, in quanto ben presto tradirono gli interessi della rivoluzione italiana.

80 Il 15 maggio 1848 Ferdinando Il, re di Napoli, promosse un colpo di Stato controrivoluzionario e represse atrocemente la rivolta del popolo napoletano. Le truppe napoletane che si trovavano in Lombardia per appoggiare l’esercito rivoluzionario furono richiamate a Napoli, il che facilitò di molto la situazione delle truppe austriache nell’Italia settentrionale.

81 Qui sono elencate le battaglie della campagna italiana di Bonaparte (1796-1797) che ebbero luogo nel corso dell’assedio di Mantova (si veda la nota 65): presso Medola gli austriaci furono sconfitti dai francesi; presso Bassano (8 settembre 1796) Bonaparte sgominò le truppe austriache guidate da Whϋirmser; dopo la battaglia di Calliano (6 novembre 1796) le truppe francesi furono respinte verso Rivoli.

82 W. Willisen. Der italienische Feldrzug des Jahres 1848. Berlino, 1849.

83 Si veda la nota 10.

 84 Si tratta dell’avanzata impetuosa e quasi ininterrotta delle truppe di Napoleone in Prussia subito dopo la vittoria di Jena e Auerstadt (14 ottobre 1806). Già il 28 ottobre i francesi entrarono a Stettino.
 85 NeI 321 a.C. presso Candio i Sanniti sbaragliarono i Romani e li fecero passare sotto le forche caudine. Quel termine da allora fu il simbolo della massima umiliazione, soprattutto morale, dopo un insuccesso.

 86 Si tratta degli avvenimenti rivoluzionari italiani all’inizio degli anni ‘20 del XIX sec. Nel luglio 1820, a Napoli, i carbonari alzarono la bandiera della rivolta contro l’assolutismo e ottennero la promulgazione di una Costituzione moderata e liberale. Nel marzo 1821 si ebbe la rivoluzione in Piemonte. I liberali proclamarono la Costituzione e tentarono di sfruttare il movimento antiaustriaco nell’Italia settentrionale per unificare il paese sotto l’egida della dinastia dei Savoia. In seguito all’intervento delle potenze della Santa Alleanza e dopo l’occupazione di Napoli e del Piemonte da parte delle truppe austriache, in tutti e due gli Stati fu restaurato l’assolutismo.

87 Si tratta della Guerra di Crimea (1853-1856), nella quale l’Inghilterra, la Francia, la Turchia e il Piemonte sconfissero la Russia.

88 Verso l’autunno del 1808, quando Napoleone I arrivò a Erfurt per le trattative con l’imperatore russo Alessandro I, quasi tutta la Germania era già stata soggiogata dalla Francia e solo l’Austria continuava ad oppone resistenza. I principi tedeschi, radunatisi a Erfurt per giurare fedeltà a Napoleone, acconsentirono alla- richiesta di scendere in guerra contro l’Austria.
Nel maggio e nell’ottobre 1850, su iniziativa dell’imperatore russo e in relazione all’acutizzarsi della lotta tra Austria e Prussia per l’egemonia in Germania, a Varsavia si tennero delle conferenze cui parteciparono Russia, Austria e Prussia e nel corso delle quali l’imperatore russo svolse una funzione di arbitro nella contesa tra Austria e Prussia e, facendo uso della sua influenza, impose a quest’ultima di rinunciare ai tentativi di creare l’unione politica degli Stati tedeschi sotto la sua egida.
La battaglia di Bronnzell qui viene ironicamente chiamato uno scontro di poco conto tra i due distaccamenti d’avanguardia austriaco e prussiano, avvenuto l’8 novembre 1850 nel corso della rivolta di Kurgessen (Gessen-Kassel). Sia la Prussia che l’Austria si contestavano il diritto d’intervenire negli affari interni di Kurgessen allo scopo di reprimere la rivolta. Ma l’Austria di nuovo ebbe l’appoggio della Russia e la Prussia dovette cedere.


Scritto tra la fine di febbraio e i primi di marzo 1859. Pubblicato in opuscolo a Berlino nell’aprile 1859



F. Engels

Da: L’inevitabilità della guerra

Il re di Napoli [Ferdinando II] è moribondo. Nel regno c’è viva agitazione: alcuni parlano di una Costituzione, altri di un sollevamento dei partigiani di Murat. La cosa più probabile è la formazione di un ministero con alla testa Filangieri, duca di Satriano, che rappresenta un assolutismo illuminato di stampo prussiano. Un tale sistema però non può essere di lunga durata di fronte alla crisi italiana e molto presto dovrebbe cedere il posto prima ad una Costituzione e poi anche ad una ribellione in Sicilia, durante la quale i partigiani di Murat pescherebbero nel torbido.


Scritto intorno all’11 aprile 1859.

Pubblicato sulla New York Daily Tribune n. 5624, 30 aprile 1859


F. Engels

Le prospettive della guerra89

Non abbiamo creduto necessario rispondere alle svariate e facili critiche che ci sono state mosse negli ultimi due mesi, qual volta ci siamo azzardati a discutere le risorse e le condizioni strategiche esistenti alla vigilia della grande e sanguinosa guerra in cui l’Europa è attualmente coinvolta. Ma negli ampi particolari di cui sono oggi piene le nostre pagine [New York Tribune] — che offrono un quadro impressionante delle prime scene di questo spaventoso e appassionante dramma — troviamo tuttavia una giustificazione delle nostre opinioni così completa e persino così circostanziata e, nello stesso tempo, così atta ad interessare il pubblico, che possiamo a buon diritto richiamare l’attenzione sull’argomento.

Non meno di due mesi fa indicavamo l’offensiva come il vero metodo di difesa dell’Austria90. Affermavamo che gli austriaci, avendo il loro esercito d’Italia ben concentrato vicino alle posizioni difensive piemontesi e perfettamente pronto ed equipaggiato per l’azione, avrebbero commesso un grave errore se non avessero approfittato di questa superiorità momentanea sui loro nemici ancora dispersi entrando immediatamente nel territorio sardo, battendo prima l’esercito sardo e poi marciando contro i francesi, che devono attraversare le Alpi divisi in diverse colonne e correre quindi il rischio di essere battuti una colonna dopo l’altra. Questa nostra illazione suscitò un gran numero di commenti discordanti da parte di vari critici più o meno illustri, più o meno versati in strategia; ma il nostro giudizio è stato confermato da tutti gli esperti di cose militari che hanno scritto sull’argomento, e infine si è visto che della stessa opinione sono anche generali austriaci. E basta su questo punto.

Ora che la guerra è incominciata, quali sono le forze rispettive delle parti impegnate. e le loro probabilità di vittoria? Gli austriaci hanno in Italia cinque corpi d’armata — il 2°, il 3°, il 5°, il 7° e l’8° — composti di non meno di 26 reggimenti di fanteria, di cinque battaglioni ciascuno (uno dei quali è un battaglione di granatieri), e di 26 battaglioni leggeri: complessivamente 156 battaglioni, cioè 192.000 uomini. Con la cavalleria, l’artiglieria, il genio e le truppe di guarnigione, le loro forze giungono, secondo i calcoli più modesti, a
216.000 uomini. Non sappiamo di quanto sia stata superata questa cifra con l’invio in Italia di reggimenti freschi e di uomini della riserva. Che il numero sia stato superato non vi è quasi ombra di dubbio, ma atteniamoci alla cifra più bassa di 216 mila uomini. Di questi, 56.000 saranno del tutto sufficienti per occupare tutte le fortezze, i forti e i campi trincerati che gli austriaci vogliono mantenere in Lombardia, ma prendiamo la cifra massima, vale a dire 66.000 uomini. Rimarranno 140.000 uomini per l’invasione del Piemonte. Secondo i telegrammi l’esercito austriaco d’invasione sarebbe forte di 120.000 uomini, e queste informazioni non sono naturalmente del tutto attendibili. Ma, per non sembrare azzardati, supporremo che gli austriaci non abbiano più di 120.000 uomini disponibili per scendere in campo. Come saranno disposte le forze piemontesi e francesi per scontrarsi con questo possente esercito?

L’esercito piemontese è concentrato fra Alessandria e Casale, in una posizione che abbiamo descritto qualche settimana fa91. Esso conta cinque divisioni di fanteria e una di cavalleria — ossia 45.000 uomini di fanteria e di linea, incluse le riserve, 6.000 fucilieri e circa 9.000 uomini fra la cavalleria e l’artiglieria, in totale 60.000 uomini, il numero massimo che il Piemonte è riuscito a mettere in campo. I restanti 15.000 uomini sono necessari per le guarnigioni. I volontari italiani non sono ancora in grado di affrontare il nemico in campo aperto.

Come abbiamo già detto, la posizione dei piemontesi non può essere aggirata strategicamente dal sud, ma può però esserlo dal nord, e qui essa è appoggiata dalla linea della Sesia, che si getta nel Po a circa quattro miglia ad est di Casale, e che i sardi, se dobbiamo prestar fede ai dispacci telegrafici, intendono mantenere.

Sarebbe perfettamente ridicolo per 60.000 uomini accettare una battaglia decisiva in questa posizione, se fossero attaccati da una forza numericamente doppia…. Molto probabilmente su quel fiume si farà una parvenza di resistenza — sufficiente per costringere gli austriaci a mostrare tutta la loro forza — e poi i sardi ripiegheranno fin dietro Casale ed il Po, lasciando aperta la strada diretta per Torino. Tutto questo potrebbe accadere il 29 o il 30 di aprile, ove si presuma che la diplomazia inglese non frapponga un nuovo ritardo alle operazioni militari. Il giorno seguente gli austriaci tenterebbero di passare il Po e, se ci riuscissero, innalzerebbero le truppe sarde attraverso la pianura fino ad Alessandria. Qui potrebbero lasciarle per un certo tempo; se necessario, la colonna austriaca, sboccando da Piacenza a sud del Po, potrebbe distruggere la ferrovia tra Genova ed Alessandria e attaccare qualsiasi corpo francese avanzante da quella città verso questa.

Ma i francesi, secondo noi, cosa stanno facendo durante tutto questo tempo? Ebbene, essi stanno scendendo, in tutta fretta, diretti verso il futuro teatro di guerra, l’alta valle padana. Quando la notizia dell’ultimatum austriaco92 raggiunse Parigi, le forze destinate all’armata delle Alpi superavano di poco quattro divisioni di fanteria, nei pressi di Lione, più altre tre nel sud della Francia e in Corsica o in via di concentrazione. Un’altra divisione stava giungendo dall’Africa. Queste otto divisioni dovevano formare quattro corpi; come prima riserva era disponibile la divisione delle truppe di linea stazionanti a Parigi, e come seconda riserva, la guardia. In tutto dunque si avrebbero 12 divisioni di linea e due della guardia, formando così sette corpi d’armata. Le dodici divisioni di linea, prima dell’arrivo dei loro uomini in congedo, conterebbero 10.000 uomini ciascuna all’incirca, 120.000 complessivamente, o 135.000 con la cavalleria e la fanteria, la guardia 30.000, raggiungendo perciò i 165.000 uomini. Con il richiamo degli uomini in congedo, questo esercito avrebbe complessivamente 200.000 uomini. Fin qui tutto bene: si tratta di un bell’esercito, sufficientemente numeroso per conquistare un paese grande due volte l’Italia. Ma dove potrebbe trovarsi il primo maggio, o in quei giorni, nel momento in cui la presenza sarà necessaria nelle pianure piemontesi? Ebbene, il corpo di Mac-Mahon è stato inviato a Genova verso il 23 o il 24 aprile; e non essendo stato concentrato prima, non potrà lasciare Genova prima del 30; il corpo di Baraguay d’Hilliers si trova in Provenza e secondo alcuni dovrebbe avanzare lungo la linea Nizza-Col di Tenda, secondo altri dovrebbe giungere per mare ed effettuare uno sbarco nel Mediterraneo. Il corpo di Canrobert doveva entrare in Piemonte per il Moncenisio e il Monginevro, e le altre truppe dovevano tener loro dietro per le stesse strade. Ora è certo che nessun soldato francese ha messo piede sul territorio sardo prima del 26; è certo che dell’armata di Parigi, il 24, tre divisioni erano ancora in questa città, e che solo in quel giorno una era partita per ferrovia diretta a Lione; e che si prevedeva che la guardia si sarebbe messa in marcia non prima del 27. Perciò, supponendo che tutte le altre truppe elencate sopra siano concentrate alla frontiera e siano pronte a mettersi in marcia, abbiamo otto divisioni di fanteria, ossia 80.000 uomini. Di questi, 20.000 sono diretti a Genova; 20.000 al comando di Baraguay, se veramente son destinati al Piemonte, ci vanno per il Col di Tenda. Restano 40.000 uomini al comando di Canrobert e Niel che si avviano attraverso il Moncenisio e il Monginevro. Questo è tutto quello che Luigi Napoleone può mettere a disposizione per il momento in cui il suo aiuto sarà quanto mai necessario: il momento in cui gli austriaci potrebbero essere alle porte di Torino. E tutto questo, ci sia permesso di osservarlo, va perfettamente d’accordo con quanto abbiamo detto sull’argomento alcune settimane fa. Ma con tutte le ferrovie del mondo, Luigi Napoleone non può trasferire le rimanenti quattro divisioni dell’armata di Parigi in tempo per partecipare ai primi scontri, a meno che non permetta agli austriaci di fare ciò che vogliono dei piemontesi per quindici giorni tutt’interi; e persino allora, avendo otto divisioni su due passi alpini e il nemico concentrato con forze numericamente pari nel loro punto di convergenza, non ha che scarse probabilità di successo. Ma un uomo nella sua posizione non può, per ragioni politiche, permettere che il Piemonte sia occupato dal nemico per due settimane, e perciò dovrà accettare battaglia non appena gli austriaci gliela offriranno e quella battaglia dovrà combatterlà in circostanze svantaggiose. Quanto più rapidamente i francesi varcano le Alpi, tanto meglio sarà per gli austriaci.

Note

89 Il titolo è dell’Istituto di marxismo-leninismo presso il CC del PCUS.

90 Si veda F. Engels, la probabità della guerra imminente

91 Si veda F. Engels la probabilità della guerra imminente

92 Il 23 aprile 1859 il governo austriaco, ponendo come alternativa la guerra, impose con un ultimatum il disarmo al Piemonte. Il rifiuto rese inevitabile la guerra austro_italo_francese.

Scritto il 28 aprile 1859.

Pubblicato come articolo di fondo sulla New York Daily Tribune n. 5684, 12 maggio 1859



K. Marx

Da: Austria, Russia e Germania nella guerra

L’impazienza e la delusione del pubblico viennese di fronte all’estrema lentezza con cui si trascina la guerra, cominciata apparentemente con tanta baldanza, ha indotto il governo ad affiggere su tutti i muri della metropoli il seguente manifesto:

La possibilità che tutte le notizie concernenti i movimenti dell’esercito imperiale pubblicate nei giornali austriaci possano venire a conoscenza del nemico a distanza di poche ore, permettendogli di usarle a suo profitto, ci impone il dovere di osservare la massima cautela in tutti i comunicati destinati al pubblico. Secondo le ultime notizie pervenuteci, l’esercito imperiale ha occupato tra il Po e la Sesia una posizione che potrebbe essere il punto di partenza per azioni offensive. Sono nelle sue mani tutti i passaggi sulla Sesia e, benché la piena del Po, in continuo aumento, impedisca di compiere qualunque mossa decisiva sulla riva destra del fiume, la zona tra Pontecurone e Voghera rimane occupata da importanti distaccamenti del nostro esercito: al tempo stesso, abbiamo demolito il ponte ferroviario nei pressi di Valenza.

Il governo segue, naturalmente con una certa apprensione, quel che sta accadendo negli Stati italiani minori. Il ministero della guerra ha pubblicato il seguente rapporto sulle loro forze militari:

Toscana — Quattro reggimenti di fanteria di linea — ogni reggimento composto di due battaglioni, ciascun battaglione di sei compagnie, 6.833 uomini; un battaglione di fucilieri, sei compagnie, 780 uomini; un battaglione di fucilieri insulari, 780 uomini; battaglioni di cacciatori volontari, 2.115 uomini; un battaglione di veterani, 320 uomini; una compagnia di disciplina, 150 uomini; due squadroni di dragoni, 360 cavalli; un reggimento di artiglieria, 8 batterie con sei pezzi ciascuna; un battaglione di artiglieria da costa, 2.218 uomini; un reggimento di gendarmi, 1.800 uomini. Tutto questo dà, coi rispettivi stati maggiori, genieri, marinai, ecc 15.769 uomini.

Parma — Guardie del corpo, alabardieri, guide, 179 uomini; due battaglioni di linea, un battaglione di cacciatori, 3.254 uomini; una compagnia di artiglieria, 84 uomini; ingegneri, 14 uomini; gendarmi, quattro compagnie, 417 uomini; con gli stati maggiori, comandanti, scuole, compagnie di lavoratori, 4.294 uomini.

Modena — Quatro reggimenti di linea, di un battaglione ciascuno, 4.480 uomini; una compagnia di cacciatori, 120 uomini; tre compagnie di dragoni, 300 uomini; una batteria da campagna con sei pezzi, 150 uomini; una batteria da costa con 12 pezzi, 250 uomini; una compagnia di lavoratori, 130 uomini; una compagnia di pionieri, 200 uomini; inoltre alcuni veterani, alabardieri, ecc., complessivamente 7.594 uomini.

San Marino — La piccola Repubblica dispone di una forza di 800 uomini.

Roma — Due reggimenti di fanteria svizzera (un terzo reggimento in via di formazione), 1.862 uomini; due reggimenti italiani di eguale forza; due battaglioni sedentari (curiosa specie di guerrieri questa), 1.200 uomini; un reggimento di dragoni, 670 uomini e cavalli; un reggimento di artiglieria con sette batterie a quattro pezzi ciascuna, 802 uomini; gendarmi, 4.323 uomini, con stati maggiori, genieri, ecc., 15.255.

Napoli e Sicilia — Quattro reggimenti svizzeri, due reggimenti napoletani di granatieri della guardia, sei reggimenti di granatieri, tredici reggimenti di fanteria, un reggimento di carabinieri, con le compagnie in deposito, ammontanti complessivamente a 57.096 uomini; dodici battaglioni di cacciatori, 14.976 uomini e, con le compagnie di riserva, 16.740; nove reggimenti di cavalleria, due di dragoni pesanti, tre reggimenti di dragoni, un reggimento di carabinieri, due reggimenti di lancieri, un reggimento di cacciatori a cavallo, 8.415 uomini e cavalli, due reggimenti di artiglieria, composti ciascuno di due battaglioni da campo e da uno d’assedio, ovvero di 16 batterie da campo, con 128 pezzi, e 12 compagnie d’assedio, complessivamente, carriaggi compresi, 52.000 uomini. Se aggiungiamo gli alabardieri, i genieri, le guide, le guardie del corpo, ecc., abbiamo una forza aggregata di 130.307 uomini.

La flotta napoletana consiste di due navi da guerra di linea con 80 e 84 cannoni, cinquanta fregate a vela, dodici fregate a vapore, con 10 cannoni ciascuna, due corvette a vela, quattro corvette a vapore, due golette a vela, undici piccoli vapori, dieci battelli a mortaio e dodici battelli a cannone...


Scritto il 10 maggio 1859.

Pubblicato sulla New York Daily Tribune n. 5647, 27 maggio 1859


K. Marx
Il Manifesto di Mazzini93

Nelle presenti circostanze ogni dichiarazione da parte di Mazzini è un avvenimento che merita più attenzione di tutte le dichiarazioni diplomatiche dei gabinetti in rivalità fra di loro o persino dei rosei bollettini dal teatro di guerra. Per quanto possano divergere le opinioni degli uomini sulla personalità del triumviro romano94 nessuno potrà negare che la rivoluzione italiana è stata legata per quasi 30 anni al suo nome e che durante questo periodo l’Europa ha visto in lui miglior esponente delle aspirazioni nazionali dei suoi compatrioti. Ora egli ha compiuto un ammirevole atto di coraggio morale e di dedizione patriottica, levando, da solo, la sua voce, anche a scapito della sua popolarità, contro una Babele di illusioni, di cieco fanatismo e di egoistica falsità. Della sua denuncia dei piani concreti concordati fra Bonaparte, Alessandro e Cavour, agente dei due autocrati, se ne deve tenere tanto più conto, in quanto fra tutte le persone private in Europa Mazzini, come è noto, dispone dei mezzi più ampi per penetrare nei foschi segreti delle potenze dominanti. Il suo consiglio ai volontari nazionali di fare netta distinzione fra la loro causa e la causa degli impostori coronati e di non disonorare mai i loro proclami con il nome vergognoso di Luigi Napoleone, è stato seguito alla lettera da Garibaldi. La mancata menzione del nome della Francia nel proclama di quest’ultimo95 è considerata, come comunica il corrispondente da Parigi del londinese  Times, da Luigi Napoleone come un’offesa mortale; e la paura suscitata dalla notizia sui legami segreti tra Garibaldi e il triumviro romano è stata così grande che il suo corpo d’armata è stato ridotto dai 10.000 chasseurs d’Alpes promessi a 4.000, è stata richiamata un’unità di cavalleria in precedenza assegnatagli, è stata fermata una batteria già inviata dietro sua richiesta, mentre alcuni esperti funzionari di polizia sono stati introdotti nel suo seguito  come presunti volontari con l’istruzione di comunicare ogni sua parola, ogni sua mossa.

Riportiamo qui la traduzione testuale di un manifesto di Mazzini, pubblicato a Londra sull’ultimo numero del Pensiero ed Azione e intitolato La guerra96

La guerra è iniziata. Abbiamo dinanzi non una probabilità, intorno alla quale si poteva e si doveva discutere, ma un fatto compiuto. La guerra è iniziata fra l’Austria e il Piemonte. I soldati di Luigi Napoleone sono in Italia. L’alleanza russo-francese, annunziata da noi un anno addietro, va rivelandosi all’Europa. Il Parlamento Sardo ha conferito poteri dittatoriali a Vittorio Emanuele. Un’insurrezione militare ha rovesciato il governo del Duca in Toscana e accettato la Dittatura del Re. Il fermento, universale in Italia, produrrà probabilmente fatti consimili altrove. I fati della nostra Patria son dati in oggi irrevocabilmente, sul campo d’azione, alla decisione delle battaglie.

Davanti a condizione siffatta, i più, ebbri di desiderio d’azione, affascinati dall’idea d’avere aiuti potenti d’armi regolari, travolti dalla gioia di far guerra al meritamente abborrito dominio austriaco, dimenticano le delusioni del passato e le loro cagioni, sagrificano non solamente le loro più care credenze, ma l’intento che bisogna raggiungere, rinunciano ad ogni antiveggenza, ad ogni libertà di giudizio, non hanno parole fuorché di plauso per chi s’assume di diriger la guerra, approvano senza esame ogni cosa che venga dal Piemonte o dalla Francia, iniziano una battaglia di libertà facendosi schiavi. Taluni, vedendo sparita ogni idea di moralità politica negli agitatori e nella turba seguace, e un popolo apostolo, da mezzo secolo, di libertà allearsi a un tratto col dispotismo, ed uomini fautori ieri dell’anarchia di Proudhon darsi alla cieca, senza riserva, ad un re, e i con cittadini di Goffredo Mameli gridare immemori «Viva l’Imperatore» che, con altri mille, lo trasse a morte97 disperano d’ogni avvenire e dichiarano il nostro popolo incapace di libertà.

Noi non dividiamo le cieche, servilmente espresse speranze dei primi, nè il disperato sconforto degli ultimi. La guerra iniziata incomincia sotto tristissimi auspicii, ma gl’italiani possono, ove il vogliano, volgerla a fine migliore; e noi abbiamo fede nei nobili istinti del nostro popolo. E questi istinti si rivelano potenti fin d’ora anche attraverso gli errori ai quali gli agitatori lo spronano. Era forse meglio che, invece di raccogliersi in nucleo sotto la direzione assoluta di poteri che possono tradirne le speranze, i volontari ordinassero tacitamente l’insurrezione nei loro paesi e la capitanassero in nome del popolo italiano, affermandone e costituendone l’iniziativa; ma lo spirito che li mosse è santo e sublime, la testimonianza  ch’essi danno di devozione alla Patria comune è innegabile: quel nucleo dell’esercito nazionale futuro, spontaneamente raccolto, porta con sè le più belle speranze d’Italia. L’accettazione della Dittatura regia è un errore che può riuscire funesto davvero, e viola la dignità d’un popolo che sorge ad emanciparsi: quella Dittatura, in un paese e con un Parlamento devoti alla iniziativa della monarchia, e potenti a darle aiuto nell’opinione, davanti agli esempi di Roma e Venezia dove l’armonia delle assemblee popolari coi capi della difesa fu sorgente dì forza, davanti ai ricordi delle lunghe e tremende guerre sostenute dall’Inghilterra contro il primo Impero senza la menoma violazione delle libertà interne, non è chiaramente se non una concessione all’esigenze del despota collegato, e il primo stadio d’un disegno che mira a sostituire la questione di territorio alla questione di libertà: ma il popolo che accetta plaudendo crede compire un atto di sacrificio supremo a pro della Patria comune e, illuso a vedere in quel concentramento di poteri la salute della guerra, intende provare con quel plauso la propria determinazione di combattere e vincere ad ogni patto. Il dar senza condizione le province che insorgono alla direzione assoluta del re dittatore può, non v’ha dubbio, riescir fatale: la logica dell’insurrezione voleva che ogni provincia insorta s’ordinasse  sotto  un  potere  d’insurrezione  locale  e  che  ciascuna
contribuisse con un delegato a formare il governo nazionale d’insurrezione; ma v’è in questo immenso errore un omaggio al bisogno d’unità nazionale che confuta invincibilmente lo stolto cicaleggio della Stampa Europea sulle nostre divisioni e costituisce il Diritto Italiano. L’affetto di Patria è tanto oggimai in Italia da superare e vincere ogni traviamento. I buoni non devono sconfortarsi; devono cercare di dirigerlo. E per questo devono insistere, senza timore delle male interpretazioni, sul vero della situazione. Versiamo in troppo solenni momenti per curar di favore immediato o di biasimo.

Il vero della situazione è questo:

Come, e più assai che nel 1848, il moto italiano tende a libertà e ad unità di nazione. La guerra iniziata dalla Monarchia Sarda e da Luigi Napoleone ha scopo interamente diverso. Come, e più assai che nel 1848, l’antagonismo che esisteva allora tra le tendenze della nazione e quella dei Capi accettati e che trasse la guerra a rovina, minaccia tremende delusioni all’Italia.

L’Italia vuole Unità Nazionale. Luigi Napoleone non può volerla. Ei cerca, oltre Nizza e Savoia concesse già dal Piemonte in premio degli aiuti alla formazione d’un Regno del Nord, opportunità per innalzare un trono nel Sud a Murat, un trono nel Centro al Cugino. Roma e parte dello Stato Romano devono rimanere al governo temporale del Papa.

Sinceramente o no, poco monta, il Ministro che regge in oggi su premo le cose del Piemonte ha dato la sua accettazione al disegno.

L’Italia avrebbe così quattro Stati: due sarebbero governati direttamente dallo straniero; indirettamente, la Francia avrebbe tutta quanta l’Italia: il Papa è dipendente francese dal 1849 in poi; il re Sardo sarebbe, per obbligo di gratitudine e per inferiorità di forze, vassallo all’Impero.

Il disegno avrebbe effettuazione intera se l’Austria resistesse fino agli estremi. Ma dove l’Austria, disfatta in sulle prime, affacciasse proposte eguali a quelle ch’essa affacciò per breve tempo nel 1848 al Governo Inglese: abbandono della Lombardia a patto di serbare il Veneto, la pace, naturalmente richiesta da tutta la Diplomazia Europea, sarebbe accettata: le sole condizioni dell’ingrandimento della Monarchia Sarda e della cessione della Savoia e di Nizza alla Francia, riceverebbero esecuzione: l’Italia sarebbe abbandonata alle vendette de’ suoi padroni, e il compimento del disegno differito a tempi più favorevoli.

Disegno siffatto è noto ai Governi d’Europa. Quindi l’armarsi di tutti; quindi il fermento di guerra nella Confederazione Germanica; quindi gli elementi anzi tratto ordinati d’una Coalizione tra l’Inghilterra, la Germania e la Prussia. Coalizione inevitabile qualunque sia il linguaggio tenuto or dai Governi. Perno della Coalizione sarebbe fatalmente, quando l’Italia non affermasse la propria vita se  non come alleata del Bonaparte, la difesa dell’Austria e dei trattati del 1815.

La Coalizione è temuta da Luigi Napoleone. Quindi la lega colla Russia, incerta e malfida, e nondimeno comprata a patto di concessioni liberticide: l’abbandono assoluto della Polonia fra l’altre, e il Protettorato generale della Turchia Europea concesso allo Tsar in ricambio del Mediterraneo fatto lago francese. Ove la guerra si prolunghi e assuma, per l’intervento germanico, proporzioni europee, l’insurrezione delle province oggi turche preparata di lunga mano e quella dell’Ungheria, daranno campo all’Alleanza di rivelarsi.

Dove le cose giungano a questo punto, è pattuito che nel rimaneggiamento territoriale vada sommersa ogni idea di diritto popolare e di libertà. Principi russi governerebbero gli Stati che sorgerebbero sulle rovine dell’Impero Turco e dell’Austria, principi della dinastia Bonaparte i nuovi Stati d’Italia, altri forse a seconda dei casi. Costantino di Russia è già proposto ai malcontenti ungheresi, come Napoleone Bonaparte ad agitatori monarchici delle Legazioni e della Toscana. Come Carlo V e Clemente VII, nemici mortali in core, si collegavano per ripartirsi le libere città d’Italia98, i due Tsar, nemici in core, si collegano per soffocare l’aspirazione alla libertà, per impenalizzare l’Europa. Quindi il decreto, che sopprime per un tempo indefinito la libertà del Piemonte, strappato a Cavour. Muta la stampa, impedito ogni commento alle operazioni, ignota ogni cosa al popolo, l’arena è aperta alla tattica degl’iniziatori padroni. E gli animi, affascinati dal fantasma d’un’indipendenza che non sarebbe in ultimo se non un mutamento di dipendenza, si disavezzano intanto d’ogni affetto alla sorgente d’ogni indipendenza, la libertà.

Tali sono i disegni del dispotismo alleato con noi. Gli uni possono negarli, come Luigi Napoleone negava ogni intenzione del colpo di Stato99, perciò appunto che hanno a cuore di compirli; gli altri, per cieca credulità ad ogni parola che viene dai potenti, o per cieco desiderio che fa velo all’intelletto: non però sono meno veri: noti a chi scrive, noti ai Governi, e traditi in parte dalle parole e più dagli atti di Luigi Napoleone e del conte Cavour. Io dico del conte Cavour, perché inclino a credere Vittorio Emanuele ignaro di ciò che si pattuiva a Plombières ed a Stuttgart.

Se il conte Cavour avesse amato davvero l’Italia, ci si sarebbe giovato dell’immenso prestigio che viene dal possedimento d’una forza materiale importante e delle universali tendenze italiane, per preparare l’Italia a fare e il Piemonte a secondarne immediatamente le mosse. Egli avrebbe determinato — e lo poteva — un’insurrezione simile a quella del marzo 1848 nel Lombardo Veneto. L’insurrezione avrebbe, come allora, colto il nemico alla sprovveduta e ne avrebbe disordina io, sperperato le forze. Su quel nemico fugato, scorato, atterrito dal subito levarsi del popolo, l’esercito regolare del regno Sardo,   secondato,   fiancheggiato   dalle   milizie   dell’insurrezione, avrebbe ottenuto facilmente la finale vittoria L’Italia intera lo avrebbe seguito nella bella impresa. I popoli aggiogati all’Austria, non impauriti di nuove conquiste, avrebbero afferrato l’opportunità per innalzare la loro bandiera nazionale. A una lotta iniziata con sole forze italiane l’Europa avrebbe dato plauso e favore. E l’Europa che minaccia in oggi Luigi Napoleone comunque ei scenda in Italia chiamato e in sembianza di liberatore, non avrebbe tollerato mai ch’egli scendesse non chiamato, non provocato, contro un’insurrezione lombarda, in appoggio dell’Austria. Era impresa santa e sublime e Cavour poteva compirla. Ma bisognava, in nome della libertà e del suo diritto, affratellarsi colla rivoluzione che in Italia non ha esigenze esagerate, nè programmi di terrore, né tendenze ad anarchia di sovvertimenti sociali. Il ministro della Monarchia Sarda non era da tanto. L’avversione al popolo e alla libertà lo spinse a cercare l’alleanza della tirannide, e d’una tirannide esosa, per vecchie tradizioni di conquista, a tutte Nazioni. Il concetto ha mutato natura alla causa italiana. S’ei vince mercé l’alleato fatto padrone, l’unità nazionale è perduta: l’Italia è fatta campo d’un nuovo riparto sotto dominio o protettorato francese. S’ei soccombe con esso, l’Italia avrà danni e nazioni senza confini, e l’Europa invece di compiangerci dirà: voi non avete se non quello che meritate. Suprema su tutti i calcoli, su tutte le tattiche umane, vive una Legge morale che i popoli non violano impunemente. Ogni colpa trascina inevitabile l’espiazione. La Francia — lo predicemmo — espia tuttora colla schiavitù e collo scadimento morale il delitto della spedizione di Roma. Dio risparmi all’Italia l’espiazione severa meritata dalla Monarchia Sarda per avere affratellato una causa santificata da mezzo secolo di sacrificio, di martirio, e di aspirazioni virtuose, alla bandiera dell’egoismo e della tirannide!

E nondimeno, la guerra è un fatto iniziato, un fatto potente che crea nuovi doveri e modifica essenzialmente la via da tenersi. Tra il concetto di  Cavour e  la  minaccia della  coalizione,  fra Luigi Napoleone e I’Austria, tristi egualmente, sta l’Italia: l’Italia che amiamo sovra ogni cosa e il cui avvenire è troppo alto fine perché in esso non si sommergano biasimo, dolore, amarezza di delusioni e coscienza di gravi e meritati pericoli. Il fatto è iniziato: bisognava cercare di mutarne le condizioni prima; è dovere in oggi cercare di migliorarle.

Quanto più gravi sono i pericoli della situazione, tanto più gli sforzi di tutti devono concentrarsi a salvare da quei pericoli la patria comune. Se la  guerra non  si  combattesse che  tra governi, noi  potremmo rimanere spettatori, vegliando il momento in cui, indeboliti i combattenti, l’elemento nazionale potrebbe inoltrarsi sul campo. Ma quell’elemento è sorto. Illuso o no, il paese freme azione e crede poter giovarsi della guerra regio-imperiale a raggiungere il fine. Il moto toscano, moto spontaneo di militi e cittadini italiani, l’agitazione universale e il campo dei volontari oltrepassano il cerchio dell’opera dei faccendieri: sono palpiti della nazione. Bisogna seguirla sull’arena, bisogna allargare, italianizzare la guerra. Gli uomini di
fede repubblicana sentono quant’altri questo dovere e sapranno compirlo.

L’Italia può, volendo, salvarsi dai pericoli che accennammo e far uscire dalla crisi attuale la propria unità.

È necessario che l’Austria cada. Possiamo deplorare l’intervento imperiale, ma non possiamo dimenticare che l’Austria è l’eterna nemica d’ogni sviluppo nazionale italiano, e che italiani sono i primi soldati da essa incontrati sul campo. Bisogna che l’Austria soccomba. Ogni Italiano deve cooperarvi. Ogni Italiano può consultare la propria coscienza sul dove e sul come; ma ogni Italiano deve dar sangue, danaro o consiglio, ciò ch’ei può, contro l’Austria. Lo chiede l’onore, lo chiede la salvezza di tutti. Impari l’’Europa dalla manifestazione universale che tra noi e l’Austria è guerra mortale, e che quella guerra non cesserà se non quando l’ultimo soldato dell’Austria avrà rivalicato la nostra frontiera naturale, le Alpi: impari dai nostri fatti che s’anche noi fossimo lasciati soli a combattere, combatteremmo e sapremmo vincere.

È necessario che il popolo d’Italia serbi intatta la sua dignità, costringa l’Europa ad ammirarlo, convinca tutti col suo contegno che noi possiamo subire, perché cercato da un Governo Italiano, l’aiuto della tirannide, ma non l’abbiamo chiamato, non rinneghiamo per esso la nostra fede di libertà e d’alleanza coi popoli, non dimentichiamo Roma, il 2 Dicembre, le offese recate in questi ultimi dieci anni ai nostri fratelli di credenza. Il grido di viva la Francia! può uscire senza colpa da labbra italiane, il grido di viva l’imperatore! non può. . . È necessario che l’Italia si levi, si levi da un capo all’altro. . . al Nord, per conquistarsi, non ricevere la libertà, al Sud, per ordinare la riserva dell’esercito nazionale. L’insurrezione può, colle debite riserve, accentrarsi al comando militare del re dovunque l’Austriaco è accampato o vicino: l’insurrezione al Sud dovrebbe operarsi, e mantenersi più indipendente….. Napoli e la Sicilia potrebbero assicurar salute alla Causa d’Italia, e costituirne la potenza, rappresentata da un Capo Nazionale. Il grido dell’insurrezione, dovunque ha luogo, dovrebbe essere: Unità, Libertà, Indipendenza Nazionale….. E il nome di Roma s’avvicendi ; sempre al nome d’Italia….. Dovere di Roma è non d’inviare all’esercito Sardo un pugno di volontari, ma di provare alla Francia Imperiale che mal si combatte per l’indipendenza d’Italia dichiarandosi sostegno all’assolutismo papale….. Da Roma, da Napoli, e dalla condotta delle milizie volontarie dipendono oggi i fati d’Italia. Roma rappresenta l’unità della patria: Napoli e i volontari possono costituirne l’esercito. Sono immensi doveri; e se Roma, Napoli e i volontari non sanno compirli, non meritano libertà e non l’avranno. La guerra, lasciata ai Governi,  finirà  con  un  nuovo  Trattato  di  Campoformio100...  La disciplina ch’oggi si predica come segreto di vittoria dagli uomini che trassero a rovina le insurrezioni del 1848, non è, com’essi la intendono, che servilità e inerzia fatale di popolo. La disciplina, come noi la intendiamo, può esigere una forte unità per tutto ciò che concerne l’andamento della guerra regolare; può esiger silenzio su tutte questioni di forma; ma non che l’Italia sorga o giaccia a seconda dei cenni d’un Dittatore senza programma e d’un despota straniero, e non manifesti altamente la sua volontà d’esser libera ed Una.

Note

93 Nelle sue note introduttive al Manifesto di Mazzini (La guerra) Marx apprezzò la sua posizione nei riguardi dell’intervento di Napoleone I nella causa della liberazione dell’Italia. Approvando in generale l’articolo antibonapartistico di Mazzini Marx ed Engels nel contempo criticavano conseguentemente le concezioni e la tattica mazziniana nel loro complesso.

94 A cominciare dal marzo 1849 Mazzini fu a capo del triumvirato (Mazzini, Saffi, Armellini) a cui l’Assemblea costituente della Repubblica romana affidò il potere esecutivo e i poteri straordinari per la sua difesa.

95 Si tratta dell’appello alla popolazione lanciato da Garibaldi all’entrata del Corpo dei volontari nel territorio lombardo nel maggio 1859.

96 Il Manifesto di Mazzini La guerra fu pubblicato sulla New York Daily Tribune con qualche taglio il 16 maggio 1859.

97 Si tratta della morte di Goffredo Mameli nel giugno 1849 durante la difesa della Repubblica romana contro le truppe di Luigi Bonaparte.

98 Si intende il trattato di Bologna (1528) stipulato tra l’imperatore Carlo V e il papa Clemente VII dopo la vittoria riportata dall’imperatore sui suoi ex alleati francesi e conclusasi con la loro cacciata dall’Italia. Da quell’anno il potere imperiale e la Chiesa agirono sempre di concerto contro le autonomie comunali.

99 Si tratta del colpo di Stato del 2 dicembre 1851 di Luigi Bonaparte che, in definitiva, portò nel 1852 all’abolizione della Repubblica e all’instaurazione dell’Impero

100 Il Trattato di pace di Campoformio (17 ottobre 1797) tra Francia e l’Austria concluse una guerra iniziata nel 1792 dalla Repubblica francese contro l’Austria, che faceva parte della prima coalizione antifrancese. Secondo il trattato, l’Austria abbandonò la coalizione ed ebbe sulle coste adriatiche gran parte del territorio della Repubblica Veneta (compresa Venezia), nonché parti del territorio dell’Istria e della Dalmazia, ex proprietà veneziane. La Francia si appropriò delle isole Ionie e dei possedimenti veneziani sulle coste albanesi.

La nota introduttiva al Manifesto fu scritta a fine maggio 1895. Pubblicato sulla New York Daily Tribune n. 5665, 17 giugno 1859



K. Marx

Che cosa ha guadagnato l’ Italia?

La guerra italiana è terminata. Napoleone l’ha finita non meno improvvisamente e inaspettatamente di quanto l’avevano incominciata gli austriaci101. Quantunque breve, è stata costosa. Essa ha concentrato in poche settimane non solo le gesta, le invasioni e controinvasioni, le marce, le battaglie, le conquiste e le perdite, ma anche le spese, sia in vite che in denaro, di molte guerre assai più lunghe. Alcuni dei suoi risultati sono piuttosto evidenti. L’Austria ha perduto del territorio; la reputazione della sua capacità militare è stata seriamente intaccata; il suo orgoglio è stato profondamente ferito. Ma le lezioni ricevute, ammesso che abbiano servito a qualcosa, sono, pensiamo, più militari che politiche, e i cambiamenti che l’Austria potrebbe essere indotta a fare come conseguenza di questa guerra, saranno cambiamenti nell’istruzione militare, nella disciplina e nelle armi, piuttosto che nel suo sistema politico o nei suoi metodi di governo. Può darsi che l’Austria si sia convinta dell’efficacia dei cannoni rigati. È possibile che essa introduca fra le sue truppe una qualche imitazione degli zuavi francesi. È molto più probabile che essa faccia questo piuttosto che modificare radicalmente il governo in quel che ancora le rimane delle sue province italiane.

L’Austria ha anche perduto, almeno per il momento, la tutela sull’Italia, che si è ostinata a conservare ad onta delle rimostranze e lamentele della Sardegna e che ha servito di pretesto  per  scatenare  l’ultima  guerra.  Ma  benché  l’Austria  sia  stata  costretta  per  il momento a rinunciare a quest’ufficio, l’ufficio stesso non pare sia vacante. È assai significativo il fatto che la nuova sistemazione degli affari italiani sia stata decisa in un breve incontro tra gli imperatori di Francia e d’Austria, entrambi stranieri, entrambi alla testa di un’armata di stranieri e che la sistemazione sia stata fatta non solo senza neppure far mostra di consultare formalmente le parti in causa, ma senza che queste ultime sapessero di essere in tal modo oggetto di mercato e di vendita. Due eserciti provenienti d’oltralpe si incontrano e combattono nella pianura lombarda. Dopo una lotta di sei settimane, i sovrani stranieri di questi eserciti stranieri si accingono a sistemare e regolare gli affari italiani senza ammettere un solo italiano nei loro conciliaboli. Il re di Sardegna, che dal punto di vista militare era stato posto al livello di un generale francese, pare non abbia né partecipato né avuto voce negli accordi finali, proprio come se davvero fosse semplicemente un generale francese.

Le lagnanze mosse a voce così alta dalla Sardegna contro l’Austria, erano fondate sul fatto che quest’ultima pretendeva non solo di soprintendere a tutti gli affari italiani, ma anche di difendere tutti gli abusi esistenti; che la sua politica consisteva nel mantenere le cose come erano, immischiandosi nell’amministrazione interna dei suoi vicini italiani e arrogandosi il diritto di schiacciare con la forza delle armi qualsiasi tentativo da parte degli abitanti di quei paesi di modificare o migliorare le loro condizioni politiche. E qual maggior rispetto si manifesta, nella nuova sistemazione, per il sentimento e i desideri degli italiani, o per quel diritto alla rivoluzione di cui la Sardegna si era fatta campione? A quanto sembra, i ducati italiani a sud del Po, quantunque sia stato accettato l’aiuto da loro offerto in guerra, in base al trattato di pace dovrebbero essere riconsegnati ai loro principi espulsi. In nessuna parte dell’Italia vi sono state più lagnanze per il malgoverno che negli Stati della Chiesa. La cattiva amministrazione di questi Stati, e l’appoggio e l’approvazione che l’Austria ha dato a questa cattiva amministrazione, sono stati fortemente rilevati come una delle peggiori caratteristiche, se non forse come la peggiore dì tutte, dello stato in cui sì trovavano negli ultimi tempi gli affari italiani. Ma, benché l’Austria sia stata obbligata a rinunciare al suo protettorato armato sugli Stati della Chiesa, gli infelici abitanti di quei territori non hanno guadagnato nulla nel cambio. La Francia appoggia il dominio temporale della Santa Sede non certo meno di quanto l’abbia sempre appoggiato l’Austria; e poiché gli abusi del governo di Roma sono considerati dai patrioti italiani come inseparabili dal suo carattere clericale, non sembra vi sia speranza alcuna di miglioramento. La Francia, nella posizione che ora occupa di unico protettore del papa, si rende in realtà più responsabile degli abusi del governo romano di quanto sia mai stata l’Austria.

Quanto alla Confederazione italiana che costituisce una parte del nuovo accordo, si deve osservare quanto segue: o questa confederazione sarà una realtà politica investita di un certo grado di potere ed influenza, oppure sarà una mera finzione. In quest’ultimo caso, l’unione, la libertà, e lo sviluppo degli italiani non avranno nulla da guadagnare. Se sarà una realtà, tenendo conto degli elementi che la compongono, che cosa ci si può aspettare da essa? L’Austria (che rappresenterà in questa confederazione la provincia o regno di Venezia), il papa e il re di Napoli [Pio IX e Francesco II], uniti nell’interesse del dispotismo, avranno certamente la meglio sulla Sardegna, anche se gli Stati minori si metteranno dalla parte di quest’ultima. L’Austria potrebbe anche approfittare di questo nuovo stato di cose per assicurarsi un controllo sugli altri Stati italiani, controllo non meno sgradevole, per non dire peggio, di quanto fosse quello che essa pretendeva recentemente di esercitare in forza degli speciali trattati conclusi con ciascuno di loro.

Note

101 L’8 luglio 1859 a Villafranca ebbe luogo l’incontro separato (senza il re del Piemonte) degli imperatori francese e austriaco. L’iniziativa dell’incontro fu presa da Napoleone III, il quale temeva che una guerra troppo lunga potesse suscitare la diffusione del movimento rivoluzionario e di liberazione nazionale in Italia e in altri paesi europei. L’11 luglio tra i due paesi fu firmato un trattato preliminare in base al quale la Lombardia (ad esclusione delle fortezze di Mantova e Peschiera) passava alla Francia (bisogna dire, però, che più tardi Napoleone I concesse Mantova al Piemonte in cambio della Savoia e di Nizza); Venezia rimase dominio austriaco; i duchi di Toscana e di Modena furono reinsediati. Il trattato prevedeva anche  la creazione di una confederazione italiana con a capo il papa. Nonostante che alcuni capitoli del trattato preliminare rimanessero sulla carta (come, ad esempio, quelli concernenti la confederazione o la restaurazione del passato regime in Toscana e a Modena), oppure fossero modificati, i suoi punti essenziali servirono da base al trattato definitivo stipulato a Zurigo il 10 novembre 1859.

Scritto intorno al 12 luglio 1859.

Pubblicato come articolo di fondo sulla New York Daily Tribune n. 5697, 26 luglio 1859



K. Marx

La pace

Dalle notizie ricevute a mezzo dell’«Europa» sembra che la confederazione italiana, annunciata da Napoleone III come uno dei pilastri su cui dovrebbe poggiare la pace con Francesco Giuseppe, sia cosa quanto mai vaga e precaria. Finora si tratta semplicemente di un progetto, cui l’Austria ha dato il suo consenso, ma che deve ancora essere sottoposto ai governi italiani. Sembra che neppure la Sardegna, il cui re, tra l’altro, non è stato neanche consultato nella conclusione della pace, abbia acconsentito ad entrare a farne parte, benché naturalmente il re debba fare ciò che gli ordinano di fare; mentre corre voce che il papa, proposto come capo onorario della federazione, abbia scritto a Luigi Napoleone che  invocherà la protezione delle potenze cattoliche, rifugio problematico, invero, proprio in questo momento in cui egli vuol essere protetto contro la Francia. In quanto ai monarchi della Toscana, di Modena e di Parma102 recentemente banditi dai loro paesi, sembra che debbano essere rimessi sui loro troni; in tal caso, essi saranno indubbiamente pronti ad entrare a far parte di qualsiasi confederazione venga loro imposta. Soltanto del re di Napoli [Francesco II] oggi unico sovrano indipendente d’Italia, non sappiamo nulla; e non è impossibile che egli rifiuti categoricamente. Cosìcché c’e da chiedersi ancora se vi sarà o no una federazione, e tanto più c’è da chiedersi come essa sarà, ammesso che si giunga a costituirla.

Importante è il fatto, ora accertato per la prima volta, che l’Austria conserva tutte e quattro le grandi fortezze, dal momento che il Mincio è diventato il confine occidentale dei suoi territori. Così l’Austria tiene ancora nelle sue mani le chiavi dell’Italia settentrionale e può approfittare di qualsiasi circostanza favorevole per riconquistare quello che ha dovuto testé abbandonare. Questo fatto dimostra già da solo che è completamente infondata la pretesa di Napoleone di aver virtualmente raggiunto il suo scopo di cacciare l’Austria dall’Italia. In realtà, non è troppo dire che se egli ha sconfitto l’Austria in guerra, quest’ultima l’ha decisamente battuto concludendo la pace. Essa ha semplicemente rinunciato a quello che le era stato tolto, e nulla più. La Francia, spendendo alcune centinaia di milioni di dollari e la vita di circa 50.000 suoi figli, si è guadagnata il controllo della Sardegna, molta gloria per i suoi soldati, e la fama di generale molto fortunato ma mediocre per il suo imperatore. Per quest’ultimo è molto; per la Francia, che ha sopportato tutte le spese e sofferto tutte le perdite, è poco; e non stupisce che a Parigi ci sia del malcontento.

Il motivo addotto da Napoleone per aver posto così repentinamente fine alla guerra è che essa stava assumendo proporzioni incompatibili con gli interessi della Francia. In altre parole, essa tendeva a diventare una guerra rivoluzionaria con, fra l’altro, un’insurrezione a Roma e una rivolta in Ungheria. È un fatto curioso che proprio alla vigilia della battaglia di Solferino, questo stesso Napoleone abbia realmente esortato Kossuth, che dietro suo invito era venuto a visitarlo al campo, a suscitare una diversione rivoluzionaria in favore degli alleati. Prima della battaglia quindi egli non temeva i pericoli che lo terrorizzarono immediatamente dopo. Che le circostanze modifichino le previsioni non è osservazione nuova, ma è applicabile nella situazione presente. Tuttavia, non è necessario addurre altre prove per dimostrare che quest’uomo è tanto profondamente egoista quanto senza scrupoli; e che, dopo  aver sparso il sangue di 50.000 uomini per soddisfare la sua ambizione personale,è pronto a rinnegare e ad abbandonare persino l’ipocrisia di tutti i principi in nome dei quali ha condotto al macello questi uomini.

Uno dei primi risultati dell’attuale sistemazione è la caduta del ministero Cavour, obbligato a dimettersi.  Benché  egli sia uno degli uomini più abili d’Italia, e benché non abbia partecipato alle trattative di pace, il conte di Cavour non ha potuto reggere di fronte alla indignazione e alla delusione dell’opinione pubblica. Probabilmente passerà molto tempo prima che egli possa di nuovo salire al potere. E passerà molto tempo prima che Luigi Napoleone possa di nuovo illudere non foss’altro i sentimentali e gli entusiasti e farsi considerare un campione della libertà. Gli italiani ora lo odieranno più di qualsiasi altro rappresentante della tirannia e del tradimento; e non ci sorprenderemo se i coltelli di assassini italiani dovessero ancora una volta attentare alla vita dell’uomo  che, promettendo l’indipendenza all’Italia, e fingendo di conquistare quest’indipendenza, ha lasciato l’Austria insediata sul collo dell’Italia non meno saldamente di quanto lo fosse prima.

