Indice
K. Marx, Lettera al direttore de «L'Alba».
F. Engels, La più recente prodezza della casa di Borbone
F. Engels, Il primo atto dell’Assemblea nazionale tedesca a
Francoforte
K. Marx, La Concordia di Torino
F. Engels, La lotta di liberazione io Italia e la causa del suo
attuale insuccesso.
F. Engels, La Kölnische Zeitung sull’Italia
K. Marx, Il movimento rivoluzionario in Italia
F. Engels, La guerra in Italia e Ungheria
F. Engels, La sconfitta dei piemontesi
K. Marx, F. Engels, Terza rassegna internazionale
K. Marx, L’insurrezione italiana
K. Marx, I moti a Milano
K. Marx, Kossuth e Mazzini
K. Marx, L’indirizzo di Mazzini
K. Marx, Agitazione in Italia
F. Engels, Gli eserciti d’Europa .
K. Marx, Sull’unificazione dell’Italia
F. Engels, L’occupazione austriaca dell’Italia
F. Engels, Probabilità della guerra imminente .
F. Engels, Po e Reno
F. Engels, L’inevitabilità della guerra
F. Engels, Le prospettive della guerra
K. Marx, Austria, Russia e Germania nella guerra»
K. Marx, Il Manifesto di Mazzini
K. Marx, Che cosa ha guadagnato l’Italia?
K. Marx, La pace»
K Marx, Il trattato di Villafranca
F. Engels, La guerra italiana
K. Marx, Luigi Napoleone e l’Italia
K. Marx, Un punto di vista radicale sulla pace
F. Engels, Savoia, Nizza e Reno
F. Engels, Brescia .
K. Marx, Garibaldi in Sicilia — La situazione in Prussia
F. Engels, Garibaldi in Sicilia
K. Marx, Notizie interessanti dalla Sicilia — La lite di Garibaldi
con La Farina — Una lettera di Garibaldi
F. Engels, Il movimento garibaldino
F. Engels, L’avanzata di Garibaldi
F. Engels, Garibaldi in Calabria
K. Marx, La situazione in Prussia — La Prussia, la Francia e
l’Italia
K. Marx, da «Il Capitale». (Libro primo. Nota
dell’autore n. 189).
K, Marx, da «Quarto rapporto
annuale del Consiglio Generale
dell’Associazione Internazionale degli Operai
F. Engels, Sulla partecipazione di Mazzini alla fondazione del
l’Internazionale .
F. Engels, Sul mandato di Giuseppe Boriani
F. Engels, Dichiarazione del Consiglio Generale ai giornali italiani
in merito agli articoli di Mazzini sull’Internazionale
F. Engels, Lettera al direttore
del Gazzettino Rosa. Dal riassunto
di un discorso di Friedrich Engels sulla
situazione dell’Internazionale in Italia e Spagna
F. Engels, Sulle persecuzioni del membro dell’Internazionale Theodor
Cuno
F. Engels, da « Nota per il Consiglio Generale» .
K. Marx, F. Engels, da
«L’Alleanza Internazionale della
Democrazia Socialista e l’Associazione Internazionale
degli Operai»
F. Engels, da «In seno all’Internazionale»
F. Engels, In Italia
F. Engels, da «Gli operai europei nel 1877»
F. Engels, da «La funzione della violenza nella storia»
F. Engels, Risposta all’onorevole Giovanni Bovio
F. Engels, Al lettore italiano
F. Engels, La futura rivoluzione italiana e il partito socialista
F. Engels, Al III Congresso del Partito socialista dei lavoratori
italiani
F. Engels, Saluto ai socialisti siciliani
F. Engels, Il socialismo internazionale e il socialismo italiano
Dall’epistolario
Engels a Marx, 9 maggio 1851
Marx a Joseph Weydemeyer, 11 settembre 1851 Marx a Engels, 13
settembre 1851
Engels a Marx, 28 settembre 1851
Engels a Marx, 11 febbraio 1858
Marx a Engels, 23 febbraio 1853
Marx a Engels, 8 ottobre 1858
Marx a Ferdinand Lassalle, 4 febbraio 1859
Engels a Marx, 4 novembre 1859
Engels a Ludwig Kugelmann, 8 e 20 novembre 1867
Engels a Marx, 28 agosto 1868
Engels a Carlo Cafiero, 1° luglio 7871
Engels a Carlo Cafiero, 16 luglio 1871
Engels a Carlo Cafiero, 28 luglio 2871
Engels a Wilhelm Liebknecht, 4 novembre 1871
Engels a Theodor Cuno, 13 novembre 1871
Engels a Willielm Licbknecht, 18 gennaio 1872
Engels a Paul Lafargue, 29 gennaio 1872
Engels a Theodor Cuno, 24 gennaio 1872
Engels a Johann Philipp Becker, 76 febbraio 1872
Engels a Laura Lafargue, 11 marzo 1872
Engels a Gennaro Bovio, 16 a 2872
Engels a Theodor Cuno, 22 (-28] aprile 1872
Engels a Theodor Cuno, 7-8 maggio 1872
Engels a Theodor Cuno, 10 giugno 1872
Engels a Friedrich a Adolf Sorge, 2 novembre 1872
Engels a Friedrich a Adolf Sorge, 16 novembre 1872
Engels a Friedrich a Adolf Sorge, 14 dicembre 1872
Engels a Marx, 23 febbraio 1877
Engels a Karl Kautsky, 7 febbraio 1882
Engels a Laura Lafargue, 12 febbraio 1893
Engels a Friedrich Adolph Sorge, 23 febbraio 1894
Engels a Paul Lafargue, 18 dicembre 1894
Engels a Pasquale Martignetti, 8 gennaio 1895
Engels a Friedrich Adolph Sorge, 16 gennaio 1895
Engels a Conrad Schmidt, 12 marzo 1895
K. Marx
Lettera al direttore de «L'Alba»1
Signore,
sotto il titolo della Nuova Gazzetta Renana ( Neue Rheinische
Zeitung ) e sotto la direzione del sig. Karl Marx si pubblica
fin dal primo giugno prossimo futuro un nuovo giornale quotidiano in
questa città di Colonia. Questo giornale seguirà, nel
nostro settentrionale, i medesimi principi democratici che L'Alba
rappresenta in Italia. Non può dunque essere dubbiosa la
posizione che prenderemo relativamente alla questione pendente fra
l'Italia e l'Austria. Difenderemo la causa dell'indipendenza
italiana, combatteremo a morte il dispotismo austriaco in Italia,
come in Germania e in Polonia. Tendiamo fraternamente la mano al
popolo italiano e vogliamo provargli che il popolo tedesco si
rifiuta di prendere parte all'oppressione esercitata su di voi dagli
stessi uomini che da noi hanno sempre combattuto la libertà.
Vogliamo fare tutto il possibile per preparare l'unione e la buona
intelligenza di due grandi e libere nazioni che un nefasto sistema
di governo ha fatto credersi finora nemiche l'una dell'altra.
Domandiamo dunque che la brutale soldatesca austriaca sia senza
ritardo ritirata dall'Italia, e che il popolo italiano sia messo
nella posizione di poter pronunziare la sua volontà sovrana
rispettando la forma di governo che vuole scegliere.
Per metterci nella condizione di conoscere gli affari italiani e per
darvi l'occasione di giudicare della sincerità delle nostre
promesse, vi proponiamo di cambiare il vostro giornale con il
nostro; cosìcché vi indirizziamo la Nuova Gazzetta
Renana e voi ci indirizzerete L'Alba regolarmente ogni giorno. Ci
lusinghiamo che vi piacerà accettare questa proposta e vi
preghiamo di cominciare l'invio de L'Alba il più presto
possibile, finché possiamo profittarne già per i primi
nostri numeri.
Se si trovasse che aveste altre comunicazioni da indirizzarci, vi
invitiamo di farlo, promettendovi che tutto quello che può
servire la causa della democrazia, nell'uno o nell'altro paese,
troverà, da parte nostra, sempre tutta l'attenzione
possibile.
Salute e fraternità
La direzione della Nuova Gazzetta Renana
II Direttore: dott. Karl Marx Scritta alla fine di maggio del 1848.
Pubblicata su L'Alba n. 258, 29 giugno 1848
Note
1 La lettera di Marx fu pubblicata su L’Alba il 29 giugno 1848 con
il seguente cappello della redazione:
«Pubblichiamo la seguente lettera indirizzataci da Colonia
per testimoniare quali sentimenti nutrono a
riguardo dell’Italia i generosi alemanni, i quali aspirano
caldamente a stringere un legame fraterno tra le nazioni Italiana e
Germanica, inimicate dai despoti dell’Europa»
F. Engels
La più recente prodezza della casa di Borbone2
La casa di Borbone non e ancora giunta al termine della sua gloriosa
carriera. Certo, la sua bianca bandiera, negli ultimi tempi,
è stata piuttosto insozzata; certo, i suoi gigli reclinavano
miserevolmente il capo sul punto d'appassire, Carlo Lodovico di
Borbone si è venduto un ducato e ne ha dovuto abbandonare
ignominiosamente un altro; Ferdinando dì Borbone ha perduto
la Sicilia3, ed ha dovuto, a Napoli, concedere una Costituzione alla
rivoluzione; Luigi Filippo pur essendo soltanto un cripto-borbone,
ha fatto la fine di tutti i Borboni di Francia, passando oltre la
Manica, in Inghilterra. Ma il Borbone di Napoli ha splendidamente
vendicato l'onore della famiglia.
Le Camere vengono convocate a Napoli. Il giorno dell'apertura deve
servire alla battaglia decisiva contro la rivoluzione. Campobasso,
uno dei capi della polizia del famigerato Del Carretto, viene
richiamato di nascosto da Malta; gli sbirri, con i loro vecchi
capì alla testa, ripercorrono per la prima volta dopo
parecchio tempo via Toledo, armati e a gruppi, disarmano i
cittadini, strappano loro gli abiti di dosso, li costringono a
radersi i baffi. Arriva il 14 maggio, giorno di apertura delle
Camere. Il re pretende che le Camere s'impegnino sotto giuramento a
non modificare la Costituzione da lui concessa. Le Camere rifiutano.
La Guardia nazionale si dichiara solidale coi deputati. Si scende a
tratte, il re cede, i ministri si dimettono. I deputati chiedono che
il re renda pubbliche, con un suo proclama, le con cessioni
accordate. Il re promette il proclama per il giorno seguente. Ma
durante la notte tutte le truppe dei presidi vicini entrano a
Napoli. La Guardia nazionale si accorge di essere stata tradita;
innalza delle barricate, dietro le quali si schierano 5-6.000
uomini. Ma di fronte ad essi vi sono 20.000 soldati, in parte
napoletani, in parte svizzeri, con 18 cannoni: fra gli uni e gli
altri, per il momento neutrali, stanno i 20.000 lazzaroni di Napoli.
Il 15 mattina gli svizzeri dichiarano ancora che essi non avrebbero
attaccato il popolo. Ma in via Toledo un agente di polizia, che si
è mescolato al popolo, spara sui soldati; quasi
contemporaneamente il Forte di Sant'Elmo inalbera la bandiera rossa
e, a questo segnale, i soldati attaccano le barricate. Ha inizio
un'orribile carneficina; le Guardie nazionali sì difendono
eroicamente contro forze quattro volte superiori e contro i cannoni
dei soldati. Si combatte dalle 10 del mattino fino a mezzanotte;
nonostante la grande preponderanza della soldatesca il popolo
avrebbe vinto, se la condotta vergognosa dell'ammiraglio francese
Baudin non avesse deciso i lazzaroni a unirsi al partito del re.
L'ammiraglio Baudin si trovava di fronte a Napoli con una squadra
francese abbastanza forte. La semplice ma tempestiva minaccia di
bombardare il Castello ed i forti avrebbe costretto Ferdinando a
cedere. Ma Baudin, vecchio servitore di Luigi Filippo, abituato ai
tempi dell'entente cordiale4 in cui l'esistenza della flotta
francese era appena tollerata, se ne restò tranquillo, e
così decise i lazzaroni, che già stavano per
abbracciare la causa popolare, a schierarsi a fianco delle truppe.
Con questo atto del Lumpenproletariat napoletano, la disfatta della
rivoluzione era decisa. Guardie svizzere, soldati di linea
napoletani e lazzaroni si gettarono tutti insieme sui combattenti
delle barricate. I palazzi della via Toledo, spazzata dalla
mitraglia, rovinavano sotto le cannonate dei soldati; la banda
furibonda dei vincitori si riversa per le case, trafigge gli uomini,
infilza i bambini, violenta ed assassina le donne, saccheggia tutto
ed abbandona alle fiamme le abitazioni devastate. I lazzaroni si
dimostrarono qui i più rapaci, gli svizzeri i più
brutali. E’ impossibile descrivere le infamie e gli atti di barbarie
che hanno accompagnato la vittoria dei mercenari borbonici, quattro
volte più numerosi e meglio armati, e dei lazzaroni, che sono
stati sempre sanfedisti5, sulla Guardia nazionale di Napoli, che
è stata quasi sterminata.
Alla fine, è stato troppo perfino per l'ammiraglio Baudin.
Sempre nuovi fuggiaschi giungevano sulle sue navi, e raccontavano
quel che accadeva in città. Il sangue francese dei suoi
marinai ribolliva. E finalmente, quando la vittoria del re era
già decisa, egli pensò al bombardamento. A poco a poco
il macello cessò: non si assassinava più nelle strade,
ci si accontentava di rapine e di stupri; ma i prigionieri venivano
condotti nei forti e senz'altro fucilati. A mezzanotte tutto era
finito, il potere assoluto di Ferdinando era, di fatto, ristabilito,
e l'onore della casa di Borbone lavato nel sangue italiano.
Questa è la più recente prodezza della casa di
Borbone. E, come sempre, proprio gli svizzeri decìsero con le
loro armi le sorti della lotta a favore dei Borboni e contro il
popolo. Il 10 agosto 1792, il 29 luglio 1830, negli scontri di
Napoli del 18206 — dappertutto vediamo i nipoti di Tell e
Winckelried7 nel ruolo di lanzichenecchi, di mercenari di una
dinastia il cui nome è divenuto già da tempo in tutta
Europa sinonimo di monarchia assoluta. Ora, s'intende, questo
finirà presto. I cantoni più progressisti sono
riusciti, dopo lunghe controversie, ad ottenere il divieto delle
capitolazioni militari8; i figli gagliardi della libera, vecchia
Svizzera non potranno più calpestare le donne napoletane,
inebriarsi di rapine nelle città in rivolta e, in caso di
sconfitta, non verranno immortalati con l'effige dei leoni di
Thorvaldsen, come avvenne per i caduti del 10 agosto9.
La casa di Borbone può per il momento tirare di nuovo il
nato. La reazione, ricominciata dal 24 febbraio, non ha avuto in
nessun luogo una vittoria così decisiva come a Napoli; e
appunto da Napoli e dalla Sicilia era partita la prima delle
rivoluzioni di quest'anno. Ma il torrente rivoluzionario, che
è dilagato sulla vecchia Europa, non si lascia arginare da
complotti e colpi di Stato assolutisti. Con la controrivoluzione del
15 maggio, Ferdinando di Borbone ha posto la prima pietra della
Repubblica italiana. Già la Calabria è in fiamme, un
governo provvisorio è proclamato a Palermo; anche gli Abruzzi
insorgeranno, gli abitanti di tutte le esauste province marceranno
su Napoli e uniti al popolo della città, trarranno vendetta
del regal traditore e dei suoi brutali lanzichenecchi. E se
Ferdinando cadrà, egli avrà almeno la soddisfazione di
aver vissuto e di esser caduto da vero Borbone.
Note
2 Il titolo è dell’Istituto di marxismo-leninismo presso il
CC del PCUS.
3 Si tratta della rivoluzione di Palermo del 12 gennaio 1848 e della
cacciata dalla Sicilia delle truppe napoletane che nel 1848-1849
dette impulso ai moti rivoluzionari negli Stati italiani.
4 Entente cordiale (Intesa cordiale), l’accordo di collaborazione
nelle questioni internazionali stabilitosi tra Francia ed
Inghilterra all’inizio degli anni ‘30 del XIX secolo.
5 Sanfedisti, erano così chiamati i componenti dei reparti
terroristici creati dal potere pontificio all’inizio del XIX sec.
per lottare contro il movimento di liberazione nazionale in Italia.
6 Il 10 agosto 1792, giorno della fine della monarchia francese,
abbattuta dalla rivoluzione borghese della fine del XVIII sec.
Il 29 luglio 1880 fu abbattuta la dinastia dei Borboni.
Nel 1820 a Napoli divampò la rivoluzione carbonara repressa
dalle potenze della Santa Alleanza.
7 Guglielmo Tell e Arnold Winltelried, eroi leggendari svizzeri
sorti durante la guerra di liberazione contro gli Asburgo.
8 Si tratta degli accordi sulle milizie mercenarie stipulati dai
cantoni svizzeri con gli Stati europei dalla metà del sec. XV
fino alla metà del sec. XIX. Nel corso delle rivoluzioni
borghesi del XVIII-XIX sec, queste milizie furono uno strumento
della controrivoluzione monarchica.
9 Il monumento del Leone, opera di Thorvaldsen, fu eretto a Lucerna
per commemorare i mercenari svizzeri caduti il 10 agosto 1792
durante la difesa del palazzo reale di Parigi assalito dal popolo
insorto.
Scritto il 31 maggio 1848.
Pubblicato sulla Neue Rheinische Zeitung n. 1, 1° giugno 1848
F. Engels
II primo atto dell'Assemblea nazionale tedesca a Francoforte10
Colonia. L'Assemblea nazionale tedesca infine si è mossa! Ha
preso finalmente una decisione che ha un immediato effetto pratico:
si è ingerita nella guerra austro-italiana11.
E come lo ha fatto? Ha proclamato l'indipendenza dell'Italia? Ha
mandato un corriere a Vienna con l'ordine per Radetzky e Welden di
ritirarsi subito al di là dell'Isonzo? Ha inviato un
messaggio di congratulazioni al governo provvisorio milanese?12
Niente di tutto questo! Essa ha dichiarato che avrebbe considerato
ogni attacco contro Trieste come caso bellico. In altri termini
l'Assemblea nazionale tedesca, d'intesa cordiale con il Bundestag,
permette agli austriaci di perpetrare in Italia le più gravi
brutalità, di saccheggiare, uccidere, lanciare razzi
incendiari su ogni città e su ogni villaggio (vedi qui sotto
Italia) e di ritirarsi poi tranquillamente sul territorio neutrale
della Federazione tedesca!13 Essa permette agli austriaci di far
invadere ogni momento la Lombardia da croati e panduri14, che
partono dal suolo tedesco, ma vuole proibire agli italiani di
inseguire gli austriaci battuti fino al loro nascondiglio! Essa
permette agli austriaci di bloccare, partendo da Trieste, Venezia,
nonché le foci del Piave, del Brenta e del Tagliamento, ma
nega agli italiani ogni azione ostile contro Trieste!
L' Assemblea nazionale tedesca non poteva comportarsi più
vilmente di quanto abbia fatto con questa decisione. Le è
mancato il coraggio di sanzionare apertamente la guerra contro
l’Italia. Le è mancato ancor più il coraggio di
proibire al governo austriaco questa guerra. In tale situazione
imbarazzante essa prende — per giunta con grida di acclamazione, per
coprire col clamore la sua segreta paura — la decisione su Trieste,
la quale formalmente né approva né disapprova la
guerra contro la rivoluzione italiana, ma in sostanza l’approva.
Questa decisione rappresenta una dichiarazione di guerra all’Italia
ma una dichiarazione indiretta e perciò doppiamente
vergognosa per una nazione forte di quaranta milioni di anime come
quella tedesca.
La decisione dell’Assemblea di Francoforte provocherà
un’ondata di sdegno in tutta Italia. Se gli italiani possono ancora
dar prova di fierezza e di energia, devono rispondere bombardando
Trieste e facendo una marcia sul Brennero.
Note
10 Si tratta del parlamento pangermanico riunitosi a Francoforte nel
maggio 1848 per unificare il paese ed elaborare una Costituzione
pangermanica. L’Assemblea, composta prevalentemente di
rappresentanti della borghesia liberale, si trasformò in una
sede di puri verbalismi e non seppe adempiere i compiti prefissi. La
Costituzione imperiale, elaborata già negli anni della
reazione, non poté essere tradotta in atto, e l’Assemblea fu
sciolta nel giugno del 1849.
11 La guerra austro-italiana. Alla guerra di liberazione dell’Italia
dal dominio austriaco (marzo 1848 - agosto 1849) presero parte le
truppe del Piemonte, del Regno delle due Sicilie e di altri Stati
italiani. Per la pavida politica della casa Savoia, allarmata dallo
sviluppo del movimento rivoluzionario, la guerra finì con la
vittoria dell’Austria che conquistò così la Lombardia
e Venezia.
12 Il governo provvisorio di Milano si formò il 22
marzo 1848, quando, grazie alla vittoriosa rivolta popolare, le
truppe austriache furono scacciate dalla città. Vi entrarono
a far parte i rappresentanti della borghesia liberale con a capo G.
Casati.
13 La Federazione tedesca (1815-1867), unione di 35 principati (per
lo più tedeschi) e di quattro Libere Città. L’Unione,
in cui l’Austria esercitava una funzione preminente, non si poneva
l’obiettivo dell’unificazione politica ed economica del popolo
tedesco in quanto strumento della reazione. Il suo organo
rappresentativo
— la Dieta federale — non aveva nè armi nè denaro e le
sue disposizioni non erano obbligatorie per i governi degli Stati
membri.
14 Panduri, formazioni militari che prestavano servizio nell’ambito
dell’esercito austriaco come truppe irregolari di fanteria.
Scritto il 22 giugno 1848.
Pubblicato sulla Neue Ruteinische Zeitung n. 23, 23 giugno 1848
K. Marx
«La Concordia» di Torino15
Abbiamo recentemente ricordato che L’Alba, il giornale che si
pubblica a Firenze, ci ha fraternamente teso la mano al di sopra
delle Alpi16. C’era da aspettarsi che un altro giornale, La
Concordia di Torino, foglio di tendenza opposta, assumesse un
atteggiamento opposto, seppure non ostile. In uno dei suoi numeri
precedenti La Concordia diceva che la Neue Rheinische Zeitung prende
a cuore ogni partito, purché esso sia «oppresso».
A questa invenzione non molto intelligente essa è stata mossa
dal nostro giudizio sugli avvenimenti di Praga, dalla nostra
simpatia per il partito democratico nelle sue prese di posizione
contro i reazionari Windischgràtz e compagni. Nel frattempo,
forse, il giornale torinese si sarà fatte delle idee
più chiare sul cosìddetto movimento cèco.
Recentemente, tuttavia, La Concordia ha sentito ancora la
necessità di dedicare alla
Nuova Gazzetta Renana un articolo più o meno dottrinario.
Avevano letto nel nostro giornale il programma del Congresso operaio
convocato a Berlino17 e la lettura degli 8 punti che gli operai
devono discutere li ha seriamente preoccupati.
Dopo aver tradotto fedelmente e per intero gli otto punti, La
Concordia comunica una specie di critica con le parole seguenti:
in queste proposte di è molto di vero e di giusto, ma La
Concordia tradirebbe la sua missione, se non levasse la sua voce
contro gli errori dei socialisti.
Noi, per parte nostra, ci leviamo contro «l’errore» de
La Concordia, che consiste nel prendere per nostro il programma
stabilito dalla Commissione per il Congresso operaio, che noi non
abbiamo fatto altro che riprodurre. Comunque siamo pronti ad entrare
in discussione con La Concordia sui problemi dell’economia politica,
purché il suo programma offra qualcosa di più che non
delle banali frasi filantropiche e alcuni dogmi presi d’accatto dai
liberoscambisti.
Note
15 Non si sa ancora se attribuire l’articolo in questione a Marx
oppure a Engels
16 Nell’articolo di Engels Politica estera tedesca, pubblicato sulla
Neue Rheinische Zeitung il 3 luglio 1848, è riportato il
seguente brano della lettera redazionale de L’Alba: «Vi
ringraziamo di tutto cuore della stima alla quale voi tenete la
nostra povera Italia. Mentre vi assicuriamo che tutti gli italiani
sanno chi è che veramente lede e combatte la libertà,
che il loro mortale nemico non è il possente magnanimo popolo
tedesco, ma il suo governo dispotico, ingiusto e crudele; mentre vi
assicuriamo che ogni vero italiano sospira il momento in cui,
libero, potrà di nuovo tendere la mano al fratello tedesco,
che, una volta ristabiliti i suoi imprescittibili diritti,
saprà difenderli e rispettarli egli stesso, e farli
rispettare da tutti i suoi fratelli; mentre confermiamo la nostra
fiducia nei principi il cui sviluppo voi ponete per compito; ci
firmiamo con osservanza i vostri devoti amici e fratelli (firm.) L.
Alinari
Scritto il 23 luglio 1848.
Pubblicato su Neue Rheinische Zeitung n. 55, 25 luglio 1848
F Engels
La lotta di liberazione in Italia e la causa del suo attuale
insuccesso
Con la stessa rapidità con cui, nel marzo, furono cacciati
dalla Lombardia, gli austriaci sono ora tornati da trionfatori, e
già sono entrati a Milano.
Il popolo italiano non ha indietreggiato dinanzi a nessun
sacrificio. A prezzo del suo sangue e dei suoi averi esso era pronto
a condurre a termine l’opera iniziata e a conquistare con la lotta
la sua indipendenza nazionale.
Ma al suo coraggio, al suo entusiasmo, al suo spirito di sacrificio,
in nessun luogo hanno risposto coloro che detenevano il potere.
Apertamente o segretamente, essi hanno fatto di tutto, non per
mettere in opera i mezzi ad essi affidati per la liberazione dalla
brutale tirannia austriaca, ma per paralizzare la forza popolare e
per ripristinare in sostanza, il più presto possibile,
l’antico ordine di cose.
Il papa, [ndr Pio IX] giorno per giorno sempre più lavorato e
conquistato dalla politica austro-gesuitica, ha posto ogni sorta di
ostacoli sulla via del ministero Mamiani, tutti gli ostacoli di cui
dispone per i suoi legami coi «neri» e coi
«giallo-neri»18 Quanto al ministero stesso, esso
pronunciava grandi discorsi patriottici di fronte alle due Camere,
ma non aveva l’energia necessaria per tradurre in atto le sue buone
intenzioni.
In Toscana, il governo si è presentato con belle parole, ma
con ancora più scarsi fatti. Ma tra i principi nazionali, il
nemico principale della libertà italiana è stato ed
è Carlo Alberto. Gli italiani avrebbero dovuto ad ogni ora
ripetere e osservare il detto: «Dagli amici mi guardi Iddio,
ché dai nemici mi guardo io!». Di Ferdinando di Borbone
non c’era da avere gran paura: da molto tempo egli era ormai
smascherato. Carlo Alberto, invece, si faceva osannare come
«la spada d’Italia », come l’eroe il cui brando avrebbe
rappresentato la più sicura garanzia (Iella libertà e
dell’indipendenza d’Italia.
I suoi emissari sciamavano per tutta l’Italia settentrionale e lo
dipingevano come l’unico uomo che avrebbe potuto salvare e che
avrebbe effettivamente salvato la patria. Ma perché
ciò divenga possibile — essi dicevano — è necessaria
la formazione di un regno dell’Italia settentrionale. Solo in tal
modo egli disporrebbe del potere necessario non sol tanto per
resistere all’Austria, ma anche per cacciarla fuori dall’Italia.
L’ambizione, che aveva spinto Carlo Alberto ad allearsi coi
carbonari19 che poi aveva traditi, questa ambizione si era ora
più che mai risvegliata in lui e gli faceva sognare
un’ampiezza di poteri e una gloria di fronte alle quali sarebbe ben
presto impallidito lo splendore di tutti gli altri principi
italiani. Tutto il movimento popolare del l’anno 1848, egli credeva
di poterlo confiscare a beneficio della sua miseranda persona. Pieno
di odio e di diffidenza contro tutti gli uomini veramente liberali,
si circondava di persone più o meno devote all’assolutismo e
inclini a favorire la sua ambizione di re. Alla testa dell’esercito
pose dei generali di cui non doveva temere la superiorità
intellettuale o le opinioni politiche, ma che non godevano la
fiducia dei soldati e non possedevano il talento necessario a
condurre felicemente a termine la guerra. Egli si faceva chiamare
pomposamente il «liberatore» d’Italia mentre a quegli
stessi che avrebbe dovuto liberare imponeva, come condizione, il suo
giogo. Le circostanze gli erano favorevoli come raramente avviene a
un uomo. La sua cupidigia, la sua brama di aver molto e,
possibilmente, tutto, gli ha fatto infine perdere anche ciò
che già aveva conquistato. Finché l’annessione della
Lombardia al Piemonte non fu completamente decisa, finché
durò la possibilità di una forma di governo
repubblicana, egli restò, nei suoi campi trincerati, immobile
di fronte agli austriaci, per quanto essi fossero allora
relativamente deboli. Egli lasciò Radetzky, d’Aspre, Welden,
ecc. conquistare una città e una fortezza dopo l’altra nelle
province venete: non si mosse. Venezia gli parve meritevole del suo
aiuto solo quando si rifugiò sotto la sua corona. Lo stesso
avvenne per Parma e Modena. Intanto Radetzky si era rafforzato e, di
fronte all’incapacità e alla cecità di Carlo Alberto e
dei suoi generali, aveva potuto prendere tutte le misure necessarie
per l’attacco e per la vittoria decisiva. L’esito è noto.
D’ora in poi gli italiani non possono porre e non porranno
più la loro liberazione nelle mani di un principe o di un re;
per la loro salvezza essi devono anzi, al più presto, mettere
da parte come inservibile questa « spada d’Italia». Se
l’avessero fatto prima, se avessero messo a riposo il re e il suo
regime assieme con tutti i suoi seguaci, e avessero realizzato
un’unione democratica, oggi probabilmente non vi sarebbero
più austriaci in Italia. Così invece hanno soltanto
sofferto per nulla tutti gli orrori di una guerra condotta dai loro
nemici con barbaro furore; non soltanto hanno affrontato invano i
più duri sacrifici, ma si trovano anche abbandonati senza
protezione alla sete di vendetta degli uomini della reazione
austro-metternichiana e delle loro soldatesche. Chi legge i
manifesti indirizzati da Radetzky agli abitanti della Lombardia, da
Welden alla popolazione delle Legazioni romane, comprenderà
che Attila con le sue schiere di unni deve ora apparire agli
italiani come un angelo di misericordia. La reazione e la
restaurazione è completa. Il duca di Modena soprannominato
« l carnefice», che aveva anticipato agli austriaci
1.200.000 fiorini per la guerra, torna anche lui. I popoli si sono
scavata tante volte la fossa con la loro ingenuità, che
debbono ormai rinsavire e imparare un po’ dai loro nemici. I
modenesi lasciarono che se ne andasse tranquillamente quel duca che
durante il suo governo ave va fatto incarcerare, impiccare e
fucilare migliaia di persone per le loro tendenze politiche. In
contraccambio ora lo vedono tornare per esercitare con raddoppiata
libidine il Suo sanguinano ufficio di principe.
La reazione e la restaurazione è completa. Ma è solo
provvisoria. Lo spirito rivoluzionario è troppo profonda
mente penetrato nel popolo, perché esso possa esser domato a
lungo. Milano, Brescia ed altre città hanno mostrato nel
marzo20 di che cosa sia capace questo spirito. L’eccesso dei mali
condurrà ad una nuova sollevazione. Profittando delle amare
esperienze degli ultimi mesi, l’Italia saprà evitare nuove
illusioni ed assicurare la sua indipendenza sotto la bandiera
unitaria democratica.
Note
17 Il Congresso operaio (Berlino, 23 agosto - 3 settembre 1848) fu
convocato per iniziativa di alcune organizzazioni operaie. Il suo
programma, pubblicato senza commento in una corrispondenza da
Berlino sulla Neue Rheinische Zeitung, avanzava rivendicazioni
corporativistiche che nella pratica distoglievano gli operai dalla
lotta rivoluzionaria.
18 I neri vuoI dire gesuiti; il nero e il giallo sono i colori della
bandiera austriaca.
19 Si veda la nota 6.
20 Nel marzo 1848 in molte città italiane scoppiarono
insurrezioni rivoluzionarie popolari. A Milano e a Brescia si
conclusero con la capitolazione e la cacciata delle truppe
austriache.
Scritto l’11 agosto 1848.
Pubblicato sulla Neue Rheinische Zeitung n. 73, 12 agosto 1848
F. Engels
La «Kölnische Zeitung» sull’Italia
Siamo stati condannati ieri a sentire un letterato, il signor
Wilhelm Jordan di Berlino, sputar sentenze politiche dal punto di
vista della storia universale. Il destino ci perseguita implacabile.
Oggi ci tocca la stessa sorte: la principale conquista del marzo
consiste nel fatto che i letterati hanno preso in appalto la
politica.
Il signor Levin Schϋcking di Miinster, la quarta o quinta ruota del
carro pubblicitario del signor Dumont, ha pubblicato nella
Kölnische Zeitung un articolo su «la nostra politica in
Italia».
E che dice «il mio amico Levin dagli occhi di
fantasma21»?
Nessun momento è stato mai, per la Germania, più
propizio dell’attuale per fissare la sua politica nei confronti
dell’Italia su di una base sana, che dia la speranza di durare per
secoli. Noi abbiamo gloriosamente [! Grazie al tradimento di Carlo
Alberto] lavato l’onta di cui le nostre bandiere erano state
macchiate da un popolo che, nella fortuna facilmente diviene
tracotante; alla testa di un esercito insuperabile, ammirevole non
soltanto nella vittoria e nella battaglia, ma anche nella pazienza e
nella tenacia, il Barbabianca ha piantato la gloriosa [! ?] aquila
bicipite della Germania sulle mura della città insorta, la
stesso dove, più di seicento anni or sono, l’imperiale
Barbarossa fece sventolare questa medesima bandiera, come simbolo
della sovranità della Germania sull’Italia. Questa
sovranità ancor oggi ci appartiene.
Così parla il signor Levin Schücking della
Kölnische Zeitung.
Quando i croati e i panduri di Radetzky, dopo una lotta durata
cinque giorni, furono cacciati da Milano da un popolo inerme; quando
«l’ammirevole esercito», rotto a Goito, si ritirava su
Verona, allora la musa politica del «mio amico Levin dagli
occhi di fantasma» taceva! Ma quando grazie al tradimento vile
quanto maldestro di Carlo Alberto — tradimento che noi abbiamo cento
volte predetto — l’esercito austriaco, rafforzato, ha ottenuto una
immediata vittoria, da allora i pubblicisti della vicina Germania
fanno la loro ricomparsa, tuonano che «l’onta è stata
lavata», arrischiano dei paralleli fra Federico Barbarossa e
Radetzky Barba- bianca; da allora l’eroica Milano, che ha fatto la
rivoluzione più gloriosa del 1848, è divenuta
semplicemente una «città insorta»; da allora a
noi tedeschi, cui, non è mai appartenute nulla, appartiene la
«sovranità sull’Italia»!
«Le nostre bandiere»! Gli stracci gialli e neri della
reazione metternichiana, che vengono calpestati a Vienna, queste
sono le bandiere del signor Schücking della Kölnische
Zeitung!
«La gloriosa aquila bicipite della Germania»! Questo
mostro araldico, al quale a Jemappes, a Fleurus, a Millesimo, a
Rivoli, a Neuwied, a Marengo, a Hohenlinden, a Uhlm, ad Austerlitz,
a Wagram22 la rivoluzione armata ha strappato le penne, questo
è il «glorioso» cerbero del signor Schücking
della Kölnische Zeitung .
Quando gli austriaci venivano battuti, essi erano degli austriaci
che seguivano l’esempio della Sonderbund23 quasi quasi dei traditori
della patria; da quando Carlo Alberto è caduto nella
trappola, da quando gli austriaci sono tornati al Ticino, essi sono
divenuti «tedeschi», siamo «noi» che abbiamo
compiuto tutte queste gesta. Noi non abbiamo nulla in contrario a
che la Kölnische Zeitung pensi di aver vinto le battaglie di
Volta e di Custoza e di aver conquistato Milano24 ma allora essa si
assume la responsabilità di tutti i misfatti e le infamie ben
note di quell’esercito di barbari «ammirevole nella pazienza e
nella tenacia», così come a suo tempo essa si è
assunta la responsabilità dei massacri di Galizia.
Questa sovranità ancora oggi ci appartiene. L’Italia e la
Germania sono nazioni che la natura e la storia hanno legato
assieme, che sono provvidenzialmente destinate a stare unite, che
sono apparentate come la scienza e l’arte, come il pensiero e il
sentimento, come il signor Brüggemann ed il signor
Schücking l
E proprio per questo, da duemila anni, tedeschi e italiani si sono
sempre combattuti, proprio per questo gli italiani hanno ogni volta
scosso il giogo tedesco, proprio per questo il sangue tedesco ha
tante volte arrossato le strade di Milano, per dimostrare che la
Germania e l’Italia «sono provvidenzialmente destinate a stare
unite»!