Note

102 Nell’aprile-giugno 1859 in Toscana, a Parma e Modena scoppiarono delle rivoluzioni con le quali furono abbattuti i regimi pro- austriaci e si decise per l’annessione al Piemonte, realizzatasi poi all’inizio del 1860.

Scritto il 15 luglio 1859.

Pubblicato come articolo di fondo sulla New York Daily Tribune n. 5698, 28 luglio 1859



K. Marx

Da: Il trattato di Villafranca

Se veniamo al contenuto — alludiamo al contenuto ufficiale — del trattato di Villafranca, troviamo che esso è del tutto in linea col metodo che ha portato alla sua conclusione. La Lombardia deve essere ceduta al Piemonte, ma l’identica offerta, in termini più favorevoli e non vincolata da clausole svantaggiose, era stata fatta dall’Austria a Carlo Alberto e a Lord Palmerston nel 1848103.

Allora nessuna potenza straniera s’era appropriata il movimento italiano. La cessione doveva essere fatta alla Sardegna e non alla Francia; anche Venezia avrebbe dovuto essere staccata dal territorio tedesco per divenire uno Stato italiano indipendente con alla testa non l’imperatore austriaco, ma un arciduca austriaco. Queste condizioni erano state allora respinte dal magnanimo Palmerston, che le aveva stigmatizzate come non degna conclusione della guerra d’indipendenza italiana. Quella stessa Lombardia ora viene consegnata come dono della Francia alla dinastia dei Savoia, mentre Venezia e il quadrilatero delle fortezze, incluse quelle sul Mincio, sono destinate a rimanere nelle grinfie dell’Austria.

L’indipendenza dell’Italia è dunque trasformata nella dipendenza della Lombardia dal Piemonte, nella dipendenza del Piemonte dalla Francia. Se la cessione della Lombardia costituisce un’umiliazione per l’orgoglio dell’Austria,  la potenza reale di questo paese indubbiamente viene rafforzata dall’evacuazione di un territorio che ne assorbiva parte delle forze militari senza poter essere difeso contro le invasioni straniere e non pagava le spese del mantenimento delle truppe d’occupazione. Le risorse spese inutilmente in Lombardia possono essere impiegate meglio altrove. Ma l’Austria conserva la sua posizione politica di predominio, che le consente, ogni qualvolta si presenti l’occasione favorevole, di piombare sul suo debole vicino, il quale in realtà non ha guadagnato altro che un’accresciuta debolezza, una frontiera scoperta, sudditi turbolenti, mal disposti e diffidenti, mentre ha perduto finanche il pretesto di rappresentare i diritti dell’Italia. La Sardegna ha concluso un affare dinastico, ma ha rinunciato alla sua missione nazionale. Da Stato indipendente è scesa al rango di Stato tollerato che, per resistere contro il nemico ad oriente, deve strisciare davanti al proprio protettore ad occidente.

Ma questo non è  tutto.  In  base  ai termini del  trattato,  l’Italia deve essere  costituita, secondo il modello della Federazione germanica, in una Confederazione italiana, sotto la presidenza onoraria del papa. Giunti a questo punto, sembra che l’«Idea napoleonica» abbia incontrato qualche difficoltà, e ancora non sappiamo come Napoleone si comporterà di fronte agli ostacoli che si oppongono alla attuazione dei suoi capricci. Poichè, qualunque cosa accada, non c’è dubbio che una confederazione di tal fatta, con il papa alla testa, è un suo capriccio. L’abbattimento del potere papale a Roma, d’altronde, è sempre stato considerato come la conditio sine qua non dell’emancipazione d’Italia. Machiavelli, secoli addietro, nella sua storia di Firenze104 face va risalire al dominio dei papi l’origine della decadenza italiana. Ora, nelle intenzioni di Luigi Bonaparte, anziché liberare la Romagna, l’Italia tutta dovrebbe essere sottoposta al dominio nominale del papa. Infatti, se mai la confederazione dovesse venir organizzata, la tiara papale altro non sarebbe che l’emblema della dominazione austriaca. A che cosa mira l’Austria con le sue trattative private con Napoli, Roma, la Toscana, Parma e Modena? Ad una confederazione di principi italiani sotto la supremazia austriaca. Il trattato di Villafranca, con la Confederazione italiana, in seno alla quale da una parte ci sarebbero il papa, l’Austria ed i duchi reintegrati — se, beninteso, potranno essere reintegrati —, e dall’altra il Piemonte, supera le più ardite speranze dell’Austria. Sin dal 1815, essa ha aspirato a formare una confederazione di principi italiani contro il Piemonte. Essa può ora sottomettere lo stesso Piemonte. Può soffocare il principio vitale di questo piccolo Stato in una confederazione di cui il papa [Pio IX], che ha scomunicato la Sardegna105, sarà il capo nominale, e della quale l’implacabile nemico della Sardegna sarà il capo effettivo. L’Italia dunque non è stata emancipata, bensì il Piemonte è stato schiacciato. Faccia a faccia con l’Austria, il Piemonte dovrebbe avere il compito di sostenere la parte della Prussia, senza avere le risorse che hanno permesso a questo Stato di paralizzare la rivale nella Dieta tedesca. La Francia, da parte sua, può lusingarsi d’aver assunto nei confronti dell’Italia la posizione che occupa la Russia di fronte alla Confederazione tedesca, ma, qui, l’influenza russa in Germania si basa sull’equilibrio di potere tra gli Asburgo e gli Hohenzollern.  L’unico comodo in cui il Piemonte può rialzare il proprio prestigio è stato chiaramente indicato dal suo protettore. Nel proclama ai suoi soldati, Luigi Napoleone dice:

L’unione della Lombardia con il Piemonte crea per noi (la famiglia Bonaparte) un potente alleato che ci sarà debitore della sua indipendenza,

dichiarando in tal modo che il Piemonte indipendente ha ceduto il posto a una satrapia napoleonica. Per districarsi da questa posizione degradante, Vittorio Emanuele manca delle necessarie risorse. Egli può solo fare appello all’Italia, di cui ha tradito la fiducia, o all’Austria, delle cui spoglie è stato nutrito. Molto probabilmente però potrebbe intervenire una rivoluzione italiana a cambiare l’aspetto di tutta la penisola e riportare ancora una volta sulla scena Mazzini e i repubblicani.

Note

103 Nel 1848, Palmerston, nel tentativo di limitare l’espansione del movimento rivoluzionario in Italia e negli interessi della tradizionale politica britannica dell’«equilibrio europeo», fece di tutto per annettere la Lombardia alla monarchia piemontese. Il governo austriaco, intimorito da una possibile svolta rivoluzionaria all’interno e dalla lotta di liberazione nazionale del popolo italiano, fu costretto, col suo memorandum del 24 maggio, ad accogliere le aspirazioni del popolo lombardo e a concedere a Venezia lo status quo di Stato autonomo governato da un arciduca austriaco. Però, dopo la sconfitta subita dal Piemonte, l’Austria si rimangiò tutto.

104 N. Machiavelli, lstorie Fiorentine. La prima edizione usci a Roma e a Firenze nel 1532.

105 In relazione all’espandersi del movimento di annessione al Piemonte che abbracciò l’Italia settentrionale, nonché lo Stato della Chiesa, Pio IX nel giugno 1859 emanò una enciclica contro coloro che attentavano al papato minacciandoli di scomunica, con una evidente allusione a Vittorio Emanuele II.

Scritto il 19 luglio 1859.

Pubblicato come articolo di fondo sulla New York Daily Tribune n. 5704, 4 agosto 1859



F. Engels

La guerra italiana

Sguardo retrospettivo

I

Il «generale segreto» ha chiamato in tutta fretta a Parigi la sua Guardia per fare l’entrata trionfale alla sua testa, e per far poi sfilare davanti a sè sulla piazza del Carrousel le truppe vittoriose. Intanto passiamo ancora una volta in rassegna gli avvenimenti principali della guerra per mettere in luce il merito reale della scimmia di Napoleone.

Il 19 aprile il conte Buol commise la puerile imprudenza di comunicare all’ambasciatore inglese che il giorno 23 dello stesso mese avrebbe dato ai piemontesi tre giorni di tempo, allo scadere dei quali avrebbe cominciato la guerra invadendo il territorio nemico. Buol sapeva che Malmesbury non era Palmerston, ma dimenticò che si avvicinava il tempo delle elezioni generali e che gli ottusi tories, per paura di essere chiamati «austriaci», sarebbero diventati, di fatto e contro il proprio volere, bonapartisti. Il 20 aprile il governo inglese comunicò in fretta al signor Bonaparte questa informazione e subito dopo ebbe inizio il concentramento delle truppe, francesi e fu ordinata la formazione dei quarti battaglioni di riservisti. Il 23, alla vigilia delle elezioni nella maggior parte dei collegi inglesi, gli austriaci inviarono veramente l’ultimatum. Derby e Malmesbury si affrettano a dichiarare che questa azione è un «delitto», contro il quale essi protestano nel modo più energico. Bonaparte fa passare alle proprie truppe la frontiera piemontese, anche prima della scadenza dell’ultimatum; il 26 aprile i francesi entrano in Savoia e a Genova. Gli austriaci invece, trattenuti dalle proteste e dalle minacce del governo tory, concedono ancora due giorni di tempo ed entrano in Piemonte il 29 invece deI 21.

E così il «generale segreto», ben nove giorni prima dell’invasione degli austriaci, ebbe notizia delle loro intenzioni e riuscì grazie al tradimento del ministero inglese, ad essere sul posto tre giorni prima di loro. Ma il «genera le segreto» aveva degli alleati non soltanto nel ministero inglese ma anche nel comando militare austriaco. Tutti aspettavano con ragione che Hess assumesse il comando supremo dell’esercito in Italia. Invece il comando fu messo in mano a Gyulai, che nel 1848-49 non si era mai trovato faccia a faccia con il nemico; un cervello totalmente incapace, senza ingegno e senza volontà, questo Gyulai. Hess è di origine borghese ed è avversato dalla cricca reazionaria e filogesuitica dei nobili che costituisce la camarilla di Francesco Giuseppe. Il triumvirato Grϋnne-Thun-Bach aizzò
contro il vecchio stratega il debole Francesco Giuseppe, che aveva elaborato insieme con Grϋnne un piano di operazioni stravagante, duramente criticato da Hess, cosìcché il nobilissimo scemo Gyulai rimase comandante supremo, e fu accettato il suo piano di operazione: invasione del Piemonte. Hess aveva consigliato di tenersi strettamente sulla difensiva e di evitare ogni battaglia prima di giungere al Mincio. L’esercito austriaco, ostacolato dalle fortissime piogge, si mostrò solo verso il 3 o il 4 di giugno sul Po e sulla Sesia, e naturalmente era troppo tardi per tentare un colpo di mano su Torino o su qualche fortezza piemontese. I francesi erano concentrati in massa sull’alto Po; questo diede all’incapace Gyulai un ottimo pretesto per rimanere inattivo. Per documentare la propria perplessità egli fece intraprendere una ricognizione forzata su Montebello. La battaglia che ne risultò fu onorevolmente sostenuta da 13 battaglioni austriaci contro 16 francesi, finché non apparvero sul campo di battaglia la seconda e la terza divisione del corpo di Baraguay d’Hillier: allora gli austriaci, che avevano raggiunto il loro scopo, si ritirarono. Ma poiché a questa ricognizione nulla seguì da parte degli austriaci, è chiaro che tutta la spedizione poteva benissimo non aver luogo.

Il «generale segreto» aveva dovuto intanto aspettare il materiale bellico e la cavalleria e passava probabilmente il tempo a studiare il suo amato Bϋlow. I francesi, perfettamente informati della posizione e delle forze degli austriaci, potevano facilmente tracciare un piano di attacco. In generale, esistono solo tre modi di attacco: o direttamente di fronte, per spezzare il centro, o aggirando l’ala destra o sinistra del nemico. Il «generale segreto» decise di aggirare il nemico dal fianco destro. Gli austriaci occupavano una lunga linea da Biella a Pavia dopo aver liberamente saccheggiato tutta la campagna tra la Sesia e la Dora Baltea. Il 21 maggio i piemontesi attaccano la linea della Sesia e impegnano per parecchi giorni di seguito delle scaramucce tra Casale e Vercelli, mentre Garibaldi con i cacciatori delle Alpi fa insorgere il Varesotto e penetra nel Comasco e nella Brianza, costeggiando il Lago Maggiore. Gyulai continua a tenere le truppe sparpagliate e spedisce addirittura uno dei suoi sei corpi d’armata (il 9°) sulla riva meridionale del Po. Il 29 maggio i preparativi sono giunti finalmente al punto che l’attacco può essere iniziato. Le battaglie di Palestro e di Vinzaglio, dove la maggior parte dell’esercito piemontese fu impegnata contro una parte del 7° corpo d’armata (Zobel), aprirono agli alleati la strada su Novara, che Gyulai fece sgombrare senza resistenza. Subito vi furono diretti i piemontesi; il 2° e il 3° corpo francese e la Guardia seguiti dal 1° corpo. L’ala destra austriaca era completamente aggirata, e la via diretta su Milano era aperta.

In questo modo, però, gli eserciti avevano assunto proprio la stessa posizione nella quale Radetzky neI 1849 aveva riportato la vittoria di Novara. Gli alleati si mossero in lunghe colonne e seguendo poche strade parallele si volsero verso il Ticino. La marcia non poteva procedere che lentamente. Gyulai aveva sotto mano cinque corpi d’armata, anche senza contare il 9° corpo, che era stato allontanato. Appena l’attacco dei piemontesi si fece serio, e questo accadde il 29 e 30 maggio, Gyulai doveva concentrare le sue truppe. Il punto dove ciò avvenisse non contava molto; non si marcia davanti a 140-150.000 uomini concentrati in una posizione; e poi l’importante era di non difendersi passivamente ma di assestare tempestivamente un colpo al nemico. Se Gyulai avesse concentrato le proprie forze tra Mortara, Garlasco e Vigevano il 31 maggio ed il 1° giugno, egli avrebbe potuto, da una parte, piombare proprio sul fianco delle truppe che avevano aggirato la sua ala destra presso Novara, spezzare in due le colonne nemiche in marcia, incalzarne una parte sì da addossarla alle Alpi e impadronirsi della via di Torino. Dall’altra parte egli sarebbe sempre potuto giungere ancora in tempo per sbarrare la via di Milano al nemico, se questo avesse passato il Po al di sotto di Pavia.

Un inizio di concentramento ebbe effettivamente luogo. Ma prima che esso fosse completato Gyulai perse la testa a causa dell’occupazione di Novara. Il nemico era vicino
a Milano più di lui! È vero, ma questo era proprio ciò che si era voluto; era venuto il momento del  colpo  tempestivo; il nemico avrebbe dovuto battersi in condizioni sfavorevolissime. Ma Gyulai per quanto potesse essere personalmente coraggioso era vile moralmente. Invece di avanzare rapidamente, indietreggiò facendo descrivere, a marce forzate, un arco al proprio esercito per aggirare il nemico e per sbarrargli di nuovo, presso Magenta, il passo su Milano.

Le truppe furono messe in movimento il 2 giugno ed il quartiere generale fu trasferito a Rosate in Lombardia. Qui giunse il 3 giugno alle cinque e mezzo del mattino il generale di artiglieria Hess. Egli chiese ragione a Gyulai dell’imperdonabile errore e fece subito fermare le truppe, perché riteneva ancora possibile di rivolgere l’urto in direzione  di Novara. Due interi corpi d’armata, il 2° e il 7°, erano già in territorio lombardo, e marciavano da Vigevano su Abbiategrasso. Il 3° corpo aveva ricevuto l’ordine di fermarsi proprio nel momento in cui stava traversando il ponte presso Vigevano. Tornò indietro e prese posizione sulla riva piemontese. L’8° passò per Bereguardo, il 5° per Pavia. Il 9° era sempre lontano e completamente fuori della zona di operazioni.

Dopo essersi informato con precisione sulla dislocazione delle truppe, Hess trovò che era troppo tardi per poter contare su un successo in direzione di Novara; non rimaneva che la direzione di Magenta. Alle dieci del mattino parti l’ordine alle colonne di continuare la marcia su Magenta.

A questa intromissione di Hess e alla perdita di 4 ore e mezzo a causa della sosta delle colonne, Gyulai attribuisce la colpa della sconfitta di Magenta. Quanto infondato sia questo pretesto risulta dai fatti seguenti. Il ponte presso Vigevano dista da Magenta dieci miglia inglesi, una breve giornata di marcia. Il secondo ed il settimo corpo erano già in Lombardia quando venne l’ordine di fermarsi. Essi potevano avere perciò da percorrere al massimo 7-8 miglia circa. Ciò nonostante solo una divisione del 7° corpo giunse fino a Corbetta e 3 brigate del 2° corpo fino a Magenta. La seconda divisione del 7° corpo il giorno 3 non andò oltre Castelletto, presso Abbiategrasso; e il 3° corpo, che ricevette l’ordine di partenza dal ponte presso Vigevano alle 11 del mattino, al più tardi, e aveva perciò davanti a sé buona parte della giornata, non pare abbia coperto le cinque o sei miglia inglesi che lo separavano da Abbiategrasso, perché solo il giorno dopo verso le 4 del pomeriggio poté entrare in combattimento presso Robecco (3 miglia da Abbiategrasso). Qui avvenne evidentemente un ingorgo delle colonne, cosa che rallentò la marcia, in conseguenza dell’organizzazione difettosa.

Quando un corpo ha bisogno di 24 ore e più per coprire 8-10 miglia, 4-5 ore non faranno di certo traboccare la bilancia. L’8° corpo, diretto per Bereguardo e Binasco, dovette fare un tal giro che anche utilizzando le 4 ore e mezza perdute, non avrebbe potuto comparire a tempo sul campo di battaglia. Il 5° corpo, che vi giunse da Pavia con due vere marce forzate riuscì a intervenire nella battaglia la sera del 4 giugno, con una brigata106. Senza la sosta delle 4 ore e mezza difficilmente avrebbe potuto sopportare l’estremo sforzo compiuto per accorrere sul campo di battaglia. Esso guadagnò nell’intensità del movimento ciò che aveva perduto di tempo. Il tentativo di addossare a Hess la colpa della dispersione dell’esercito cadde dunque totalmente.

Il preludio strategico della vittoria di Magenta consiste dunque, in primo luogo, in un errore indubitabile che commise lo stesso Luigi Bonaparte, effettuando una marcia di fianco nel raggio d’azione del nemico e, in secondo luogo, in un errore di Gyulai che, invece di piombare con forze concentrate sulle lunghe colonne in marcia, frantumò il proprio esercito con una contromarcia e una ritirata, per di più impostate in modo pietoso, e condusse le proprie truppe stanche ed affamate alla battaglia. Questa fu la prima fase della guerra. Della seconda parleremo nel prossimo numero.

II

Abbiamo lasciato il nostro vero Napoleone segreto sul campo di battaglia di Magenta. Gyulai gli aveva reso il maggior servigio che un generale può rendere al suo avversario: aveva cioè fatto avanzare le sue forze in modo così disperso che in ogni momento della battaglia si era trovato in condizioni di decisiva inferiorità e nemmeno la sera riuscì a controllare tutte le sue truppe. Il 1° e il 2° corpo si ritirarono verso Milano; l’8° veniva da Binasco, il 5° da Abbiategrasso, il 9° fu condotto molto più giù a passeggio lungo il Po. Questo era il momento buono per un generale; qui bisognava irrompere, con le numerose truppe fresche che erano sopraggiunte durante la notte, tra le colonne austriache isolate, per conquistare una vera vittoria e costringere alla resa interi reparti con bandiere e artiglierie! Così si era comportato il Napoleone volgare a Montenotte e a Millesimo, ad Abensberg e Ratisbona107. Non così il «più grande» Napoleone. Egli è ben al di sopra di un sì rozzo empirismo: sa dal suo Bϋlow che la cosa più vantaggiosa è la ritirata eccentrica. Egli quindi apprezzò pienamente le magistrali disposizioni di ritirata di Gyulai e invece di dargli addosso, telegrafò a Parigi: l’esercito si riposa e si riorganizza. Era sicuro che il mondo non sarebbe stato così scortese da non definire la sua dilettantesca esercitazione di Magenta una «grande vittoria»!

L’amico Gyulai, che già una volta aveva tentato con tanto successo la manovra di aggirare il nemico descrivendo un arco, l’amico Gyulai fece ancora una volta questo esperimento e stavolta in grandi proporzioni. Fece dapprima marciare il suo esercito in direzione sud-est lungo il Po, quindi costeggiò il Po in tre colonne su tre strade parallele fino a Piadena sull’Oglio, quindi di nuovo in direzione nord verso Castiglione. Nel far questo non si affrettò affatto. La via che doveva compiere fino a Castiglione era di circa 120 miglia inglesi, vale a dire dieci giorni di marcia molto comoda, oppure otto di buon passo. Quindi poteva essere sulla posizione di Castiglione al massimo il 14 o il 15, ma egli si ritrovò, con buona parte dell’esercito, sulle alture a sud del lago di Garda soltanto il 19. La fiducia intanto genera la fiducia. Poiché gli austriaci marciavano lentamente, il più grande Napoleone pensò di essere superiore ad essi anche in questo. Il Napoleone volgare si sarebbe affrettato, in primo luogo, a far superare a marce forzate alle sue truppe la strada più breve verso Castiglione, che è di circa 100 miglia inglesi, per schierarsi prima degli austriaci a sud del lago di Garda e presso il Mincio e, se possibile, fare impeto sul fianco delle colonne austriache in marcia. Non così pensò il migliore Napoleone. «Sempre avanti lentamente» è il suo motto. Gli ci volle dal 5 fino al 22 prima di poter concentrare le sue truppe sul Chiese: 17 giorni per coprire cento miglia, cioè due ore scarse di marcia al giorno.

Queste sono le  colossali fatiche che le colonne francesi dovettero sopportare e che riempirono i corrispondenti dei giornali inglesi di tale ammirazione per la resistenza e la imperturbabile serenità dei pioupious108. Soltanto una volta fu compiuto un tentativo per impegnare un combattimento di retroguardie. Si trattava di cacciare da Melegnano una divisione austriaca (Berger). Una brigata teneva la città, l’altra era pronta al di qua del Lambro a coprire la ritirata della prima e non entrò quasi per nulla in combattimento. Qui, dunque, il nostro «generale segreto» dimostrò che, al momento opportuno, conosceva anche la strategia napoleonica: le masse nel punto decisivo! In conseguenza di ciò egli inviò contro questa unica brigata due interi corpi d’armata, cioè dieci brigate; assalita da sei brigate, la brigata austriaca (Roden) resistette tre o quattro ore, e si ritirò soltanto dopo aver perduto un terzo dei suoi effettivi, superando il Lambro senza esser inseguita; la presenza della seconda brigata (Boer) bastò a trattenere la schiacciante preponderanza francese. Si può vedere come la guerra fosse condotta da parte francese con la massima garbatezza.

A Castiglione entrò in scena un altro eroe: Francesco Giuseppe d’Austria. Due degni avversari! Uno ha messo in giro la voce che egli è uno dei più grandi furbacchioni di tutti i tempi; l’altro si compiace di apparire come un valoroso. L’uno non può non essere il più grande generale del suo secolo perché ha la missione di vestirsi dei panni del vero Napoleone, di cui ha pure portato con sé al campo l’autentico bicchiere e altre reliquie; l’altro deve aver la vittoria dalla sua parte perché è nato «comandante supremo» del suo esercito. Il dominio degli epigoni, che si manifesta negli intervalli tra le rivoluzioni del secolo decimo nono, non poteva essere più adeguatamente rappresentato sul campo di battaglia.

Francesco Giuseppe iniziò la sua carriera come generale in capo facendo prendere posizione alle sue truppe in un primo tempo a sud del lago di Garda, per ritirarle al di qua del Mincio; le aveva appena ritirate al di qua del Mincio che le rimandava di nuovo avanti per l’offensiva. Perfino un Napoleone «edizione migliorata» doveva restar sorpreso da una simile manovra e il suo bollettino lo fa capire abbastanza chiaramente. Poiché nello stesso giorno egli si trovava con il suo esercito proprio in marcia verso il Mincio, il risultato fu l’urto fra i due eserciti, la battaglia di Solferino. Faremo a meno qui di occuparci ancora una volta dei particolari di questa battaglia, poiché l’abbiamo già fatto in un precedente numero di questo giornale [Das Volk]; tanto più che il comunicato ufficiale austriaco si è mantenuto volutamente in termini molto confusi, per nascondere i sorprendenti errori del comandante in capo per diritto ereditario. Ad ogni modo è altrettanto certo che la colpa principale della sconfitta ricade su Francesco Giuseppe e sulla sua camarilla. In primo luogo Hess era stato deliberatamente tenuto in di sparte. In secondo luogo al posto di Hess si era messo Francesco Giuseppe. In terzo luogo, per influsso della camarilla, nei posti di comando più importanti era rimasta una massa di incapaci e perfino di gente di coraggio assai dubbio. Da tutte queste circostanze risultò nei giorni della battaglia, anche non tenendo conto del piano originale, una tale confusione che non si può parlare di comando, di movimenti coordinati, di ordini, né di successione coerente di manovre. Soprattutto nel centro sembra abbia regnato una confusione straordinaria. I tre corpi d’armata che erano schierati qui (1°, 5° e  7°) compiono  movimenti così contraddittori e sconnessi  e si intralciano sempre reciprocamente, perdono contatto al momento decisivo in modo tale che dal rapporto austriaco risulta una cosa sola, ma questa con certezza: la battaglia è stata perduta non tanto per inferiorità numerica quanto per colpa del comando vergognosamente inetto. Mai un reparto aiutò l’altro al momento opportuno; le riserve erano dappertutto, tranne che là dove erano necessarie; e così caddero uno dopo l’altro Solferino, San Cassiano, Cavriana, che costituivano, se difesi tutti e tre insieme con tenacia e abilità, una posizione imprendibile. Invece Solferino, che era il punto decisivo, fu perduto già alle due, e con Solferino fu perduta la battaglia; Solferino cadde sotto un attacco concentrico, che soltanto contrattacchi offensivi avrebbero potuto respingere, ma questi mancarono completamente; e, dopo Solferino, caddero gli altri paesi anch’essi per attacchi concentrici, ai quali si contrappose una insufficiente difesa passiva. Tuttavia erano ancora disponibili delle truppe fresche; infatti gli elenchi dei caduti austriaci mostrano che dei venticinque reggimenti di linea impegnati, otto (Rossbach, Joseph, Hartmann, Mecklenburg, Hess, Grϋber, Werhardt, Wimpffen), cioè un terzo, avevano perduto 200 uomini ciascuno, e dunque erano stati impegnati solo in misura insignificante! Tre degli stessi reggimenti, al pari del reggimento di confine di Gradisca109, non perdettero nemmeno cento uomini per reggimento e la maggior parte dei battaglioni dei cacciatori (cinque) perdettero meno di 70 uomini per battaglione. Poiché dunque l’ala destra (8° corpo di Benedek) dovette seriamente impegnare tutte le sue truppe contro forze notevolmente preponderanti, così tutti questi reggimenti e battaglioni scarsamente impegnati si trovarono al centro o all’ala sinistra, e Una buona parte doveva essere dislocata al centro. Questo dimostra quanto miserevole sia stato qui il comando. La cosa è d’altra parte molto facilmente spiegabile; qui era Francesco Giuseppe in persona con la sua camarilla, perciò tutto doveva svolgersi confusamente e senza un piano. Le tredici batterie di riserva non spararono nemmeno un colpo! All’ala sinistra sembra abbia regnato un’analoga assenza di comando. Qui fu in particolare la cavalleria, comandata da «vecchiette», che non prese parte affatto all’azione. Dove si mostrava un reggimento di cavalleria austriaca la cavalleria francese faceva marcia indietro, ma, di otto reggimenti, solo un reggimento di ussari entrò completamente in azione e due reggimenti di dragoni e un reggimento di lancieri attaccarono solo in certa misura. Gli ussari prussiani perdettero 110 uomini, i due reggimenti di dragoni nel complesso 96; le perdite dei lancieri di Sicilia non sono conosciute; i restanti quattro reggimenti perdettero tutti insieme soltanto 23 uomini! L’artiglieria perdette in tutto solo 180 uomini.

Queste cifre dimostrano più di tutto il resto l’incertezza e l’indecisione con le quali i generali austriaci, dall’imperatore fino ai comandanti di corpo, guidarono le loro truppe contro il nemico. Si aggiunga a questo la superiorità numerica e lo slancio morale che i francesi dovevano ai successi precedentemente riportati, e si comprenderà come gli austriaci non potessero vincere. Un solo comandante, Benedek, non si fece intimidire; egli tenne da solo tutta l’ala destra e Francesco Giuseppe non ebbe il tempo di immischiarsene. La conseguenza fu che i piemontesi, nonostante avessero delle forze più che doppie, furono battuti.

Il più grande Napoleone non era un novellino nell’arte militare, come Francesco Giuseppe. Egli aveva fatto il suo noviziato al tempo di Magenta, e sapeva per esperienza come si doveva comportare sul campo di battaglia. Egli lasciò al vecchio Vaillant il compito di calcolare la lunghezza del fronte da occupare, dal che risultava automaticamente la distribuzione dei singoli corpi, e quindi lasciò ai comandanti di corpo di andare avanti per conto proprio, potendo essere abbastanza tranquillo che essi sapevano comandare i loro reparti. Egli poi si portò in quei punti nei quali avrebbe potuto comparire nel modo migliore nell’Illustration parigina del sabato seguente e da qui emanò degli ordini secondari, molto melodrammatici, ma anche molto insignificanti.

III

All’Accademia di Dϋsseldorf c’era molto tempo fa un pittore russo, che più tardi, a causa della sua incapacità e della sua pigrizia, fu relegato in Siberia. Il povero diavolo andava in estasi per il suo imperatore Nicola ed amava raccontare pieno di entusiasmo: «Imperatore molto grande! lmperatore può tutto! Imperatore può anche dipingere! Ma imperatori non hanno tempo per dipingere, imperatori comprano paesaggi e poi vi dipingono  sopra soldati. Imperatore molto grande! Dio è grande, ma imperatore è ancora giovane!».

Il più grande Napoleone ha questo in comune con Nicola, di ritenere che i paesaggi ci siano unicamente per dipingervi sopra dei soldati. Ma poiché non ha mai tempo, nemmeno per dipingervi dei soldati, si accontenta di posare per il ritratto. Il pose; Magenta, Solferino e tutta l’Italia sono solo ornamenti, solo il pretesto, per far apparire di nuovo in questa occasione la sua interessante figura in atteggiamento melodrammatico sulla Illustratione sull’Illustrated London News. E poiché questo si può ottenere con un po’ di denaro, anche questo gli è riuscito. Egli ha detto ai milanesi: «Se vi è della gente che non capisce il proprio secolo» (il secolo della réclame e del bluff), «io non appartengo a questa gente».

Il vecchio Napoleone era grande e il Napoleone «perfezionato» non è più giovane! Quest’ultima constatazione, di non esser più giovane, gli ha allora ispirato anche l’idea che era ormai tempo di concludere la pace. Egli aveva ora ottenuto tutto ciò che si poteva ottenere con un semplice succès d’estime. «In quattro scontri e in due battaglie», con la perdita di oltre 50.000 uomini solo in combattimento, senza contare i malati, egli aveva conquistato il paese sino alle fortezze austriache, cioè quel territorio che l’Austria stessa, erigendo le sue fortezze, aveva fatto capire a tutto il mondo di non voler mai difendere seriamente contro forze preponderanti e che questa volta è stato difeso solo per dar fastidio al maresciallo Hess. La via sacra110, per la quale il più grande Napoleone aveva condotto il suo esercito con sì classica flemma e con sì dubbio successo, fu all’improvviso chiusa. Dall’altra parte si trovava la terra promessa, che non doveva essere veduta non soltanto dall’attuale «Armata d’Italia» ma forse nemmeno dai suoi pronipoti. Rivoli ed Arcole non erano in programma. Verona e Modena erano sul punto di dire una parola, e l’unica fortezza nell’interno della quale il più grande Napoleone è finora entrato con un seguito militare è il castello di Ham, ed egli fu abbastanza contento di poter andar via senza onori militari111. Il colpo di scena era riuscito di per sé molto povero: egli aveva avuto delle grandes batailles, ma alle sue grandes victoires nemmeno il filo telegrafico aveva mai creduto. Una guerra per un campo trincerato, contro il vecchio Hess, una guerra con successi alterni e con probabilità di vittoria sempre più scarse, una guerra che richiedeva un lavoro serio, una vera guerra, questa non era una guerra per il Napoleone della Porte Saint Martin112 e delI’Astley’s Amphitheater. A questo bisogna aggiungere che un passo più in là avrebbe provocato anche una guerra sul Reno e che così sarebbero venute delle complicazioni che avrebbero immediatamente messo fine agli eroici cipigli e alle melodrammatiche poses plastiques. Ma di tali cose il più grande Napoleone non  si occupa: egli concluse la pace e si rimangiò il suo programma.

All’inizio della guerra il nostro Napoleone più grande fece subito pensare alle campagne italiane del Napoleone volgare, alla via sacra di Montenotte, Dego, Millesimo, Montebello, Marengo, Lodi, Castiglione, Rivoli ed Arcole. Confrontiamo dunque la copia con l’originale.

Il Napoleone volgare assunse il comando di 30.000 soldati semiaffamati, scalzi e laceri, in un momento in cui la Francia con le finanze dissestate, nell’impossibilità di contrarre dei prestiti, doveva mantenere non soltanto due eserciti nella zona delle Alpi, ma anche due eserciti in Germania. La Sardegna e gli altri Stati italiani erano non dalla sua parte ma contro di lui. L’esercito che gli stava di fronte era superiore al suo per numero e per organizzazione. Ciò nonostante egli attaccò, batté gli austriaci ed i piemontesi in sei battaglie  rapidamente  susseguentisi,  riuscendo  sempre  ad  assicurarsi  la  superiorità numerica, costrinse il Piemonte a far la pace, passò il Po, forzò il passaggio dell’Adda presso Lodi e assediò Mantova. La prima armata di soccorso inviata dagli austriaci fu da lui battuta presso Lonato e Castiglione e quando avanzò per la seconda volta egli la costrinse con un’audace manovra a gettarsi entro Mantova. La seconda armata di soccorso fu fermata da lui presso Arcole e fu tenuta in iscacco due mesi, sino a quando, rinforzata, essa avanzò da capo per farsi battere presso Rivoli. Poi costrinse Mantova alla resa, ed i principi dell’Italia meridionale alla pace, e penetrò attraverso le Alpi Giulie ai pie di del Semmering, dove ottenne la pace.

Così il Napoleone volgare. Come si è comportato il più grande? Egli trova un esercito che è il migliore e il più forte che la Francia abbia mai avuto ed una situazione finanziaria che almeno gli permette di far fronte facilmente alle spese di guerra mediante prestiti. Ha sei mesi di tempo per preparare, nella pace più profonda, la sua campagna. Ha dalla sua parte la Sardegna, dotata di ottime fortezze e di un esercito eccellente e numeroso; occupa Roma113; l’Italia centrale non aspetta che il suo segnale per sollevarsi ed unirsi a lui. La base delle sue operazioni non si trova nelle Alpi marittime, ma sul medio Po, presso Alessandria e Casale. Dove il suo predecessore aveva i sentieri, egli ha le ferrovie. E che cosa fa? Getta in Italia cinque forti corpi d’armata, così forti che insieme coi sardi supera di molto gli austriaci in quantità, li supera talmente che può ancora cedere il sesto corpo all’armata turistica di suo cugino per una passeggiata militare. Nonostante tutte le ferrovie, gli occorre un mese intero per concentrare le sue truppe. Finalmente avanza. L’incapacità di Gyulai gli fa un regalo con la battaglia indecisa di Magenta che si trasforma in una vittoria a causa delle condizioni strategiche in cui vengono per caso a trovarsi i due eserciti dopo la battaglia, condizioni delle quali il più grande Napoleone non ha nessuna colpa, essendo l’unico colpevole Gyulai. In segno di gratitudine egli lascia che gli austriaci filino via invece di inseguirli. Presso Solferino Francesco Giuseppe lo costringe quasi a vincere; tuttavia il risultato è appena migliore che a Magenta. Allora si presenta la situazione nella quale il Napoleone volgare avrebbe impiegato tutti i suoi mezzi; la guerra si svolge su di un campo dove c’è da fare qualche cosa di reale, ed assume dimensioni tali da appagare una grande ambizione. Giunto al punto in cui comincia, solo allora, la via sacra del Napoleone volgare, dove si apre, solo allora, una prospettiva grandiosa, a questo punto, il più grande Napoleone chiede la pace!

Note

106 Sul giornale Volk nel testo di Engels fu inserita la frase: «Se non ci fosse stata questa fermata di quattro ore e mezzo, il corpo non avrebbe potuto sopportare quell’estrema tensione di forze con la quale s’affrettava al campo di battaglia». Questa frase, giudicata da Engels inopportuna in una lettera a Marx (25 luglio 1859), è qui omessa.

107 Si vedano le note 63 e 72.

108 Pioupious, soprannome dei fanti francesi.

109 Le regioni della periferia meridionale del regno ungarico dall’Adriatico alla Transilvania. A cominciare dal XVI sec, il governo austriaco concesse alla popolazione di queste regioni appezzamenti di terra e privilegi vari in cambio della difesa dell’Austria dalle invasioni turche. Eliminato il pericolo turco, nella seconda metà del XIX sec., questa struttura amministrativa e militare della frontiera fu abolita.

110 Via sacra, via della antica Roma per la quale passavano gli eserciti vittoriosi. L’espressione divenne proverbiale per indicare qualsiasi campagna vittoriosa.

111 Si allude alla incarcerazione di Luigi Bonaparte nella fortezza di Ham dopo il fallimento del suo colpo di Stato di Boulogne (1840), da dove evase nel 1846.

112 Porte Saint Martin, teatro parigino presso il quale, nei giorni del colpo di Stato del dicembre 1851, i bonapartisti fecero strage dei repubblicani.

113 L’occupazione di Roma da parte delle truppe francesi si protrasse dal 1849 al 1870.

Scritto il 20 e 28 luglio e intorno al 3 agosto 1859.

Pubblicato sul Giornale Das Volk nn. 12, 13 e 14,  23, 30 luglio e 6 agosto 1859



K. Marx

Luigi Napoleone e L’Italia

Ogni giorno che passa getta nuova luce sulle parole e sugli atti di Napoleone III in Italia e ci aiuta a comprendere che cosa significhino sulle sue labbra le parole libertà «dalle Alpi all’Adriatico». Per lui la guerra è stata soltanto un’altra spedizione francese su Roma, senza dubbio di maggiori proporzioni da ogni punto di vista, ma non dissimile da quella
impresa «repubblicana» nei motivi e nei risultati114, «Salvata» la Francia da una guerra europea  con  la  conclusione  del  trattato  di  Villafranca,  il  Liberatore  si  accinge  ora  a
«salvare» la società italiana restaurando con la forza i prIncipi, che una parola proveniente dalle Tuilleries aveva cacciato dal potere, e soffocando con le armi i movimenti popolari nell’Italia centrale e nelle Legazioni. Mentre la stampa britannica pullulava di vaghe congetture e di on dit sui probabili cambiamenti che avrebbero presumibilmente subito gli accordi di Villafranca alla Conferenza di Zurigo, e lord John Russell con quell’incorreggibile indiscrezione che indusse lord Palmerston ad affidargli i sigilli del ministero degli esteri, si sentì autorizzato a dichiarare solennemente alla Camera dei Comuni che Bonaparte si sarebbe astenuto dal prestare le sue baionette ai principi detronizzati, la Wiener Zeitung dell’8 agosto portava in prima pagina la seguente dichiarazione ufficiale:

La Conferenza di Zurigo sta per iniziare i suoi lavori, con lo scopo dì giungere alla conclusione della pace di cui le linee principali furono fissate a Villafranca. È difficile per chi consideri il significato evidente della Conferenza, comprendere come la stampa, non solo all’estero ma anche in Austria, si sia concessa la libertà di esprimere dubbi circa l’esecuzione e l’applicabilità degli accordi di Villafranca. Quei preliminari di pace, contrassegnati dalla firma e dai suggelli di due imperatori, racchiudono la garanzia della loro esecuzione negli impegni e nella potenza dei due monarchi.

Questo si chiama parlar chiaro. Da una parte ci sono le vane declamazioni degli italiani delusi, dall’altra c’è il «sic volo, sic jubeo»115 di Francesco Giuseppe e di Luigi Bonaparte, spalleggiato da baionette, cannoni rigati ed altre «armes de precision». I patrioti italiani, se si rifiutano di cedere a melliflue persuasioni, devono piegarsi di fronte al la forza bruta. Non esiste altra alternativa, nonostante l’affermazione contraria di lord John Russell, che egli probabilmente pronunciò in perfetta buona fede, poiché gli era stata messa in bocca allo scopo di sbarazzarsi del Parlamento inglese durante il periodo fissato per schiacciare l’Italia ha sotto il ferreo tallone dei despoti alleati. In quanto al potere temporale del papa nelle Legazioni, Luigi Napoleone non attese neppure la fine della guerra per imporne il mantenimento. I preliminari di Villafranca stipulano la restaurazione dei principi austriaci in Toscana ed a Modena. Negli accordi non è stato incluso il ritorno al potere della duchessa di Parma [Luisa], perché Francesco Giuseppe intende vendicarsi della principessa, la quale aveva dichiarato apertamente di non voler legare il suo destino a quello dell’Austria. Però, colla sua innata magnanimità, Luigi Napoleone ha accondisceso ad ascoltare le umili preghiere della donna errante Per tramite di Walewski egli ha dato la sua parola d’onore al sig. Mon, ambasciatore spagnolo a Parigi, il quale è anche plenipotenziario della duchessa, che questa sarà rimessa sul trono e il suo dominio abbraccerà lo stesso territorio di prima, con la sola eccezione, forse, della fortezza di Piacenza che dovrà essere data a Vittorio Emanuele se questi si comporterà bene alla Conferenza di Zurigo. All’idea di  sostenere  la  parte del  protettore  della sorella  dei Borboni,  il  parvenu non soltanto si è sentito immensamente lusingato, ma ha pensato di avere finalmente scovato un mezzo sicuro per cattivarsi le buone grazie del Faubourg Saint-Germain116  che fino a quel momento aveva respinto sdegnosamente le sue lusinghe e mantenuto nei suoi riguardi un atteggiamento di altezzosa riserva.

Ma come poteva il «liberatore delle nazionalità» diventare il missionario della «Legge e dell’Ordine», il salvatore della «società costituita»? Come assumere con successo questa parte meno poetica? Ciò significava muoversi precipitosamente su un piano inclinato. Creare e protrarre l’incertezza del pubblico circa il vero significato dei preliminari di Villafranca e intrattenerlo con pazze ipotesi e sagge congetture, era ovviamente un metodo per preparare gradualmente l’Europa al peggio. Lord Palmerston, che odia l’Austria, professa di amare l’Italia ed è notoriamente il confidente di Napoleone III, ha aiutato l’uomo di dicembre su questo terreno sdrucciolevole. Messo alla porta il ministro Derby, a causa delle sue simpatie austriache, Palmerston sembra essersi reso garante di fronte a tutta l’Europa, e all’Italia in particolare, delle oneste intenzioni di Napoleone III, suo augusto alleato. E così, alla chetichella, egli ha tolto di mezzo il Parlamento, se pur non l’ha mandato a casa con una menzogna deliberata. La sua esplicita dichiarazione che l’Inghilterra non ha ancora deciso se partecipare o no al Congresso europeo che probabilmente sanzionerà le conclusioni della Conferenza di Zurigo e alleggerirà quindi il far dello d’odio che altrimenti graverebbe sulle spalle di Napoleone, distribuendolo fra tutte le potenze d’Europa — è contraddetta dai giornali prussiani, che hanno pubblicato una nota ufficiosa, in cui si dichiara che l’Inghilterra e la Russia si sono rivolte insieme alla corte di Berlino per do mandare la sua partecipazione al Congresso europeo.

Il secondo passo di Napoleone, che egli fece soltanto dopo che l’eccitazione febbrile dell’opinione pubblica si era alquanto calmata, fu compiuto nel regno di Sardegna. Egli cercò di indurre Vittorio Emanuele a fare il lavoro per lui, cosa non facile ad ottenersi. Sembrava che Vittorio Emanuele avesse guadagnato tutto quello che l’Austria e i suoi vassalli avevano perduto. Egli era divenuto, di fatto se non di nome, il reggente dell’Italia centrale e delle Legazioni, poiché gli abitanti di queste regioni avevano generalmente riconosciuto la sua dinastia per odio dell’Austria, se non per amore del Piemonte. La prima richiesta che il crociato francese della libertà fece al suo nuovo vassallo, fu di rinunciare alla sua posizione di capo ufficiale del movimento popolare. Questo Vittorio Emanuele non poteva rifiutarlo. Egli ritirò i commissari sardi dai ducati e dai territori papali, richiamando Boncompagni da Firenze, Massimo d’Azeglio dalla Romagna e Farmi (almeno nella sua veste ufficiale) da Modena117.

Ma l’imperial liberatore non era ancora soddisfatto. Dalla precedente esperienza in Francia, aveva tratto ragione per conchiudere che, abilmente manipolato, il suffragio popolare è il miglior meccanismo del mondo per stabilire un dispotismo su una base solida e dignitosa. Di conseguenza, incaricò il re di Sardegna di influire sulle elezioni popolari nelle province insorte in modo che la restaurazione dei loro principi apparisse come il risultato della volontà del popolo. Vittorio Emanuele non volle naturalmente saperne di una richiesta che se soddisfatta avrebbe frustrato per sempre ogni prospettiva di indipendenza italiana, e avrebbe trasformato gli evviva in un grido generale di esecrazione in tutta la penisola. Si dice che egli abbia risposto al conte de Reiset, il francese inviato a tentarlo:

Monsieur, io sono anzitutto un principe italiano; non dimenticate questo fatto. Gli interessi dell’Italia mi sembrano più importanti di quelli dell’Europa ai quali avete avuto la compiacenza di alludere. Non posso prestare l’autorità del mio nome alla restaurazione dei principi detronizzati e non lo farò. Sono già troppo indulgente per mettendo che le cose seguano il loro corso, come sta avvenendo.

E si dice anche che il cavalleresco re abbia aggiunto:

Se si intende giungere all’intervento armato, sentirete parlare di me. In quanto alla confederazione, il mio interesse e il mio onore vi si oppongono egualmente, e perciò la combatterò sino alla morte.

Non appena questa risposta fu trasmessa a Parigi, comparve il famoso articolo di Granier de Cassagnac sull’ingratitudine italiana118, contenente il sinistro avvertimento che qualora venisse ritirata la protezione di una mano potente, l’aquila austriaca non tarderebbe a posarsi sul palazzo reale di Torino. Vittorio Emanuele fu allora informato che il possesso di Piacenza sarebbe dipeso dalla sua buona condotta, che la relativa influenza dei principi italiani nella progettata confederazione era ancora materia di discussione. E il colpo finale gli fu dato mettendo sul tappeto la questione della nazionalità della Savoia, accompagnata dall’avvertimento che, se Bonaparte aveva aiutato Vittorio Emanuele a liberare l’Italia dal giogo austriaco, non poteva rifiutarsi di liberare la Savoia dal giogo  della  Sardegna. Queste minacce assunsero tosto forma tangibile nell’agitazione che, ad un segnale da Parigi, scoppiò nel partito feudale e cattolico della Savoia.

…… I savoiardi (esclamò un giornale parigino) sono stanchi di spendere il loro denaro e di spargere il sangue dei loro figli per la causa italiana…..

Questo era un forte argumentum ad hominem119 per Vittorio Emanuele e, se egli non ha accettato apertamente l’incarico propostogli, v’è qualche ragione di temere che abbia almeno promesso di preparare il terreno per un intervento armato francese. La notizia contenuta nel telegramma datato Parma, 9 agosto, secondo la quale «i piemontesi sono stati cacciati dalla città, mentre i possidenti e gli amici dell’ordine si danno alla fuga», se degna di fede, promette poco di buono per il futuro. Ma vera o falsa che sia, potrebbe essere il segnale dello intervento per il «salvatore dell’Ordine e della Proprietà», della marcia dei suoi zuavi contro gli «incorreggibili anarchici», e dell’azione destinata ad aprire la strada del ritorno ai principi, uno dei quali [Ferdinando IV di Lorena, conte dell’Alberese], il figlio del granduca di Toscana, a favore del quale il padre aveva abdicato, ha avuto
«un’accoglienza cordiale» alle Tuilleries. E le truppe francesi, che erano sulla via del ritorno in patria, hanno ricevuto l’ordine di rimanere in Italia, cosìcché gli ostacoli che si frappongono al successo dei negoziati di Zurigo non tarderanno a scomparire.

Note

114 Si tratta dell’invio in Italia, su iniziativa di Luigi Bonaparte, Presidente della Repubblica francese, di un corpo di spedizione contro la Repubblica romana e per restaurare il potere temporale del papa.

115 Sic volo, sic jubeo (e più precisamente: Hoc volo, hoc jubeo), citazione dalla VI satira di Giovenale contro la sete smisurata di potere dell’aristocrazia.

116 Quartiere aristocratico parigino.

117 I legati plenipotenziari furono inviati da Vittorio Emanuele II nei ducati insorti contro il dominio austriaco e nella Romagna (Io Stato della Chiesa) per prepararne l’annessione al Piemonte. Stipulato il trattato di Villafranca (vedi nota 101), che suscitò proteste in tutta l’Italia, il re, in seguito a pressioni da parte francese, richiamò i suoi legati.

118 Si tratta dell’articolo del giornalista francese Granier de Cassagnac intitolato L’ingratitudine  dell’Italia
pubblicato sul Constitutionnel il 3 agosto 1859.

119 Argomento che, per confutare l’avversario, assume come valido il principio ammesso da questo e quindi non può avere portata generale.


Scritto a metà agosto 1859.

Pubblicato come articolo di fondo sulla New York Daily Tribune n. 5725, 29 agosto 1859



K. Marx

Da: Un punto di vista radicale sulla pace

……. Quanto all’Italia, dobbiamo giudicare il suo stato dai fatti, non dai proclami. C’è Garibaldi, incapace di ottenere il denaro necessario per armare il suo esercito di volontari120 e c’è questo esercito, la cui forza appare quasi ridicola quando la si paragona alle schiere che accorsero ad arruolarsi in Prussia durante la guerra di indipendenza121 al tempo in cui la Prussia era diventata uno Stato di dimensioni ancora minori della Lombardia.

Lo stesso Mazzini, nel suo appello a Vittorio Emanuele122 confessa che la corrente dell’entusiasmo nazionale va rapidamente congelandosi nelle paludi della provincia, e che stanno bellamente maturando le condizioni per un ritorno al vecchio stato di cose. È vero che il triste intermezzo tra il trattato di Villafranca e la pace di Zurigo fu colmato, nei ducati e in Romagna, da alcuni grandi fatti politici, sotto la direzione dei registi piemontesi; ma, ad onta dei rumorosi applausi di tutte le gallerie d’Europa, quei prestigiatori politici fecero solo il giuoco dei loro nemici segreti. I toscani, i modenesi, i parmensi e i romagnoli furono i benvenuti quando stabilirono dei governi provvisori, deposero i loro principi assenteisti dai loro minuscoli troni e proclamarono Vittorio Emanuele Re eletto; ma, al tempo stesso pervenne loro l’ingiunzione di accontentarsi di queste formalità, di star quieti e di lasciare il resto alla provvidenza francese intenta a fissare il loro destino a Zurigo e particolarmente avversa a tutte le fantasie d’entusiasmo, alle esplosioni delle passioni popolari e alle al révolutionnaires in generale. Essi dovevano tutto aspettarsi non dal vigore dei loro sforzi, ma dalla modestia della loro condotta, non dal loro potere, ma dalla buona grazia di un despota    straniero. L’Italia centrale sarebbe dovuta passare dal giogo straniero all’autogoverno nazionale non meno placidamente di quanto una proprietà terriera viene trasferita da un proprietario all’altro. Nulla fu cambiato nell’amministrazione in terna, ogni agitazione popolare fu messa in tacere, la stessa libertà di stampa fu soffocata e, per la prima volta forse nella storia d’Europa, sembrò che si potessero raccogliere i frutti di una rivoluzione senza passare attraverso le prove di una rivoluzione. Con questo l’atmosfera politica dell’Italia ha si era raffreddata a tal punto da permettere a Luigi Bonaparte di presentarsi con le sue conclusioni belle e pronte lasciando gli italiani in preda alla loro rabbiosa impotenza.