Proprio perché l’Italia e la Germania «sono
apparentate» Radetzky e Welden hanno fatto bombardare,
incendiare, saccheggiare tutte le città del Veneto!
Il mio amico Levin dagli occhi di fantasma chiede ora che noi
abbandoniamo la Lombardia fino all’Adige, perché il popolo
non ci vuole, anche se alcuni poveri «cittadini »
(così dice l’erudito signor Schücking invece di
contadini) hanno accolto con gioia gli austriaci. Ma se noi ci
comportiamo da «popolo libero», «allora esso ci
offrirà volentieri la mano, per lasciarsi condurre da noi
sulla via che da solo non può percorrere, sulla via della
libertà
Ma davvero! L’Italia, che si è conquistata la libertà
di stampa, i giurati, la Costituzione, prima che la Germania si
risvegliasse dal suo più pigro sonno; l’Italia, che a Palermo
ha combattuto la prima rivoluzione di quest’anno25 l’Italia,
che senz’armi ha vinto a Milano gli
«insuperabili» austriaci, l’Italia non può
percorrere il cammino della libertà senza essere guidata per
mano dalla Germania, cioè da un Radetzky! Certo questo
è vero, se a percorrere il cammino della libertà sono
necessarie un’Assemblea di Francoforte, un potere centrale
insignificante, lo spezzettamento in 89 staterelli e la
Kölnische Zeitung.
Ma basta. Perché gli italiani si lascino «guidare alla
libertà» dai tedeschi, il signor Schücking tiene
il Tirolo italiano e il Veneto, per darlo in feudo a un arciduca
austriaco, e manda «2.000 soldati imperiali della Germania
meridionale per far sì che il vicario di Cristo abbia la pace
nella sua casa».
Ma, ahimè
Ai russi e ai francesi appartiene la terra, Il mare appartiene ai
britanni;
Ma noi possediamo nel regno aereo dei sogni Un dominio incontestato.
Là esercitiamo l’egemonia, Là non siamo spezzettati;
Gli altri popoli invece si sono sviluppati nel basso mondo26
E lassù, nel regno aereo dei sogni, ci appartiene anche
«la sovranità sull’Italia». Nessuno lo sa meglio
del signor Schücking. Dopo aver sviluppato questa bella
politica della sovranità, a vantaggio e a edificazione del
Reich tedesco, egli conclude sospirando:
Una tale politica grande, magnanima, degna di una potenza quale
è il Reich tedesco, è stata sempre, purtroppo,
considerata da noi come fantastica, e così seguiterà
probabilmente ad essere considerata per lungo tempo ancora!
Noi raccomandiamo che il Sig. Schücking venga posto sullo
Stelvio come custode e sentinella dell’onore tedesco. Da
lassù il bellicoso corsivista della Kölnische Zeitung
terrà d’occhio l’Italia e
vigilerà affinché nessun
titolo, per quanto piccolo,
comprovante la
«sovranità della Germania sull’Italia» vada
perduto: solo allora la Germania potrà dormire tranquilla.
Note
21 Dalla poesia La Rosa del poeta rivoluzionario tedesco F.
Freiligrath (1810-1876).
22 Qui vengono elencate le battaglie tra austriaci e francesi
durante la rivoluzione francese e il periodo del Direttorio, del
Consolato e dell’impero, in cui l’esercito austriaco fu sconfitto, e
cioè: Jemappes (6 novembre 1792), Fleurus. (26 giugno 1794),
Millesimo (13-14 aprile 1796), Rivoli (14-15 gennaio 1797), Neuwied
(18
aprile 1797), Marengo (14 giugno
1800), Hohenlinden (3 dicembre 1800),
UhIm (17 ottobre 1805), e
Wagram (5-6 luglio 1809) (si vedano pure le note 63, 64, 66, 69).
23 Sonderbund, lega separatista dei sette cantoni cattolici svizzeri
economicamente arretrati costituitasi nel 1843. L’unione di questi
cantoni cattolici aveva lo scopo di opporsi alle trasformazioni
progressiste borghesi e di difendere i privilegi della Chiesa e dei
gesuiti. Nel luglio 1847 la Dieta deliberò lo scioglimento
della Sonderbund, il che servi di pretesto per cominciare, ai primi
di novembre, le ostilità contro gli altri cantoni. Il 23
novembre 1847 le truppe della Sonderbund furono sbaragliate
dall’esercito dei governo federale.
24 Volta e Custoza, due località dell’Italia settentrionale
presso le quali l’esercito austriaco guidato da Radetzky sconfisse
quello piemontese il 25 e il 26-27 luglio 1848, dopodiché, il
6 agosto, poté occupare Milano.
25 Si veda la nota 3.
26 Citazione da H. Heine, Germania. Una fiaba invernale, cap VII.
Scritto il 26 agosto 1848.
Pubblicato sulla Neue Rheinische Zeitung n. 87, 27 agosto 1848
K. Marx
Da: Il movimento rivoluzionario in Italia
Finalmente, dopo sei mesi di sconfitte quasi ininterrotte della
democrazia, dopo una serie dei più inauditi trionfi della
controrivoluzione, finalmente appaiono di nuovo i sin tomi di una
prossima vittoria del partito rivoluzionario, L’Italia, il paese la
cui sollevazione ha costituito il prologo della sollevazione europea
deI 1848, la cui caduta è stata il prologo della caduta di
Vienna, l’Italia si solleva per la seconda volta. La Toscana ha
ottenuto un ministero democratico, e Roma si è ora
conquistato il suo.
Londra, 10 aprile; Parigi, 15 maggio e 25 giugno; Milano, 6 agosto;
Vienna, 1° novembre27 queste sono le quattro grandi date della
controrivoluzione europea, le quattro pietre miliari che segnano le
tappe percorse nella sua ultima marcia trionfale...
Il gran colpo successivo fu la caduta di Milano. La riconquista di
Milano da parte di Radetzky costituisce di fatto il primo grande
avvenimento europeo dopo la vittoria di giugno a Parigi. L’aquila
bicipite sulla guglia del Duomo di Milano significava non soltanto
la caduta dell’Italia intera, ma anche la resurrezione del centro di
gravità della controrivoluzione europea, la resurrezione
dell’Austria. L’Italia battuta e l’Austria risorta: che poteva
pretendere di più la controrivoluzione? E di fatto, con la
caduta di Milano l’energia rivoluzionaria si infiacchì
momentaneamente.
Mamiani cadeva a Roma, e i democratici venivano battuti in Piemonte;
e al tempo stesso il partito reazionario risollevava il capo in
Austria, e dal suo centro, dal quartiere generale di Radetzky,
ricominciava con rinnovato ardire a tessere i suoi fili in tutte le
province. Solo ora Jellachich prende l’offensiva, solo ora si
realizza in pieno la grande alleanza della controrivoluzione con gli
slavi dell’Impero austriaco.
Dei piccoli intermezzi, nei quali la controrivoluzione ottenne
vittorie locali e conquistò singole province, della batosta
di Francoforte, ecc., non voglio qui parlare. Tali fatti hanno una
importanza locale, forse nazionale, non europea.
Finalmente, il 10 novembre fu compiuta l’opera, cominciata nella
giornata di Custoza28 come Radetzky era entrato a Milano,
Windischgrätz e Jellachich entravano a Vienna. Il metodo di
Cavaignac è stato applicato, e con successo29 al focolaio
più importante e più attivo della rivoluzione tedesca:
a Vienna come a Parigi la rivoluzione è stata soffocata nel
sangue e nelle macerie fumanti.
Ma sembra quasi che la vittoria del 1° novembre debba segnare al
contempo il punto in cui il moto a ritroso si inverte, in cui
subentra una crisi. Un tentativo di ripetere in Prussia, punto per
punto, le prodezze di Vienna, è fallito; nel caso più
favorevole, anche se il paese dovesse lasciar cadere l’Assemblea
costituente, la Corona può aspettarsi solo una mezza
vittoria, non decisiva; in ogni caso la prima scoraggiante
impressione della sconfitta di Vienna è spezzata, spezzata
dal grossolano tentativo di copiarla in ogni dettaglio.
E mentre il nord dell’Europa è già ripiombato nella
servitù del 1847, o difende faticosamente dalla
controrivoluzione le conquiste dei primi mesi, l’Italia di nuovo
improvvisamente si solleva. Livorno, la sola città italiana
che dalla caduta di Milano è stata spronata ad una vittoriosa
rivoluzione, Livorno ha finalmente comunicato il suo slancio
democratico a tutta la Toscana, ha imposto un ministero decisamente
democratico, più decisamente democratico di quel che non si
sia mai avuto con una monarchia, e così decisamente
democratico quale solo pochi se ne sono avuti con una qualsiasi
repubblica; un ministero che, alla caduta di Vienna e al
ristabilimento dell’Impero austriaco, risponde con la proclamazione
dell’Assemblea costituente italiana. E l’incendio rivoluzionario,
che questo ministero democratico ha acceso tra il popolo italiano,
ha attecchito: a Roma il popolo, la Guardia nazionale e l’esercito
sono insorti come un sol uomo, hanno abbattuto il ministero
esitante, controrivoluzionario, hanno conquistato un ministero
democratico. La prima rivendicazione soddisfatta è quella di
un governo fondato sul principio della nazionalità italiana,
cioè la partecipazione alla Costituente italiana proposta da
Guerrazzi.
Che il Piemonte e la Sicilia seguiranno è fuor di dubbio.
Essi seguiranno come han seguito l’anno scorso.
Ed ora? Segnerà questa seconda resurrezione dell’Italia, nel
termine di tre anni, come è avvenuto per la precedente,
l’alba di un nuovo slancio della democrazia europea? Sembra quasi
che debba essere così.
Note
27 Il 10 aprile 1818, in seguito all’intervento delle truppe e dei constable speciali, a Londra
fallì la manifestazione dei cartisti con la quale si
intendeva di presentare al parlamento la terza petizione per
l’approvazione della Carta popolare.
Il 15 maggio 1848 con l’aiuto della guardia nazionale borghese fu
repressa l’azione rivoluzionaria degli operai di Parigi.
Il 25 giugno 1848 fu affogata nel sangue l’insurrezione del
proletariato parigino, la prima grande battaglia tra
proletariato e borghesia.
Il 6 agosto 1848 l’esercito austriaco occupò Milano.
Il 1 novembre 1848 le truppe austriache entrarono a Vienna e
repressero la rivolta rivoluzionaria.
28 Si veda la nota 24.
29 Si veda la nota 27.
Scritto il 29 novembre 1848.
Pubblicato sulla Neue Rheinische Zeitung n. 156, 30 novembre 1848
F. Engels
Da : La guerra in Italia e Ungheria
La guerra in Italia è incominciata.30 Con questa guerra la
monarchia asburga si è addossata un fardello sotto il qua le
probabilmente soccomberà.
Fino a quando l’Ungheria non è stata in guerra aperta contro
l’intera monarchia, ma svolgeva soltanto episodiche operazioni
militari contro gli slavi meridionali, per l’Austria non era tanto
difficile cavarsela con gli italiani, solo a metà interessati
alla rivoluzione, sparpagliati, paralizzati dal triplice tradimento
dei loro principi. E tuttavia quale fatica è costata questa
vittoria! Dapprima bisognava che il papa [Pio IX] e il granduca di
Toscana ritirassero — direttamente o indirettamente — le loro truppe
dal Veneto; dapprima bisognava che Carlo Alberto e i suoi capitani,
in parte incapaci, in parte venduti, tradissero apertamente la causa
dell’Italia; ma soprattutto bisognava, mediante una politica perfida
e apparenti concessioni, che ora i magiari, ora gli slavi
meridionali fossero costretti ad inviare proprie truppe in Italia,
prima che Radetzky potesse riportare la sua vittoria sul Mincio. Si
sa che soltanto i reggimenti di frontiera degli slavi meridionali,
introdotti in massa in Italia, hanno posto di nuovo in condizioni di
combattere il disorganizzato esercito austriaco.
Poi, fino a quando durava l’armistizio con il Piemonte, fino a
quando doveva soltanto mantenere la precedente consistenza numerica
del suo esercito in Italia, senza doverlo rafforzare in modo
eccezionale, l’Austria poteva dirigere il grosso dei suoi 600.000
soldati contro l’Ungheria, poteva respingere continuamente i magiari
da una posizione al l’altra e poteva anche riuscire, grazie ai
rinforzi che arriva vano quotidianamente, a sconfiggere infine le
forze armate magiare. A lungo andare Kossuth, così come
Napoleone, non avrebbe potuto resistere a una tale
superiorità di forze.
Ma la guerra in Italia cambia molto lo stato delle cose. Dal momento
in cui divenne certa la cessazione dell’armistizio, l’Austria fu
costretta a raddoppiare il quantitativo di truppe inviate in Italia,
dovette dividere le sue reclute appena chiamate alle anni fra
Windischgrätz e Radetzky. In tal modo,
è da supporre che nessuno di loro
possa ricevere rinforzi sufficienti.
Mentre per i magiari e per gli italiani si tratta solo di guadagnar
tempo — il tempo necessario a procurarsi e fabbricare le armi, il
tempo per fare della milizia territoriale e delle guardie nazionali
soldati pronti all’attivo servizio di guerra, il tempo per
rivoluzionare il paese — l’Austria, invece, ogni giorno che passa si
indebolisce sempre più rispetto ai suoi avversari.
Mentre Roma, la Toscana e lo stesso Piemonte a causa della guerra
vengono coinvolti sempre più nella rivoluzione e ogni giorno
sono costretti a dar prova di sempre maggiore energia
rivoluzionaria, mentre essi possono attendere la crisi che si
avvicina a grandi passi in Francia, in Austria ogni giorno guadagna
sempre più terreno e ogni giorno si organizza sempre meglio
il terzo elemento disorganizzante: l’opposizione slava..
…….Rivolgiamoci ora al teatro di guerra italiano. Qui l’esercito
piemontese si è attestato su un grande arco lungo il Ticino e
il Po. La sua prima linea si stende da Arona attraverso Novara,
Vigevano, Voghera a Castel San Giovanni davanti a Piacenza. Le
truppe di riserva stanno a qualche miglio indietro sul Sesia e sul
Bormida nei pressi di Vercelli, Trino e Alessandria. All’estremo
fianco destro, nei pressi di Sarzana al confine tosco-modenese, sta
un corpo d’armata distaccato al comando di La Marmora, pronto ad
aprirsi un varco attraverso i passi della Lunigiana verso Parma e
Modena, per unirsi sulla sinistra al fianco destro dell’esercito
principale e sulla destra agli eserciti toscano e romano, per
attraversare a seconda delle circostanze il Po e l’Adige e operare
nel Veneto.
Dirimpetto, sulla riva sinistra del Ticino e del Po sta Radetzky.
Come è noto, il suo esercito è diviso in due corpi
d’armata, uno dei quali occupa la Lombardia, l’altro il Veneto.
Mentre nel Veneto non si registra alcuno spostamento di truppe, si
sente dire da ogni parte che Radetzky in Lombardia concentra tutto
il suo esercito sul Ticino. Egli ha ritirato tutte le sue truppe da
Parma e a Modena ha lasciato solo alcune centinaia di soldati nella
cittadella. Varese, Como, la Val d’Intelvi e la Valtellina sono
completamente libere dalle truppe e sono scomparse persino le
guardie doganali.
Tutte le forze di cui dispone Radetzky, in tutto 50.000 uomini, sono
schierate lungo il Ticino da Magenta a Pavia e lungo il Po da Pavia
a Piacenza.
Si dice che Radetzky avesse un piano molto spavaldo: attraversare
subito con questo esercito il Ticino e marciare direttamente su
Torino, sfruttando l’inevitabile smarrimento
degli italiani. Bisogna ricordare che già l’anno scorso
Radetzky ha avuto più di una volta simili brame napoleoni che
e che già allora esse gli sono costate caro. Questa volta
però al suo piano si è opposto tutto il consiglio di
guerra ed è stato deciso di ripiegare, senza dare una
battaglia decisiva, verso l’Adda, l’Oglio e in caso di
necessità persino verso il Chiese per ricevere là
rinforzi dal Veneto e dall’Illiria.
Dipenderà dalla capacità di manovra dei piemontesi e
dall’ardore bellico dei lombardi, se gli austriaci riusciranno a
compiere questo ripiegamento senza perdite e se essi riusciranno a
fermare per molto tempo i piemontesi. Il pendio meridionale delle
Alpi, cioè il Comasco, la Brianza, il Bergamasco, la
Valtellina e il Bresciano, ora per la maggior parte abbandonati
dagli austriaci, è adattissimo alla guerra partigiana
nazionale. Gli austriaci concentrati in pianura, devono abbandonare
le montagne. Qui sull’ala destra austriaca, i piemontesi, dopo una
rapida avanzata delle loro truppe leggere, possono organizzare in
breve tempo la guerriglia per minacciare i fianchi dei reparti
austriaci e, in caso di disfatta di un corpo d’armata, la ritirata
stessa delle truppe imperiali, per tagliare i rifornimenti ed
estendere l’insurrezione fino alle Alpi Tridentine. Garibaldi
sarebbe qui al posto giusto. Ma non gli verrà in mente di
servire ancora una volta sotto il traditore Carlo Alberto31.
L’esercito tosco-romano, appoggiato da La Marmora, dovrà
occupare la linea del Po da Piacenza a Ferrara, attraversare il
più presto possibile il Po e poi l’Adige, separare Radetzky
dal corpo d’armata austro-veneziano e operare al suo fianco sinistro
o possibilmente nelle sue retrovie. Difficilmente esso
arriverà con sufficiente rapidità per influire sulle
prime operazioni di guerra.
Ma è soprattutto il comportamento dei piemontesi che decide
tutto. Il loro esercito è buono e dotato di spirito
combattivo, ma, se sarà tradito di nuovo come l’anno scorso,
esso sarà inevitabilmente battuto. I lombardi chiedono le
armi per battersi contro gli oppressori; ma se un oscillante governo
borghese paralizzerà di nuovo, come l’anno scorso,
l’insurrezione di massa, Radetzky potrà fare ancora una volta
il suo ingresso a Milano.
Contro il tradimento e la pusillanimità del governo
c’è un solo rimedio: la rivoluzione. E probabilmente saranno
necessari proprio un nuovo tradimento di Carlo Alberto, un nuovo
atto di infedeltà della nobiltà e della borghesia
lombarde per fare fino in fondo la rivoluzione italiana e insieme ad
essa la guerra di liberazione italiana. Ma allora guai ai traditori!
Note
30 Il 12 marzo 1849 Carlo Alberto, re di Sardegna, ruppe
l’armistizio del 9 agosto 1848 con l’Austria. Il 20 marzo ripresero
le ostilità. Il 23 marzo, però, l’esercito piemontese
si vide già sconfitto. Carlo Alberto abdicò. Il 26
marzo, Vittorio Emanuele II nuovo re di Sardegna, concluse
l’armistizio, e quindi (il 6 agosto) la pace con gli austriaci.
31 Nell’estate 1848, durante la rivoluzione nell’Italia
settentrionale, Garibaldi aveva offerto suo aiuto a Carlo Alberto.
Ma abbandonati a se stessi dal comando piemontese, i garibaldini
furono costretti a combattere da soli contro gli austriaci.
Sconfitti, si ritirarono in Svizzera.
Scritto il 27 marzo 1849.
Pubblicato sulla Neue Rheinische Zeitung n. 257, 28 marzo 1849
F Engels
La sconfitta dei piemontesi
I
Il tradimento di Ramorino ha dato i suoi frutti. L’esercito
piemontese è stato completamente sconfitto presso
Novara e respinto verso Borgomanero, ai piedi delle Alpi. Gli
austriaci hanno occupato Novara, Vercelli e Trino e la via di Torino
è loro aperta.
Mancano per ora informazioni più precise. È
però fin da ora accertato che senza Ramorino, che ha permesso
agli austriaci d’incunearsi fra le divisioni piemontesi, e di
isolarne così una parte, la vittoria sarebbe stata
impossibile.
Che anche Carlo Alberto abbia tradito è ormai indubitabile.
Se lo ha fatto soltanto per mezzo di Ramorino o anche in altro modo,
non potremo saperlo che più tardi.
Ramorino è quello stesso avventuriero che, dopo una carriera
più che equivoca durante la guerra polacca del 1830-31,
scomparve con la cassa durante la spedizione di Savoia32 del
1834, proprio il giorno in cui la cosa diventava seria. È lo
stesso che più tardi a Londra vendette all’ex duca di
Brunswick un piano di conquista della Germania per 1.200 sterline.
Il solo fatto che si sia ricorsi a un simile cavaliere d’industria
dimostra fino a che punto Carlo Alberto, che temeva i repubblicani
di Genova e di Torino più degli austriaci, meditasse fin da
principio il tradimento.
Che dopo questa disfatta ci si aspetti la rivoluzione e la
proclamazione della repubblica a Torino, si vede dal fatto che si
cerca di provvedere e di evitarla con l’abdicazione di Carlo Alberto
in favore del suo primogenito.
La disfatta dei piemontesi conta più di tutte le farse
imperiali tedesche messe insieme. È la disfatta di tutta la
rivoluzione italiana. Dopo la sconfitta del Piemonte, è la
volta di Roma e di Firenze.
Ma se tutti gli indizi non ci ingannano, è appunto questa
disfatta della rivoluzione italiana che sarà il segnale dello
scoppio della rivoluzione europea…..
…….. La sconfitta degli italiani è amara. Nessun popolo,
eccettuato il polacco, è stato così vergognosamente
oppresso dalla tirannia di vicini più potenti, nessuno ha
cercato così spesso e così coraggiosamente di scuotere
il proprio giogo. E ogni volta questo popolo infelice ha dovuto
soccombere di fronte ai suoi oppressori. Il risultato di tutti gli
sforzi, di tutte le lotte, è solo una nuova sconfitta. Ma se
questa sconfitta ha come conseguenza una rivoluzione a Parigi e fa
scoppiare una guerra europea i cui sintomi s’intravedono
dappertutto; se dà impulso a un nuovo movimento su tutto il
Continente, movimento che, questa volta, avrà ben altro
carattere che quello dell’anno scorso, allora gli italiani stessi
avranno motivo di rallegrarsene.
II
Secondo le ultime notizie provenienti dall’Italia, la sconfitta dei
piemontesi presso Novara non è affatto così decisiva
come affermava il telegramma spedito a Parigi.
I piemontesi sono battuti, tagliati fuori da Torino e ricacciati
sulle montagne. Questo è tutto.
Se il Piemonte fosse una repubblica, se il governo di Torino fosse
rivoluzionario e avesse il coraggio di usare i mezzi rivoluzionari
nulla sarebbe perduto. Ma l’indipendenza italiana sta per esser
perduta, e non per l’invincibilità del le armi austriache, ma
per la codardia della monarchia piemontese.
Perché gli austriaci hanno vinto? Perché
il tradimento di Ramorino ha separato due divisioni dell’esercito
piemontese dalle altre tre e perché queste tre divisioni
isolate sono state battute dalla superiorità numerica degli
austriaci Le tre divisioni sono ora ricacciate ai piedi delle Alpi
Pennine.
I piemontesi commisero fin dall’inizio un gravissimo errore
contrapponendo agli austriaci soltanto un esercito regolare e
volendo condurre una delle solite, honnêtes guerre borghesi.
Un popolo che vuole conquistare la sua indipendenza non deve
limitarsi ai soliti mezzi di guerra. Sollevazione in massa, guerra
rivoluzionaria, guerriglia dappertutto, ecco l’unico mezzo con cui
un piccolo popolo può vincere uno grande, e un esercito meno
forte resistere contro un esercito più forte e meglio
organizzato.
Gli spagnuoli ne hanno fatto l’esperienza fra il 1807 e il 1812 33,
e gli ungheresi la stanno facendo oggi.
Chrzanowski era stato battuto presso Novara e tagliato fuori da
Torino, Radetzky era a 9 miglia da Torino. Per una
monarchia come il Piemonte, anche se monarchia costituzionale, le
sorti della campagna erano così decise. La pace fu chiesta a
Radetzky. Ma in una repubblica ciò non avrebbe deciso niente.
Se la vigliaccheria inevitabile delle monarchie, che non hanno mai
il coraggio di ricorrere ai mezzi rivoluzionari estremi, se questa
vigliaccheria non l’avesse trattenuto, la sconfitta di Chrzanowski
sarebbe potuta diventare una fortuna per l’Italia.
Se il Piemonte fosse una repubblica, scevra di riguardi per le
tradizioni monarchiche, avrebbe dinnanzi a sé una via aperta
per concludere la campagna in ben altro modo.
Chrzanowski è stato respinto verso Biella e Borgomanero;
là dove le Alpi Svizzere rendono impossibile ogni ulteriore
ritirata, dove due o tre anguste vallate rendono quasi impossibile
ogni dispersione dell’esercito, sarebbe stato molto facile
concentrare tutto l’esercito e con una marcia audace rendere
infruttuosa la vittoria di Radetzky.
Se i capi dell’esercito piemontese avessero del coraggio
rivoluzionario, se sapessero che c’è a Torino un governo
rivoluzionario deciso a tutto, essi saprebbero bene il da farsi.
Presso il Lago Maggiore, dopo la battaglia di Novara, c’erano da 30
e 40.000 soldati piemontesi. Questo corpo, concentrato in due
giorni, poteva essere gettato sulla Lombardia dove non si trovavano
nemmeno 12.000 austriaci, avrebbe potuto occupare Milano, Brescia,
Cremona, organizzare l’insurrezione generale, battere alla
spicciolata i singoli corpi austriaci che arrivavano dal Veneto e
mandare così all’aria tutta la base d’operazione di Radetzky.
Radetzky invece di marciare su Torino avrebbe dovuto fare
dietro-front e sarebbe stato costretto a ritornare in Lombardia,
incalzato dalla mobilitazione in massa dei piemontesi che avrebbe
naturalmente dovuto appoggiare l’insurrezione lombarda.
Questa vera guerra nazionale, una guerra come quella condotta dai
lombardi nel marzo 1848, quando cacciarono Radetzky oltre l’Oglio ed
il Mincio, questa guerra avrebbe attirato tutta l’Italia e
infuso ben altre energie ai romani e ai toscani.
Mentre Radetzky era ancora tra il Po e il Ticino, incerto se
avanzare o retrocedere, i piemontesi e i lombardi avrebbero potuto
marciare su Venezia, liberarla, unire a sé La Marmora e le
truppe romane, molestare e indebolire il maresciallo austriaco con
numerose azioni di guerriglia, dividere le sue truppe e finalmente
batterlo. La Lombardia contava sull’arrivo dei piemontesi; ed
è già insorta senza aspettarli. Solo le roccaforti
austriache tenevano a bada le città lombarde. Diecimila
soldati piemontesi erano già in Lombardia, se ne fossero
entrati ancora 20 o 30.000 la ritirata di Radetzky sarebbe stata
resa impossibile.
Ma la sollevazione in massa, l’insurrezione generale del popolo sono
mezzi di fronte ai quali la monarchia indietreggia. Sono mezzi che
solo la repubblica adopera, il 1793 ne ha dato la prova. Sono mezzi
il cui impiego implica il terrore rivoluzionario, e quando mai si
è visto un monarca disposto a questo?
Ciò che ha dunque rovinato gli italiani non è la
sconfitta di Novara o quella di Vigevano: è la codardia e la
moderazione a cui la monarchia li costringe. La battaglia perduta di
Novara aveva unicamente uno svantaggio strategico: gli italiani
erano tagliati fuori da Torino mentre gli austriaci avevano la via
aperta. Questo svantaggio poteva non avere nessuna importanza se la
battaglia perduta fosse stata immediatamente seguita da una vera
guerra rivoluzionaria, se quel che rimaneva dell’esercito italiano
si fosse subito proclamato fulcro dell’insurrezione nazionale di
massa, se la stessa guerra dell’esercito regolare, strategica e
honnête, si fosse trasformata in una guerra di popolo, come
quella che i francesi fecero nel 1793.
Ma che cosa diciamo mai! Guerra rivoluzionaria, insurrezione di
massa e terrore sono cose che la monarchia non accetterà mai.
Concluderà la pace col suo peggiore nemico dello stesso rango
piuttosto che allearsi col popolo.
Carlo Alberto potrà essere o non essere un
traditore: la corona di Carlo Alberto, la monarchia sarebbe bastata
per spingere l’Italia verso la rovina.
Ma Carlo Alberto è un traditore. Tutti i giornali francesi
portano la notizia di un grande complotto controrivoluzionario
europeo fra tutte la grandi potenze, d’un piano di campagne della
controrivoluzione per ottenere la sottomissione definitiva di tutti
i popoli europei. La Russia, l’Inghilterra, la Prussia, l’Austria,
la Francia e la Sardegna hanno firmato il patto di questa nuova
Santa Alleanza.
Carlo Alberto aveva l’ordine di cominciare la guerra contro
l’Austria, di farsi battere e di dare in questo modo la
possibilità agli austriaci di ristabilire la
«calma» in Piemonte, a Firenze, a Roma e di accordare
dovunque delle Costituzioni ispirate dalla legge marziale. Carlo
Alberto avrebbe ottenuto per questo Parma e Piacenza, i russi
avrebbero pacificato l’Ungheria, la Francia sarebbe diventata uno
Stato imperiale e così la calma sarebbe ritornata in Europa.
Questo, secondo i giornali francesi, il grande piano della
controrivoluzione. E questo piano spiega il tradimento di Ramorino e
la sconfitta degli italiani.
Con la vittoria di Radetzky la monarchia ha però ricevuto un
nuovo colpo. La battaglia di Novara e la successiva paralisi dei
piemontesi dimostrano che un popolo, in casi estremi, quando ha
bisogno di tendere tutte le proprie forze per la sua salvezza, non
può trovare più serio ostacolo della monarchia. Se
l’Italia non vuole perire a causa della monarchia, bisogna che la
monarchia in Italia perisca al più presto.
III
Ora finalmente le vicende della campagna piemontese fino alla
vittoria austriaca di Novara diventano per noi chiare e palesi.
Mentre Radetzky faceva intenzionalmente circolare la voce che si
sarebbe tenuto sulla difensiva e che sarebbe indietreggiato verso
l’Adda, concentrava invece silenziosamente le sue truppe a
Sant’Angelo e a Pavia. Grazie al tradimento del partito reazionario-
austriacante di Torino egli era perfettamente informato di tutti i
piani, di tutte le disposizioni di Chrzanowski, di tutte le
posizioni occupate dal suo esercito ed era invece riuscito a
ingannare completamente i piemontesi
sui propri piani. Di qui lo
schieramento dei
piemontesi sulle due rive del Po, disposto per l’avanzata simultanea
da tutte le parti, con movimento concentrico, su Milano e su Lodi.
Tuttavia se l’esercito piemontese avesse opposto una seria
resistenza al centro, mai sarebbero stati possibili i rapidi
successi che Radetzky è riuscito ad ottenere. Se il corpo di
Ramorino gli avesse sbarrato la strada presso Pavia, vi sarebbe
stato il tempo sufficiente per impedirgli di passare il Ticino fino
all’arrivo dei rinforzi. Frattanto sarebbero potute sopraggiungere
anche le divisioni che stavano sulla riva destra del Po, presso
Arona; l’esercito piemontese, disposto parallelamente al Ticino,
copriva Torino ed era più che sufficiente per mettere in fuga
l’esercito di Radetzky. Naturalmente bisognava contare sul fatto che
Ramorino facesse il suo dovere.
Non lo fece. Permise a Radetzky di attraversare il Ticino, si che il
centro piemontese fu spezzato e le divisioni che si trovavano sulla
riva opposta del Po rimasero isolate. In fondo da questo momento le
sorti della campagna erano segnate.
Radetzky dispose tutte le sue forze, da 60 a 70.000 uomini, con 120
cannoni, tra il Ticino e l’Agogna e attaccò le cinque
divisioni piemontesi di fianco. Grazie alla sua schiacciante
superiorità numerica attaccò le quattro divisioni
più vicine presso Mortara, Garlasco e Vigevano il giorno 21;
occupò Mortara, costringendo così i piemontesi a
ritirarsi su Novara. In tal modo minacciava l’unica strada rimasta
aperta verso Torino, quella che da Novara passa per Vercelli e
Chivasso.
Ma questa strada era già perduta per i piemontesi. Per
riunire le loro truppe e soprattutto per permettere il
congiungimento della divisione Solaroli, che si trovava sull’estrema
ala sinistra, presso Arona, essi dovettero far di Novara il punto
centrale delle loro operazioni, mentre, in altre condizioni,
avrebbero potuto schierarsi su nuove posizioni dietro la Sesia.
Praticamente già tagliati fuori da Torino non potevano fare
altro che accettare la battaglia presso Novara o gettarsi verso la
Lombardia, organizzarvi la guerra di popolo e abbandonare Torino al
suo destino, alle riserve e alle guardie nazionali. In questo caso
Radetzky si sarebbe ben guardato dall’andare oltre.
Ma tale caso presupporrebbe che la sollevazione di massa fosse stata
preparata anche in Piemonte. Il che non era. La guardia nazionale
borghese fu armata, ma la massa del popolo rimase inerme, per quanto
insistente fosse la richiesta delle armi depositate negli arsenali.
La monarchia non osò rivolgersi a questa forza irresistibile,
quella stessa forza che aveva salvato la Francia nel 1793.
I piemontesi dovettero dunque accettare la battaglia presso Novara,
per quanto fosse sfavorevole la loro posizione e grande la
superiorità del nemico.
Quarantamila piemontesi (dieci brigate) con un’artiglieria
relativamente debole erano opposti a tutte le forze austriache,
almeno 60.000 uomini con 120 cannoni.
L’esercito piemontese era schierato sui due lati della strada di
Mortara, sotto le mura di Novara. L’ala sinistra, due brigate
comandante da Durando, si appoggiava su una posizione abbastanza
forte, la Bicocca.
Al centro, tre brigate comandate da Bes si appoggiavano su una
fattoria, la Cittadella. L’ala destra, due
brigate sotto il comando di
Perrone, si appoggiava all’altipiano di
Cortenuova (strada di Vercelli).
Dei due corpi di riserva, uno di due brigate sotto il comando del
duca di Genova era disposto sulla sinistra, il secondo, composto di
una brigata più la Guardia, sotto il comando del duca di
Savoia, l’attuale re [Il futuro Vittorio Emanuele II], si trovava
sull’ala destra. Lo schieramento degli austriaci risulta, dal loro
bollettino, meno chiaro.
Il secondo corpo austriaco, al comando di d’Aspre, attaccò
per primo l’ala sinistra dei piemontesi, mentre dietro di esso
marciavano il terzo corpo comandato da Appel oltre al corpo di
riserva e al quarto corpo. Gli austriaci riuscirono a spiegare
completamente le loro truppe in ordine di battaglia e a condurre un
attacco concentrico su tutti i punti dello schieramento piemontese,
con una tale preponderanza di forze che i piemontesi ne furono
schiacciati.
La chiave del fronte piemontese era la Bicocca; se gli austriaci se
ne fossero impossessati, il centro e l’ala sinistra dei piemontesi
sarebbero stati annientati o costretti a rendere le armi.
L’attacco principale era quindi diretto contro l’ala sinistra
piemontese, il cui punto d’appoggio più importante era la
Bicocca. Vi si combatté con molto accanimento, ma per lungo
tempo senza risultato.
Anche il centro fu attaccato con molta veemenza. La Cittadella fu
perduta e ripresa parecchie volte da Bes.
Quando gli austriaci si accorsero che qui urtavano contro una
resistenza troppo forte rivolsero nuovamente il grosso delle loro
forze contro l’ala sinistra piemontese. Le due divisioni piemontesi
furono rigettate sulla Bicocca e infine la Bicocca stessa fu
conquistata. Il duca di Savoia si gettò con le riserve sugli
austriaci, ma invano. La superiorità numerica degli imperiali
era troppo grande, la posizione fu perduta e con questo la battaglia
fu decisa. Ai piemontesi non rimase che una unica ritirata, verso le
Alpi, per Biella e Borgomanero.
E questa battaglia, preparata dal tradimento e vinta per la forza
del numero, è chiamata dalla Kölnische Zeitung, che per tanto tempo ha
smaniato invocando una vittoria
una battaglia che brillerà
in tutti i tempi (!) nella storia delle guerre, poiché la
vittoria del vecchio Radetzky è il risultato di manovre
combinate con tanta abilità e di un così splendido
coraggio, quale non si era più visto dai giorni di
Napoleone, il grande demone delle battaglie (!!!)
Che Radetzky — o piuttosto Hess, suo capo di stato maggiore — abbia
portato a termine con abilità il suo complotto con Ramorino,
siamo d’accordo. Ma anche vero che dopo il tradimento di Grouchy a
Waterloo, non si era più commessa un’infamia paragonabile a
quella di Ramorino. Radetzky non appartiene alla classe del
«demone delle battaglie», Napoleone, ma piuttosto a
quella di Wellington. E a entrambi le vittorie sono costate
più denari in contanti che coraggio e abilità.
Non ci soffermeremo sulle altre menzogne diffuse ieri sera dalla
Kölnische Zeitung, secondo cui i deputati democratici di Torino
sarebbero fuggiti, i lombardi avrebbero agito come «gentaglia
codarda», ecc. ecc. Gli ultimi avvenimenti le hanno già
confutate. Queste menzogne dimostrano soltanto la gioia della
Kölnische Zeitung per il fatto che la grande Austria, per di
più col tradimento, ha schiacciato il piccolo Piemonte.
Note
32 Si tratta della marcia dei rivoluzionari emigrati italiani del
1834, intrapresa su iniziativa di Mazzini. Dalla Svizzera i
rivoltosi irruppero nella Savoia, ma furono sbaragliati dalle truppe
austriache.
33 Si tratta della guerra di liberazione nazionale del popolo
spagnolo contro la conquista napoleonica negli anni 1807-1812,
sostenuta principalmente da reparti di guerriglieri.
Scritto dal 30 marzo al 3 aprile 1849.
Pubblicato sulla Neue Rheinische Zeitung nn. 260, 261 e 263, 31
marzo, 1 e 4 aprile 1849
K. Marx, F. Engels
Da: Terza rassegna internazionale
……. La massa del popolo naturalmente si interessa poco del cardinale
Wiseman. Ai giornali invece egli offre, data l’odierna
scarsità di notizie, un argomento benvenuto per lunghi
articoli e violente diatribe contro Pio IX. Il Times chiede
addirittura ché il governo provochi, per punire le sue
soverchierie, un’insurrezione nello Stato pontificio, e spinga
contro di esso il signor Mazzini e l’emigrazione italiana. Il Globe,
organo di Palmerston, trae un parallelo estremamente spiritoso fra
la bolla del papa e l’ultimo manifesto di Mazzini. Il papa, esso
dice, reclama una supremazia spirituale sull’Inghilterra e nomina
vescovi in partibus infidelium34 Qui a Londra risiede un
governo italiano in partibus infidelium, alla testa del quale sta
l’antipapa35 signor Mazzini. La supremazia che il signor Mazzini non
solo reclama, ma esercita veramente nei possedimenti pontifici,
anch’essa di natura puramente spirituale. Le bolle del papa hanno un
contenuto puramente religioso; lo sono anche i manifesti di Mazzini.
Essi predicano una religione, essi si appellano ai credenti, essi
hanno per motto: Dio ed il popolo. Noi ci chiediamo se esista forse
fra le pretese di entrambi qualsiasi altra differenza all’infuori di
questa: il signor Mazzini rappresenta almeno la religione della
maggioranza del popolo al quale egli parla — poiché in Italia
non c’è quasi nessuna altra religione all’infuori di quella
del Dio ed il popolo — mentre il papa no.
Mazzini ha approfittato, del resto, di questa occasione per compiere
un passo in avanti. Insieme con gli altri membri del Comitato
nazionale italiano egli ha lanciato da Londra il prestito di 10
milioni di franchi, approvato a suo tempo dalla Costituente di
Roma36 in azioni da 100 franchi e ciò proprio per acquistare
armi e munizioni. Non si può negare che questo prestito ha
più probabilità di successo del fallito prestito
volontario del governo austriaco in Lombardia37.
Un colpo veramente serio che l’Inghilterra ha assestato in questi
ultimi tempi a Roma e all’Austria, è il suo trattato
commerciale con la Sardegna. Questo trattato mina il progetto
austriaco di un’unione doganale italiana e assicura all’insurrezione
italiana commercio inglese e alla politica borghese inglese un
notevole terreno nell’Alta Italia.
Note
34 In partibus infidelium Denominazione del vescovo che non risiede
nella sede apostolica in quanto in loco è vietato il culto
cattolico, L’espressione fu spesso usata da Marx e da Engels nei
riguardi dei diversi governi all’estero che si costituivano senza
tener conto della situazione politica reale esistente nei vari
paesi.
35 Nei periodi dello scisma (XIV-XV sec.) non fu rara l’elezione di
due papi contemporaneamente che si definivano a vicenda usurpatore e
antipapa.
36 L’Assemblea costituente composta in maggioranza di democratici
borghesi mazziniani fu eletta il 21 gennaio 1849. Il 9 febbraio 1849
essa decretò la decadenza del papato e la proclamazione della
repubblica. Il potere esecutivo della repubblica era accentrato
nelle mani del triumvirato con a capo Mazzini. Caduta la repubblica
nel luglio 1849, gran parte dei deputati emigrò in
Inghilterra, dove con Mazzini e i suoi seguaci formò il
comitato provvisorio nazionale, Per mandato degli elettori, il
comitato fu incaricato di accendere prestiti nell’interesse della
causa nazionale e di occuparsi di tutti i problemi riguardanti i
cittadini italiani.
37 Nella primavera del 1850 il governo austriaco emise nel
Lombardo-Veneto il cosiddetto prestito volontario per 120 milioni di
lire. Non avendo suscitato il minimo entusiasmo, il governo ricorse
a mezzi coercitivi.
Pubblicato sulla Neue Rheinische Zeitung , Politisch
ökonomische Revue , nn 5 – 6, 1850
K. Marx
Da: L’insurrezione italiana
…… Dal telegrafo elettrico siamo stati informati che il 6 ha avuto
luogo una insurrezione a Milano38 che sono stati affissi dei
manifesti, uno di Mazzini e l’altro di Kossuth, i quali esortano gli
ungheresi dell’esercito austriaco a unirsi ai rivoluzionari; che
l’insurrezione è stata dapprima soffocata, ma poi è
ricominciata; che gli austriaci di stanza nell’arsenale sono stati
massacrati, ecc.; che le porte di Milano sono state chiuse. I
giornali governativi francesi, è vero, comunicano due altri
dispacci, datati l’uno da Berna l’8, l’altro da Torino il 9, secondo
i quali la sommossa e stata definitivamente repressa il 7. Ma il
mancato arrivo di ogni informazione diretta al ministero degli
esteri inglese negli ultimi due giorni, viene considerato come un
sintomo favorevole dagli amici dell’Italia.
Corrono voci a Parigi che a Pisa, a Lucca e in altre città
regni una grande agitazione.
A Torino, il ministero è stato convocato in tutta fretta, in
seguito a una comunicazione del console austriaco, per deliberare
sulla piega che hanno preso le cose in Lombardia.
Le prime notizie pervennero a Londra il 9 febbraio, il qual giorno,
per singolare coincidenza, è anche l’anniversario della
proclamazione della Repubblica romana del 184939 della decapitazione
di Carlo I nel 1649 e della deposizione di Giacomo Il nel 1689.
In quanto alle possibilità dell’attuale insurrezione a
Milano, v’è poca speranza di successo a meno che alcuni
reggimenti austriaci non passino nel campo rivoluzionario. Lettere
di privati da Torino, che dovrei ricevere tra qualche giorno, mi
permetteranno probabilmente di fornirvi un resoconto
particolareggiato di tutta la faccenda……
Note
38 Si tratta della insurrezione di Milano scatenata il 6 febbraio
1853 da Mazzini con l’appoggio degli emigrati rivoluzionari
ungheresi. La rivolta che si proponeva l’abbattimento del dominio
austriaco fallì nonostante la partecipazione operaia,
perché, ordita come una congiura, non teneva conto della
realtà della situazione.
39 Si veda la nota 36.
Scritto l’11 febbraio 1853.
Pubblicato sulla New York Daily Tribune n. 3701, 25 febbraio 1853
K. Marx
Da: I moti a Milano
Non appena a Milano fu schiacciato lo scoppio rivoluzionario
Radetzky diede ordine di intercettare tutte le comunicazioni con il
Piemonte e la Svizzera. Voi avrete già ricevuto le scarse
notizie che fu permesso di far passare dall’Italia in Inghilterra.
Richiamo la vostra attenzione su un tratto caratteristico degli
avvenimenti di Milano.
Il tenente maresciallo conte di Strassoldo, nel suo primo decreto
del 6 corrente, pur imponendo a Milano il più rigoroso stato
d’assedio, ammette chiaramente che il grosso della popolazione non
ha affatto preso parte alla recente insurrezione. Radetzky, nel
successivo proclama del 9 corrente, datato da Verona, capovolge la
dichiarazione del suo subordinato, e approfitta della ribellione per
ottenere denaro con un falso pretesto. Egli infligge a tutte le
persone che notoriamente non appartengono al partito austriaco multe
di entità illimitata, a beneficio della guarnigione. Nel suo
proclama dell’11 corrente, egli dichiara che « la grande
maggioranza degli abitanti, con poche lodevoli eccezioni, non
è disposta a sottomettersi al dominio imperiale», e
impartisce alle autorità giudiziarie, cioè alle corti
marziali, la disposizione di sequestrare la proprietà di
tutti i complici, il quale ultimo termine viene spiegato nel nodo
seguente:
Che tale complicità
consista semplicemente nella omissione della denuncia a cui ognuno
è tenuto
Egli avrebbe potuto anche confiscare immediatamente tutta Milano
adducendo il pretesto che, essendo l’insurrezione scoppiata il
giorno 6, gli abitanti della città non avevano denunciato il
fatto il giorno precedente. Chi non diventa spia e informatore per
conto degli Asburgo corre il rischio di divenire la preda legale del
croato40. In una parola, Radetzky proclama un nuovo sistema di
saccheggio indiscriminato.
L’insurrezione di Milano è significativa in quanto è
un sintomo della crisi rivoluzionaria che incombe su tutto il
continente europeo. Ed è ammirevole in quanto atto eroico di
un pugno di proletari che, armati di soli coltelli, hanno avuto il
coraggio di attaccare una cittadella e un esercito di 40 mila
soldati tra i migliori d’Europa mentre i figli italiani di Mammona41
danzavano, cantavano e gozzovigliavano in mezzo alle lacrime e al
sangue della loro nazione umiliata e torturata. Ma come gran finale
dell’eterna cospirazione di Mazzini, dei suoi roboanti proclami e
delle sue tirate contro il popolo francese, è un risultato
molto meschino. È da supporre che d’ora in avanti si ponga
fine alle rėvolutions improvisėes come le chiamano i francesi. Si
è mai sentito che grandi improvvisatori siano anche grandi
poeti? In politica avviene come in poesia. Le rivoluzioni non sono
mai fatte su ordinazione. Dopo la terribile esperienza del ‘48 e del
‘49, occorre qualcosa di più degli appelli sulla carta fatti
da capi lontani per suscitare rivoluzioni nazionali.
Note
40 Croati, formazioni di fanteria leggera dell’esercito austriaco.
arruolate prevalentemente fra i croati, altre nazionalità
slave e fra gli ungheresi.
41 Mammona, spirito malefico che, nella religione cristiana,
significa demone in generale, falso nome della ricchezza che incarna
avidità, cupidigia, bramosia di denaro, ricchezza mondana
divinizzata e adorata.
Scritto il 22 febbraio 1858.
Pubblicato sulla New York Daily Tribune n. 8710, 8 maggio 1853
K. Marx
Da: Kossuth e Mazzini42
……..Gli amici di Mazzini affermano ora, all’unanimità, che
l’insurrezione di Milano è stata imposta a lui e consoci da
circostanze che non era in grado di controllare. Ma, da un lato,
è insito nella natura delle congiure di essere trascinate a
scoppiare prematuramente o per tradimento o per caso. D’altra parte,
se per tre anni voi gridate azione, azione, azione, se il vostro
vocabolario rivoluzionario si riduce a una sola parola,
«insurrezione», non potete attendervi di mantenere
sufficiente autorità da ordinare in qualsiasi momento: non ci
dovrà essere un’insurrezione. Comunque sia, la
brutalità degli austriaci ha trasformato l’insuccesso
milanese proprio nell’inizio di una rivoluzione nazionale. Leggete,
per esempio, quel che dice oggi il ben informato organo di lord
Palmerston, il Morning Post::
Il popolo di Napoli sta attendendo
un moto che deve sicuramente avvenire nell’impero austriaco.
Allora, tutta l’Italia, dalle frontiere del Piemonte alla Sicilia,
insorgerà e tristi calamità seguiranno. Le truppe
italiane si sbanderanno, i cosìddetti soldati svizzeri
reclutati dopo la rivoluzione del 1848 non salveranno i sovrani
d’Italia. Una impossibile repubblica attende l’Italia. Questo
sarà sicuramente l’ultimo atto del dramma che ebbe inizio
nel 1848. La diplomazia ha esaurito tutte le sue risorse per i
principi d’Italia.
Aurelio Saffi, che controfirmò il proclama di Mazzini e che
ha fatto un giro per l’Italia prima dell’insurrezione, ammette in
una lettera al Daily News che «le classi superiori sono
immerse o nell’indifferenza o nella disperazione», e che
soltanto il «popolo di Milano», i proletari
abbandonati senza guida ai loro
istinti, hanno conservato la fiducia nei destini della patria e,
di fronte al dispotismo dei proconsoli austriaci e agli assassini
legali dei tribunali militari, si sono preparati
all’unanimità a far vendetta.
Ora, è un grande progresso per il partito mazziniano
l’essersi finalmente convinto che, persino nel caso di insurrezioni
nazionali contro il dispotismo straniero, esistono quelle che si
è soliti chiamare differenze di classe, e che nei moti
rivoluzionari, ai giorni nostri, non è alle classi superiori
che si deve guardare. Forse i mazziniani faranno un altro passo
avanti e arriveranno a capire che devono occuparsi seriamente delle
condizioni materiali della popolazione italiana delle campagne se
vogliono che il loro «Dio e popolo» abbia un’eco.
Intendo soffermarmi in un’altra occasione sulle condizioni materiali
in cui si trova la maggior parte della popolazione rurale,
condizioni che l’hanno resa se non reazionaria almeno indifferente
alla lotta nazionale d’Italia.
Note
42 Il titolo è dell’Istituto di marxismo-leninismo presso il
CC del PCUS.
Scritto il 18 marzo 1853.
Pubblicato sulla New York Daily Tribune n. 3733, 4 aprile 1853
K. Marx
Da: L’indirizzo di Mazzini
La stampa quotidiana di Londra manifesta con grande ostentazione
tutto il suo orrore e il suo sdegno morale per l’indirizzo diramato
da Mazzini e trovato in possesso di Felice
Orsini, capo della Banda nazionale n. 2, destinata a insorgere nella
Lunigiana, regione che abbraccia parte dei territori di Modena e
Parma e del regno di Piemonte. In questo indirizzo si esorta il
popolo ad «agire di sorpresa, come il popolo di Milano ha
tentato e tenterà ancora di fare». L’indirizzo dice
quindi: «Il pugnale, se colpisce all’improvviso, colpisce nel
segno, rende un buon servizio e tiene il posto dei moschetti».
Questo la stampa londinese lo presenta come un invito aperto all”
«assassinio a tradimento». Ora vorrei sapere in qual
modo, in un paese come l’Italia dove non esistono i mezzi per una
resistenza aperta e le spie della polizia sono
ovunque, un movimento insurrezionale potrebbe aver una grande
probabilità di successo se non si facesse ricorso alla
sorpresa! Vorrei sapere con qual tipo di armi dovrebbe combattere il
popolo italiano — se davvero deve combattere contro le truppe
austriache — se non con quelle che gli sono state lasciate: con i
pugnali che l’Austria non è riuscita a portar via. Mazzini
non dice affatto di servirsi del pugnale per assassinare vilmente il
nemico disarmato; egli esorta invece a servirsene «di
sorpresa», ma nella piena luce del giorno, come a Milano, dove
un pugno di patrioti, armati soltanto di coltelli, si precipitarono
sui corpi di guardia delle ben armate guarnigioni austriache. Ma
[dice il Times]
il costituzionale Piemonte dovrà subire la stessa sorte di
Roma, di Napoli e della Lombardia!
E perché no? Non fu forse il re di Sardegna [Carlo Alberto] a
tradire la rivoluzione italiana nel 1847 e nel 1848, ed è
forse possibile trasformare l’Italia in repubblica con un re di
Piemonte, più di quanto non sia possibile trasformare in
repubblica la Germania con un re di Prussia? E questo basti in
quanto alla moralità dell’indirizzo di Mazzini. In quanto al
suo valore politico la questione è diversa. Da parte mia
penso che Mazzini sbagli tanto nell’opinione che ha del popolo
piemontese quanto nei suoi sogni di una rivoluzione italiana, la
quale, secondo lui, dovrebbe attuarsi non già grazie alle
possibilità favorevoli che offrono le complicazioni europee,
ma grazie all’azione individuale di cospiratori italiani che
agiscano di sorpresa.
Scritto il 29 novembre 1853.
Pubblicato sulla New York Daily Tribune n. 3948, 12 dicembre 1853
K. Marx
Da: Agitazione in Italia43
In Italia, governo e popolo sono entrambi in preda a una strana
eccitazione. Il generale La Marmora, ministro piemontese della
guerra, ha ordinato che si formino campi militari in Savoia, a
Saint-Maurice, ad Alessandria e persino in Sardegna. Soldati in
congedo illimitato sono stati ri chiamati in gran numero sotto le
armi. Simultaneamente si stanno approvvigionando le fortezze di
Alessandria e Casale. D’altra parte, il maresciallo Radetzky ha
parimenti ordinato la costituzione di un campo tra Verona e Volta,
dove oltre
20.000 soldati vengono addestrati ogni giorno in operazioni di
guerra su scala ridotta (guerre). Agitazioni causate dal carovita si
sono avute a Codogno, a Casalpusterlengo e in alcune città
lombarde. Circa duecento persone sono state arrestate e condotte a
Mantova. Secondo lettere da Napoli, numerosi arresti sono stati
effettuati laggiù come pure in Sicilia, dove il figlio del
conte Carafa è stato imprigionato. Re Bomba [Ferdinando II]
sta prendendo misure straordinarie per gli armamenti di mare e di
terra. Ha dato ordine che la fortezza di Gaeta sia tenuta pronta per
fare fronte a qualunque evento. Ha dichiarato che tutta l’Europa
è appestata e a tutti i battelli che arrivano viene imposta
una rigida quarantena. Tutte le navi provenienti dal Portogallo, da
Glasgow e dagli Stati sardi sono sottoposte a una quarantena di
dieci giorni; quelle provenienti dalla Toscana e dagli Stati romani,
di sette giorni. Poiché quasi tutti i paesi devono ormai
sottostare a simili restrizioni, l’arrivo di una nave costituisce un
avvenimento eccezionale. La corrispondenza dall’estero per via di
terra è soggetta a tutte quelle misure precauzionali che si
osservano trattandosi di cose provenienti da paesi colpiti dalla
peste. Le comunicazioni con gli Stati del papa continuano attraverso
Montecassino e Sora e gli Abruzzi, ma si sta stabilendo un cordone
sanitario lungo tutta la frontiera.
Note
43 Il titolo è dell’Istituto di marxismo-Ieninismo presso il
CC del PCUS.
Scritto il 14 luglio 1854.
Pubblicato sulla New York Daily Tribune n. 4142, 28 luglio 1854
F. Engels
Da: Gli eserciti d’Europa
II. L’esercito sardo
Questo esercito è composto di dieci brigate di fanteria,
dieci battaglioni di bersaglieri, quattro brigate di cavalleria, tre
reggimenti di artiglieria, un reggimento di genieri, un corpo di
carabinieri (polizia) ed un corpo di cavalleria leggera della
Sardegna.
Le dieci brigate di fanteria sono formate di una brigata di guardia,
quattro battaglioni di granatieri, due battaglioni di cacciatori e
nove brigate di linea, pari a diciotto reggimenti di tre battaglioni
ciascuno. A questi si aggiungono dieci battaglioni di bersaglieri,
uno per ogni brigata, sì che nell’esercito sardo i reparti di
fanteria leggera ottimamente addestrati sono ora molto più
numerosi che in ogni altro esercito.
C’è inoltre un battaglione di rifornimento per ogni
reggimento. Dal 1849, la forza dei battaglioni si è ridotta
moltissimo per motivi finanziari. Sul piede di guerra, un
battaglione dovrebbe annoverare circa 1.000 unità, ma in
tempo di pace non vi sono più di 400 uomini. Il resto
è stato mandato in congedo illimitato.
La cavalleria conta quattro reggimenti di cavalleria pesante e
cinque di cavalleria leggera. Ogni reggimento ha quattro squadroni
da campo e uno di riserva. Sul piede di guerra, un reggimento
dovrebbe contare circa 800 uomini nei quattro squadroni da campo, ma
in pace si giunge a malapena al numero di 600.
I tre reggimenti di artiglieria consistono di un reggimento di
operai ed artificieri, un reggimento di artiglieria da fortezza
(dodici compagnie) e uno di artiglieria da campo (sei a piedi, due a
cavallo, due batterie pesanti di otto cannoni ciascuna). Le batterie
leggere hanno cannoni da otto libbre, e obici da ventiquattro
libbre; le batterie pesanti, cannoni da sedici libbre; in tutto
ottanta cannoni.
Il reggimento di genieri ha dieci compagnie, cioè 1.100
uomini circa. I carabinieri (a cavallo e a piedi) sono molto
numerosi per un regno così piccolo, e contano circa 3.200
uomini. La cavalleria leggera, che fa servizio di polizia nell’isola
di Sardegna, ha in forza circa 1.100 uomini.
L’esercito sardo, nella prima campagna contro
Ì’Austria44 nel 1848, raggiungeva certamente il
numero di 70.000 uomini. Nel 1849, era molto vicino ai 130.000. In
seguito si ridusse a circa 45.000 uomini. Quanti ne conti ora
è impossibile dire, ma non c’è dubbio che, dalla
stipulazione del trattato con l’Inghilterra e con la Francia45 si
è di nuovo accresciuto.
Questa grande elasticità dell’esercito piemontese, che gli
permette di accrescere e di diminuire in ogni momento la forza sotto
le armi, deriva da un sistema di reclutamento molto affine a quello
della Prussia; e in realtà la Sardegna potrebbe dirsi, sotto
molti aspetti, la Prussia d’Italia. C’è negli Stati sardi un
obbligo simile per ogni cittadino di servire nell’esercito,
benché, a differenza della Prussia, siano ammesse le
sostituzioni; ed il tempo che dura quest’obbligo
consiste, come in Prussia, di un periodo di servizio effettivo e di
un altro periodo durante il quale il soldato dimesso dai ranghi
rimane nella riserva ed è passibile di richiamo in tempo di
guerra. Il sistema è una via di mezzo tra il metodo prussiano
e quello del Belgio e degli Stati tedeschi minori. Così,
richiamando le riserve, la fanteria può essere portata da un
numero di circa 30.000 uomini a 80.000. La cavalleria e
l’artiglieria da campo non sarebbero passibili che di un piccolo
aumento, poiché in queste armi i soldati devono generalmente
rimanere presso il reggimento durante tutto il periodo di servizio.
L’esercito piemontese è bello e marziale come qualsiasi altro
in Europa. Come i francesi, i piemontesi sono di piccola statura,
specialmente la fanteria: le guardie del re non raggiungono in media
nemmeno i cinque piedi e quattro pollici; ma con la divisa di buon
gusto, col portamento militare, con la corporatura robusta ma agile,
e coi bei lineamenti italiani, hanno aspetto migliore di molti corpi
di uomini di più grossa taglia. Vestiario ed equipaggiamento,
per la fanteria di linea e per le guardie, seguono il principio
francese, con pochi dettagli mutuati dagli austriaci. I bersaglieri
hanno una divisa caratteristica: un berretto da marinaio con un
pennacchio pendente di penne di gallo e una tunica marrone. La
cavalleria porta corte giacche marroni che arrivano appena all’osso
sacro. Il fucile a percussione è l’arma di tutta la fanteria;
i bersaglieri hanno corte carabine tirolesi, armi buone ed utili, ma
inferiori al Minié sotto ogni aspetto. La prima linea della
cavalleria è di solito armata di lancia; non sappiamo se
anche la cavalleria leggera conserva questo armamento. Il calibro di
otto libbre per le batterie a cavallo ed a piedi armate alla leggera
dà loro sugli altri eserciti del continente il medesimo
vantaggio che avevano i francesi finché mantennero quel
calibro; ma le batterie pesanti da sedici libbre fanno
dell’artiglieria da campo sarda la
più pesante del continente. Che
questi cannoni, una volta in postazione,
possano fare un ottimo lavoro si è visto alla Cernaia46 dove
il loro preciso tiro contribuì in gran parte al successo
degli Alleati e fu universalmente ammirato.
Di tutti gli Stati italiani il Piemonte ha la migliore posizione per
creare un buon esercito. La pianura del Po e dei suoi affluenti
produce cavalli eccellenti, ed un tipo umano bello e alto, il
più alto fra gli italiani, straordinariamente adatto al
servizio di cavalleria e di artiglieria pesante. I monti che
circondano questa pianura da tre parti, a nord, a ovest, e a sud,
sono abitati da vigorose popolazioni di uomini meno alti, ma forti
ed attivi, industriosi e di mente acuta come tutti i montanari. Sono
loro a formare il grosso della fanteria, e specialmente dei
bersaglieri, un corpo militare quasi uguale agli chasseurs de
Vincennes47 per addestramento, ma sicuramente superiore a loro per
forza fisica e sopportazione della fatica.
Le istituzioni militari del Piemonte sono, tutto considerato, molto
buone, e, di conseguenza, gli ufficiali sono altamente
qualificati. Ancora nel 1846, però, l’influenza
dell’aristocrazia e del clero aveva parte preponderante nella loro
formazione. Fino a quell’epoca, Carlo Alberto non conosceva che due
mezzi di governo, il clero e l’esercito; infatti si diceva
dappertutto nelle altre parti d’Italia che in Piemonte di tre uomini
che s’incontravano per strada uno era un soldato, uno un prete, e
solo uno su tre un civile. Ora naturalmente le cose non stanno
più così; l’influenza dei preti è meno che
nulla, e, benché la nobiltà abbia in mano molti
brevetti da ufficiale, la guerra del 1848-49 ha lasciato
sull’esercito una certa impronta di carattere democratico che non
sarà facile distruggere. Alcuni corrispondenti dalla Crimea
di giornali inglesi hanno affermato che gli ufficiali piemontesi
erano quasi tutti «gentiluomini di nascita», ma al
contrario noi conosciamo personalmente più di un ufficiale
piemontese che viene dalla gavetta, e possiamo con sicurezza
asserire che la massa dei capitani e dei tenenti è composta
ora di uomini che si sono guadagnati le spalline con atti di valore
contro gli austriaci, o che per lo meno non hanno legami con
l’aristocrazia.
A nostro parere, il più bel complimento che si possa fare
all’esercito piemontese è contenuto nell’opinione espressa da
uno dei suoi ex avversari, il generale Schönhals,
quartiermastro dell’esercito austriaco nel 1848-49. Nelle sue
Memorie delle campagne italiane questo generale, uno dei migliori
ufficiali dell’esercito austriaco, ed uomo violentemente avverso in
ogni senso a tutto quanto sapesse di indipendenza italiana, tratta
l’esercito piemontese, in tutto e per tutto, col più grande
rispetto.
La loro artiglieria [egli dice] consiste di uomini scelti,
sottufficiali capaci e bene istruiti, i materiale è buono, ed
il calibro superiore a! nostro. .. La cavalleria è un’arma
tutt’altro che disprezzabile; la prima linea porta la lancia ma
poiché soltanto un cavaliere molto bene addestrato può
maneggiare bene quest’arma, non oseremmo dire che questa innovazione
si risolva proprio in un miglioramento. La loro scuola di
equitazione, però, è ottima. .... A Santa Lucia,
entrambe le parti combatterono con ardimento straordinario, I
piemontesi attaccarono con grande vivacità e impeto — tanto
piemontesi che austriaci compirono molti atti di grande valore
personale. .. L’esercito piemontese ha diritto
a menzionare senza arrossire il
giorno di Novara [e così via]48
Allo stesso modo, il generale prussiano Willisen, che
partecipò a parte della campagna del 1848, e che è
tutt’altro che favorevole all’indipèndenza italiana, parla in
alti termini dell’esercito piemontese.
Dal 1848, una certa parte d’Italia guarda al re di Sardegna come al
futuro capo dell’intera penisola. Benché lungi dall’aderire a
tale opinione, noi tuttavia crediamo che se l’Italia
riconquisterà mai la sua libertà, le forze piemontesi
saranno il principale strumento militare per attingere tale fine, e
formerànno nello stesso tempo il nucleo del futuro esercito
italiano. Dovranno sopportare, prima che ciò avvenga,
più di una rivoluzione interna, ma gli eccellenti elementi
militari che contengono sopravvivranno a tutto questo, e potranno
anche trarre profitto dall’essere immessi in un esercito davvero
nazionale.
III Gli eserciti italiani minori
L’esercito del papa quasi non esiste se non sulla carta. I
battaglioni e gli squadroni non sono mai completi e non formano
più di una debole divisione. C’è inoltre un reggimento
di guardie svizzere, il solo corpos sul quale il governo possa fare
un certo affidamento. Gli eserciti della Toscana, di Parma e di
Modena sono troppo insignificanti per parlarne qui; basti dire che
sono organizzati in tutto e per tutto sul modello austriaco.
C’è, inoltre, l’esercito napoletano, del quale pure meno si
parla è meglio è. Non ha mai brillato gran che di
fronte al nemico e, sia combattendo per il re, come nel 1799, sia
per la Costituzione, come nel 1821, si è distinto per le sue
fughe.49 Anche nel 1848-49 l’esercito dei napoletani fu dovunque
battuto dagli insorti e se non fosse stato per gli svizzeri, il re
Bomba non sarebbe ora sul trono. Durante l’assedio di Roma,
Garibaldi mosse con un pugno di uomini contro la divisione
napoletana e la batté due volte.50 L’esercito di Napoli, si
calcola che in tempo di pace raggiunga le 26 o 27 mila unità,
ma nel 1848 annoverava senz’altro quasi 49.000 uomini e sul piede di
guerra avrebbe raggiuilto il numero di 64.000. Di tutte queste
truppe, solo gli svizzeri sono degni di menzione. Sono divisi in
quattro reggimepti di due battaglioni ciascuno, ed al completo
dovrebbero contare 600 uomini per battaglione, cioè 4.800
uomini. Ma i quadri ora sono sovraccarichi, cosìcché
ogni battaglione ha in forza circa 1.000 uomini (il quarto, detto
reggimento Bernese, ne conta da solo 2.150), e il numero complessivo
può essere calcolato intorno ai 9.000. Queste sono truppe
davvero di primo ordine, comandate da ufficiali loro connazionali, e
indipendenti, nell’organizzazione ed amministrazione interne, dal
governo di Napoli. Essi furono assoldati per la prima volta nel 1824
o nel 1825, quando il re, non fidandosi più dell’esercito che
proprio poco tempo prima si era rivoltato, ritenne necessario
circondarsi di una forte guardia del corpo. I trattati o
«capitolazioni», come furono chiamati, furono conclusi
con diversi cantoni per trenta anni; furono concessi alle truppe il
codice penale di guerra svizzero e l’organizzazione militare
svizzera; il soldo fu fissato in misura tripla di quello dei soldati
napoletani nativi; le truppe furono reclutate tra volontari in ogni
cantone, dove furono costituiti uffici di reclutamento. Furono
concesse pensioni agli ufficiali in ritiro, ai veterani, ai feriti
di guerra. Se, allo spirare dei trent’anni, la capitolazione non
fosse stata rinnovata, i reggimenti avrebbero dovuto sciogliersi. La
Costituzione svizzera attuale proibisce il reclutamento per servizio
all’estero, e le capitolazioni furono perciò abrogate dopo il
1848; il reclutamento cessò, per lo meno apertamente, in
Svizzera, ma a Chiasso e in altre località della Lombardia
furono costituiti dei depositi, e molti agenti di reclutamento
continuarono segretamente il loro lavoro in territorio svizzero. Il
governo napoletano era così bramoso di reclutare gli svizzeri
che non ricusò di accogliere i rifiuti dei rifugiati politici
che si trovavano allora in Svizzera. Il re di Napoli, in tali
circostanze, confermò i privilegi accordati ai soldati
svizzeri dalle capitolazioni, e nello scorso agosto, allo spirare
cioè dei trenta anni, con un decreto speciale prolungò
di nuovo questi privilegi fino a quando gli svizzeri rimarranno al
suo servizio.
Note
44 Si veda la nota 11.
45 Si tratta della convenzione militare franco-inglese col Piemonte
del 26 gennaio 1855, con la quale il Piemonte s’impegnava a fornire
nella guerra contro la Russia un corpo di 15.000 soldati, mentre la
Francia e l’Inghilterra si facevano garanti dell’integrità
dei possedimenti sardi. Con la partecipazione alla guerra di Crimea
il Piemonte intendeva ingraziarsi l’appoggio di Napoleone III alla
annessione dei possedimenti italiani ancora sotto il dominio
austriaco.
46 Durante la guerra di Crimea, il 4 agosto 1855, nella battaglia
sul fiume Cernaia presso Sebastopoli, le truppe alleate
franco-italo-inglesi sconfissero l’esercito russo.
47 Chasseurs de (tiratori di) Vincennes. formazioni di fanteria
leggera francese
48 Qui F. Engels cita il libro di K. Schönhals uscito anonimo:
Erinnerungen eines österreichischen veteranen aus dem
italienischen Kriege der Jahre 1848 und 1849. Bd. I, S. 116, 167,
223; Bd. Il, S. 239. Stutgart und Tϋbingen, 1852 (Le memorie di un
veterano austriaco sulla guerra italiana degli anni 1848 e 1849.
VoI. I, pp. 116, 167, 223; vol Il, p. 239. Stoccarda e Tubinga,
1852).
49 Nel 1799 durante la guerra della Francia contro la coalizione
europea, alla quale prendeva parte il Regno delle due Sicilie,
l’esercito di Ferdinando IV fu sbaragliato e Napoli fu occupata dai
francesi.
Nel luglio 1820 i rivoluzionari borghesi — carbonari — con
l’appoggio dell’esercito si sollevarono contro l’assolutismo
napoletano e imposero una Costituzione moderata e liberale.
Però, l’Austria, in conformità alle delibere del
congresso di Leibacli della Santa Alleanza, intervenne contro
Napoli. Le truppe austriache sbaragliarono l’esercito napoletano e
occuparono la città. Il regime assolutista fu restaurato.
50 Si tratta della partecipazione del regno di Napoli all’intervento
francese e austriaco (maggio-luglio 1849) contro la Repubblica
romana. Per due volte consecutive le formazioni repubblicane guidate
da Garibaldi misero in rotta le truppe napoletane.
Scritto nel periodo tra giugno e settembre 1855.
Pubblicato sulla rivista Putnam’s Monthly nn. 32, 33. 36 in agosto,
settembre, dicembre. 1855
K. Marx
Sull’unificazione dell’Italia51
Non diversamente dal fanciullo che grida «al lupo!»52,
gli italiani hanno così ripetutamente affermato che
«l’Italia è in fermento e alla vigilia d’una
rivoluzione», e le teste coronate d’Europa hanno così
spesso cianciato di una «sistemazione della questione
italiana», che non dovrebbe far meraviglia se oggi la comparsa
del lupo passasse inosservata, e se una vera rivoluzione e una
guerra generale in Europa dovessero scoppiare e coglierci di
sorpresa! L’Europa del 1859 ha un aspetto decisamente guerriero e se
l’atteggiamento ostile, gli evidenti preparativi della Francia e del
Piemonte per una guerra contro l’Austria dovessero andare in fumo,
non è improbabile che l’odio ardente degli italiani contro i
loro oppressori, unito alle loro sofferenze sempre maggiori,
troverebbe sfogo in una rivoluzione generale. Ci limitiamo a dire
«non improbabile», perché, se la speranza
differita fa male al cuore, il ritardato adempimento di una profezia
rende inclini allo scetticismo. Però, se dobbiamo dar credito
alle notizie dei giornali inglesi, italiani e francesi, la
situazione morale di Napoli è un fac samile della sua
struttura fisica, e un torrente di lava rivoluzionaria non
produrrebbe maggior sorpresa di una nuova eruzione del vecchio
Vesuvio. Persone che ci scrivono dagli Stati pontifici insistono in
particolare sui sempre più frequenti abusi del governo
clericale e sulla convinzione, profondamente radicata nella
popolazione romana, che riforme e miglioramenti sono impossibili,
che l’unico rimedio sarebbe il totale rovesciamento di detto
governo, che non si è fatto ricorso a questo rimedio
già da tempo solo a causa della presenza delle truppe
svizzere, francesi ed austriache53 e che, ad onta di questi ostacoli
materiali, un tentativo di questo genere può esser fatto ogni
giorno ed ogni ora.