Con un esercito francese a Roma, un altro esercito francese in Lombardia, un esercito austriaco che vigila minaccioso dal Tirolo, un altro esercito austriaco che occupa il quadrilatero e soprattutto con lo spegnitoio messo così abilmente dai piemontesi sull’entusiasmo popolare, restano oggi ben poche speranze per l’Italia. In quanto alla pace di Zurigo, richiamiamo particolarmente l’attenzione sui due articoli che non si trovano nella prima edizione del trattato123. Uno di questi articoli impone alla Sardegna un debito di 250 milioni di franchi, da pagarsi in parte a Francesco Giuseppe, e in parte proveniente dalla responsabilità addossatale di far fronte ai tre quinti del passivo della Banca lombardo- veneta. Con questo nuovo debito di 250 milioni di franchi sommato ai debiti contratti durante la spedizione di Crimea e l’ultima guerra italiana, cui va aggiunto un conticino presentato pochi giorni fa da Luigi Napoleone per il suo patrocinio armato, la Sardegna non tarderà a trovarsi tosto allo stesso livello di prosperità finanziaria del suo odiato antagonista. L’altro articolo cui abbiamo accennato sancisce che

….. i confini territoriali degli Stati indipendenti dell’Italia che  non hanno partecipato all’ultima guerra, possono essere cambiati soltanto coi consenso delle altre potenze europee che hanno preso parte alla formazione di questi Stati e ne garantiscono l’esistenza. (Al tempo stesso) i diritti dei principi di Toscana, Modena, e Parma sono espressamente riservati al beneplacito delle alte potenze contraenti.

Così i governi provvisori italiani, una volta sostenuta la parte che era stata loro assegnata, vengono ignorati col massimo disprezzo, e le popolazioni, che essi hanno fatto il possibile per mantenere in uno stato di così normale passività, possono, se lo desiderano, andare a tendere la mano alla porta degli autori del trattato di Vienna.

Note

120 Nel corso della guerra con l’Austria Vittorio Emanuele Il, temendo l’espansione del movimento rivoluzionario nel paese, fece di tutto per limitare le operazioni del corpo garibaldino mettendolo nelle condizioni più sfavorevoli. Concluso il trattato di Villafranca, Garibaldi propose di continuare la lotta contro gli austriaci. Nel novembre 1859, però, su insistenze del re, il corpo fu di sciolto.

121 Si tratta della guerra di liberazione nazionale del popolo tedesco contro il dominio napoleonico negli anni 1813-1815.

122 Si tratta della lettera di Mazzini a Vittorio Emanuele II del 16 settembre 1859, rimasta senza risposta, nella quale egli proponeva al re di mettersi a capo della lotta di liberazione di tutta Italia, di sollevare con l’aiuto di Garibaldi il Meridione e di organizzare la marcia su Roma.
123 Si tratta del trattato preliminare di Villafranca (vedi nota 101).

Scritto il 20 ottobre 1859.

Pubblicato sulla .Nev York Daily Tribune  n. 5786, 8 novembre 1859



F. Engels

Da: Savoia, Nizza e Reno

I

…. Questo era l’autentico comando austriaco di vecchio tipo. Quello che non riuscì a fare da sola l’incapacità di Gyulai lo fece la mancanza di unità nel comando, assicurata dalla camarilla e dalla presenza di Francesco Giuseppe. Gyulai irruppe nella Lomellina e si fermò appena entrato nella zona di Casale-Alessandria; l’intera offensiva era fallita. I francesi si unirono senza ostacoli ai sardi. Per provare in modo esauriente la propria indecisione, Gyulai ordinò la ricognizione di Montebello, come se volesse dimostrare fin da principio che lo spirito della vecchia Austria, fatto d’incerti brancolamenti e di gravi irrisolutezze nella condotta della guerra, era pur sempre vivo, come ai tempi del defunto Consiglio aulico di guerra124. Lascia completamente l’iniziativa al nemico. Disperde il suo esercito da Piacenza fino a Verona per coprire ogni tratto direttamente, secondo la prediletta maniera austriaca. Le tradizioni di Radetzky sono già cadute in dimenticanza dopo dieci anni. Mentre il nemico attacca a Palestro, le brigate austriache entrano in combattimento l’una dopo l’altra così lentamente, che l’una è sempre rigettata dalla posizione già prima dell’arrivo dell’altra. E quando il nemico intraprende realmente la manovra la cui possibilità soltanto dava un senso a tutta la posizione della Lomellina — la marcia di fianco da Vercelli alla Buffalora — quando finalmente si presenta l’occasione di parare con un colpo verso Novara questa manovra arrischiata e di sfruttare la situazione sfavorevole nella quale si trovava il nemico, allora Gyulai perde la testa e rivalica il Ticino per presentarsi — facendo un giro — di traverso sul fronte dell’attaccante. Nel bel mezzo di questa ritirata — il 3 giugno alle 4 di mattina — Hess fa la sua comparsa al quartiere generale di Rosate. Sembra che al consiglio aulico di guerra, ricostituito a Verona, fossero venuti dei dubbi sulla capacità di Gyulai proprio nel momento decisivo. E adesso vi erano perciò due comandanti in capo. Su proposta di Hess tutte le colonne si fermano, finché Hess si è convinto che il momento per l’attacco a Novara è passato e che bisogna lasciar andare le cose per il loro verso. Frattanto sono passate circa cinque ore, durante le quali le truppe hanno interrotto la marcia [Vedi la spiegazione fornita dal capitano Blakeley, il primo corrispondente del Times nel campo austriaco, su questo giornale125 in cui vengono riportati i fatti citati. Nella Darmstädter Allgeneine Militär Zeitung si trova una difesa di Gyulai, in cui si dice che la sosta di cinque ore fu dovuta a un avvenimento non comunicabile per ragioni di servizio e indipendente dall’azione di Gyulai, e ad essa si attribuisce la perdita della battaglia. Blakeley aveva però già comunicato in che cosa consistesse l’avvenimento.]

Esse giungono nel corso del 4 a Magenta alla spicciolata, affamate, stanche; si battono tuttavia egregiamente e con ottimi risultati, finché Mac-Mahon, in contrasto con le sue disposizioni, che parlano di una diretta avanzata da Turbigo a Milano, piega su Magenta e attacca il fianco austriaco. Intanto giungono gli altri corpi francesi, quelli degli austriaci ritardano, e la battaglia è perduta. La ritirata de gli austriaci procede così lentamente che presso Melegnano una delle loro divisioni è assalita da due interi corpi d’armata francesi. Una brigata mantiene le posizioni contro sei brigate francesi per parecchie ore e cede soltanto dopo aver perduto più della metà dei suoi effettivi. Finalmente Gyulai viene richiamato. L’esercito marcia da Magenta a Milano descrivendo un grande arco e ha il tempo (tanto  poco  si  poteva parlare di inseguimento!) di giungere nella posizione di Castiglione e di Lonate ancor prima del nemico, che marciava lungo la corda, cioè su una linea più breve. Questa posizione, da anni esplorata minuziosamente dagli austriaci, Francesco Giuseppe l’aveva scelta, così si dice, espressamente per le sue truppe. Il fatto è che essa da lungo tempo era inclusa nel sistema difensivo del quadrilatero e offriva un’eccellente posizione per una battaglia difensiva con contraccolpo offensivo. Qui dunque l’esercito si riunì con i rinforzi che frattanto erano giunti o che fino allora erano stati tenuti indietro; ma appena il nemico è giunto sull’altra riva del Chiese, risuona di nuovo il segnale di ritirata e si passa al di qua del Mincio. Questa operazione è appena terminata che di nuovo l’esercito austriaco passa al di là dello stesso fiume, per riprendere ora al nemico quella stessa posizione che poco prima gli aveva ceduto spontaneamente. E in questa confusione di ordine, contrordine e disordine, piuttosto indebolito nella sua fiducia verso il comando supremo, l’esercito austriaco si trova impegnato nella battaglia di Solferino. È una disordinata carneficina da ambedue le parti; non si poteva parlare di direzione tattica né da parte francese né da parte austriaca; la maggiore incapacità, la confusione e il timore della responsabilità dei generali austriaci, la maggior sicurezza dei comandanti di brigata e di divisione francesi, la naturale superiorità dei francesi, sviluppata al massimo grado in Algeria, nel combattimento sparso e di villaggio, cacciarono alla fine gli austriaci dal campo di battaglia. Con ciò si chiuse la campagna, e il più contento fu il povero signor Orges, che sull’Augsburger Allgemeine Zeitung aveva dovuto lodare per lungo e per largo il comando supremo austriaco e aveva dovuto attribuirgli motivi strategici razionali!

Anche Luigi Napoleone ne aveva abbastanza. La magra gloria di Magenta e di Solferino era sempre più di quel che egli avesse diritto di attendersi e tra le fatali quattro fortezze poteva ben giungere il momento in cui gli austriaci non si lasciassero più battere dai propri generali. Inoltre la Prussia mobilitava e né l’armata francese del Reno né i russi erano
pronti alla guerra. In breve, fu lasciata cadere l’idea dell’Italia libera fino al Mare Adriatico; Luigi Napoleone offrì la pace e fu firmato il trattato di Villafranca. La Francia non otteneva nessun pezzo di terra; la Lombardia, che le veniva ceduta, la regalava generosamente al Piemonte: essa aveva fatto la guerra per un’idea; come poteva aver pensato al confine del Reno!

Frattanto l’Italia centrale si era annessa provvisoriamente al Piemonte e il Regno dell’Alta Italia rappresentava ora una potenza abbastanza rispettabile.

Le precedenti province della terraferma e l’isola di Sardegna rappresentavano una popolazione di

4.730.500 abitanti
La Lombardia tranne Mantova circa
2.651.700 abitanti
Toscana
1.719.900 abitanti
Parma e Modena
1.090.900 abitanti
La Romagna (Bologna, Ferrara, Ravenna e Forli)
1.058.800 abitanti
Totale (secondo le cifre del 1848)
11.251.800 abitanti

La superficie dello Stato si allargava da 1.873 a 2.684 miglia tedesche quadrate126. Il Regno dell’Alta Italia sarebbe dunque, se si costituisse definitivamente, la prima potenza italiana. Di fronte ad esso rimangono ancora soltanto

le Venezie
2.452.900 abitanti
Napoli
8.517.600 abitanti
ciò che resta dello Stato Pontificio
2.235.600 abitanti
Totale
13.206.100 abitanti

cosicché dunque l’Alta Italia da sola avrebbe una popolazione quasi pari a quella di tutti gli altri Stati regionali italiani messi insieme. Per la sua potenza finanziaria e militare e per il grado di civiltà dei suoi abitanti, un tale Stato potrebbe pretendere di esser collocato in Europa prima della Spagna, cioè subito dopo la Prussia e, certo della crescente simpatia del resto dell’Italia, lo esigerebbe senz’altro.

Ma non era questo che la politica bonapartista aveva voluto. Un’Italia unita, essa lo aveva apertamente dichiarato, la Francia non può né potrà mai tollerarla. Per indipendenza e libertà d’Italia essa intendeva una specie di confederazione renana italiana, sotto la tutela bonapartista e sotto la presidenza onoraria del papa: la sostituzione dell’egemonia austriaca con quella francese. A ciò si accompagnava la benevola intenzione di fondare nell’Italia centrale un regno d’Etruria, un regno di Vestfalia italiano, per l’erede di Girolamo Bonaparte127. A tutti questi piani pose fine il consolidamento dello Stato dell’Alta Italia. Girolamo Bonaparte junior non aveva ottenuto nulla nella sua marcia attraverso i Ducati, neppure un voto; l’Etruria bonapartista era irrealizzabile come lo era la restaurazione, non rimaneva altro che l’annessione al Piemonte128.

Ma, a mano a mano che risultava inevitabile l’unificazione dell’Italia settentrionale, veniva anche in luce l’«idea» per la quale la Francia aveva stavolta fatto la guerra:

l’idea dell’annessione della Savoia e di Nizza alla Francia. Già durante la guerra si erano levate delle voci, le quali sostenevano che questo fosse il prezzo dell’intervento francese in Italia. Ma non erano state ascoltate. E non le confutava il trattato di Villafranca? Ciò nonostante il mondo venne a sapere tutto a un tratto che, sotto il regime nazionale e costituzionale del re galantuomo», due province languivano dominate dallo straniero — due province francesi che volgevano con nostalgia gli occhi pieni di lacrime alla grande madrepatria, dalla quale soltanto la brutale violenza le teneva separate — e che Luigi Napoleone non poteva più a lungo rimanere insensibile al grido di dolore che si levava dalla Savoia e da Nizza.

Ora risultava veramente che Nizza e Savoia rappresentavano il prezzo al quale Luigi Napoleone aveva intrapreso l’unificazione della Lombardia e del Veneto con il Piemonte e che egli, poiché il Veneto per il momento non si poteva avere, se le prendeva come prezzo del suo consenso all’annessione dell’Italia centrale. Ora cominciarono le ripugnanti manovre degli agenti bonapartisti nella Savoia e a Nizza e i clamori della stampa prezzolata di Parigi, secondo cui il governo piemontese soffocava la volontà popolare in queste province, che chiedevano ad alta voce l’annessione alla Francia; ora finalmente si affermò apertamente a Parigi che le Alpi erano il confine naturale della Francia e che la Francia aveva diritto ad esse.

II

Se la stampa francese sostiene che la Savoia è francese per lingua e costumi, la stessa cosa è almeno altrettanto vera per la Svizzera francese, per la parte vallona del Belgio e per le isole anglo-normanne del Canale. Il popolo savoiardo parla un dialetto francese meridionale e la lingua scritta e colta è dappertutto il francese. Tanto poco si può parlare di un elemento italiano in Savoia, che anzi la lingua popolare francese (cioè il francese meridionale o provenzale) si estende anche al di là delle Alpi, entro il Piemonte, fino alle alte valli della Dora Riparia e della Dora Baltea. Ciò nonostante prima della guerra non si avvertivano quasi affatto simpatie per un’annessione alla Francia, pensieri simili erano nutriti soltanto da singoli qua e là nella Bassa Savoia, che ha un certo traffico commerciale con la Francia; alla massa della popolazione quei sentimenti erano estranei, come lo sono in tutte le altre regioni di lingua francese confinanti con la Francia. È in generale caratteristico che nessuna delle regioni che furono incorporate alla Francia dal 1792 al 1812 abbia la minima voglia di ritornare sotto le ali dell’aquila francese. Ci si è appropriati dei frutti della prima rivoluzione francese, ma se ne ha fin sopra i capelli della rigida centralizzazione amministrativa, del governo dei prefetti, dell’infallibilità degli apostoli della civiltà inviati da Parigi. Le simpatie che erano state nuovamente risvegliate dalle rivoluzioni di luglio e di febbraio, sono state subito di nuovo soffocate dal bonapartismo. Nessuno ha voglia di importare Lambessa, Caienna e la loi des suspects129.A ciò si aggiunge ancora l’isolamento di tipo cinese in cui si è chiusa la Francia nei confronti di quasi tutto il commercio d’importazione, e che è sentito più che altrove proprio ai confini. La Prima Repubblica trovò a tutti i confini province oppresse, dissanguate, popoli divisi, privati di tutti i naturali interessi comuni, ai quali essa portò l’emancipazione delle popolazioni rurali, dell’agricoltura, dell’industria, del commercio. Il Secondo Impero urta, a tutti i confini, contro una maggiore libertà di quella che esso stesso può offrire; urta in Germania e in Italia contro un sentimento nazionale rafforzato, nei paesi minori contro interessi particolari consolidati, che, attraverso quarantacinque anni di sviluppo industriale straordinariamente rapido, si sono allargati, intrecciandosi in tutte le direzioni con il commercio mondiale; esso non porta nient’altro che il dispotismo dell’epoca romana dei Cesari, l’imprigionamento del commercio e del l’industria nel grande carcere della sua linea doganale e tutt’al più ancora il libero passaggio per il paese dove cresce il pepe [Gioco di parole con cui Engels, da una parte, allude alla Caienna, capitale della Guiana francese, nota per i suoi ergastoli e per le sue spezie (pepe di Caienna), e, dall’altra, riprende un’espressione popolare tedesca che corrisponde all’italiano: mandare a quel paese.]

Separata dal Piemonte dalla catena principale delle Alpi, la Savoia riceve quasi tutto ciò che le abbisogna dal nord, da Ginevra e in parte da Lione, proprio come dall’altra parte il Canton Ticino, che giace a sud dei valichi alpini, si rifornisce da Genova e da Venezia. Se questa circostanza è un motivo per la separazione dal Piemonte, ad ogni modo non lo è in nessun caso per l’annessione alla Francia, poiché la metropoli commerciale della Savoia è Ginevra; a ciò provvedono, oltre la situazione geografica, la saggezza della legislazione doganale francese e le vessazioni della dogana francese.

Ma, nonostante la lingua, l’origine comune e la catena delle Alpi, i savoiardi non mostrano la minima voglia di farsi rendere felici dalle istituzioni imperiali della grande madrepatria francese. Vive in loro il sentimento tradizionale che non l’Italia ha conquistato la Savoia, ma la Savoia ha conquistato il Piemonte. Dalla piccola Bassa Savoia il guerriero popolo montanaro di tutta la provincia si unì in uno Stato, per poi scendere nella pianura italiana ed annettersi uno dopo l’altro, sia con la conquista che con la politica, il Piemonte, il Monferrato, Nizza, la Lomellina, la Sardegna e Genova. La dinastia si stabili a Torino e diventò italiana, ma la Savoia rimase la culla dello Stato e la croce di Savoia è oggi lo stemma dell’Italia settentrionale, da Nizza a Rimini e da Sondrio a Siena. La Francia conquistò la Savoia nelle campagne dal 1792 al 1794, e fino al 1814 il paese si chiamò Département du Mont-Blanc. Ma nel 1814 non era affatto incline a rimanere francese; l’unica questione era l’annessione alla Svizzera o il ritorno all’antico legame con il Piemonte. Ciò nonostante la Bassa Savoia rimase francese fin dopo i Cento giorni130 allorché fu restituita al Piemonte. L’antica tradizione storica si è naturalmente indebolita col tempo; la Savoia fu trascurata, le province italiane dello Stato acquistarono troppa preponderanza; gli interessi della politica piemontese si volgevano sempre più verso sud e verso est. È tanto più da rilevare che nutriva soprattutto brame separatiste proprio quella classe della popolazione che sosteneva tuttavia di essere più di ogni altra la depositaria della tradizione storica, la vecchia nobiltà conservatrice e ultramontana; e queste brame tendevano all’annessione alla Svizzera, finché colà domina vano le antiche costituzioni oligarchiche di tipo patrizio; soltanto dopo l’affermazione generale della democrazia in Svizzera esse mostrano di aver preso un’altra direzione; sotto Luigi Napoleone la Francia è divenuta abbastanza reazionaria e ultramontana per apparire alla nobiltà savoiarda come un rifugio dalla politica rivoluzionaria del Piemonte.

Attualmente lo stato delle cose sembra sia questo: in generale non vi è alcun desiderio di separare la Savoia dal Piemonte. Nella parte superiore del paese, Maurienne, Tarantaise ed Alta Savoia, la popolazione è decisamente per lo status quo. Nel Ginevrino, Faucigny e Chablais, se mai dovesse avvenire un mutamento, l’annessione alla Svizzera è preferita ad ogni altra soluzione; soltanto qua e là nella Bassa Savoia, e ancor più in generale nella nobiltà reazionaria della regione, si manifesta una tendenza all’annessione con la Francia. Queste voci sono però così isolate che perfino a Chambéry la stragrande maggioranza della popolazione vi si oppone decisamente e la nobiltà reazionaria (vedi la dichiarazione di Costa de Beauregard) non osa confessare le sue simpatie.

Questo per quanto riguarda la questione della nazionalità e della volontà popolare.

Ed ora, quali sono gli aspetti della questione militare? Quali vantaggi strategici dà il possesso della Savoia al Piemonte, quali vantaggi darebbe alla Francia? E quali conseguenze un cambiamento di possesso in Savoia avrebbe sul terzo Stato confinante, la Svizzera?

Da Basilea a Briançon il confine francese descrive un arco ampio e fortemente rientrante; un buon pezzo della Svizzera e tutta la Savoia penetrano qui entro il territorio francese. Se tracciamo la corda di questo arco, troviamo che il segmento circolare viene colmato quasi esattamente dalla Svizzera francese e dalla Savoia. Se il confine della Francia venisse fatto avanzare fino a questa corda, costituirebbe da Lauterburg al Fréjus su per giù una linea retta come da Lauterburg a Dunkerque; ma questa linea avrebbe per la difesa ben altra importanza che non quella. Mentre il confine settentrionale è interamente scoperto, il confine orientale sarebbe protetto nella parte settentrionale dal Reno e nella parte meridionale dalle Alpi. Veramente tra Basilea e il Monte Bianco nessun tratto del suolo segnerebbe la linea di confine; piuttosto in questa zona il «confine naturale» sarebbe costituito dal Giura fino a Fort l’Ecluse e da qui in poi dal ramo delle Alpi che partendo dal Monte Bianco delimita a sud la valle dell’Arve e termina appunto presso Fort l’Ecluse. Ma se il confine naturale disegna un arco concavo rientrante, allora esso non adempie affatto il suo scopo e non è dunque più un confine naturale. E se accade che questo segmento circolare rientrante, che spinge indietro in modo così innaturale il nostro confine, è per di più abitato da gente che «per lingua, costumi e civiltà» è francese, non deve forse essere rettificato l’errore commesso dalla natura, non deve forse essere ristabilita praticamente la convessità teoricamente richiesta, o, per lo meno, la linea retta, o debbono dunque i francesi che vivono al di là dei confini naturali, essere sacrificati a un lusus naturae?

Che simili ragionamenti bonapartisti non siano senza importanza, lo dimostra il Primo Impero, che andò avanti di annessione in annessione, finché non fu messo nell’impossibilità di nuocere; anche il confine più perfetto ha i suoi punti deboli, dove si può migliorare e correggere; e, se si è in grado di fare il proprio comodo, si può continuare senza fine nelle annessioni. In ogni caso dal suesposto ragionamento deriva quanto segue: ciò che si può dire per l’annessione della Savoia, tanto in relazione alla nazionalità quanto agli interessi militari della Francia, vale anche per la Svizzera francese.

Le Alpi, che dal Colle di Tenda seguono una direzione nord-ovest, dal Monte Tabor, che costituisce la pietra di confine tra il Piemonte, la Savoia e la Francia, si volgono nella loro direzione generale verso nord per piegare ancor più est a partire dal Monte Gigante, punto di confine tra il Piemonte, la Savoia e la Svizzera. Di conseguenza dal Monte Tabor fino al Monte Gigante le Alpi possono costituire il confine naturale della Francia soltanto se questo confine continua in linea retta dal Monte Gigante a Basilea. In altre parole: la richiesta dell’annessione della Savoia alla Francia include in sé la richiesta dell’annessione della Svizzera francese.

In tutto il tratto in cui la cresta principale delle Alpi costituisce l’attuale confine dei due Stati, vi è soltanto un valico munito di fondo stradale: quello del Monginevro. Oltre a questo c’è ancora il Col d’Argentera, che porta da Barcellonette nella valle dello Stura, che può essere attraversato con l’artiglieria, e anche altre mulattiere possono essere rese con un certo sforzo transitabili per tutte le armi. Ma finché la Savoia e Nizza offrono ciascuna due passi muniti di fondo stradale sulla catena principale delle Alpi, ogni assalitore francese, se non è ancora in possesso di queste province, ne conquisterà almeno una, prima di valicare le Alpi. Si aggiunga poi che per un attacco dalla parte della Francia, dal
Monginevro possibile soltanto una puntata diretta su Torino, mentre il Moncenisio e ancor più il Piccolo San Bernardo, i due valichi della Savoia, esercitano un’azione di fianco; e che, per un esercito italiano attaccante, il Monginevro rende necessario un lungo giro per inferire un colpo al cuore della Francia, mentre il Moncenisio costituisce la grande strada maestra da Torino a Parigi. Non può dunque venir in mente a nessun generale di adoperare il Monginevro altrimenti che per colonne di fianco; la linea di operazioni principale passerà sempre attraverso la Savoia.

Il possesso della Savoia darebbe dunque alla Francia soprattutto un territorio del quale essa ha bisogno assoluto per una guerra d’attacco contro l’Italia e che altrimenti dovrebbe prima conquistare. Un esercito italiano che si trovi sulla difensiva non impegnerà certamente una battaglia decisiva per difendere la Savoia, ma esso può in una certa misura trattenere gli attaccanti, conducendo una vivace guerra di montagna e guastando le strade già nella parte superiore delle valli delI’Arc e dell’Isère (che sono percorse dalle strade del Moncenisio e del San Bernardo) e quindi può anche mantenere per qualche tempo il declivio settentrionale della catena principale delle Alpi. Di una difesa assoluta si può qui parlare naturalmente come se ne può parlare in una guerra di montagna; la battaglia decisiva sarà riservata al momento della discesa del nemico nella pianura. Ma si sarà guadagnato sicuramente del tempo, che può essere decisivo per la concentrazione delle forze per la battaglia principale e che è particolarmente importante per un paese così allungato e povero di ferrovie come l’Italia, di fronte a un paese compatto e dotato di un’eccellente rete ferroviaria strategica come la Francia; e questo tempo è sicuramente perduto se la Francia possiede la Savoia già prima della guerra. Ma l’Italia non farà mai da sola una guerra contro la Francia; e se ha degli alleati, vi è la possibilità che i due eserciti si equilibrino già in Savoia. La conseguenza di ciò sarà che la lotta per il possesso della catena alpina andrà in lungo; che nel peggiore dei casi gli italiani manterranno per un po’ di tempo il declivio settentrionale della catena e dopo averlo perduto contrasteranno ai francesi il declivio meridionale, poiché padrone di una cresta montagnosa è soltanto chi ne possiede i due versanti e può valicarla. Che poi l’attaccante sia ancora abbastanza forte e deciso da seguire il difensore nella pianura, questo è assai dubbio.

Le campagne combattute in Savoia dal 1792 al 1795 ci danno un esempio di una tale incerta guerra di montagna, anche se l’azione fu da ambo le parti fiacca, indecisa e brancolante.

Il 21 settembre 1792 il generale Montesquiou irruppe in Savoia. I 10.000 sardi che la difendevano erano, secondo la moda preferita del tempo, talmente sparpagliati in una catena di presidi, che non poterono raccogliere in nessun luogo forze sufficienti per resistere. Chambéry e Montmélian furono occupate e i francesi percorsero le valli fino ai piedi della catena principale delle Alpi. La cresta però rimaneva interamente nelle mani dei sardi, i quali il 15 agosto 1793, dopo alcuni piccoli combattimenti agli ordini del generale Gordon, avanzarono di nuovo contro i francesi, indeboliti dagli invii di truppe all’assedio di Lione, e li ricacciarono dalle valli dell’Arc e dell’Isère verso Montmélian. Qui le colonne sconfitte si unirono alle loro riserve, Kellermann tornò indietro da Lione, passò subito all’attacco (11 settembre) e con poca fatica respinse nuovamente i sardi fino ai valichi alpini; qui però anche la sua forza si era esaurita, e dovette fermarsi ai piedi della catena. Ma nell’anno 1794 l’armata delle Alpi fu portata a 75.000 uomini, ai quali i piemontesi potevano opporne soltanto 40.000, oltre a una riserva, forse disponibile, di 10.000 austriaci. Ciò nonostante i primi attacchi dei francesi sia sul Piccolo San Bernardo che sul Moncenisio non ebbero successo, finché finalmente il 23 aprile presero il San Bernardo e il 14 maggio il Moncenisio, e in tal modo tutta la cresta fu nelle loro mani.

C’erano volute dunque tre campagne per strappare ai piemontesi l’accesso in Italia da questa parte. Anche se non è possibile oggigiorno che una guerra siffatta, priva cioè di
scontri decisivi, si possa trascinare per parecchie campagne in un così piccolo territorio, sarà tuttavia sempre difficile ai francesi, nel caso che vi sia un certo equilibrio di forze, non soltanto forzare i passi alpini, ma anche rimanere abbastanza forti da poter discendere senz’altro nella pianura. Più di questo la Savoia non offre all’Italia; ma questo è già abbastanza.

Supponiamo al contrario che la Savoia venga unita alla Francia. Come si trova allora l’Italia? Il versante settentrionale della catena alpina è nelle mani dei francesi, gli italiani possono ancora difendere soltanto quello meridionale, i cui punti di sbarramento e le cui posizioni possono essere dominate o almeno sorvegliate dall’alto crinale e nella maggior parte dei casi anche aggirate piuttosto da vicino. La difesa delle montagne è ridotta al suo ultimo atto, il più debole e insieme quello che costa più perdite. La possibilità di raccogliere informazioni che dà la guerra di montagna in Savoia, scompare completamente. Ma ciò non basta. Fintanto che la Savoia era da conquistare, la Francia poteva in certi casi contentarsi di far questo, e limitare così l’Italia alla difesa passiva: era già un risultato e le truppe potevano forse essere meglio impiegate altrove; la Francia aveva interesse a non impegnare troppe forze in questo teatro di guerra. Viceversa una volta che la Savoia è definitivamente una provincia francese, allora vale la pena di difenderla con un’azione offensiva, alla maniera francese. La difesa passiva può costare in una campagna tanti soldati quanto un attacco all’Italia; per l’attacco non vi è bisogno di un nerbo di truppe molto maggiore, e si ha la prospettiva di ben altri risultati!

Il giorno dopo l’annessione si vedranno ufficiali dello Stato maggiore francese andar su e giù per le valli dell’Arc e dell’Isère, esplorare le valli laterali, scalare le dorsali montane, interrogare le migliori guide alpine, misurare le distanze, rilevare le quote e annotare tutto coscienziosamente; e tutto ciò non con il capriccio del turista, ma secondo un piano evidente, probabilmente già pronto fin d’ora. Li seguiranno ben presto ingegneri e imprenditori, e non passerà molto tempo che saranno costruite strade e opere in muratura nel cuore dell’alta montagna, costruzioni delle quali né l’abitante dei luoghi né il viaggiatore potranno spiegare il significato: poiché esse non riguardano né contadini né turisti, ma hanno soltanto lo scopo di sfruttare le prerogative strategiche naturali della Savoia.

Sia il passo del Moncenisio che quello del Monginevro portano ambedue a Susa. Se i loro versanti meridionali vengono attaccati (la colonne francesi, i reparti italiani che li difendono vengono a trovarsi sotto doppio scacco. Essi non possono sapere da quale parte verrà l’attacco principale; sanno bene però che se uno dei due passi viene forzato e Susa viene occupata, le truppe che difendono l’altro passo sono tagliate fuori. Se viene forzato prima il Moncenisio, le truppe del Monginevro possono forse salvarsi ancora, dopo aver abbandonato l’artiglieria, i bagagli e i cavalli, passando attraverso i sentieri nella valle di Fenestrelle; ma se gli attaccanti avanzano attraverso il Monginevro fino a Susa, le truppe del Moncenisio non hanno più possibilità di ritirata. In queste condizioni la difesa di questi due passi si limita a una semplice azione dimostrativa. Ora però le direttrici di operazione dei due reparti francesi, le strade da Grenoble a Brian e da Chambéry a Lans-le-Bourg, corrono nell’insieme parallele e sono separate solo da una dorsale montana diramantesi dal Monte Tabor, sulla quale corrono molti sentieri e mulattiere. Basta che i francesi costruiscano a cavallo di questa montagna una strada trasversale, che deve essere lunga soltanto quattro miglia tedesche, perché possano gettare le loro masse a piacimento dal l’una all’altra strada: il doppio scacco diviene ancora più efficace e la difesa della linea alpina contro un attacco dell’Italia diviene da questo lato enormemente più forte.

Proseguiamo. La Savoia possiede ancora un secondo valico alpino, il Piccolo San Bernardo. Molta gente autorevole sostiene in Francia che Napoleone avrebbe fatto meglio a servirsi di questo passo, invece che del Gran Bernardo, per la sua marcia attraverso le Alpi. Il valico è più basso, quindi si libera prima dalle nevi in primavera ed è in generale di
più facile passaggio. Le colonne convergono da Lione e da Besançon almeno la stessa facilità sia verso Albertville che verso Losanna; e ambedue i passi portano a Aosta e a Ivrea. Già il solo fatto che possa essere sorta una polemica sulla preferenza da accordarsi all’uno o all’altro passo per gli scopi di Napoleone nella campagna del 1800, dimostra quale importanza abbia il Piccolo San Bernardo dal punto di vista militare. Certamente bisogna che si verifichino condizioni del tutto particolari, prima che il Piccolo San Bernardo possa servire a una ripetizione dell’aggiramento strategico di Marengo. Si hanno grossi eserciti che non possono più attraversare un’alta montagna su una colonna sola; oggigiorno un aggiramento con soli 30.000 uomini nella maggior parte dei casi andrebbe incontro a una completa rovina. Questo è completamente vero per la prima e la seconda campagna. Ma se, come sembra, tutte le guerre condotte con perseveranza dalle due parti per via dei gruppi di fortezze e dei campi trincerati dell’epoca più recente hanno acquistato un altro carattere, di più lunga durata; se una guerra non può più essere effettivamente combattuta, prima che i belligeranti non si siano lentamente fiaccati in parecchie campagne, allora anche gli eserciti diventeranno infine sempre più piccoli. Poniamo il caso che una guerra abbia per più anni ondeggiato avanti e indietro nella pianura dell’Italia settentrionale; e che i francesi, i quali nel frattempo avessero preso Casale o Alessandria, o tutt’e due, fossero ricacciati al di là delle Alpi e la lotta venisse a fermarsi qui, con gli eserciti dell’una e dell’altra parte abbastanza indeboliti. Sarà anche allora tanto complicato, con le nostre ferrovie, con l’artiglieria, che va diventando ormai dappertutto più leggera, gettare rapidamente su Ivrea da 30.000 a 40.000 uomini, e anche di più, attraverso il Piccolo San Bernardo? Da Ivrea essi possono passare nel loro centro di rifornimento fortificato nella pianura, dove trovano ciò che è più necessario e vengono rinforzati con la guarnigione; se questo non dovesse essere possibile, la via per Torino e la via della ritirata attraverso i due passi più vicini non può sicuramente esser loro sbarrata da forze preponderanti. Questi 30-40.000 uomini, insieme alle guarnigioni, saranno però in un tal frangente una forza molto rispettabile; nel peggiore dei casi, dopo aver sconfitto le truppe nemiche più vicine, possono condurre la guerra intorno al loro campo trincerato con tutte le prospettive di un successo. Si pensi come gli eserciti già nel 1814 fossero divenuti più piccoli e con quante poche forze Napoleone abbia in quell’anno condotto un’azione così ampia.

La strada del Gran San Bernardo corre, come abbiamo detto, nella valle dell’Isère, e quella del Moncenisio nella valle dell’Arc. Ambedue questi fiumi nascono dal Mont-Iséran. Al di sopra di Bourg Saint-Maurice la strada del San Bernardo abbandona il fiume per attraversare direttamente la montagna, mentre la valle, dalle pareti ripide (Val de Tignes), continua giù a destra verso sud. Al di sotto di Lans-le-Bourg, presso Termignon, una piccola valle laterale (Val Saint-Barthélemy) sbocca nella valle dell’Arc. Dalla  Val  de Tignes tre sentieri attraversano la dorsale montana, tra il Mont-Iséran e il Mont- Chaffequarré, raggiungendo la Val Saint-Barthélemy. Uno di questi tre passi potrà certamente esser munito di un fondo stradale. Se qui verrà costruita una strada, allora, in collegamento con la strada trasversale prima indicata, il sistema stradale strategico della Savoia — come provincia di confine francese — è già abbastanza largamente sviluppato. Immediatamente dietro la cresta principale delle Alpi correrebbe una strada che unirebbe tra di loro i tre passi più importanti e renderebbe possibile spostare in due giorni le forze principali dal San Bernardo e dal Monginevro nei pressi del Moncenisio, e in quattro o cinque giorni spostarle da un fianco all’altro. Se questo sistema fosse ancora completato da una strada da Moutiers attraverso il passo di Prolognan a Saint Barthélemy e Lans-le- Bourg e una seconda da Moutiers a Saint-Jean de Maurienne, difficilmente ci sarebbe ancora qualcosa da aggiungere. Ci sarebbe ancora soltanto da impiantare le fortificazioni necessarie per la difesa — non per uno sbarramento assoluto — e da assicurarsi Moutiers, il nodo stradale più importante, come centro di rifornimento, in previsione di un
attacco in forze. Qui si tratta in tutto di meno di 25 miglia tedesche di nuove costruzioni stradali.

Se vengono fatti questi o simili impianti — e lo stato maggiore francese ha già pronto fin d’ora un piano per il completo sfruttamento strategico della Savoia, questo è indubbio — cosa accadrà allora della difesa del versante alpino meridionale? E quali colpi terribili non potrebbe portare — in caso di difesa — un nuovo Lecourbe, appoggiato a un solido centro di rifornimenti e a piccoli forti, se una tale rete di strade gli assicurasse la mobilità? Non si dica che la guerra di montagna non può essere più condotta dai grossi eserciti dei giorni nostri. Finché gli eserciti sono effettivamente grandi e c’è una decisiva superiorità da una parte, questo è abbastanza giusto. Ma gli eserciti logoreranno buona parte dei loro effettivi contro le moderne fortezze e vi sarà un sufficiente numero di casi in cui la superiorità farà posto all’equilibrio. Non si va naturalmente in montagna se non c’è bisogno, ma la via di Parigi verso l’Italia e dall’Italia verso Parigi passerà sempre attraverso la Savoia o il Vallese.

Riassumiamo. Per la sua posizione geografica e specialmente per i suoi valichi alpini la Savoia, come provincia francese, permetterebbe a un esercito francese, solo di poco superiore, di impossessarsi del versante italiano delle Alpi, di compiere incursioni nelle valli e di acquistare una importanza molto più grande di quella che gli verrebbe dalle sue forze combattenti. Con una certa preparazione del teatro di guerra, anzi, l’esercito francese sarebbe posto in posizione così favorevole che supererebbe immediatamente il suo avversario, nel caso che le forze fossero per il resto completamente eguali; e oltre a ciò Piccolo San Bernardo costringerebbe gli italiani a distaccare delle forze in posizioni lontane, mentre esso in certi casi offre ai francesi la possibilità di attacchi piuttosto decisivi.

La Savoia, nelle mani della Francia, invece che dell’Italia, è uno strumento esclusivamente offensivo.

III

……. In tutti i punti della zona alpina in cui l’italiano viene a contatto con altre lingue, esso si è sempre dimostrato l’elemento più debole. Nemmeno in un punto esso si spinge al di là della catena alpina; i dialetti romanzi dei Grigioni e del Tirolo sono affatto indipendenti dall’italiano. Al contrario tutte le lingue confinanti hanno guadagnato terreno ai suoi danni a sud delle Alpi. Nei distretti montani orientali della provincia veneta di Udine, si parla carnico-sloveno. Nel Tirolo l’elemento tedesco domina tutto il versante meridionale e tutta l’alta valle dell’Adige; più a sud, in mezzo al territorio italiano, noi troviamo le isole linguistiche tedesche dei sette comuni e dei tredici comuni131; alle pendici meridionali del Gries, sia nella ticinese Val di Caverna che nella piemontese Val Formazza, nell’alta Val Vedro ai piedi del Sempione, infine in tutto il versante sud-orientale del Monte Rosa, nella Vai di Lys, nell’alta Valsesia e Val Anzasca si parla tedesco. Dalla Val di Lys comincia il confine linguistico francese, che comprende l’intera Val d’Aosta e la pendice orientale delle Alpi Cozie, a partire dal Moncenisio, così che per comune consenso rientrano in esso le sorgenti di tutti i fiumi dell’alto bacino del Po. Per comune consenso questo confine parte da Demonte (sulla Stura), un po’ a occidente del Col di Tenda, e segue il corso della Roia fino al mare.

Sul confine linguistico tra il tedesco o lo slavo e l’italiano non vi può essere dubbio. Altra cosa è però dove si incontrano due lingue romanze che poi non sono né la lingua scritta italiana,  il  vero  toscano  né  la  lingua  colta  della  Francia  settentrionale,  ma  il  dialetto piemontese, dalla parte italiana, e la lingua franco-meridionale dei trovadori, tra passata in mille corrotti patois [dialetti]che per brevità designeremo con il termine inesatto, ma conosciuto, di provenzale. Chi ha per caso studiato, anche soltanto superficialmente, la grammatica comparata delle lingue romanze o la letteratura provenzale, si sarà accorto che nella Lombardia e nel Piemonte il linguaggio popolare presenta notevoli somiglianze con il provenzale. Nel lombardo questa somiglianza si limita veramente solo all’habitus esteriore del dialetto; l’elisione delle finali in vocale maschili, mentre le femminili al singolare vengono mantenute, come l’elisione della maggior parte delle finali in vocale nella coniugazione gli danno un suono provenzale, mentre d’altra parte la nasale n, la pronuncia della u e della oeu, ricordano il francese settentrionale. Ma la morfologia e la fonetica sono essenzialmente italiane e, là dove sopravvengono delle variazioni, spesso queste, come anche nel reto-romano132 ricordano stranamente il portoghese [Latino: clavis, Italiano: chiave, Portoghese: chave, Lombardo ciàu, La Augsburger Allgemeine Zeitung ha scritto la scorsa estate in una corrispondenza da Verona (vedi le corrispondenze dal Quartier generate austriaco) che là le persone si chiamavano per la strada «ciàu ciàu». Il saggio foglio, che è molto scrupoloso in fatto di errori linguistici, era chiaramente imbarazzato a trovar la chiave di questo e «ciàu ciàu». La parola suona s-ciàu ed è la forma analoga lombarda per schiavo, servitore, come si saluta anche da noi: «Servo vostro, servo devoto», ecc. Delle forme realmente provenzali nel lombardo ne ricordiamo soltanto due: il participio passato al femminile in da (àma, amada) e la prima persona del presente in i (ami, io amo, saludi, io saluto)].

Il dialetto piemontese nelle sue linee fondamentali concorda abbastanza, con il lombardo, ma si avvicina già di più ai provenzale e gli si avvicina tanto, senza dubbio, nelle Alpi Cozie e Marittime, che diventa difficile delineare un preciso confine [Segni caratteristici distintivi dei dialetti italiano o provenzale sarebbero: 1) la vocalizzazione italiana della I dopo consonante (fiore, più, bianco) che è estranea al provenzale; 2) la formazione del plurale dei sostantivi dal nominativo latino (donne, cappelli). È vero che nel Medioevo il provenzale e l’antico francese avevano anch’essi questa formazione per il nominativo, mentre tutti gli altri casi erano derivati dall’accusativo latino (desinenza s). Ciò nondimeno tutti i dialetti Provenzali moderni, per quanto ci consta, hanno solo l’ultima forma. Tuttavia nella zona di confine potrebbe sembrare dubbio se la forma conservata del nominativo  provenga dall’italiano o dal provenzale.]

A ciò si aggiunge che la maggior parte dei patois della Francia meridionale non sono molto più vicini dello stesso piemontese alla lingua scritta della Francia del nord. Qui dunque la lingua parlata può decidere poco della nazionalità; l’alpigiano che parla provenzale impara con la stessa facilità l’italiano e il francese e si serve sia dell’uno che dell’altro altrettanto raramente; comprende bene il piemontese con cui se la cava abbastanza. Se quindi deve esser trovato un punto d’appoggio, questo lo può dare soltanto la lingua scritta, e questa è certamente in tutto il Piemonte e a Nizza l’italiano, le uniche eccezioni essendo costituite in certa misura dalla Val d’Aosta e dalle valli valdesi, dove qua e là predomina la lingua scritta francese.

IV

A noi tedeschi questo baratto di Nizza e Savoia ci interessa principalmente per tre ragioni. Primo, l’interpretazione che in pratica Luigi Napoleone dà dell’indipendenza italiana: l’Italia divisa in almeno tre, o possibilmente quattro Stati, Venezia austriaca, e la Francia padrona del Piemonte, grazie al possesso della Savoia e di Nizza. Lo Stato pontificio, diminuito della Romagna, separerà completamente Napoli dallo Stato dell’Alta Italia e, per impedire ogni ingrandimento di quest’ultimo verso sud, deve essere «garantito» al papa il rimanente possesso territoriale. Se allo stesso tempo Venezia viene tenuta davanti allo Stato dell’Alta Italia come l’esca più vicina, il movimento nazionale d’Italia continua ad avere nell’Austria il suo diretto e primo nemico; e così il nuovo regno può essere messo in movimento contro l’Austria a beneplacito di Luigi Napoleone, i francesi si impadroniscono di tutte le posizioni dominanti sulle Alpi occidentali e spingono i loro avamposti fino a nove miglia da Torino. Questa è la posizione che il bonapartismo si é fatto in Italia e che in caso di guerra per il confine del Reno gli vale quanto un esercito. Essa dà all’Austria il miglior pretesto per fornire, al massimo, il suo contingente federale, se non anche di meno. Qui ci sarebbe un solo rimedio: un completo rovesciamento della politica tedesca nei riguardi dell’Italia. Che la Germania non abbia bisogno del Veneto fino al Mincio e al Po, crediamo di averlo dimostrato in altro luogo. Al mantenimento della signoria pontificia e napoletana noi non abbiamo parimenti alcun interesse, mentre l’abbiamo invece alla costituzione di un’Italia forte e unita, che possa avere una politica propria. In date circostanze possiamo dunque offrire all’Italia più di quello che non le offra il bonapartismo; e forse è vicino il momento in cui sarà importante ricordarsi di questo.

Note

124 Hofkriegsrat, il sommo consiglio militare di corte in Austria (1556-1843) avente le funzioni di Ministero della guerra e dell’alto comando delle operazioni militari nel corso della guerra. Distaccato dal teatro delle operazioni, la sua ingerenza non faceva altro che impedire le decisioni dei comandanti in capo.

125 Si tratta dell’articolo pubblicato sul Times del 10 giugno 1859.

126 Il miglio tedesco pari a metri 7.420.

127 Il Regno di Vestfalia fu creato da Napoleone I sul territorio della Germania centrale nel 1307 ed esistette fino al 1813. Sul trono di Vestfalia stette Girolamo Bonaparte, fratello minore di Napoleone I, che ebbe per figlio il principe Napoleone (Plon-Plon).

128 Si tratta della restaurazione, prevista dai trattati di Villafranca e di Zurigo, delle dinastie ducali di Modena, Parma e Toscana, travolte dalle insurrezioni del 1859 (vedi nota 102). L’espandersi del movimento popolare d’unificazione al Piemonte rese vani i tentativi di restaurazione: i ducati entrarono a far parte del Piemonte nel marzo 1860.

129 Loi des suspects (Legge sui sospetti), la legge di sicurezza sociale approvata il 19 febbraio 1858 dal corpo legislativo francese che diede all’imperatore e al governo tutti i diritti di relegare in diverse località di Francia o di Algeria, oppure semplicemente espatriare, tutte le persone sospette di slealtà verso il regime.

130 «Cento giorni», il periodo della restaurazione dell’impero napoleonico. Parte dall’arrivo a Parigi dell’imperatore (20 marzo 1815), fuggito dall’isola d’Elba alla sua seconda deposizione dopo la sconfitta di Waterloo il 28 giugno.

131 Sette e tredici comuni, venivano così chiamate le piccole zone a popolazione tedesca a piè delle Alpi meridionali nella provincia di Venezia. Le colonie tedesche sorsero qui nella seconda metà del XIII sec. Ora il dialetto tedesco, parlato una volta nelle colonie, si conserva solo in alcuni villaggi.

132 La lingua reto-romana (da Rezia, antica provincia romana) appartiene alle lingue romanze; è diffusa, soprattutto come lingua parlata, nelle regioni di alta montagna della Svizzera sud-orientale e in quelle dell’Italia nord-orientale.


Scritto nel febbraio 1860.

Pubblicato in opuscolo ai primi di aprile del 1860



F. Engels

Brescia

La provincia di Brescia si trova in Lombardia e confina con la provincia di Bergamo e col Tirolo a nord, con le province di Verona e Mantova ad ovest, con la provincia di Cremona a sud, con Lodi e con la provincia di Bergamo ad est. Superficie, 1.300 miglia quadrate; popolazione, 350.000. La fertilità del suolo favorisce la coltivazione di prodotti eccellenti; uno dei più importanti settori dell’economia è la bachicoltura. Si producono ogni anno
1.000.000 di libbre di seta; il numero degli opifici per la tessitura della seta ammonta a 27 e quello dello filande per la seta a 1.064. Si producono annualmente circa 70.000 libbre di ottima lana e ci sono non meno di 45 opifici per la tessitura della lana, 40 fabbriche di articoli di lana e di cotone, 13 fabbriche di tessuti di lana, 27 fabbriche di articoli in oro, argento e bronzo, 12 fabbriche di ferramenta e porcellana, 7 tipografie, 137 stabilimenti per la produzione di acciaio e di altri metalli (l’acciaio di Brescia gode di fama mondiale) e 77 fabbriche di armi da fuoco e di munizioni, per la cui eccellente produzione Brescia era chiamata l’Armata. Il burro, il formaggio, il frumento, il granturco, il fieno, il lino, le castagne, l’olio e il vino sono altre notevoli fonti di benessere. Il commercio della provincia si svolge principalmente nel capoluogo omonimo.

Brescia (l’antica Brixia) ha una popolazione di 40.000 abitanti ed è situata sulle rive dei fiumi Mella e Garza, ai piedi di una collina. Il castello fortificato in cima alla collina era chiamato a suo tempo «falco della Lombardia». Brescia è una città ben costruita, ridente e molto animata, nota per le sue fontane, di cui, oltre ad un centinaio in case private, ve ne sono non meno di 72 nelle vie e nelle piazze. L’antica cattedrale e le altre chiese conservano molti importanti dipinti di grandi maestri italiani. La costruzione della nuova cattedrale o del Duomo Nuovo incominciò nel 1604, ma la cupola fu portata a termine solo nel 1825. Il tesoro principale della chiesa di Santa Afra l’«Adultera» [Il titolo più diffuso è «Il Cristo e la peccatrice»]  di Tiziano. Vi sono in tutto più di 20 chiese, note grazie ai loro tesori artistici. Agli edifici pubblici degni d’attenzione appartiene il Palazzo della Loggia nella Piazza Vecchia, che fu concepito come sede del municipio e la cui bellissima facciata fu molto danneggiata dai bombardamenti dell’aprile 1849. Il Palazzo Tosio, donato alla città dal conte Tosio, conserva fra molte famose tele il celebre «Salvatore» di Raffaello. Le pinacoteche nei  palazzi Averoldi, Fenaroli, Lecchi, Martinengo e in altri palazzi sono anch’esse note per i tesori artistici custoditi. In una strada, il Corso del Teatro, le facciate del primo piano sono ornate con pitture su temi biblici, mitologici e storici. La Biblioteca Quiriniana, fondata alla metà del XVIII secolo dal cardinale Quirini, contiene circa 80.000 volumi e una ricca raccolta di rari manoscritti e di oggetti dell’antichità. Il più originale monumento di Brescia è il cimitero (Campo Santo), il più bello d’Italia, inaugurato nel 1810. È composto da una piazza, intorno alla quale sono situate a semicerchio le tombe e una fila di cipressi. Brescia è sede del governo provinciale, di un vescovato, di un tribunale commerciale e di altri tribunali. Essa ha vari enti di beneficenza, un seminario teologico, due ginnasi, un liceo, un orto botanico, un museo di antichità e un museo di storia naturale, un’associazione agraria, alcune accademie, una filarmonica — una delle più vecchie in Italia — un casinò, un bellissimo teatro e un’ampia piazza del mercato fuori della città per la fiera annuale, periodo di intensi affari e di letizia. Il settimanale di Brescia si chiama Giornale della provincia Bresciana. Un tempio romano in marmo fu portato alla luce nelle vicinanze della città nel 1822. Brescia è collegata per ferrovia con Verona e con altre città italiane.

Si ritiene che la città sia stata fondata dagli etruschi. Dopo il crollo dell’Impero romano fu devastata dai goti e più tardi passò in mano ai franchi. Ottone il Grande l’elevò al rango di libera città imperiale, ma le lotte fra i guelfi e i ghibellini133 erano per la città fonte di inquietudine. Dopo essere stata per un periodo di tempo sotto il dominio dei signori di Verona, cadde nel 1339 nelle mani dei milanesi. Nel 1426 fu presa da Carmagnola. Nel 1438 fu assediata da Piccinino. Nel 1509 si arrese ai francesi. Nel 1512 fu conquistata dal generale veneziano Gritti, ma in seguito fu liberata da Gaston de Foix. Subendo nel corso del XVI secolo altri tre assedi, rimase in possesso di Venezia fino alla caduta di questa repubblica134. Durante l’èra napoleonica fu capoluogo del dipartimento del Mella. Durante la rivoluzione del 1849 gli abitanti di Brescia si sollevarono contro la dominazione dell’Austria, cui erano sottomessi sin dal 1814. La città fu bombardata il 30 marzo dal generai Haynau e si difese sino a mezzogiorno del 2 aprile, quando fu costretta ad arrendersi e a pagare un tributo di 1.200.000 dollari per evitare di essere completamente distrutta.

Note

133 Guelfi e ghibellini, partiti politici in Italia nei secoli XII e XV durante le lotte tra i papi e gli imperatori germanici.

134 Si tratta dell’occupazione francese di Venezia nel 1797  durante  la  campagna  d’Italia del  generale Bonaparte che portò alla liquidazione della Repubblica di Venezia (esistita dal V sec.) e alla spartizione dei suoi possedimenti tra la Francia e l’Austria secondo il trattato di Campoformio (vedi nota 100).

Scritto intorno ai 24 febbraio 1858.

Pubblicato nella New American Cyclopaedia, vol. III, 1858



K.Marx

Da: Garibaldi in Sicilia — La situazione in Prussia135

Qui, come ovunque in Europa, le gesta di Garibaldi in Sicilia136 sono il tema dominante. Ebbene, dovete sapere che il telegrafo non è stato mai utilizzato in maniera così vergognosa come avviene ora sia a Napoli che a Genova e Torino. Le cavallette non sono mai scese in una tale quantità sull’Europa come ora i canard telegrafici. Perciò sarebbe opportuno riportare in poche parole le opinioni che qui i più competenti circoli militari esprimono sugli avvenimenti in Sicilia. In primo luogo, l’insurrezione, come è generalmente noto, era in corso già da un mese prima dell’arrivo di Garibaldi; ma nonostante l’eccezionale importanza di questa circostanza, essa può essere tuttavia sopravvalutata, come ha mostrato il Costitutionnel parigino. Le forze militari di cui disponeva Napoli in Sicilia, prima dell’arrivo del generale Lanza con truppe fresche, ammontavano appena a 20.000 uomini, di cui la parte preponderante doveva essere concentrata nelle fortezze di Palermo e Messina, di modo che il reparto volante, destinato a perseguire gli insorti, anche se ha potuto vantare alcuni scontri vittoriosi, anche se ha potuto disperdere l’avversario in determinate località e insidiano in diverse direzioni, si è tuttavia mostrato assolutamente incapace di reprimere definitivamente l’insurrezione. Sembra che attualmente siano concentrati a Palermo circa 30.000 uomini dell’esercito napoletano, di cui due terzi presiedono la fortezza, mentre un terzo si è accampato fuori delle sue mura. Si dice che Messina sia presidiata da 15.000 napoletani. Quanto a Garibaldi, secondo le ultime notizie, egli non si è spinto oltre Monreale. Anche se questa città è situata sulle colline che dominano Palermo dalla parte del retroterra, per sfruttare le possibilità che offre questa posizione, manca a Garibaldi la premessa più importante e precisamente l’artiglieria d’assedio. Nell’immediato futuro il successo di Garibaldi, il cui esercito conta appena 12.000 uomini, dipenderà dunque da due importanti circostanze: dal rapido estendersi dell’insurrezione a tutta l’isola e dalla condotta dei soldati napoletani a Palermo137. Se questi ultimi vacilleranno e entreranno in conflitto con i mercenari stranieri che si trovano nelle loro file, il sistema difensivo di Lanza potrà crollare come un castello di carte. Se l’insurrezione acquisterà proporzioni molto consistenti, l’esercito di Garibaldi crescerà in proporzioni ancor più minacciose. Se Garibaldi riuscirà ad impossessarsi di Palermo, egli prenderà tutto quello che si trova sul suo cammino, ad eccezione di Messina, dove gli si porrà di nuovo un compito difficile. Voi ricorderete che nel 1848-1849 i napoletani persero tutto all’infuori di Messina, che serve da tête-de-pont fra la Sicilia e Napoli; allora l’aver conservato Messina bastò per riconquistare tutta l’isola. Questa volta però la caduta di Palermo e la conquista da parte dei patrioti di tutta l’isola, ad eccezione di Messina, avrebbero, date le mutate circostanze politiche, un’importanza più decisiva che nel 1848-49. Se Garibaldi espugnerà Palermo, egli sarà ufficialmente appoggiato dal
«re d’Italia». Se Garibaldi sarà sconfitto, la sua marcia verrà sconfessata come un’avventura privata. C’è un pathos ironico nelle parole di Garibaldi che, rivolgendosi a Vittorio Emanuele gli dice che avrebbe conquistato per lui una nuova provincia, ma di sperare però che il re non la venderà, come Nizza, città natale di Garibaldi.

Note

135 Il titolo dell’Istituto di marxismo-leninismo presso il CC del PCUS.

136 Garibaldi sbarcò io Sicilia nei primi di maggio 1860 a capo di un reparto di patrioti italiani, i famosi Mille.

137 Le truppe garibaldine liberarono Palermo il 27 maggio 1860.


Scritto il 28 maggio 1860.

Pubblicato sulla New York Daily Tribune n. 5972, 14 giugno 1860


F. Engels

Garibaldi in Sicilia

Finalmente dopo le più svariate e contraddittorie informazioni riceviamo qualche notizia che sembra degna di fede sulla meravigliosa marcia di Garibaldi da Marsala a Palermo. Si tratta, invero, di una delle più stupefacenti imprese militari del nostro secolo, impresa che sembrerebbe quasi in concepibile se non fosse per il prestigio che precede la marcia di un generale rivoluzionario trionfante. Il successo di Garibaldi prova che le truppe regie di Napoli sono tuttora terrorizzate dall’uomo che ha tenuto alta la bandiera della rivoluzione italiana in faccia ai battaglioni francesi, napoletani ed austriaci, e che il popolo della Sicilia non ha perduto fede in lui o nella causa nazionale.

Il 6 maggio due vapori lasciano la costa di Genova con a bordo circa 1.400 uomini armati, organizzati in sette compagnie, ciascuna delle quali, evidentemente, è destinata a diventare il nucleo di un battaglione da reclutarsi tra gli insorti. L’8 sbarcano a Talamone sulla costa toscana, e persuadono il comandante di quel forte, valendosi non si sa di quali argomenti, a fornir loro carbone, munizioni e quattro pezzi di artiglieria da campo. Il 10 entrano nel porto di Marsala, all’estremità occidentale della Sicilia, e scendono a terra con tutto il loro materiale, ad onta dell’arrivo di due navi da guerra, che al momento buono sono incapaci di impedire Io sbarco. La storia dell’interferenza britannica a favore degli invasori si è dimostrata falsa ed ora è stata abbandonata persino dagli stessi napoletani. Il 12 la piccola banda aveva raggiunto Salemi, che si trova a 18 miglia nell’entroterra sulla strada (li Palermo. Sembra che qui i capi del partito rivoluzionario si siano incontrati con Garibaldi, si siano consultati con lui e abbiano raccolto rinforzi, in tutto circa 4.000 insorti. Mentre questi venivano organizzati, l’insurrezione, soffocata ma non repressa alcune settimane prima, scoppiava di nuovo ovunque sulle montagne della Sicilia occidentale, e non senza effetto, come fu dimostrato il giorno 16. Il 15 Garibaldi, con i suoi 1.400 regolari organizzati e 4.000 contadini armati, avanza a nord attraverso le colline, in direzione di Calatafimi, dove la strada di campagna proveniente da Marsala raggiunge la strada maestra che unisce Trapani a Marsala. La gola che conduce a Calatafimi, attraverso un contrafforte dell’elevato Monte Cerrara, chiamato Pianto dei Romani, era difesa da tre battaglioni di truppe regie con cavalleria ed artiglieria al comando del generale Landi. Garibaldi attaccò immediatamente questa posizione, che dapprima fu ostinatamente difesa; ma, benché in questo attacco Garibaldi non possa aver impegnato contro i 3.000 o 3.500 napoletani altro che i suoi volontari e una parte molto esigua degli insorti siciliani, i regi furono successivamente sloggiati da cinque forti posizioni, perdendo un cannone da montagna e numerosi uomini uccisi e feriti. I garibaldini, come essi stessi dichiarano, hanno avuto 18 morti e 128 feriti. I napoletani pretendono di essersi impadroniti in questo scontro di una delle bandiere di Garibaldi, ma, poichè avevano rinvenuto una bandiera dimenticata a bordo di uno dei vapori abbandonati a Marsala, sono capacissimi di aver esibito questa stessa bandiera a Napoli come prova della loro pretesa vittoria. La loro sconfitta a Calatafimi, tuttavia, non li costrinse ad abbandonare la città la sera stessa. La lasciarono solo il mattino seguente e sembra che dopo non abbiano più opposto resistenza alcuna a Garibaldi finché non raggiunsero Palermo. Vi giunsero, ma in uno stato spaventoso di disgregazione e di disordine. La certezza di aver dovuto soccombere davanti a dei semplici «filibustieri e alla plebaglia armata» richiamava di colpo alla loro mente l’immagine terrificante di quel Garibaldi che, mentre difendeva Roma dai francesi, poteva ancora trovare il tempo di marciare su Velletri e mandare a carte quarantotto l’avanguardia  dell’intero  esercito  napoletano,  di  quel  Garibaldi  che  in  seguito  aveva  battuto, sulle pendici delle Alpi, guerrieri di ben altro stampo di quelli che genera Napoli138. La precipitosa ritirata, senza neanche una finzione di resistenza, deve aver aumentato ancora il loro avvilimento e la tendenza a disertare che già esisteva nei loro ranghi, e quando all’improvviso si trovarono accerchiati e attaccati da quell’insurrezione che era stata preparata nell’incontro di Salemi, la loro compagine andò del tutto in pezzi; della brigata di Landi rientrò a Palermo, in piccole bande successive, soltanto un branco disordinato e demoralizzato, grandemente ridotto di numero.

Garibaldi entrò a Calatafimi il giorno stesso in cui Landi lasciò la città, cioè il 16. Il 17 raggiunse Alcamo (10 miglia), il 18 Partinico (10 miglia) e proseguì verso Palermo. Il 19 una pioggia incessante e torrenziale impedì alle truppe di muoversi.

Nel frattempo Garibaldi si era accertato che i napoletani stavano scavando trincee attorno a Palermo e rafforzavano i vecchi, cadenti bastioni della città dalla parte che si trova di fronte alla strada per Partinico. I napoletani disponevano ancora di non meno di 22.000 uomini, e quindi numericamente superavano di gran lunga qualsiasi forza che egli avrebbe potuto loro opporre. Ma erano demoralizzati, la loro disciplina era rilassata, molti cominciavano a pensare di passare dalla parte degli insorti, mentre i loro generali erano noti come degli imbecilli tanto ai propri soldati quanto al nemico. Le sole truppe fidate in mezzo a loro erano i due battaglioni stranieri. Così stando le cose, Garibaldi non poteva arrischiare un attacco frontale contro la città, mentre d’altra parte i napoletani non potevano tentare nulla di decisivo contro di lui, anche se le truppe fossero state in grado di farlo, perché dovevano in ogni modo lasciare una forte guarnigione nella città e non allontanarsi mai troppo. Con un generale di stampo comune al posto di Garibaldi, queste circostanze avrebbero condotto ad una serie di piccole azioni staccate e non decisive, in cui egli avrebbe potuto addestrare nell’arte della guerra una parte delle sue reclute, ma in cui anche le truppe regie avrebbero potuto in breve tempo riacquistare buona parte della fiducia e della disciplina perdute, perché non avrebbero potuto non conseguire qualche successo in alcune di queste scaramucce. Ma una guerra di questa specie non avrebbe giovato né a un’insurrezione né a Garibaldi. Un’audace offensiva è il solo sistema di tattica che una rivoluzione si può permettere; un successo folgorante, quale la liberazione di Palermo, si impose nel momento stesso in cui gli insorti giunsero in vista della città.

Ma come riuscirvi? E qui Garibaldi provò in modo brillante di essere un generale atto non solo alla guerra partigiana, ma ad operazioni ben più importanti.

Il 20 e i giorni successivi Garibaldi attaccò gli avamposti napoletani e le posizioni nei dintorni di Monreale e Parco, sulla strada che conduce a Palermo da Trapani e Corleone, facendo così credere al nemico che il suo attacco avrebbe avuto luogo soprattutto contro il fianco sud-ovest della città, e che qui si trovasse concentrato il grosso delle sue forze. Con un’abile combinazione di attacchi e finte ritirate indusse il generale napoletano a far uscire dalla città un numero sempre maggiore di truppe, finché il 24, fuori della città, in direzione di Parco, comparvero 10.000 napoletani. Era quel che voleva Garibaldi. Egli li impegnò immediatamente con una parte delle sue forze, ripiegando quindi lentamente di fronte ad essi, in modo da allontanarli sempre più, passo a passo, dalla città; e quando li ebbe attirati a Piana, al di là della principale catena di alture che attraversa la Sicilia e che qui divide la Conca d’Oro (la valle di Palermo) dalla valle di Corleone, di colpo gettò il grosso delle sue truppe sull’altro versante della stessa catena, nella valle di Misilmeri, che si apre sul mare vicino a Palermo. Il 25 egli stabilì il suo quartier generale a Misilmeri, ad otto miglia dalla capitale. Non siamo informati di quel che fece dei 10.000 uomini disseminati lungo l’unica strada in cattivo stato che attraversa la montagna, ma possiamo essere certi che li tenne occupati a dovere con una serie di nuove, apparenti vittorie, per impedire loro di ritornare troppo presto a Palermo. Avendo così quasi dimezzato il numero dei difensori della città e trasferito la linea di attacco dalla strada di Trapani a quella di Marsala, egli poté procedere al grande attacco. Se l’insurrezione abbia preceduto l’attacco o se sia divampata quando Garibaldi si presentò alle porte della città, è una questione che i telegrammi contraddittori non chiariscono; ma è certo che la mattina del 27 tutta la città insorse in armi e Garibaldi prese d’assalto Porta Termini, sul lato sud-est della città, dove nessun napoletano stava ad attenderlo. Il resto è noto; l’abbandono graduale della città eccezion fatta delle batterie, della cittadella e del palazzo reale, da parte delle truppe; cui fecero seguito il bombardamento, l’armistizio, la capitolazione. Mancano ancora i particolari precisi di queste fasi dell’azione, ma i fatti principali sono ormai ben sicuri.

Nel frattempo, dobbiamo affermare che le manovre con cui Garibaldi preparò l’attacco di Palermo lo qualificano immediatamente come un generale di grande statura. Fino ad oggi lo conoscevamo soltanto in veste di capo di guerriglieri assai abile e molto fortunato; persino l’assedio di Roma, con il suo modo di difendere la città mediante sortite continue, difficilmente poteva offrirgli l’occasione di sollevarsi al di sopra di quel livello. Ma qui noi lo vediamo agire su un buon terreno strategico; ed egli supera la prova da maestro consumato nella sua arte. Il modo con cui induce il comandante napoletano a commettere lo sproposito di inviare la metà delle sue truppe fuor di portata di mano, la sua fulminea marcia laterale per riapparire a Palermo là dove meno era atteso, ed il suo energico attacco nel momento in cui la guarnigione era indebolita, sono operazioni che portano l’impronta del genio militare più di qualsiasi altro avvenimento della guerra italiana del 1859.

L’insurrezione siciliana ha trovato un capo militare di prim’ordine; speriamo che l’uomo politico Garibaldi, il quale dovrà presto comparire sulla scena, saprà conservare senza macchia la gloria del generale.

Note

138 Si tratta della difesa della Repubblica romana, che dall’aprile al luglio 1849 fu guidata da Garibaldi. Nel corso di alcuni mesi l’esercito della repubblica respinse con successo l’offensiva delle truppe francesi, austriache e napoletane. Nata da una rivolta popolare, la Repubblica romana cadde il 3 luglio 1849 a causa della preponderanza delle truppe reazionarie e la perfidia del generale francese Oudinot, che violò l’armistizio e occupò Roma.
Engels intende pure le felici operazioni di Garibaldi a capo dei «Cacciatori delle Alpi» nel corso della guerra austro-italo francese del 1859.

Scritto intorno al 7 giugno 1860.

Pubblicato come articolo di fondo sulla New York Daily Tribune n. 5979, 22 giugno 1860



K. Marx

Notizie interessanti dalla Sicilia — La lite di Garibaldi con La Farina — Una lettera di Garibaldi

Secondo un telegramma ricevuto oggi da Palermo, l’atteso attacco del colonnello Medici su Milazzo ha deciso il re di Napoli a impartire all’esercito napoletano l’ordine di evacuare completamente la Sicilia e di ritirarsi nella parte continentale dei suoi domini. Benché questo telegramma abbia bisogno di esser confermato, sembra indiscutibile che la causa di Garibaldi si fa strada, ad onta del morbo che serpeggia fra le sue truppe e degli intrighi diplomatici che affliggono il suo governo.

L’aperta rottura di Garibaldi con il partito di Cavour, vale a dire l’espulsione dalla Sicilia del noto intrigante La Farina e dei signori Griscelli e Totti, corsi di nascita e agenti della polizia bonapartista di professione, ha sollevato commenti molto contrastanti nella stampa europea.

Una Lettera privata di Garibaldi a un amico di Londra139 che mi è stata comunicata con il permesso di pubblicarne il contenuto nella Tribune, non lascerà dubbi sulla vera natura del caso. La lettera di Garibaldi è anteriore al suo decreto del 7 u.s., col quale i tre suddetti intriganti venivano allontanati senza tante cerimonie dall’isola, ma spiega a fondo quali sono i punti di disaccordo tra il generale e il ministro, tra il popolare dittatore e il gran visir dinastico; in una parola tra Garibaldi e Cavour. Quest’ultimo in segreto accordo con Luigi Napoleone, che Garibaldi bolla come «homme faux» (questo uomo falso) e con cui prevede «la necessità di incrociare la spada una bella mattina» — Cavour, dunque, aveva deciso di annettere pezzo a pezzo quelle fette di territorio italiano che la spada di Garibaldi sarebbe riuscita a tagliare, o che le insurrezioni popolari avrebbero staccato dai loro antichi sovrani. Quel processo di annessioni al Piemonte pezzo a pezzo dovrebbe essere accompagnato da un simultaneo processo di «compensi» per il Secondo Impero. Come Savoia e Nizza sono state il prezzo che si è dovuto pagare per la Lombardia e i ducati, così la Sardegna e Genova sono il prezzo che si dovrebbe pagare per la Sicilia; ogni nuovo atto di annessione separata dovrebbe dar luogo a una nuova transazione separata con il protettore del Piemonte. Un secondo smembramento a beneficio della Francia, oltre ad essere un implicito attentato all’integrità e all’indipendenza dell’Italia, soffocherebbe immediatamente i movimenti patriottici a Napoli e a Roma. La diffusa convinzione che per unirsi sotto gli auspici del Piemonte l’Italia dovrebbe rimpicciolirsi sempre più, avrebbe dato a Bonaparte la possibilità di mantenere a Napoli e a Roma governi separati, indipendenti di nome, ma di fatto vassalli della Francia.

Perciò Garibaldi ha pensato che il suo principale compito è quello di liquidare qualsiasi pretesto di interferenza diplomatica francese, ben comprendendo però che questo può essere fatto soltanto conservando al movimento il suo carattere prettamente popolare e spogliandolo di ogni parvenza di legame con progetti di ingrandimenti dinastici. Non appena liberate la Sicilia, Napoli e Roma, sarebbe giunto il momento di unirle al regno di Vittorio Emanuele, se questi si assumesse l’impegno di tenerle e difenderle non soltanto dal nemico che ha di fronte, cioè l’Austria, ma anche dal nemico che ha alle spalle, cioè la Francia. Facendo affidamento, forse un po’ troppo, sulla buona volontà del governo inglese e sulle esigenze della situazione di Luigi Bonaparte, Garibaldi ritiene che finché non annette nessun territorio al Piemonte e ricorre soltanto ad armi italiane per la liberazione dell’Italia, Luigi Bonaparte non oserà interferire in aperta violazione dei pretesti con i quali egli iniziò la crociata italiana. Comunque vadano le cose, questo almeno è sicuro: il piano di Garibaldi, sia che abbia o non abbia successo, è l’unico che nelle circostanze attuali offra qualche possibilità di liberare l’Italia non solo dai suoi antichi tiranni e dalle antiche divisioni, ma anche dalle grinfie del nuovo protettore francese. E la particolare missione per cui Cavour aveva spedito in Sicilia La Farina, appoggiato dai due compari corsi, consisteva appunto nel mandare a monte questo piano.

La Farina è nato in Sicilia, dove nel 1848 si distinse tra i rivoluzionari più per il suo odio contro il partito repubblicano e i suoi intrighi con i dottrinari piemontesi che per vera energia o per gesta memorabili. Dopo il fallimento della rivoluzione siciliana e durante il suo soggiorno a Torino, pubblicò una voluminosa storia d’Italia140 dove fece del suo meglio per esaltare la dinastia dei Savoia e denigrare Mazzini. Legato anima e corpo a Cavour, permeò di spirito bonapartista la «Società nazionale italiana»141 divenuto il presidente di questa associazione, se ne servì e non già per favorire ma per impedire ogni tentativo di azione nazionale indipendente. Del tutto coerente con questi precedenti, quando circolarono le prime voci sulla progettata spedizione di Garibaldi in Sicilia, La Farina coprì di ridicolo e di insulti la semplice idea di una tale spedizione. Quando, tuttavia, si intrapresero passi immediati per preparare l’audace impresa, La Farina mise in movimento tutte le risorse della «Società nazionale» con lo scopo di impedirla. Quando la sua opposizione non raggiunse l’intento di scoraggiare il generale e i suoi uomini, e quando finalmente la spedizione alzò le vele, La Farina, con cinico sarcasmo, si abbandonò alle più funeste previsioni ed ebbe anche la faccia tosta di predire l’immediato e totale fallimento dell’impresa. Non appena, però, Garibaldi ebbe preso Palermo e si fu proclamato dittatore, La Farina si affrettò a raggiungerlo, munito di un mandato di Vittorio Emanuele, o meglio di Cavour, che gli conferiva il potere di assumere il comando dell’isola in nome del re, non appena si fosse votata l’annessione. Ricevuto dapprima — come egli stesso ammette — nonostante i suoi poco raccomandabili precedenti, molto cortesemente da Garibaldi, cominciò subito ad assumere arie da padrone, intrigando contro il ministero Crispi, cospirando con gli agenti della polizia francese, raccogliendo intorno a sé i liberali aristocratici ansiosi di por fine alla rivoluzione con un voto di annessione separata, e proponendo, invece delle misure necessarie per espellere i napoletani dalla Sicilia, piani per espellere dalla pubblica amministrazione i mazziniani e quegli uomini su cui il suo padrone Cavour non poteva fare assegnamento.

Crispi, contro il quale La Farina aveva aperto la serie dei suoi intrighi minandone il ministero, era stato per lungo tempo esule a Londra, dove era annoverato fra gli amici di Mazzini, e aveva fatto della liberazione della Sicilia lo scopo supremo dei suoi sforzi. Nella primavera del 1859, con nome e documenti di Valacco, e con grande rischio personale, si era recato in Sicilia ed aveva visitato tutti i principali centri dell’isola preparando un’insurrezione per il mese di ottobre. Gli avvenimenti dell’autunno142 ritardarono l’insurrezione, dapprima fino a novembre, poi fino a quest’anno. Nel frattempo Crispi si rivolse a Garibaldi, il quale, pur rifiutando di scatenare un’insurrezione, diede la promessa di accorrere in suo aiuto non appena essa fosse scoppiata e avesse posto in chiaro quali fossero i veri sentimenti dei siciliani. Durante la spedizione, Crispi insieme alla moglie, unica donna della spedizione, accompagnò Garibaldi e combatté in ogni azione, mentre la moglie dirigeva l’opera di assistenza ai malati ed ai feriti. Questo era l’uomo che La Farina cercò dapprima di buttare a mare, con la segreta speranza, naturalmente, di buttargli dietro il dittatore. Garibaldi, sia per riguardo verso Vittorio Emanuele, sia perché premuto dall’aristocrazia liberale, acconsenti, pur protestando, a formare un nuovo ministero e a congedare Crispi, che però rimase presso di lui come consigliere ed amico. Ma appena fatto questo sacrificio, Garibaldi si accorse che le dimissioni del ministero Crispi gli erano state insistentemente richieste soltanto per accollargli un gabinetto che in tutto, fuorché nel nome, non era suo ma di La Farina o di Cavour, e che, contando sulla protezione di Cavour e incoraggiato dalla presenza di La Farina, in breve tempo avrebbe paralizzato
completamente il suo piano di liberazione dell’isola, e si sarebbe valso della propria influenza in tutto il paese ai danni dell’intruso nizzardo, come già veniva soprannominato Garibaldi. Egli salvò allora la sua causa non meno di quella della Sicilia e dell’Italia espellendo La Farina e i due messeri corsi, accettando le dimissioni del ministero nominato da La Farina, e costituendo un ministero patriottico, fra i cui membri possiamo fare il nome del signor Mario.

Note

139 La lettera che Garibaldi scrisse all’inglese Green, un conoscente di Marx, nell’estate del 1860, testimonia che l’autore puntava all’unità d’Italia e alla liberazione dal dominio straniero indipendentemente dalla politica di Napoleone III.

140 Si tratta del libro di La Farina Storia d’Italia dal 1815 al 1850, vv. I-VI, Torino, 1851-1852.

141 Si tratta della «Società nazionale», organizzazione politica dei liberali d’indirizzo monarchico istituita nel 1856 a Torino e in altre città da Pallavicino e La Farina, agente di Cavour, allo scopo di propagare l’idea dell’unificazione italiana sotto i Savoia. Sebbene Garibaldi, che ne rappresentava l’ala rivoluzionaria, prendesse attiva parte alle varie iniziative, la funzione decisiva spettò al Cavour.

142 Nell’autunno 1859 a Parma, Modena, in Toscana e Romagna ci fu un ampio movimento per l’annessione al Piemonte. I governi provvisori di questi Stati avevano già forze armate assai numerose con a capo Garibaldi. Il 5 ottobre, dinanzi alla minaccia di aggressione da parte dell’Austria e del regno di Napoli, Garibaldi rivolse un appello al popolo italiano, organizzò una sottoscrizione nazionale per l’acquisto di armi e annunciò la sua intenzione di iniziare la marcia di liberazione del Regno delle due Sicilie.

Scritto il 23 luglio 1860.

Pubblicato sulla New York Daily Tribune n. 6018, 8 agosto 1860



F. Engels

Il movimento garibaldino

Nell’Italia meridionale la crisi è imminente, Se dobbiamo prestar fede ai giornali francesi e sardi, 1.500 garibaldini sono sbarcati sulla costa calabrese e Garibaldi è atteso da un’ora all’altra. Ma anche se questa notizia fosse prematura, Garibaldi avrà indubbiamente trasferito il teatro della guerra sul continente italiano prima della metà d’agosto.

Per comprendere i movimenti dei napoletani occorre ricordare che nel loro esercito operano due opposte correnti: il partito liberale moderato, ufficialmente al potere e rappresentato dal ministero, e la cricca assolutista, cui aderisce la maggior parte dei capi militari. Gli ordini del ministero sono resi nulli dagli ordini segreti della corte e dagli intrighi dei generali. Donde movimenti contrastanti e rapporti contraddittori. Oggi sentiamo dire che tutte le truppe regie devono lasciare la Sicilia, domani troviamo queste truppe intente a preparare una nuova base di operazioni a Milazzo. Questo stato di cose è caratteristico di tutte le rivoluzioni lasciate a metà; l’anno 1848 offre esempi del genere in tutta Europa.

Mentre il ministero proponeva di evacuare l’isola, Bosco — a quanto sembra, il solo uomo risoluto in quel mazzo di comari che portano le spalline da generale napoletano — tentò silenziosamente di trasformare l’angolo nord-orientale dell’isola in una roccaforte, dalla quale si sarebbe potuta tentare la riconquista dell’isola, e a questo scopo si diresse verso Milazzo alla testa di un reparto formato dagli Uomini migliori che si potevano avere a Messina, Qui si imbatté nella brigata garibaldina di Medici. Però egli non arrischiò nessun serio attacco contro di essa, finché non fu chiamato Garibaldi che sopraggiunse con qualche rinforzo. A questo punto il capo degli insorti attaccò a sua volta i regi e, dopo una lotta ostinata che durò più di dodici ore, li sconfisse completamente. Le forze impegnate da ambedue le parti erano quasi eguali, ma la posizione tenuta dai napoletani era molto forte. Tuttavia né posizioni né uomini poterono resistere all’impeto degli insorti che inseguirono i napoletani attraverso la città fin dentro la cittadella. Qui altro non restava loro che capitolare, e Garibaldi permise loro di imbarcarsi, ma senza armi.  Dopo  questa vittoria, Garibaldi marciò immediatamente su Messina, dove il generale napoletano consenti a cedere i forti esterni della città a condizione di non essere molestato nella cittadella. Ma questa cittadella, poiché può contenere al massimo qualche migliaio di uomini, non costituirà mai un serio ostacolo contro qualsiasi operazione offensiva di Garibaldi, il quale perciò agì molto bene risparmiando alla città un bombardamento che
sarebbe stato l’inevitabile conseguenza di un attacco. Stando così le cose, questa serie di capitolazioni a Palermo, Milazzo e Messina devono contribuire a distruggere la fiducia delle truppe regie in se stesse e nei loro capi più di un numero doppio di vittorie. È ormai diventato cosa del tutto naturale che i napoletani capitolino sempre davanti a Garibaldi.

Da quel momento è diventato possibile per il dittatore siciliano pensare ad uno sbarco sul continente. La sua flotta a vapore non sembra sia finora numerosa abbastanza da permettergli di tentare uno sbarco più a nord, in qualche punto a sei od otto giorni di marcia da Napoli, per esempio nella baia di Policastro. Perciò, a quanto pare, egli avrebbe deciso di attraversare lo stretto nel punto più angusto, vale a dire all’altezza dell’ estrema punta nord-orientale dell’isola a nord di Messina. Si dice che abbia concentrato in questo punto circa mille battelli, la maggior parte dei quali sono probabilmente pescherecci e feluche costiere, molto in uso in quei paraggi, e, se lo sbarco dei 1.500 uomini al comando di Sacchi fosse confermato, essi formerebbero la sua avanguardia. Il punto non è dei più favorevoli per una marcia su Napoli, essendo questa la parte del continente più lontana dalla capitale, ma se la flotta a vapore non è in grado di trasportare circa 10.000 uomini in una sola volta, egli non può sceglierne un altro, e qui ha almeno il vantaggio che i calabresi si uniranno a lui immediatamente. Ma se egli può stipare almeno 10.000 uomini a bordo dei suoi vapori e contare sulla neutralità della regia marina (che sembra decisa a non combattere contro altri italiani), potrà sbarcare tuttavia pochi uomini in Calabria come manovra dimostrativa, e recarsi di persona col grosso delle truppe nel golfo di Policastro o persino in quello di Salerno.

La forza di cui attualmente dispone Garibaldi consiste in cinque brigate di fanteria regolare, di quattro battaglioni ciascuna, più altri battaglioni, e cioè dieci di cacciatori dell’Etna, due di cacciatori delle Alpi, che sono l’élite del suo esercito, di un battaglione straniero (ora italiano) sotto il colonnello Dunne, inglese, un battaglione di genieri, un reggimento e uno squadrone di cavalleria e quattro battaglioni di artiglieria da campo; in tutto trentaquattro battaglioni, quattro squadroni e trentadue cannoni, pari a circa 25.000 uomini complessivamente, dei quali più della metà sono italiani del nord, il resto italiani originari di altre regioni. Quasi tutta questa forza può esser impiegata per l’invasione di Napoli, perché le nuove formazioni che si stanno organizzando basteranno per far la guardia alla cittadella di Messina e per proteggere Palermo e le altre città da un attacco. Tuttavia questa forza appare molto piccola quando la si paragoni con quella di cui il governo napoletano dispone sulla carta.

L’esercito napoletano consiste in tre reggimenti della guardia, quindici reggimenti di linea, quattro reggimenti stranieri, composti ciascuno di due battaglioni; tredici battaglioni di cacciatori, nove reggimenti di cavalleria e due di artiglieria: in tutto cinquantasette battaglioni e quaranta- cinque squadroni sul piede di pace. Se si aggiungono i 9.000 gendarmi che sono anch’essi perfettamente organizzati sul piede di guerra, questo esercito sul piede di pace conta 90.000 uomini. Ma durante gli ultimi due anni, esso è stato portato al pieno organico di guerra; sono stati formati i terzi battaglioni dei reggimenti; gli squadroni di riserva sono stati messi in servizio attivo, le truppe di guarnigione sono state completate; e quest’esercito ora conta, sulla carta, oltre 150.000 uomini.

Ma che razza d’esercito è questo! Bello a vedersi esternamente tanto da soddisfare la persona più esigente, ma non vi si trova né vita, né spirito, né patriottismo. Non ha tradizioni militari nazionali. Quando i napoletani combatterono come tali furono sempre sconfitti. Soltanto al seguito di Napoleone essi conobbero la vittoria. Non è un esercito napoletano. È semplicemente un esercito regio. È stato formato ed organizzato con l’espresso ed esclusivo scopo di tener sottomesso il popolo. E persino per questo scopo appare inadatto. Esso comprende un buon numero di elementi antimonarchici, i quali ora vengono alla luce dappertutto. I sergenti e i caporali, in particolar modo, sono quasi tutti
dei liberali. Interi reggimenti gridano: «Viva Garibaldi!». Nessun esercito ha mai subito tanti disastri quanti ne ha subiti questo da Calatafimi a Palermo, e se le truppe straniere e qualche napoletano hanno combattuto bene a Milazzo, non bisogna dimenticare che gli elementi scelti formano soltanto una piccola minoranza dell’esercito.

Così si può dar quasi per sicuro che se Garibaldi sbarca con forze sufficienti tali da ottenere alcuni successi sul continente, nessun massiccio concentramento di truppe napoletane potrà contrastargli il passo con probabilità di successo; e noi possiamo attenderci da un momento all’altro la notizia che egli sta continuando la  sua marcia trionfale da Scilla a Napoli con 15.000 uomini contro un numero dieci volte superiore.


Scritto 18 agosto 1860.

Pubblicato sulla New York Daily Tribune n. 6031, 23 agosto 1860



F. Engels

L’avanzata di Garibaldi

Gli avvenimenti, a misura che si sviluppano, incominciano a darci un’idea del piano che Garibaldi aveva preparato per liberare l’Italia meridionale; e quanto più veniamo a conoscere questo piano, tanto più ne ammiriamo la grandiosità. Un piano simile non avrebbe potuto esser concepito e la sua esecuzione non avrebbe potuto essere tentata in nessun altro paese che non fosse l’Italia, dove il partito nazionale è così perfettamente organizzato e così completamente controllato dal solo uomo che ha impugnato la spada con successi così brillanti per la causa dell’unità e dell’indipendenza d’Italia.

Il piano non era limitato soltanto alla liberazione del regno di Napoli; si doveva attaccare simultaneamente lo Stato pontificio in modo da tenere occupato l’esercito di Lamoricière e i francesi a Roma143, oltre alle truppe di Bombalino. Intorno al 16 agosto, 6.000 volontari trasferiti poco a poco da Genova al Golfo degli Aranci, sulla costa nord-orientale della Sardegna, sarebbero dovuti sbarcare sulle coste dello Stato pontificio, mentre contemporaneamente sarebbe scoppiata l’insurrezione nelle varie province napoletane del continente, e Garibaldi avrebbe dovuto attraversare la stretto di Messina e sbarcare in Calabria. Alcune espressioni di Garibaldi, che vengono riportate, circa la codardia dei napoletani, e la notizia, ricevuta con l’ultimo piroscafo, che egli è entrato a Napoli dove è stato accolto trionfalmente, ci inducono a pensare che un’insurrezione nelle vie della città, resa inutile dalla fuga del re [Francesco II] facesse parte del piano.

Lo sbarco nello Stato pontificio,. come è già noto, è stato impedito in parte dalle resistenze di Vittorio Emanuele, in parte, soprattutto, dal fatto che lo stesso Garibaldi si era convinto che quegli uomini non erano in condizione di intraprendere una campagna indipendente. Perciò egli li portò in Sicilia, ne lasciò parte a Palermo e inviò il resto, a mezzo di due piroscafi, che fecero il giro dell’isola, a Taormina, dove li troveremo di nuovo. Nel frattempo, come era stato predisposto, avvennero i moti nelle città della provincia napoletana, ed in modo tale che risultò chiaro come il partito rivoluzionario fosse ben organizzato e come il paese fosse maturo per un’insurrezione. Il 17 agosto l’insurrezione scoppiò a Foggia, in Puglia. I dragoni, che costituivano la guarnigione della città, passarono dalla parte del popolo. Il generale F comandante del distretto, inviò due compagnie del 13° reggimento che, appena giunte, fecero la stessa cosa. Allora il generale Flores giunse in persona, accompagnato dal suo stato maggiore, ma non poté far nulla e fu costretto ad andarsene. Questo modo di procedere dimostra che lo stesso Flores non desiderava opporre una seria resistenza al partito rivoluzionario. Se  egli avesse voluto far sul serio avrebbe inviato due battaglioni invece di due compagnie, e quando andò in persona avrebbe dovuto farlo alla testa di tutte le forze di cui poteva disporre, invece di farsi aiutare da pochi aiutanti e attendenti. Infatti la sola circostanza che gli insorti gli abbiano permesso di lasciare di nuovo la città è sufficiente a dimostrare che esisteva almeno una tacita intesa. Un altro moto scoppiò nella Basilicata. Qui gli insorti radunarono le loro forze a Corleto Perticara, paese sul fiume Lagni (dev’essere la località chiamata Corleto nei telegrammi).

Da questa remota regione montagnosa essi marciarono su Potenza, capoluogo della provincia, dove giunsero in numero di 6.000 il 17. L’unica resistenza che incontrarono fu opposta da circa 400 gendarmi, che dopo un breve scontro furono dispersi e in seguito ritornarono per arrendersi uno dopo l’altro. Fu costituito un governo provvisorio in nome di Garibaldi e si insediò un pro dittatore. Si dice che il regio intendente (governatore della provincia) abbia accettato questo ufficio: un altro segno che prova fino a qual punto la causa dei Borboni sia considerata perduta persino dai loro stessi dipendenti. Quattro compagnie del 6° reggimento di linea furono inviate a Salerno per soffocare questa insurrezione, ma quando giunsero ad Auletta, a circa 23 miglia da Potenza, si rifiutarono di marciare oltre e gridarono: «Viva Garibaldi!». Questi sono i soli moti di cui ci sono giunti particolari. Ma siamo informati che anche altri centri sono passati dalla parte degli insorti; per esempio, Avellino, città a meno di 30 miglia da Napoli, Campo basso, nel Molise (sull’Adriatico), e Celenza in Puglia, che deve essere il luogo chiamato Cilenta nei telegrammi (si trova a mezza strada tra Campobasso e Foggia), ed ora la stessa Napoli si è aggiunta al numero.

Intanto, mentre almeno le città di provincia eseguivano quella parte di compito che era stata loro assegnata, Garibaldi non rimaneva inattivo. Appena ritornato dal suo viaggio in Sardegna, prese le ultime disposizioni per il passaggio sul continente. Il suo esercito consisteva ora in tre divisioni, comandate da Tϋrr,  Cosenz e Medici. Le due ultime, concentrate nei pressi di Messina e di Faro, furono dirette verso la costa settentrionale della Sicilia, fra Milazzo e Faro, come se si avesse l’intenzione di imbarcarle lì e sbarcarle sulla costa calabrese a nord dello stretto, in qualche punto vicino a Palmi o Nicotera. Della divisione Tϋrr, la brigata Eber si era accampata nei pressi di Messina, la brigata Bixio era stata inviata nell’interno, a Bronte, per reprimervi i disordini. Entrambe ricevettero l’ordine di recarsi immediatamente a Messina, dove, la sera del 18 agosto, la brigata Bixio insieme agli  uomini  trasportati  dalla  Sardegna  fu  imbarcata  su  due  piroscafi,  il  «Torino»  e  il
«Franklin», e su alcuni trasporti presi a rimorchio.

Circa dieci giorni prima il maggiore Missori, con 300 uomini, aveva passato lo stretto e attraversato le linee dei napoletani giungendo incolume sul terreno collinoso e accidentato dell’Aspromonte. Qui fu raggiunto da altri piccoli distaccamenti, lanciati di tanto in tanto attraverso lo stretto, e da insorti calabresi, cosicché verso il 18 agosto, si trovò alla testa di un corpo di circa 2.000 uomini. I napoletani avevano inviato circa 1.800 uomini per ostacolare lo sbarco di questa piccola banda, ma i 1.800 eroi fecero in modo di non raggiungere mai i garibaldini.

Il 19, all’alba, la spedizione di Garibaldi (poiché lui stesso era a bordo) sbarcò tra Melito e Capo  Spartivento,  sull’estrema  punta  meridionale  della  Calabria.  Non  incontrarono
resistenza. I napoletani erano stati così completamente ingannati dai movimenti che facevano prevedere uno sbarco a nord dello stretto, che non si curarono affatto della regione a sud del medesimo. Così 9.000 uomini furono lanciati attraverso lo stretto, oltre i 2.000 radunati da Missori.

Raggiunto da questi ultimi, Garibaldi marciò immediatamente su Reggio, che era occupata da quattro compagnie di linea e quattro di cacciatori. Questa guarnigione, però, doveva aver ricevuto qualche rinforzo, perché si dice che il 21 davanti a Reggio, o all’interno di questa città, si svolse un combattimento molto accanito. Dopo che Garibaldi ebbe preso d’assalto alcuni capisaldi esterni, l’artiglieria del forte di Reggio rifiutò di continuare il fuoco e il generale Viale capitolò. In questo scontro rimase ucciso il colonnello De Flotte (deputato repubblicano all’Assemblea legislativa di Parigi del 1851).

La flotta napoletana dello stretto si distinse nel non far nulla. Dopo lo sbarco di Garibaldi, uno dei suoi comandanti telegrafò a Reggio che le navi non avevano la possibilità di opporre nessuna resistenza, perché Garibaldi aveva con sé otto navi da guerra e sette navi da trasporto! La flotta non si oppose neppure al passaggio della divisione del generale Cosenz, che deve essere avvenuto il 20 o il 21, nel punto più angusto dello stretto, tra Scilla e Villa San Giovanni, proprio là dove le navi e le truppe napoletane erano più concentrate. Lo sbarco di Cosenz fu accompagnato da un successo di portata eccezionale. Le due brigate Melendez e Briganti (i napoletani dicono battaglioni e non brigate) e il forte di Pezzo (non Pizzo, come dicono alcuni telegrammi, che si trova molto più a nord, oltre Monteleone)  si arresero  senza  colpo  ferire.  Si  dice  che  questo  sia avvenuto il 21, giorno in cui anche Villa San Giovanni fu occupata dopo un breve combattimento.

Così in tre giorni Garibaldi si rese padrone di tutta la costa lungo lo stretto, inclusi alcuni dei punti fortificanti; i pochi forti ancora occupati dai napoletani non servivano ormai più a nulla.

I due giorni seguenti, a quanto pare, furono impiegati nel passaggio del resto delle truppe e del materiale, o almeno non abbiamo notizia di altri scontri fino al 24, data in cui secondo le notizie ricevute un accanito combattimento avrebbe avuto luogo in un posto chiamato nel telegramma Piale, che non troviamo sulle carte geografiche. Forse è il  nome  di qualche torrente di montagna, il cui alveo profondo avrebbe potuto essere utilizzato dai napoletani come posizione difensiva. Si dice che questo scontro abbia avuto esito indeciso. Dopo qualche tempo i garibaldini offrirono un armistizio, che il comandante napoletano trasmise al suo generale in capo a Monteleone. Ma prima che potesse arrivare una risposta, sembra che i soldati napoletani siano giunti alla conclusione di aver fatto più che abbastanza per il loro re, e se ne siano andati lasciando indifese le batterie.

Sembra anche che il grosso delle truppe napoletane, al comando di Bosco, durante tutto questo tempo sia rimasto tranquillamente a Monteleone, a trenta miglia circa dallo stretto. Non pare che esse fossero molto ansiose di combattere contro gli invasori, cosicché il generale Bosco andò a Napoli per prendere sei battaglioni di cacciatori, che sono, dopo la guardia e le truppe straniere, le truppe più fidate dell’esercito. Resta a vedere se anche questi    sei battaglioni sono stati contagiati dallo spirito di scoraggiamento e di demoralizzazione che regna nell’esercito napoletano. Certo è che né essi né altre truppe sono stati capaci di impedire a Garibaldi di effettuare la sua marcia vittoriosa, e probabilmente senza ostacoli, su Napoli, dove trovò che la famiglia reale era fuggita e le porte della città erano spalancate per accoglierlo trionfalmente.

Note

143 Si veda la nota 113.

Scritto intorno allo settembre 1860.
Pubblicato come articolo di fondo sulla New York Daily Tribune n. 6056, 21 settembre 1860



F. Engels

Garibaldi in Calabria

Disponiamo ora di informazioni particolareggiate circa la conquista della Calabria meridionale da Garibaldi e la totale dispersione del corpo napoletano incaricato della sua difesa. In questo momento della sua trionfale carriera Garibaldi ha dimostrato di essere non soltanto un capo coraggioso e un abile stratega, ma anche un magistrale condottiero. L’attacco aperto a una catena di forti costieri è un’impresa che richiede non soltanto talento militare, ma anche scienza militare: ed è soddisfacente constatare che il nostro eroe, che in tutta la sua vita non ha mai dato neanche un esame militare, e che non ha neanche mai fatto parte di un esercito regolare, si è trovato pienamente a suo agio su un campo di battaglia di questo tipo come su ogni altro.

La punta dello stivale italiano è formata dalla catena montuosa dell’Aspromonte, che culmina nel picco di Montalto, di circa 4.300 piedi. Da questo picco le acque fluiscono verso la costa in numerose gole profonde, che si irradiano dal Montalto, come da un centro, simili ai raggi di un semi cerchio, la cui periferia è formata dalla costa. Queste gole, con i letti dei rispettivi torrenti montani che in questa stagione sono asciutti, sono chiamate fiumare e formano altrettante posizioni per un esercito in ritirata. Esse possono, è vero, essere aggirate dalla parte del Montalto, soprattutto perché mulattiere e sentieri corrono lungo la cresta di ogni contrafforte della catena principale dell’Aspromonte; ma la completa mancanza di acqua nella regione alta renderebbe una manovra con forze numerose piuttosto difficile in estate. I contrafforti delle colline scendono verso la costa per precipitare in mare con rupi a picco e irregolarmente frastagliate. I forti a guardia dello stretto tra Reggio e Scilla sono costruiti in parte sulla spiaggia, ma generalmente su rocce basse e sporgenti vicino alla riva. Di conseguenza essi possono tutti essere attaccati dall’alto delle rupi dominanti che li circondano; e i punti dominanti quantunque siano inaccessibili per l’artiglieria, e per lo più fuori del tiro della vecchia «Brown Bess»144 tanto che non se ne tenne affatto conto quando i forti furono costruiti, hanno acquistato un’importanza decisiva dopo l’introduzione del fucile moderno; essi sono per lo più a portata del medesimo, cosicché sono essi che in realtà oggi dominano i forti. In queste circostanze un attacco in forze contro questi forti, disdegnando tutte le regole di un assedio regolare, era perfettamente giustificato. Garibaldi evidentemente doveva fare quanto segue: inviare una colonna lungo la strada maestra, che rasenta la spiaggia sotto il fuoco dei forti, per simulare un finto attacco frontale contro le truppe napoletane, e portare un’altra colonna sulle colline, tanto in alto nelle fiumare quanto lo esigevano la natura del terreno o l’estensione del fronte formato da tutte le posizioni difensive dei napoletani, aggirando così sia le truppe che i forti, assicurandosi in ogni scontro il vantaggio della posizione dominante.

Perciò il 21 agosto Garibaldi inviò Bixio, con parte delle sue truppe, lungo la costa verso Reggio, mentre egli stesso con un piccolo distaccamento e le truppe di Missori, che l’avevano raggiunto, si avviava verso le montagne. I napoletani, otto compagnie o 1.200 uomini circa, occuparono una fiumara proprio alle porte di Reggio. Bixio, essendo il primo ad attaccare, inviò una colonna all’estrema sinistra sulla spiaggia sabbiosa, mentre egli stesso avanzava sulla strada. I napoletani ben presto cedettero; ma la loro ala sinistra, sulle colline, tenne duro contro i pochi uomini dell’avanguardia di Garibaldi finché sopraggiunsero gli uomini del Missori che li obbligarono a retrocedere. Essi si ritirarono allora nel forte che si trova al centro della città e in un piccolo ridotto sulla spiaggia. Quest’ultimo fu preso con un attacco audacissimo da tre compagnie di Bixio, che irruppero per una breccia. Il forte maggiore fu cannoneggiato da Bixio con i due cannoni pesanti napoletani trovati con le munizioni nel ridotto; ma ciò non avrebbe potuto obbligare alla resa, se i franchi tiratori di Garibaldi non avessero occupato le alture dominanti, da cui potevano vedere e prendere di mira i cannonieri nelle batterie. Così si raggiunse l’effetto voluto: gli artiglieri abbandonarono le piattaforme e si rifugiarono nelle casematte; il forte si arrese, e parte degli uomini si unì a Garibaldi, ma la maggioranza se ne tornò a casa. Mentre questo accadeva a Reggio, e tutta l’attenzione dei piroscafi napoletani era concentrata su questo combattimento, sulla distruzione del vapore «Torino» incagliatosi e sul finto imbarco degli uomini di Medici a Messina, Cosenz riuscì a far uscire dalle acque di Faro 1.500 uomini in sessanta imbarcazioni e a sbarcarli sulla costa nord-occidentale tra Scilla e Bagnara.

Il 23 agosto un piccolo scontro ebbe luogo presso Salice, un poco al di là di Reggio; cinquanta garibaldini, inglesi e francesi, comandati dal colonnello De Flotte, sconfissero un numero quattro volte superiore di napoletani. De Flotte cadde in questo scontro. Lo stesso giorno, il generale Briganti, comandante, nella Calabria meridionale, di una brigata che faceva parte delle truppe di Viale, ebbe un colloquio con Garibaldi per conoscere quali condizioni gli sarebbero state fatte se fosse passato nel campo italiano. Questo colloquio, però, non ebbe alcun risultato se non quello di dimostrare che i napoletani erano completamente demoralizzati. Da questo momento non fu più questione di vittoria, ma soltanto di resa. Briganti e Melendez, comandante della seconda brigata mobile nella Calabria meridionale, avevano occupato una posizione vicino alla costa, fra Villa San Giovanni e Scilla, spiegando la loro ala sinistra verso le alture vicino a Fiumara di Muro. Si calcola che le loro forze unite contassero 3.600 uomini.

Garibaldi, stabilito il contatto con Cosenz, che era sbarcato a tergo di questo corpo, avvolse i napoletani da ogni parte e poi tranquillamente ne attese la resa, che ebbe luogo il 24 verso sera. Egli prese le armi e permise agli uomini di andarsene a casa, se lo desideravano, cosa che la maggioranza fece. Anche il forte di Punta di Pizzo si arrese, e i posti fortificati di Altifiumara, Torre Cavallo e Scilla seguirono l’esempio, scoraggiati tanto dai colpi di fucile che partivano dalle alture dominanti, quanto dalla generale defezione degli altri forti e delle truppe in campo aperto. Così, non soltanto fu assicurato l’assoluto dominio di ambedue le rive dello stretto, ma fu conquistata l’intera Calabria meridionale, e le truppe inviate a difendere questa regione furono prese prigioniere e inviate alle loro case in meno di cinque giorni.