Dalla Venezia e dalla Lombardia, le notizie sono più precise,
ci ricordano molto da vicino i sintomi che contraddistinsero la fine
del 1847 e l’inizio del 184854 in quelle province. L’astinenza
dall’uso del tabacco e dei manufatti austriaci è universale,
e così pure gli appelli al popolo a non frequentare i luoghi
pubblici di divertimento. Le ben studiate dimostrazioni di odio
offerte all’arciduca [Ferdinando Massimiliano] e a tutti i
funzionari austriaci sono giunte a tal punto che il principe Alfonso
Parcia, nobile italiano devoto alla casa Asburgo, non ardì,
nella pubblica via, togliersi il cappello al passaggio
dell’arciduchessa; la punizione inflitta al principe per tale reato,
sotto forma di ordine dell’arciduca di allontanarsi immediatamente
da Milano, agisce sulla classe cui appartiene quest’ultimo come
incentivo ad associarsi al grido popolare di «fuori i
tedeschi!». Se a queste silenziose dimostrazioni di
malcontento popolare aggiungiamo le risse quotidiane tra popolani e
soldatesca, invariabilmente provocate dai primi, la rivolta degli
studenti di Pavia e la conseguente chiusura della università,
abbiamo davanti agli occhi una replica del prologo alle cinque
giornate di Milano del 1848 55.
Ma, mentre siamo convinti che l’Italia non può rimanere
eternamente nella sua attuale condizione, dato che anche la strada
più lunga deve pur avere una fine, mentre sappiamo che
un’attiva organizzazione si va sviluppando in tutta la penisola, non
siamo in grado di dire se queste manifestazioni siano interamente il
frutto dello spontaneo ribollire della volontà popolare, o se
non siano alimentate dagli agenti di Luigi Napoleone e del suo
alleato, il conte di Cavour. A giudicare dalle apparenze, il
Piemonte, spalleggiato dalla Francia e forse dalla Russia, medita un
attacco contro l’Austria nella primavera. Dall’accoglienza fatta
all’ambasciatore austriaco a Parigi sembrerebbe che l’imperatore non
nutra intenzioni benevole verso il governo rappresentato dal signor
Hϋbner56 dalla concentrazione di forze così imponenti ad
Algeri è più che naturale supporre che le
ostilità contro l’Austria dovrebbero cominciare con un
attacco diretto contro le sue province italiane; i preparativi
bellici del Piemonte, le dichiarazioni, che altro non sono se non
dichìarazioni di guerra all’Austria, pubblicate
quotidianamente dalla stampa piemontese ufficiale e semiufficiale,
danno consistenza alla congettura che il re si varrà del
primo pretesto per varcare il Ticino. Inoltre, la notizia che
Garibaldi, l’eroe di Montevideo e di Roma57 è stato chiamato
a Torino, è confermata da fonti private e degne di fede.
Cavour ha avuto un colloquio con Garibaldi, lo ha informato delle
prospettive di una prossima guerra e gli ha suggerito di raccogliere
ed organizzare dei volontari.
L’Austria, una delle principali parti in causa, dimostra chiaramente
di prestar fede alle voci. Pur disponendo già di 120.000
uomini, concentrati nelle sue province italiane, essa sta aumentando
le sue forze con tutti i mezzi immaginabili; e recentemente ha
allestito in fretta un rinforzo di 30.000 uomini. Le opere di difesa
di Venezia, Trieste, ecc. sono aumentate e rinforzate, e in tutte le
altre province i proprietari terrieri e gli allevatori di bestiame
sono obbligati a fornire i loro stalloni perché occorrono
cavalli da sella per la cavalleria e gli zappatori. E l’Austria,
mentre da un lato non trascura i preparativi necessari per resistere
secondo la «prudente maniera austriaca», si premunisce
anche contro la eventualità di una disfatta. Dalla Prussia —
il Piemonte della Germania — i cui interessi sono diametralmente
opposti ai suoi, l’Austria non può sperare altro se non, al
massimo, la neutralità. La missione del barone Seebach, suo
ambasciatore a Pietroburgo, sembra aver mancato completamente lo
scopo di ottenere una qualche prospettiva di aiuto in caso di
attacco. I piani dello zar [* Alessandro Il] nella questione del
Mediterraneo, dove egli pure ha gettato l’ancora58 coincidono troppo
da vicino, in più di un punto ed in misura non trascurabile,
con quelli del suo ex avversario di Parigi, ed ora fedele alleato,
per consentirgli di difendere l’Austria «riconoscente»59
La ben nota simpatia che il popolo inglese manifesta per gli
italiani, grazie all’odio che questi sentono per il giogo tedesco
rende molto dubbio che qualcuno dei ministri inglesi ardisca
appoggiare l’Austria, per quanto tutti siano più che
desiderosi di farlo. Inoltre, l’Austria, al
pari di molti altri, sospetta
astutamente che il sedicente «vendicatore di
Waterloo» [Napoleone II] ( non abbia per nulla rinunciato al
suo vivo desiderio di umiliare la «perfida Albione»60 e
che, preferendo non sfidare il leone nella sua tana, non si
periterà di lanciargli una sfida all’est, attaccando,
unitamente alla Russia, l’Impero turco (ad onta dei suoi giuramenti
di lasciare inviolato quell’Impero), mobilitando così la
metà delle forze inglesi sui campi di battaglia orientali,
mentre da Cherbourg ne terrebbe l’altra metà in forzata
inazione per proteggere le coste inglesi. Quindi, nel caso in cui si
venga realmente alla guerra, l’Austria ha la sconfortante sensazione
di dover contare unicamente su di sé; e uno dei molti
espedienti per ridurre al minimo le sue perdite, in caso di
sconfitta, è degno di nota per la sua impudente sagacia. Le
caserme, i palazzi, gli arsenali e gli altri edifici pubblici in
tutto il Lombardo-Veneto, la cui costruzione e manutenzione sono
costate imposte esorbitanti, sono considerati, nientemeno,
proprietà dell’Impero. In questo momento il governo sta
costringendo i vari municipi ad acquistare questi palazzi a prezzi
favolosi, adducendo come motivo che in avvenire intende affittarli
anziché possederli. Che i municipi riusciranno mai a vedere
un centesimo dell’affitto è nella migliore delle ipotesi cosa
molto dubbia, persino nel caso in cui l’Austria dovesse mantenere il
suo dominio; ma, se dovesse essere cacciata da tutto o da una parte
qualsiasi del territorio italiano, si congratulerà con se
stessa del suo abile piano di convertire in moneta contante,
facilmente trasferibile, una gran parte del suo minacciato tesoro.
Si afferma inoltre che essa non lesina gli sforzi per trasmettere al
papa [Pio IX.], al re di Napoli [Ferdinando II] e ai duchi di
Toscana, Parma e Modena la sua decisione di resistere fino
all’ultimo a tutti i tentativi del popolo o delle teste coronate di
cambiare l’ordine delle cose esistente in Italia.
Ma nessuno meglio dell’Austria stessa sa quanto sarebbe vano ogni
sforzo di questi poveri strumenti per fronteggiare la marea del
l’insurrezione popolare o dell’intervento straniero. E mentre la
guerra contro l’Austria è la fervida aspirazione di ogni
cuore veramente italiano, noi non possiamo dubitare che la grande
maggioranza degli italiani consideri molto dubbi — per non dir
peggio — i risultati di una guerra iniziata dalla Francia e dal
Piemonte. Mentre nessuno può nel suo intimo credere che
l’assassino di Roma possa, in virtù di una qualsiasi
metamorfosi umana, trasformarsi nel Redentore della Lombardia, una
piccola frazione favorisce il disegno di Luigi Napoleone di
sistemare Murat sul trono di Napoli e finge di prestar fede alle sue
intenzioni di allontanare il papa dall’Italia o di confinarlo nella
città o nella Campagna romana, e di aiutare il Piemonte ad
annettersi tutta l’Italia settentrionale. Vi è poi un
partito, piccolo ma onesto, il quale immagina che l’idea di una
corona italiana abbagli Vittorio Emanuele, così come si
supponeva abbagliasse suo padre [Carlo Alberto] crede che il re
attenda ansiosamente la prima occasione per sfoderare la spada per
ottenere la corona e che, unicamente per conquistarsi il tesoro
agognato, egli voglia approfittare dell’aiuto della Francia o di
chiunque altro. Una classe molto più larga, che conta
aderenti in tutte le province oppresse dell’Italia, specialmente in
Lombardia e fra l’emigrazione lombarda, pur non nutrendo nessuna
fiducia particolare nel re piemontese, dice tuttavia: «Siano i
loro scopi quelli che sono, ma il Piemonte ha un esercito di 100.000
uomini, una flotta, degli arsenali ed un tesoro; lasciamo che getti
il guanto della sfida all’Austria; noi lo seguiremo sul campo di
battaglia; se sarà fedele, avrà la sua ricompensa; se
non adempirà la sua missione, la nazione sarà forte
abbastanza per proseguire la battaglia ingaggiata e continuarla fino
alla vittoria».
Il partito nazionale italiano, al contrario, denuncia come una
calamità nazionale l’inizio di una guerra italiana
d’indipendenza sotto gli auspici della Francia e del Piemonte. Quel
che conta per questo partito non è, come spesso erroneamente
si suppone, se l’Italia, una volta liberata dallo straniero,
sarà unita sotto un governo repubblicano o monarchico,
bensì il fatto che i mezzi proposti non riusciranno ad
assicurare l’Italia agli italiani, e, nel migliore dei casi,
riusciranno soltanto a sostituire un giogo straniero con un altro
egualmente oppressivo. Questo partito crede che l’uomo del 2
dicembre61 non farà mai la guerra, a meno che non vi sia
costretto dalla crescente impazienza del suo esercito o dal contegno
minaccioso del popolo francese; che, costretto in tal modo,
sceglierebbe l’italia come teatro della guerra allo scopo di attuare
il piano di suo zio [Napoleone I]: fare del Mediterraneo un
«lago francese», scopo che egli raggiungerebbe mettendo
Murat sul trono di Napoli; che, dettando condizioni all’Austria,
egli mira a compiere la vendetta, cominciata in Crimea, dei trattati
del 1815, quando l’Austria fu una delle parti che dettarono alla
Francia condizioni estremamente umilianti per la famiglia Bonaparte.
Questo partito considera il Piemonte come mero strumento della
Francia, convinto che Napoleone III, raggiunti i suoi scopi, non
arrischiandosi ad assistere l’Italia nel conseguire quella
libertà che egli nega alla Francia, concluderà una
pace con l’Austria è soffocherà tutti gli sforzi degli
italiani per continuare la guerra. Se l’Austria sarà stata
capace di conservare il suo territorio, il Piemonte dovrà
contentarsi di annettersi i ducati di Parma e Modena; ma se
l’Austria avrà avuto la peggio nella lotta, la pace
sarà conclusa sull’Adige, il che lascerà tutta la
Venezia e parte della Lombardia nelle mani degli odiati austriaci.
Questa pace sull’Adige si afferma, è già stata oggetto
di un tacito accordo tra la Francia e il Piemonte.
Questo partito, pieno di fiducia nel trionfo della nazione nel caso
di una guerra nazionale contro l’Austria, sostiene che, dovesse la
guerra scoppiare con Napoleone come ispiratore, ed il re di Sardegna
come dittatore, gli italiani non avrebbero più la
possibilità né di muovere un passo senza il consenso
dei capi accettati, né di sottrarsi in alcun modo ai tranelli
della diplomazia, e di qui risulterebbero capitolazioni e trattati
con cui sarebbero ribadite le loro catene. Questo partito ricorda la
condotta del Piemonte verso Venezia e Milano nel 1848, e a Novara
nel 184962, ed esorta i suoi connazionali a trar profitto dall’amara
esperienza della loro fatale fiducia nei principi.
Tutti i suoi sforzi sono diretti a completare l’organizzazione della
penisola, ad indurre il popolo ad unirsi in uno sforzo supremo e ad
incominciare la lotta soltanto quando si sentirà capace di
iniziare la grande insurrezione nazionale, che, deposti il papa,
Bomba e Co., renderebbe disponibili gli eserciti, le flotte e il
materiale bellico delle rispettive province per sterminare lo
straniero. Il partito nazionale, considerando l’esercito e il popolo
piemontese come ardenti campioni della libertà italiana,
pensa che il re di Piemonte avrà, volendo, ampie
possibilità di venire in aiuto alla causa della
libertà e dell’indipendenza d’Italia; ma che qualora si
rivelasse reazionario, l’esercito e il popolo passeranno dalla parte
della nazione. Se invece egli giustificherà la fiducia
riposta in lui dai suoi fautori, gli italiani non mancheranno di
dimostrargli la loro gratitudine in modo tangibile. In ogni caso, la
nazione sarà in una posizione tale da poter decidere dei
propri destini, e quel partito, comprendendo che una rivoluzione
vittoriosa in Italia sarà il segnale di una lotta generale
delle nazionalità oppresse per sbarazzarsi dei loro
oppressori, non teme un intervento della Francia, perché
Napoleone avrà troppi grattacapi in casa sua per immischiarsi
negli affari di altre nazioni, sia pure allo scopo di favorire e
suoi piani ambiziosi. A chi tocca, tocca - come dicono gli italiani.
Noi non ci avventuriamo a pronosticare se scenderanno prima in campo
i rivoluzionari oppure gli eserciti regolari. Quel che sembra
abbastanza certo è che una guerra incominciata in qualsiasi
parte d’Europa non finirà dove ha avuto inizio; e se, invero,
la guerra è inevitabile, noi ci auguriamo sinceramente e di
cuore che essa possa apportare una vera e giusta soluzione della
questione italiana e delle numerose altre questioni, che, se non
saranno risolte, continueranno di tempo in tempo a turbare la pace
dell’Europa e, per conseguenza, ad impedire il progresso e la
prosperità di tutto il mondo civile.
Note
51 Il titolo è dell’Istituto di marxismo-leninismo presso il
CC del PCUS.
52 Qui Marx si ispira alla nota favola di Esopo Il pastore e gli
agricoltori.
53 Le truppe francesi e austriache si trovarono a Roma e sul
territorio dello Stato della Chiesa a cominciare dalla repressione
della rivoluzione italiana del 1848-1849. Gli svizzeri erano la
guardia papale.
54 Verso la fine del 1847 e l’inizio del 1848 si ebbero dei moti
antiaustriaci a Venezia e in Lombardia, che facevano parte
dell’Impero austriaco. Nel movimento di liberazione nazionale ebbero
una particolare funzione gli intellettuali borghesi. Un po’ ovunque
venivano avanzate petizioni con rivendicazioni di riforme
amministrative ed economiche. La popolazione boicottava i prodotti
industriali e i tabacchi d’importazione austriaca. I circoli
clandestini repubblicani organizzavano manifestazioni che non di
rado sfociavano in scontri cori le truppe e la polizia.
55 Si tratta della rivolta popolare di Milano del 18-22 marzo 1848,
che segnò l’inizio della rivoluzione italiana dei 1848-1849.
Durante le famose cinque giornate le truppe austriache furono
scacciate dalla città e il 22 marzo fu costituito il governo
provvisorio di cui entrarono a far parte i liberali borghesi (si
veda pure la nota 12).
56 Il I° gennaio 1859 al ricevimento del corpo diplomatico,
Napoleone III rivolgendosi all?ambasciatore austriaco Hϋbner si
rammaricò che le relazioni tra i due paesi «fossero
divenute meno amichevoli che nel passato». La dichiarazione
portò ad un conflitto diplomatico con l’Austria, Va
però detto che la guerra era stata già decisa da un
pezzo, dato che nel luglio 1858 a Plombières era stato
firmato il patto segreto tra Francia e Piemonte che ricompensava la
partecipazione francese al prossimo conflitto con la Savoia e Nizza.
57 Negli anni 1842-1846 Garibaldi prese parte alla lotta di
liberazione nazionale del popolo uruguaiano contro il dittatore
argentino Rosas. La legione degli emigrati rivoluzionari italiani
ebbe un ruolo importante nella difesa di Montevideo e in altre
battaglie. Il governo dell’Uruguay con un decreto speciale
esaltò le prove d’eroismo della legione,
Nel febbraio-luglio 1849 Garibaldi fu a capo della difesa della
Repubblica romana formatasi dopo la rivolta popolare. Per alcuni
mesi l’esercito repubblicano respinse con successo l’offensiva delle
truppe francesi, austriache e napoletane intervenute per reprimere
la rivoluzione.
58 Si tratta dell’accordo commerciale
dell’agosto 1858 tra la Russia e
il Piemonte circa concessione
temporanea alla Società marittima e commerciale russa della
parte orientale della baia di Villafranca, presso Nizza, per
l’ancoraggio, il rifornimento e il raddobbo delle navi.
59 Marx ironeggia a proposito della «gratitudine»
dimostrata dal l’Austria alla Russia zarista per l’aiuto prestato da
quest’ultima nel reprimere la rivoluzione ungherese degli anni
1848-1849. Coll’acutizzarsi del problema orientale, nella politica
estera dell’Austria si profilò una corrente di
ostilità nei confronti della Russia, che trovò la sua
espressione nella locuzione proverbiale attribuita al capo del
governo austriaco Schwarzerberg: «L’Austria avrà ancora
a stupire il mondo per la grandiosità della sua
ingratitudine».
60 Albione, antica denominazione delle Isole Britanniche.
L’espressione «perfida Albione» entrò in uso ai
tempi della rivoluzione francese quando il governo britannico si
fece promotore di svariate coalizioni antifrancesi.
61 Si tratta di Napoleone III, che la notte del 1° - 2 dicembre
1851 portò a termine il colpo di Stato controrivoluzionario
che provocò la caduta della Seconda Repubblica (1848-1851).
62 Carlo Alberto temendo la diffusione del movimento repubblicano in
Italia fece di tutto per non prestare aiuto a Venezia e a Milano,
che nel 1848 si erano sollevate contro il dominio austriaco.
Costretto a dichiarare guerra all’Austria sotto la pressione delle
masse popolari, dopo i primi insuccessi si affrettò a
concludere l’armistizio (agosto 1848) e dopo la sconfitta di Novara
(23 marzo 1849) capitolò da traditore nonostante la lotta
eroica dell’esercito piemontese e del popolo italiano. In una serie
di articoli sulla Neue Rheinische Zeitung Engels mise a nudo il
carattere infido della monarchia piemontese
Scritto intorno al 5 gennaio 1859
Pubblicato come articolo di fondo sulla New York Daily Tribune n.
5541, 24 gennaio 1859
F. Engels
L’occupazione austriaca dell’Italia
Quando il generale Bonaparte, nel 1796, discese dalle Alpi
Marittime, la grande settimana di Dego, Millesimo, Montenotte e
Mondovi gli fu sufficiente per conquistare tutto il Piemonte e la
Lombardia.63 Le sue colonne avanzarono senza incontrar resistenza
finché non raggiunsero il Mincio. Ma qui le cose cambiarono.
Furono fermate dalle mura di Mantova, e occorsero nove mesi al
più grande generale dell’epoca per vincere questo ostacolo.
Tutta la seconda parte della prima campagna d’Italia è
imperniata sulla conquista di Mantova. Rivoli, Castiglione, Arcole e
la marcia attraverso la valle del Brenta sono tutte operazioni
subordinate a quel grande obiettivo.64 Due volte Napoleone fu
fermato da una fortezza: la prima volta a Mantova, la seconda a
Danzica.65 Napoleone sapeva molto bene che Mantova era la chiave
d’Italia. Una volta impadronitosene, non la lasciò più
fino al giorno in cui dovette lasciare la corona, e fino quel giorno
il suo dominio sull’Italia non corse mai un serio pericolo.
Data la configurazione geografica dell’Italia, è chiaro che
una qualsiasi potenza in grado di tenerne la parte settentrionale,
la Gallia Cisalpina dei romani, domina tutta la penisola. Il bacino
del Po è sempre stato il campo di battaglia in cui si sono
decisi i destini dell’Italia. Qui si sono combattute tutte le
battaglie decisive per la supremazia in Italia, da Marignano a
Pavia, da Torino, Arcole, Rivoli, Novi e Marengo, fino a Custoza e
Novara.66 Ed è naturale. Francesi o tedeschi, chiunque cacci
il suo avversario dalla valle del Po, lo stacca dalla lunga penisola
e stacca la penisola dai suoi alleati. Ridotta alle sole sue
risorse, la penisola, che è la parte meno popolata e meno
progredita, non tarda ad essere soggiogata. Ora, nel bacino del Po,
Mantova è la posizione più centrale. È
equidistante dall’Adriatico e dal Mediterraneo, circa 70 miglia da
entrambi, e col concorso di un esercito operante può
efficacemente chiudere ogni accesso alla penisola. A ciò si
aggiungano gli immensi vantaggi tattici della sua posizione, nel
mezzo di un lago, con tre teste di ponte che favoriscono le sortite
in una zona intersecata da corsi d’acqua, fatto questo che
contribuisce ad isolare le varie parti d’un esercito assediante, e
non ci sarà più da meravigliarsi che la tradizione
voglia che chi tiene Mantova domina l’Italia.
Queste poche considerazioni saranno sufficienti a dimostrare che non
sarebbe meno facile cacciare gli austriaci dall’Italia, anche se
essi occupassero soltanto Mantova. Ciò che in altri tempi il
primo capitano dell’epoca impiegò nove mesi a fare, non
poteva farlo un ex capitano dell’artiglieria svizzera67 in
minor tempo. Ma da un punto di vista militare, la Lombardia è
immensamente cambiata dal 1796, anzi dal 1848. La campagna del 1848
è, in un certo senso, il rovescio di quella del 1796. Se il
1796 ha mostrato che cosa Mantova significa in una guerra difensiva,
il 1848 ha mostrato che cosa Mantova, Peschiera, Legnago e Verona
assieme significano in una guerra offensiva; e da allora questa
splendida posizione, forse la migliore in Europa, è stata
rifinita e preparata in ogni modo possibile e con una diligenza, uno
studio e un ensemble che torna a tutto onore dello stato maggiore e
del genio austriaci.
Guardate la carta. Dal lago di Garda al Po scorre il Mincio, fiume
di modeste proporzioni, guadabile in molti punti nell’estate, ma,
nell’insieme, non inadatto come posizione difensiva. La lunghezza
della linea, che va misurata da Peschiera a Borgoforte, sebbene la
seconda località si trovi al di là del fiume, è
di circa 30 miglia, cosìcché un esercito posto nel
centro può raggiungere le due estremità con un giorno
di marcia. Protetta a destra (nord) dal lago e dalle Alpi tirolesi,
e a sinistra dal Po, questa breve linea di 30 miglia è la
prima linea di difesa di cui può disporre un esercito
austriaco contro un nemico proveniente da occidente. E questo non
è il solo vantaggio della posizione. Più indietro,
quasi parallelo al lago, al Mincio e al Po, ad una distanza che
varia tra le dieci e le trenta miglia, scorre l’Adige, che forma una
seconda e assai più robusta linea di difesa ed è in
ogni stagione un ostacolo superabile soltanto con ponti. Questa
doppia linea, basta un’occhiata alla carta per rendersene conto,
limita naturalmente il Tirolo e le limitrofe province austriache in
un tutto compatto; ne è, da un punto di vista militare, il
necessario complemento; e su questo è fondata la massima
politica degli austriaci secondo cui la linea del Mincio è
necessaria alla difesa della Germania e il Reno deve essere difeso
sul Po.
La posizione, forte già per natura, è stata resa ancor
più forte dalla mano dell’uomo. La linea del Mincio è
stata tagliata in due dalla fortezza di Mantova. Questa è
così vicina alla foce dcl fiume, che la parte della linea a
sud della fortezza non desta eccessive preoccupazioni. La linea
viene così ad essere ancora accorciata di sette o otto
miglia: all’estremità meridionale si appoggia a una fortezza
di prim’ordine che forma teste di ponte su entrambe le rive del
fiume; nell’altra, dove il fiume esce dal lago, è difesa da
Peschiera, una posizione non molto forte tanto che fu occupata dai
piemontesi nel 1848, ma sufficiente per resistere a puntate
offensive e perciò è mantenibile finché gli
austriaci fanno una guerra di posizione; nel contempo essa permette
loro di sboccare sulla riva destra del Mincio.
Fino al 1815 la linea dell’Adige fu trascurata. Dal 1797 al 1809
segnò il confine tra l’Austria e l’Italia; nel 1815 l’Austria
si assicurò il possesso di entrambe le rive del fiume. Dietro
Mantova, alla distanza di circa
25 miglia, sorgeva la piccola
fortezza di Legnago, sull’Adige; ma dietro Peschiera la
città più vicina, Verona, non era fortificata. Gli
austriaci non tardarono ad accorgersi che, per rendere la posizione
veramente forte come avrebbe dovuto essere, Verona doveva essere
fortificata. E così fecero. Ma con la lentezza abituale
dell’antidiluviana Austria, i lavori furono trascurati a tal punto
che nel 1848, quando scoppiò la rivoluzione, la parte
sulla riva sinistra, orientale, del fiume, che avrebbe potuto essere
rivolta contro l’Austria, era passabilmente fortificata, mentre il
lato verso il nemico era rimasto relativamente indifeso.
Radetzky e i suoi capi di stato maggiore, Hess a Schönhals,
quando la rivoluzione li cacciò da Milano, si misero subito
al lavoro per correggere questo difetto. Sulle alture che circondano
Verona ad occidente furono costruiti trinceramenti per proteggere i
bastioni della città dal fuoco diretto del nemico. E fu una
fortuna per l’Austria averlo fatto. La linea del Mincio doveva
essere abbandonata. Peschiera fu assediata dai piemontesi, i quali
si spinsero fin sotto le difese di Verona. Ma qui furono costretti a
fermarsi. La battaglia di Santa Lucia (6 maggio 1848) mostrò
loro che ogni ulteriore tentativo contro le difese di Verona era del
tutto inutile.
Eppure tutta l’Italia settentrionale era nelle mani dell’esercito
rivoluzionario. Radetzky non teneva che le sue quattro fortezze,
servendosi di Verona come campo trincerato per il suo esercito.
Fronte, fianchi, e in parte le retrovie erano in potere del nemico,
infatti persino le comunicazioni con il Tirolo erano minacciate e
talvolta interrotte. Tuttavia una divisione comandata dal generale
Nugent riuscì ad aprirsi la strada attraverso l’insorta
campagna veneta e a congiungersi con lui, verso la fine di maggio.
Fu allora che Radetzky mostrò quel che era possibile fare con
quella magnifica posizione che aveva allora terminato di
organizzare. Nell’impossibilità di resistere più a
lungo negli ormai esausti dintorni di Verona e troppo debole
per affrontare il nemico in una battaglia campale, egli con
un’audace ed abile manovra spostò il suo esercito a Mantova
passando per Legnago e, prima che il nemico potesse rendersi conto
di quel che stava accadendo, mosse da Mantova per attaccarlo sulla
riva destra del Mincio; penetrò nelle sue linee costringendo
il grosso dell’esercito piemontese a ritirarsi da Verona. Tuttavia,
non poté impedire la caduta di Peschiera e, ottenuti tutti i
possibili risultati dalla sua marcia su Mantova, riunì di
nuovo le sue truppe, e ancora per Legnago mosse su Vicenza, la
strappò agli italiani, riprendendo così il controllo
di tutta la regione veneta, riallacciando le sue linee di
comunicazione e assicurandosi nelle retrovie le risorse di un ampio
e ricco territorio; dopodiché si ritirò di nuovo nella
sua roccaforte di Verona, dalla quale i piemontesi non riuscirono a
trovare la maniera di snidarlo tanto che perdettero un intero mese
per non combinare nulla. Nel frattempo erano sopraggiunte tre forti
brigate austriache e le sorti della guerra cambiarono. In tre giorni
Radetzky spazzò via i piemontesi, dalle alture tra l’Adige e
il Mincio, e, aggirando il loro fianco destro da Mantova, diede loro
una lezione tale che essi non accettarono più battaglia
finché non ebbero ripassato il Ticino.
Da questa campagna di Radetzky si può vedere quel che un
generale può fare con un esercito inferiore quando si appoggi
a un ben difeso sistema di corsi d’acqua. Dovunque i piemontesi si
trovassero, comunque cercassero di stabilire un fronte, non potevano
attaccare gli austriaci; e quel brancolare nel buio a cui furono
ridotte le operazioni militari nelle ultime cinque settimane prima
della loro disfatta definitiva, mostra chiaramente quanto
fossero disperatamente legati. In che cosa consisteva dunque la
forza della posizione di Radetzky? Semplicemente in questo: le
fortezze non soltanto lo proteggevano da un attacco, ma
costringevano il nemico a dividere le sue forze, mentre egli sotto
la loro protezione poteva operare, con tutte le sue forze, in
qualunque punto volesse, contro quella parte del nemico che gli
capitava di fronte. Peschiera neutralizzava un buon numero di
truppe; mentre Radetzky si trovava a Verona, Mantova ne
neutralizzava un’altra parte, e non appena egli andò a
Mantova, i piemontesi furono costretti a lasciare un corpo in
osservazione a Verona. C’è di più; gli italiani
dovettero operare su tutt’e due le rive del fiume con corpi
separati, nessuno dei quali poteva accorrere rapidamente in aiuto
dell’altro, mentre Radetzky, grazie alle sue fortezze e alle sue
teste di ponte, poteva spostare a piacimento la massa delle sue
forze da una sponda all’altra. Vicenza e la terraferma veneta non
sarebbero mai cadute se i piemontesi avessero avuto la
possibilità di difenderle. Data la situazione, Radetzky le
prese entrambe, mentre i piemontesi erano tenuti in scacco dalle
guarnigioni di Verona e di Mantova.
In Algeria, i francesi, quando devono far transitare una colonna
attraverso una zona ostile68 formano quattro quadrati di fanteria,
li pongono ai quattro angoli di un rombo e dispongono la cavalleria
e l’artiglieria al centro. Se gli arabi attaccano, il fuoco
concentrato della fanteria li respinge, e non appena nelle loro file
si è creato il disordine, la cavalleria si scaglia su di loro
e l’artiglieria stacca gli avantreni per inseguirli a cannonate. La
cavalleria, se respinta, trova un sicuro rifugio dietro i quadrati
della fanteria. Un sistema di fortezze è per un esercito
inferiore in campo quel che il quadrato di fanteria è per la
cavalleria, specialmente se le fortezze sono situate tra una rete di
corsi d’acqua. Verona, Mantova, Peschiera, Legnago formano i quattro
angoli di un quadrato, e finché almeno tre di esse non
vengono prese, un esercito inferiore non può essere costretto
ad abbandonare la posizione. Ma come si possono prendere? Peschiera,
in vero, è destinata sempre a cadere facilmente se gli
austriaci non possono tenere il campo; ma nel 1848 non si
tentò nemmeno di bloccare Mantova da tutte le parti e tanto
meno di cingerla di assedio. Per bloccare Mantova occorrono tre
eserciti: uno sulla riva occidentale e uno su quella orientale del
Mincio per assediarla, e un altro per proteggere l’assedio da parte
di attacchi degli austriaci dislocati a Verona. Manovrando abilmente
tra i fiumi e le fortezze ciascuno di questi tre eserciti può
essere attaccato, ad libitum, da tutte le forze austriache. Come si
può tenere a lungo una città assediata in queste
circostanze? Se Mantova, da sola, richiese al generale Bonaparte
nove mesi d’assedio prima di cadere per fame, quanto forte
sarà se difesa da un esercito che s’appoggia a Verona,
Legnago e Peschiera, capace di manovrare con le forze unite su
tutt’e due le rive del Mincio e dell’Adige, esercito al quale non si
potrebbe mai tagliare la ritirata, disponendo esso di due vie di
comunicazione, una attraverso il Tirolo e l’altra attraverso la
terraferma veneta? Non esitiamo a definire questa posizione una
delle più forti d e, poiché gli austriaci non solo
l’hanno preparata perfettamente, ma ne comprendono anche appieno
l’importanza, crediamo che 150.000 austriaci, rinchiusi in essa, non
abbiano da temere un numero doppio di avversari.
Ma supponiamo che vengano battuti e cacciati dalla
città. Supponiamo che perdano Mantova, Peschiera e
Legnago. Finché essi tengono Verona e non sono stati
completamente eliminati dal campo, possono rendere molto rischiosa
la marcia di un esercito francese in direzione di Trieste e Vienna.
Mantenendo Verona come avamposto, possono ritirarsi nel Tirolo,
recuperare le proprie forze, e costringere di nuovo il nemico a
dividere le sue: una parte deve cingere d’assedio Verona, un’altra
difendere la valle dell’Adige; rimarranno a sufficienza per marciare
su Vienna? In questo caso l’esercito tirolese potrebbe piombare loro
addosso attraverso quella valle del Brenta, la cui importanza
strategica gli austriaci hanno appreso dal generale Bonaparte nel
1796 subendo una così severa lezione. Un esperimento di tal
fatta sarebbe decisamente un errore, a meno che non ci fosse un
altro esercito per difendere la via diretta alla Germania;
poiché, se il grosso dell’esercito austriaco dovesse essere
respinto nelle Alpi tirolesi, il nemico potrebbe ancora sorpassarlo
e arrivare a Vienna prima che gli austriaci potessero uscire dal
dedalo delle colline, Ma se Vienna è fortificata (il che,
crediamo, si sta facendo), allora questa considerazione cade.
L’esercito potrebbe ancora arrivare in tempo a soccorrerla e
potrebbe ridurre la difesa della frontiera della Carinzia a una
costante presenza sulle Alpi, sul fianco sinistro dell’invasore,
minacciando di piombargli addosso o da Bassano o da Congeliano, e di
impadronirsi delle sue vie di comunicazione non appena sia passato
oltre.
Questa difesa indiretta del confine tedesco meridionale è,
sia detto fra parentesi, la miglior risposta all’argomento con cui
gli austriaci difendono la loro occupazione dell’Italia ha: la linea
del Mincio è la frontiera naturale della Germania a sud. Se
così fosse, il Reno sarebbe la frontiera naturale della
Francia. Ogni argomento calzante nel primo caso, può essere
applicato in pieno nel secondo. Ma, fortunatamente, né la
Francia ha bisogno del Reno né la Germania del Po e del
Mincio. Chi aggira, è a sua volta aggirato. Se infatti
attraverso il Veneto si aggira il Tirolo, attraverso il Tirolo
s’aggira tutta l’Italia. Il passo di Bormio conduce diritto a
Milano, e può servire per preparare una Marengo a un nemico
che attacchi Trieste e Gradisca; così servi il Gran San
Bernardo a Melas quando questi attaccò la linea del Varo69 In
guerra, in fin dei conti, chi tiene il campo più a lungo e
meglio, è sicuro di vincere. La Germania tenga saldamente il
Tirolo e potrà permettere agli italiani della pianura di
agire come meglio credono. Finché i suoi eserciti tengono il
campo, poco importa che le appartenga politicamente il Veneto — che
dal punto di vista militare è do minato dalla sua frontiera
alpina — e questo dovrebbe esserle sufficiente.
Naturalmente si tratta di una questione che riguarda solo l’Italia e
la Germania. Non appena ci si mette di mezzo la Francia, le cose
cambiano, e se la Francia getta tutto il suo peso sulla bilancia,
è più che naturale che ciascuno dei due combattenti
rinsaldi le sue posizioni quanto più è possibile. La
Germania può certo permettersi di rinunciare alla linea del
Mincio e a quelle dell’Adige, ma a patto di consegnarle soltanto
all’Italia, e a nessun’altra nazione.
Fin qui, noi abbiamo considerato le possibilità di una guerra
difensiva soltanto da parte degli austriaci. Ma, nel caso si venisse
a una guerra, la loro posizione è tale che si imporrebbe il
piano per una campagna offensiva; ma di ciò parleremo
un’altra volta.
Note
63 Sono qui elencate le battaglie della fase iniziale della campagna
di Bonaparte del 1796-1797. Passato all’offensiva da Nizza, aprile
1796, attraverso i valichi alpini l’esercito di Bonaparte
sbaragliò il gruppo d’armate austriache presso Montenotte (12
aprile 1796). L’altro raggruppamento austriaco,
incorporato nell’esercito alleato piemontese, fu sconfitto dalle
truppe napoleoniche il 13-14 aprile presso Millesimo e il 14-13
dello stesso mese i francesi sgominarono nei pressi di Dego il
distaccamento mandato in aiuto. La battaglia decisiva avvenne il 22
aprile a Mondovì dopodiché i piemontesi si ritirarono
in disordine verso Torino.
64 L’assedio di Mantova ebbe inizio nel giugno del 1796 mentre il
grosso dell’esercito napoleonico continuava ad operare contro le
truppe austriache che facevano tentativi per sbloccare la fortezza.