Questa serie di disfatte spezzò ogni capacità di ulteriore resistenza nell’esercito napoletano. A Monteleone, gli ufficiali dei restanti battaglioni di Viale decisero di difendere la loro posizione per un’ora, per salvare le apparenze, e poi di deporre le armi. L’insurrezione nelle altre province fece rapidi progressi; interi reggimenti si rifiutarono di marciare contro gli insorti, e diserzioni in massa avvennero persino fra le truppe che difendevano Napoli. E così la via di Napoli era finalmente aperta davanti all’eroe d’Italia.
Scritto ai primi di settembre 1860.

Pubblicato come articolo di fondo sulla New York Daily Tribune il 24 settembre 1860

Note

144 Brown Ben (Bruna Bess), cosi si chiamava il moschetto a canna liscia e di colore bruno in dotazione all’esercito inglese del XVIII e dell’inizio del XIX secolo.



K. Marx

Da: La situazione in Prussia — La Prussia, la Francia e l’Italia145

Il principe reggente che, come ho già detto ai vostri lettori sin da quando è salito al supremo potere, è nel fondo dell’animo suo un lugubre e irriducibile legittimista, nonostante i chiassosi emblemi di liberalismo con cui è stato adornato dagli oracoli ufficiali dell’Olimpo prussiano degli sciocchi, ha colto testé un occasione di farsi della pubblicità dando libero sfogo ai suoi sentimenti lungamente repressi.

E’ un fatto strano, ma tuttavia è un dato di fatto, che il principe reggente di Prussica [Guglielmo] abbia impedito ai garibaldini di entrare nella fortezza di Messina, salvando quell’importante piazzaforte per il suo amato fratello, re Bombalino di Napoli. L’ambasciatore prussiano a Napoli, conte di Perponcher, personaggio noto per il suo ostinato legittimismo non meno dell’ambasciatore prussiano a Roma, barone di Canitz, come molti dei suoi colleghi aveva seguito re Bombalino a Gaeta dove si trovava la corvetta prussiana «Loreley» per proteggere i sudditi tedeschi. Ora, il 15 settembre la cittadella di Messina era sul punto di capitolare. Gli ufficiali si erano dichiarati per Vittorio Emanuele ed avevano inviato una deputazione a Gaeta per dire al re che la posizione non poteva più essere tenuta. Il giorno seguente la deputazione fu imbarcata alla volta di Messina sulla corvetta «Loreley», con a bordo un commissario prussiano che, appena entrato in porto, si portò immediatamente nella cittadella dove ebbe un lungo colloquio con il comandante napoletano. Oltre alla sua eloquenza personale l’agente prussiano sfoderò un mucchio di dispacci da parte del re [Francesco II] in cui si incoraggiava il generale a resistere, e si deprecava con veemenza ogni proposta di cedere, persino alle condizioni più favorevoli, i forti che avevano provvigioni sufficienti per parecchi mesi. Durante la permanenza del commissario prussiano si udirono echeggiare dalla cittadella grida di «Evviva il re!» e quando egli se ne andò, le trattative appena iniziate con il proposito di fissare i termini della capitolazione furono immediatamente interrotte. Non appena giunse questa notizia, il conte di Cavour si affrettò a inviare una nota di protesta a Berlino deplorando l’«abuso della bandiera prussiana» e la violazione della promessa di mantenersi perfettamente neutrali nella guerra rivoluzionaria d’Italia. Nonostante la giustezza della protesta, il conte di Cavour era il meno adatto a formularla. Herr von Schleinitz, i cui dispacci durante la guerra del 1859 si erano acquistati una certa notorietà per il loro stile melato e adulatorio, la loro argomentazione tortuosa e l’arte incomparabile di snocciolare frasi su frasi a scapito degli argomenti, colse zelantemente l’occasione per accattivarsi le grazie del principe reggente e per cambiare una volta tanto il suo umile sottovoce con i toni striduli dell’arroganza. Egli rivolse un rabbuffo perentorio al conte di Cavour, cui fu detto in tutte le lettere che la Sicilia non era ancora divenuta una provincia sarda, che gli impegni del trattato erano quotidianamente violati dalla corte di Torino e che se Cavour voleva protestare contro l’intervento straniero in Italia, avrebbe fatto meglio a collocare la sua protesta alle Tuileries.

Il ritiro dell’ambasciatore francese da Torino viene considerato qui come un artificio trasparente, dal momento che si sa perfettamente che subito dopo l’incontro di Chambéry tra Luigi Bonaparte e i signori Farmi e Cialdini, quest’ultimo è stato posto al comando delle truppe piemontesi destinate ad invadere gli Stati del papa. L’invasione è stata decisa a Chambéry con lo scopo di togliere la faccenda dalle mani di Garibaldi per metterla in quelle di Cavour, il più arrendevole dei servi dell’imperatore francese. Si sa che la guerra rivoluzionaria nell’Italia meridionale è considerata alle Tuileries non come una valanga provocata fortuitamente dalla caduta di una palla di neve, ma come azione deliberata del partito italiano indipendente, che, sin dal momento in cui Luigi Napoleone fece il suo ingresso nella via sacra146 aveva proclamato l’invasione del sud come l’unico mezzo atto a dissipare l’incubo della protezione francese. Effettivamente Mazzini, nel suo proclama al popolo italiano del 16 maggio 1859, aveva dichiarato francamente:

A certe condizioni il Nord può unirsi sotto le bandiere di Vittorio Emanuele dovunque si trovino gli austriaci: sul territorio italiano o in quelli vicini; l’insurrezione del Sud dovrebbe operarsi e mantenersi più  indipendente. Un’insurrezione, un’insurrezione unita, che costituisca una potestà provvisoria, che armi, scelga un punto strategico centrale dal quale mantenere le sue posizioni e far partecipare i volontari dal Nord, da Napoli e dalla Sicilia — tale insurrezione potrebbe ancora salvare la causa d’Italia e costituirne il potere, rappresentato da un Campo Nazionale. Mercé quel campo e i volontari del Nord, sul finir della guerra, l’Italia sarebbe, qualunque fosse        l’intenzione degli iniziatori, arbitra suprema dei propri destini……… Una tale manifestazione delle aspirazioni popolari escluderebbe ogni possibilità di un nuovo riparto d’Italia, ogni rimpianto di dinastie straniere, ogni pace all’Adige e al Mincio, ogni abbandono d’una parte qualunque di territorio italiano. E il nome di Roma s’avvicendi sempre al nome d’Italia. Là, nella città sacra, sta il palladio della nostra Unità Nazionale. Dovere di Roma è non d’inviare all’esercito Sardo un pugno di volontari, ma di provare alla Francia Imperiale, che chi serve da sostegno dell’assolutismo papale a Roma, non verrà mai riconosciuto combattente per l’indipendenza d’Italia……. Dovere d’Italia è ricordarlo sempre ai Romani... Roma rappresenta l’unità della patria: Napoli e i volontari del Nord devono costituirne l’esercito.

Queste furono le parole di Mazzini nel maggio 1859, riecheggiate da Garibaldi, quando alla testa dell’esercito popolare creato in Sicilia e a Napoli aveva promesso di proclamare l’unità d’Italia dall’alto del Quirinale147.

Voi ricorderete come Cavour, fin dall’inizio, abbia fatto tutto quanto era in suo potere per rendere la spedizione di Garibaldi irta di difficoltà; come dopo le prime vittorie dell’eroe popolare inviasse La Farina, accompagnato da due agenti bonapartisti, a Palermo con lo scopo di togliere al conquistatore la sua dittatura; come in seguito ad ogni mossa militare di Garibaldi Cavour abbia risposto con contro-mosse, prima diplomatiche e infine militari148. Dopo la caduta di Palermo e la marcia su Messina, la popolarità di Garibaldi era cresciuta a tal punto tra il popolo e l’esercito di Parigi che Luigi Napoleone ritenne prudente tentare i metodi delle blandizie. Quando il generale Tϋrr, in quel momento inabile al servizio attivo, si rifugiò a Parigi, fu coperto dalle adulazioni imperiali. Egli fu non soltanto ospite molto onorato al Palais Royal, ma fu persino ammesso alle Tuileries149 fu iniziato all’illimitato entusiasmo dell’imperatore per il suo suddito «annesso», l’eroe nizzardo, e sommerso sotto testimonianze di amicizia, come un fucile rigato, ecc. Al tempo stesso Tϋrr fu profondamente impressionato dalla convinzione espressa dall’imperatore, secondo cui Garibaldi, dopo essersi assicurato Napoli e la flotta napoletana, non avrebbe potuto far nulla di meglio di tentare, unitamente con i profughi ungheresi, uno sbarco a Fiume, per piantarvi la bandiera della rivoluzione ungherese. Ma Luigi Napoleone partiva da una premessa del tutto errata supponendo che Tϋrr fosse, o s’immaginasse di essere, l’uomo capace di esercitare il benché minimo controllo sul modo di agire di Garibaldi. Tϋrr, che io conosco personalmente, è un soldato coraggioso e un ufficiale intelligente, ma oltre la sfera dell’attività militare è una vera nullità, al di sotto della media dei comuni mortali, in quanto gli manca non soltanto l’esercizio intellettuale e la cultura, ma quella perspicacia e quell’istinto che possono sostituire l’istruzione, le cognizioni e l’esperienza. In una parola, egli è un buon diavolo, gioviale e leggero, dotato di uno straordinario grado di credulità, ma non certo l’uomo che possa controllare chiunque politicamente, meno di tutti Garibaldi, che ad un animo ardente unisce un granello di quella sottile genialità italiana rintracciabile in Dante non meno che in Machiavelli. Di Tϋrr, dopo che si è constatato l’errore di calcolo, si parla il meno possibile alle Tuileries. Poi si provò con Kossuth, mandandolo da Garibaldi per fargli accettare le idee dell’imperatore e farlo uscire dalla pista che conduceva dritto a Roma. Garibaldi si servì di Kossuth per sollevare l’entusiasmo rivoluzionario, facendolo accogliere dalle ovazioni popolari, ma seppe saggiamente distinguere fra il suo nome, che rappresenta una causa popolare, e la sua missione, che portava celata un’insidia bonapartista. Kossuth fece ritorno a Parigi piuttosto scornato; ma per dare una seria prova della sua fedeltà agli interessi imperiali, secondo quanto riporta l’Opinion Nationale, il Moniteur di Plon Plon, egli ha ora indirizzato una lettera a Garibaldi in cui Io sollecita a conciliarsi con Cavour, ad astenersi dal fare qualsiasi tentativo su Roma per non inimicarsi la Francia,che è la vera speranza delle nazioni oppresse, e anche a non occuparsi dell’Ungheria, paese non ancora maturo per un’insurrezione…….

Note

145 Il titolo è dell’Istituto di marxismo-leninismo presso il CC del PCUS.

146 Si veda la nota 110.

147 Si tratta dell’Appello di Garibaldi al popolo di Palermo.

148 Si veda K. Marx Notizie interessanti dalla Sicilia – La lite di Garibaldi con La Farina – Una lettera di Garibaldi.

Scritto il 27 settembre 1860.

Pubblicato sulla New York Daily Tribune n. 6076, 15 ottobre 1860



K. Marx

Da: « Il Capitale ». Libro primo Nota dell’autore n 189

In Italia, dove la produzione capitalistica si sviluppa prima che altrove, anche il dissolvimento dei rapporti di servitù della gleba ha luogo prima che altrove. Quivi il servo della gleba viene emancipato prima di essersi assicurato un diritto di usucapione sulla terra. Quindi la sua emancipazione lo trasforma subito in proletario eslege, che per di più trova pronti i nuovi padroni nelle città, tramandate nella maggior parte fin dall’età romana. Quando la rivoluzione del mercato mondiale dopo la fine del secolo XV150 distrusse la supremazia commerciale dell’Italia settentrionale, sorse un movimento in direzione opposta. Gli operai delle città furono spinti in massa nelle campagne e vi dettero un impulso mai veduto alla piccola coltura, condotta sul tipo dell’orticoltura.

Note

149 Palais Royal (Palazzo Reale), negli anni ‘50-’60 sede del principe Giuseppe Bonaparte (Plon-Plon). (Palais des) Tuileres, sede di Napoleone III.

150 Si allude alla brusca diminuzione del ruolo commerciale di Genova, Venezia e di altre città settentrionali alla fine del XV sec, a seguito delle grandi scoperte geografiche.



K. Marx

Da:    Quarto rapporto annuale del Consiglio Generale dell’Associazione Internazionale degli Operai


…. In Italia l’Associazione è stata paralizzata dalla reazione dopo la carneficina di Mentana151. Una delle conseguenze immediate sono state le restrizioni poliziesche dei diritti di associazione e di riunione. La nostra vasta corrispondenza dimostra però che la classe operaia italiana va conquistando sempre più la completa indipendenza da tutti i vecchi partiti…..

Note

151 Il 8 novembre 1867 presso Mentana l’esercito francese e le truppe papaline sconfissero i volontari di Garibaldi che volevano liberare Roma dall’occupazione francese e unificarla quindi allo Stato italiano.


Pubblicato sul Times, 9 settembre 1868; sul Vorbote, n. 9, settembre 1868; e sul supplemento di Le Peuple Belge: Troisième congrès de l’Association lnternationale des Travailleurs. Compte rendu officiel. Bruxelles, 1869



F. Engels

Sulla partecipazione di Mazzini alla fondazione dell’Internazionale152

L’articolo di Engels fu scritto in relazione alla campagna denigratrice nei riguardi dell’Internazionale e della Comune di Parigi sollevata da Mazzini alla vigilia del Congresso delle società operaie italiane (1°- 6 novembre 1871) allo scopo di sminuire l’influenza esercitata dall’Internazionale sul movimento operaio italiano e impedire la creazione di un’organizzazione proletaria in Italia.

Mazzini nel suo Indirizzo agli operai italiani dice:

Quest’Associazione fondata anni addietro in Londra ed alla quale io ricusai fin da principio la mia cooperazione….. Un nucleo d’individui, che s’assuma di governare direttamente una vasta moltitudine d’uomini diversi per patria, tendenze, condizioni politiche, interessi economici, mezzi d’azione, finirà sempre per non operare, o dovrà operare tirannicamente. Per questo io mi ritrassi e si ritrasse poco dopo la sezione operaia italiana, ecc.

Ora ecco i fatti. Dopo la riunione del 28 settembre 1864 nella quale l’Associazione internazionale    degli operai fu fondata, tostoché il consiglio provvisorio eletto in quell’assemblea si radunò, il maggiore L. Wolff presentò un manifesto ed un progetto di Statuto steso da Mazzini stesso. Nel qual progetto non solamente non si trovava difficoltà
«a governare direttamente una moltitudine» ecc., non solamente non si diceva che questo
«nucleo d’individui. . . finirà sempre per non operare, o dovrà operare tirannicamente », ma al contrario lo Statuto era ispirato ad una centralizzata cospirazione, dando poteri tirannici al corpo centrale. Il manifesto era nello stile solito di Mazzini: la democrazia borghese che offriva diritti politici agli operai, onde poter conservare i privilegi sociali delle classi medie e superiori.Questo manifesto e progetto di Statuto furono naturalmente rigettati. Gl’italiani rimasero membri sino a che alcune questioni non furono di nuovo messe fuori per causa di certi borghesi francesi che volevano servirsi dell’Internazionale.

Non essendo questi riusciti, Wolff dapprima e poscia gli altri si ritirarono153.

E così l’Internazionale la fece finita con Mazzini. Qualche tempo dopo il Consiglio centrale provvisorio, rispondendo ad un articolo di Vesinier, dichiarò nel Journal de Liege che Mazzini non era stato mai membro dell’Associazione internazionale e che i suoi progetti, manifesti e statuti erano stati rigettati154 Mazzini ha furiosamente attaccato la Comune di Parigi anche sulla stampa inglese. Questo è proprio ciò che egli ha sempre fatto quando i proletari si sono sollevati; dopo l’insurrezione di Giugno 1848 egli fece Io stesso, denunciando i proletari insorti tanto oltraggiosamente che lo stesso Luigi Blanc scrisse un opuscolo contro di lui. E Luigi Blanc ha diverse volte ripetuto in quel tempo che l’insurrezione di Giugno era l’opera di agenti bonapartisti!

Mazzini chiama Marx uomo «d’ingegno. . dissolvente, di tempra dominatrice», ecc. forse perché Marx ha saputo molto ben dissolvere la cabala ordita da Mazzini a danno dell’Internazionale, dominando talmente la mal dissimulata libidine di autorità del vecchio cospiratore, da renderlo per sempre innocuo all’Associazione. Se è così, l’Internazionale dev’essere ben lieta di possedere fra i suoi membri un ingegno ed una tempra, che in tal guisa dissolvendo e dominando l’ha tenuta in piedi per sette anni, lavorando più che ogni altro uomo per portarla alla sua attuai superba posizione.

Riguardo allo smembramento dell’Associazione, che, secondo Mazzini, è già cominciato in Inghilterra, il fatto è che due membri inglesi del Consiglio [Odger e Lucraft], che erano divenuti troppo intimi con la borghesia, trovarono l’Indirizzo sulla guerra civile155 troppo spinto e si ritirarono. In loro vece quattro nuovi membri inglesi [Taylor, Roach, MilIs, Loc] ed uno irlandese [Mac Donnel] sono entrati a far parte del Consiglio Generale, il quale si stima con ciò più rafforzato di prima.

Invece di essere in uno stato di dissoluzione l’Internazionale è ora per la prima volta riconosciuta pubblicamente da tutta la stampa inglese come una grande potenza europea; e mai un piccolo opuscolo ha fatto in Londra tanta impressione quanto l’Indirizzo del Consiglio Generale sulla guerra civile in Francia, del quale si pubblicherà ora la terza edizione.

È mestieri che gli operai italiani osservino che il grande cospiratore ed agitatore Mazzini non ha per essi altro consiglio che: Educatevi, istruitevi come meglio potete (come se ciò potesse esser fatto senza mezzi!) …. adopratevi a creare più frequenti le società cooperatrici di consumo (nemmeno di produzione!) e fidate nell’avvenire!!!

Note

152 Avendo ricevuto da C. Cafiero, uno dei dirigenti della sezione napoletana dell’Internazionale, la lettera e l’appello agli operai italiani di Mazzini, pubblicato su La Roma del popolo (n. 20, 13 luglio 1871), in cui l’autore calunniava l’Internazionale snaturandone la storia, il programma ed i principi, Engels, il 25 luglio alla seduta del Consiglio Generale parlò dell’atteggiamento di Mazzini nei riguardi dell’Internazionale. I punti base del discorso furono da Engels sviluppati e approfonditi nell’articolo menzionato, che egli inviò a Cafiero allegato alla lettera del 28 luglio 1871. Nella sua lettera Engels rilevava la necessità di portare a conoscenza degli operai l’attività calunniatrice di Mazzini mettendo a nudo il vero senso della sua propaganda. Cafiero inviò l’articolo di Engels alle redazioni di diversi giornali. Basandosi sull’articolo e su un estratto del protocollo della seduta del Consiglio Generale mandatigli da Engels, si mise a scrivere un proprio articolo contro Mazzini, che però non terminò causa il suo arresto. La brutta copia dell’articolo fu confiscata dalla polizia.

153 Si tratta dell’uscita dei mazziniani dal Consiglio Generale nell’aprile 1865 in relazione alla discussione del conflitto sorto tra il giornalista A. Lefore e i proudhoniani Frieboure, Tollenne ed altri nella sezione parigina dell’Internazionale, che gli elementi borghesi cercavano di sfruttare nel loro interesse. Risultato della discussione del conflitto furono le risoluzioni redatte da Marx e adottate dal Consiglio.

154 Si tratta della lettera (scritta nel febbraio 1866 da Jung, membro del Consiglio Generale della I Internazionale, e redatta da Marx) al giornale democratico-borghese L’Echo de Vervziers in risposta alle sortite calunniose contro la direzione dell’Internazionale da parte di Vésinier, repubblicano piccolo-borghese.

155 Si tratta de La Guerra civile in Francia di Marx, opera stampata a Londra nel giugno 1870 come Appello del Consiglio Generale della I Internazionale.

Scritto il 28 luglio 1871.

Pubblicato sul Libero Pensiero n. 9, 31 agosto 1871, e su altri quotidiani italiani



F. Engels

Sul mandato di Giuseppe Boriani156

Jnternational Working Men’s Association, 256, High Holborn
London. — W. C. 30 novembre 1871


Il Cittadino Giuseppe Boriani è ammesso Membro dell’Associazione Internazionale degli Operai ed è autorizzato ad ammettere nuovi membri e a formare nuove sezioni, sotto la condizione che egli, ed i membri e le sezioni da ammettersi, riconoscano come obligatorii gli atti ufficiali dell’Associazione, cioè

Gli Statuti Generali e Regolamenti Amministrativi, L’Indirizzo Inaugurale,
Le Risoluzioni dei Congressi,


Le Risoluzioni della Conferenza di Londra, settembre 1871.


Per ordine e in nome del Consiglio Generale

Il Segretario per l’Italia

Note

156 Il mandato che concedeva a G. Boriani i pieni poteri per accettare nell’Associazione Internazionale degli Operai (I Internazionale) nuovi membri fu redatto da Engels e spedito in risposta alla lettera del 14 novembre 1871 di E. Bignami, uno dei dirigenti della sezione dell’internazionale a Lodi. Nella lettera egli dava notizia dell’organizzazione delle sezioni dell’Internazionale a Ferrara ed in altre città e chiedeva l’invio di documenti per alcuni romagnoli (nonché per G. Boriani) attestanti il loro diritto di fondare nuove sezioni dell’Associazione Internazionale degli Operai

Pubblicato per la prima volta in russo in: K. Marx-F. Engels, Opere, I ed., Mosca, 1935, voI. 26



Friedrich Engels

Dichiarazione del Consiglio Generale ai giornali italiani in merito agli articoli di Mazzini sull’Internazionale157

Al direttore de La Roma del popolo»

Signor Direttore,

International Working Men’s Association, 256, High Holborn,
London.— W. C. 6 dicembre 1871

chiedo dalla vostra lealtà la pubblicazione della dichiarazione qui annessa. Se dobbiamo farci la guerra, facciamocela almeno lealmente.

Gradite i miei distinti saluti
F. Engels Segretario per l’Italia presso il
Consiglio Generale

Associazione Internazionale degli Operai

Alla Redazione de «LA ROMA DEL POPOLO»

Nel n° 38 de La Roma del Popolo il cittadino G. Mazzini pubblica il primo di una serie di articoli intitolati Documenti sull’internazionale. Egli avverte i lettori:

Io ho... raccolto da quante sorgenti mi fu possibile interrogare tutti i suoi atti, tutte le dichiarazioni parlate o scritte dai suoi membri influenti

Sono questi i documenti di cui intraprende la pubblicazione. Comincia col darne due saggi.

I. L’abdicazione [dell’azione politica] andò tanto oltre che taluni fra i fondatori francesi offrirono a Luigi Napoleone di rinunziare ad ogni attività politica, purché egli concedesse agli operai non so qual somma d’utile materiale,

Noi attendiamo dal cittadino Mazzini le prove di questa asserzione che qualifichiamo calunniosa.

II. Bakunin, in un suo discorso da lui pronunziato nel Congresso della Lega della Pace e della Libertà in Berna nel 1868, voglio, ei diceva, l’egualizzazione degli individui e delle classi: senza queste non è possibile una idea di giustizia e la pace non sarà fondata. L’operaio non deve essere più aggirato da lunghi discorsi. Bisogna dirgli quel/o ch’ei DEVE volere, se non lo sa egli stesso. Io son collettivista e non comunista, e se chiedo l’abolizione dell’eredità, la chiedo per giungere più rapidamente all’eguaglianza sociale.

Che il cittadino Bakunin abbia, o no, pronunciato queste parole, non ci riguarda in nulla. Quanto importa al Consiglio Generale di constatare si è:

che queste parole, al dire di Mazzini stesso, sono state pronunziate in un congresso che non era quello dell’Internazionale, ma bensì della borghese Lega della Pace e della Libertà;158

che il congresso dell’internazionale riunito a Bruxelles in settembre 1868 ha sconfessato con un voto speciale questo stesso congresso della Lega della Pace e della Libertà

che il cittadino Bakunin quando pronunciò le parole in questione non era punto membro dell’Internazionale;

che il Consiglio Generale ha sempre fatto opposizione ai tentativi reiterati di sostituire al largo programma dell’Internazionale (che ha permesso l’ammissione nel suo seno degli aderenti di Bakunin), il programma stretto e settario di Bakunin, e la cui adozione escluderebbe d’un sol colpo l’immensa maggioranza dei membri dell’Internazionale;

che dunque l’Internazionale non può, in nessuna maniera, accettare la responsabilità degli atti e delle dichiarazioni individuali del cittadino Bakunin.

Quanto agli altri documenti sull’Internazionale di cui il cittadino Mazzini annuncia la prossima pubblicazione, il Consiglio Generale dichiara d’avanzi che l’Internazionale non è responsabile che dei documenti ufficiali da lei emessi.

Per ordine ed in nome del Consiglio Generale dell’Associazione Internazionale degli Operai

Il Segretario per l’Italia Friederich Engels

Note

157 La dichiarazione del Consiglio Generale scritta da Engels in relazione alle sortite diffamatorie di Mazzini, a giudicare da una nota marginale di Engels in brutta copia del manoscritto, oltre che a La Roma del Popolo, entro il 5-7 dicembre 1871 fu spedita pure ad altri giornali: Il Motto d’Ordine, Il Ciceruacchio, L’Eguaglianza, La Plebe, Il proletario Italiano e Gazzettino Rosa.

158 Engels allude alla risoluzione del Congresso di Bruxelles dell’Associazione Internazionale degli Operai (3- 13 settembre 1868) di non accettare l’invito a partecipare ufficialmente al congresso della Lega della Pace e della Libertà che doveva tenersi a Berna. La risoluzione ammetteva la partecipazione di membri della I Internazionale a titolo personale.

Pubblicato su La Plebe n. 144, 12 dicembre 1871; sul Gazzettino Rosa, n. 345, 12
dicembre 1871, e su La Roma del Popolo, n. 43, 21 dicembre 1871



Friedrich Engels

Lettera al direttore del «Gazzettino Rosa»159

International Working Men’s Association, 256, High Holborn,
London. — W. C. 7 febbraio 1871


Al cittadino direttore del «Gazzettino Rosa» Cittadino,
da alcuni mesi il Libero Pensiero di Firenze non lascia di attaccare l’Internazionale come se la grande associazione operaia potesse pigliar gelosia della società di prebendati razionalisti propugnata da questo giornale. Finora mi pareva soverchio il riscontrare a questi attacchi, ma, quando il suddetto foglio si abbassa sino a dar corso in Italia alle calunnie della stampa bismarckiana contro l’Internazionale ed il suo Consiglio Generale, è tempo di protestare. Ho dunque indirizzato al Libero Pensiero la seguente lettera alla quale vi prego dare pubblicità anche nel Gazzettino Rosa.

Salute e fratellanza
Segretario per l’Italia
presso il Consiglio Generale.

Friedrich Engels



AI Sig. Luigi Stefanoni,

direttore del «LIBERO PENSIERO»



Signore,

Nel n. I del Libero Pensiero, 4 gennaio 1872 si trova un articolo: L’Internazionale e il Consiglio supremo di Londra al quale giovami di riscontrare alcune parole.

Si domanda in questo articolo:

Vorrei    dimandare qual mandato abbia il Signor Engels di rappresentare l’Italia.

Io non ho, e non ho giammai avuto, nessuna pretesa di rappresentare l’Italia. Ho l’onore di essere, presso il Consiglio Generale, il segretario specialmente incaricato della corrispondenza coll’Italia, missione nella quale è mio dovere di rappresentare il Consiglio e non l’Italia.

Poi l’articolo traduce alcune corrispondenze da Londra tirate dal .Neuer Sozial Democrat di Berlino e piene delle più infami calunnie contro il Consiglio Generale e tutta l’Internazionale. A quelle non riscontrerò. Con quel giornale non si discute. È ben conosciuto per tutta la Germania cosa sia il Neuer Sozial Democrat, giornale pagato da Bismarck, organo del socialismo governativo prussiano. Se ha bisogno d’informazioni più precise su questo giornale, scriva al suo corrispondente Liebknecht di Lipsia e ne avrà certamente per soddisfarla. Mi permetterò solamente di aggiungere, che se lei è avido di simili calunnie contro l’Internazionale, ne troverà a migliaia nel Figaro, Gaulois  Pètit Journal ed il resto della stampa del demi-monde parigino, nello Standard di Londra, nel Journal de Genéve, nella Tages-presse di Vienna e nella Gazzetta di Mosca, autorità che la dispenseranno di citare questo povero diavolo di Schneider.

In una nota della direzione si dice:

Forse allude alla società segreta comunista costituita da Carlo Marx nell’anno 1850 a Colonia, la quale, come al solito, essendo scoperta, molti poveri diavoli caddero nelle mani della polizia prussiana, mentre gli agenti principali si salvarono a Londra.

Chiunque le disse cotali cose, ha mentito. Io ne fui di questa società160.

Essa non fu fondata né da Marx, né nel 1850, né in Colonia. Esisteva più di dieci anni avanti. Marx ed io eravamo in Inghilterra già da un anno, esuli cacciati dal governo prussiano, quando la sezione di Colonia, per propria imprevidenza, cadde nelle mani della polizia. Se vuole più ampie informazioni,  potrà ricorrere al signor Becker, sindaco di Dortmund e membro dei parlamenti prussiano e tedesco; Klein, medico e consigliere municipale a Colonia; Bϋrgers, direttore della Gazzetta di Wiesbaden; Lesner, sarto e membro del Consiglio Generale dell’Internazionale in Londra. Vennero tutti condannati in questo processo contro i comunisti161. La prego di pubblicare, nel suo prossimo numero, questa rettificazione ed ho l’onore di riverirla

Fredrich Engels


Note

159 La lettera alla redazione del Gazzettino Rosa fu scritta da Engels in relazione alla campagna calunniatrice contro l’Internazionale sollevata dalla rivista Libero Pensiero di Firenze (stampata dal 1866 al 1876 a cura di
L. Stefanoni, democratico piccolo-borghese, membro dell’Alliance di Bakunin).
Al fine di minare l’influenza dell’Internazionale Stefanoni promosse la creazione di una cosiddetta «Società universale dei razionalisti». Demagogicamente la sua società era schierata a difesa dei principi dell’Internazionale, però «senza i suoi lati brutti». Stefanoni propagandò le  idee  utopistiche  e piccolo- borghesi del riscatto dei latifondi e della creazione di colonie agricole come unico mezzo per salvare i lavoratori dallo sfruttamento. Gli operai italiani rifiutarono il programma di Stefanoni e il suo progetto non fu mai effettuato.
Engels, ironizzando, chiama i razionalisti «prebendari», facendo allusione al loro piano di soluzione del problema sociale tramite la creazione di un patrimonio fondiario a mezzo di beneficenza.
Oltre ad essere pubblicata sul Gazzettino Rosa, la lettera di Engels fu pure stampata sul Libero Pensiero il 22 febbraio 1872.

160 Si tratta della Lega dei comunisti, la prima organizzazione comunista internazionale del proletariato, creata su iniziativa di Marx ed Engels all’inizio del giugno 1847 a Londra, a riorganizzazione della Lega dei giusti, società clandestina costituitasi negli anni ‘50 con filiali in Germania, Francia, Svizzera ed Inghilterra. I principi programmatici e organizzativi della Lega dei comunisti furono elaborati da Marx e da Engels. Per incarico del lI Congresso della Lega (19 novembre-8 dicembre 1847) essi scrissero insieme il documento programmatico, il Manifesto del Partito comunista, pubblicato nel febbraio 1848. Oggetto di continue persecuzioni e di arresti, la Lega, nel maggio 1851, cessò di fatto la sua attività in Germania. Il 17 novembre 1852, su proposta di Marx, la Lega fu sciolta ma i militanti continuarono la lotta.
La Lega dei comunisti espletò un ruolo storico di grande rilievo quale scuola di rivoluzionari proletari, germe del partito proletario, predecessore della I Internazionale.

161 Il Processo di Colonia dei comunisti (4 ottobre-12 novembre 1852), ebbe un carattere provocatorio e fu montato dal governo prussiano. Davanti alla corte apparvero 11 membri della Lega dei comunisti accusati di
«complotto e alto tradimento». Quale materiale d’accusa figuravano il «libro autentico dei protocolli» delle sedute del CC ed altri «documenti» fabbricati dalla polizia prussiana, nonché quelli rubati dalla stessa polizia alla frazione avventuriera di Willich-Schapper, espulsa dalla Lega. In base a documenti falsificati e a false testimonianze i 7 imputati furono condannati ad una pena variante da 3 a 6 anni. I metodi provocatori e vili dello Stato poliziesco prussiano contro il movimento operaio internazionale furono denunciati da Engels nell’articolo Il recente processo di Colonia e nel pamphlet di Marx La verità sul processo di Colonia dei comunisti.


Pubblicato sul Gazzettino Rosa n. 50, 20 febbraio 1872



Dal riassunto di un discorso di Fredrich Engels sulla situazione dell’Internazionale in Italia e Spagna


Verbali della seduta del Consiglio Generale del 12 marzo 1872


Il cittadino Engels dichiara che il rapporto pubblicato sulla seduta della settimana scorsa riproduce in modo completamente falso quello che egli ha detto a proposito dell’Italia162. Mentre corregge questo rapporto, egli coglie l’occasione per completare quanto ha detto sulla situazione dell’Internazionale in Italia. Fino ad ora i rapporti che pervenivano da questo paese, o tramite la corrispondenza con il Consiglio o tramite i giornali delle sezioni italiane dell’Internazionale, rappresentavano le cose come se queste sezioni appoggiassero all’unanimità la dottrina dell’astensione completa dall’attività politica e respingessero la risoluzione della conferenza su tale questione. Ma non si deve dimenticare che fino ad ora sia la corrispondenza con il Consiglio Generale, sia i giornali si trovavano non in mano agli operai, ma in mano ad elementi di origine borghese: avvocati, medici, giornalisti, ecc. Infatti, la maggiore difficoltà per il Consiglio consisteva nello stabilire dei legami diretti proprio con gli operai italiani. Ciò è avvenuto ora in una o in due località, e si è chiarito che questi operai, lungi dall’essere entusiasti dell’astensionismo politico, erano, al contrario, molto lieti di apprendere che il Consiglio Generale, che guida la massa fondamentale dell’Internazionale, non sostiene in alcun modo tale dottrina. È così da sperare che anche su questa questione gli operai italiani presto si troveranno d’accordo con gli operai del resto d’Europa e degli Stati Uniti d’America.

Note

162 Il 12 marzo 1872 alla seduta del Consiglio Generale Engels protestò contro il fatto che Heils, membro del Consiglio, «avesse redatto a modo suo» i resoconti delle sedute del Consiglio Generale che quest’ultimo come segretario pubblicava sull’Eastern Post muniti di sua firma. In particolare si trattava dell’intervento di Engels del 5 marzo pubblicato sul giornale il 9 marzo 1872.


La relazione di Engels si basava sui fatti fornitigli da Regis nella sua lettera del 1° marzo 1872.
Pubblicato sul giornale Eastern Post n. 181, 17 marzo 1872



F. Engels

Sulle persecuzioni del membro dell’internazionale Theodor Cuno163

Già da qualche tempo è noto che i governi della Germania, dell’Austria e dell’Italia hanno ordito un complotto per dar caccia ai membri dell’Internazionale. Come funziona questo complotto lo mostrano i seguenti fatti: un eminente membro dell’Internazionale a Milano, il cittadino Theodor Cuno, nativo della Prussia, ingegnere, privato di un posto in una grande fabbrica metalmeccanica, fu arrestato il 25 febbraio, e tutte le sue carte e tutte le fotografie in suo possesso (comprese quelle di suo padre, ecc.) furono sequestrate. Egli fu trasportato in catene a Verona, dove lo tenevano per quasi un mese in carcere in compagnia di ladri e assassini e lo trattavano precisamente alla stregua di questi ultimi, mentre le sue carte furono mandate a Roma per la verifica. Il 29 marzo egli fu portato, incatenato ad un delinquente comune, alla frontiera e consegnato alle autorità austriache. Qui egli venne a conoscere per la prima volta il motivo di quello che ebbe causato tutto ciò. Quanto fosse grande il suo stupore nel leggere che egli fu arrestato poiché

era - ozioso a Milano, viveva come vagabondo e senza mezzi di sussistenza, era inoltre un pericoloso agente del partito socialista internazionale e fu espulso per tutti questi motivi dal regno d’Italia (!)

Ebbene, lungi dall’essere ozioso, lui doveva assumere il marzo un impiego vantaggioso a Como come direttore di una fabbrica, ed era lungi dall’essere privo di mezzi di sussistenza: le autorità italiane nel congedarsi da lui, dovettero restituirgli 111 franchi del suo proprio denaro! Gli austriaci non potevano spiegarsi questa contraddizione, ma invece di liberarlo, lo posero sotto sorveglianza di un poliziotto che avrebbe dovuto portarlo, a spese di Cuno, alla frontiera bavarese, e in tal modo Cuno non solo dovette passare altri sette notti in carcere, ma anche spendere la maggior parte del suo denaro. Alla frontiera bavarese egli ottenne, senza dubbio grazie all’assenza delle rispettive istruzioni e grazie alla stupidità innata della polizia bavarese, che venisse spedito un telegramma ai suoi parenti e, dopo l’arrivo di una risposta soddisfacente, egli fu posto finalmente in libertà. Sembra così che l’alleanza poliziesca europea contro l’Internazionale sia una realtà. Cuno poteva essere mandato alla frontiera svizzera e là rimesso in libertà, ma al posto di ciò egli fu consegnato agli austriaci e da questi ai bavaresi per essere trasferito come delinquente comune di carcere in carcere. Questo è il liberalismo delle «libere» monarchie costituzionali.

Note

163 La relazione sulla persecuzione poliziesca del socialista tedesco Th. Cuno, uno dei dirigenti della sezione milanese della I Internazionale, fu presentata da Engels alla seduta del Consiglio Generale il 23 aprile 1872. Le notizie Engels le ebbe dai giornali italiani e dalla lettera di Cuno che egli ricevette il 22 aprile. Engels dava una grande importanza allo smascheramento delle persecuzioni di Cuno, vedendovi un fatto concreto della congiura dei governi reazionari d’Europa contro l’Internazionale. Il comunicato di Engels fu pubblicato nel resoconto della seduta del Consiglio Generale, prima sull’Eastern Post del 27 aprile 1872 e poi sul Gazzettino Rosa del 7 maggio 1872.

Scritto il 22-23 aprile 1872.

Pubblicato sul giornale Eastern Post n. 187, 27 aprile 1872, e sul Gazzettino Rosa n. 127, 7 maggio 1872



F. Engels

Da: Nota per il Consiglio Generale

…...3. A Lodi La Plebe si comporta bravamente, anche se non rompe apertamente con gli altri, ciò che essa, del resto, non sarebbe in grado di fare. Ma essi stessi spingono le cose agli estremi. Essi indicano un congresso italiano per il 15 marzo, ma vogliono ammettere solo quelle sezioni che hanno riconosciuto le decisioni di Rimini164  o le riconosceranno alla scadenza stabilita! Questa è l’autonomia e la libera federazione. Lo Statuto dell’Internazionale si può calpestarlo, ma le risoluzioni di Rimini sono sacrosante.

.….8. A Lodi si trova ora solo Bignami. Il Comitato di partito di Amburgo ha mandato loro 20 talleri e Oberwinder da Vienna 50 fiorini, il che non ha mancato di sortire il suo effetto.

9.  La  manovra  di  Cuno  di  travestirsi  da  Capestro  è  stata  già  smascherata  ne
L’internationale di Bruxelles …..165

Note

164 Dal 15 al 17 marzo 1873 si tenne a Bologna il I Congresso degli anarchici italiani che crearono una loro federazione alla conferenza di Rimini.

165 Dopo il Congresso dell’Aia Cuno emigrò in America. Lottando contro l’anarchismo, egli con lo pseudonimo di Capestro firmò l’appello del 10 gennaio 1873 della sezione n. 29 dell’Associazione Internazionale degli Operai alla Nuova federazione di Madrid. Sull’lnternationale di Bruxelles (n. 212 del 2 febbraio 1873) veniva riportato questo fatto e si diceva che Cuno e Capestro erano la stessa persona.

Pubblicato integralmente per la prima volta in russo in: K. Marx-F. Engels, Opere, I ed., Mosca, 1935, voI. 26



K. Marx, F. Engels

Da: L’Alleanza Internazionale della Democrazia Socialista e l’Associazione Internazionale degli Operai166

V

L’Alleanza in Italia

In Italia l’Alleanza era sorta prima dell’Internazionale. Papa Michele vi aveva soggiornato e aveva stabilito nume rosi contatti con i giovani elementi radicali della borghesia. La prima sezione dell’Internazionale italiana, quella di Napoli, si trovava sin dalla fondazione sotto la direzione di questi elementi borghesi e alleanzisti. L’avvocato Gambuzzi uno dei fondatori dell’Alleanza, portò alla presidenza della sezione il suo « operaio modello » Caporosso [Uno dei partigiani più zelanti di Caporusso era l’avvocato Carlo Gambuzzi, che credeva di aver trovato in lui il presidente modello di una sezione dell’Internazionale. Era sempre Gambuzzi che gli forni i mezzi perché potesse recarsi al Congresso di Basilea. Quando, nell’assemblea generale della sezione, fu decisa l’espulsione di Caporusso, egli si oppose vivamente alla pubblicazione di questo fatto nel Bollettino, e persuase i suoi amici di non insistere neanche sulla divulgazione di un’altra vergognosa azione: l’appropriazione di 300 franchi» (Lettera di Cafiero del 12 luglio 1871167)].

Al Congresso di Basilea.168 Bakunin rappresentò, a fianco del suo fedele Caporusso, gli aderenti napoletani all’Internazionale, mentre l’Antonelli dell’Alleanza, Fanelli, delegato di alcune associazioni operaie che stanno al di fuori dell’Internazionale, fu trattenuto per via di un’indisposizione [Fanelli siede già da tempo al parlamento italiano. Interpellato in proposito, Gambuzzi dichiarò che è molto bello essere deputato: l’immunità nei confronti della polizia e la possibilità di viaggiare gratuitamente su tutte la ferrovie italiane. L’Alleanza vieta agli operai ogni attività politica, poiché esigere dallo Stato l’istituzione di una giornata lavorativa normale per le donne e i bambini, vuol dire riconoscere lo Stato e capitolare di fronte al cattivo principio, ma i capi borghesi dell’Alleanza hanno una dispensa papale che permette loro di sedere al parlamento e di godere dei privilegi offerti dallo Stato borghese. L’attività ateistica e anarchica di Fanelli al parlamento italiano si è limitata finora ad un ampolloso elogio dell’autoritario Mazzini, l’uomo del «Dio e popolo».]

La famigliarità con il santo padre inebbriò il bravo Caporusso. Ritornato a Napoli, egli credeva di stare al di sopra degli altri alleanzisti; egli si comportava da padrone in seno alla sezione.

Il viaggio a Basilea trasformò Caporusso da capo a piedi...  Egli ritornò dal congresso con strane idee e pretese, assolutamente in contrasto con l’essenza della nostra associazione. Egli parlò prima per via d’allusioni, poi apertamente con tono imperioso, di poteri che lui non aveva né poteva avere; egli affermò che il Consiglio Generale non aveva fiducia che per lui e che lui, ove la sezione non seguisse la sua volontà, avrebbe il potere di scioglierla e di fondarne una nuova. (Rapporto ufficiale della sezione di Napoli al Consiglio Generale, luglio 1871, steso e firmato dall’avvocato alleanzista Carmelo Palladino)

I poteri di Caporusso dovevano derivare dal Comitato centrale dell’Alleanza, poiché l’Internazionale    mai accorda tali poteri. Il buon Caporusso, il quale vedeva nell’Internazionale solo una fonte di lucro personale, nominò suo genero — ex gesuita e prete disertore

professore dell’Internazionale e costrinse i poveri operai a sorbirsi le sue tirate sul rispetto della proprietà e altre stupidaggini dell’economia politica borghese. (lettera di Cafiero) [Avuta una risposta per le rime a Napoli, Caporusso due anni dopo spinse la sua spudoratezza al punto di  voler  imporre  questo tipo al Consiglio Generale,  reclamizzandolo nel seguente modo: «Cittadino presidente dell’Internazionale! Il grande problema del lavoro e del capitale che è stato discusso al congresso operaio di Basilea e che occupa oggi la mente di tutte le classi, è stato attualmente risolto. L’uomo che si è dedicato allo studio di un problema complesso come la questione sociale, è mio genero, marito di mia figlia; dopo aver studiato le deliberazioni del suddetto congresso e dopo aver chiamato in aiuto la scienza, lui ha trovato il modo di sciogliere un nodo intricato, il che permette di stabilire un equilibrio completo fra la famiglia operaia e la borghesia in conformità ai diritti di ciascuna», ecc. (firmato:
Stefano Caporusso)]169

Dopo di che si lasciò comprare dai capitalisti che furono posti in inquietudine dai progressi dell’Internazionale a Napoli. Dietro loro ordine egli trascinò i pellicciai di Napoli in uno sciopero disperato. Gettato in carcere insieme ad altri tre membri della sezione, egli si appropriò di una somma di 300 franchi, inviata dalla sezione per aiutare i quattro prigionieri. Queste gesta gloriose gli valsero l’espulsione dal la sezione, che continuò ad esistere fino a quando non fu sciolta con la forza (20 agosto 1871). Ma l’Alleanza, sfuggita agli attacchi della polizia, approfittò di questa circo stanza per occupare il posto dell’Internazionale. Carmelo Palladino protestò, all’atto dell’invio del sopraccitato rapporto ufficiale del 13 novembre 1871, contro la Conferenza londinese negli stessi termini e per gli stessi motivi che si possono trovare nella circolare di Sonvillier datata un giorno prima.

Nel novembre 1871 si costituì a Milano una sezione formata da diversi elementi170. Ne facevano parte operai, particolarmente meccanici portati da Cuno, nonché studenti, giornalisti della piccola stampa, commessi, interamente influenzati dall’Alleanza. Cuno era estraniato dai loro misteri a causa della sua origine germanica. Ciò nondimeno egli ebbe modo di convincersi che, dopo un pellegrinaggio a Locarno, questa Roma degli alleanzisti, questi giovani borghesi si costituirono in sezione di un’associazione segreta. Poco tempo dopo (febbraio 1872) Cuno fu arrestato dalla polizia italiana ed estradato. Grazie a questo aiuto del cielo l’Alleanza trovò libero il campo d’azione e si sottomise pian piano la sezione milanese dell’Internazionale.

L’8 ottobre 1871 si costituì a Torino la Federazione operaia171 essa chiese al Consiglio Generale di essere ammessa all’Internazionale. Il suo segretario, Carlo Terzaghi, scrisse letteralmente: «Attendiamo i vostri ordini» Come per mostrare che in Italia l’Internazionale doveva sin dalla sua fondazione passare attraverso l’istanza burocratica dell’Alleanza, egli comunica che

Il    Consiglio Generale riceverà tramite Bakunin una lettera dell’Associazione operaia di Ravenna, in cui questa si proclama sezione dell’ Internazionale.

Il 4 dicembre Carlo Terzaghi annuncia al Consiglio Generale che la Federazione operaia si è scissa, poiché la maggioranza è mazziniana, e che la minoranza si è costituita in sezione sotto il nome di Emancipazione del Proletario. Egli approfitta dell’occasione per chiedere al Consiglio Generale denaro per il suo giornale Il Proletario. Non era compito del Consiglio Generale sopperire ai bisogni della stampa, ma esisteva a Londra un comitato che si preoccupava di raccogliere soldi per appoggiare le pubblicazioni dell’Internazionale. Il comitato era già in procinto di mandare a titolo di aiuto 150 franchi, quando il Gazzettino Rosa annunciò che la sezione torinese si era schierata apertamente dalla parte dei giuresi e aveva deciso di mandare un delegato al congresso generale convocato dalla Federazione del Giura172. Due mesi dopo Terzaghi si vantava davanti a Regis di aver imposto lui questa decisione, dopo che aveva ricevuto personalmente a Locarno le istruzioni di Bakunin. Di fronte a questa posizione ostile all’Internazionale il comitato non inviò i soldi.

Anche se Terzaghi era a Torino il braccio destro dell’Alleanza, il vero legato papale era, però, un certo Jakobi, sedicente medico polacco. Proclamando il suo odio per il presunto pangermanismo del Consiglio Generale, il dottore alleanzista accusava quest’ultimo

di negligenza e d’inattività all’epoca della guerra franco-prussiana; si deve attribuirgli la caduta della Comune poiché non ha saputo servirsi della propria immensa autorità per sostenere il movimento parigino; le sue tendenze filogermaniche saltano agli occhi, se si pensa che davanti alle mura di Parigi si trovavano nell’esercito tedesco 40.000 aderenti all’Internazionale (?) e che il Consiglio Generale non ha saputo o non ha voluto servirsi del suo influsso per impedire la continuazione della guerra. [Rapporto di Regis al Consiglio Generale, 1° marzo 1872)173

Egli  accusa  il  Consiglio  Generale,  confondendolo  con  il  Comitato  per  la  stampa,  di
«seguire la teoria dei governi corruttori e corrotti», negando i 150 franchi all’alleanzista Terzaghi. Per dimostrare che questa lagnanza dell’Alleanza veniva dal cuore, Cuillaume ritenne suo obbligo ripeterla al Congresso dell’Aia.

Mentre Terzaghi nel suo foglio suonava davanti al pubblico il grande tamburo antiautoritario dell’Alleanza, di nascosto scriveva al Consiglio Generale chiedendo che quest’ultimo respingesse autoritariamente i contributi della Federazione operaia torinese e scomunicasse con tutte le regole il giornalista Beghelli, che non era neanche membro del l’Internazionale. Lo stesso Terzaghi, «amicone del prefetto di Torino, che lo invitava a bere un bicchierino di vermut» se lo incontrava (rapporto ufficiale del Consiglio federale di Torino del 5 aprile 1872), denunciò in un’assemblea pubblica la presenza dell’emigrato Regis, inviato dal Consiglio Generale a Torino. Questa indicazione portò subito la polizia sulle tracce di Regis, e solo con l’aiuto della sezione quest’ultimo riuscì a raggiungere la frontiera.

Terzaghi concluse la sua missione alleanzista a Torino nel seguente modo. Poiché gli furono mosse dure accuse, egli

minacciò di bruciare i libri della sezione, se non fosse stato rieletto segretario, e se si fosse cercato di sottrarsi alla sua volontà, alla sua autorità e se fosse stato deciso un biasimo nei suoi confronti. In tutti questi casi egli si sarebbe vendicato, diventando questurino. [sopraccitato rapporto del Consiglio federale di Torino].

Terzaghi aveva ogni motivo di cercare di intimidire la sezione. Quale cassiere e segretario egli andò troppo oltre nei suoi furti alleanzisti alla cassa. Contrariamente ad un divieto formale del Consiglio lui si accordò uno stipendio di 90 franchi; egli registrava nei libri come pagate somme che non erano state pagate ma che erano scomparse dalla cassa; la bilancia dei conti preparata da lui stesso indicava un effettivo di cassa pari a 56 franchi che non era possibile rintracciare e che egli si rifiutava di risarcire, così come anche i 200 marchi di quota da lui ricevuti dal Consiglio Generale. L’assemblea generale lo scacciò all’unanimità (il sopraccitato rapporto). L’Alleanza, che rispetta sempre l’autonomia delle sezioni, approvò anche questa espulsione, facendo nominare immediatamente Terzaghi membro d’onore della sezione di Firenze e più tardi delegato di questa sezione alla conferenza di Rimini.

Alcuni giorni dopo, in una lettera in data 10 marzo, Terzaghi spiega al Consiglio Generale la sua espulsione nel seguente modo: egli avrebbe presentata la domanda di dimissione da membro e segretario di questa sezione di canaglie e di inetti (canaglia et mardocheria), poiché essa «era formata da agenti del governo e da mazziniani» e poiché si è tentato di formulare un voto di biasimo nei suoi con fronti, «sapete voi perché? perché io predicavo la guerra contro il capitale!» (questa guerra lui la conduceva proprio contro la cassa della sezione). La lettera aveva lo scopo di dimostrare al Consiglio Generale che esso era stato stranamente tratto in  errore nel  suo giudizio  su questo bravo  Terzaghi, il  quale non desidererebbe altro che diventare un umile servitore del Consiglio Generale. Egli non ha forse «sempre dichiarato che, per essere un membro dell’Internazionale, bisogna pagare i contributi al Consiglio Generale», in contrasto con gli ordini segreti dell’Alleanza?

Se noi abbiamo aderito al congresso del Giura, ciò è avvenuto non per dichiarare guerra a voi, cari amici, ma abbiamo seguito semplicemente la corrente; la nostra intenzione era quella di apportare nel conflitto una parola di pace. Per quanto riguarda la centralizzazione delle sezioni, senza però negare ad esse una certa propria autonomia, io considero ciò una cosa molto utile. Lo spero che il grande Consiglio rifiuterà l’ammissione della Federazione operaia mazziniana; siate certi che nessuno lo interpreterà come mania di autorità da parte vostra; io mi assumo ogni responsabilità per ciò... Io vorrei, se possibile, avere una particolareggiata biografia di Karl Marx; in Italia non abbiamo nessuna sua biografia autentica e io vorrei essere degnato per primo di tale onore.

E che cosa significa tutto questo scodinzolare?

Non per amor mio, ma in nome della causa, per non cedere il posto ai miei numerosi nemici, per mostrare loro che l’Internazionale è unita, io prego insistentemente, se si è ancora in tempo, di accordarmi il sussidio di 150 franchi, deciso dal grande Consiglio.

Credendosi sicuro della sua impurità, sembra che Terzaghi, realizzando nuovi colpi, si sia posto a Firenze in una situazione talmente impossibile che lo stesso Fascio Operaio si è visto costretto a sconfessarlo. Noi speriamo che il Comitato del Giura sappia apprezzare meglio i suoi meriti.

Se in Terzaghi l’Alleanza ha trovato un suo vero rappresentante, nella Romagna essa ha trovato il terreno più fertile. Essa ha formato là un gruppo di sedicenti sezioni dell’Internazionale, per le quali la prima regola di condotta era di non curarsi degli Statuti generali, di non notificare al Consiglio Generale la propria costituzione e di non pagare i contributi. Erano sezioni veramente autonome. Esse si sono assunte la denominazione di
«Fascio Operaio e servivano come centri unificatori di varie associazioni operaie. Il loro primo congresso, a Bologna il 17 marzo, rispose alla domanda:

Si deve nell’interesse di tutti e per assicurare l’autonomia completa del Fascio Operaio subordinare quest’ultimo alla direzione del Comitato Generale a Londra o del Comitato del Giura o si deve conservare l’indipendenza completa, mantenendo i rapporti con i due comitati?

con la seguente risoluzione:

Il Congresso vede nel Consiglio Generale di Londra e in quello del Giura null’altro che semplici uffici di corrispondenza e di statistica e incarica il Consolato del circondano di Bologna di entrare in contatto con entrambi e di informarne le sezioni.

Il Fascio Operaio ha preso un grosso granchio rivelando ai profani l’esistenza misteriosa del  centro  segreto  dell’Alleanza.  Il  Comitato  del  Giura  si  è  visto  costretto  a  negare
pubblicamente la propria attività segreta. Per quanto concerne il Consiglio Generale, il Consolato di Bologna non si è fatto assolutamente vivo con esso.

Non appena l’Alleanza era venuta a sapere della convocazione di un congresso all’Aia, essa ha messo avanti il suo Fascio Operaio, il quale in nome della sua autorità autonoma o della sua autonomia autoritaria si è dato il nome di «Federazione italiana» e ha indetto per il 5 agosto una conferenza a Rimini. Sulle 21 sezioni che vi erano rappresentate, solo una, quella di Napoli, apparteneva a suo tempo all’Internazionale, mentre nessuna delle sezioni veramente appartenenti all’Internazionale, persino quella di Milano, aveva là un rappresentante. Questa conferenza ha svelato il piano di campagna dell’Alleanza nella seguente risoluzione:

Considerando che la Conferenza di Londra (settembre 1871) ha tentato di imporre con la sua risoluzione IX a tutta l’Associazione Internazionale degli Operai una dottrina autoritaria che è la dottrina del Partito comunista tedesco;

che il Consiglio Generale è la leva e il punto d’appoggio di questo tentativo;

che la dottrina dei comunisti autoritari è la negazione del sentimento rivoluzionario del proletariato italiano;

che il Consiglio Generale ha utilizzato mezzi fra i più indegni, come la calunnia e l’inganno, unicamente allo scopo di imporre all’intera Associazione Internazionale degli Operai la sua speciale dottrina autoritario—comunista;

che il Consiglio Generale ha raggiunto il colmo dell’indegnità con la sua circolare confidenziale, datata Londra, 5 marzo 1872, nella quale esso, proseguendo nella sua opera di diffamazione e di inganno svela tutta la sua mania autoritaria, particolarmente nei due seguenti punti degni di attenzione:

«Sarebbe difficile eseguire gli ordini senza autorità “morale” in assenza di ogni altra autorità liberamente riconosciuta». (Circolare confidenziale, p. 27)174.

«Il Consiglio Generale è intenzionato di chiedere al prossimo congresso un’inchiesta sull’operato di questa organizzazione segreta e dei suoi capi in vari paesi, ad esempio, in Spagna» (p. 31);

che lo spirito reazionario del Consiglio Generale ha indignato il sentimento rivoluzionario dei belgi, francesi, spagnoli, slavi, italiani e di una parte degli svizzeri e ha dato vita alla proposta per l’abolizione del Consiglio Generale e per la riforma degli Statuti generali;

che il Consiglio Generale non senza motivo ha convocato il congresso all’Aia situata lontana da tutti questi paesi rivoluzionari.

Considerando tutto ciò,

la Conferenza dichiara solennemente davanti a tutti gli operai del mondo che la Federazione italiana dell’Associazione Internazionale degli Operai rinuncia da questo momento ad ogni solidarietà con il Consiglio Generale londinese, ribadendo, però, al tempo stesso la sua solidarietà economica con tutti gli operai e chiama tutte le sezioni che non condividono i principi autoritari del Consiglio Generale ad inviare propri rappresentanti il 2 settembre 1872 non all’Aia, ma a Neuchatel (Svizzera), per aprire nel medesimo giorno un congresso antiautoritario generale.

Rimini, 6 agosto 1872.

Per    la Conferenza: Carlo Cafiero, Presidente; Andrea Costa, segretario.

Il tentativo di mettere il Fascio Operaio al posto del Consiglio Generale è completamente fallito. Persino il Consiglio federale spagnolo, questa semplice filiale dell’Alleanza, non ha osato porre ai voti la risoluzione di Rimini fra gli aderenti spagnoli all’Internazionale. L’Alleanza ha cercato quindi di rimediare alla sua cantonata ed è andata a senza rinunciare tuttavia al suo congresso antiautoritario a Saint-Imier,

L’Italia è diventata in forza di circostanze particolarmente favorevoli la terra promessa dell’Alleanza. Papa Michele rivela questo segreto nella sua lettera a Mora (Documenti, n. 3):

In Italia c’è quello che manca negli altri paesi: una gioventù ardente, energica, senza alcuna occupazione, senza prospettive di carriera, senza via d’uscita (tout-à-fait déplacée, sans carrière, sans issue), che nonostante tutta la sua origine borghese, non è esaurita sul piano morale e intellettuale come la giovane borghesia degli altri paesi. Oggi essa si lancia a capofitto (a tête perdue) nel socialismo rivoluzionario con il nostro intero programma, con il programma del l’Alleanza. Mazzini, il nostro geniale (sic!) e potente avversario, è morto, il partito mazziniano è completamente disorganizzato, e Garibaldi si lascia sempre più trascinare da quella gioventù che porta il suo nome, ma che però va, anzi, corre infinitamente più lontano di lui. [Lo stesso Garibaldi scrive in proposito: «Mio caro Grescio, ringrazio cordialmente dell’Avvenire sociale che Lei mi ha mandato e che leggerò con interesse. Lei vuole nel Suo foglio combattere la menzogna e la schiavitù: è un programma molto bello. Ma io credo che la lotta contro il principio dell’autorità sia uno di quegli errori dell’Internazionale che ostacolano i suoi progressi. La Comune di Parigi è caduta poiché a Parigi non esisteva alcuna autorità, ma esisteva solo l’anarchia. La Spagna e la Francia soffrono a causa del medesimo male. Auguro all’Avvenire prosperità e rimango Suo G. Garibaldi».]

Il santo padre ha ragione. L’Alleanza in Italia non è un Fascio Operaio, ma un pugno di elementi declassati. Tutte le sedicenti sezioni dell’Internazionale in Italia sono dirette da avvocati senza clienti, da medici senza pazienti e senza cognizioni, da studenti delle sale da biliardo, da commessi viaggiatori e da altri commessi e particolarmente da giornalisti della piccola stampa di fama più o meno ambigua. L’Italia è l’unico paese, in cui la stampa dell’Internazionale — o la stampa che così si chiama — abbia il carattere proprio al giornale Figaro. Basti gettare solo uno sguardo sulla calligrafia dei segretari di queste sedicenti sezioni,  per  convincersi che essa è  sempre una calligrafia da commessi o tradisce l’abituale uso della penna. Impadronendosi così di tutti i posti ufficiali nelle sezioni, l’Alleanza ha potuto costringere gli operai italiani, ogniqualvolta volevano entrare in contatto fra di loro o con un Consiglio esterno dell’Internazionale, a ricorrere ai servigi di quella degradata borghesia alleanzista che ha trovato finalmente nell’Internazionale una «carriera» e una «via d’uscita».

Note

166 Alliance internationale de la democratie socialiste (Alleanza internazionale della democrazia socialista) fu fondata da M. Bakunin nell’ottobre 1868 a Ginevra come organizzazione internazionale degli anarchici nella quale egli incluse pure la sua alleanza segreta. L’Alliance aveva sue sezioni nelle regioni industrialmente poco sviluppate di Italia, Spagna, Svizzera e del sud della Francia. Nel 1869 l’Alliance si rivolse al Consiglio Generale dell’Associazione Internazionale degli Operai con la richiesta di affiliarla alla I Internazionale. Il Consiglio Generale fu d’accordo di affiliare solo le sezioni dell’Alliance, a condizione però che l’Alliance stessa fosse sciolta come organizzazione autonoma. Entrata a far parte dell’Internazionale come sezione ginevrina, l’organizzazione conservò la sua denominazione precedente, mentre Bakunin in sostanza ignorò la decisione del Consiglio Generale: in seno all’Internazionale i bakunisti continuarono la loro attività sovvertitrice sia aperta che occulta cercando di porre il movimento internazionale dei lavoratori sotto la loro influenza. Il fatto che gli anarchici negassero la dittatura del proletariato e la necessità di creare partiti operai di massa portava il movimento operaio a dipendere direttamente dalla borghesia. Marx, Engels e il Consiglio Generale decisamente lottarono contro l’Alliance smascherandola come setta nemica del movimento operaio. Al Congresso dell ‘Aia della I Internazionale (1872) ai bakunisti fu assestato un colpo demolitore. Bakunin e Guillaume furono espulsi dall’Internazionale. il marxismo riportò una vittoria ideale e organizzativa sulle forme premarxiste e piccolo-borghesi del socialismo.
Con questo scritto Marx ed Engels dettero il colpo di grazia alle pretese bakuniste di egemonizzare il movimento operaio europeo. Gli autori, servendosi di un’enorme quantità di dati di fatto svelarono i vari raggiri con i quali i bakunisti avevano cercato di impadronirsi dell’internazionale e sfruttare per i propri scopi la sua influenza e la sua organizzazione. Con questo lavoro furono tirate le somme della lotta teorica e organizzativa contro i bakunisti in seno all’internazionale.
L’opera fu scritta sulla scorta di numerosi documenti presentati alla commissione d’inchiesta del Congresso dell’Aia sull’attività della segreta Alliance.

167 Si cita la lettera di Cafiero a Engels del 12-16 luglio 1871, nella quale si parlava della situazione creatasi nella sezione napoletana della I Internazionale.

168 Il Congresso di Basilea della I Internazionale (6-11 settembre 1869) conferma la rivendicazione del passaggio della terra alla proprietà collettiva e adottò la risoluzione che chiamava gli operai a creare le unioni sindacali nazionali. Era quella la vittoria del marxismo sui proudhoniani in seno all’Internazionale. Nel corso dei dibattiti sulla questione agraria e sulla proposta di abolire l’ereditarietà si svolse una aspra lotta tra l’ala proletaria dell’Associazione e i bakunisti e sorsero dei seri contrasti di principio che più tardi resero impossibile la loro appartenenza all’Internazionale. il congresso inoltre ampliò i diritti del Consiglio Generale e approvò la sua attività.

169 Citazione dalla lettera di Caporusso a Odger del 21 gennaio 1872.

170 La sezione milanese della I Internazionale fu costituita da T Cuno, sotto l’influenza diretta di Engels. Influenzata da Cuno, una parte della Società di mutua assistenza morale degli operai di orientamento mazziniano l’abbandonò e costituì il Circolo operaio della liberazione del proletario, che il 7 gennaio 1872 si dichiarò sezione dell’internazionale. Il Circolo adottò lo Statuto corrispondente ai principi dell’Internazionale. Il 30 gennaio 1872 Engels riferì al Consiglio Generale la costituzione della sezione e dichiarò che il suo Statuto corrispondeva ai principi dell’Internazionale. La sezione fu affiliata all’Associazione. Cuno, sotto la guida di Engels, lottò in seno alla sezione contro gli anarchici che ne facevano parte e ottenne che la sezione non desse loro appoggio nella lotta contro il Consiglio Generale.

171 La Federazione operaia costituita a Torino nell’autunno 1871 fu influenzata dai mazziniani. Nel gennaio 1872 gli  elementi proletari l’abbandonarono per costituire la società denominata «L’emancipazione  del proletario», che più tardi, quale sezione, fu accettata in seno alla I Internazionale. Fino al febbraio 1872 a capo della società vi fu Terzaghi, agente segreto della polizia.

172 La Federazione delle sezioni della I Internazionale del Giura (Svizzera) appoggiava gli anarchici.

173 La relazione di Regis sul viaggio in Italia per l’incarico del Consiglio Generale fu scritta come lettera a Engels. Nella seconda metà del febbraio 1872 Regis per dieci giorni fu a Milano e Torino per informarsi sulla situazione nelle sezioni e rendere note le decisioni dell’Associazione Internazionale degli Operai. Su istruzioni di Engels, Regis spiegò il netto contrasto tra i punti di vista anarchici ed i principi e gli obiettivi dell’Internazionale.

174  Qui gli autori citano la circolare chiusa del Consiglio Generale della I Internazionale scritta da Marx ed Engels all’inizio del 1872 ed intitolata Le presunte scissioni nell’internazionale, che svelava l’attività faziosa dell’Alliance bakunista.

Scritto da K. Marx e F. Engels

con la partecipazione di P. Lafargue nell’aprile-luglio 1873. Pubblicato in opuscolo a Londra e ad Amburgo nell’agosto 1873



F. Engels

Da: In seno all’Internazionale

……. In Italia, dove gli anarchici della federazione separatista danno attualmente il tono, uno di essi, Crescio di Piacenza, ha inviato il suo nuovo foglio — L’Avvenire Sociale a Garibaldi, che questi signori considerano continuamente uno dei loro. Il foglio era pieno di grida indignate contro quello che essi chiamano «principio dell’autorità», il quale è, secondo loro, la radice di ogni male. Garibaldi così ha risposto:

Caro Crescio! Ringrazio cordialmente, ecc. Lei vuole nel suo foglio combattere la menzogna e la schiavitù; è un programma molto bello. Ma io credo che la lotta contro il principio dell’autorità sia uno di quegli errori dell’Internazionale che ostacolano i suoi progressi. La Comune di Parigi è caduta poiché a Parigi non esisteva alcuna autorità, ma solo l’anarchia.

Il vecchio combattente per la libertà, il quale nel solo anno 1860175 ha fatto più di quanto possano tentare di fare tutti gli anarchici nella loro vita, sa apprezzare la disciplina, tanto più che egli doveva costantemente disciplinare le proprie forze armate e lo faceva non come gli ambienti militari ufficiali mediante la disciplina militare, la minaccia costante della fucilazione, ma di fronte al nemico…...


Scritto il 19-20 giugno 1873.

Pubblicato sul Volhsstaat n. 53, 2, luglio 1878



F. Engels In Italia

Finalmente anche in Italia il movimento socialista è stato posto su un solido terreno e promette un rapido e vittorioso sviluppo. Ma perché il lettore possa comprendere in pieno la svolta avvenuta, dobbiamo rivolgerci alla storia del sorgere del socialismo italiano.

Il sorgere del movimento in Italia è legato agli influssi bakunisti. Mentre nelle masse operaie dominava l’odio di classe appassionato, ma al sommo grado indefinito, per i propri sfruttatori, in tutte le località dove si presentava l’elemento operaio rivoluzionario, si era impadronito della direzione un pugno di giovani avvocati, dottori, letterati, commessi, ecc. al comando personale di Bakunin. Essi tutti erano stati iniziati al mistero dai membri della segreta Alleanza bakunista, il cui scopo era di sottomettere alla propria direzione tutto il movimento operaio europeo e di conseguire così il dominio della setta bakunista nella rivoluzione sociale a venire. Dati più precisi in merito sono esposti particolareggiatamente nell’opuscolo: Un complotto contro l’internazionale (Brauncshweig, ediz. Bracke176.

Fino a quando il movimento fra gli operai era soltanto in germe, ciò riusciva nel miglior modo possibile. Le furiose frasi rivoluzionarie bakuniste suscitavano ovunque gli applausi voluti; persino quegli elementi che erano cresciuti dai precedenti movimenti politico- rivoluzionari, venivano travolti da questo torrente; oltre alla Spagna anche l’Italia era diventata, secondo un’espressione dello stesso Bakunin, «il paese più rivoluzionario d’Europa»177. Rivoluzionario nel senso che vi era molto fumo, ma poco arrosto. In contrappeso a quella lotta in sostanza politica, grazie alla quale è sorto e si è rafforzato il movimento operaio inglese, poi quello francese e, infine, quello tedesco, qui veniva condannata ogni attività politica, poiché essa implica il riconoscimento dello «Stato», ma lo
«Stato» è  l’incarnazione di  ogni male.  Quindi:  si proibisce  la creazione di un partito operaio; si proibisce la lotta per qualsiasi misura protettiva contro lo sfruttamento, ad esempio, per la normale giornata lavorativa, per la restrizione del lavoro femminile e infantile; e, cosa essenziale, si proibisce la partecipazione a tutte le elezioni. Al posto di ciò occorrono l’agitazione, l’organizzazione e la cospirazione ai fini della futura rivoluzione, la quale, non appena cadrà dal cielo, deve essere attuata senza qualsiasi governo provvisorio, sopprimendo completamente tutte le istituzioni statali o le istituzioni simili a quelle statali mediante la sola iniziativa (diretta in segreto dall’Alleanza) delle masse operaie…... «Ma non domandateci, come!»178

Fino a quando il movimento, come abbiamo detto, era ancora in fasce, tutto ciò riusciva bene. La stragrande maggioranza delle città italiane rimangono ancora in una certa misura tagliate fuori dai legami mondiali, ad esse noti solo nella forma di visite degli stranieri. Queste città riforniscono i contadini dei dintorni con articoli della produzione artigianale e fanno da intermediarie nella vendita dei prodotti agricoli su scala più vasta; inoltre, vi risiedono i nobili, proprietari terrieri, consumandovi la propria rendita; infine, una moltitudine di stranieri vi portano i propri soldi. In queste città gli elementi di opposizione sono poco numerosi, sono assai poco sviluppati e, per giunta, sono molto annacquati da gente senza occupazione sistematica o permanente, il che è favorito dai rapporti con gli stranieri e dal clima mite. Qui prima di tutto ha trovato un terreno propizio la frase ultrarivoluzionaria che parlava sommessamente del pugnale e del veleno. Ma in Italia vi sono anche città industriali, principalmente nel nord; e non appena il movimento ha messo radici fra le masse veramente proletarie di queste città, un tale cibo di qualità scadente non poteva più soddisfare, e questi operai non potevano più permettere che essi fossero tutelati anche per l’avvenir da quei giovani borghesi sfortunati che si sono lanciati verso il socialismo, poiché, secondo le parole di Bakunin, la loro «carriera era venuta a trovarsi in un vicolo cieco».

Ed è accaduto proprio così. Il malcontento degli operai dell’Alta Italia per la proibizione di ogni attività politica, cioè di ogni vera attività che esca dai limiti delle chiacchiere vuote e dell’attività cospiratrice, cresceva di giorno in giorno. Le vittorie elettorali dei tedeschi nel 1874 e il risultato da essi conseguito: l’unificazione dei socialisti della Germania179 erano noti anche in Italia. Gli elementi che provenivano dal vecchio movimento repubblicano e che si sottomettevano solo a malavoglia agli strilli «anarchici», si sono messi ad approfittare sempre più spesso dell’occasione per sottolineare la necessità della lotta politica e hanno avuto modo di esprimere l’opposizione che nasceva su La Plebe. Questo giornale settimanale, di tendenza repubblicana nei primi anni della sua esistenza, ha presto aderito al movimento socialista e si è tenuto nella misura del possibile lontano da ogni settarismo «anarchico». Quando, infine, nell’Alta Italia le masse operaie hanno sorpassato i loro dirigenti importuni e hanno dato vita ad un vero movimento al posto di quello fantastico, hanno trovato ne La Plebe un organo che pubblicava volentieri di tanto in tanto allusioni eretiche alla necessità della lotta politica.

Se fosse ancora in vita Bakunin, egli ingaggerebbe una lotta contro questa eresia, seguendo il suo metodo abituale. Egli attribuirebbe alla gente de La Plebe, l’«autoritarismo», la sete del potere, l’ambizione, ecc., muoverebbe contro di essa ogni sorta di piccole accuse personali e ripeterebbe ciò a più riprese, servendosi di tutti gli organi dell’Alleanza in Svizzera, in Italia, in Spagna. E solo poi egli rileverebbe che tutti questi peccati non sarebbero che una conseguenza inevitabile del peccato mortale originale, cioè del riconoscimento eretico dell’attività politica, poiché l’attività politica presuppone il  riconoscimento dello Stato, mentre lo Stato  è l’incarnazione dell’autoritarismo, del dominio e di conseguenza chiunque invochi l’attività politica della classe operaia, deve coerentemente invocare il potere politico per se stesso, quindi è un nemico della classe operaia e lapidatelo! Questo metodo preso in prestito da quella buona anima di Maximilien Robespierre, Bakunin lo possedeva alla perfezione, ma solo ne abusava troppo e se ne serviva in maniera troppo monotona. Ciò nondimeno era tuttavia l’unico metodo che promettesse un successo anche se di breve durata.

Ma Bakunin è morto e la direzione segreta del mondo è passata nelle mani del signor James Guillaume di Neuchâtel in Svizzera. Il posto di un uomo laico che ne aveva visto di tutti i colori, è stato occupato da un pedante senza cuore che ha apportato nella dottrina sull’anarchia il fanatismo di un calvinista svizzero. La vera fede doveva essere salvaguardata costi quel che costi e come papa di questa fede vera doveva essere riconosciuto a qualsiasi costo un maestro dalla gretta mentalità di Neuchâtel. Il Bollettino della Federazione del Giura, federazione che non contava, come è ben noto, neanche 200 soci contro i 5.000 dell’Alleanza operaia svizzera, è stato proclamato organo governativo della setta e si è messo a rampognare senza cerimonie i tentennanti. Ma gli operai lombardi organizzati nella Federazione dell’Alta Italia, non erano più inclini ad ascoltare queste rimostranze. E quando l’autunno scorso il Bollettino del Giura si è semplicemente permesso di ordinare a La Plebe di allontanare da Parigi il corrispondente non gradito al signor Guillaume, questa volta l’amicizia è finita. Il bollettino continuava ad accusare di eresia La Plebe e gli italiani del Nord. Ma quelli sapevano già di che cosa si trattava: sapevano che dietro la predica dell’anarchia e dell’autonomia si nascondeva la pretesa di alcuni intriganti a comandare dittatorialmente tutto il movimento operaio:

Quattro piccole righe innocenti in una postilla hanno irritato il Bolletino del Giura ed esso presenta le cose nel modo come se noi fossimo arrabbiati nei suoi riguardi, mentre esso ci divertiva soltanto.

Infatti, sarebbe una fanciullaggine abboccare all’amo degli uomini che picchiano con morbosa invidia a tutte le porte e, mettendo in giro calunnie, chiedono da mendicanti sia pure una goccia di odio contro di noi e i nostri amici. La mano che agisce da tempo seminando liti e discordie, è ben nota perché possano ancora ingannare i suoi intrighi gesuitici (loyolani) (La Plebe, 21 gennaio 1877 ).

E nel numero del 26 febbraio gli stessi uomini sono caratterizzati come «alcune grette teste anarchiche e — una contraddizione mostruosa! — al tempo stesso dittatoriali»; è la migliore prova del fatto che a Milano questi signori sono stati perfettamente capiti e che essi non potranno più farne laggiù delle belle.

Le elezioni tedesche del 10 gennaio e la svolta, ad esse legata, nel movimento belga — la rinuncia alla precedente politica di astensione e la sostituzione di essa con l’agitazione a favore del suffragio universale e della legislazione di fabbrica — hanno fatto il resto. Il17 e il 18 febbraio si è tenuto a Milano un congresso della Federazione dell’Alta Italia. Nelle sue risoluzioni il congresso si astiene da ogni ostilità superflua e inopportuna contro i gruppi bakunisti di membri italiani dell’Internazionale, In esse si esprime persino la disposizione a prender parte al congresso che viene convocato a Bruxelles, congresso che dovrà compiere un tentativo di unire le varie frazioni del movimento operaio europeo. Ma al tempo stesso essi avanzano con la massima precisione tre punti di importanza decisiva per il movimento italiano:

1) che per assicurare il successo del movimento devono essere impiegati tutti i mezzi possibili, quindi anche quelli politici;

2) che gli operai socialisti devono costituirsi in partito socialista, partito che non dipenda da qualsiasi altro partito politico o religioso, e

3) che la Federazione dell’Alta Italia, a condizione del la sua autonomia e sulla base degli Statuti iniziali dell’Internazionale, si considera membro di questa grande associazione, membro che non dipende da tutte le altre associazioni italiane, alle quali, però, essa continuerà a fornire anche per l’avvenire prove della sua solidarietà.

Quindi: lotta politica, organizzazione di un partito politico e rottura con gli anarchici. Con queste risoluzioni la Federazione dell’Alta Italia ha ripudiato definitivamente la setta bakunista e si è posta sul terreno comune del grande movimento operaio europeo. E dato che essa abbraccia la parte dell’Italia più sviluppata industrialmente — la Lombardia, il Piemonte, il Veneto — i suoi successi non si lasceranno attendere molto. Di fronte all’impiego degli stessi ragionevoli mezzi di agitazione, corroborati dall’esperienza di tutti gli altri paesi, il vaniloquio dei ciarlatani bakunisti rivelerà molto presto la sua impotenza e il proletariato italiano anche nel sud del paese, si libererà presto del giogo degli uomini che fanno derivare la loro missione di guidare il movimento operaio dalla propria condizione dei borghesi rovinati.

Note

175 Si tratta della lotta rivoluzionaria nel Mezzogiorno guidata da Garibaldi.

176 Si allude all’edizione tedesca dell’opera di Marx e di Engels L’Alleanza internazionale della democrazia socialista e l’Associazione internazionale degli operai.

177 Qui e più oltre Engels cita la lettera di Bakunin al socialista spagnolo Mora del 5 aprile 1872, che insieme agli altri documenti dell’Alliance fu pubblicata nella IX sezione dell’opera citata sopra (vedi nota 176).

178 Citazione da H. Heine. Il ciclo poetico Tormenti della prima gioventù, sezione Canzoni, poesia VIII.

179 Si tratta dell’unificazione dei due partiti operai tedeschi: di quello socialdemocratico (di Eisenach) e dei lassalliani.

Scritto fra il 6 e il 14 marzo 1877.

Pubblicato sul giornale Vorwärts. n. 32, 16 marzo 1877



F. Engels

Da: Gli operai europei nel 1877

Gli operai d’Italia pure sono molto impediti nella loro attività dalla legislazione borghese. Una serie di eggi speciali promulgate con il pretesto di sopprimere il banditismo e le segrete organizzazioni banditesche largamente diffuse, leggi che concedono al governo poteri immensi, illimitati, sono applicate senza scrupoli alle associazioni operaie, i loro membri eminenti sono soggetti alla pari dei banditi a sorveglianza poliziesca e possono essere confinati senza processo e istruttoria. Ciò nondimeno, il movimento va avanti e il migliore indice della sua vitalità è il fatto che il suo centro di gravità si sposta dalle città rispettabili ma semimorte della Romagna nelle dinamiche città industriali del Nord; questa svolta ha fatto si che gli elementi veramente operai hanno preso il sopravvento sui pochi
«anarchici» intrufolatisi nel movimento provenendo dalla borghesia, nel le cui mani era stata in precedenza la direzione. I club operai e i sindacati, continuamente chiusi e sciolti dal governo, sorgono di nuovo sotto nuove denominazioni. La stampa proletaria, nonostante che molti suoi organi a causa delle persecuzioni, delle multe e delle condanne detentive contro i loro editori siano di breve durata, risorge e, nonostante tutti gli ostacoli, conta alcuni giornali con un’esistenza relativamente lunga. Alcuni di questi organi, per la maggior parte edizioni di breve durata, professano ancora le dottrine «anarchiche», ma questa frazione ha rinunciato ad ogni pretesa alla direzione del movimento e si spegne gradualmente insieme al partito borghese-repubblicano di Mazzini. E ogni palmo d terreno che perdono queste due cricche, è il palmo conquistato dal vero e cosciente movimento della classe operaia.


Scritto tra la metà di febbraio e la metà di marzo del 1878.

Pubblicato sul Labour Standard (New York) il 3, 10, 17, 24 e 31 marzo 1878



F. Engels

Da: La funzione della violenza nella storia

…….. La cosa ebbe inizio in Italia [Annotazione in margine a matita di Engels: «Orsini»].. Qui daI 1849 dominava incontrastata l’Austria, e l’Austria in quell’epoca era il capro espiatorio per tutta l’Europa. Gli squallidi risultati della guerra di Crimea venivano attribuiti non all’irresolutezza delle potenze occidentali, che volevano solo una guerra dimostrativa, ma alla posizione oscillante dell’Austria, posizione di cui però nessuno era più colpevole delle stesse potenze occidentali. La Russia dal canto suo era talmente offesa per l’avanzamento degli austriaci verso il Prut — la gratitudine per l’aiuto russo all’Ungheria nel 1849180 (anche se proprio questo avanzamento la salvò) — da rallegrarsi di ogni attacco all’Austria. Della Prussia non se ne teneva pii conto e già al Congresso della pace di Parigi essa fu bistrattata en canaille. Quindi, la guerra per la liberazione dell’Italia fino all’Adriatico, promossa con il concorso della Russia, fu iniziata nella primavera del 1859 e conclusa già nell’estate sul Mincio. L’Austria non fu buttata fuori dal l’Italia, l’Italia non divenne libera fino all’Adriatico e non fu unificata. La Sardegna estese, è vero, il suo territorio, ma la Francia ebbe la Savoia e Nizza e raggiunse così i suoi confini con l’Italia del 1801.

Ma ciò non accontentò gli Italiani. Nell’Italia di allora dominava la produzione puramente manifatturiera, la grande industria era in fasce. La classe operaia era lungi dall’essere espropriata e proletarizzata completamente; nelle città essa possedeva ancora i propri strumenti di produzione, nelle campagne il lavoro industriale era un’attività collaterale dei piccoli contadini o degli affittuari. Perciò l’energia della borghesia non era ancora minata dall’esistenza dell’antagonismo fra di essa e il proletariato moderno, conscio dei propri interessi di classe. E poiché lo spezzettamento dell’Italia perdurava solo a causa della dominazione straniera austriaca, sotto la cui protezione gli abusi dei governi monarchici arrivarono all’estremo, sia i nobili, grandi proprietari terrieri, che le masse popolari delle città erano dalla parte della borghesia come combattente d’avanguardia per l’indipendenza nazionale. Ma il dominio straniero nel 1859 fu rovesciato ovunque, ad eccezione di Venezia; all’ulteriore ingerenza dell’Austria negli affari italiani fu posto fine dalla Francia e dalla Russia, nessuno temeva più ciò. E nella persona di Garibaldi l’Italia aveva un eroe di stampo antico, che era capace di fare e che faceva davvero dei miracoli. Con mille volontari egli mise sottosopra tutto il regno di Napoli, unificò di fatto l’Italia, spezzò l’abile rete della politica bonapartista. L’Italia era libera e in sostanza unificata, ma non per gli intrighi di Luigi Napoleone, bensì grazie alla rivoluzione.

Note

180 Si tratta dell’aiuto prestato dalle truppe russe alla monarchia austriaca per soffocare la rivoluzione degli anni 1848-1849.

Scritto nel periodo tra dicembre 1887 e marzo 1888.

Pubblicato per la prima volta sulla Neue Zeit, Bd. 1, nn. 22-26, 1895-1896



F. Engels

Risposta all’onorevole Giovanni Bovio181

In un articolo della Tribuna del 2 corr. febbraio, l’illustre Giovanni Bovio rimprovera ai deputati repubblicani italiani, passati in questi ultimi tempi al campo monarchico, di trattare con disdegno soverchio la questione della forma di governo. Questo, invero, non mi tocca gran fatto: quel che mi tocca è ch’egli si occupa del mio articolo sul socialismo tedesco (Critica sociale, 16 gennaio 1892)182 per dirigere lo stesso rimbrotto ai socialisti tedeschi in generale ed a me in particolare.


Ecco le sue stesse parole:

Quindi, ancora, si vede come e perché diano in fallo que’ socialisti che con Federico Engels parlano dell’imminente avvenimento del socialismo al potere e non determinano quale. Engels arriva a fissare con ragioni aritmetiche (e non da oggi a me il numero nella storia pare buona ragione) l’anno non lontano in cui il partito socialista diverrà maggioranza nel parlamento germanico. Bene arrivato: e poi?

Prenderà il potere.

Meglio: ma quale? sarà regio, repubblicano, o tornerà all’utopia di Weitling, superata dal Manifesto comunista del gennaio 1848?

A noi le forme sono indifferenti.

Davvero?... E non potete parlar di potere che dove si concreta è forma. Potete dire che la nuova sostanza, la nuova idea si creerà da se stessa la forma, e la produrrà dal proprio fondo, ma non potete, non dovete prescinderne.

A ciò rispondo che non accetto in nessun modo l’interpretazione dell’on. Bovio.

Anzitutto io non dissi che «il partito socialista diverrà maggioranza, e poi prenderà il potere»

Dissi espressamente, al contrario, che v’è il dieci contro uno di probabilità che i nostri dirigenti, assai prima di cotesto termine, impiegheranno contro noi la violenza; il che ci trasferirebbe, dal terreno delle maggioranze, al terreno rivoluzionario. Ma passiamo.

Prenderà il potere — ma quale? Sarà regio, repubblicano, o tornerà all’utopia di Weitling, superata dal Manifesto comunista del gennaio 1848?

Qui debbo permettermi di far uso di una espressione dello stesso on. Bovio. Convien essere davvero «uomo di chiostro» per nutrire il menomo dubbio sulla natura di cotesto potere.

Tutta la Germania, governativa, aristocratica e borghese, rimprovera agli amici nostri del Reichstag di essere repubblicani e rivoluzionari.

Marx ed io, da quarant’anni, ripetemmo a sazietà che, per noi, la repubblica democratica è la sola forma politica in cui la lotta fra la classe operaia e la classe capitalista possa dapprima universalizzarsi, indi toccare la sua mèta colla vittoria decisiva del proletariato.

Certo l’on. Bovio non è così ingenuo da supporre che un qualsivoglia imperatore di Germania piglierebbe i suoi ministri nel partito socialista e che — quando pur volesse farlo
— accetterebbe le condizioni, implicanti la sua propria abdicazione, senza le quali quei ministri non potrebbero contare sull’appoggio del loro partito. Sebbene, a dir vero, il timore di vederci «tornare all’utopia di Weitling» mi dia un’idea piuttosto elevata dell’ingenuità del mio interlocutore.

Oppure l’on. Bovio, parlando di Weitling, vuole egli forse lasciare intendere che i socialisti tedeschi non fanno maggior caso della forma sociale, di quel che fanno, a suo avviso, della forma politica? In questo caso il suo inganno non sarebbe minore. Egli dovrebbe avere del socialismo tedesco conoscenza bastevole per non ignorare che esso domanda la socializzazione di tutti i mezzi della produzione. In qual modo si compirà questa rivoluzione economica? Ciò dipenderà dalle circostanze nelle quali il nostro partito prenderà il potere, dal momento e dal modo in cui ciò avverrà. Come scrive lo stesso

Bovio, «la nuova sostanza, la nuova idea si creerà da se stessa la forma, e la produrrà dal proprio fondo». Infrattanto, se domani un accidente qualsiasi chiamasse il nostro partito al potere, io so perfettamente quel che proporrei come programma d’azione.

A noi «le forme sono indifferenti»?

Tengo a constatare che non io né alcun altro socialista tedesco ha mai detto ciò, o cosa che vi somigli; ma soltanto l’on. Bovio. E amerei sapere con qual diritto egli ci attribuisce una «sciocchezza compagna.

Del resto, se l’on Bovio avesse attesa e letta la seconda prefazione all’edizione italiana metà del mio articolo (Critica sociale, 10 febbraio), forse non si sarebbe data la pena di confondere i socialisti rivoluzionari tedeschi con dei repubblicani monarchici italiani.

Note

181 È la risposta alla critica di G. Bovio, filosofo borghese e uomo politico italiano, nei confronti della prima parte dell’articolo di Engels Il socialismo in Germania pubblicato su Critica Sociale (n. 2 del 16 gennaio 1892) e tradotto in italiano dal testo dell’Almanach de la Parti Ouvrier pour 1892. Il 2 gennaio 1892, F. Turati, direttore di Critica Sociale, spedì a Engels l’articolo di Bovio pubblicato sulla Tribuna con la preghiera di rispondergli. Engels scrisse la risposta in francese e il 6 febbraio 1892 la spedì allegandola alla lettera a Turati. La traduzione italiana dell’articolo fatta da Turati fu approvata dall’autore e pubblicata nel n. 4 di Critica Sociale del 16 febbraio 1892 sotto titolo Federico Engels a Giovanni Bovio. Ne apparve la ristampa in molti giornali italiani.

182 Si tratta dell’opera di Engels Il socialismo in Germania.

Scritto il 6 febbraio 1892. Pubblicato su Critica sociale. n. 4, 16 febbraio 1892



F. Engels

Al lettore italiano

Prefazione dell’edizione italiana del «Manifesto del Partito comunista del 1893183

La pubblicazione del Manifesto del Partito comunista coincidette, quasi giorno per giorno, con le rivoluzioni di Milano e di Berlino del 18 marzo 1848, che furono la levata di scudi delle due nazioni situate nel centro l’una del Continente, l’altra del Mediterraneo; due nazioni fino allora indebolite dalla divisione e dalla discordia all’interno e passate, per conseguenza, sotto il dominio straniero. Se l’Italia ha era soggetta all’imperatore d’Austria, la Germania subiva il giogo non meno effettivo, benché indiretto, dello zar di tutte le Russie. Le conseguenze del 18 marzo 1848 liberarono l’Italia e la Germania da codesta vergogna. Se dal 1848 al 1871 queste due grandi nazioni sono state ricostituite, e, in qualche modo, rese a se stesse, ciò avvenne, come diceva Karl Marx, perché gli uomini che avevano abbattuto la rivoluzione del 1848 ne divennero tuttavia, loro malgrado, gli esecutori testamentari184.

Dappertutto, quella rivoluzione fu l’opera della classe operaia; fu questa  che fece  le barricate e pagò di persona. Solo gli operai di Parigi, rovesciando il governo, avevano l’intenzione ben determinata di rovesciare il regime della borghesia. Ma, per quanto essi avessero coscienza dell’antagonismo fatale che esisteva fra la loro propria classe e la borghesia, né il progresso economico del paese, né lo sviluppo intellettuale delle masse operaie francesi erano giunti al grado che avrebbe reso possibile una ricostruzione sociale. I frutti della rivoluzione furono dunque raccolti, in ultima analisi, dalla classe capitalista. Negli altri paesi, in Italia, in Germania, in Austria, in Ungheria, gli operai non fecero, dapprincipio, che portare al potere la borghesia. Ma in nessun paese il regno della borghesia è possibile senza l’indipendenza nazionale. La rivoluzione del 1848 doveva dunque trarsi dietro l’unità e l’autonomia delle nazioni che fino allora ne erano state prive: l’Italia, l’Ungheria, la Germania. La Polonia seguirà a sua volta.

Se, dunque, la rivoluzione del 1848 non fu una rivoluzione socialista, essa spianò la via, preparò il terreno a quest’ultima. Collo slancio dato, in ogni paese, alla grande industria, il regime borghese degli ultimi quarantacinque anni ha creato dappertutto un proletariato numeroso, concentrato e forte; ha allevato dunque, per usare l’espressione del Manifesto, i suoi propri seppellitori. Senza l’autonomia e l’unità restituite a ciascuna nazione europea, né l’unione internazionale del proletariato, né la tranquilla e intelligente cooperazione di queste nazioni verso fini comuni potrebbero compiersi. Immaginate, se vi riesce, un’azione internazionale e comune degli operai italiani, ungheresi, tedeschi, polacchi, russi, nelle condizioni politiche precedenti il 1848!

Così le battaglie del 1848 non furono date invano; i quarantacinque anni che ci separano da quella tappa rivoluzionaria del pari non sono passati invano. I frutti vengono a maturazione, e tutto ciò che io desidero è che la pubblicazione di questa traduzione italiana del Manifesto sia di altrettanto buon augurio per la vittoria del proletariato italiano, quanto la pubblicazione dell’originale lo fu per la rivoluzione internazionale.

Il Manifesto del Partito comunista rende piena giustizia all’azione rivoluzionaria del capitalismo nel passato. La prima nazione capitalista fu l’Italia. Il chiudersi del Medioevo feudale, l’aprirsi dell’era capitalista moderna sono contrassegnati da una  figura gigantesca: quella di un italiano, Dante, al tempo stesso l’ultimo poeta del Medioevo e il primo poeta moderno. Oggi, come nel 1300, una nuova era storica si affaccia.

L’Italia ci darà essa il nuovo Dante, che segni l’ora della nascita di questa era proletaria?

Note

183 La prefazione, a richiesta di Turati, fu scritta da Engels in francese (la traduzione italiana di Turati) per l’edizione italiana del Manifesto del Partito comunista (tradotto da P. Bettini) pubblicato a Milano nel 1893 nelle edizioni della rivista Critica Sociale.
Vi fu inclusa anche la prefazione di Engels alla IV edizione tedesca del 1890 del Manifesto (autorizzata, spedita a Turati dietro sua richiesta nel gennaio 1893).

184 L’idea che dopo il 1848 la reazione divenisse una specie di esecutrice testamentaria della rivoluzione esaudendo le sue rivendicazioni, trova espressione in tutta una serie di lavori di Marx e, in particolare, nell’articolo L’erfurtovismo nel 1859.

Scritto il 1 febbraio 1893.

Pubblicato in « Carlo Marx e Federico Engels Il Manifesto del Partito comunista», Milano, 1893



F. Engels

La futura rivoluzione italiana e il partito socialista185

La situazione in Italia, a mio parere, è questa.

La borghesia, giunta al potere durante e dopo l’emancipazione nazionale, non seppe né volle completare la sua vittoria. Non ha distrutti i residui della feudalità né ha riorganizzato la produzione nazionale sul modello borghese moderno. Incapace di far partecipare il paese ai relativi e temporanei vantaggi del regime capitalista, essa gliene impose tutti i carichi, tutti gli inconvenienti. Non contenta di ciò, perdette per sempre, in ignobili bindolerie bancarie, quel che le restava di rispettabilità e di credito.

Il popolo lavoratore — contadini, artigiani, operai agricoli e industriali — si trova dunque schiacciato, da una parte da antichi abusi, retaggio non solo dei tempi feudali, ma benanche dell’antichità (mezzadria, latifondi del mezzo di, ove il bestiame surroga l’uomo); dall’altra parte, dalla più vorace fiscalità che mai sistema borghese abbia inventato. E ben il caso di dire con Marx che «noi siamo afflitti, come tutto l’occidente continentale europeo, e dallo sviluppo della produzione capitalista, e ancora dalla mancanza di questo sviluppo. Oltre i mali dell’epoca presente abbiamo a sopportare una lunga serie di mali ereditari, derivanti dalla vegetazione continua dei modi  di produzione che hanno vissuto, colla conseguenza dei rapporti politici e sociali anacronistici che essi producono. Abbiamo a soffrire non solo dai vivi, ma anche dai morti. Le mort saisit le vif »186.

Questa situazione spinge a una crisi. Dappertutto la massa produttrice è in fermento: qua e là si solleva. Dove ci condurrà questa crisi?

Evidentemente il partito socialista è troppo giovane e, per effetto della situazione economica, troppo debole per sperare una vittoria immediata del socialismo. Nel paese la popolazione agricola prevale, e di gran lunga, sulla urbana; poche, nelle città, le industrie sviluppate, scarso quindi il proletariato tipico; la maggioranza è composta di artigiani, di piccoli bottegai, di spostati, massa fluttuante fra la piccola borghesia e il proletariato. È la piccola e media borghesia del medio evo in decadenza e disintegrazione, la più parte proletari futuri, non ancora proletari dell’oggi. E questa classe, sempre faccia a faccia colla rovina economica ed ora spinta alla disperazione, che sola potrà fornire e la massa dei combattenti e i capi di un movimento rivoluzionario. Su questa via la seconderanno i contadini, ai quali il loro stesso sparpagliamento sul territorio e il  loro  analfabetismo vietano ogni iniziativa efficace, ma che saranno ad ogni modo ausiliari potenti e indispensabili.

In caso di un successo più o meno pacifico, si avrà un cangiamento di Ministero, coll’avvenimento al potere dei repubblicani «convertiti»187, Cavallotti e compagnia; in caso di rivoluzione, si avrà la repubblica borghese.

Di fronte a queste eventualità, quale sarà l’ufficio del partito socialista?

Dal 1848 in poi, la tattica che ha portato i maggiori successi ai socialisti fu quella del Manifesto comunista:

«I socialisti [nella citazione Engels sostituì «comunisti» con «socialisti»], nei vari stadi attraversati dalla lotta fra proletariato e borghesia, difendono sempre l’interesse del movimento generale…… Lottano bensì per raggiungere scopi immediati nell’interesse delle classi lavoratrici, ma nel moto presente rappresentano eziandio l’avvenire del movimento»188.

Essi pigliano dunque parte attiva in ciascuna delle fasi evolutive della lotta delle due classi, senza mai perder di vista che queste fasi non sono che altrettante tappe conducenti alla prima grande meta: la conquista del potere politico da parte del proletariato, come mezzo di riorganizzazione sociale. Il loro posto è fra i combattenti per ogni vantaggio immediato da ottenere nell’interesse della classe operaia; tutti questi vantaggi politici o sociali essi li accettano, ma solo come acconti. Perciò essi considerano ogni movimento rivoluzionario o progressivo come un passo nella direzione del loro proprio cammino; è loro missione speciale di spingere avanti gli altri partiti rivoluzionari, e, quando uno di questi trionfasse, di salvaguardare gli interessi del proletariato. Questa tattica, che mai non perde di vista il gran fine, risparmia ai socialisti le disillusioni cui vanno soggetti infallibilmente gli altri partiti meno chiaroveggenti, sia repubblicani, sia socialisti sentimentali, che scambiano ciò che è una semplice tappa per il termine finale della marcia in avanti.

Applichiamo tutto questo all’Italia.

La vittoria della piccola borghesia in disintegrazione e dei contadini porterà dunque forse un Ministero di repubblicani «convertiti». Ciò ci procurerà il suffragio universale e una libertà di movimento (stampa, riunione, associazione, abolizione dell’ammonizione, ecc.) assai più considerevole: nuove armi che non sono da disdegnare.

Oppure ci porterà la repubblica borghese, cogli stessi nomini e qualche mazziniano con essi. Ciò allargherebbe ancora e di assai la nostra libertà e il nostro campo di azione, almeno pel momento. E la repubblica borghese, ha detto Marx, è la sola forma politica nella quale la lotta fra proletariato e borghesia può avere soluzione189. Senza dire del contraccolpo che ne risentirebbe l’Europa.

La vittoria del movimento rivoluzionario che si prepara non potrà dunque che renderci più forti e collocarci in un ambiente più favorevole. Commetteremmo il più grande degli errori se, di fronte ad esso, vorremo astenerci, se nel nostro contegno rispetto ai partiti «affini» vorremo limitarci a una critica puramente negativa. Potrà arrivare il momento nel quale fosse dover nostro di cooperare con essi in modo positivo. Quale sarà questo momento?

Evidentemente non è a noi che spetta di preparare direttamente un movimento che non è quello precisamente della classe che noi rappresentiamo. Se i repubblicani e i radicali credono scoccata l’ora di muoversi, diano essi libero sfogo alla loro impetuosità. Quanto a noi, fummo troppo spesso ingannati dalle grandi promesse di questi signori, per lasciarvicisi prendere un’altra volta. Né le loro proclamazioni né le loro cospirazioni dovranno menomamente toccarci. Se noi siamo tenuti a sostenere ogni movimento realmente popolare, siamo tenuti ugualmente a non sacrificare indarno il nucleo appena formato del nostro partito proletario, e a non lasciar decimare il proletariato in sterili sommosse locali.

Se al contrario il movimento è davvero nazionale, i nostri uomini non staranno nascosti, non vi sarà neppure bisogno di lanciar loro una parola d’ordine. Ma allora dovrà ben essere inteso, e noi dovremmo proclamarlo altamente, che noi partecipiamo come partito indipendente, alleato pel momento ai radicali e repubblicani, ma interamente distinto da essi; che non ci facciamo alcuna illusione sul risultato della lotta in caso di vittoria; che questo risultato, lungi dal renderci soddisfatti, non sarà per noi che una tappa guadagnata, nuova base d’operazione per conquiste ulteriori; che il dì stesso della vittoria le nostre strade si divideranno; che da quel giorno, di fronte al nuovo governo, noi formeremo la nuova opposizione, opposizione non già reazionaria, ma progressista, opposizione d’estrema sinistra che spingerà a nuove conquiste al di là dei terreni guadagnati.

Dopo la vittoria comune, potrebbe esserci offerto qualche seggio nel nuovo governo, ma sempre nella minoranza. Questo è il pericolo più grande.

Dopo febbraio 1848 i democratici socialisti francesi (della Reforme, Ledru-Rollin, Louis Blanc, Flocon, ecc.) commisero l’errore di accettare cosiffatte cariche190.

Minoranza nel governo, essi condivisero volontariamente la responsabilità di tutte le infamie e i tradimenti di fronte alla classe operaia, commessi dalla maggioranza di repubblicani puri; mentre la presenza loro nel governo paralizzava completamente l’azione rivoluzionaria della classe lavoratrice ch’essi pretendevano rappresentare.

In tutto questo, io non do che la mia opinione personale, poiché me l’avete domandata, e ancora con la maggior diffidenza. Quanto alla tattica generale, ne ho sperimentato l’efficacia durante tutta la mia vita; non una volta essa mi ha fallito. Ma quanto alla sua applicazione alle condizioni attuali in Italia, è altra cosa; ciò deve decidersi sul posto e da coloro che si trovano in mezzo agli avvenimenti.

Note

185 L’articolo fu scritto da Engels in risposta all’invito, rivolto da Anna Kuliscioff e Filippo Turati nella lettera del 19 gennaio 1894, a pronunciarsi sulla tattica del partito in relazione alla crisi rivoluzionaria che allora stava maturando nel paese. L’articolo fu tradotto da Turati e pubblicato su Critica Sociale (10 febbraio 1894,
n. 3) quale lettera di Engels a Turati sotto il titolo redazionale La futura rivoluzione italiana e il partito socialista. Nel tradurre l’articolo Turati si allontanò in alcuni punti dall’originale.
L’articolo fu pure stampato sul tedesco Sozialdemokrat (n. 24, 12 luglio 1894) sotto il titolo Friedrich Engels sulla situazione in Italia.
La lettera si attiene al manoscritto francese riprodotto nel 1958 a Milano negli Annali Feltrinelli.