Il 5 agosto 1796 Bonaparte sconfisse l’esercito austriaco guidato da
Whϋrmser presso Castiglione; nella prima metà del 1796 di
nuovo sbaragliò Io stesso esercito nella Valle del Brenta;
nella battaglia di Arcole (il 15-17 novembre 1796) i francesi
sgominarono un altro esercito mandato in aiuto di Mantova; il 14-13
gennaio 1797 Bonaparte vinse la battaglia di Rivoli. Il 2 febbraio
1797, alla fine di un assedio di nove mesi, Mantova capitolò.
65 L’assedio di Danzica ebbe inizio nel marzo del 1807 durante la
guerra di Napoleone contro la quarta coalizione europea
antifrancese. La guarnigione della fortezza composta da truppe
prussiane e da un reparto alleato russo oppose un’accanita
resistenza. Le operazioni della guarnigione furono appoggiate da un
altro reparto russo che tentava di sbloccare la città. Fu
solo alla fine del maggio 1807 che la fortezza si arrese con tutti
gli onori di fronte alle preponderanti truppe napoleoniche.
66 La battaglia di Marignano (13-14 settembre 1515), una tra le
più importanti nelle guerre di Francia, Spagna e dell’impero
germanico in Italia (1494-1559). Qui l’esercito di Francesco I, re
di Francia, sconfisse le truppe mercenarie svizzere al soldo del
duca di Milano. Il 24 febbraio 1525 le truppe di Francesco I furono
sbaragliate presso Pavia dall’esercito di Carlo V. Nel 1706 nella
battaglia di Torino gli italiani sgominarono l’esercito francese che
da 117 giorni assediava la città.
Nella battaglia di Novi Ligure (15 agosto 1799) le troppe
russo-austriache guidate da A. Suvorov sconfissero l’esercito
francese di Jauhbert e così si concluse la cacciata dei
francesi dall’Italia settentrionale.
Nella battaglia di Marengo (14 giugno 1800) l’esercito di Bonaparte
sbaragliò le truppe austriache. A riguardo delle battaglie di
Custoza e di Novara si vedano le note 24 e 62.
67 Nel testo inglese gioco di parole: Captain vuol dire
«capitano» nonché «condottiero». L’ex
capitano dell’artiglieria svizzera è Luigi Bonaparte che
visse molti anni in quel paese, si naturalizzò svizzero e nel
1834 divenne capitano del reggimento d’artiglieria del cantone di
Berna.
68 Nel 1830 il governo francese iniziò la sua guerra
coloniale in Algeria, che, con qualche intervallo durò per
quarant’anni. Solo nel 1871 la Francia riuscì a farne una
colonia.
Scritto a metà febbraio 1859.
Pubblicato sulla New York Daily Tribune n. 5575, 4 marzo 1859
F. Engels
Probabilità della guerra imminente
In Europa i più zelanti amici della pace cominciano ad
abbandonare l’ultima debole speranza che la pace sarà
mantenuta, e invece di discutere le possibilità di una
soluzione
Ci si riferisce alla campagna italiana del 1800. Melas, comandante
in capo delle truppe austriache, attaccò con successo l’ala
destra dell’esercito francese presso il fiume Varo, ma nella seconda
metà del maggio 1800 Bonaparte, valicate le Alpi, lo prese
alle spalle. Il 2 giugno, caduta Milano, i francesi passarono sulla
riva meridionale del Po e il 14 giugno sgominarono gli austriaci a
Marengo.
pacifica, oggi discutono le probabilità di vittoria dei
futuri belligeranti. Ci sia dunque permesso di continuare le nostre
osservazioni sul carattere militare della valle del Po, e sulle
possibilità di manovra che essa offre all’esercito
franco-sardo e a quello austriaco, opposti l’uno all’altro.
Abbiamo già descritto la forte posizione degli austriaci sul
Mincio e sull’Adige70 Occupiamoci ora dell’altra parte.
Il Po, nel suo corso generale da occidente ad oriente, forma un’ansa
piuttosto ampia, scorrendo per circa sedici miglia da nord-ovest a
sud-est e dirigendosi poi di nuovo verso est. Questa ansa si trova
nel territorio sardo, a circa venticinque miglia dalla frontiera
austriaca. All’angolo nord, la Sesia che scorre dalle Alpi verso
sud, e, all’angolo sud, la Bormida che dagli Appennini scorre verso
nord, confluiscono nel Po. Numerosi piccoli corsi d’acqua si gettano
nell’uno o nell’altro di questi fiumi presso il loro punto di
confluenza con il fiume principale, cosìcché il
territorio che si stende ad occidente offre sulla carta l’immagine
di un vasto sistema di corsi d’acqua i quali, dall’anfiteatro
montuoso che circonda il Piemonte da tre lati, si dirigono tutti
verso un centro comune, simili ai raggi tracciati dalla
circonferenza al centro di un cerchio. Questa è la più
forte posizione difensiva del Piemonte, come fu ben riconosciuto da
Napoleone; ma, trascurata da lui come dal governo sardo che
succedette al dominio francese, fu organizzata per la difesa
soltanto dopo i disastri del 184971. Anche allora le opere difensive
furono erette con tale lentezza ed economia che oggi ancora sono
incomplete, e opere che dovrebbero avere carattere permanente
vengono ora portate a termine come semplici lavori campali per la
difesa in primavera.
Sul Po, circa quattro miglia a monte della confluenza con la Sesia,
si trova Casale, che è stata e viene tuttora fortificata
affinché costituisca il punto d’appoggio del fianco
settentrionale, o di sinistra, della posizione. Alla confluenza del
Tanaro e della Bormida, otto miglia a monte della confluenza di
quest’ultima con il Po, si trova Alessandria, la migliore fortezza
del Piemonte, che ora sta diventando il punto centrale di un vasto
campo trincerato, e copre l’ala meridionale, o destra, della
posizione. Le due città distano l’una dall’altra sedici
miglia, e il Po scorre parallelamente alla strada che le unisce, ad
una distanza di cinque o sei miglia. L’ala sinistra di un esercito
schierato su questa posizione è coperta in primo luogo dalla
Sesia, e quindi da Casale e dal Po; l’ala destra è coperta da
Alessandria e dai fiumi Orba, Bormida, Belbo e Tanaro, che
confluiscono tutti nei pressi di Alessandria. Il fronte (la prima
linea) è coperto dall’ansa del Po.
Se la Sardegna concentra un esercito di 80-90.000 uomini in questa
posizione, potrà disporre di circa 50.000 uomini per la
manovra, pronti a piombare sui fianchi di ogni esercito che tentasse
di aggirare la posizione dalla parte di Novi ed Acqui a sud, o dalla
parte di Vercelli a nord. Torino può dunque considerarsi ben
protetta da questa posizione, tanto più che in questa
capitale c’è una cittadella che può essere presa solo
con un regolare assedio, e nessun esercito che aggirasse questa
posizione potrebbe sostenere un assedio senza aver prima sloggiato
l’esercito piemontese dal suo campo trincerato. Ma la posizione di
Casale e di Alessandria offre un punto debole: essa manca di
profondità e le sue retrovie sono completamente scoperte. Gli
austriaci, tra il Mincio e l’Adige, hanno un quadrilatero protetto
da quattro fortezze, una in ciascun angolo; sul Po e sulla Bormida i
piemontesi hanno una linea con due fortezze su ciascun fianco ed un
fronte ben difeso, ma le loro retrovie sono completamente
scoperte. Ora, aggirare Alessandria dal sud sarebbe azzardato e
relativamente inutile; ma Casale può essere aggirata dal
nord, se non da Vercelli, almeno da Sesto Calende, Novara, Biella,
Santhià e Crescentino; e se un esercito numericamente
superiore passasse il Po, a monte di Casale, e attaccasse a tergo i
piemontesi, questi sarebbero immediatamente costretti a rinunciare
ai vantaggi di una posizione solidamente trincerata, e a combattere
in campo aperto. Sarebbe questa la contropartita di Marengo,
benché sull’opposta sponda della Bormida.
Descritte così le due basi di operazione nel bacino del Po,
quella degli austriaci nel precedente articolo, quella dei
franco-piemontesi qui sopra, vediamo ora come potrebbero essere
utilizzate. Uno sguardo alla carta mostra che tutto il settore
nord-orientale delle Alpi appartiene alla Svizzera, da Ginevra a
circa un miglio dal passo dello Stelvio, e di conseguenza è,
per incominciare, territorio neutrale, fino al giorno in cui o l’uno
o l’altro dei belligeranti non giudicherà opportuno violarlo.
Dato che gli svizzeri dispongono oggigiorno di forze piuttosto
rilevanti a scopo difensivo, non è probabile che una cosa
simile accada subito al principio della guerra. Per il momento,
quindi, considereremo la Svizzera come veramente neutrale ed
inaccessibile a tutt’e due le parti. In tal caso, ai francesi
rimangono solo quattro strade per entrare in Piemonte. L’armata di
Lione dovrà passare per la Savoia e il Moncenisio. Un
contingente di minori proporzioni potrà passare per Brianvon
e il Monginevro; entrambi scenderanno dalle montagne per
ricongiungersi a Torino. L’esercito concentrato in Provenza
può in parte, da Tolone, marciare attraverso Nizza e il Col
di Tenda, e in parte può essere trasportato, per via di mare,
a Genova in un tempo molto più breve. Questi due corpi hanno
il loro punto di concentramento ad Alessandria. Vi sono ancora
alcune altre strade, che però o sono inadatte al passaggio di
grossi contingenti di truppe, o sono subordinate a quelle già
ricordate, e fanno capo agli stessi punti di concentramento.
Il dispositivo dell’esercito francese d’Italia — possiamo ora
azzardarci a designarlo con questo nome — è già stato
fatto in conformità con questo stato di cose. I due
principali punti di concentramento sono Lione e Tolone, con un
contingente minore nella valle del Rodano, fra i due punti, pronto
ad avanzare attraverso Brianvon. Allo scopo di concentrare
rapidamente un forte esercito francese nella valle del Po, dietro
Alessandria e Casale, è infatti necessario servirsi di tutte
le strade sopra indicate: i contingenti più forti passeranno
per Lione e il Moncenisio, i più piccoli per Brianvon e il
Monginevro, e la maggior parte possibile del l’esercito della
Provenza dovrà essere trasportata a Genova per via mare;
poiché mentre un corpo proveniente dal Varo, attraverso il
Col di Tenda impiegherebbe più di dieci giorni per
raggiungere Alessandria, via mare da Tolone a Genova impiega
ventiquattro ore, e da Genova può portarsi ad Alessandria con
tre o quattro giorni di marce forzate.
Ora, supponendo, come è lecito supporre, che l’Austria
dichiari la guerra non appena un battaglione francese metta piede in
Piemonte, come può comportarsi l’esercito austriaco in
Italia? Può rimanere in
Lombardia, attendendo, le armi al
piede, che si concentrino
200.000 francesi e 50.000 piemontesi, e poi ripiegare davanti a loro
sulla sua base di operazioni sul Mincio, abbandonando tutta la
Lombardia. Questa linea di condotta demoralizzerebbe le truppe
austriache, e la vittoria ottenuta così inaspettatamente a
buon mercato incoraggerebbe i loro avversari. Oppure può
aspettare l’attacco dei francesi e dei piemontesi nella pianura
lombarda; in questo caso sarebbe battuto dal numero superiore,
disponendo soltanto di 120.000 uomini contro una forza doppia ed
essendo, inoltre, ostacolato dall’insurrezione italiana che
scoppierebbe in tutto il paese. Potrebbe, è vero, ripiegare
sulle sue fortezze, ma questa splendida base di operazioni sarebbe
ridotta ad una difesa passiva, la forza offensiva campale essendosi
esaurita. Lo scopo principale per cui era stato creato quel sistema
di fortezze — per servire cioè di base ad un esercito
più debole per attaccare sotto la sua protezione e con
successo un esercito più forte — andrebbe completamente
perduto, fino al momento in cui arrivassero rinforzi dall’interno
dell’Austria; e nel frattempo Peschiera potrebbe cadere, Legnago
potrebbe cadere, e le vie di comunicazione attraverso la regione
veneta sarebbero perdute. Entrambe le soluzioni che abbiamo
prospettato sarebbero svantaggiose e, in realtà,
inammissibili, a meno che non fossero imposte dalle circostanze. Ma
resta un’altra soluzione.
Gli austriaci possono mettere in campo almeno 120.000 uomini. Se
scelgono bene il momento, possono trovarsi di fronte solo i 90.000
piemontesi, dei quali solo 50.000 posso no essere utilmente
impiegati. I francesi giungono per quattro strade, tutte convergenti
su Alessandria. Gli angoli che formano queste quattro strade,
compresi nella zona determinata dalla linea
Genova-Alessandria-Moncenisio, complessivamente assommano circa a
140 gradi; sicché non c’è nemmeno da pensare che i
diversi corpi francesi prima di concentrarsi possano aiutarsi
reciprocamente. Ora, se gli austriaci scelgono bene il momento — e
abbiamo visto nel ‘48 e nel ‘49 che possono farlo — e marciano sulla
base d’operazioni piemontesi, attaccandola frontalmente oppure
aggirandola dal nord, ci azzardiamo a dire che, con tutto il
rispetto per il coraggio dei piemontesi, essi avrebbero pochissime
probabilità di successo contro un numero superiore di
austriaci; e una volta che i piemontesi fossero eliminati dal campo
e ridotti alla difesa passiva delle loro fortezze, gli austriaci
potrebbero attaccare con forze superiori ciascun corpo francese
separatamente non appena esso sbocca dalle Alpi o dagli Appennini, e
anche se fossero obbligati a ripiegare, la loro ritirata sarebbe
protetta, fintantoché la neutralità svizzera copre il
loro fianco settentrionale, e l’esercito al suo arrivo a Mantova
sarebbe ancora in grado di sostenere una difesa attiva, offensiva,
della sua base di operazioni.
Un’altra possibilità per gli, austriaci sarebbe di prendere
posizione nei dintorni di Tortona e attendere l’arrivo della colonna
francese diretta da Genova ad Alessandria, nel momento in cui essa
deve esporre il suo fianco agli austriaci. Ma si tratterebbe
soltanto di un’offensiva incompleta per ché i francesi
potrebbero rimanere tranquillamente a Genova finché le altre
colonne non fossero concentrate ad Alessandria; nel qual caso gli
austriaci sarebbero non sol tanto sopraffatti, ma correrebbero anche
il rischio di essere tagliati fuori dal Mincio e dall’Adige.
Nell’ipotesi che gli austriaci siano battuti e debbano ritirarsi
verso la loro base di operazioni, i francesi, non appena si spingono
oltre Milano, corrono il rischio di essere aggirati. La strada dello
Stelvio dal Tirolo conduce diritto a Milano attraverso la valle
dell’Adda; la strada del Tona le, per la valle dell’Oglio, e la
strada della Giudicaria, attraverso la val di Chiese, conducono
entrambe nel cuore della Lombardia e alle spalle di qualsiasi
esercito che at tacchi il Mincio da occidente. Dal Tirolo, l’Austria
aggira tutto il Lombardo-Veneto, e, se ha fatto i preparativi
necessari, può riserbare ai suoi avversari, ogni giorno, una
Marengo nella pianura lombarda. Finché la Svizzera rimane
neutrale, l’Austria può attaccare il Piemonte senza temere
che si ricorra a questo stratagemma contro di lei.
Dunque in Italia, nella situazione attuale, ciò che
più conviene all’Austria è l’offensiva. Piombare nel
bel mezzo di un esercito che si sta concentrando è una di
quelle magnifiche grandi manovre che Napoleone sapeva eseguire
così bene. E contro nessun altro le esegui con maggior
successo che contro gli austriaci: lo provano Montenotte, Millesimo,
Mondovi e Dego; lo provano Abensberg e Eckmϋhl.72 Gli austriaci, dal
canto loro, hanno brillantemente provato di
aver ben appresa da lui
quest’arte a Sommacampagna73 a
Tutt’e due le battaglie sono fasi di quella più grossa durata
cinque giorni presso Ratisbona (Baviera) nell’aprile 1809 tra le
truppe del Napoleone I e quelle austriache nel corso della guerra
austro-francese del 1809. La battaglia di Ratisbona finì con
la sconfitta e la ritirata dell’esercito austriaco.
Il 23 luglio 1848 nella battaglia di Sommacampagna le truppe
austriache guidate da Radetzlcy sbaragliarono l’esercito piemontese.
La battaglia preluse alla sconfitta di Costoza (si veda pure la nota
24).
Custoza e soprattutto a Novara. Perciò la stessa manovra
sembrerebbe oggi più conforme al metodo di combattere degli
austriaci, e quantunque richieda grande oculatezza e perfetta
tempestività, gli austriaci si lascerebbero sfuggire dalle
mani immense probabilità di successo ove si limitassero alla
semplice difesa dei loro territori.
Note
70 Si veda l’occupazione austriaca dell’Italia
71 Si veda la sconfitta dei piemontesi.
Scritto alla fine di febbraio 1859. Pubblicato come articolo di
fondo sulla New York Daily Tribune n. 5586, 17 marzo 1859
F. Engels
Da: Po e Reno
Ancor più del Belgio, l’Italia settentrionale è da
secoli il campo di battaglia sul quale tedeschi e francesi hanno
combattuto le guerre chi li hanno visti di fronte. Il possesso del
Belgio e della valle del Po è, per chi attacca, la condizione
necessaria sia per un’invasione tedesca della Francia, sia per
un’invasione francese della Germania: soltanto questo possesso rende
completamente sicuri i fianchi e le spalle dell’invasore. Soltanto
il caso di una neutralità assolutamente certa di questi paesi
potrebbe costituire un’eccezione; e ciò fino ad ora non si e
verificato.
Se è vero che la sorte della Francia e della Germania si
è indirettamente decisa fin dai tempi di Pavia74 sui campi di
battaglia della valle padana, là pure si è decisa,
direttamente e immediatamente, la sorte dell’Italia. Con i grandi
eserciti regolari dell’epoca moderna, con la crescente
potenza della Francia e della Germania, con la decadenza politica
dell’Italia, la vecchia Italia propriamente detta, a sud del
Rubicone, perdette ogni importanza militare, e il possesso della
vecchia Gallia Cisalpina implicò inevitabilmente il
predominio sulla stretta e allungata penisola. Nel bacino del Po e
dell’Adige, sulla costa genovese, veneta e romagnola, risiedeva la
popolazione più fitta, era concentrata l’agricoltura
più fiorente, l’industria più attiva, il più
animato commercio dell’Italia. La penisola, ossia Napoli e lo Stato
della Chiesa, rimasero relativamente stazionari nel loro sviluppo
storico; la loro potenza guerriera da secoli non contava più
nulla. Chi possedeva la valle del Po, tagliava le comunicazioni
terrestri della penisola con il resto del continente e,
all’occasione, poteva sottometterla con poca fatica. Così
fecero due volte i francesi nelle guerre della Rivoluzione,
così due volte gli austriaci in questo secolo. Perciò
soltanto il bacino del Po e dell’Adige ha importanza per la
guerra…..
……..Finché l’Impero tedesco75 esistette come una effettiva
potenza militare, finché, in conseguenza di ciò,
poneva la base dei suoi attacchi contro l’Italia nella Svevia
superiore e nella Baviera, esso poteva aspirare all’assoggettamento
dell’Italia settentrionale per motivi politici, mai però per
motivi puramente militari. Nelle lunghe lotte combattute per
l’Italia, la Lombardia è stata ora tedesca, ora indipendente,
ora spagnuola, ora austriaca; ma la Lombardia, non bisogna
dimenticarlo, era separata da Venezia, e Venezia era indipendente.
E, sebbene la Lombardia possedesse Mantova, essa non comprendeva
tuttavia proprio la linea del Mincio e
il territorio tra il Mincio e l’Isonzo, senza
il cui possesso, come ora ci è stato assicurato, la
Germania non può dormire sonni tranquilli. La Germania (per
mediazione dell’Austria) è venuta nel completo possesso della
linea del Mincio solo nel 1814. E se anche la Germania, come corpo
politico, non ha avuto la parte più brillante nel XVII e
XVIII secolo, è certo tuttavia che la colpa di ciò non
si dovette ad ogni modo al mancato possesso della linea del Mincio.
Veramente il completamento strategico dei confini degli Stati e la
loro delimitazione secondo linee atte alla difesa sono venuti in
auge da quando la Rivoluzione francese e Napoleone hanno creato
eserciti più mobili e con questi eserciti hanno percorso
l’Europa in tutte le direzioni. Nella guerra dei Sette anni76 il
campo di operazioni di un esercito era limitato ancora a una sola
provincia, si compivano, intorno a singole fortezze, posizioni o
basi di operazioni, manovre che duravano dei mesi; oggi invece in
ogni guerra si prende in considerazione la configurazione del
terreno di intere regioni e l’importanza che prima si attribuiva a
singole posizioni tattiche si dà oramai soltanto a vasti
gruppi di fortificazioni, a lunghe linee fluviali o a catene di
monti alte e fortemente pronunciate. E, sotto questo rapporto, linee
come quelle del Mincio e dell’Adige sono veramente di un’importanza
di gran lunga maggiore di quel che non lo fossero una volta.
Consideriamo dunque un po’ queste linee.
Tutti i fiumi che scorrono ad est del Sempione dalle Alpi nella
pianura dell’Italia settentrionale fino al Po, o direttamente al
mare Adriatico, formano, con il Po o da soli, un gomito concavo
verso oriente. Sono perciò più adatti alla difesa di
un esercito stabilito ad oriente che di uno stabilito ad occidente.
Si osservi il Ticino, l’Adda, l’Oglio, il Chiese, il Mincio,
l’Adige, il Brenta, il Piave, il Tagliamento; ogni fiume da solo o
insieme alla parte del Po con la quale con fluisce forma un arco di
cerchio, il cui centro si trova spostato verso oriente.
Perciò l’armata che sta sulla riva sinistra (orientale)
è in condizioni di prendere una posizione centrale arretrata,
dalla quale può raggiungere in un tempo relativamente breve
qualsiasi punto del fiume seriamente minacciato; esso tiene la
«linea interna» del Jomini77 marcia sul raggio o sulla
corda, mentre il nemico deve manovrare lungo la circonferenza, che
è più lunga. Se l’esercito della riva destra si trova
sulla difensiva, questa circostanza gli sarà pure
sfavorevole; il nemico è protetto nei suoi finti attacchi
dalla località e le stesse più brevi distanze dai
singoli punti della periferia, che gli erano di vantaggio nella
difesa, danno ora al suo attacco una preponderanza decisiva.
Così dunque le linee fluviali lombardo-venete sono per queste
ragioni favorevoli a un’armata tedesca nella difensiva e
nell’offensiva, sfavorevoli invece per un esercito italiano o
italo-francese; e se a tutto questo si viene ad aggiungere ancora la
già prevista circostanza che i passi del Tirolo aggirano
tutte queste linee, non c’è veramente nessun motivo per
dubitare della sicurezza della Germania, anche se non rimanesse
più sul territorio italiano nessun soldato austriaco;
infatti, questo territorio lombardo ci appartiene ogni volta che lo
vogliamo.
Del resto queste linee di fiume lombardi sono per lo più
senza importanza e poco adatte a una seria difesa. Astrazion facendo
dallo stesso Po, del quale parleremo più oltre, troviamo in
tutto il bacino soltanto due posizioni effettiva mente importanti
per la Francia o per la Germania; esse sono state giustamente
valutate nella loro importanza dai rispettivi stati maggiori e
avranno nella prossima guerra la funzione decisiva. In Piemonte, un
miglio sotto Casale, il Po piega il suo corso, fin qui volto ad est,
scorre per tre miglia buone in direzione sud-sud-est, poi volta di
nuovo verso est. Nella curva settentrionale confluisce da nord la
Sesia, in quella meridionale, da sud-ovest, la Bormida. Con questa
si uniscono immediatamente prima della confluenza, proprio vicino ad
Alessandria, il Tanaro, l’Orba e il Belbo, formando un insieme di
linee fluviali confluenti a raggiera verso un punto centrale, il cui
punto d’incrocio principale è protetto dal campo trincerato
di Alessandria.
Un esercito, uscendo da Alessandria, può spostarsi a piacere
dall’una all’altra riva dei fiumi minori, può difendere la
linea del Po che sta immediatamente di fronte, può passare il
Po a Casale, del pari fortificata, oppure operare sul la riva destra
del Po nella direzione della corrente. Questa posizione, rafforzata
da sufficienti fortificazioni, è l’unica che protegge il
Piemonte e che può servire come base di operazioni offensive
contro la Lombardia e i Ducati. Essa ha però il difetto di
non essere affatto profonda, sI che può essere sia aggirata
che sfondata con un attacco frontale, condizione questa molto
sfavorevole; un attacco potente e abile la ridurrebbe ben presto al
campo trincerato di Alessandria, ancora incompleto: e manca
ogni punto d’appoggio per valutare quanto quest’ultimo libererebbe i
difensori dalla necessità di battersi in condizioni
sfavorevoli, poiché non si conoscono né le
fortificazioni più recenti né il grado di completezza
da esse raggiunto. L’importanza di questa posizione per la difesa
del Piemonte da attacchi provenienti da oriente era stata già
riconosciuta da Napoleone, che di conseguenza aveva fatto nuovamente
fortificare Alessandria. Gli avvenimenti del 1814 non confermarono
la forza difensiva del luogo: quanto esso valga oggi, avremo forse
presto occasione di vedere.
La seconda posizione che rappresenta per il Veneto, di fronte ad
attacchi provenienti da occidente, ciò che Alessandria
rappresenta per il Piemonte, e anche molto di più, è
quella del Mincio e dell’Adige. Uscendo dal lago di Garda, il Mincio
scorre per quattro miglia fino a Mantova in direzione sud, si
allarga presso Mantova fino a formare una specie di lago circondato
da paludi e scorre quindi in direzione sud-ovest fino al Po. Il
tratto del corso tra le paludi mantovane e lo sbocco è troppo
breve per servire al passaggio di un’armata, in quanto il nemico,
sbucando da Mantova, potrebbe prendere l’armata alle spalle e
costringerla alla battaglia nelle condizioni più sfavorevoli.
Un aggiramento dal sud dovrebbe compiere un giro più ampio e
attraversare il Po a Revere o a Ferrara. Dalla parte settentrionale
la posizione del Mincio è protetta dall’aggiramento per un
lungo tratto dal lago di Garda, si che la linea del Mincio che
bisogna effettivamente difendere, da Mantova a Peschiera, è
lunga solo 4 miglia e su ciascuno dei fianchi si appoggia a una
fortezza, che assicura una via d’uscita sulla riva destra, Il Mincio
stesso non è un ostacolo notevole e le rive si sovrastano
vicendevolmente secondo la località; per questo la linea,
prima del ‘48, aveva in certo modo una cattiva fama e, se non fosse
stata notevolmente rafforzata in virtù di una particolare
circostanza, difficilmente sarebbe diventata molto celebre. Ma
questa particolare circostanza è che 4 miglia più a
monte scorre l’Adige, il secondo fiume dell’Alta Italia, con un arco
quasi parallelo al Mincio e al corso inferiore del Po, formando
così una seconda, più forte posizione, che è
rafforzata dalle due fortezze sull’Adige, Verona e Legnago. Le due
linee fluviali, con le loro quattro fortezze, costituiscono insieme,
per un esercito tedesco o austriaco attaccato dall’Italia o dalla
Francia, una posizione difensiva così forte che nessun’altra
in Europa può esserle paragonata, e tale che un esercito, che
possa ancora entrare in campo dopo aver costituito delle
guarnigioni, può, in questa posizione, affrontare
tranquillamente l’assalto di una forza due volte maggiore. Che cosa
valga questa posizione, lo ha dimostrato Radetzky nel 1848. Dopo la
rivoluzione di marzo a Milano78 la diserzione dei reggimenti
italiani e il passaggio del Ticino da parte dei piemontesi, egli si
ritirò con il resto delle sue truppe, circa 45.000 uomini,
verso Verona. Dopo la ritirata delle guarnigioni, forti di 15 mila
uomini, gli rimanevano disponibili poco più di 30.000 uomini
all’incirca. Di fronte a lui stavano tra il Mincio e l’Adige 60.000
piemontesi, toscani, modenesi e parmigiani. Alle sue spalle faceva
la sua comparsa l’armata di Durando, formata da circa 45.000 uomini
tra truppe papaline, napoletane e volontari79. Gli era rimasto
soltanto il collegamento attraverso il Tirolo e anche questo era
minacciato, sebbene soltanto lievemente, dai volontari lombardi.
Tuttavia Radetzky resistette. La guardia dinanzi a Peschiera e a
Mantova distolse ai piemontesi tante truppe che essi poterono
presentarsi il 6 maggio all’assalto della posizione di Verona
(battaglia di Santa Lucia) soltanto con quattro divisioni, da 40 a
45.000 uomini; Radetzky poté impiegare, con la guarnigione di
Verona, 36.000 uomini. L’equilibrio sul campo di battaglia, se si
tiene conto della forte posizione difensiva tattica degli austriaci,
era ristabilito e i piemontesi furono battuti. La controrivoluzione
del 15 maggio a Napoli liberò Radetzky della presenza dei
15.000 napoletani80 e ridusse l’esercito del retroterra veneto a
circa 30.000 uomini, dei quali però soltanto 5.000 svizzeri
pontifici e circa altrettanti italiani facenti parte delle truppe di
linea pontificie potevano essere impiegati in campo aperto; il resto
era costituito da volontari. L’armata di riserva di Nugent, che si
era costituita nell’aprile sull’Isonzo, si apri facilmente il varco
attraverso queste truppe e si riunì il 25 maggio con Radetzky
a Verona, forte di circa 20.000 uomini. Ora il vecchio
feldmaresciallo poteva finalmente uscire dalla difesa passiva. Per
liberare Peschiera, assediata dai piemontesi, e per creare intorno a
sé più spazio libero, egli intraprese la famosa marcia
di fianco verso Mantova con l’intero suo esercito (27 maggio);
sboccò di qui il 29 sulla riva destra del Mincio,
assalì la linea nemica a Curtatone, e avanzò il 30
contro Goito, alle spalle e sui fianchi degli italiani. Ma in quello
stesso giorno cadeva Peschiera; il tempo era sfavorevole, e Radetzky
non si sentiva ancora abbastanza forte per una battaglia decisiva.
Marciò dunque di nuovo il 4 giugno attraverso Mantova in
ritirata verso l’Adige, inviò il corpo di riserva a Verona e
si diresse con il resto delle sue truppe attraverso Legnago verso
Vicenza, che era stata fortificata da Durando e da lui occupata con
17.000 uomini. Il 10 attaccò Vicenza con
30.000 uomini, l’11 Durando capitolava dopo la valorosa difesa. Il
secondo corpo d’armata (d’Aspre) occupò Padova, l’alta valle
del Brenta e in generale la terraferma veneziana e poi raggiunse il
primo a Verona; una seconda armata di riserva sotto Welden si
avvicinava dall’Isonzo. Durante questo tempo e fino al momento
decisivo della campagna, i piemontesi concentrarono, con
superstiziosa ostinazione, tutta la loro attenzione sull’altipiano
di Rivoli, che essi mostravano di ritenere, dal tempo della vittoria
di Napoleone, la chiave dell’Italia, ma che nel 1848 in
realtà non aveva più alcuna importanza, da quando gli
austriaci si erano di nuovo aperta una sicura comunicazione col
Tirolo, attraverso la Vallarsa, e soprattutto anche la comunicazione
diretta con Vienna, attraverso l’Isonzo. Nello stesso tempo
però bisognava fare anche qualche cosa contro Mantova; essa
fu quindi bloccata dalla parte destra del Mincio, operazione questa
che non poteva avere nessun altro scopo che quello di documentare la
perp dominante nel campo piemontese, di sparpagliare l’esercito per
tutto il tratto lungo otto miglia, da Rivoli a Borgoforte, e
per di più di dividerlo per mezzo del Mincio in due tronconi
che non potevano aiutarsi reciprocamente.
Quando dunque fu fatto il tentativo di bloccare Mantova anche dalla
riva sinistra, Radetzky, che frattanto aveva riunito a sé i
12.000 uomini di Welden, si decise a sfondare lo schieramento
piemontese nel suo centro indebolito e a battere quindi
singolarmente le truppe che si andavano raccogliendo. Il 22 luglio
fece attaccare Rivoli, che i piemontesi sgomberarono il 23; il 23
avanzò egli stesso da Verona con 40.000 uomini contro la
posizione di Sona e Sommacampagna, difesa soltanto da 14.000
piemontesi, la prese e sconvolse così l’intero schieramento
nemico. L’ala sinistra piemontese fu respinta interamente al di
là del Mincio il 24, e l’ala destra, che si era nel frattempo
concentrata e marciava contro gli austriaci, fu sconfitta il 25 a
Custoza; il 26 l’intero esercito austriaco passò il Mincio e
batté ancora una volta i piemontesi a Volta. Con ciò
la campagna era terminata; subito dopo, senza opporre resistenza, i
piemontesi passarono di nuovo al di là del Ticino.
Questa breve narrazione della campagna del 1848 di mostra in modo
più convincente di tutte le ragioni teoriche la forza della
posizione del Mincio e dell’Adige. Giunti nel quadrilatero tra le
quattro fortezze, i piemontesi dovettero distaccare tante truppe,
che la loro offensiva, come dimostra la battaglia di Santa Lucia, ne
era già spezzata, mentre Radetzky, non appena giunsero i
primi rinforzi, si poté muovere in piena libertà tra
le fortezze, prendere come base ora Mantova, ora Verona, oggi
minacciare sulla riva destra del Mincio le spalle del nemico e pochi
giorni dopo assalire Vicenza, e mantenere costantemente la
iniziativa delle operazioni. I piemontesi hanno commesso certamente
errori sopra errori; ma è proprio la forza di una posizione
che mette il nemico in difficoltà e quasi lo costringe a
commettere degli errori. La guardia, non più l’assedio, alle
singole fortezze lo costringe a dividersi, a indebolire la forza
offensiva che ha a sua disposizione: i fiumi lo costringono a
raddoppiare questa divisione e pongono i suoi corpi d’armata,
così divisi, più o meno nell’impossibilità di
venirsi reciprocamente in aiuto. Quali enormi forze ci vogliono per
assediare Mantova quando un’armata pronta alla battaglia può
ad ogni momento irrompere dai forti avanzati di Verona!
Mantova da sola nel 1797 fu in grado di fermare l’esercito
vittorioso del generale Bonaparte. Soltanto due volte una fortezza
riuscì ad incutergli rispetto: Mantova e, dieci anni
più tardi, Danzica. Tutta la seconda parte della campagna del
1797 — Castiglione, Medole, Calliano, Bassano, Arcole, Rivoli81 — ha
come centro Mantova, e solo dopo che questa fortezza è caduta
il vincitore osa avanzare verso oriente e al di là
dell’Isonzo. Allora Verona non era fortificata; nel 1848, della
fortezza di Verona era pronto soltanto il muro di cinta sulla riva
destra dell’Adige e la battaglia di Santa Lucia fu combattuta sul
terreno nel quale subito dopo sono state costruite le ridotte
austriache, e in seguito i forti avanzati permanenti; solo in tal
modo il campo trincerato di Verona diventa il nucleo, il ridotto di
tutta la posizione, che ha guadagnato così enormemente in
potenza...
Supponiamo che l’intera Italia sia indipendente, unita e alleata con
la Francia per una guerra offensiva contro la Germania. Da tutto
ciò che abbiamo detto finora deriva che, in questo
caso, la linea di operazioni e
di ritirata dei tedeschi non
sarebbe la Vienna-Klagenfurt-Treviso ma quella
Monaco-Innsbruck-Bolzano e Monaco-Fϋssen-Finstermϋnz- Glurns; e che
i loro punti di sbocco nella pianura lombarda sono situati tra la
Valsugana e il confine svizzero. Qual è dunque il punto
d’attacco decisivo? Evidentemente quella parte dell’Alta Italia che
mette in comunicazione la penisola con il Piemonte e la Francia, il
medio corso del Po da Alessandria a Cremona. Ma i passi tra il lago
di Garda e il lago di Como sono tali da permettere largamente ai
tedeschi l’avanzata in questo territorio e da tener loro aperta la
ritirata per la stessa via, nel peggiore dei casi attraverso il
passo dello Stelvio. In questo caso le fortezze del Mincio e
dell’Adige, che abbiamo presupposto essere in possesso degli
italiani, sarebbero lontane dal campo di battaglia decisiva. La
sistemazione di una guarnigione nel campo trincerato di Verona con
relative forze, sufficienti per l’offensiva, sarebbe soltanto
un’inutile dispersione di forze da parte del nostro nemico. Oppure
si aspetta che gli italiani in massa sbarrino ai tedeschi la valle
dell’Adige sul prediletto altipiano di Rivoli? Da quando è
stata costruita la via dello Stelvio (attraverso il passo dello
Stelvio) lo sbocco della valle dell’Adige ha perduto molta della sua
importanza. Ma, dato il caso che Rivoli dovesse figurare di nuovo
come la chiave dell’Italia e che la forza di attrazione costituita
dall’esercito italiano così accampato fosse sufficiente a
spingere i tedeschi a compiere l’attacco, a che cosa servirebbe
allora Verona? Essa non chiude la valle dell’Adige, altrimenti la
marcia degli italiani verso Rivoli sarebbe superflua. Per coprire la
ritirata in caso di una sconfitta, è sufficiente Peschiera,
che offre un passaggio sicuro del Mincio e che quindi assicura
l’ulteriore marcia verso Mantova o Cremona. Uno schieramento di
massa di tutte le forze combattenti italiane tra le quattro
fortezze, come per aspettare qui l’arrivo dei francesi senza dover
essere provocate a battaglia, dividerebbe però fin
dall’inizio della campagna le forze avversarie in due tronconi e si
renderebbe possibile di fare impeto con le forze riunite sulla loro
linea di congiungimento, prima contro i francesi, e, dopo aver
battuto questi, di intraprendere il processo, certamente un po’
lungo, di sloggiamento degli italiani dalle loro fortificazioni. Una
terra come l’Italia, il cui esercito nazionale è posto
immediatamente, nel caso di un attacco da nord e da oriente che
abbia successo, nel dilemma di dover scegliere come base o il
Piemonte o la penisola, un paese siffatto deve evidentemente avere i
suoi grandi impianti difensivi nella regione in cui l’esercito
può trovarsi di fronte a questo dilemma. La confluenza del
Ticino e dell’Adda nel Po offre qui dei punti di appoggio. Il
generale von Willisen (Campagna d’italia del 1848)82 voleva che
ambedue questi punti fossero fortificati dagli austriaci. A parte il
fatto che questo già non va, perché essi non
possiedono la zona necessaria (presso Cremona la riva destra del Po
è di Parma, e a Piacenza essi hanno soltanto il diritto di
guarnigione), per di più ambedue questi punti sono troppo
avanzati per costituire un’importante posizione difensiva, in un
paese in cui gli austriaci saranno circondati in ogni guerra da
insurrezioni; inoltre Willisen, il quale non può vedere due
fiumi congiungersi senza far subito dei piani per un campo
trincerato, dimentica che né il Ticino né l’Adda sono
linee che offrono possibilità di difesa e quindi, anche
secondo la sua opinione, non proteggono il territorio retrostante.
Ma quello che sarebbe per gli austriaci un inutile spreco, è
per gli italiani indubbiamente una buona posizione. Per loro il Po
è la linea principale di difesa; il triangolo
Pizzighettone-Cremona-Piacenza con Alessandria a sinistra e Mantova
a destra, sarebbe un’efficace difesa di questa linea e permetterebbe
all’esercito sia di attendere coperto l’arrivo di alleati stranieri,
sia anche, se si dà il caso, di avanzare all’offensiva nella
pianura, che è di importanza decisiva, tra la Sesia e
l’Adige.
Il generale von Radowitz così si espresse all’Assemblea
nazionale di Francoforte83 se la Germania non possedesse più
la linea del Mincio, essa sarebbe respinta nella posizione in cui si
verrebbe a trovare ora soltanto dopo una campagna militare
completamente sfortunata. La guerra sarebbe allora immediatamente
trasferita in territorio tedesco; essa comincerebbe sull’Isonzo e
nel Tirolo italiano e tutto il territorio tedesco meridionale fino
alla Baviera sarebbe aggirato, così che anche in Germania la
guerra dovrebbe essere combattuta sull’Isar invece che sull’alto
Reno.
Il generale von Radowitz mostra di avere giudicato abbastanza
giustamente le cognizioni militari del suo pubblico. È
giusto: se la Germania abbandona la linea del Mincio essa rinuncia a
tanto terreno e a tante posizioni quante ai francesi e gli italiani
ne frutterebbe una campagna completamente fortunata. Ma anche
così la Germania è ancora lungi dall’essere respinta
nella posizione in cui la metterebbe una campagna sfortunata; oppure
forse un forte, intatto esercito tedesco, che si raduna ai piedi
delle Alpi bavaresi e marcia attraverso i passi del Tirolo per
entrare in Lombardia, è nelle stesse condizioni di un
esercito scompaginato e demoralizzato da una campagna sfortunata,
che si affretta al Brennero braccato dal nemico? Le
possibilità di successo che offre un’offensiva sferrata da
una posizione che domina da parecchi punti di vista il punto di
congiungimento tra francesi e italiani sono forse uguali a quelle
che ha un esercito sconfitto di riportare la sua artiglieria al di
là delle Alpi? Prima di avere la linea del Mincio, abbiamo
occupato l’Italia assai più volte che da quando l’abbiamo;
chi vorrà mettere in dubbio che, in caso di bisogno, possiamo
ripetere ancora una volta il giuoco?
Per quanto poi concerne il punto che senza la linea del Mincio la
guerra sarebbe condotta immediatamente in Baviera e in Carinzia,
anche questo non è esatto. Tutta la nostra esposizione tende
a dimostrare che senza la linea del Mincio la difesa del confine
meridionale tedesco può avvenire soltanto passando
all’offensiva. A ciò porta la natura montagnosa delle
province tedesche di confine, che non possono servire come campo di
battaglia decisivo; a ciò porta la posizione favorevole dei
passi alpini. Il campo di battaglia giace nelle pianure davanti ad
essi. Là noi dobbiamo discendere e questo non ce lo
può impedire nessuna potenza sulla terra. Una premessa
più favorevole all’offensiva di quella che ci viene offerta
qui, nel caso più sfavorevole di un’alleanza franco-italiana
non è facile immaginarla. Essa può essere appoggiata
dal miglioramento delle strade alpine e da fortificazioni agli
incroci stradali nel Tirolo, capaci d’opporre, in caso di ritirata,
una resistenza sufficiente se non a fermare completamente il nemico,
almeno a costringerlo a distaccare notevoli forze per proteggere i
suoi collegamenti. Per quanto riguarda le strade alpine, tutte le
guerre combattute nelle Alpi ci dimostrano che anche la maggior
parte delle principali vie prive di fondo stradale e molte
mulatterie sono valicabili per tutte le specie di armi, senza
straordinaria fatica. Date queste circostanze, un’offensiva tedesca
nella Lombardia dovrebbe essere preparata veramente in modo da avere
tutte le probabilità di successo. Certamente noi potremmo
tuttavia essere sconfitti; e allora si verificherebbe il caso di cui
parla Radowitz. Che cosa accadrebbe con Vienna scoperta e la Baviera
minacciata di aggiramento attraverso il Tirolo?
In primo luogo è chiaro che nessun battaglione nemico
può ardire di attraversare l’Isonzo finché l’esercito
tedesco del Tirolo non è stato respinto interamente e
irrimediabilmente al di là del Brennero. Dal momento in cui
la Baviera costituisce la base di operazioni tedesca contro
l’Italia, da quel momento una offensiva italo-francese in direzione
di Vienna non ha in verità nessuno scopo, essa sarebbe una
inutile dispersione di forze. Ma anche dato che Vienna fosse ancora
un centro così importante che valesse la pena per il nemico
di distaccare le forze principali del suo esercito per conquistarla,
ciò dimostra semplicemente che Vienna deve essere
fortificata. L’avanzata di Napoleone nel 1797, le invasioni
dell’Italia e della Germania nel 1805 e nel 1809 sarebbero potute
finire molto male per i francesi, se Vienna fosse stata fortificata.
Un’offensiva lanciata da tali distanze corre sempre il pericolo di
liquidare le sue ultime forze di fronte a una capitale fortificata.
Del
resto, anche ammesso che il nemico abbia rigettato al di là
del Brennero l’esercito tedesco, quale margine di
superiorità dovrà presupporsi per rendere possibile
un’efficace dislocazione di forze nell’interno dell’Austria!
Ma come vanno le cose per quanto riguarda l’aggiramento dell’intera
Germania meridionale attraverso l’Italia? In realtà, se la
Lombardia aggira la Germania fino a Monaco, quanto allora la
Germania aggira l’Italia? In ogni caso almeno fino a Milano e Pavia.
Le possibilità fin qui sono dunque uguali. Ma, in
virtù dell’ampiezza molto maggiore della Germania, un
esercito che si trovi sull’alto Reno, e che venga
«aggirato» attraverso l’Italia in direzione di Monaco,
non avrebbe bisogno per questo di ritirarsi immediatamente. Un campo
trincerato nell’alta Baviera o una temporanea fortificazione di
Monaco, raccoglierebbe l’armata del Tirolo battuta e arresterebbe
ben presto l’offensiva del nemico avanzante, mentre all’armata
dell’alto Reno rimarrebbe la possibilità di scegliere come
basi di operazioni Ulma e Ingolstadt oppure il Meno, e quindi, nel
caso peggiore, di cambiare la base di operazioni. In Italia, invece,
tutto è diverso. Se un esercito italiano viene aggirato ad
occidente attraverso i passi del Tirolo, non resta altro che
scacciarlo dalle sue fortezze e tutta l’Italia è conquistata.
La Germania in una guerra contro Francia e Italia unite ha sempre
più eserciti, almeno tre, e la vittoria o la sconfitta
dipende dal risultato complessivo di tutte e tre le campagne.
L’Italia offre spazio per un solo esercito; ogni divisione sarebbe
un errore; e se questo solo esercito è annientato, l’Italia
è così conquistata. Per un esercito francese in Italia
le comunicazioni con la Francia sono in ogni caso la cosa
principale; e non appena questa linea di comunicazioni non è
più limitata al Col di Tenda e a Genova, tosto essa offre il
fianco ai tedeschi che sono nel Tirolo e ciò avviene tanto
più, quanto più avanti i francesi si spingono in
Italia. Il caso di una irruzione dei francesi e degli italiani in
Baviera attraverso il Tirolo deve essere in verità previsto
dal momento in cui vengono nuovamente condotte in Italia guerre
tedesche e la base delle operazioni risulta spostata dall’Austria
alla Baviera. Ma, con adatte opere di fortificazione, costruite
secondo il principio moderno per cui le fortezze ci sono per servire
agli eserciti, e non gli eserciti per servire alle fortezze, la
punta di questa invasione può essere spezzata molto
più facilmente che quella di una invasione tedesca in Italia.
E perciò non c’è bisogno di farsi uno spauracchio di
questo cosìddetto «aggiramento» di tutta la
Germania meridionale. Il nemico che aggiri un’armata tedesca
dell’alto Reno attraverso l’Italia e il Tirolo, deve avanzare fino
al mar Baltico prima di poter godere dei frutti di questo
aggiramento. La marcia di Napoleone da Jena a Stettino84
difficilmente però può essere ripetuta nella direzione
Monaco-Danzica.
Noi non contestiamo in nessun modo che la Germania, se abbandona la
linea dell’Adige e del Mincio, rinuncia ad una posizione difensiva
molto forte. Ma che questa posizione sia necessaria per la sicurezza
del confine meridionale tedesco, questo noi lo contestiamo
assolutamente. Certamente se si parte, come sembra che facciano i
sostenitori della opposta opinione, dal presupposto che un esercito
tedesco venga battuto ogni volta che si fa vedere, allora si
può pensare che l’Adige, il Mincio e il Po ci siano
assolutamente necessari. Ma allora in verità non ci possono
servire più a nulla; allora non ci sono d’aiuto nè
fortezze né eserciti, allora non ci resta altro da fare che
passare subito sotto le forche caudine85. Noi abbiamo un’opinione
diversa della forza militare della Germania e siamo perciò
completamente paghi di vedere il nostro confine meridionale
garantito dai vantaggi che esso offre per un’offensiva in territorio
lombardo.
Ma qui entrano in gioco anche considerazioni politiche che non
possiamo lasciare da parte. Dal 1820 86 in poi il movimento
nazionale in Italia è uscito ringiovanito e più
potente da ogni sconfitta. Ci sono pochi paesi i cui
cosìddetti confini naturali corrispondano così
fedelmente ai confini della nazionalità e siano insieme
così netti. Una volta che in un tale paese, che per di
più conta 25 milioni di abitanti, il movimento nazionale si
è rafforzato, esso non può più aver pace,
finché una parte del paese, tra le migliori e più
importanti politicamente e militarmente, e con essa circa un quarto
dell’intera popolazione, è soggetta a una dominazione
straniera e antinazionale. Dal 1820 l’Austria regna in Italia ormai
soltanto con la violenza, con la repressione di ripetute
insurrezioni, col terrore dello stato d’assedio. Per mantenere la
sua dominazione in Italia è necessario all’Austria
trattare i suoi avversari politici, cioè ogni italiano che si
senta italiano, peggio dei delinquenti comuni. La maniera in cui
sono stati trattati, e qua e là ancora vengono trattati, i
prigionieri politici italiani da parte dell’Austria, è
inaudita nei paesi civili. Con particolare predilezione gli
austriaci hanno cercato di coprire d’infamia i rei di delitti
politici in Italia trattandoli col bastone, sia col fine di
spremerne confessioni sia con il pretesto della pena. Fiumi di
indignazione morale sono stati versati sul pugnale italiano,
sull’assassinio politico; ma sembra ci si sia completamente
dimenticati che è stato il bastone austriaco a provocarlo. I
mezzi dei quali si deve servire l’Austria per mantenere la sua
dominazione in Italia sono la migliore dimostrazione che questa
dominazione non può durare più a lungo. La Germania
che, nonostante Radowitz, Willisen e Hailbronner, non ha per quella
dominazione lo stesso interesse dell’Austria, la Germania è
certamente messa nella condizione di domandarsi se poi questo
interesse sia abbastanza grande da controbilanciare i numerosi
svantaggi che ad essa sono legati.
L’Alta Italia è un’appendice che alla Germania in ogni caso
serve soltanto in guerra, ma che in pace può esserle solo di
danno. Gli eserciti necessari a mantenerne il possesso sono divenuti
dal 1820 in poi sempre più numerosi e dal 1848, nella pace
più completa, raggiungono i 70.000 uomini, che si trovano
continuamente come in terra nemica, e debbono a ogni momento
aspettarsi un attacco. La guerra del 1848-49 e l’occupazione
dell’Italia fino ad oggi, nonostante il pagamento
dell’indennità di guerra da parte del Piemonte, i ripetuti
contributi lombardi, i prestiti forzosi e le imposte straordinarie,
è costata all’Austria evidentemente molto di più di
quel che l’Italia non le abbia fruttato dal 1848. E tuttavia dal
1848 al 1854 il paese è stato sistematicamente trattato come
un possedimento puramente provvisorio, dal quale si prende tutto
quel che si può prima di sgomberarlo. Soltanto a partire
dalla Guerra d’oriente87 la Lombardia è tornata per un paio
d’anni a condizioni meno anormali; ma quanto durerà tutto
questo, con le attuali complicazioni, ora che il sentimento
nazionale italiano di nuovo pulsa con tanta violenza?
Ma, cosa molto più importante, il possesso della Lombardia
vale tutto l’odio, tutta la fanatica ostilità che ci ha
attirato in tutta l’Italia? Vale la corresponsabilità nelle
misure punitive con cui l’Austria — nel nome e nell’interesse della
Germania, come ci viene assicurato — rafforza colà la sua
dominazione? Vale esso le continue intromissioni nelle faccende
interne del resto d’Italia, senza le quali, secondo la prassi fin
qui seguita e secondo le assicurazioni austriache, la Lombardia non
può essere mantenuta, e che rendono sempre più acceso
l’odio degli italiani contro di noi tedeschi? In tutte le
considerazioni militari fatte fin qui abbiamo sempre presupposto il
caso peggiore, quello di una alleanza della Francia con l’Italia.
Fintanto che noi manteniamo il possesso della Lombardia, l’Italia
è senza dubbio l’alleata della Francia in ogni guerra
francese contro la Germania. Appena noi l’abbandoniamo, questo viene
a cessare. Ma è nostro interesse mantenere quattro fortezze e
con questo assi curare a noi la fanatica inimicizia e ai francesi
l’alleanza di 25 milioni di italiani?
Le interessate dicerie sull’incapacità politica degli
italiani e sulla loro vocazione ad esser soggetti alla dominazione
tedesca o a quella francese, così come le diverse congetture
sulla possibilità o meno di un’Italia unita, ci sembrano
piuttosto sorprendenti in bocca a tedeschi. Quanto tempo è
che noi, la grande nazione tedesca, che conta il doppio degli
abitanti dell’Italia, siamo sfuggiti alla «vocazione» ad
esser soggetti o ai francesi o ai russi? Ed è stata fino ad
oggi risolta in pratica la questione dell’unità o non
unità della Germania? Non siamo noi in questo momento,
secondo ogni probabilità, alla vigilia di avvenimenti che
matureranno una decisione su questi due problemi per il nostro
avvenire? Abbiamo dimenticato completamente Napoleone ad Erfurt o
l’appello austriaco alla Russia alle conferenze di Varsavia o la
battaglia di Bronnzell88?
Vogliamo per un momento ammettere che l’Italia debba rimanere sotto
l’influenza o tedesca o francese. In questo caso, al di fuori delle
simpatie, decide soprattutto ancora la situazione
geografico:militare dei due paesi che esercitano questa influenza.
Vogliamo ammettere che le forze militari della Francia e della
Germania siano eguali, sebbene la Germania evidentemente possa
essere molto più forte. Ma noi crediamo di aver dimostrato
che, nel più favorevole dei casi, se cioè rimangono
aperti ai francesi il Vallese e il Sempione, la loro influenza
militare diretta comprende solo il Piemonte, ed essi debbono prima
vincere una battaglia per estenderla al territorio posto più
innanzi, mentre la nostra influenza si estende su tutta la Lombardia
e sul punto di collegamento tra il Piemonte e la penisola; e per
toglierci questa influenza bisogna prima sconfiggerci. Ma, dove
esiste una tale disposizione geografica alla dominazione,
l’influenza della Germania non ha nulla da temere dalla concorrenza
francese.
Il generale Hailbronner diceva recentemente nella Augsburger
Abendszeitung press’a poco così: la Germania ha ben
altra missione che quella di servire da parafulmine contro la
tempesta che si addensa sul capo della dinastia bonapartista. Con lo
stesso diritto gli italiani possono dire: l’Italia ha ben altra
missione che quella di servire da cuscinetto ai tedeschi contro i
colpi che sferra loro la Francia e di riceverne come ringraziamento
delle bastonate dagli austriaci. Ma se la Germania ha interesse a
mantenere un tale cuscinetto, ciò può avvenire in ogni
modo molto meglio se essa sta in buoni rapporti con l’Italia, se
rende giustizia al movimento nazionale e lascia agli italiani le
cose d’Italia finché essi non si immischiano nelle cose
tedesche. L’opinione di Radowitz che, se l’Austria se ne va oggi,
domani la Francia debba avere il dominio dell’Alta Italia, era a suo
tempo così poco fondata come ancora lo era tre mesi fa,
così come stanno le cose oggi, sembra che essa debba
diventare una realtà, ma nel senso opposto a quello di
Radowitz. Se i 25 milioni di italiani non possono mantenere la loro
indipendenza, tanto meno lo dovrebbero i due milioni di danesi, i
quattro milioni di belgi, i tre milioni di olandesi. Ciò
nondimeno noi non sentiamo i difensori della dominazione tedesca in
Italia lamentarsi per la dominazione francese o svedese su questi
paesi e pretendere che venga sostituita da una dominazione tedesca.
Per quanto riguarda la questione dell’unità noi pensiamo: o
l’Italia può diventare unita, e allora essa avrà una
propria politica, che necessariamente non sarà né
tedesca né francese e quindi non potrà essere
più dannosa a noi che ai francesi; o essa rimane divisa, e
allora la divisione ci assi cura degli alleati in Italia in ogni
guerra contro la Francia.
Ad ogni modo questo è certo: sia che noi abbiamo la Lombardia
o no, avremo sempre una notevole influenza in Italia, finché
saremo forti in casa nostra. Se noi lasciamo che l’Italia sbrighi da
sé i propri affari, verrà meno da sé l’odio
degli italiani contro di noi e la nostra naturale influenza su di
loro diventerà in ogni modo molto più notevole e
può anche arrivare, a certe condizioni, a una vera e propria
egemonia. Invece dunque di cercare la nostra forza nel possesso di
territorio straniero e nell’oppressione di una nazionalità
straniera, alla quale soltanto il pregiudizio può negare la
possibilità di un avvenire, faremo meglio a preoccuparci di
essere uniti e forti in casa nostra.
Note
74 Si veda la nota 66.
75 Si tratta del Sacro Romano Impero costituitosi nella metà
del X sec, ed esistito formalmente fino al 1806. Nei sec. XI-XIII
gli imperatori germanici condussero accanite lotte contro Roma per
il dominio sull’Italia.
76 La guerra dei sette anni (1756-1763), tra le due coalizioni
europee: anglo-prussiana, da una parte, e franco-russo-austriaca,
dall’altra. Provocata dallo scontro degli interessi delle potenze
feudali-assolutistiche (Prussia, Austria, Russia, Francia) e le
aspirazioni colonialistiche delle rivali Francia e Inghilterra,
finì con l’espansione dell’Impero coloniale britannico a
spese dei possedimenti francesi e con l’aumento della potenza
della Russia; Austria e Prussia nel complesso rimasero nell’ambito
delle rispettive frontiere.
77 Il termine usato da A. Jomini nei suo libro Précis de
l’art de la guerre, ou Nouveau tableau analytique des principales
combinaisons de la stratégie, de la grande tactique et la
politique militaire (Compendio dell’arte della guerra, ossia Nuova
tabella analitica di combinazioni principali della strategia, della
grande tattica e della politica militare). La prima edizione fu
stampata a Parigi nel 1838.
78 Si veda la nota 55.
79 Nel marzo 1848 sotto la pressione delle masse popolari
sollevatesi in tutta l’Italia contro il dominio austriaco, Pio IX e
Ferdinando Il, re di Napoli, furono costretti a mandare truppe
nell’Italia settentrionale. Però la loro missione liberatrice
risultò quanto mai breve, in quanto ben presto tradirono gli
interessi della rivoluzione italiana.
80 Il 15 maggio 1848 Ferdinando Il, re di Napoli, promosse un colpo
di Stato controrivoluzionario e represse atrocemente la rivolta del
popolo napoletano. Le truppe napoletane che si trovavano in
Lombardia per appoggiare l’esercito rivoluzionario furono richiamate
a Napoli, il che facilitò di molto la situazione delle truppe
austriache nell’Italia settentrionale.
81 Qui sono elencate le battaglie della campagna italiana di
Bonaparte (1796-1797) che ebbero luogo nel corso dell’assedio di
Mantova (si veda la nota 65): presso Medola gli austriaci furono
sconfitti dai francesi; presso Bassano (8 settembre 1796) Bonaparte
sgominò le truppe austriache guidate da Whϋirmser; dopo la
battaglia di Calliano (6 novembre 1796) le truppe francesi furono
respinte verso Rivoli.
82 W. Willisen. Der italienische Feldrzug des Jahres 1848. Berlino,
1849.
83 Si veda la nota 10.
84 Si tratta dell’avanzata impetuosa e quasi ininterrotta
delle truppe di Napoleone in Prussia subito dopo la vittoria di Jena
e Auerstadt (14 ottobre 1806). Già il 28 ottobre i francesi
entrarono a Stettino.
85 NeI 321 a.C. presso Candio i Sanniti sbaragliarono i Romani
e li fecero passare sotto le forche caudine. Quel termine da allora
fu il simbolo della massima umiliazione, soprattutto morale, dopo un
insuccesso.
86 Si tratta degli avvenimenti rivoluzionari italiani
all’inizio degli anni ‘20 del XIX sec. Nel luglio 1820, a Napoli, i
carbonari alzarono la bandiera della rivolta contro l’assolutismo e
ottennero la promulgazione di una Costituzione moderata e liberale.
Nel marzo 1821 si ebbe la rivoluzione in Piemonte. I liberali
proclamarono la Costituzione e tentarono di sfruttare il movimento
antiaustriaco nell’Italia settentrionale per unificare il paese
sotto l’egida della dinastia dei Savoia. In seguito all’intervento
delle potenze della Santa Alleanza e dopo l’occupazione di Napoli e
del Piemonte da parte delle truppe austriache, in tutti e due gli
Stati fu restaurato l’assolutismo.
87 Si tratta della Guerra di Crimea (1853-1856), nella quale
l’Inghilterra, la Francia, la Turchia e il Piemonte sconfissero la
Russia.
88 Verso l’autunno del 1808, quando Napoleone I arrivò a
Erfurt per le trattative con l’imperatore russo Alessandro I, quasi
tutta la Germania era già stata soggiogata dalla Francia e
solo l’Austria continuava ad oppone resistenza. I principi tedeschi,
radunatisi a Erfurt per giurare fedeltà a Napoleone,
acconsentirono alla- richiesta di scendere in guerra contro
l’Austria.
Nel maggio e nell’ottobre 1850, su iniziativa dell’imperatore russo
e in relazione all’acutizzarsi della lotta tra Austria e Prussia per
l’egemonia in Germania, a Varsavia si tennero delle conferenze cui
parteciparono Russia, Austria e Prussia e nel corso delle quali
l’imperatore russo svolse una funzione di arbitro nella contesa tra
Austria e Prussia e, facendo uso della sua influenza, impose a
quest’ultima di rinunciare ai tentativi di creare l’unione politica
degli Stati tedeschi sotto la sua egida.
La battaglia di Bronnzell qui viene ironicamente chiamato uno
scontro di poco conto tra i due distaccamenti d’avanguardia
austriaco e prussiano, avvenuto l’8 novembre 1850 nel corso della
rivolta di Kurgessen (Gessen-Kassel). Sia la Prussia che l’Austria
si contestavano il diritto d’intervenire negli affari interni di
Kurgessen allo scopo di reprimere la rivolta. Ma l’Austria di nuovo
ebbe l’appoggio della Russia e la Prussia dovette cedere.
Scritto tra la fine di febbraio e i primi di marzo 1859. Pubblicato
in opuscolo a Berlino nell’aprile 1859
F. Engels
Da: L’inevitabilità della guerra
Il re di Napoli [Ferdinando II] è moribondo. Nel regno
c’è viva agitazione: alcuni parlano di una Costituzione,
altri di un sollevamento dei partigiani di Murat. La cosa più
probabile è la formazione di un ministero con alla testa
Filangieri, duca di Satriano, che rappresenta un assolutismo
illuminato di stampo prussiano. Un tale sistema però non
può essere di lunga durata di fronte alla crisi italiana e
molto presto dovrebbe cedere il posto prima ad una Costituzione e
poi anche ad una ribellione in Sicilia, durante la quale i
partigiani di Murat pescherebbero nel torbido.
Scritto intorno all’11 aprile 1859.
Pubblicato sulla New York Daily Tribune n. 5624, 30 aprile 1859
F. Engels
Le prospettive della guerra89
Non abbiamo creduto necessario rispondere alle svariate e facili
critiche che ci sono state mosse negli ultimi due mesi, qual volta
ci siamo azzardati a discutere le risorse e le condizioni
strategiche esistenti alla vigilia della grande e sanguinosa guerra
in cui l’Europa è attualmente coinvolta. Ma negli ampi
particolari di cui sono oggi piene le nostre pagine [New York
Tribune] — che offrono un quadro impressionante delle prime scene di
questo spaventoso e appassionante dramma — troviamo tuttavia una
giustificazione delle nostre opinioni così completa e persino
così circostanziata e, nello stesso tempo, così atta
ad interessare il pubblico, che possiamo a buon diritto richiamare
l’attenzione sull’argomento.
Non meno di due mesi fa indicavamo l’offensiva come il vero metodo
di difesa dell’Austria90. Affermavamo che gli austriaci, avendo il
loro esercito d’Italia ben concentrato vicino alle posizioni
difensive piemontesi e perfettamente pronto ed equipaggiato per
l’azione, avrebbero commesso un grave errore se non avessero
approfittato di questa superiorità momentanea sui loro nemici
ancora dispersi entrando immediatamente nel territorio sardo,
battendo prima l’esercito sardo e poi marciando contro i francesi,
che devono attraversare le Alpi divisi in diverse colonne e correre
quindi il rischio di essere battuti una colonna dopo l’altra. Questa
nostra illazione suscitò un gran numero di commenti
discordanti da parte di vari critici più o meno illustri,
più o meno versati in strategia; ma il nostro giudizio
è stato confermato da tutti gli esperti di cose militari che
hanno scritto sull’argomento, e infine si è visto che della
stessa opinione sono anche generali austriaci. E basta su questo
punto.
Ora che la guerra è incominciata, quali sono le forze
rispettive delle parti impegnate. e le loro probabilità di
vittoria? Gli austriaci hanno in Italia cinque corpi d’armata — il
2°, il 3°, il 5°, il 7° e l’8° — composti di non
meno di 26 reggimenti di fanteria, di cinque battaglioni ciascuno
(uno dei quali è un battaglione di granatieri), e di 26
battaglioni leggeri: complessivamente 156 battaglioni, cioè
192.000 uomini. Con la cavalleria, l’artiglieria, il genio e le
truppe di guarnigione, le loro forze giungono, secondo i calcoli
più modesti, a
216.000 uomini. Non sappiamo di quanto sia stata superata questa
cifra con l’invio in Italia di reggimenti freschi e di uomini della
riserva. Che il numero sia stato superato non vi è quasi
ombra di dubbio, ma atteniamoci alla cifra più bassa di 216
mila uomini. Di questi, 56.000 saranno del tutto sufficienti per
occupare tutte le fortezze, i forti e i campi trincerati che gli
austriaci vogliono mantenere in Lombardia, ma prendiamo la cifra
massima, vale a dire 66.000 uomini. Rimarranno 140.000 uomini per
l’invasione del Piemonte. Secondo i telegrammi l’esercito austriaco
d’invasione sarebbe forte di 120.000 uomini, e queste informazioni
non sono naturalmente del tutto attendibili. Ma, per non sembrare
azzardati, supporremo che gli austriaci non abbiano più di
120.000 uomini disponibili per scendere in campo. Come saranno
disposte le forze piemontesi e francesi per scontrarsi con questo
possente esercito?
L’esercito piemontese è concentrato fra Alessandria e Casale,
in una posizione che abbiamo descritto qualche settimana fa91. Esso
conta cinque divisioni di fanteria e una di cavalleria — ossia
45.000 uomini di fanteria e di linea, incluse le riserve, 6.000
fucilieri e circa 9.000 uomini fra la cavalleria e l’artiglieria, in
totale 60.000 uomini, il numero massimo che il Piemonte è
riuscito a mettere in campo. I restanti 15.000 uomini sono necessari
per le guarnigioni. I volontari italiani non sono ancora in grado di
affrontare il nemico in campo aperto.
Come abbiamo già detto, la posizione dei piemontesi non
può essere aggirata strategicamente dal sud, ma può
però esserlo dal nord, e qui essa è appoggiata dalla
linea della Sesia, che si getta nel Po a circa quattro miglia ad est
di Casale, e che i sardi, se dobbiamo prestar fede ai dispacci
telegrafici, intendono mantenere.
Sarebbe perfettamente ridicolo per 60.000 uomini accettare una
battaglia decisiva in questa posizione, se fossero attaccati da una
forza numericamente doppia…. Molto probabilmente su quel fiume si
farà una parvenza di resistenza — sufficiente per costringere
gli austriaci a mostrare tutta la loro forza — e poi i sardi
ripiegheranno fin dietro Casale ed il Po, lasciando aperta la strada
diretta per Torino. Tutto questo potrebbe accadere il 29 o il 30 di
aprile, ove si presuma che la diplomazia inglese non frapponga un
nuovo ritardo alle operazioni militari. Il giorno seguente gli
austriaci tenterebbero di passare il Po e, se ci riuscissero,
innalzerebbero le truppe sarde attraverso la pianura fino ad
Alessandria. Qui potrebbero lasciarle per un certo tempo; se
necessario, la colonna austriaca, sboccando da Piacenza a sud del
Po, potrebbe distruggere la ferrovia tra Genova ed Alessandria e
attaccare qualsiasi corpo francese avanzante da quella città
verso questa.
Ma i francesi, secondo noi, cosa stanno facendo durante tutto questo
tempo? Ebbene, essi stanno scendendo, in tutta fretta, diretti verso
il futuro teatro di guerra, l’alta valle padana. Quando la notizia
dell’ultimatum austriaco92 raggiunse Parigi, le forze destinate
all’armata delle Alpi superavano di poco quattro divisioni di
fanteria, nei pressi di Lione, più altre tre nel sud della
Francia e in Corsica o in via di concentrazione. Un’altra divisione
stava giungendo dall’Africa. Queste otto divisioni dovevano formare
quattro corpi; come prima riserva era disponibile la divisione delle
truppe di linea stazionanti a Parigi, e come seconda riserva, la
guardia. In tutto dunque si avrebbero 12 divisioni di linea e due
della guardia, formando così sette corpi d’armata. Le dodici
divisioni di linea, prima dell’arrivo dei loro uomini in congedo,
conterebbero 10.000 uomini ciascuna all’incirca, 120.000
complessivamente, o 135.000 con la cavalleria e la fanteria, la
guardia 30.000, raggiungendo perciò i 165.000 uomini. Con il
richiamo degli uomini in congedo, questo esercito avrebbe
complessivamente 200.000 uomini. Fin qui tutto bene: si tratta di un
bell’esercito, sufficientemente numeroso per conquistare un paese
grande due volte l’Italia. Ma dove potrebbe trovarsi il primo
maggio, o in quei giorni, nel momento in cui la presenza sarà
necessaria nelle pianure piemontesi? Ebbene, il corpo di Mac-Mahon
è stato inviato a Genova verso il 23 o il 24 aprile; e non
essendo stato concentrato prima, non potrà lasciare Genova
prima del 30; il corpo di Baraguay d’Hilliers si trova in Provenza e
secondo alcuni dovrebbe avanzare lungo la linea Nizza-Col di Tenda,
secondo altri dovrebbe giungere per mare ed effettuare uno sbarco
nel Mediterraneo. Il corpo di Canrobert doveva entrare in Piemonte
per il Moncenisio e il Monginevro, e le altre truppe dovevano tener
loro dietro per le stesse strade. Ora è certo che nessun
soldato francese ha messo piede sul territorio sardo prima del 26;
è certo che dell’armata di Parigi, il 24, tre divisioni erano
ancora in questa città, e che solo in quel giorno una era
partita per ferrovia diretta a Lione; e che si prevedeva che la
guardia si sarebbe messa in marcia non prima del 27. Perciò,
supponendo che tutte le altre truppe elencate sopra siano
concentrate alla frontiera e siano pronte a mettersi in marcia,
abbiamo otto divisioni di fanteria, ossia 80.000 uomini. Di questi,
20.000 sono diretti a Genova; 20.000 al comando di Baraguay, se
veramente son destinati al Piemonte, ci vanno per il Col di Tenda.
Restano 40.000 uomini al comando di Canrobert e Niel che si avviano
attraverso il Moncenisio e il Monginevro. Questo è tutto
quello che Luigi Napoleone può mettere a disposizione per il
momento in cui il suo aiuto sarà quanto mai necessario: il
momento in cui gli austriaci potrebbero essere alle porte di Torino.
E tutto questo, ci sia permesso di osservarlo, va perfettamente
d’accordo con quanto abbiamo detto sull’argomento alcune settimane
fa. Ma con tutte le ferrovie del mondo, Luigi Napoleone non
può trasferire le rimanenti quattro divisioni dell’armata di
Parigi in tempo per partecipare ai primi scontri, a meno che non
permetta agli austriaci di fare ciò che vogliono dei
piemontesi per quindici giorni tutt’interi; e persino allora, avendo
otto divisioni su due passi alpini e il nemico concentrato con forze
numericamente pari nel loro punto di convergenza, non ha che scarse
probabilità di successo. Ma un uomo nella sua posizione non
può, per ragioni politiche, permettere che il Piemonte sia
occupato dal nemico per due settimane, e perciò dovrà
accettare battaglia non appena gli austriaci gliela offriranno e
quella battaglia dovrà combatterlà in circostanze
svantaggiose. Quanto più rapidamente i francesi varcano le
Alpi, tanto meglio sarà per gli austriaci.
Note
89 Il titolo è dell’Istituto di marxismo-leninismo presso il
CC del PCUS.
90 Si veda F. Engels, la probabità della guerra imminente
91 Si veda F. Engels la probabilità della guerra imminente
92 Il 23 aprile 1859 il governo austriaco, ponendo come alternativa
la guerra, impose con un ultimatum il disarmo al Piemonte. Il
rifiuto rese inevitabile la guerra austro_italo_francese.
Scritto il 28 aprile 1859.