186 Citazione dalla Prefazione di Marx alla prima edizione del 1° volume del Capitale

187 Repubblicani «convertiti» venivano chiamati i radicali italiani di F. Cavallotti. Esprimendo gli interessi della piccola e media borghesia, i radicali si attenevano a posizioni democratiche, venendo, talvolta, ai compromessi coi socialisti.

188 Engels cita i capitoli II e IV del Manifesto del Partito comunista.

189 L’autore cita il primo capitolo de il 18 brumaio di Luigi Bonaparte di Marx.
190 Si tratta del governo provvisorio della Repubblica francese istituito il 24 febbraio 1848, in cui la maggior parte delle cariche fu in mano dei repubblicani borghesi moderati. Della compagine governativa facevano parte tre rappresentanti del partito sorto intorno al giornale Reforme (democratici piccolo-borghesi: Le dru- Rollin e Flocon; socialista piccolo-borghese Louis Blanc) nonché Albert, meccanico, membro di società rivoluzionarie clandestine. I «ministri-socialisti», senza parlare poi dei «ministri— democratici», come si seppe ben presto, altro non furono che una misera appendice del governo borghese.


Scritto il 26 gennaio 1894.

Pubblicato su Critica Sociale n. 3 , 1° febbraio 1894



F. Engels

Al III Congresso del Partito socialista dei lavoratori italiani (lettera a Della Valle)191

Eastbourne, 6 settembre

Caro cittadino,

…….. Se non posso assistere in persona al vostro Congresso, vi invio ad ogni modo i miei migliori auguri per il successo dei vostri lavori nell’interesse del socialismo internazionale.

Sui socialisti italiani è piombata una inaudita legge eccezionale192 che costerà loro senza dubbio vari anni di sofferenze severe. Ebbene! Altri dovettero passare per simili prove.

Caduta la  Comune  di  Parigi, la reazione borghese in Francia si ubriacò nel sangue proletario; il risultato lo ave te sotto gli occhi: la Camera francese ha 50 deputati socialisti.

In Germania Bismarck mise i socialisti fuori della legge per 12 lunghi anni; essi finirono col calpestare la legge eccezionale, per scacciare Bismarck dal potere; ed eccoli divenuti il più forte dei partiti dell’Impero.

Ciò che gli operai francesi e tedeschi hanno fatto, faranno del pari gli operai italiani. Un Crispi non riuscirà certo dove non riuscirono il Thiers, il Mac-Mahon, il Bismarck. La vittoria è vostra.

Viva il socialismo rivoluzionario internazionale! Fraterni saluti

Friedrich Engels

Note

191 Questo messaggio di saluto fu la risposta di Engels all’invito (speditogli da Carlo Della Valle, con la lettera del 30 agosto 1894) di partecipare al lI Congresso del Partito socialista dei lavoratori italiani. Il congresso, che avrebbe dovuto tenersi il 7-9 settembre 1894 a Imola, non ebbe luogo in quanto vietato dalla polizia.
Al messaggio di Engels, cosi come ai messaggi pervenuti all’in dirizzo del congresso dagli altri esponenti del movimento socialista (P. Lafargue, P. Inglesias, ecc.) fu data lettura alla seduta del CC del partito il 10 settembre 1894. Il messaggio di Engels fu poi pubblicato sul n. 38 della Lotta di classe del 22-23 settembre 1894.
Il Partito socialista dei lavoratori italiani (la denominazione risale al 1893) fu fondato nel 1892 al congresso di Genova. Dal 1895 si chiamò Partito socialista italiano. Separatosi recisamente dagli anarchici, il partito, nonostante alcuni errori di carattere riformista, negli anni ‘90 si fece guida attiva del movimento di massa della classe operaia.

192 Engels allude alla legge sulle misure d’urgenza per la sicurezza sociale, approvata il 14 luglio 1894 dal parlamento italiano. La legge, emanata quale pseudomisura esclusiva contro gli anarchici, in verità fu sfruttata dal governo reazionario Crispi per soffocare il movimento operaio e la crescente influenza dei socialisti nella vita sociale del paese. In base ad essa fu messo fuori legge il Partito socialista dei lavoratori italiani, furono chiuse organizzazioni operaie, redazioni di giornali e riviste; un carattere di massa assunsero gli arresti, le perquisizioni e i procedimenti giudiziari. Però, nonostante le repressioni, i socialisti italiani non cessarono la lotta e nel gennaio 1895 convocarono a Parma il loro I Congresso.

Pubblicato sulla Lotta di classe n. 38, 22-23 settembre 1894



F. Engels

Saluto ai socialisti siciliani193

Salute e lunga vita al vostro giornale, organo dei lavoratori siciliani, salute al vostro partito che si riorganizza!

La natura ha fatto della Sicilia un paradiso terrestre; ragione sufficiente questa perché la società umana, divisa in classi opposte, ne facesse un inferno.

L’antichità greco-romana ha dotato la Sicilia della schiavitù per far produrre le grandi proprietà e le miniere.

Il medioevo alla schiavitù ha sostituito il servaggio e la feudalità.

L’epoca moderna, benché pretendesse di aver spezzate queste catene, non ha fatto che cambiarne la forma. Non soltanto essa ha conservato in realtà queste antiche servitù, ma vi ha aggiunta una nuova forma di sfruttamento e la più crudele, la più spietata di tutte: lo sfruttamento capitalista.

Gli antichi poeti della Sicilia, Teocrito e Mosco, hanno cantata la vita idillica degli schiavi- pastori loro contemporanei. Erano, senza dubbio, sogni poetici. Ma vi è un poeta moderno così audace da cantare la vita idillica dei «liberi» lavoratori della Sicilia d’oggi? I contadini di quest’isola non sarebbero felici se potessero lavorare i loro campi financo con le dure condizioni della mezzadria romana? Ecco sin dove ci ha condotti il sistema capitalista: gli uomini liberi rimpiangono la schiavitù del passato!

Ma ch’essi si rassicurino. L’aurora d’una nuova e migliore società sorge luminosa per le classi oppresse di tutti i paesi. E dappertutto gli oppressi serrano le file; dappertutto essi s’intendono a traverso le frontiere, a traverso le diverse lingue; l’esercito deI proletariato internazionale si forma, e il nuovo secolo, che sta per cominciare, lo guiderà alla vittoria!

Note

193 Il messaggio fu scritto da Engels in risposta alla richiesta rivoltagli nella lettera del 18 settembre 1894 da
F. Colnago uno degli esponenti del Partito socialista siciliano.
Il messaggio fu pubblicato solo il 30 giugno 1895, causa, forse, la censura, nel settimanale Riscossa, supplemento di Giustizia Sociale.
Dopo la sua morte, la lettera di Engels fu ristampata da Critica Sociale (n. 16, 16 agosto 1895) col titolo redazionale Parola d’addio all’Italia, nonché dal tedesco Sächsisches Volksblatt (Giornale popolare sassone,
n. 95, 13 agosto 1895) sotto il titolo L’ultimo messaggio di Engels agli operai.

Scritto il 26 settembre 1894.

Pubblicato su La Riscossa del 20 giugno 1895 e su Critica Sociale n. 16, 16 agosto 1895



F. Engels

Il socialismo internazionale e il socialismo italiano

(lettera alla redazione di «Critica sociale»)194

Nel momento in cui il giovane partito socialista italiano subisce i colpi della reazione governativa la più. violenta, è dovere di noi, socialisti d’oltr’alpe, procurare di venirgli in aiuto. Contro gli scioglimenti di sezioni e di società noi nulla possiamo. Ma forse la nostra testimonianza non sarà inutile del tutto, di fronte alle calunnie odiose e sfacciate d’una stampa ufficiosa o corrotta.

Questa stampa rimprovera ai socialisti italiani di avere, a disegno, simulato una propaganda marxista [Nel manoscritto qui segue: a imitazione dei socialisti tedeschi], per celare sotto questa maschera una politica affatto diversa, una politica che proclama la «lotta di classe» (cosa che «ci ricondurrebbe al medio evo») e che ha per iscopo la formazione d’un partito politico aspirante alla «conquista del potere dello Stato»; laddove i partiti socialisti degli altri paesi, e i tedeschi in particolare, «non si occupano di politica, non attaccano la forma di governo in vigore», non sono infine che innocui buoni diavoli, dei quali è lecito farsi beffe!

Se con ciò ci si fa beffe di qualche cosa, è del pubblico italiano. Non si oserebbe sballargli simili asinerie se non si supponesse in esso una ignoranza completa di ciò che avviene al di fuori. Se i socialisti italiani proclamano la «lotta delle classi» come il fatto dominante della società nella quale viviamo, se essi si costituiscono in «partito politico aspirante alla conquista dei pubblici poteri e alla direzione degli affari nazionali», essi fanno della propaganda marxista nel senso letterale della parola, essi seguono esattamente la linea indicata nel Manifesto del Partito comunista pubblicato da Marx e da me nel 1848; essi fanno precisamente quel che fanno i partiti socialisti di Francia, del Belgio, della Svizzera [Nel manoscritto la Svizzera non si menziona], di Spagna e soprattutto di Germania. Non c’è uno solo, fra tutti questi partiti, che non aspiri alla conquista dei poteri pubblici, così come gli altri partiti conservatori, liberali, repubblicani, ecc. ecc.

Quanto alla «lotta delle classi», essa ci riconduce non solo al «medio evo», ma benanco ai conflitti intestini delle repubbliche dell’antichità: di Atene, di Sparta, di Roma. Tutti quei conflitti erano lotte di classe. Dalla dissoluzione delle comunità primitive in poi, la lotta fra le diverse classi, onde si compose ogni società, fu sempre la gran forza motrice del progresso storico. Questa lotta non sparirà se non con queste classi medesime, cioè a dire dopo la vittoria del socialismo. Fino a quel giorno, le classi opposte, il proletariato, la borghesia, la nobiltà terriera [Nel manoscritto mancano le parole «il proletariato, la borghesia, la nobiltà terriera], continueranno a combattersi fra loro, checché ne dica la stampa ufficiosa italiana.

Del resto, l’Italia traversa in questo momento la medesima prova che traversò la Germania [Nel manoscritto sta: «la Germania socialista»] durante i dodici anni della legislazione eccezionale. La Germania ha vinto Bismarck; l’Italia socialista avrà ragione di Crispi [Nel manoscritto invece sta scritto: «I tedeschi hanno vinto Bismarck, gl’italiani avranno ragione di Crispi»].

Note

194 La lettera fu scritta da Engels in relazione alla richiesta della direzione del Partito socialista dei lavoratori italiani (esposta nella lettera di Turati del 24 ottobre 1894) di intervenire su Critica Sociale allo scopo di smantellare le calunnie antisocialiste della stampa borghese a giustificazione delle repressioni del governo. La lettera fu pubblicata su Critica Sociale (n. 21, 10 novembre 1894) sotto il titolo redazionale Socialismo internazionale e quello italiano, poi ristampata in tedesco sull’Arbeiter Zeitung (n. 89, 6 novembre 1894) intitolata Espedienti da poco e calunnia, e sul Vorwärts (n. 263, 10 novembre 1894) nell’articolo Italia.

Scritto 27 ottobre 1894.

Pubblicato su Critica Sociale n. 21, 1 novembre 1894


DALL’EPISTOLARIO


Engels a Marx

9 maggio 1851

…… Ieri sono stati qui due commercianti di Lecco, uno dei quali è un vecchio conoscente del 1841. Gli austriaci conciano proprio bene la Lombardia. Dopo tutte le contribuzioni, i ripetuti prestiti forzosi, le tasse riscosse sempre tre volte di seguito all’anno, si ristabilisce finalmente una certa regolarità. I medi commercianti di Lecco devono pagare annualmente dalle 10.000 alle 24.000 svanziche (350-750 sterline) di imposte dirette regolari, tutto hard cash [in contanti] Poiché con l’anno prossimo dovranno essere introdotte anche là le banconote austriache, il governo vuole trarne fuori in precedenza ogni moneta metallica. In ciò l’alta nobiltà, i gran ricchi e i contadini vengono relativamente risparmiati parecchio, il medio ceto liberale delle città deve pagare tutto. Vedi la politica di questi messeri. Si comprende che con questa pressione — a Lecco hanno firmato e hanno mandato al governo una dichiarazione che non pagheranno più, che per conto loro si può anche procedere ai sequestri, ma loro, se non cessasse questo sistema, emigrerebbero tutti, e parecchi hanno già subito sequestri, — aspettino Mazzini e dichiarino che deve scoppiar qualcosa perché non ce la fanno più, perchè rovinati siamo e rovinati saremo in ogni caso. Questo spiega un po’ della smania che hanno gli italiani di scatenarsi. Questi tipi qui sono tutti repubblicani, e a dire il vero tutti rispettabili borghesi; uno è il primo commerciante di Lecco e paga 2.000 svanziche al mese di tasse. Voleva sapere senz’altro quando scoppierà la rivoluzione; a Lecco — l’unico posto dove io sono popolare — avevano deciso tra di loro che io dovessi saper tutto a puntino...



Marx a Joseph Weydemeyer

11 settembre 1851

…. .Anche il signor Mazzini ha dovuto sperimentare come questo sia il tempo dello scioglimento dei governi provvisori «democratici». La minoranza è uscita dal Comitato italiano195 dopo lotte accanite. Questi sarebbero i più progrediti.

Ritengo che la politica di Mazzini sia fondamentalmente sbagliata. Col suo insistere affinché l’Italia si metta ora in movimento, egli fa il giuoco dell’Austria. D’altra  parte trascura di rivolgersi a quella parte dell’Italia che è oppressa da secoli, ai contadini, e in tal modo prepara nuove riserve alla controrivoluzione. Il signor Mazzini conosce soltanto le città con la loro nobiltà liberale e il loro citoyens éclaires [cittadini illuminati] Naturalmente i bisogni materiali delle popolazioni agricole italiane — dissanguate e sistematicamente snervate e incretinite come quelle irlandesi — sono troppo al di sotto del firmamento retorico dei suoi manifesti cosmopolitico-neocattolico-idelogici. Certo ci vorrebbe del coraggio per dichiarare ai borghesi e alla nobiltà che il primo passo, per fare l’indipendenza d’Italia, è la completa emancipazione dei contadini e la trasformazione del loro sistema di mezzadria in libera proprietà borghese. A quanto pare per Mazzini un prestito di 10 milioni di franchi è più rivoluzionario che conquistare 10 milioni di uomini. Io temo che il governo austriaco, in caso di estrema necessità, cambierà esso stesso i rapporti di proprietà in Italia e farà riforme di tipo «galiziano»196…….

Note

195 Si veda la nota 36.



Marx a Engels

13 settembre 1851

…… Anche il Comitato italiano si è scisso. Una notevole minoranza è uscita. Mazzini racconta con dolore questo avvenimento nella Voix du Peuple [Marx intende dire probabilmente Voix du Proscrit]. I motivi principali dovrebbero essere: d’abord Dio. Ils ne veulent pas de Dieu. Ensuite, et c’est plus grave, ils reprochent à Maître Mazzini de travailler dans l’intérêt autrichien en prêchant l’insurrection, cioè en la précipitant. Enfin: ils insistent sur un appel direct aux intérêts materiels des paysans italiens, ce qui ne peut se faire sans attaquer de l’autre côte’ les intérêts matériels des bourgeois et de la noblesse libérale, qui forme la grande phalange mazzinienne [Prima di tutto Dio. Essi non vogliono Dio. Inoltre, ed è ‘a cosa più grave, rimproverano al maestro Mazzini di lavorare nell’interesse degli austriaci predicando l’insurrezione, cioè facendola precipitare. Infine: essi insistono su di un appello diretto agli interessi materiali dei contadini italiani, ciò che non può avvenire senza, d’altro canto, intaccare gli interessi materiali dei borghesi e della nobiltà liberale, che formano la grande falange mazziniana.]. Quest’ultima cosa è di enorme importanza. Se Mazzini, o chiunque si metta alla testa dell’agitazione italiana, non trasforma questa volta franchement e immediatement i contadini da métaires in liberi proprietari — la situazione dei contadini italiani è spaventosa, ora ho sgobbato a fondo su questa merda — allora il governo austriaco in caso di rivoluzione farà ricorso a mezzi galiziani. Ha già minacciato nel Lloyd una «completa trasformazione della proprietà» e «l’annientamento della irrequieta nobiltà». Se a Mazzini non si aprono ancora gli occhi, è un bestione. Senza dubbio c’entrano gli interessi dell’agitazione. Da dove prendere i 10 milioni di franchi, se egli si mette contro i borghesi? Come conservare la nobiltà ai suoi servizi, se le deve annunziare che si tratta anzitutto della sua espropriazione? Queste sono difficoltà per siffatti demagoghi della vecchia scuola.



Engels a Marx

23 settembre 1851

…. .La scissione tra gli italiani è stupenda. È una cosa eccellente che a quello scaltrito fanatico di Mazzini finalmente gli interessi materiali si mettano un buona volta di traverso e proprio nel suo stesso paese. La rivoluzione italiana è stata un bene per il fatto che ha trascinato anche là nel movimento le classi più tagliate fuori e che ora, di fronte alla vecchia emigrazione mazziniana, si forma un nuovo partito più radicale che soppianta a poco a poco il signor Mazzini. Anche dalle notizie dei giornali sembra che il mazzinismo cada in discredito perfino presso gente che non è né costituzionale né reazionaria, e che i resti della libertà di stampa piemontese vengano usati da questa per attacchi contro Mazzini, la cui porte [portata] il governo non comprende. Per il rimanente la rivoluzione italiana supera di gran lunga quella tedesca per la povertà delle idee e l’abbondanza delle parole. È una fortuna che il paese dove invece di proletari ci sono quasi soltanto lazzaroni, abbia almeno dei métayers. Anche gli altri motivi dei dissidenti italiani sono spassosi, e in fin dei conti è molto bello che anche l’unica emigrazione finora almeno ufficialmente non scissa, ora si accapigli ……

Note

196 Marx allude alla politica del governo austriaco volta ad approfittare delle contraddizioni di classe e nazionali tra i contadini della Galizia e la nobiltà polacca per reprimere il movimento di liberazione della Polonia. Nell’inverno 1846, quando si fece un tentativo d’insurrezione per la liberazione della Polonia, scoppiò contemporaneamente l’insurrezione in Galizia. Allora il governo austriaco riuscì a indirizzare, in parte, la rivolta dei contadini galiziani contro i rivoltosi polacchi. Repressa la rivolta di Cracovia, anche quella galiziana fu crudelmente schiacciata. Cercando di assicurarsi l’appoggio dei contadini nella lotta contro il movimento di liberazione nazionale polacco pure per il periodo del 1848, il governo austriaco dichiarò nell’estate dello stesso anno l’abolizione in Galizia dei servigi obbligatori gratuiti e di alcuni altri obblighi dei contadini. Però questa fu una mezza misura che lasciò intatta la proprietà fondiaria e scaricò sulle spalle dei contadini un enorme riscatto che si protrasse per decine d’anni.



Engels a Marx

Caro Marx,

11 febbraio 1853

ecco dunque che abbiamo la grande affaire dei signori Kossuth e Mazzini197. Le notizie che abbiamo qui sono molto incomplete, ma, secondo la mia opinione, domani o lunedì sapremo che tutto è finito. Milano è un bellissimo terreno per le lotte di strada: poche vie dritte, e senza collegamento tra loro, quasi dappertutto vicoli stretti e in curva con alte e massicce case di pietra, ognuna delle quali è una fortezza a sé sovente coi muri spessi da tre a cinque piedi e più; a prenderle d’assalto non c’è da pensare, le finestre del rez de_chaussée [pian terreno] sono (quasi sempre) fornite d’inferriate, come qua e là a Colonia. Ma a che serve tutto ciò, non hanno nessuna probabilità di riuscita. Dopo il 1849 Radetzky ha fatto risistemare tutte le fortificazioni della vecchia cittadella, e se i lavori sono finiti, e per questo c’è stato tempo a sufficienza, Milano appartiene agli austriaci finché questi possiedono la cittadella, imprendibile per gli insorti senza una rivolta militare. Il fatto che non ci siano più notizie da Bellinzona, da dove i ticinesi hanno sempre mandato per il mondo una massa di bugie a favore di ogni movimento italiano198 è molto esplicito contro il diffondersi dell’insurrezione nei dintorni.

Io ritengo che tutta questa storia sia molto mal à propos, perché il suo unico punto d’appoggio, oltre la tirannia degli austriaci in general, è in fondo soltanto quella merda del Montenegro199 dove après tout, anche l’«ordine» turco dovrà vincere sull’omerica barbarie cernogorica. Sicché questi grandi dittatori si lasciano trascinare proprio alla Seiler da volgari messinscene diplomatiche, e giurano sull’importanza storica della «questione orientale». È chiaro che in questa faccenda contano su un qualche windfall [aiuto inaspettato] da parte di Luigi Napoleone, ma costui, a meno che tutto non riesca contro l’aspettativa, li lascerà bellamente nei pasticci e li tratterà da anarchici. Inoltre è presumibile che, come in
tutte le insurrezioni preorganizzate, il momento dello scoppio sia stato stabilito in base ai più insignificanti incidenti locali piuttosto che in base ad avvenimenti decisivi.

Pare almeno che Mazzini sia sul posto; non era neanche possibile altrimenti. Per quanto stupido sia il suo ampolloso proclama, tuttavia può aver qualche effetto tra gli ampollosi italiani. Guarda invece Kossuth, l’uomo dall’illimitata attività! Celui là est absolument mort, après cela [dopo di ciò sarà uomo morto] Non si sbandierano impunemente simili ridicole pretese nell’anno di grazia 1853. Per quanto assurda sembri qui l’astratta furia insurrezionale di Mazzini, però fa ancora una brillante figura al confronto del bravo Kossuth, che riprende la sua parte di Vidin200 e decreta da un sicuro rifugio la liberazione della patria dal niente, senza niente per niente. Questo tipo è veramente un lâche e un misérable.

Ora staremo a vedere che fanno i contadini italiani: anche in caso di incredibili e inauditi colpi di fortuna, il padre Mazzini, i suoi borghesi e i suoi nobili potrebbero trovarsi in una situazione molto spiacevole; e se gli austriaci trovano l’occasione per scatenare questi contadini contro la nobiltà, lo fanno di certo.

Gli austriaci devono avere ancora 120.000 uomini in Italia; non vedo come si possa insorgere contro questa forza senza una sollevazione tra le truppe stesse. E a una sollevazione degli honved201 in Italia, anche su comando di Kossuth, non ci credo; per questo ci vogliono davvero avvenimenti maggiori, e, con l’aiuto dei tre anni di disciplina e di calma, gli austriaci hanno ammorbidito a forza di bastonate anche qualche duro sedere di honved.

Tutta questa storia mi sembra importante solo come sintomo; comincia la reazione contro lo stato d’oppressione che risale al 1849, e naturalmente nella parte più vulnerabile. Qui la cosa fa molto effetto, e i filistei cominciano ad esser d’accordo sul fatto che quest’anno non passerà tranquillo. Ora un cattivo raccolto di cereali e cotone, scarsità di denaro con gli annessi e connessi, e nous verrons ! [vedremo!] ….

Note

197 Si veda la nota 38.

198 Il cantone svizzero del Ticino nel XIX sec, fu uno dei centri dell’emigrazione italiana. Nei capoluoghi del cantone c’erano delle tipografie nelle quali i partigiani della liberazione nazionale dell’Italia stampavano il loro materiale propagandistico.

199 Si tratta del conflitto tra la Turchia e il Montenegro (ex paese vassallo), che cercava di ottenere l’autonomia completa. All’inizio del 1853 l’esercito turco irruppe nel paese, ma la posizione della Russia e le pressioni da parte dell’Austria costrinsero il sultano alla ritirata.



Marx a Engels

23 febbraio 1853

….. .Per quanto questa storia di Milano sia miserevole come conclusione dell’eterno cospirare di Mazzini, e per quanto io creda che lui personalmente ne subisca un danno, tuttavia mi sembra sicuro che nell’insieme l’avvenimento sia favorevole al movimento rivoluzionario. Soprattutto per la maniera brutale con cui gli austriaci sfruttano [? in questo punto la carta è danneggiata.]. Se Radetzky avesse imitato il modo di procedere di Strassoldo, avrebbe lodato la cittadinanza di Milano per il suo «comportamento esemplare», stigmatizzato tutta la faccenda come il miserevole colpo di mano di alcuni miscreants [mascalzoni]e allentano in apparenza le briglie come segno della sua fiducia; e così il partito rivoluzionario era squalificato davanti a cani e porci. Ma così, introducendo un perfetto sistema di saccheggio, fa dell’Italia quel «cratere rivoluzionario» che Mazzini non è riuscito a evocare con le sue declamazioni…..

Note

200 Dopo la sconfitta dell’esercito nazionale ungherese, Kossuth passò nel territorio dipendente dalla Turchia e fu internato nella fortezza di Vidin (Bulgaria). Egli rivolse agli insorti riparatisi tra le mura della fortezza Koma-rom l’appello a continuare la lotta di liberazione promettendo loro il più presto possibile l’appoggio dell’Inghilterra. Però, data l’inutilità di una ulteriore resistenza, gli insorti accettarono le condizioni austriache di capitolazione.

201 Honved (in ungherese: «difensore della patria»), così durante la rivoluzione borghese e la lotta di liberazione nazionale degli anni 1848-1849 si chiamavano i soldati dell’esercito ungherese, costituito dal governo nell’estate del 1848. Qui si tratta dei soldati ungheresi nelle file dell’esercito austriaco.



Marx a Engels

8 ottobre 1858 [Nel manoscritto la data è stata apposta da Engels]

3) Il nuovo manifesto del signor Mazzini202 Sempre il vecchio somaro. Soltanto ora si degna di non considerare più il sistema del salario come la forma ultima ed assoluta. Non vi è cosa più ridicola della contraddizione esistente nel fatto che lui da una parte dice che in Italia il partito rivoluzionario è organizzato secondo le sue vedute, e dall’altra dimostra a modo «suo» che non solo la nazione lo segue compatta, ma anche che esistono tutte le premesse materiali del successo, e finalmente non spiega perché l’Italia, nonostante «Dio e Popolo» e Mazzini into the bargain [per soprammercato ] se ne resti tranquilla.

Note

202 Marx spedì a Engels una copia del Pensiero ed Azione italiano, edito a Londra, del 14 settembre 1858 con il testo stampato del Manifesto di Mazzini. Le osservazioni critiche riguardanti il Manifesto, furono da Marx espresse nell’articolo Il nuovo manifesto di Mazzini.



Marx a Ferdiand Lassalle

4 febbraio 1859

…..Ad vocem bellum [riguardo alla guerra] qui è opinione generale che la guerra in Italia sia inevitabile. Tanto è certo: il signor Emanuele fa sul serio, e il signor Bonaparte faceva sul serio. Ciò che condiziona quest’ultimo è 1. la paura dei pugnali italiani. Dalla morte di Orsini egli ha continuato a truffare segretamente i carbonari203   e Plon-Plon, il marito di
«Clotilde», faceva la parte del mediatore. 2. Una crisi finanziaria estremamente paurosa: in realtà è impossibile nutrire più a lungo l’esercito francese «in tempi di pace» ; la Lombardia è opulenta. Inoltre la guerra permetterebbe di nuovo anche «prestiti di guerra». Qualsiasi prestito di altro genere è «impossibile». 3. Negli ultimi due anni Bonaparte ha quotidianamente perduto prestigio presso tutti i partiti in Francia, e le sue transactions [trattative] diplomatiche sono egualmente state una serie di failures [insuccessi] Dunque bisogna che accada qualcosa per ristabilire il prestigio. Persino nelle campagne il malcontento è grande a causa dei prezzi rovinosamente bassi dei cereali, e il signor Bonaparte ha tentato inutilmente di alzare artificiosamente il prezzo del grano con i suoi decreti sui magazzini di cereali204. 4. La Russia incalza il parvenu delle Tuileries. Col movimento panslavista in Boemia, Moravia, Galizia, Ungheria meridionale, settentrionale e orientale, Illiria, ecc. e con una guerra in Italia, la Russia sarebbe praticamente certa di rompere la resistenza che l’Austria continua ad opporle. (La Russia vede con spavento l’approssimarsi di una rivoluzione agraria all’interno, e una guerra esterna sarebbe forse benvenuta per il governo come diversivo, a parte ogni altro scopo diplomatico.) 5. lI signor Plon-Plon, figlio dell’ex re di Vestfalia [Girolamo Bonaparte] e la sua cricca (una ciurmaglia di pseudo rivoluzionari ungheresi, polacchi, italiani con alla testa Girardin) fanno di tutto per provocare la decisione in questa faccenda. 6. La guerra in Italia con l’Austria sarebbe l’unica guerra nella quale l’Inghilterra, che non può impegnarsi direttamente a favore del papa, ecc. e contro la cosiddetta libertà, rimarrebbe neutrale, almeno agli inizi. La Russia a sua volta terrebbe la Prussia in scacco nel caso in cui quest’ultima — ciò che io non credo — avesse voglia di immischiarsi fin dagli inizi della lotta.

D’altra parte è assolutamente certo che il signor Luigi Bonaparte ha una paura del diavolo di una guerra sul serio.

Quell’uomo è sempre pieno di dubbi e, come tutti i giocatori, nient’affatto risoluto. Egli si è sempre strascicato fino al Rubicone, ma la gente che gli stava dietro ha sempre dovuto gettarcelo dentro. A Boulogne, Strasburgo, nel dicembre 1851205 egli fu sempre costretto ad attuare finalmente davvero i propri piani.

La straordinaria freddezza con cui il suo progetto è stato accolto in Francia, non è naturalmente incoraggiante. Le masse si mostrano indifferenti. Al contrario hanno protestato direttamente ed energicamente: l’alta finanza, industria e commercio; il partito clericale; infine l’alta generalità (Pélissier e Canrobert per es.). In effetti le prospettive militari non sono brillanti. Accettiamo pure le fanfaronate del Constitutionnel come moneta sonante. Se la Francia riesce a mettere insieme, tutto sommato, 700.000 uomini, di essi sono tutt’al più efficienti 580.000. Se ne devono togliere 50.000 per Algeri; 49.000 per la gendarmeria, ecc.; 100.000 (minimo) per la sorveglianza delle città (Parigi, ecc.) e delle fortificazioni in Francia; 181.000 almeno per l’esercito di ricognizione al confine svizzero, tedesco, belga. Ne rimangono 200.000 e questa non è davvero an averwhelming force [una potenza travolgente] anche se ci aggiungi quel poco di esercito piemontese, contro gli austriaci nelle loro solide posizioni sul Mincio e sull’Adige.

Comunque sia, se il signor Bonaparte si tira indietro in questo momento, è rovinato davanti alla massa dell’esercito francese; e questo potrebbe indurlo a risolversi ad andare avanti...

Note

203 Si allude al timore di Luigi Napoleone per una possibile vendetta carbonara per la condanna a morte inflitta all’attentatore Orsini.

204 Si tratta dei decreti di Luigi Napoleone sul regolamento dei prezzi del grano e sull’istituzione dei magazzini sociali.

205 Si tratta dei tentativi di Napoleone III di organizzare un colpo di Stato a Strasburgo (30 ottobre 1836) e a Boulogne (6 agosto 1840), nonché del colpo di Stato di Parigi (2 dicembre 1851) che portò alla dittatura bonapartista in Francia.



Engels a Marx

4 novembre 1859

.Pare che Garibaldi .sostenga una parte alquanto ambigua. Un generale di questa specie ci si trova male. E stato costretto a cedere al diavolo il mignolo, ed ecco che questo pare si sia preso tutta la mano. Per Vittorio Emanuele naturalmente andrebbe benissimo sfruttare prima Garibaldi e comprometterlo poi. Altro esempio del punto a cui può condurre nelle rivoluzioni un «atteggiamento pratico». Del resto è un peccato per il nostro. D’altra parte è una cosa eccellente che il Piemonte perda il carattere a torto attribuitogli di campione dell’unità italiana ….. 206

Note

206 Nell’autunno 1859 a Parma, Modena, Toscana e Romagna si sollevò una nuova ondata del movimento di unificazione. I governi provvisori, costituitisi in questi Stati nel corso della guerra di Francia e Piemonte contro l’Austria, disponevano di un discreto esercito che volevano affidare a Garibaldi. Ma in seguito alle trame di Cavour, timoroso dell’espansione del movimento rivoluzionario, sotto il comando di Garibaldi fu posta una sola divisione.



Engels a Ludwig Kugelmann

8 e 20 novembre 1867

…... La storia romana207 ci ha reso di nuovo un grande servigio. Mi sembra che il nobile Bonaparte sia già al suo ultimo respiro, e quando questo episodio in Francia si concluderà, allora, in quanto la situazione in Inghilterra di giorno in giorno diventa sempre più rivoluzionaria, e l’Italia sta di fronte alla necessità di una rivoluzione, allora, certo, anche in Germania finirà il regno degli «europei» …. 208

Note

207 Dopo che nel 1866 Venezia entrò a far parte del Regno d’Italia, per ultimare l’unificazione del paese rimaneva solo lo Stato della Chiesa. I circoli dirigenti non osavano fare questo passo per paura di conflitti con la Francia napoleonica, protettrice del papa. Garibaldi si fece promotore del movimento per la conquista di Roma. Egli iniziò i preparativi di una operazione militare, ma il governo, che dapprima aveva chiuso un occhio, alla fine arrestò Garibaldi. Però i suoi volontari entrarono nello Stato della Chiesa. A Roma i patrioti cominciarono a preparare l’insurrezione con il motto dell’unificazione di tutta l’Italia. Il 17 ottobre 1867 il papa Pio IX rivolse ai vescovi un messaggio sulla minaccia che correva il pontefice. Il governo di Napoleone I già il 18 ottobre promise l’aiuto al papa e incominciò a preparare allo scopo un corpo di spedizione. Quando i volontari guidati da Garibaldi (che il 14 ottobre riuscì a fuggire) arrivarono sotto le mura di Roma, il corpo di spedizione francese parti per l’Italia e il 30 ottobre 1867 entrò nella città. Solo grazie all’aiuto francese le truppe pontificie sbaragliarono i garibaldini a Mentana il 3 novembre 1867. La questione romana fu risolta soltanto nel 1870.

208 Così si chiamavano quei membri della Unione nazionale borghese- liberale tedesca che erano contrari alla unificazione della Germania con a capo la Prussia.




Engels a Marx

28 agosto 1868

….. Dupont ha ricevuto il mandato da Napoli di rappresentare quella branche. Dopo la faccenda di Mentana209 là è subentrata, come vediamo dalle notizie italiane, una reazione generale e specialmente il diritto di riunione e di associazione degli operai è quasi annullato …...

Note

209 Su Mentana si veda la nota 207




Engels a Carlo Cafiero

1 luglio 1871

….. .Mazzini nel 1864 tentò mutare la nostra associazione ad utile proprio, ma andò fallito. Il suo strumento capo era un garibaldino, maggiore Wolff (suo vero nome Principe Thurn und Taxis) il quale ora è stato scovato per una spia della polizia francese da Tibaldi210 Quando Mazzini vide che l’int. non poteva servirgli come mezzo, egli l’attaccò con molta violenza ed ha tratto partito d’ogni occasione per oltraggiarla, ma come voi dite il tempo è presto andato e «Dio e popolo» non è più il motto d’ordine della classe lavoratrice italiana.

Noi ci siamo bene avveduti che il sistema dei fittavoli o métayers è stato dai Romani fino noi la base della produzione agricola in Italia. Questo sistema senza dubbio dà generalmente ai fittavoli un’indipendenza politica più ampia rispetto al proletario di quella ch’è permessa qui ai fittavoli. Ma se noi vogliamo credere al Sismondi ed ai recenti scrittori su questo soggetto, lo sfruttamento dei fittavoli da parte dei proprietari è tanto grande in Italia come dappertutto, ed i pesi che gravano sul più basso ceto dei contadini sono particolarmente onerosi. In Lombardia, dove i poderi sono estesi, i fittavoli, quando io ero colà211 erano discretamente comodi, ma esisteva ancora una certa classe di proletari rurali adoperati dai fittavoli, i quali non facevano che il lavoro reale e che non traevano nessun beneficio da questo sistema. Nelle altre parti d’Italia dove vi sono meno fittavoli il sistema métayers, per quanto posso conoscere da lontano, non li protegge dalla stessa miseria, ignoranza e degradazione che è la sorte dei piccoli fittavoli in Francia, Germania, Belgio ed Irlanda. La nostra politica rispetto alle popolazioni agricole è stata generalmente e naturalmente così: dove vi sono estesi fondi, lì il fittavolo è capitalista rispetto ai lavoratori, e lì dobbiamo spingere pel lavoratore; dove poi vi sono piccoli poderi il fittavolo, sebbene nominalmente sia un piccolo capitalista oppure proprietario (come in Francia e parte della Germania), pure in realtà è generalmente ridotto alla stessa miseria del proletario, e noi dobbiamo allora lavorare per lui. Senza dubbio dev’essere lo stesso in Italia. Ma il Consiglio vi sarà molto obbligato se voi ci date delle informazioni in proposito ed anche sulla recente legislazione in Italia in quanto alle proprietà rurali ed altre questioni sociali.

Note

210 Alla seduta del Consiglio Generale del 4 luglio 1871, Paolo Tibaldi, comunardo parigino, smascherò Wolff quale agente della polizia francese, dichiarando di aver visto sul libro dei fondi segreti del ministro delle finanze le note attestanti il versamento mensile a Wolff di 1.000 franchi.



Engels a Carlo Cafiero

16 luglio 1871

…….Siamo contenti di sentire che voi ed altri amici non temete le persecuzioni, ma al contrario le salutate come il miglior mezzo di propaganda. Questa è la mia opinione e sembra siamo destinati ad aver in abbondanza di tali persecuzioni. In Ispagna molti sono stati imprigionati ed altri si vanno nascondendo. Nel Belgio vi è tutto il desiderio da parte del Governo di dare pieno corso alla legge ed anche di più contro di noi. In Germania i partigiani di Bismarck stanno anch’essi cominciando questo giuoco se non che essi qui più che in Ispagna sono attraversati dalla energica resistenza dei nostri uomini che sono stati assai più felici. Senza dubbio avrete ancora la vostra parte in Italia ma siamo soddisfatti che queste persecuzioni s’incontreranno in uno spirito diverso da quello di Caporusso e dei suoi amici212. È veramente meraviglioso che questi partigiani di Bakunin mostrerebbero tale codardia tosto che vi sarebbe il minimo pericolo. I bakunisti spagnuoli, i quali poco tempo fa ci scrissero che la loro condotta di astensione dalle cose politiche aveva avuto immenso successo, e tanto che i socialisti non erano più temuti, ma considerati come popolo affatto innocente(!!), non si sono poi per nulla comportati bene di fronte alle recenti persecuzioni, e non siamo capaci di trovarne un solo tra essi, di qualunque nazione, il quale abbia quando che sia esposto se stesso di sua propria volontà in un pericolo sia su di una barricata od in altro luogo. Sarà buona fortuna disfarsi di loro intieramente e, se potete trovare elementi in Napoli, o in altre città i quali non hanno niente a che fare con questa corrente ginevrina, sarà molto meglio.
Qualunque cosa possiamo fare e qualunque congresso prescriveremo, questi uomini formeranno sempre in realtà, se non in nome, una setta interna nella nostra società, e gli uomini di Napoli, Spagna, ecc. porranno maggior peso sulle comunicazioni che ricevono dai loro propri capi quartieri, piuttosto che su di ogni altra cosa possa fare l’Associazione. Così se essi rientrano nella  nostra Associazione, ci sembra che sia per un breve tempo solamente e le questioni si eleveranno di nuovo che meneranno alla loro esclusione. Noi abbiamo avuto delle prove che ci mostrano essere essi ancora intenzionati di formare un’Internazionale loro accanto alla nostra Grande Internazionale, e possono essere sicuri che né il Consiglio Generale né il Congresso permetteranno alcuna violazione al nostro Statuto.

Ciò che dite intorno allo stato delle popolazioni nel mezzogiorno d’Italia non ci sorprende. Pure qui in Inghilterra, dove il movimento delle classi operaie è quasi cosi vecchio che il secolo, s’incontra l’apatia e l’ignoranza in abbondanza. Il movimento dell’unione commerciale [cioè il movimento delle trade-unions] è, fra tutte le grandi potenti e ricche unioni commerciali, divenuto più un ostacolo al movimento generale, che uno strumento del suo progresso, e al di fuori della unione commerciale esiste qui un’immensa massa di operai di Londra che da parecchi anni si tengono affatto lontani dal movimento politico, e in conseguenza sono molto ignoranti. Ma d’altra parte essi sono anche esenti da molti pregiudizi tradizionali degli unionisti commerciali ed altre antiche sette, e perciò formano un eccellente materiale sul quale si può lavorare. Essi stanno per essere posti in moto dalla nostra Associazione, e li abbiamo riconosciuti intelligenti.

La vostra posizione in Napoli ho potuto perfettamente comprendere, essa è la stessa di quella nella quale alcuni di noi ci trovammo in Germania 25 anni fa, quando da principio fondammo il movimento sociale. Allora avevamo tra i proletari i soli pochi uomini che in Svizzera, Francia ed Inghilterra si erano imbevuti d’idee socialiste e comuniste, noi avevamo pochissimi mezzi per operare sulle masse e come voi, dovevamo trovare aderenti tra i maestri di scuola, giornalisti e studenti. Fortunatamente in questo periodo del movimento di uomini, non appartenenti esattamente alla classe operaia, se ne trovavano, facilmente; più tardi quando la gente lavoriera padroneggia il movimento come una massa, divengono certamente rari.

Con la libertà assicurata dal 1848, con la stampa, col registro dei meeting e delle associazioni questa prima parte di movimento è stata naturalmente abbreviata di molto, e senza dubbio in un anno o due potrete farci un differente rapporto sullo stato delle cose in Napoli.

Vi ringraziamo anche per la vostra risoluzione ad esporci i fatti come realmente sono. La nostra Associazione è forte abbastanza a mostrare di conoscere la reale verità, anche quando sembra sfavorevole, e niente potrebbe indebolirla se non rapporti esagerati i quali non avrebbero nessuna realtà. Agite così e non riceverete giammai da me alcun ragguaglio che potrebbe menomamente farvi vedere le cose diversamente da quel che sono.

Accludo il rapporto della riunione del Consiglio del 3 luglio con tutti i fatti riguardanti il maggiore Wolff. Siccome è l’uomo ben conosciuto in Italia sarà bene pubblicarli costì.

Posso aggiungere che abbiamo una regola per tutti i giornali periodici pubblicati dalla nostra organizzazione: due copie debbono essere mandate regolarmente al Consiglio qui, una per l’archivio dove sono tenute tutte, ed una per la segreteria del paese nel quale si pubblicano. Vorreste darvi la pena di far adempiere a ciò subito che vi sia un organo italiano dell’Associazione? Anche delle traduzioni italiane alquante copie dovrebbero essere mandate qui. Abbiamo ora sei italiani qui rifugiati i quali combatterono a Parigi per la Comune e si soccorrono con i nostri fondi per i rifugiati.
Salute e fraternità.

Note

211 Engels fu in Lombardia tra gli ultimi del 1841 e i primi del 1842

212 Secondo quanto dice Cafiero, S. Caporusso dopo una breve permanenza in carcere per lo sciopero organizzato all’inizio del 1870 da parte della sezione napoletana, ripudiò le sue convinzioni socialiste e repubblicane.



Engels a Carlo Cafiero

28 luglio 1871 Caro Cafiero,
ho ricevuto la vs. lettera del 12, e spero abbiate ricevuto la mia diretta a Napoli alquanti giorni prima213 contenente le norme dell’Associazione, le deliberazioni dei Congressi di Ginevra e Bruxelles, la 3” edizione del discorso sulla guerra civile in Francia, quelle sulla guerra franco-germanica, l’altro inaugurale dell’Associazione 1864, ecc. Siffatti documenti basteranno di certo a spiegarvi quali fossero le regole ed i principi della ns. società ed i mezzi di cui dispone il Cons. Gen.le per agire in nome ed in pro della società istessa. Ancora ho ricevuto La Plebe di Lodi, il bollettino su Caporusso ed il n. de La Roma del Popolo che contiene l’attacco di Mazzini contro noi214.

Quanto ai fatti  che si riferiscono  a Caporusso pubblicati  e poi  citati nella vs.  lettera sarebbero bastevoli a dichiararlo incapace di farci male alcuno in avvenire.  Qualora osasse ripresentarsi al pubblico quale rappresentante le classi operaie, si renderebbe pubblico il fatto delle L. 300215 e ciò annullerebbe le ultime vestigia della sua influenza. Siamo lieti di sapere come costi nulla esista della setta dei bakunisti. Ci si era fatto ritenere il contrario poiché i bakunisti svizzeri clic sempre tosi fosse affermarono. Costantemente lo ripetevano e, siccome non ricevevamo alcuna risposta alle ns. lettere da Napoli, vi credemmo. Non avemmo indirizzo a Napoli oltre quello di Caporusso cui furono scritte almeno 3 lettere dal ns. segretario francese E. Dupont presente Marx, ma il Caporusso ha dovuto soffocarle. Se credete ne valga la pena, interrogate il Caporusso intorno a tali lettere. D’altronde mai si ricevettero in risposta lettere da Napoli e, se quelle che furono spedite fossero state dirette, come affermate, direttamente al Consiglio, l’è troppo chiaro che tra la polizia italiana, francese ed inglese non ce ne sarebbe per venuta nessuna…..

Note

213 Si veda la lettera precedente

214 Si tratta dell’articolo di Mazzini su La Roma del Popolo (n. 20 del 13 luglio 1874) intitolato Agli operai italiani che Cafiero spedì a Engels. Engels respinse queste insinuazioni nell’articolo Sulla partecipazione di Mazzini alla fondazione dell’internazionale

215 Caporusso si appropriò di 300 lire raccolte dai membri della sezione napoletana per aiutare i compagni arrestati (Caporusso ivi compreso). A Caporusso in persona spettava solo un quarto del la somma raccolta.



Engels a Wilhelm Liebknecht

4 novembre 1871

…… Del resto, le cose vanno molto bene, abbiamo ora in Italia una massa di organi, ti accludo un elenco per la pubblicazione, e la corrispondenza è così intensa da costringermi ad un enorme lavoro...



Engels a Theodor Cuno216

13 novembre 1871 Egregio Amico,
sono spiacente di dovervi dire, in risposta alla vostra pregiata lettera del 1° corrente, che non abbiamo in questo momento nessun collegamento con Milano, salvo il Gazzettino Rosa, al quale spediamo dei documenti per la pubblicazione217 ma che non ci ha mai fatto proposte per la fondazione di sezioni, ecc. Il movimento ispirato all’Internazionale è scoppiato in Italia in modo così brusco ed inaspettato, che tutto è ancora molto disorganizzato; e i mardochei [agenti di polizia], come sapete, fanno di tutto per far saltare l’organizzazione. Che a Milano ci debbano essere elementi idonei lo prova il fatto che il Gazzettino Rosa vi trova dei lettori; la sola cosa da fare, nell’attesa, è che voi vi mettiate alla ricerca di tali lettori, ed io vi prometto di mandarvi l’indirizzo del primo che si rivolgerà a me di costì. Ciò accadrà indubbiamente presto, perché attraverso le numerose e imminenti pubblicazioni del Consiglio Generale, il mio nome, come segretario per l’Italia, sarà presto conosciuto dappertutto. Milano, finora centro principale del mazzinianesimo e grossa città industriale,. è per noi specialmente importante anche perché con Milano cadranno in nostre mani i distretti dell’industria della seta in Lombardia. Perciò quel che voi e i vostri amici potrete fare a Milano per la causa comune, avrà un valore tutto particolare.

A Torino abbiamo una forte sezione (indirizzo: Proletario Italiano); da Lodi (La Plebe) sono andate perdute delle lettere, che dovevano senza dubbio contenere informazioni sulla costituzione di sezioni.

Ho veduto stamattina, da Marx, Ricciotti Garibaldi. E un giovanotto assai intelligente, molto calmo, ma più un soldato che un pensatore. Può però diventare assai utile. Mostra nelle sue teorie più buona volontà che chiarezza, proprio come il vecchio, la cui ultima lettera a Petroni, tuttavia, è per noi d’un valore infinito218. Se i suoi figli sapranno dimostrare in tutte le grandi crisi lo stesso giusto istinto del vecchio, potranno far molto. Non avete la possibilità di procurarci un indirizzo sicuro a Genova? Si tratta di far arrivare con sicurezza le nostre cose al vecchio a Caprera, e Ricciotti dice che molto viene intercettato…...

Note

216 La lettera apre la corrispondenza tra Engels e Th. Cuno, organizzatore della sezione della I Internazionale a Milano. Arrivato a Milano e sistematosi come ingegnere all’officina «Elvetica», Cuno, membro del Partito socialdemocratico di Germania, fece tentativi di mettersi in contatto con la sezione dell’internazionale. Il 1° novembre 1871 egli scrisse una lettera a Engels quale segretario-corrispondente del Consiglio Generate per l’Italia. Nella lettera Th. Cuno comunicò a Engels tutto ciò che poteva interessarlo e pregò di metterlo in contatto con i membri della I Internazionale a Milano e in Italia in generale.

217 Engels si mise in contatto con il Gazzettino Rosa nei mesi di luglio-agosto 1871 grazie a Cafiero. In questo tempo il giornale pubblicò una serie di documenti del Consiglio Generale e un estratto dell’articolo di Engels Sulla partecipazione di Mazzini alla fondazione dell’internazionale (n. 255, 13 settembre 1871).

218 Si tratta della lettera che il 21 ottobre 1871 Garibaldi scrisse a G. Petroni. direttore del mazziniano La Roma del Popolo. Nella sua lettera Garibaldi rese noto il suo distacco da Mazzini per i suoi attacchi alla Comune e la I Internazionale. il 7 novembre 1871 Engels ne riferì il contenuto alla seduta del Consiglio Generale, rilevando che quella lettera aveva avuto una forte eco in Italia. Pubblicata la lettera sui periodici italiani, Engels la tradusse e la riportò quasi interamente nel resoconto della seduta del Consiglio.



Engels a Wilhelm Liebknecht

gennaio 1872

…. Abbiamo a Milano Cuno, un ingegnere svizzero, che conosce te e Bebel e che là ha ostacolato finora l’approvazione di deliberazioni bakuniste. Gli altri sono o bakunisti o gente che occupa una posizione molto riservata. È un terreno difficile e mi costringe ad un enorme lavoro……



Engels a Paul Lafargue

gennaio 1872

…… In Italia non c’è fino ad ora nessuna organizzazione. I gruppi sono così autonomi da non poter o non voler unirsi. Ciò è la reazione all’estrema centralizzazione borghese di Mazzini, il quale aspirava a dirigere tutto da solo e per- giunta in modo molto stupido. Poco a poco apriranno gli occhi anche laggiù, ma bisogna concedere loro del tempo perché possano acquistare una propria esperienza…..



Engels a Theodor Cuno

24 gennaio 1872

…. In Italia, infine, a mia conoscenza, le sezioni di Torino, Bologna e Girgenti si sono dichiarate per la convocazione anticipata del Congresso. La stampa bakunista pretende che venti sezioni italiane si siano pronunciate in questo senso; ma io non le conosco. Ad ogni modo, quasi  dappertutto la direzione è nelle mani degli amici e dei seguaci di Bakunin, i quali si danno delle grandi arie; ma se si va in fondo, si vede chiaramente che essi non hanno molta gente dietro di loro, perché alla fin dei conti la grande massa dei lavoratori italiani è ancora mazziniana e lo rimarrà fino a quando l’Internazionale s’identificherà con l’astensione politica.

In ogni caso, ecco come stanno le cose in Italia: i bakunisti hanno il predominio nell’Internazionale e fanno gli spavaldi. Il Consiglio Generale non ha nessuna intenzione di lagnarsene: gli italiani hanno il diritto di fare tutte le sciocchezze che vogliono. Il Consiglio Generale interverrà soltanto a mezzo di amichevoli discussioni. Essi hanno anche il diritto di pronunciarsi per il Congresso nello stesso senso dei giurassiani; ma, comunque, è molto strano che delle sezioni le quali hanno appena aderito e non sono quindi informate di nulla, prendano senz’altro partito in una simile faccenda, soprattutto senza aver sentito tutte e due le parti! A questo proposito ho parlato chiaro ai torinesi e farò lo stesso con le altre sezioni che si sono pronunciate nello stesso senso. Ogni simile dichiarazione di adesione è un’indiretta approvazione della circolare219 contenente menzogne e false accuse contro il Consiglio Generale che, del resto, pubblicherà tra poco una sua circolare sulla questione. Se potrete impedire che i milanesi facciano una dichiarazione analoga fino all’uscita della nostra circolare, attuerete in pieno i nostri desideri.