Pubblicato come articolo di fondo sulla New York Daily Tribune n.
5684, 12 maggio 1859
K. Marx
Da: Austria, Russia e Germania nella guerra
L’impazienza e la delusione del pubblico viennese di fronte
all’estrema lentezza con cui si trascina la guerra, cominciata
apparentemente con tanta baldanza, ha indotto il governo ad
affiggere su tutti i muri della metropoli il seguente manifesto:
La possibilità che tutte le
notizie concernenti i movimenti dell’esercito imperiale pubblicate
nei giornali austriaci possano venire a conoscenza del nemico a
distanza di poche ore, permettendogli di usarle a suo profitto, ci
impone il dovere di osservare la massima cautela in tutti i
comunicati destinati al pubblico. Secondo le ultime notizie
pervenuteci, l’esercito imperiale ha occupato tra il Po e la Sesia
una posizione che potrebbe essere il punto di partenza per azioni
offensive. Sono nelle sue mani tutti i passaggi sulla Sesia e,
benché la piena del Po, in continuo aumento, impedisca di
compiere qualunque mossa decisiva sulla riva destra del fiume, la
zona tra Pontecurone e Voghera rimane occupata da importanti
distaccamenti del nostro esercito: al tempo stesso, abbiamo
demolito il ponte ferroviario nei pressi di Valenza.
Il governo segue, naturalmente con una certa apprensione, quel che
sta accadendo negli Stati italiani minori. Il ministero della guerra
ha pubblicato il seguente rapporto sulle loro forze militari:
Toscana — Quattro reggimenti di fanteria di linea — ogni reggimento
composto di due battaglioni, ciascun battaglione di sei compagnie,
6.833 uomini; un battaglione di fucilieri, sei compagnie, 780
uomini; un battaglione di fucilieri insulari, 780 uomini;
battaglioni di cacciatori volontari, 2.115 uomini; un battaglione di
veterani, 320 uomini; una compagnia di disciplina, 150 uomini; due
squadroni di dragoni, 360 cavalli; un reggimento di artiglieria, 8
batterie con sei pezzi ciascuna; un battaglione di artiglieria da
costa, 2.218 uomini; un reggimento di gendarmi, 1.800 uomini. Tutto
questo dà, coi rispettivi stati maggiori, genieri, marinai,
ecc 15.769 uomini.
Parma — Guardie del corpo, alabardieri, guide, 179 uomini; due
battaglioni di linea, un battaglione di cacciatori, 3.254 uomini;
una compagnia di artiglieria, 84 uomini; ingegneri, 14 uomini;
gendarmi, quattro compagnie, 417 uomini; con gli stati maggiori,
comandanti, scuole, compagnie di lavoratori, 4.294 uomini.
Modena — Quatro reggimenti di linea, di un battaglione ciascuno,
4.480 uomini; una compagnia di cacciatori, 120 uomini; tre compagnie
di dragoni, 300 uomini; una batteria da campagna con sei pezzi, 150
uomini; una batteria da costa con 12 pezzi, 250 uomini; una
compagnia di lavoratori, 130 uomini; una compagnia di pionieri, 200
uomini; inoltre alcuni veterani, alabardieri, ecc., complessivamente
7.594 uomini.
San Marino — La piccola Repubblica dispone di una forza di 800
uomini.
Roma — Due reggimenti di fanteria svizzera (un terzo reggimento in
via di formazione), 1.862 uomini; due reggimenti italiani di eguale
forza; due battaglioni sedentari (curiosa specie di guerrieri
questa), 1.200 uomini; un reggimento di dragoni, 670 uomini e
cavalli; un reggimento di artiglieria con sette batterie a quattro
pezzi ciascuna, 802 uomini; gendarmi, 4.323 uomini, con stati
maggiori, genieri, ecc., 15.255.
Napoli e Sicilia — Quattro reggimenti svizzeri, due reggimenti
napoletani di granatieri della guardia, sei reggimenti di
granatieri, tredici reggimenti di fanteria, un reggimento di
carabinieri, con le compagnie in deposito, ammontanti
complessivamente a 57.096 uomini; dodici battaglioni di cacciatori,
14.976 uomini e, con le compagnie di riserva, 16.740; nove
reggimenti di cavalleria, due di dragoni pesanti, tre reggimenti di
dragoni, un reggimento di carabinieri, due reggimenti di lancieri,
un reggimento di cacciatori a cavallo, 8.415 uomini e cavalli, due
reggimenti di artiglieria, composti ciascuno di due battaglioni da
campo e da uno d’assedio, ovvero di 16 batterie da campo, con 128
pezzi, e 12 compagnie d’assedio, complessivamente, carriaggi
compresi, 52.000 uomini. Se aggiungiamo gli alabardieri, i genieri,
le guide, le guardie del corpo, ecc., abbiamo una forza aggregata di
130.307 uomini.
La flotta napoletana consiste di due navi da guerra di linea con 80
e 84 cannoni, cinquanta fregate a vela, dodici fregate a vapore, con
10 cannoni ciascuna, due corvette a vela, quattro corvette a vapore,
due golette a vela, undici piccoli vapori, dieci battelli a mortaio
e dodici battelli a cannone...
Scritto il 10 maggio 1859.
Pubblicato sulla New York Daily Tribune n. 5647, 27 maggio 1859
K. Marx
Il Manifesto di Mazzini93
Nelle presenti circostanze ogni dichiarazione da parte di Mazzini
è un avvenimento che merita più attenzione di tutte le
dichiarazioni diplomatiche dei gabinetti in rivalità fra di
loro o persino dei rosei bollettini dal teatro di guerra. Per quanto
possano divergere le opinioni degli uomini sulla personalità
del triumviro romano94 nessuno potrà negare che la
rivoluzione italiana è stata legata per quasi 30 anni al suo
nome e che durante questo periodo l’Europa ha visto in lui miglior
esponente delle aspirazioni nazionali dei suoi compatrioti. Ora egli
ha compiuto un ammirevole atto di coraggio morale e di dedizione
patriottica, levando, da solo, la sua voce, anche a scapito della
sua popolarità, contro una Babele di illusioni, di cieco
fanatismo e di egoistica falsità. Della sua denuncia dei
piani concreti concordati fra Bonaparte, Alessandro e Cavour, agente
dei due autocrati, se ne deve tenere tanto più conto, in
quanto fra tutte le persone private in Europa Mazzini, come è
noto, dispone dei mezzi più ampi per penetrare nei foschi
segreti delle potenze dominanti. Il suo consiglio ai volontari
nazionali di fare netta distinzione fra la loro causa e la causa
degli impostori coronati e di non disonorare mai i loro proclami con
il nome vergognoso di Luigi Napoleone, è stato seguito alla
lettera da Garibaldi. La mancata menzione del nome della Francia nel
proclama di quest’ultimo95 è considerata, come comunica il
corrispondente da Parigi del londinese Times, da Luigi
Napoleone come un’offesa mortale; e la paura suscitata dalla notizia
sui legami segreti tra Garibaldi e il triumviro romano è
stata così grande che il suo corpo d’armata è stato
ridotto dai 10.000 chasseurs d’Alpes promessi a 4.000, è
stata richiamata un’unità di cavalleria in precedenza
assegnatagli, è stata fermata una batteria già inviata
dietro sua richiesta, mentre alcuni esperti funzionari di polizia
sono stati introdotti nel suo seguito come presunti volontari
con l’istruzione di comunicare ogni sua parola, ogni sua mossa.
Riportiamo qui la traduzione testuale di un manifesto di Mazzini,
pubblicato a Londra sull’ultimo numero del Pensiero ed Azione e
intitolato La guerra96
La guerra è iniziata.
Abbiamo dinanzi non una probabilità, intorno alla quale si
poteva e si doveva discutere, ma un fatto compiuto. La guerra
è iniziata fra l’Austria e il Piemonte. I soldati di Luigi
Napoleone sono in Italia. L’alleanza russo-francese, annunziata da
noi un anno addietro, va rivelandosi all’Europa. Il Parlamento
Sardo ha conferito poteri dittatoriali a Vittorio Emanuele.
Un’insurrezione militare ha rovesciato il governo del Duca in
Toscana e accettato la Dittatura del Re. Il fermento, universale
in Italia, produrrà probabilmente fatti consimili altrove.
I fati della nostra Patria son dati in oggi irrevocabilmente, sul
campo d’azione, alla decisione delle battaglie.
Davanti a condizione siffatta, i più, ebbri di desiderio
d’azione, affascinati dall’idea d’avere aiuti potenti d’armi
regolari, travolti dalla gioia di far guerra al meritamente
abborrito dominio austriaco, dimenticano le delusioni del passato e
le loro cagioni, sagrificano non solamente le loro più care
credenze, ma l’intento che bisogna raggiungere, rinunciano ad ogni
antiveggenza, ad ogni libertà di giudizio, non hanno parole
fuorché di plauso per chi s’assume di diriger la guerra,
approvano senza esame ogni cosa che venga dal Piemonte o dalla
Francia, iniziano una battaglia di libertà facendosi schiavi.
Taluni, vedendo sparita ogni idea di moralità politica negli
agitatori e nella turba seguace, e un popolo apostolo, da mezzo
secolo, di libertà allearsi a un tratto col dispotismo, ed
uomini fautori ieri dell’anarchia di Proudhon darsi alla cieca,
senza riserva, ad un re, e i con cittadini di Goffredo Mameli
gridare immemori «Viva l’Imperatore» che, con altri
mille, lo trasse a morte97 disperano d’ogni avvenire e dichiarano il
nostro popolo incapace di libertà.
Noi non dividiamo le cieche, servilmente espresse speranze dei
primi, nè il disperato sconforto degli ultimi. La guerra
iniziata incomincia sotto tristissimi auspicii, ma gl’italiani
possono, ove il vogliano, volgerla a fine migliore; e noi abbiamo
fede nei nobili istinti del nostro popolo. E questi istinti si
rivelano potenti fin d’ora anche attraverso gli errori ai quali gli
agitatori lo spronano. Era forse meglio che, invece di raccogliersi
in nucleo sotto la direzione assoluta di poteri che possono tradirne
le speranze, i volontari ordinassero tacitamente l’insurrezione nei
loro paesi e la capitanassero in nome del popolo italiano,
affermandone e costituendone l’iniziativa; ma lo spirito che li
mosse è santo e sublime, la testimonianza ch’essi danno
di devozione alla Patria comune è innegabile: quel nucleo
dell’esercito nazionale futuro, spontaneamente raccolto, porta con
sè le più belle speranze d’Italia. L’accettazione
della Dittatura regia è un errore che può riuscire
funesto davvero, e viola la dignità d’un popolo che sorge ad
emanciparsi: quella Dittatura, in un paese e con un Parlamento
devoti alla iniziativa della monarchia, e potenti a darle aiuto
nell’opinione, davanti agli esempi di Roma e Venezia dove l’armonia
delle assemblee popolari coi capi della difesa fu sorgente dì
forza, davanti ai ricordi delle lunghe e tremende guerre sostenute
dall’Inghilterra contro il primo Impero senza la menoma violazione
delle libertà interne, non è chiaramente se non una
concessione all’esigenze del despota collegato, e il primo stadio
d’un disegno che mira a sostituire la questione di territorio alla
questione di libertà: ma il popolo che accetta plaudendo
crede compire un atto di sacrificio supremo a pro della Patria
comune e, illuso a vedere in quel concentramento di poteri la salute
della guerra, intende provare con quel plauso la propria
determinazione di combattere e vincere ad ogni patto. Il dar senza
condizione le province che insorgono alla direzione assoluta del re
dittatore può, non v’ha dubbio, riescir fatale: la logica
dell’insurrezione voleva che ogni provincia insorta
s’ordinasse sotto un potere
d’insurrezione locale e che ciascuna
contribuisse con un delegato a formare il governo nazionale
d’insurrezione; ma v’è in questo immenso errore un omaggio al
bisogno d’unità nazionale che confuta invincibilmente lo
stolto cicaleggio della Stampa Europea sulle nostre divisioni e
costituisce il Diritto Italiano. L’affetto di Patria è tanto
oggimai in Italia da superare e vincere ogni traviamento. I buoni
non devono sconfortarsi; devono cercare di dirigerlo. E per questo
devono insistere, senza timore delle male interpretazioni, sul vero
della situazione. Versiamo in troppo solenni momenti per curar di
favore immediato o di biasimo.
Il vero della situazione è questo:
Come, e più assai che nel 1848, il moto italiano tende a
libertà e ad unità di nazione. La guerra iniziata
dalla Monarchia Sarda e da Luigi Napoleone ha scopo interamente
diverso. Come, e più assai che nel 1848, l’antagonismo che
esisteva allora tra le tendenze della nazione e quella dei Capi
accettati e che trasse la guerra a rovina, minaccia tremende
delusioni all’Italia.
L’Italia vuole Unità Nazionale. Luigi Napoleone non
può volerla. Ei cerca, oltre Nizza e Savoia concesse
già dal Piemonte in premio degli aiuti alla formazione d’un
Regno del Nord, opportunità per innalzare un trono nel Sud a
Murat, un trono nel Centro al Cugino. Roma e parte dello Stato
Romano devono rimanere al governo temporale del Papa.
Sinceramente o no, poco monta, il Ministro che regge in oggi su
premo le cose del Piemonte ha dato la sua accettazione al disegno.
L’Italia avrebbe così quattro Stati: due sarebbero governati
direttamente dallo straniero; indirettamente, la Francia avrebbe
tutta quanta l’Italia: il Papa è dipendente francese dal 1849
in poi; il re Sardo sarebbe, per obbligo di gratitudine e per
inferiorità di forze, vassallo all’Impero.
Il disegno avrebbe effettuazione intera se l’Austria resistesse fino
agli estremi. Ma dove l’Austria, disfatta in sulle prime,
affacciasse proposte eguali a quelle ch’essa affacciò per
breve tempo nel 1848 al Governo Inglese: abbandono della Lombardia a
patto di serbare il Veneto, la pace, naturalmente richiesta da tutta
la Diplomazia Europea, sarebbe accettata: le sole condizioni
dell’ingrandimento della Monarchia Sarda e della cessione della
Savoia e di Nizza alla Francia, riceverebbero esecuzione: l’Italia
sarebbe abbandonata alle vendette de’ suoi padroni, e il compimento
del disegno differito a tempi più favorevoli.
Disegno siffatto è noto ai Governi d’Europa. Quindi l’armarsi
di tutti; quindi il fermento di guerra nella Confederazione
Germanica; quindi gli elementi anzi tratto ordinati d’una Coalizione
tra l’Inghilterra, la Germania e la Prussia. Coalizione inevitabile
qualunque sia il linguaggio tenuto or dai Governi. Perno della
Coalizione sarebbe fatalmente, quando l’Italia non affermasse la
propria vita se non come alleata del Bonaparte, la difesa
dell’Austria e dei trattati del 1815.
La Coalizione è temuta da Luigi Napoleone. Quindi la lega
colla Russia, incerta e malfida, e nondimeno comprata a patto di
concessioni liberticide: l’abbandono assoluto della Polonia fra
l’altre, e il Protettorato generale della Turchia Europea concesso
allo Tsar in ricambio del Mediterraneo fatto lago francese. Ove la
guerra si prolunghi e assuma, per l’intervento germanico,
proporzioni europee, l’insurrezione delle province oggi turche
preparata di lunga mano e quella dell’Ungheria, daranno campo
all’Alleanza di rivelarsi.
Dove le cose giungano a questo punto, è pattuito che nel
rimaneggiamento territoriale vada sommersa ogni idea di diritto
popolare e di libertà. Principi russi governerebbero gli
Stati che sorgerebbero sulle rovine dell’Impero Turco e
dell’Austria, principi della dinastia Bonaparte i nuovi Stati
d’Italia, altri forse a seconda dei casi. Costantino di Russia
è già proposto ai malcontenti ungheresi, come
Napoleone Bonaparte ad agitatori monarchici delle Legazioni e della
Toscana. Come Carlo V e Clemente VII, nemici mortali in core, si
collegavano per ripartirsi le libere città d’Italia98, i due
Tsar, nemici in core, si collegano per soffocare l’aspirazione alla
libertà, per impenalizzare l’Europa. Quindi il decreto, che
sopprime per un tempo indefinito la libertà del Piemonte,
strappato a Cavour. Muta la stampa, impedito ogni commento alle
operazioni, ignota ogni cosa al popolo, l’arena è aperta alla
tattica degl’iniziatori padroni. E gli animi, affascinati dal
fantasma d’un’indipendenza che non sarebbe in ultimo se non un
mutamento di dipendenza, si disavezzano intanto d’ogni affetto alla
sorgente d’ogni indipendenza, la libertà.
Tali sono i disegni del dispotismo alleato con noi. Gli uni possono
negarli, come Luigi Napoleone negava ogni intenzione del colpo di
Stato99, perciò appunto che hanno a cuore di compirli; gli
altri, per cieca credulità ad ogni parola che viene dai
potenti, o per cieco desiderio che fa velo all’intelletto: non
però sono meno veri: noti a chi scrive, noti ai Governi, e
traditi in parte dalle parole e più dagli atti di Luigi
Napoleone e del conte Cavour. Io dico del conte Cavour,
perché inclino a credere Vittorio Emanuele ignaro di
ciò che si pattuiva a Plombières ed a Stuttgart.
Se il conte Cavour avesse amato davvero l’Italia, ci si sarebbe
giovato dell’immenso prestigio che viene dal possedimento d’una
forza materiale importante e delle universali tendenze italiane, per
preparare l’Italia a fare e il Piemonte a secondarne immediatamente
le mosse. Egli avrebbe determinato — e lo poteva — un’insurrezione
simile a quella del marzo 1848 nel Lombardo Veneto. L’insurrezione
avrebbe, come allora, colto il nemico alla sprovveduta e ne avrebbe
disordina io, sperperato le forze. Su quel nemico fugato, scorato,
atterrito dal subito levarsi del popolo, l’esercito regolare del
regno Sardo, secondato,
fiancheggiato dalle milizie
dell’insurrezione, avrebbe ottenuto facilmente la finale vittoria
L’Italia intera lo avrebbe seguito nella bella impresa. I popoli
aggiogati all’Austria, non impauriti di nuove conquiste, avrebbero
afferrato l’opportunità per innalzare la loro bandiera
nazionale. A una lotta iniziata con sole forze italiane l’Europa
avrebbe dato plauso e favore. E l’Europa che minaccia in oggi Luigi
Napoleone comunque ei scenda in Italia chiamato e in sembianza di
liberatore, non avrebbe tollerato mai ch’egli scendesse non
chiamato, non provocato, contro un’insurrezione lombarda, in
appoggio dell’Austria. Era impresa santa e sublime e Cavour poteva
compirla. Ma bisognava, in nome della libertà e del suo
diritto, affratellarsi colla rivoluzione che in Italia non ha
esigenze esagerate, nè programmi di terrore, né
tendenze ad anarchia di sovvertimenti sociali. Il ministro della
Monarchia Sarda non era da tanto. L’avversione al popolo e alla
libertà lo spinse a cercare l’alleanza della tirannide, e
d’una tirannide esosa, per vecchie tradizioni di conquista, a tutte
Nazioni. Il concetto ha mutato natura alla causa italiana. S’ei
vince mercé l’alleato fatto padrone, l’unità nazionale
è perduta: l’Italia è fatta campo d’un nuovo riparto
sotto dominio o protettorato francese. S’ei soccombe con esso,
l’Italia avrà danni e nazioni senza confini, e l’Europa
invece di compiangerci dirà: voi non avete se non quello che
meritate. Suprema su tutti i calcoli, su tutte le tattiche umane,
vive una Legge morale che i popoli non violano impunemente. Ogni
colpa trascina inevitabile l’espiazione. La Francia — lo predicemmo
— espia tuttora colla schiavitù e collo scadimento morale il
delitto della spedizione di Roma. Dio risparmi all’Italia
l’espiazione severa meritata dalla Monarchia Sarda per avere
affratellato una causa santificata da mezzo secolo di sacrificio, di
martirio, e di aspirazioni virtuose, alla bandiera dell’egoismo e
della tirannide!
E nondimeno, la guerra è un fatto iniziato, un fatto potente
che crea nuovi doveri e modifica essenzialmente la via da tenersi.
Tra il concetto di Cavour e la minaccia
della coalizione, fra Luigi Napoleone e I’Austria,
tristi egualmente, sta l’Italia: l’Italia che amiamo sovra ogni cosa
e il cui avvenire è troppo alto fine perché in esso
non si sommergano biasimo, dolore, amarezza di delusioni e coscienza
di gravi e meritati pericoli. Il fatto è iniziato: bisognava
cercare di mutarne le condizioni prima; è dovere in oggi
cercare di migliorarle.
Quanto più gravi sono i pericoli della situazione, tanto
più gli sforzi di tutti devono concentrarsi a salvare da quei
pericoli la patria comune. Se la guerra non si
combattesse che tra governi, noi potremmo rimanere
spettatori, vegliando il momento in cui, indeboliti i combattenti,
l’elemento nazionale potrebbe inoltrarsi sul campo. Ma
quell’elemento è sorto. Illuso o no, il paese freme azione e
crede poter giovarsi della guerra regio-imperiale a raggiungere il
fine. Il moto toscano, moto spontaneo di militi e cittadini
italiani, l’agitazione universale e il campo dei volontari
oltrepassano il cerchio dell’opera dei faccendieri: sono palpiti
della nazione. Bisogna seguirla sull’arena, bisogna allargare,
italianizzare la guerra. Gli uomini di
fede repubblicana sentono quant’altri questo dovere e sapranno
compirlo.
L’Italia può, volendo, salvarsi dai pericoli che accennammo e
far uscire dalla crisi attuale la propria unità.
È necessario che l’Austria cada. Possiamo deplorare
l’intervento imperiale, ma non possiamo dimenticare che l’Austria
è l’eterna nemica d’ogni sviluppo nazionale italiano, e che
italiani sono i primi soldati da essa incontrati sul campo. Bisogna
che l’Austria soccomba. Ogni Italiano deve cooperarvi. Ogni Italiano
può consultare la propria coscienza sul dove e sul come; ma
ogni Italiano deve dar sangue, danaro o consiglio, ciò ch’ei
può, contro l’Austria. Lo chiede l’onore, lo chiede la
salvezza di tutti. Impari l’’Europa dalla manifestazione universale
che tra noi e l’Austria è guerra mortale, e che quella guerra
non cesserà se non quando l’ultimo soldato dell’Austria
avrà rivalicato la nostra frontiera naturale, le Alpi: impari
dai nostri fatti che s’anche noi fossimo lasciati soli a combattere,
combatteremmo e sapremmo vincere.
È necessario che il popolo d’Italia serbi intatta la sua
dignità, costringa l’Europa ad ammirarlo, convinca tutti col
suo contegno che noi possiamo subire, perché cercato da un
Governo Italiano, l’aiuto della tirannide, ma non l’abbiamo
chiamato, non rinneghiamo per esso la nostra fede di libertà
e d’alleanza coi popoli, non dimentichiamo Roma, il 2 Dicembre, le
offese recate in questi ultimi dieci anni ai nostri fratelli di
credenza. Il grido di viva la Francia! può uscire senza colpa
da labbra italiane, il grido di viva l’imperatore! non può. .
. È necessario che l’Italia si levi, si levi da un capo
all’altro. . . al Nord, per conquistarsi, non ricevere la
libertà, al Sud, per ordinare la riserva dell’esercito
nazionale. L’insurrezione può, colle debite riserve,
accentrarsi al comando militare del re dovunque l’Austriaco è
accampato o vicino: l’insurrezione al Sud dovrebbe operarsi, e
mantenersi più indipendente….. Napoli e la Sicilia potrebbero
assicurar salute alla Causa d’Italia, e costituirne la potenza,
rappresentata da un Capo Nazionale. Il grido dell’insurrezione,
dovunque ha luogo, dovrebbe essere: Unità, Libertà,
Indipendenza Nazionale….. E il nome di Roma s’avvicendi ; sempre al
nome d’Italia….. Dovere di Roma è non d’inviare all’esercito
Sardo un pugno di volontari, ma di provare alla Francia Imperiale
che mal si combatte per l’indipendenza d’Italia dichiarandosi
sostegno all’assolutismo papale….. Da Roma, da Napoli, e dalla
condotta delle milizie volontarie dipendono oggi i fati d’Italia.
Roma rappresenta l’unità della patria: Napoli e i volontari
possono costituirne l’esercito. Sono immensi doveri; e se Roma,
Napoli e i volontari non sanno compirli, non meritano libertà
e non l’avranno. La guerra, lasciata ai Governi,
finirà con un nuovo Trattato
di Campoformio100... La disciplina ch’oggi si predica
come segreto di vittoria dagli uomini che trassero a rovina le
insurrezioni del 1848, non è, com’essi la intendono, che
servilità e inerzia fatale di popolo. La disciplina, come noi
la intendiamo, può esigere una forte unità per tutto
ciò che concerne l’andamento della guerra regolare;
può esiger silenzio su tutte questioni di forma; ma non che
l’Italia sorga o giaccia a seconda dei cenni d’un Dittatore senza
programma e d’un despota straniero, e non manifesti altamente la sua
volontà d’esser libera ed Una.
Note
93 Nelle sue note introduttive al Manifesto di Mazzini (La guerra)
Marx apprezzò la sua posizione nei riguardi dell’intervento
di Napoleone I nella causa della liberazione dell’Italia. Approvando
in generale l’articolo antibonapartistico di Mazzini Marx ed Engels
nel contempo criticavano conseguentemente le concezioni e la tattica
mazziniana nel loro complesso.
94 A cominciare dal marzo 1849 Mazzini fu a capo del triumvirato
(Mazzini, Saffi, Armellini) a cui l’Assemblea costituente della
Repubblica romana affidò il potere esecutivo e i poteri
straordinari per la sua difesa.
95 Si tratta dell’appello alla popolazione lanciato da Garibaldi
all’entrata del Corpo dei volontari nel territorio lombardo nel
maggio 1859.
96 Il Manifesto di Mazzini La guerra fu pubblicato sulla New York
Daily Tribune con qualche taglio il 16 maggio 1859.
97 Si tratta della morte di Goffredo Mameli nel giugno 1849 durante
la difesa della Repubblica romana contro le truppe di Luigi
Bonaparte.
98 Si intende il trattato di Bologna (1528) stipulato tra
l’imperatore Carlo V e il papa Clemente VII dopo la vittoria
riportata dall’imperatore sui suoi ex alleati francesi e conclusasi
con la loro cacciata dall’Italia. Da quell’anno il potere imperiale
e la Chiesa agirono sempre di concerto contro le autonomie comunali.
99 Si tratta del colpo di Stato del 2 dicembre 1851 di Luigi
Bonaparte che, in definitiva, portò nel 1852 all’abolizione
della Repubblica e all’instaurazione dell’Impero
100 Il Trattato di pace di Campoformio (17 ottobre 1797) tra Francia
e l’Austria concluse una guerra iniziata nel 1792 dalla Repubblica
francese contro l’Austria, che faceva parte della prima coalizione
antifrancese. Secondo il trattato, l’Austria abbandonò la
coalizione ed ebbe sulle coste adriatiche gran parte del territorio
della Repubblica Veneta (compresa Venezia), nonché parti del
territorio dell’Istria e della Dalmazia, ex proprietà
veneziane. La Francia si appropriò delle isole Ionie e dei
possedimenti veneziani sulle coste albanesi.
La nota introduttiva al Manifesto fu scritta a fine maggio 1895.
Pubblicato sulla New York Daily Tribune n. 5665, 17 giugno 1859
K. Marx
Che cosa ha guadagnato l’ Italia?
La guerra italiana è terminata. Napoleone l’ha finita non
meno improvvisamente e inaspettatamente di quanto l’avevano
incominciata gli austriaci101. Quantunque breve, è stata
costosa. Essa ha concentrato in poche settimane non solo le gesta,
le invasioni e controinvasioni, le marce, le battaglie, le conquiste
e le perdite, ma anche le spese, sia in vite che in denaro, di molte
guerre assai più lunghe. Alcuni dei suoi risultati sono
piuttosto evidenti. L’Austria ha perduto del territorio; la
reputazione della sua capacità militare è stata
seriamente intaccata; il suo orgoglio è stato profondamente
ferito. Ma le lezioni ricevute, ammesso che abbiano servito a
qualcosa, sono, pensiamo, più militari che politiche, e i
cambiamenti che l’Austria potrebbe essere indotta a fare come
conseguenza di questa guerra, saranno cambiamenti nell’istruzione
militare, nella disciplina e nelle armi, piuttosto che nel suo
sistema politico o nei suoi metodi di governo. Può darsi che
l’Austria si sia convinta dell’efficacia dei cannoni rigati.
È possibile che essa introduca fra le sue truppe una qualche
imitazione degli zuavi francesi. È molto più probabile
che essa faccia questo piuttosto che modificare radicalmente il
governo in quel che ancora le rimane delle sue province italiane.
L’Austria ha anche perduto, almeno per il momento, la tutela
sull’Italia, che si è ostinata a conservare ad onta delle
rimostranze e lamentele della Sardegna e che ha servito di
pretesto per scatenare l’ultima
guerra. Ma benché l’Austria sia
stata costretta per il momento a rinunciare a
quest’ufficio, l’ufficio stesso non pare sia vacante. È assai
significativo il fatto che la nuova sistemazione degli affari
italiani sia stata decisa in un breve incontro tra gli imperatori di
Francia e d’Austria, entrambi stranieri, entrambi alla testa di
un’armata di stranieri e che la sistemazione sia stata fatta non
solo senza neppure far mostra di consultare formalmente le parti in
causa, ma senza che queste ultime sapessero di essere in tal modo
oggetto di mercato e di vendita. Due eserciti provenienti d’oltralpe
si incontrano e combattono nella pianura lombarda. Dopo una lotta di
sei settimane, i sovrani stranieri di questi eserciti stranieri si
accingono a sistemare e regolare gli affari italiani senza ammettere
un solo italiano nei loro conciliaboli. Il re di Sardegna, che dal
punto di vista militare era stato posto al livello di un generale
francese, pare non abbia né partecipato né avuto voce
negli accordi finali, proprio come se davvero fosse semplicemente un
generale francese.
Le lagnanze mosse a voce così alta dalla Sardegna contro
l’Austria, erano fondate sul fatto che quest’ultima pretendeva non
solo di soprintendere a tutti gli affari italiani, ma anche di
difendere tutti gli abusi esistenti; che la sua politica consisteva
nel mantenere le cose come erano, immischiandosi
nell’amministrazione interna dei suoi vicini italiani e arrogandosi
il diritto di schiacciare con la forza delle armi qualsiasi
tentativo da parte degli abitanti di quei paesi di modificare o
migliorare le loro condizioni politiche. E qual maggior rispetto si
manifesta, nella nuova sistemazione, per il sentimento e i desideri
degli italiani, o per quel diritto alla rivoluzione di cui la
Sardegna si era fatta campione? A quanto sembra, i ducati italiani a
sud del Po, quantunque sia stato accettato l’aiuto da loro offerto
in guerra, in base al trattato di pace dovrebbero essere
riconsegnati ai loro principi espulsi. In nessuna parte dell’Italia
vi sono state più lagnanze per il malgoverno che negli Stati
della Chiesa. La cattiva amministrazione di questi Stati, e
l’appoggio e l’approvazione che l’Austria ha dato a questa cattiva
amministrazione, sono stati fortemente rilevati come una delle
peggiori caratteristiche, se non forse come la peggiore dì
tutte, dello stato in cui sì trovavano negli ultimi tempi gli
affari italiani. Ma, benché l’Austria sia stata obbligata a
rinunciare al suo protettorato armato sugli Stati della Chiesa, gli
infelici abitanti di quei territori non hanno guadagnato nulla nel
cambio. La Francia appoggia il dominio temporale della Santa Sede
non certo meno di quanto l’abbia sempre appoggiato l’Austria; e
poiché gli abusi del governo di Roma sono considerati dai
patrioti italiani come inseparabili dal suo carattere clericale, non
sembra vi sia speranza alcuna di miglioramento. La Francia, nella
posizione che ora occupa di unico protettore del papa, si rende in
realtà più responsabile degli abusi del governo romano
di quanto sia mai stata l’Austria.
Quanto alla Confederazione italiana che costituisce una parte del
nuovo accordo, si deve osservare quanto segue: o questa
confederazione sarà una realtà politica investita di
un certo grado di potere ed influenza, oppure sarà una mera
finzione. In quest’ultimo caso, l’unione, la libertà, e lo
sviluppo degli italiani non avranno nulla da guadagnare. Se
sarà una realtà, tenendo conto degli elementi che la
compongono, che cosa ci si può aspettare da essa? L’Austria
(che rappresenterà in questa confederazione la provincia o
regno di Venezia), il papa e il re di Napoli [Pio IX e Francesco
II], uniti nell’interesse del dispotismo, avranno certamente la
meglio sulla Sardegna, anche se gli Stati minori si metteranno dalla
parte di quest’ultima. L’Austria potrebbe anche approfittare di
questo nuovo stato di cose per assicurarsi un controllo sugli altri
Stati italiani, controllo non meno sgradevole, per non dire peggio,
di quanto fosse quello che essa pretendeva recentemente di
esercitare in forza degli speciali trattati conclusi con ciascuno di
loro.
Note
101 L’8 luglio 1859 a Villafranca ebbe luogo l’incontro separato
(senza il re del Piemonte) degli imperatori francese e austriaco.
L’iniziativa dell’incontro fu presa da Napoleone III, il quale
temeva che una guerra troppo lunga potesse suscitare la diffusione
del movimento rivoluzionario e di liberazione nazionale in Italia e
in altri paesi europei. L’11 luglio tra i due paesi fu firmato un
trattato preliminare in base al quale la Lombardia (ad esclusione
delle fortezze di Mantova e Peschiera) passava alla Francia (bisogna
dire, però, che più tardi Napoleone I concesse Mantova
al Piemonte in cambio della Savoia e di Nizza); Venezia rimase
dominio austriaco; i duchi di Toscana e di Modena furono
reinsediati. Il trattato prevedeva anche la creazione di una
confederazione italiana con a capo il papa. Nonostante che alcuni
capitoli del trattato preliminare rimanessero sulla carta (come, ad
esempio, quelli concernenti la confederazione o la restaurazione del
passato regime in Toscana e a Modena), oppure fossero modificati, i
suoi punti essenziali servirono da base al trattato definitivo
stipulato a Zurigo il 10 novembre 1859.
Scritto intorno al 12 luglio 1859.
Pubblicato come articolo di fondo sulla New York Daily Tribune n.
5697, 26 luglio 1859
K. Marx
La pace
Dalle notizie ricevute a mezzo dell’«Europa» sembra che
la confederazione italiana, annunciata da Napoleone III come uno dei
pilastri su cui dovrebbe poggiare la pace con Francesco Giuseppe,
sia cosa quanto mai vaga e precaria. Finora si tratta semplicemente
di un progetto, cui l’Austria ha dato il suo consenso, ma che deve
ancora essere sottoposto ai governi italiani. Sembra che neppure la
Sardegna, il cui re, tra l’altro, non è stato neanche
consultato nella conclusione della pace, abbia acconsentito ad
entrare a farne parte, benché naturalmente il re debba fare
ciò che gli ordinano di fare; mentre corre voce che il papa,
proposto come capo onorario della federazione, abbia scritto a Luigi
Napoleone che invocherà la protezione delle potenze
cattoliche, rifugio problematico, invero, proprio in questo momento
in cui egli vuol essere protetto contro la Francia. In quanto ai
monarchi della Toscana, di Modena e di Parma102 recentemente banditi
dai loro paesi, sembra che debbano essere rimessi sui loro troni; in
tal caso, essi saranno indubbiamente pronti ad entrare a far parte
di qualsiasi confederazione venga loro imposta. Soltanto del re di
Napoli [Francesco II] oggi unico sovrano indipendente d’Italia, non
sappiamo nulla; e non è impossibile che egli rifiuti
categoricamente. Cosìcché c’e da chiedersi ancora se
vi sarà o no una federazione, e tanto più c’è
da chiedersi come essa sarà, ammesso che si giunga a
costituirla.
Importante è il fatto, ora accertato per la prima volta, che
l’Austria conserva tutte e quattro le grandi fortezze, dal momento
che il Mincio è diventato il confine occidentale dei suoi
territori. Così l’Austria tiene ancora nelle sue mani le
chiavi dell’Italia settentrionale e può approfittare di
qualsiasi circostanza favorevole per riconquistare quello che ha
dovuto testé abbandonare. Questo fatto dimostra già da
solo che è completamente infondata la pretesa di Napoleone di
aver virtualmente raggiunto il suo scopo di cacciare l’Austria
dall’Italia. In realtà, non è troppo dire che se egli
ha sconfitto l’Austria in guerra, quest’ultima l’ha decisamente
battuto concludendo la pace. Essa ha semplicemente rinunciato a
quello che le era stato tolto, e nulla più. La Francia,
spendendo alcune centinaia di milioni di dollari e la vita di circa
50.000 suoi figli, si è guadagnata il controllo della
Sardegna, molta gloria per i suoi soldati, e la fama di generale
molto fortunato ma mediocre per il suo imperatore. Per quest’ultimo
è molto; per la Francia, che ha sopportato tutte le spese e
sofferto tutte le perdite, è poco; e non stupisce che a
Parigi ci sia del malcontento.