Il più comico è che questi stessi torinesi che si sono dichiarati a favore dei giurassiani e ci accusano perciò di autoritarismo, chiedono ora improvvisamente al Consiglio Generale di intervenire contro la rivale Federazione operaia di Torino, e di intervenire in modo così autoritario come non ha mai fatto: di espellere il Beghelli dal Ficcanaso, il quale non è neppure membro dell’Internazionale, ecc. E tutto ciò prima che noi sentiamo almeno cos’ha da dire in merito la Federazione operaia!.....

Note

219 Al congresso di Sonvilliers della Federazione del Giura bakunista, tenutosi il 12 novembre 1871, fu adottata la Circolare di Sonvilliers «Circulaire à toutes les fédérations de l’Association internationale des travailleurs» indirizzata contro il Consiglio Generale e la conferenza di Londra del 1871. Alle decisioni della conferenza la Circolare contrapponeva i dogmi anarchici dell’indifferentismo politico e dell’autonomia delle sezioni, nonché la solita calunnia nei riguardi del Consiglio Generale. Nella Circolare i bakunisti proponevano inoltre a tutte le sezioni di chiedere l’immediata convocazione del congresso per riesaminare il suo Statuto generale e condannare l’attività del Consiglio Generale.



Engels a Johann Philipp Becker

16 febbraio 1872

….. Puoi indicarmi il modo di aiutare Cuno a rimanere a Milano? Io non vedo da qui nessuna via, ma certamente faremo volentieri di tutto per mantenere questo bravo giovane in un posto così importante. Questi maledetti italiani mi fanno lavorare più che tutta la restante Internazionale il Consiglio Generale, e ciò è tanto più spiacevole per il fatto che probabilmente non ne verrà fuori nulla fino a quando gli operai italiani sopporteranno che un pugno di dottrinari — libellisti e avvocati — dica a nome loro la parola decisiva.



Engels a Laura Lafargue

11 marzo 1872

…..Da La Campana di Napoli vedo che Pani ha esteso la sua attività anche a questa città, tanto meglio. A Napoli si sono insediati i peggiori bakunisti di tutta l’Italia. Cafiero è un bravo ragazzo, ma un mediatore innato e come tale, naturalmente, debole; se non migliorerà fra poco, rinuncerò a lui. In Italia i giornalisti, gli avvocati e i dottori si sono fatti talmente innanzi che fino ad ora non siamo riusciti mai ad entrare direttamente in contatto con gli operai; ora la situazione comincia a cambiare e noi troviamo che gli operai, come ovunque, si distinguono assolutamente dai loro porta voce. È ridicolo: questa gente grida di volere l’autonomia completa, di non volere i capi, ma al tempo stesso si lascia menare per il naso da un pugno di dottrinari borghesi come in nessun altro posto.



Engels a Gennaro Bovio

16 aprile 1872 Egregio cittadino,
ho ricevuto, e vi ritorno colla presente, ringraziandovi, i vari documenti che m’avete fatto l’onore di trasmettermi per mezzo dell’egregio citt. Enrico Bignami.

Il Consiglio Generale dell’Internazionale, essendo comitato amministrativo con funzioni definite,  non  ha  potuto  prendere  conoscenza  e  deliberare  ufficialmente  su  questi
documenti; ma mi sono fatto un dovere di sommetterli a coloro fra i suoi membri che comprendono l’italiano, e tutti li hanno letti col più grande piacere.

Riconosciamo volontieri che, al tempo dove qui in Londra si realizzava, per la prima volta, una lega internazionale degli operai, voi, nella remota Puglia, avete rilevata questa medesima idea e l’avete valorosamente propugnata nel congresso di Napoli220. Vi ringraziamo di averci comunicato questo fatto, perché contiene una nuova prova che l’alleanza degli operai del mondo incivilito fu riconosciuta, già nel 1864, come una necessità storica anche nei paesi coi quali non potevamo allora metterci in relazione, non sapendo a chi indirizzarci. E sinceramente lagniamo che le società operaie italiane, per non rilevare nel 1864 la vostra idea, hanno di molto ritardato lo sviluppo del movimento proletario in Italia.

Ci ha causato molta gioia il leggere i vostri articoli nella Libertà in difesa della Comune di Parigi contro V. Hugo ed altri221, che crediamo volontieri furono i primi articoli scritti in italiano, con questo scopo. Noi qui, allo stesso tempo, pubblicammo il manifesto del Consiglio Generale sopra La Guerra civile in Francia di che mi sono permesso di indirizzarvi, il 23 marzo, un esemplare in inglese ed un altro in tedesco, non avendo qui la traduzione francese e quella italiana (nella Eguaglianza di Girgenti) non essendo compita. Vedrete da questo opuscolo che anche su questo punto v’ha armonia d’idee fra di noi, e che noi pure non abbiamo mancato al nostro dovere…..

Note

220 Si tratta del congresso napoletano delle società operaie italiane influenzate dai mazziniani tenutosi il 25- 27 ottobre 1864. In quella sede Gennaro Bovio, rappresentante délla società a Trani, propose di dare al congresso un carattere periodico e internazionale, e di elaborare allo scopo uno Statuto generale. Savi, uno dei capi mazziniani, evidentemente informato sull’istituzione dell’Associazione Internazionale degli Operai, dichiarò che il congresso internazionale degli operai si sarebbe tenuto neI 1865; il congresso di Napoli deliberò di assicurarvi una rappresentanza di operai italiani.

221 Si tratta degli articoli di G. Bovio Via smarrita e Una difesa dopo la morte pubblicati su La Libertà (n. 90 del 10 giugno 1871 e nn. 97-100 del 5,8, 12 e 15 luglio 1871), in cui l’autore prese le difese dei comunardi.



Engels a Theodor Cuno

22 [-23] aprile 1872 Caro Cuno,
ho ricevuto stamattina la vostra lettera che attendevo impazientemente. Gandolfi mi aveva già scritto poco tempo fa che si presumeva che il governo italiano vi avesse consegnato alla Prussia. Il vostro arresto, ecc. l’ho appreso dai giornali, i quali annunciavano già anche che siete stato espulso perché «mancante di mezzi di sussistenza». La Gazzetta di Milano ha pubblicato un comunicato della polizia in questo senso. Questo fatto ha il suo significato. È il primo atto della cospirazione poliziesca internazionale tra la Prussia, l’Austria e l’Italia; e se non siete stato tradotto sotto scorta dalla frontiera bavarese a Dϋsseldorf, lo dovete soltanto alla stupidità dei bavaresi. Domani sera porterò la questione davanti al Consiglio Generale, e tutto passerà nel resoconto ufficiale che sarà stampato nell’Eastern Post e andrà in tutte le parti del mondo222. Scrivete intanto una relazione a vostro nome, e mandatela al Volksstaat, all’Ègalité di Ginevra e al Gazzettino Rosa. Per l’Inghilterra, l’America, la Spagna e anche per la Francia ci penseremo noi da qui223.

Questi luridi cani dovranno rendersi conto che le cose non vanno lisce come sperano e che il braccio dell’Internazionale è pi lungo di quello del re d’Italia. Appena la cosa sarà stampata, ve ne manderò un esemplare insieme con tutto quel che potrò raccogliere nei giornali; ma non sarà molto.

.Durante il periodo della vostra incarcerazione sono avvenute molte cose. A Torino, Terzaghi è stato pubblicamente accusato dalla «Emancipazione del Proletario» di malversazioni e di relazioni sospette con il questore. Egli ha pubblicato ancora 2 o 3 numeri del Proletario in cui, come già aveva fatto in precedenza, attacca la Federazione operaia chiamando i suoi membri canaglia, borghesia, vigliacchi, ecc. Il giornale però, come quasi tutti i nuovi piccoli giornali in Italia — il Martello, La Campana, ecc. — sembra oggi morto. Ho scritto a Terzaghi per chiedergli che cosa erano in realtà queste accuse, ed egli mi ha mandato un Proletario pieno di insulti dicendo che da esso potevo rendermi conto che i suoi accusatori erano una banda di miserabili! Codesto individuo mi era sospetto già da mesi; Regis (che era stato da voi sotto il nome di Péchard, ed oggi è a Ginevra) riuscì a sapere che si recava continuamente da Bakunin a Locarno. È molto bene che sia stato smascherato come un volgare furfante.

A Bologna il Fascio operaio della Romagna ha tenuto un congresso e si è rivelato bakunista puro224. I romagnoli aderiscono all’Internazionale, ma non vogliono saperne di riconoscere gli Statuti, ecc. Sebbene il congresso abbia avuto luogo fin dal 18 marzo, non ci hanno ancora scritto; avranno da noi una bella accoglienza. La sezione di Ravenna ci ha scritto informandoci della sua adesione, dichiarando però di « conservare la propria autonomia ». Ho chiesto loro semplicemente se accettano o no i nostri Statuti225.

Ricevo ora un pacco di giornali: e vedo che anche Pezza e Testini sono stati arrestati a Milano (verso il 30 marzo).

La circolare del Consiglio Generale su Bakunin e i suoi è in corso di stampa e sarà pronta alla fine della settimana prossima. Ve la manderò immediatamente. Parla molto schiettamente e farà certo rumore.

Domani spero di potervi mandare dei giornali, il Gazzettino Rosa e qualche altra cosa italiana che potrò racimolare.

… A Torino l’unico giornale che esce presentemente è L’Anticristo, una specie di Gazzettino Rosa settimanale. Però escono sempre La Plebe di Lodi, il Fascio Operaio di Bologna, l’Eguaglianza di Girgenti. Tutti gli altri giornali italiani sono spariti. Sulla base dell’esperienza degli altri paesi, era da molto tempo chiaro per me che le cose dovevano andare a finire così. I pochi uomini che sono alla direzione non fanno niente, e in Italia le masse sono ancora troppo arretrate per poter mantenere in vita tanti giornali. Sarà necessario fare un lavoro lungo e paziente, e con un contenuto teorico superiore a quello che posseggono i bakunisti, per strappare le masse al cretinismo mazziniano.

Tante grazie per l’indirizzo milanese. Non sarebbe meglio se scriveste dapprima a questa persona [Danieli] pregandola di inviarvi una relazione sulla presente situazione dell’Internazionale a Milano? Potreste poi farmela pervenire: ed io, allora, gli risponderei. Il segretario per la corrispondenza è attualmente M. Gandolfi, e cioè uno dei bakunisti…..

Note

222 Si veda F. Engels, Sulle persecuzioni del membro dell’Internazionale Theodor Cono

223 Si veda la nota 163

224 Il Congresso di Bologna, congresso dei cosiddetti Fasci operai, costituitisi in Romagna, ed anche dei rappresentanti di sezioni anarchiche di Mirandola, Genova, Cantò e Napoli, si tenne il 17-18 marzo 1872. Il congresso appoggiò la proposta della sezione torinese della I Internazionale — società «L’emancipazione del proletario » — di convocare la conferenza delle sezioni italiani dell’Internazionale. Una serie di risoluzioni del congresso portava un’impronta bakunista, in particolare: pur non negando la lotta politica in generale, il congresso si dichiarò contrario alla partecipazione alle elezioni. Fu dichiarato poi che si considerava il Consiglio Generale ed il Comitato federale del Giura quali semplici uffici di corrispondenza incaricando il consolato eletto al congresso di mettersi in contatto con tutt’e due.

225 Si tratta del gruppo anarchico costituitosi nella seconda metà del 1871 a Ravenna che si trovava sotto l’influsso del bakunisia L. Nabruzzi, con il quale Engels era in corrispondenza. Il gruppo non fu ammesso all’Associazione Internazionale degli Operai.



Engels a Thdodor Cuno

7- 8 maggio 1872

…...Gli operai spagnoli si sono burlati naturalmente di questi dottrinari e unanimemente li hanno ridotti al silenzio. È questo il colpo più forte che Bakunin abbia ricevuto finora. Egli contava sicuramente sulla Spagna: e la ripercussione in Italia non si farà aspettare.

Che la stessa organizzazione segreta esista in Italia, anche se non così solida come nella formalistica Spagna, non ne ho il minimo dubbio. La miglior prova di ciò è per me la precisione quasi militare con la quale anche in Italia, da tutte le parti del paese, si sfodera sempre simultaneamente la stessa parola d’ordine data dall’alto (e si noti che proprio costoro predicano sempre al popolo ed all’Internazionale il principio dal basso all’alto). Che voi non siate stato iniziato nei loro segreti, si capisce: tra i bakunisti solo i capi vengono ammessi in questa società esoterica. Nel frattempo sono arrivate alcune notizie dall’Italia, che rivelano sintomi migliori. I ferraresi si sono sottomessi: hanno riconosciuto gli Statuti e i regolamenti amministrativi ed hanno mandato a noi i loro Statuti per l’approvazione, il che è contro la parola d’ordine lanciata dai bakunisti. In Italia la maledetta difficoltà è soltanto di riuscire a mettersi in contatto diretto con gli operai. Questi maledetti dottrinari bakunisti, avvocati, dottori, ecc., si sono interposti dappertutto e si comportano come se fossero i rappresentanti nati dei lavoratori. Dove riusciamo a superare questo sbarramento, ed a prendere contatto con le masse stesse, tutto va bene e le cose si mettono rapidamente a posto. Ma, data la mancanza di indirizzi, ciò non è possibile quasi in nessuna parte. Sarebbe quindi stato molto importante se voi foste potuto rimanere a Milano. Di tanto in tanto, col tempo, avreste potuto visitare questa o quella città con uno o due tipi in gamba, e in sei mesi ci saremmo sbarazzati di tutto questo ingombro nei luoghi principali...



Engels a Thdodor Cuno

10 giugno 1872

Sulla società segreta spagnola, «La Alleanza», abbiamo ora le prove in mano, e al congresso rideremo. Anche in Italia essa esiste certamente. Se almeno Regis potesse andarvi! Ma questo povero diavolo fa ora il giornalaio a Ginevra per poter vivere. Cafiero di Napoli e qualcheduno di Torino, che non so ancora chi sia, hanno passato alcune mie lettere ai giurassiani226. La cosa m’importa poco; ma il fatto del tradimento è sgradevole. Gli italiani devono fare ancora un p0’ di scuola di esperienza, per imparare che un popolo di contadini arretrati, come loro, non fa che rendersi ridicolo quando vuol insegnare ai lavoratori dei grandi paesi industriali come debbono affrancarsi.

Note

226 Qui Engels allude alla dichiarazione redazionale, apparsa sul n. 6 del Bulletin de la Fedération Jurassien del 10 maggio 1872, di avere a disposizione le lettere di Engels scritte «ai suoi amici italiani» nell’autunno del 1871. Le lettere erano state consegnate a Guillaume, direttore del giornale, da Cafiero.



Engels a Friedrich Adolf Sorge

2 novembre 1872

….. Sono stato appena invitato a notificare ufficialmente al Consiglio Generale la costituzione delle due seguenti sezioni:

1) Associazione degli operai e degli agricoltori della Bassa Lombardia (sezione di Lodi), Enrico Bignami, Via Cavour 19, Segretario.

2) Associazione dei liberi lavoratori abruzzesi (sezione di Aquila, provincia omonima. Corrispondenza per ora via Lodi).

La comunicazione viene da Bignami, il quale informa purè che entrambe le sezioni hanno approvato Statuti che corrispondono agli Statuti generali. Ne chiederò delle copie e ve le invierò227.

Bignami è l’unico uomo che in Italia, anche se per ora in modo non molto energico, parteggia per noi. Nel suo giornale La Plebe egli ha pubblicato non solo il mio rapporto sul Congresso dell’Aia, ma anche una mia lettera privata, molto più forte, indirizzata a lui228. Dato che devo inviargli delle corrispondenze, terremo il giornale nelle nostre mani. Non solo, ma egli ha fatto pubblicare nuovamente gli Statuti generali con gli emendamenti dell’Aia nonché la mia relazione al congresso229. Bignami si trova in mezzo agli autonomisti e perciò deve ancora essere cauto.

Su Torino non sento più nulla. Cuno deve almeno aiutarci a trovare un collegamento a Milano, affinché di lì possano giungerci se non altro delle informazioni. Con Ferrara il collegamento avviene attraverso Lodi; la sezione è stata fondata da Bignami…..

Note

227 Tutte due le sezioni si costituirono nell’ottobre 1872 sotto l’influsso di Bignami e rappresentavano le sezioni della I Internazionale, una di Lodi e un’altra dell’Aquila. Fu proprio Bignami a comunicare a Engels il 28 ottobre 1872 che esse avevano adottato gli Statuti corrispondenti agli Statuti generali. Il 22 dicembre 1872 il Consiglio Generale, su raccomandazione di Engels, affiliò tutt’e due le sezioni all’Internazionale. Nel dicembre 1872 - gennaio 1873 le sezioni furono disciolte dalla polizia.

228 Si tratta degli articoli di Engels: Il Congresso dell’Aia (Una lettera a Bignami) e Le Lettere da Londra — II. Ancora sul Congresso dell’Aia pubblicate su La Plebe del 5 e dell’8 ottobre 1871.

229 Engels allude all’annuncio de La Plebe (n. 112 del 26 ottobre 1872) sulla prossima pubblicazione in brossura del resoconto del Congresso dell’Aia e degli Statuti generali con gli emendamenti del congresso. Però Bignami non riuscì a pubblicare l’opuscolo.



Engels a Friedrich Adolf Sorge

16 novembre 1872


…… Se mi invierete o no i poteri per l’Italia, mi rimetto a voi230. Con la lotta che avviene, nella quale i nostri rappresentano una minoranza estremamente modesta, è molto desiderabile un rapido intervento. Anche se io mantengo la mia corrispondenza privata e scrivo su La Plebe, non posso però senza pieni poteri influire sulle sezioni che, come quella di Torino, sembrano del tutto decadute e non fanno sentire di sé nulla, come ciò solo in Italia accade troppo spesso..

Note

230 Su decisione del Consiglio Generale del 5 gennaio 1873 Engels fu nominato rappresentante del Consiglio per l’Italia con poteri ed istruzioni relative.



Engels a Friedrich Adolf Sorge

14 dicembre 1872

…… A Lodi è stato confiscato il n. 118 de La Plebe, in cui è stato pubblicato il vostro indirizzo; Bignami, direttore, è stato arrestato231. Sembra che abbia a ripetersi laggiù il processo di Lipsia sull’alto tradimento232. Noi, naturalmente, sfrutteremo subito al massimo questa storia; essa apparirà subito sul Volksstaat233 e sull’Emancipation per dimostrare chi è ritenuto pericoloso dai governi: il Consiglio Generale e i suoi partigiani o gli alleanzisti. In Italia non poteva accadere per noi nulla di meglio…..

Note

231 Il 21 novembre 1872 il procuratore reale di Lodi ordinò il sequestro del n. 118 de La Plebe del 17 novembre per aver pubblicato .l’appello del Consiglio Generale del 20 novembre 1872. Nel contempo il procuratore intentò causa contro Bignami, direttore del giornale, quale organizzatore della sezione dell’Internazionale a Lodi. Nel dicembre 1872 Bignami e alcuni membri della redazione furono arrestati e citati in giudizio come appartenenti all’Associazione Internazionale degli Operai e propagandisti delle sue idee.

232 L’11-26 marzo 1872 a Lipsia ebbe luogo il processo contro Bebel, Liebknecht e Gepner arrestati il 17 ottobre 1870 e imputati di «preparativi d’alto tradimento». I tentativi dei circoli dirigenti della Germania di far giustizia dei capi del movimento operaio si scontrarono con il coraggio di Bebel e Liebknecht che apertamente difesero le loro convinzioni.

Nonostante l’infondatezza delle accuse, Bebel e Liebknecht furono condannati a due anni di carcere ciascuno. Gepner fu assolto. Terminato il processo di Lipsia, Bebel, all’inizio del luglio 1872, fu di nuovo citato in causa accusato dell’«insulto alla Maestà» che avrebbe fatto in un discorso davanti agli operai del la città di Lipsia. Per questo Bebel ricevette altri nove mesi di carcere e fu privato del mandato al Reichstag.

233 La notizia dell’arresto di Bignami e del sequestro del n. 118 de La Plebe apparve sul Volksstaat (n. 101 del 18 dicembre 1872). Sull’Emancipation la notizia invece non apparve.



Engels a Marx

Caro Moro,

23 febbraio 1877

la settimana scorsa ho scritto a Bignami, facendo l’abbonamento a La Plebe e dandogli notizia delle elezioni234. Il giorno anteriore all’altro ieri, prima della partenza235  ho ricevuto tre numeri, alcuni numeri mancanti me li spedirà dopo236. Il mio intervento non poteva capitare in un momento più opportuno.

La Plebe riferisce in data 7 gennaio sul processo alle Assise contro il questore di Torino, Bignami (lo stesso che offriva il vermut a Terzaghi, vedi Alliance de la Démocratie Socialiste) per peculato (tout comme chez nous!237 ).Un certo poliziotto Blandini depone: che su ordine di Bignami aveva fatto la perquisizione in casa di Terzaghi pro forma, e che inoltre aveva avuto da Bignami l’ordine di portar via con sé solo quello che Terzaghi gli avrebbe dato. Quando fu emanato un ordine d’arresto contro Terzaghi questi sarebbe stato arrestato prima su ordine di Bignami da un altro poliziotto, Premerlani; «Terzaghi era un agente segreto di Bignami che gli dava tre lire» (franchi) «al giorno». La Plebe commenta: qui si vede come vengono usati i «fondi segreti dei governi di classe»

A questo risponde un giornaletto bakunista, Il Martello — dal nome riconosco il mio Cafiero. Siccome non si doveva entrare in argomento sullo spiacevole caso Terzaghi, il giornaletto si attacca ai «fondi segreti dei governi di classe»: dunque da voi «i governi non di classe» avranno anche essi «fondi segreti», dunque anche con voi tutto rimane come era, e poi tutta la solita tirata arcianarchica que l’on sait. La Plebe gli risponde come si deve e attacca subito dopo il Bulletin Jurassien che per quattro righe de La Plebe sarebbe montato su tutte le furie e agirebbe come se La Plebe fosse arrabbiatissima, mentre non era che edificata delle insinuazioni dei jurassiens.


Del resto (continua La Plebe) si dovrebbe essere molto «ingenui» per lasciarsi attirare dall’esca di gente che, malata d’invidia, bussa a una porta dopo l’altra per mendicare un po’ di animosità contro di noi, servendosi della diffamazione. La mano che da molto tempo semina l’erba maligna e le provocazioni, sufficientemente nota, cosicchè i suoi intrighi loyoleschi sono subito individuati e gli onesti non ne facciano tan tosto giustizia.

Nello stesso numero vi è una corrispondenza di E. Dörenberg (Drbg. della Berliner Freine Presse) sulle elezioni a Berlino.’

Nel numero del 16 febbraio vi è una corrispondenza da Bruxelles «C. D. P.» [César de Paepe] sul nuovo movimento fiammingo per la legge sulle fabbriche e per il suffragio universale che termina con le parole:


Noi crediamo altresì di arrivare, con questo metodo, più prontamente e più puramente, all’emancipazione del proletariato, piuttosto che star lì, abbaiando alla luna per degli anni e dei quarti di secolo, e attendendo che mamma Rivoluzione voglia degnarsi di venire a spezzarci le catene dei lavoratori.

Inoltre è menzionato come sintomo e in maniera molto amichevole l’appello del vecchio Becker238.

Oggi ricevo una lettera molto entusiasta di Bignami, in cui dice che avrebbe pubblicato le mie cose sulle elezioni, e conferma che la Federazione dell’Alta Italia che da Venezia va fino a Torino e tiene in questi giorni il suo congresso239, vuole lottare sul terreno del suffragio universale. La Plebe è il suo organo ufficiale.

In Italia dunque la breccia nella fortezza degli avvocati, letterati e ciondoloni è fatta. E la miglior cosa è che tutti i vecchi alleanzisti240 di Milano, Mauro Gandolfi, ecc. dell’epoca di Cuno, sembra si siano schierati anch’essi da questa parte. In realtà un movimento pseudo-operaio in una città industriale come Milano non era possibile che per poco tempo. E l’Alta Italia decide non solo strategicamente, ma anche per il movimento operaio, delle sorti della lunga penisola contadina.

Note

234 La lettura della lettera di Engels a Bignami del 13 febbraio sulle elezioni al Reichstag del 10 gennaio 1877, alle quali i social democratici avevano colto un gran successo, fu data al congresso della Federazione dell’Alta Italia e quindi pubblicata su La Plebe (n. 7 del 26 febbraio 1877).

235 Causa la malattia della moglie, Engels, dal 20 febbraIo al 14 marzo e nella seconda metà del maggio 1877, si trovò a Brighton.

236 Il 20 febbraio Engels ricevé da Bignami tre numeri de La Plebe: nn. I e 3 del 7 e del 21 gennaio e n. 6 del 16 febbraio 1877.

237 Tout comme chez nous (tutto come a casa nostra), modo proverbiale passato in uso dalla commedia di Nolane de Fatouville Arlecchino, imperatore della Luna.

238 Si tratta dell’appello del Comitato centrale del gruppo di sezioni tedesche scritto da I. Ph. Becker e indirizzato alla sezione di Zurigo. Fu pubblicato a Zurigo nell’ottobre 1876 in tedesco e in francese come opuscolo a parte e rivolto contro la proposta della sezione di partecipare al congresso degli anarchici a Berna nell’ottobre 1876

239 Si veda la nota 234.

240 Si veda la nota 170

241 La Santa Alleanza, unione di monarchi europei costituitasi nel 1815 dopo la caduta dell’Impero napoleonico per lottare contro il movimento rivoluzionario, cessò la sua attività nella metà degli anni ‘20. Nelle loro lettere Marx ed Engels così chiamano la frequente collaborazione dell’Austria-Ungheria, della Germania e della Russia nelle questioni internazionali.

242 Cioè dopo l’unificazione dell’Italia



Engels a Karl Kautsky

7 febbraio 1882

…...Uno dei compiti reali della rivoluzione del 1848 (i compiti reali e non illusori di una rivoluzione si risolvono sempre come risultato di questa rivoluzione) è stato il ristabilimento delle nazionalità oppresse e divise della Media Europa, in quanto esse in generale erano vitali e, in particolare, erano già mature per l’indipendenza. Questo compito è stato risolto per l’Italia, l’Ungheria e la Germania dagli esecutori testamentari della rivoluzione: Bonaparte, Cavour e Bismarck, in conformità ai rapporti di allora. Sono rimaste l’Irlanda e la Polonia. L’Irlanda si può lasciarla qui in disparte, essa influisce solo nel modo più indiretto sugli affari del continente. Ma la Polonia è situata in mezzo al continente e il permanere della divisione della Polonia è proprio quel legame che sempre rinnova l’unità della Santa Alleanza241 e perciò la Polonia ci interessa molto.

Fino a quando manca l’indipendenza nazionale, un grande popolo non è in grado sul piano storico nemmeno di discutere in modo più o meno serio queste o quelle questioni interne. Fino al 1859 di socialismo in Italia non se ne parlava nemmeno, persino i repubblicani erano pochi, anche se erano l’elemento più energico. I repubblicani sono cominciati a diffondersi solo dal 1861242 e solo in seguito essi hanno dato le loro energie migliori ai socialisti.



Engels a Laura Lafargue

12 febbraio 1893

..…. È possibile che i socialisti proprio alla vigilia delle elezioni243 suscitino con il loro silenzio il sospetto che essi non siano migliori dei protagonisti del Panama e abbiano un proprio motivo per coprirli e per passare sotto silenzio tutto ciò? In Italia le cose stanno proprio così. Alcune persone dette in Romagna  come socialisti, sono nelle mani del governo grazie ai sussidi, che esso corrisponde alle cosiddette associazioni cooperative dirette da queste persone; sussidi, molto probabilmente, arrivano dalle casseforti della Banca di Roma. È così che si spiega il loro silenzio….

Note

243 Alle elezioni francesi del 20 agosto e del 3 settembre 1893 alla Camera i socialisti ottennero, complessivamente, 700.000 voti e 30 seggi. A questi si aggiunsero altri 20 deputati appartenenti ai gruppi borghesi di sinistra — soprattutto radicali — sotto il nome di «socialisti indipendenti». Dunque il gruppo socialista in complesso raggiunse le 50 unità.



Engels a Friedrich Adolf Sorge

23 febbraio 1894

…..In Italia si possono attendere, da un giorno all’altro, forti sconvolgimenti. I borghesi hanno saputo mantenere in tutta la loro interezza tutte le turpitudini del feudalesimo che sta per tramontare, e hanno aggiunto a ciò la loro propria perfidia e la loro propria crudeltà. Il paese ha esaurito tutte le sue risorse e lì dovrebbe prodursi una svolta, ma il partito socialista244 è fin’ora ancora molto debole, con concezioni molto confuse, anche se vi sono in esso dei marxisti abbastanza in gamba.....

Note

244 Si tratta del Partito socialista dei lavoratori italiani (si veda la nota 191).



Engels a Paul Lafargue

18 dicembre 1894

…...Anche in Italia la monarchia è in una situazione critica. L’erede del trono [Vittorio Emanuele III] è immischiato nella storia con il Banco di Roma; quanto a lui, si tratta di
300.000 franchi, ma quanto al re [Umberto I], che agiva tramite persone interposte, si tratta di somme notevolmente maggiori. Tutti lo sanno. Crispi è colpito a morte dal trucco efficace di Giolitti: è stato  compromesso  tutto il  parlamento, nonché tutti i funzionari superiori; nell’Italia illibata gli uomini sono ancora dei cattolici, cioè degli atei al punto che tutto ciò si compie alla luce del giorno, che non possono nascondere la corruzione, al contrario, se ne vantano, e così si arriva alla crisi.



Engels a Pasquale Martignetti

8 gennaio 1895


… .Molte grazie per la pena che vi siete dato per la prefazione al III volume del Capitale. È certo bene che sia pubblicata sulla Rassegna245 così in Italia si vedrà che la falsa grandezza di Loria viene giudicata all’estero del tutto diversamente che in patria. D’altra parte posso capire che in questo momento Turati consideri tatticamente più opportuno non attaccare quell’individuo così aspramente come faccio io. Quando in Germania avevamo contro di noi le leggi eccezionali, anche la nostra tattica era sotto molti aspetti diversa, e ci furono singoli avversari risparmiati per considerazioni di opportunità, che poi sono stati attaccati spietatamente. In casi di questo genere debbo affidarmi nella maggior misura al giudizio di chi sta nel mezzo della mischia, come Turati; può darsi che questa gente non faccia sempre quello che io qui dal mio punto di vista ritengo più giusto e più utile, ma tuttavia fa qualcosa, e fa il suo dovere nella misura delle sue possibilità, e si assume il peso delle conseguenze; se Turati e i suoi amici milanesi non fossero molto sgraditi al governo, non li si sarebbe mandati per 3 o 5 mesi in domicilio coatto…...

Note

245 La traduzione italiana della Prefazione di Engels al III volume del Capitale, redatta da Martignetti, fu pubblicata nella rivista La Rassegna (n. 1, gennaio 1895).



Engels a Friedrich Adolf Sorge

16 gennaio 1895

…… Ebbene, e la Francia! Laggiù, come in Italia, la borghesia si è data a capofitto alla corruzione e ha superato al riguardo l’America. È già da tre anni che in entrambi i paesi tutto verte intorno al problema di trovare un ministero borghese, non diremo del tutto incorruttibile, ma almeno non così apertamente compromesso dagli scandali diventati di pubblico dominio, perché il parlamento possa appoggiarlo, senza offendere troppo i sentimenti più elementari della decenza. In Italia Crispi resisterà ancora per certo tempo solo perché il re e il principe ereditario si sono invischiati negli scandali bancari altrettanto profondamente come lui stesso…..



Engels a Conrad Schmidt

12 marzo 1895

…..Il famoso Loria con la perspicacia che gli è propria, vede nel terzo volume una palese rinuncia alla teoria del valore,246 e il Suo articolo è una risposta a ciò. Ora della questione si interessano due persone: Labriola a Roma e La fargue, che conduce su Critica sociale una polemica con Loria247. Quindi, se Lei potesse mandare  una  copia  dell’articolo al professor Antonio Labriola all’indirizzo: Corso Vittorio Emanuele 251, Roma, questi farebbe tutto quanto è in suo potere per pubblicarlo, tradotto in italiano……

Note

246 Si tratta dell’articolo di Loria L’opera postuma di Carlo Marx, pubblicato nella Nuova Antologia di scienze, lettere ed arti, serie III, vol. LV, n. 3 del 1° febbraio 1893.

247 Si tratta di due articoli di P. Lafargue: Breve risposta-domanda ai critici di Marx circa la teoria del valore e Replica di Lafargue pubblicate nella Critica Sociale (nn. 20 e 22 del 16 ottobre e del 16 novembre 1894) in risposta agli interventi di alcuni economisti italiani per appoggiare i punti di vista di Loria a proposito del III volume del Capitale espressi dall’autore nell’articolo L’opera postuma di Carlo Marx (si veda pure la nota 246)

***

da http://www.controlacrisi.org

Antonio Moscato

Marx e Engels sul Risorgimento italiano


Karl Marx e Friederich Engels hanno dedicato una forte attenzione all'Italia. Engels soprattutto conosceva bene lingua e cultura italiane (da giovane aveva fatto un soggiorno prolungato nel nostro paese a cui farà riferimento spesso nelle lettere), e anche per questo aveva avuto presso il Consiglio Generale dell’Internazionale il compito di Segretario incaricato della corrispondenza con l’Italia. Nel biennio delle rivoluzioni 1848-49 avevano espresso viva ammirazione e grande speranza per la rivoluzione in Italia, considerata una premessa per la rivoluzione in Europa: Engels, commentando l’insurrezione parigina del giugno 1848, aveva definito le Cinque Giornate milanesi “la lotta più calda” e importante di tutte le rivoluzioni fatte fino a quel momento: “una popolazione di 170.000 anime, quasi disarmata, batté un esercito di 20-30.000 uomini” (M.E. Opere, VII, p. 127).

Si erano presto disillusi, verificando il peso di principi e sovrani ipocritamente proclamatisi liberali, a partire da Pio IX. Il papa era stato definito fin dal primo momento “l’uomo che occupa la posizione più reazionaria in tutta Europa, che rappresenta la fossile ideologia del medioevo”, ma sottolineando al tempo stesso che era stato costretto a porsi alla testa di un movimento liberale. Questo già in un bilancio del 1847, pubblicato sulla “Deutsche Brüsseler Zeitung” nel gennaio del 1848. Pochi mesi dopo avrebbero dovuto verificare con amarezza che nonostante la generosa prova del popolo milanese nel marzo, in altre parti d’Italia (in particolare a Napoli il 15 maggio 1848) il ruolo decisivo era stato svolto dai 20.000 “lazzaroni” schieratisi contro i liberali come nel 1799.

Nell’agosto dello stesso anno, in un articolo sulla “Neue Rheinische Zeitung” (La lotta di liberazione in Italia e la causa del suo attuale insuccesso, 12/8/1848), Engels registrava con franchezza una sostanziale sconfitta: “Con la stessa rapidità con cui, nel marzo, furono cacciati dalla Lombardia, gli austriaci sono ora tornati da trionfatori, e già sono entrati a Milano”. Engels elogiava lo spirito di sacrificio, l’entusiasmo, il coraggio della popolazione, ma non aveva dubbi sulle responsabilità di coloro che detenevano il potere: “apertamente o segretamente, hanno fatto di tutto (…) per paralizzare la forza popolare e per ripristinare, in sostanza, il più presto possibile, l’antico ordine di cose.”

In primo luogo denunciava il ruolo di quel Pio IX che aveva suscitato in Italia tante speranze, e che invece era “giorno per giorno sempre più lavorato dalla politica austro-gesuitica”; ma anche e soprattutto quello di Carlo Alberto, bollato senza mezzi termini come “il nemico principale della libertà italiana”. Per Engels il re Carlo Alberto, che aveva già tradito i Carbonari a cui si era unito “per ambizione”, aveva tentato di “confiscare a beneficio della sua miseranda persona” l’intero movimento popolare dell’anno 1848, inviando in tutta l’Italia settentrionale suoi emissari che “lo dipingevano come l’uomo che avrebbe salvato la patria.

Il ritratto che Engels traccia di Carlo Alberto è spietato: “Pieno di odio e diffidenza contro tutti gli uomini veramente liberali, si circondava di persone più o meno devote all’assolutismo (…). Alla testa dell’esercito pose dei generali di cui non doveva temere la superiorità intellettuale o le opinioni politiche, ma che non godevano la fiducia dei soldati e non possedevano il talento necessario a condurre felicemente a termine la guerra. Egli si faceva chiamare pomposamente il “liberatore” d’Italia, mentre a quegli stessi che avrebbe dovuto liberare imponeva, come condizione, il suo giogo”. (Ivi, p. 398)

L’accusa al re di aver perso per cupidigia quanto aveva già conquistato è circostanziata: l’esercito piemontese fu tenuto fermo da Carlo Alberto mentre aveva ancora una netta superiorità numerica su quello austriaco, per timore delle tendenze repubblicane in Lombardia, nel Veneto, a Parma e Modena.

Engels osserva che “i popoli si sono scavata tante volte la fossa con la loro longanimità, che devono ormai rinsavire e imparare un po’ dai loro nemici”. Rimprovera infatti ai modenesi di aver lasciato andar via tranquillamente “quel duca, che durante il suo governo aveva fatto incarcerare, impiccare e fucilare migliaia di persone per le loro tendenze politiche” e ora se lo vedevano tornare a esercitare con raddoppiata ferocia “il suo sanguinario ufficio di principe”. Ed Engels auspicava in genere che gli italiani imparassero a non affidare la loro liberazione a un principe o un re. “Per la loro salvezza, essi devono anzi, al più presto, mettere da parte come inservibile questa «spada d’Italia». Se l’avessero fatto prima, se avessero messo a riposo il re e il suo regime assieme con tutti i suoi seguaci, e avessero realizzato un’unione democratica, oggi probabilmente non ci sarebbero più austriaci in Italia”. (Ivi, p. 399)

Ma nonostante la constatazione realistica sul successo completo della reazione e della restaurazione, Engels concludeva che questa era “solo provvisoria. Lo spirito rivoluzionario è troppo profondamente penetrato nel popolo, perché alla lunga esso possa esser domato. Milano, Brescia ed altre città hanno mostrato nel marzo di cosa sia capace questo spirito. L’eccesso dei mali condurrà a una nuova sollevazione”.(Ibidem)

Pochi mesi dopo credeva di scorgere ancora nella lotta tenace di Livorno, Roma e Venezia il sintomo di una ripresa generale delle lotte, in base a una specie di “circolarità” che assegnava all’Italia il ruolo di anticipatore e detonatore. Intanto molti scritti di Marx ed Engels tendevano a spiegare ai tedeschi la necessità di sostenere la causa italiana, polacca, ungherese e al tempo stesso a sottolineare che “né l’Ungherese né il Polacco né l’Italiano possono essere liberi finché rimane schiavo l’operaio”. Ma senza abbellire mai la realtà. Nel 1850 hanno ormai la piena consapevolezza che si è concluso un ciclo, e cominciano a pensare che “le cosiddette rivoluzioni del 1848 furono soltanto piccoli incidenti – fessure e squarci di poca importanza nella dura crosta della società borghese”, come dirà Marx in un discorso tenuto a Londra nell’aprile 1856. (M.E. Opere, XIV, p. 655).

Il carteggio tra i due, prezioso e affascinante, anche se di difficile lettura per la quantità di allusioni ellittiche, di battute, di scherzi, e con ovvie lacune nei periodi in cui potevano comunicare a voce, rivela un profondo e costante fastidio per il “popolo degli esiliati” che continua a sognare di provocare rivoluzioni con i suoi proclami da lontano. Il bersaglio più frequente è Mazzini, che comunque i due difesero sempre dagli attacchi della repressione, pur discordando sulla sua tattica e mal sopportando la sua retorica su “Dio e Popolo”…

Ma sono anche altri rivoluzionari più vicini a loro a infastidirli: in una lettera del 13 febbraio 1851 Engels si sfogava con Marx per la stupidità e la mancanza di tatto di un compagno, George Harney, capo del movimento cartista in Inghilterra che stava cercando di organizzare un meeting con i capi dell’immigrazione. Finalmente abbiamo (…) – per la prima volta dopo lungo tempo – l’occasione di dimostrare che non abbiamo bisogno di nessuna popolarità”. Non possiamo neanche lamentarci molto che certe persone ci temano e ci detestino, continuava. Non dobbiamo assumere “nessuna posizione ufficiale nello Stato, ma anche, finché è possibile, nessuna posizione ufficiale nel partito, nessun seggio in comitati ecc., nessuna responsabilità per conto di somari, critica spietata per tutti, e inoltre quella serenità che tutte le cospirazioni di queste teste di pecora non ci leveranno davvero. E questo possiamo farlo. Possiamo nella realtà essere sempre più rivoluzionari di tutti i frasaioli, perché noi abbiamo imparato qualche cosa e loro no”. E tra le cose che avevano imparato, Engels indicava la capacità di affrontare le cose freddamente. (Marx Engels, Carteggio, Editori Riuniti, Roma, 1972, vol. I, p. 177-178)

E negli stessi giorni se la prendeva con Harney, che faceva un “imbroglio da ciarlatani” con le suppliche di Mazzini, e descriveva uno “stupido esule ungherese” che gli era venuto fra i piedi qualche tempo prima, e da cui aveva appreso che “questa nobile specie di gente vaneggia ancora di attentati e di sommosse”, cosa che gli faceva percepire nel fracasso “l’eroica voce di alcuni esaltati di Londra”. (Marx Engels, Carteggio, Editori Riuniti, Roma, 1972, vol. I, p. 168-170).

Insomma come tutti i veri rivoluzionari (viene in mente il Lenin del 1907 che si batte contro la riproposizione del boicottaggio della Duma zarista in una fase di riflusso) Marx ed Engels distinguevano i periodi in cui la rivoluzione stava maturando da quelli di arretramenti e sconfitte.

Per alcuni anni – peraltro fecondi, dato che stava iniziando il primo lavoro di stesura del Capitale, che nel 1851 si illudeva di poter concludere in poche settimane, e richiese quasi due decenni - gli scritti sull’Italia si diradano, a parte alcuni articoli puntuali sulle poche vicende di rilievo, come un’insurrezione mazziniana di Milano del febbraio 1853, che sarebbe altrimenti dimenticata. Il commento è un esempio perfetto di dialettica.

Dapprima Marx denuncia le sopraffazioni di Radetzky, che infligge alla maggioranza della popolazione multe di entità illimitata, e considera comunque “significativa” l’insurrezione di Milano, che considera “un sintomo della crisi rivoluzionaria che incombe su tutto il continente europeo”. La definisce “ammirevole, in quanto atto eroico di un pugno di proletari che armati di soli coltelli, hanno avuto il coraggio di attaccare una cittadella e un esercito di 40 mila soldati tra i migliori d’Europa”. (M.E. Opere, XI, pp. 532-533). Sui coltelli dovrà ritornare, il 29 novembre, denunciando l’ipocrita indignazione della stampa quotidiana di Londra che aveva manifestato “con grande ostentazione tutto il suo orrore e sdegno morale” per un proclama di Mazzini trovato in possesso di Felice Orsini (quello che tenterà poi invano di uccidere Napoleone III, e finirà sul patibolo). Marx difende l’uso del pugnale, che “se colpisce all’improvviso, colpisce nel segno, rende un buon servizio e tiene il posto dei moschetti”. Non è un invito all’assassinio a tradimento, scrive Marx, commentando: “vorrei sapere in qual modo, in un paese come l’Italia dove non esistono i mezzi per una resistenza aperta e le spie sono ovunque, un movimento insurrezionale potrebbe avere una grande probabilità di successo se non si facesse ricorso alla sorpresa!”.

La difesa morale di Mazzini è totale: “Mazzini non dice affatto di servirsi del pugnale per assassinare vilmente il nemico disarmato; egli esorta invece a servirsene di sorpresa, ma nella piena luce del giorno, come a Milano, dove un pugno di patrioti, armati soltanto di coltelli, si precipitarono sui corpi di guardia delle ben armate guarnigioni austriache”. Oggi che basta tirare due uova per essere bollati come terroristi, la franchezza di Marx appare sorprendente. Ma il bello è che, dopo aver difeso la “moralità dell’indirizzo di Mazzini”, Marx aggiunge: “In quanto al suo valore politico la questione è diversa. Da parte mia penso che Mazzini sbagli tanto nell’opinione che ha del popolo piemontese, quanto nei suoi sogni di una rivoluzione italiana, la quale, secondo lui, dovrebbe attuarsi non già grazie alle possibilità favorevoli che offrono le complicazioni europee, ma grazie all’azione individuale di cospiratori italiani che agiscano di sorpresa”. (M.E. Opere, XII, p. 527) Le “complicazioni europee” alludono ovviamente alle tensioni che porteranno alla guerra di Crimea, a cui Marx dedicherà molti articoli, consolidando anche la sua fama di buon giornalista.

Ma non si trattava di approdare alla realpolitik o di sposare la tattica di Cavour, sul quale nello stesso carteggio tra i due autori del “Manifesto” gli accenni sono scarsi e sempre poco benevoli. Per Marx la polemica con Mazzini non nasceva solo dalla contrapposizione del suo materialismo all’idealismo mazziniano, ma dalla convinzione che fossero pericolose le illusioni di Mazzini sul ruolo di una minoranza eroica che avrebbe potuto suscitare le energie necessarie a determinare una rivoluzione, indipendentemente dalla situazione oggettiva e soprattutto senza preoccuparsi troppo del rapporto tra la minoranza rivoluzionaria e la massa della popolazione.

Marx continuava a credere possibile, oltre che necessaria, la rivoluzione, ma riteneva essenziale che esistessero alcune condizioni oggettive su cui inserire l’azione cosciente dei rivoluzionari. Le riteneva possibili perché, sia pur senza stabilire un nesso deterministico, riteneva essenziale per la rivoluzione l’instabilità generata da una crisi economica, e sapeva bene che le crisi economiche periodiche sono ineliminabili dal normale funzionamento del capitalismo.
Nell’insieme degli scritti degli anni Cinquanta si riscontrano puntuali osservazioni sui mutevoli schieramenti internazionali, sempre ispirati dall’internazionalismo e non sempre compresi da chi cercava di appoggiarsi più o meno apertamente a un paese “protettore”, in particolare la Francia di Napoleone III, che aveva nei suoi libri paga non pochi ex rivoluzionari come l’ungherese Kossuth, e aveva cercato di annettersi (malvolentieri e senza riuscirci) Garibaldi.

Su Garibaldi soprattutto Engels, attentissimo agli aspetti più propriamente militari, dava un giudizio molto favorevole: ne aveva seguito il ruolo nella guerra del 1859 (a cui i due avevano dedicato moltissime pagine), e sosteneva che l’impresa dei Mille, fin dalla marcia da Marsala a Palermo, era “una delle più stupefacenti imprese militari del nostro secolo, impresa che sembrerebbe quasi inconcepibile se non fosse per il prestigio che precede la marcia di un generale rivoluzionario trionfante”. Più volte, registrando lo sbandamento delle truppe borboniche, Engels osserva che “il successo di Garibaldi prova che le truppe regie di Napoli sono tuttora terrorizzate dall’uomo che ha tenuto alta la bandiera della rivoluzione italiana in faccia ai battaglioni francesi, napoletani ed austriaci”. (K. Marx, F. Engels, Sul Risorgimento italiano, Editori Riuniti, Roma, 1979, p. 360).

Pochi giorni dopo aggiunge che “le manovre con cui Garibaldi preparò l’attacco a Palermo lo qualificano immediatamente come un generale di grande statura. Fino ad oggi lo conoscevamo soltanto come capo di guerriglieri assai abile e molto fortunato; (…) ma qui noi lo vediamo agire su un buon terreno strategico; ed egli supera la prova da maestro consumato nella sua arte”. (Ivi, p. 363).

E del piano per liberare l’Italia Engels dice, dopo lo sbarco in Calabria, che “ne ammiriamo la grandiosità”, e che “la sua esecuzione non avrebbe potuto essere tentata in nessun altro paese che non fosse l’Italia, dove il Partito nazionale è così perfettamente organizzato e così completamente controllato dal solo uomo che ha impugnato la spada con successi così brillanti per la causa dell’unità e dell’indipendenza d’Italia”. (Ivi, p. 379).

Forse l’inconveniente era proprio che quel movimento fosse “controllato da un solo uomo”. Ma intanto gli elogi aumentavano: il 24 settembre, pur registrando le manovre di agenti che operavano in Sicilia per conto di Cavour e Napoleone III, Engels era ancora sinceramente ammirato: “Garibaldi ha dimostrato di essere non soltanto un capo coraggioso, ma anche un generale dotato di una buona preparazione scientifica. L’attacco aperto a una catena di forti costieri è un’impresa che richiede non soltanto talento militare, ma anche scienza militare”. Engels, che aveva combattuto nel 1849 nella rivoluzione del Baden e del Palatinato, e aveva poi studiato storia militare, era colpito dal fatto che “il nostro eroe, che in tutta la sua vita non ha mai dato neanche un esame militare, e che non ha neanche mai fatto parte di un esercito regolare, si è trovato pienamente a suo agio su un campo di battaglia di questo tipo come su ogni altro”. (Ivi, p. 384).

Mancava un mese all’incontro di Teano. Gli articoli poi si interrompono, ma ricostruiamo dal carteggio tra Marx ed Engels il mutamento nella valutazione del generale autodidatta, perfino sul piano militare. Già qualche settimana prima della capitolazione, Engels scrive in una lettera del 1° ottobre, che teme che lo slancio di Garibaldi si stia esaurendo: “pare che, militarmente, non ce la faccia più”. Le sue buone truppe sono state troppo suddivise nei battaglioni siciliani e napoletani, e non ha più una buona organizzazione, anche per le manovre dei cavouriani: “ questi miserabili borghesi sono capaci di rendere fra poco insostenibile la sua posizione”. Il pericolo è che debba attaccare prima di essere in condizione di vincere, ma soprattutto che arrivi Vittorio Emanuele. (Ivi, p. 452). Poi un lungo silenzio.

Il 27 febbraio 1861 troviamo un giudizio comparativo sferzante: dopo un elogio entusiastico di Spartaco, ricavato dalla lettura delle Guerre civili romane di Appiano, Marx dice che lo schiavo ribelle “vi figura come il tipo più in gamba che ci sia posto sotto gli occhi da tutta la storia antica. Grande generale (non un Garibaldi)”! (Marx Engels, Carteggio, Editori Riuniti, Roma, 1972, vol. IV, p. 26)

Poi il 10 giugno dello stesso anno si accenna semplicemente a “quell’asino di Garibaldi”, che si “è reso ridicolo con la lettera sulla concordia ai Yankees”. (Ivi, p. 40). Marx alludeva a una lettera in cui il generale aveva rifiutato di assumere un posto di comando nell’esercito nordista, che gli era stato proposto all’inizio della guerra civile negli Stati Uniti. Forse Marx era un po’ drastico nella definizione, perché la motivazione del rifiuto non era l’equidistanza o la “concordia”, ma il dubbio che la lotta non fosse davvero per l’emancipazione degli schiavi, ma ormai il giudizio politico ed umano su Garibaldi era secco: un asino… E un commento ironico registrerà una visita di Lassalle (verso il quale la polemica di Marx fu sempre impietosa e talvolta un po’ prevenuta) a Garibaldi in esilio a Caprera.

Dopo il 1860 comunque è diminuito l’interesse dei due per la causa italiana, perché sono diminuite le speranze su di essa. Dell’Italia parlano solo nel contesto della politica europea, come si era fatto già precedentemente nei numerosi articoli dedicati alla guerra di Crimea, in cui il Piemonte era stato logicamente considerato un protagonista non essenziale, o in quelli sulla guerra del 1859, che tendevano a smascherare le manovre di Luigi Bonaparte senza per questo attenuare l’ostilità nei con-fronti della corona austriaca.

E all’Italia gli scritti di Marx ed Engels si riferiranno d’ora in poi quasi esclusivamente nel quadro delle polemiche con Mazzini e Bakunin (e gli anarchici italiani), pubblicate da Gianni Bosio (K. Marx, F: Engels, Scritti italiani, Edizioni Avanti!, 1955) è però un’altra questione, che non ha più a che vedere con il Risorgimento e l’unità d’Italia, ma solo con la storia del movimento operaio. (12/10/10)