Il motivo addotto da Napoleone per aver posto così
repentinamente fine alla guerra è che essa stava assumendo
proporzioni incompatibili con gli interessi della Francia. In altre
parole, essa tendeva a diventare una guerra rivoluzionaria con, fra
l’altro, un’insurrezione a Roma e una rivolta in Ungheria. È
un fatto curioso che proprio alla vigilia della battaglia di
Solferino, questo stesso Napoleone abbia realmente esortato Kossuth,
che dietro suo invito era venuto a visitarlo al campo, a suscitare
una diversione rivoluzionaria in favore degli alleati. Prima della
battaglia quindi egli non temeva i pericoli che lo terrorizzarono
immediatamente dopo. Che le circostanze modifichino le previsioni
non è osservazione nuova, ma è applicabile nella
situazione presente. Tuttavia, non è necessario addurre altre
prove per dimostrare che quest’uomo è tanto profondamente
egoista quanto senza scrupoli; e che, dopo aver sparso il
sangue di 50.000 uomini per soddisfare la sua ambizione
personale,è pronto a rinnegare e ad abbandonare persino
l’ipocrisia di tutti i principi in nome dei quali ha condotto al
macello questi uomini.
Uno dei primi risultati dell’attuale sistemazione è la caduta
del ministero Cavour, obbligato a dimettersi.
Benché egli sia uno degli uomini più abili
d’Italia, e benché non abbia partecipato alle trattative di
pace, il conte di Cavour non ha potuto reggere di fronte alla
indignazione e alla delusione dell’opinione pubblica. Probabilmente
passerà molto tempo prima che egli possa di nuovo salire al
potere. E passerà molto tempo prima che Luigi Napoleone possa
di nuovo illudere non foss’altro i sentimentali e gli entusiasti e
farsi considerare un campione della libertà. Gli italiani ora
lo odieranno più di qualsiasi altro rappresentante della
tirannia e del tradimento; e non ci sorprenderemo se i coltelli di
assassini italiani dovessero ancora una volta attentare alla vita
dell’uomo che, promettendo l’indipendenza all’Italia, e
fingendo di conquistare quest’indipendenza, ha lasciato l’Austria
insediata sul collo dell’Italia non meno saldamente di quanto lo
fosse prima.
Note
102 Nell’aprile-giugno 1859 in Toscana, a Parma e Modena scoppiarono
delle rivoluzioni con le quali furono abbattuti i regimi pro-
austriaci e si decise per l’annessione al Piemonte, realizzatasi poi
all’inizio del 1860.
Scritto il 15 luglio 1859.
Pubblicato come articolo di fondo sulla New York Daily Tribune n.
5698, 28 luglio 1859
K. Marx
Da: Il trattato di Villafranca
Se veniamo al contenuto — alludiamo al contenuto ufficiale — del
trattato di Villafranca, troviamo che esso è del tutto in
linea col metodo che ha portato alla sua conclusione. La Lombardia
deve essere ceduta al Piemonte, ma l’identica offerta, in termini
più favorevoli e non vincolata da clausole svantaggiose, era
stata fatta dall’Austria a Carlo Alberto e a Lord Palmerston nel
1848103.
Allora nessuna potenza straniera s’era appropriata il movimento
italiano. La cessione doveva essere fatta alla Sardegna e non alla
Francia; anche Venezia avrebbe dovuto essere staccata dal territorio
tedesco per divenire uno Stato italiano indipendente con alla testa
non l’imperatore austriaco, ma un arciduca austriaco. Queste
condizioni erano state allora respinte dal magnanimo Palmerston, che
le aveva stigmatizzate come non degna conclusione della guerra
d’indipendenza italiana. Quella stessa Lombardia ora viene
consegnata come dono della Francia alla dinastia dei Savoia, mentre
Venezia e il quadrilatero delle fortezze, incluse quelle sul Mincio,
sono destinate a rimanere nelle grinfie dell’Austria.
L’indipendenza dell’Italia è dunque trasformata nella
dipendenza della Lombardia dal Piemonte, nella dipendenza del
Piemonte dalla Francia. Se la cessione della Lombardia costituisce
un’umiliazione per l’orgoglio dell’Austria, la potenza reale
di questo paese indubbiamente viene rafforzata dall’evacuazione di
un territorio che ne assorbiva parte delle forze militari senza
poter essere difeso contro le invasioni straniere e non pagava le
spese del mantenimento delle truppe d’occupazione. Le risorse spese
inutilmente in Lombardia possono essere impiegate meglio altrove. Ma
l’Austria conserva la sua posizione politica di predominio, che le
consente, ogni qualvolta si presenti l’occasione favorevole, di
piombare sul suo debole vicino, il quale in realtà non ha
guadagnato altro che un’accresciuta debolezza, una frontiera
scoperta, sudditi turbolenti, mal disposti e diffidenti, mentre ha
perduto finanche il pretesto di rappresentare i diritti dell’Italia.
La Sardegna ha concluso un affare dinastico, ma ha rinunciato alla
sua missione nazionale. Da Stato indipendente è scesa al
rango di Stato tollerato che, per resistere contro il nemico ad
oriente, deve strisciare davanti al proprio protettore ad occidente.
Ma questo non è tutto. In base ai
termini del trattato, l’Italia deve essere
costituita, secondo il modello della Federazione germanica, in una
Confederazione italiana, sotto la presidenza onoraria del papa.
Giunti a questo punto, sembra che l’«Idea napoleonica»
abbia incontrato qualche difficoltà, e ancora non sappiamo
come Napoleone si comporterà di fronte agli ostacoli che si
oppongono alla attuazione dei suoi capricci. Poichè,
qualunque cosa accada, non c’è dubbio che una confederazione
di tal fatta, con il papa alla testa, è un suo capriccio.
L’abbattimento del potere papale a Roma, d’altronde, è sempre
stato considerato come la conditio sine qua non dell’emancipazione
d’Italia. Machiavelli, secoli addietro, nella sua storia di
Firenze104 face va risalire al dominio dei papi l’origine della
decadenza italiana. Ora, nelle intenzioni di Luigi Bonaparte,
anziché liberare la Romagna, l’Italia tutta dovrebbe essere
sottoposta al dominio nominale del papa. Infatti, se mai la
confederazione dovesse venir organizzata, la tiara papale altro non
sarebbe che l’emblema della dominazione austriaca. A che cosa mira
l’Austria con le sue trattative private con Napoli, Roma, la
Toscana, Parma e Modena? Ad una confederazione di principi italiani
sotto la supremazia austriaca. Il trattato di Villafranca, con la
Confederazione italiana, in seno alla quale da una parte ci
sarebbero il papa, l’Austria ed i duchi reintegrati — se, beninteso,
potranno essere reintegrati —, e dall’altra il Piemonte, supera le
più ardite speranze dell’Austria. Sin dal 1815, essa ha
aspirato a formare una confederazione di principi italiani contro il
Piemonte. Essa può ora sottomettere lo stesso Piemonte.
Può soffocare il principio vitale di questo piccolo Stato in
una confederazione di cui il papa [Pio IX], che ha scomunicato la
Sardegna105, sarà il capo nominale, e della quale
l’implacabile nemico della Sardegna sarà il capo effettivo.
L’Italia dunque non è stata emancipata, bensì il
Piemonte è stato schiacciato. Faccia a faccia con l’Austria,
il Piemonte dovrebbe avere il compito di sostenere la parte della
Prussia, senza avere le risorse che hanno permesso a questo Stato di
paralizzare la rivale nella Dieta tedesca. La Francia, da parte sua,
può lusingarsi d’aver assunto nei confronti dell’Italia la
posizione che occupa la Russia di fronte alla Confederazione
tedesca, ma, qui, l’influenza russa in Germania si basa
sull’equilibrio di potere tra gli Asburgo e gli Hohenzollern.
L’unico comodo in cui il Piemonte può rialzare il proprio
prestigio è stato chiaramente indicato dal suo protettore.
Nel proclama ai suoi soldati, Luigi Napoleone dice:
L’unione della Lombardia con il
Piemonte crea per noi (la famiglia Bonaparte) un potente alleato
che ci sarà debitore della sua indipendenza,
dichiarando in tal modo che il Piemonte indipendente ha ceduto il
posto a una satrapia napoleonica. Per districarsi da questa
posizione degradante, Vittorio Emanuele manca delle necessarie
risorse. Egli può solo fare appello all’Italia, di cui ha
tradito la fiducia, o all’Austria, delle cui spoglie è stato
nutrito. Molto probabilmente però potrebbe intervenire una
rivoluzione italiana a cambiare l’aspetto di tutta la penisola e
riportare ancora una volta sulla scena Mazzini e i repubblicani.
Note
103 Nel 1848, Palmerston, nel tentativo di limitare l’espansione del
movimento rivoluzionario in Italia e negli interessi della
tradizionale politica britannica dell’«equilibrio
europeo», fece di tutto per annettere la Lombardia alla
monarchia piemontese. Il governo austriaco, intimorito da una
possibile svolta rivoluzionaria all’interno e dalla lotta di
liberazione nazionale del popolo italiano, fu costretto, col suo
memorandum del 24 maggio, ad accogliere le aspirazioni del popolo
lombardo e a concedere a Venezia lo status quo di Stato autonomo
governato da un arciduca austriaco. Però, dopo la sconfitta
subita dal Piemonte, l’Austria si rimangiò tutto.
104 N. Machiavelli, lstorie Fiorentine. La prima edizione usci a
Roma e a Firenze nel 1532.
105 In relazione all’espandersi del movimento di annessione al
Piemonte che abbracciò l’Italia settentrionale, nonché
lo Stato della Chiesa, Pio IX nel giugno 1859 emanò una
enciclica contro coloro che attentavano al papato minacciandoli di
scomunica, con una evidente allusione a Vittorio Emanuele II.
Scritto il 19 luglio 1859.
Pubblicato come articolo di fondo sulla New York Daily Tribune n.
5704, 4 agosto 1859
F. Engels
La guerra italiana
Sguardo retrospettivo
I
Il «generale segreto» ha chiamato in tutta fretta a
Parigi la sua Guardia per fare l’entrata trionfale alla sua testa, e
per far poi sfilare davanti a sè sulla piazza del Carrousel
le truppe vittoriose. Intanto passiamo ancora una volta in rassegna
gli avvenimenti principali della guerra per mettere in luce il
merito reale della scimmia di Napoleone.
Il 19 aprile il conte Buol commise la puerile imprudenza di
comunicare all’ambasciatore inglese che il giorno 23 dello stesso
mese avrebbe dato ai piemontesi tre giorni di tempo, allo scadere
dei quali avrebbe cominciato la guerra invadendo il territorio
nemico. Buol sapeva che Malmesbury non era Palmerston, ma
dimenticò che si avvicinava il tempo delle elezioni generali
e che gli ottusi tories, per paura di essere chiamati
«austriaci», sarebbero diventati, di fatto e contro il
proprio volere, bonapartisti. Il 20 aprile il governo inglese
comunicò in fretta al signor Bonaparte questa informazione e
subito dopo ebbe inizio il concentramento delle truppe, francesi e
fu ordinata la formazione dei quarti battaglioni di riservisti. Il
23, alla vigilia delle elezioni nella maggior parte dei collegi
inglesi, gli austriaci inviarono veramente l’ultimatum. Derby e
Malmesbury si affrettano a dichiarare che questa azione è un
«delitto», contro il quale essi protestano nel modo
più energico. Bonaparte fa passare alle proprie truppe la
frontiera piemontese, anche prima della scadenza dell’ultimatum; il
26 aprile i francesi entrano in Savoia e a Genova. Gli austriaci
invece, trattenuti dalle proteste e dalle minacce del governo tory,
concedono ancora due giorni di tempo ed entrano in Piemonte il 29
invece deI 21.
E così il «generale segreto», ben nove giorni
prima dell’invasione degli austriaci, ebbe notizia delle loro
intenzioni e riuscì grazie al tradimento del ministero
inglese, ad essere sul posto tre giorni prima di loro. Ma il
«genera le segreto» aveva degli alleati non soltanto nel
ministero inglese ma anche nel comando militare austriaco. Tutti
aspettavano con ragione che Hess assumesse il comando supremo
dell’esercito in Italia. Invece il comando fu messo in mano a
Gyulai, che nel 1848-49 non si era mai trovato faccia a faccia con
il nemico; un cervello totalmente incapace, senza ingegno e senza
volontà, questo Gyulai. Hess è di origine borghese ed
è avversato dalla cricca reazionaria e filogesuitica dei
nobili che costituisce la camarilla di Francesco Giuseppe. Il
triumvirato Grϋnne-Thun-Bach aizzò
contro il vecchio stratega il debole Francesco Giuseppe, che aveva
elaborato insieme con Grϋnne un piano di operazioni stravagante,
duramente criticato da Hess, cosìcché il nobilissimo
scemo Gyulai rimase comandante supremo, e fu accettato il suo piano
di operazione: invasione del Piemonte. Hess aveva consigliato di
tenersi strettamente sulla difensiva e di evitare ogni battaglia
prima di giungere al Mincio. L’esercito austriaco, ostacolato dalle
fortissime piogge, si mostrò solo verso il 3 o il 4 di giugno
sul Po e sulla Sesia, e naturalmente era troppo tardi per tentare un
colpo di mano su Torino o su qualche fortezza piemontese. I francesi
erano concentrati in massa sull’alto Po; questo diede all’incapace
Gyulai un ottimo pretesto per rimanere inattivo. Per documentare la
propria perplessità egli fece intraprendere una ricognizione
forzata su Montebello. La battaglia che ne risultò fu
onorevolmente sostenuta da 13 battaglioni austriaci contro 16
francesi, finché non apparvero sul campo di battaglia la
seconda e la terza divisione del corpo di Baraguay d’Hillier: allora
gli austriaci, che avevano raggiunto il loro scopo, si ritirarono.
Ma poiché a questa ricognizione nulla seguì da parte
degli austriaci, è chiaro che tutta la spedizione poteva
benissimo non aver luogo.
Il «generale segreto» aveva dovuto intanto aspettare il
materiale bellico e la cavalleria e passava probabilmente il tempo a
studiare il suo amato Bϋlow. I francesi, perfettamente informati
della posizione e delle forze degli austriaci, potevano facilmente
tracciare un piano di attacco. In generale, esistono solo tre modi
di attacco: o direttamente di fronte, per spezzare il centro, o
aggirando l’ala destra o sinistra del nemico. Il «generale
segreto» decise di aggirare il nemico dal fianco destro. Gli
austriaci occupavano una lunga linea da Biella a Pavia dopo aver
liberamente saccheggiato tutta la campagna tra la Sesia e la Dora
Baltea. Il 21 maggio i piemontesi attaccano la linea della Sesia e
impegnano per parecchi giorni di seguito delle scaramucce tra Casale
e Vercelli, mentre Garibaldi con i cacciatori delle Alpi fa
insorgere il Varesotto e penetra nel Comasco e nella Brianza,
costeggiando il Lago Maggiore. Gyulai continua a tenere le truppe
sparpagliate e spedisce addirittura uno dei suoi sei corpi d’armata
(il 9°) sulla riva meridionale del Po. Il 29 maggio i
preparativi sono giunti finalmente al punto che l’attacco può
essere iniziato. Le battaglie di Palestro e di Vinzaglio, dove la
maggior parte dell’esercito piemontese fu impegnata contro una parte
del 7° corpo d’armata (Zobel), aprirono agli alleati la strada
su Novara, che Gyulai fece sgombrare senza resistenza. Subito vi
furono diretti i piemontesi; il 2° e il 3° corpo francese e
la Guardia seguiti dal 1° corpo. L’ala destra austriaca era
completamente aggirata, e la via diretta su Milano era aperta.
In questo modo, però, gli eserciti avevano assunto proprio la
stessa posizione nella quale Radetzky neI 1849 aveva riportato la
vittoria di Novara. Gli alleati si mossero in lunghe colonne e
seguendo poche strade parallele si volsero verso il Ticino. La
marcia non poteva procedere che lentamente. Gyulai aveva sotto mano
cinque corpi d’armata, anche senza contare il 9° corpo, che era
stato allontanato. Appena l’attacco dei piemontesi si fece serio, e
questo accadde il 29 e 30 maggio, Gyulai doveva concentrare le sue
truppe. Il punto dove ciò avvenisse non contava molto; non si
marcia davanti a 140-150.000 uomini concentrati in una posizione; e
poi l’importante era di non difendersi passivamente ma di assestare
tempestivamente un colpo al nemico. Se Gyulai avesse concentrato le
proprie forze tra Mortara, Garlasco e Vigevano il 31 maggio ed il
1° giugno, egli avrebbe potuto, da una parte, piombare proprio
sul fianco delle truppe che avevano aggirato la sua ala destra
presso Novara, spezzare in due le colonne nemiche in marcia,
incalzarne una parte sì da addossarla alle Alpi e
impadronirsi della via di Torino. Dall’altra parte egli sarebbe
sempre potuto giungere ancora in tempo per sbarrare la via di Milano
al nemico, se questo avesse passato il Po al di sotto di Pavia.
Un inizio di concentramento ebbe effettivamente luogo. Ma prima che
esso fosse completato Gyulai perse la testa a causa dell’occupazione
di Novara. Il nemico era vicino
a Milano più di lui! È vero, ma questo era proprio
ciò che si era voluto; era venuto il momento del
colpo tempestivo; il nemico avrebbe dovuto battersi in
condizioni sfavorevolissime. Ma Gyulai per quanto potesse essere
personalmente coraggioso era vile moralmente. Invece di avanzare
rapidamente, indietreggiò facendo descrivere, a marce
forzate, un arco al proprio esercito per aggirare il nemico e per
sbarrargli di nuovo, presso Magenta, il passo su Milano.
Le truppe furono messe in movimento il 2 giugno ed il quartiere
generale fu trasferito a Rosate in Lombardia. Qui giunse il 3 giugno
alle cinque e mezzo del mattino il generale di artiglieria Hess.
Egli chiese ragione a Gyulai dell’imperdonabile errore e fece subito
fermare le truppe, perché riteneva ancora possibile di
rivolgere l’urto in direzione di Novara. Due interi corpi
d’armata, il 2° e il 7°, erano già in territorio
lombardo, e marciavano da Vigevano su Abbiategrasso. Il 3° corpo
aveva ricevuto l’ordine di fermarsi proprio nel momento in cui stava
traversando il ponte presso Vigevano. Tornò indietro e prese
posizione sulla riva piemontese. L’8° passò per
Bereguardo, il 5° per Pavia. Il 9° era sempre lontano e
completamente fuori della zona di operazioni.
Dopo essersi informato con precisione sulla dislocazione delle
truppe, Hess trovò che era troppo tardi per poter contare su
un successo in direzione di Novara; non rimaneva che la direzione di
Magenta. Alle dieci del mattino parti l’ordine alle colonne di
continuare la marcia su Magenta.
A questa intromissione di Hess e alla perdita di 4 ore e mezzo a
causa della sosta delle colonne, Gyulai attribuisce la colpa della
sconfitta di Magenta. Quanto infondato sia questo pretesto risulta
dai fatti seguenti. Il ponte presso Vigevano dista da Magenta dieci
miglia inglesi, una breve giornata di marcia. Il secondo ed il
settimo corpo erano già in Lombardia quando venne l’ordine di
fermarsi. Essi potevano avere perciò da percorrere al massimo
7-8 miglia circa. Ciò nonostante solo una divisione del
7° corpo giunse fino a Corbetta e 3 brigate del 2° corpo
fino a Magenta. La seconda divisione del 7° corpo il giorno 3
non andò oltre Castelletto, presso Abbiategrasso; e il 3°
corpo, che ricevette l’ordine di partenza dal ponte presso Vigevano
alle 11 del mattino, al più tardi, e aveva perciò
davanti a sé buona parte della giornata, non pare abbia
coperto le cinque o sei miglia inglesi che lo separavano da
Abbiategrasso, perché solo il giorno dopo verso le 4 del
pomeriggio poté entrare in combattimento presso Robecco (3
miglia da Abbiategrasso). Qui avvenne evidentemente un ingorgo delle
colonne, cosa che rallentò la marcia, in conseguenza
dell’organizzazione difettosa.
Quando un corpo ha bisogno di 24 ore e più per coprire 8-10
miglia, 4-5 ore non faranno di certo traboccare la bilancia.
L’8° corpo, diretto per Bereguardo e Binasco, dovette fare un
tal giro che anche utilizzando le 4 ore e mezza perdute, non avrebbe
potuto comparire a tempo sul campo di battaglia. Il 5° corpo,
che vi giunse da Pavia con due vere marce forzate riuscì a
intervenire nella battaglia la sera del 4 giugno, con una
brigata106. Senza la sosta delle 4 ore e mezza difficilmente avrebbe
potuto sopportare l’estremo sforzo compiuto per accorrere sul campo
di battaglia. Esso guadagnò nell’intensità del
movimento ciò che aveva perduto di tempo. Il tentativo di
addossare a Hess la colpa della dispersione dell’esercito cadde
dunque totalmente.
Il preludio strategico della vittoria di Magenta consiste dunque, in
primo luogo, in un errore indubitabile che commise lo stesso Luigi
Bonaparte, effettuando una marcia di fianco nel raggio d’azione del
nemico e, in secondo luogo, in un errore di Gyulai che, invece di
piombare con forze concentrate sulle lunghe colonne in marcia,
frantumò il proprio esercito con una contromarcia e una
ritirata, per di più impostate in modo pietoso, e condusse le
proprie truppe stanche ed affamate alla battaglia. Questa fu la
prima fase della guerra. Della seconda parleremo nel prossimo
numero.
II
Abbiamo lasciato il nostro vero Napoleone segreto sul campo di
battaglia di Magenta. Gyulai gli aveva reso il maggior servigio che
un generale può rendere al suo avversario: aveva cioè
fatto avanzare le sue forze in modo così disperso che in ogni
momento della battaglia si era trovato in condizioni di decisiva
inferiorità e nemmeno la sera riuscì a controllare
tutte le sue truppe. Il 1° e il 2° corpo si ritirarono verso
Milano; l’8° veniva da Binasco, il 5° da Abbiategrasso, il
9° fu condotto molto più giù a passeggio lungo il
Po. Questo era il momento buono per un generale; qui bisognava
irrompere, con le numerose truppe fresche che erano sopraggiunte
durante la notte, tra le colonne austriache isolate, per conquistare
una vera vittoria e costringere alla resa interi reparti con
bandiere e artiglierie! Così si era comportato il Napoleone
volgare a Montenotte e a Millesimo, ad Abensberg e Ratisbona107. Non
così il «più grande» Napoleone. Egli
è ben al di sopra di un sì rozzo empirismo: sa dal suo
Bϋlow che la cosa più vantaggiosa è la ritirata
eccentrica. Egli quindi apprezzò pienamente le magistrali
disposizioni di ritirata di Gyulai e invece di dargli addosso,
telegrafò a Parigi: l’esercito si riposa e si riorganizza.
Era sicuro che il mondo non sarebbe stato così scortese da
non definire la sua dilettantesca esercitazione di Magenta una
«grande vittoria»!
L’amico Gyulai, che già una volta aveva tentato con tanto
successo la manovra di aggirare il nemico descrivendo un arco,
l’amico Gyulai fece ancora una volta questo esperimento e stavolta
in grandi proporzioni. Fece dapprima marciare il suo esercito in
direzione sud-est lungo il Po, quindi costeggiò il Po in tre
colonne su tre strade parallele fino a Piadena sull’Oglio, quindi di
nuovo in direzione nord verso Castiglione. Nel far questo non si
affrettò affatto. La via che doveva compiere fino a
Castiglione era di circa 120 miglia inglesi, vale a dire dieci
giorni di marcia molto comoda, oppure otto di buon passo. Quindi
poteva essere sulla posizione di Castiglione al massimo il 14 o il
15, ma egli si ritrovò, con buona parte dell’esercito, sulle
alture a sud del lago di Garda soltanto il 19. La fiducia intanto
genera la fiducia. Poiché gli austriaci marciavano
lentamente, il più grande Napoleone pensò di essere
superiore ad essi anche in questo. Il Napoleone volgare si sarebbe
affrettato, in primo luogo, a far superare a marce forzate alle sue
truppe la strada più breve verso Castiglione, che è di
circa 100 miglia inglesi, per schierarsi prima degli austriaci a sud
del lago di Garda e presso il Mincio e, se possibile, fare impeto
sul fianco delle colonne austriache in marcia. Non così
pensò il migliore Napoleone. «Sempre avanti
lentamente» è il suo motto. Gli ci volle dal 5 fino al
22 prima di poter concentrare le sue truppe sul Chiese: 17 giorni
per coprire cento miglia, cioè due ore scarse di marcia al
giorno.
Queste sono le colossali fatiche che le colonne francesi
dovettero sopportare e che riempirono i corrispondenti dei giornali
inglesi di tale ammirazione per la resistenza e la imperturbabile
serenità dei pioupious108. Soltanto una volta fu compiuto un
tentativo per impegnare un combattimento di retroguardie. Si
trattava di cacciare da Melegnano una divisione austriaca (Berger).
Una brigata teneva la città, l’altra era pronta al di qua del
Lambro a coprire la ritirata della prima e non entrò quasi
per nulla in combattimento. Qui, dunque, il nostro «generale
segreto» dimostrò che, al momento opportuno, conosceva
anche la strategia napoleonica: le masse nel punto decisivo! In
conseguenza di ciò egli inviò contro questa unica
brigata due interi corpi d’armata, cioè dieci brigate;
assalita da sei brigate, la brigata austriaca (Roden) resistette tre
o quattro ore, e si ritirò soltanto dopo aver perduto un
terzo dei suoi effettivi, superando il Lambro senza esser inseguita;
la presenza della seconda brigata (Boer) bastò a trattenere
la schiacciante preponderanza francese. Si può vedere come la
guerra fosse condotta da parte francese con la massima garbatezza.
A Castiglione entrò in scena un altro eroe: Francesco
Giuseppe d’Austria. Due degni avversari! Uno ha messo in giro la
voce che egli è uno dei più grandi furbacchioni di
tutti i tempi; l’altro si compiace di apparire come un valoroso.
L’uno non può non essere il più grande generale del
suo secolo perché ha la missione di vestirsi dei panni del
vero Napoleone, di cui ha pure portato con sé al campo
l’autentico bicchiere e altre reliquie; l’altro deve aver la
vittoria dalla sua parte perché è nato
«comandante supremo» del suo esercito. Il dominio degli
epigoni, che si manifesta negli intervalli tra le rivoluzioni del
secolo decimo nono, non poteva essere più adeguatamente
rappresentato sul campo di battaglia.
Francesco Giuseppe iniziò la sua carriera come generale in
capo facendo prendere posizione alle sue truppe in un primo tempo a
sud del lago di Garda, per ritirarle al di qua del Mincio; le aveva
appena ritirate al di qua del Mincio che le rimandava di nuovo
avanti per l’offensiva. Perfino un Napoleone «edizione
migliorata» doveva restar sorpreso da una simile manovra e il
suo bollettino lo fa capire abbastanza chiaramente. Poiché
nello stesso giorno egli si trovava con il suo esercito proprio in
marcia verso il Mincio, il risultato fu l’urto fra i due eserciti,
la battaglia di Solferino. Faremo a meno qui di occuparci ancora una
volta dei particolari di questa battaglia, poiché l’abbiamo
già fatto in un precedente numero di questo giornale [Das
Volk]; tanto più che il comunicato ufficiale austriaco si
è mantenuto volutamente in termini molto confusi, per
nascondere i sorprendenti errori del comandante in capo per diritto
ereditario. Ad ogni modo è altrettanto certo che la colpa
principale della sconfitta ricade su Francesco Giuseppe e sulla sua
camarilla. In primo luogo Hess era stato deliberatamente tenuto in
di sparte. In secondo luogo al posto di Hess si era messo Francesco
Giuseppe. In terzo luogo, per influsso della camarilla, nei posti di
comando più importanti era rimasta una massa di incapaci e
perfino di gente di coraggio assai dubbio. Da tutte queste
circostanze risultò nei giorni della battaglia, anche non
tenendo conto del piano originale, una tale confusione che non si
può parlare di comando, di movimenti coordinati, di ordini,
né di successione coerente di manovre. Soprattutto nel centro
sembra abbia regnato una confusione straordinaria. I tre corpi
d’armata che erano schierati qui (1°, 5° e 7°)
compiono movimenti così contraddittori e
sconnessi e si intralciano sempre reciprocamente, perdono
contatto al momento decisivo in modo tale che dal rapporto austriaco
risulta una cosa sola, ma questa con certezza: la battaglia è
stata perduta non tanto per inferiorità numerica quanto per
colpa del comando vergognosamente inetto. Mai un reparto
aiutò l’altro al momento opportuno; le riserve erano
dappertutto, tranne che là dove erano necessarie; e
così caddero uno dopo l’altro Solferino, San Cassiano,
Cavriana, che costituivano, se difesi tutti e tre insieme con
tenacia e abilità, una posizione imprendibile. Invece
Solferino, che era il punto decisivo, fu perduto già alle
due, e con Solferino fu perduta la battaglia; Solferino cadde sotto
un attacco concentrico, che soltanto contrattacchi offensivi
avrebbero potuto respingere, ma questi mancarono completamente; e,
dopo Solferino, caddero gli altri paesi anch’essi per attacchi
concentrici, ai quali si contrappose una insufficiente difesa
passiva. Tuttavia erano ancora disponibili delle truppe fresche;
infatti gli elenchi dei caduti austriaci mostrano che dei
venticinque reggimenti di linea impegnati, otto (Rossbach, Joseph,
Hartmann, Mecklenburg, Hess, Grϋber, Werhardt, Wimpffen),
cioè un terzo, avevano perduto 200 uomini ciascuno, e dunque
erano stati impegnati solo in misura insignificante! Tre degli
stessi reggimenti, al pari del reggimento di confine di Gradisca109,
non perdettero nemmeno cento uomini per reggimento e la maggior
parte dei battaglioni dei cacciatori (cinque) perdettero meno di 70
uomini per battaglione. Poiché dunque l’ala destra (8°
corpo di Benedek) dovette seriamente impegnare tutte le sue truppe
contro forze notevolmente preponderanti, così tutti questi
reggimenti e battaglioni scarsamente impegnati si trovarono al
centro o all’ala sinistra, e Una buona parte doveva essere dislocata
al centro. Questo dimostra quanto miserevole sia stato qui il
comando. La cosa è d’altra parte molto facilmente spiegabile;
qui era Francesco Giuseppe in persona con la sua camarilla,
perciò tutto doveva svolgersi confusamente e senza un piano.
Le tredici batterie di riserva non spararono nemmeno un colpo!
All’ala sinistra sembra abbia regnato un’analoga assenza di comando.
Qui fu in particolare la cavalleria, comandata da
«vecchiette», che non prese parte affatto all’azione.
Dove si mostrava un reggimento di cavalleria austriaca la cavalleria
francese faceva marcia indietro, ma, di otto reggimenti, solo un
reggimento di ussari entrò completamente in azione e due
reggimenti di dragoni e un reggimento di lancieri attaccarono solo
in certa misura. Gli ussari prussiani perdettero 110 uomini, i due
reggimenti di dragoni nel complesso 96; le perdite dei lancieri di
Sicilia non sono conosciute; i restanti quattro reggimenti
perdettero tutti insieme soltanto 23 uomini! L’artiglieria perdette
in tutto solo 180 uomini.
Queste cifre dimostrano più di tutto il resto l’incertezza e
l’indecisione con le quali i generali austriaci, dall’imperatore
fino ai comandanti di corpo, guidarono le loro truppe contro il
nemico. Si aggiunga a questo la superiorità numerica e lo
slancio morale che i francesi dovevano ai successi precedentemente
riportati, e si comprenderà come gli austriaci non potessero
vincere. Un solo comandante, Benedek, non si fece intimidire; egli
tenne da solo tutta l’ala destra e Francesco Giuseppe non ebbe il
tempo di immischiarsene. La conseguenza fu che i piemontesi,
nonostante avessero delle forze più che doppie, furono
battuti.
Il più grande Napoleone non era un novellino nell’arte
militare, come Francesco Giuseppe. Egli aveva fatto il suo noviziato
al tempo di Magenta, e sapeva per esperienza come si doveva
comportare sul campo di battaglia. Egli lasciò al vecchio
Vaillant il compito di calcolare la lunghezza del fronte da
occupare, dal che risultava automaticamente la distribuzione dei
singoli corpi, e quindi lasciò ai comandanti di corpo di
andare avanti per conto proprio, potendo essere abbastanza
tranquillo che essi sapevano comandare i loro reparti. Egli poi si
portò in quei punti nei quali avrebbe potuto comparire nel
modo migliore nell’Illustration parigina del sabato seguente e da
qui emanò degli ordini secondari, molto melodrammatici, ma
anche molto insignificanti.
III
All’Accademia di Dϋsseldorf c’era molto tempo fa un pittore russo,
che più tardi, a causa della sua incapacità e della
sua pigrizia, fu relegato in Siberia. Il povero diavolo andava in
estasi per il suo imperatore Nicola ed amava raccontare pieno di
entusiasmo: «Imperatore molto grande! lmperatore può
tutto! Imperatore può anche dipingere! Ma imperatori non
hanno tempo per dipingere, imperatori comprano paesaggi e poi vi
dipingono sopra soldati. Imperatore molto grande! Dio è
grande, ma imperatore è ancora giovane!».
Il più grande Napoleone ha questo in comune con Nicola, di
ritenere che i paesaggi ci siano unicamente per dipingervi sopra dei
soldati. Ma poiché non ha mai tempo, nemmeno per dipingervi
dei soldati, si accontenta di posare per il ritratto. Il pose;
Magenta, Solferino e tutta l’Italia sono solo ornamenti, solo il
pretesto, per far apparire di nuovo in questa occasione la sua
interessante figura in atteggiamento melodrammatico sulla
Illustratione sull’Illustrated London News. E poiché questo
si può ottenere con un po’ di denaro, anche questo gli
è riuscito. Egli ha detto ai milanesi: «Se vi è
della gente che non capisce il proprio secolo» (il secolo
della réclame e del bluff), «io non appartengo a questa
gente».
Il vecchio Napoleone era grande e il Napoleone
«perfezionato» non è più giovane!
Quest’ultima constatazione, di non esser più giovane, gli ha
allora ispirato anche l’idea che era ormai tempo di concludere la
pace. Egli aveva ora ottenuto tutto ciò che si poteva
ottenere con un semplice succès d’estime. «In quattro
scontri e in due battaglie», con la perdita di oltre 50.000
uomini solo in combattimento, senza contare i malati, egli aveva
conquistato il paese sino alle fortezze austriache, cioè quel
territorio che l’Austria stessa, erigendo le sue fortezze, aveva
fatto capire a tutto il mondo di non voler mai difendere seriamente
contro forze preponderanti e che questa volta è stato difeso
solo per dar fastidio al maresciallo Hess. La via sacra110, per la
quale il più grande Napoleone aveva condotto il suo esercito
con sì classica flemma e con sì dubbio successo, fu
all’improvviso chiusa. Dall’altra parte si trovava la terra
promessa, che non doveva essere veduta non soltanto dall’attuale
«Armata d’Italia» ma forse nemmeno dai suoi pronipoti.
Rivoli ed Arcole non erano in programma. Verona e Modena erano sul
punto di dire una parola, e l’unica fortezza nell’interno della
quale il più grande Napoleone è finora entrato con un
seguito militare è il castello di Ham, ed egli fu abbastanza
contento di poter andar via senza onori militari111. Il colpo di
scena era riuscito di per sé molto povero: egli aveva avuto
delle grandes batailles, ma alle sue grandes victoires nemmeno il
filo telegrafico aveva mai creduto. Una guerra per un campo
trincerato, contro il vecchio Hess, una guerra con successi alterni
e con probabilità di vittoria sempre più scarse, una
guerra che richiedeva un lavoro serio, una vera guerra, questa non
era una guerra per il Napoleone della Porte Saint Martin112 e
delI’Astley’s Amphitheater. A questo bisogna aggiungere che un passo
più in là avrebbe provocato anche una guerra sul Reno
e che così sarebbero venute delle complicazioni che avrebbero
immediatamente messo fine agli eroici cipigli e alle melodrammatiche
poses plastiques. Ma di tali cose il più grande Napoleone
non si occupa: egli concluse la pace e si rimangiò il
suo programma.
All’inizio della guerra il nostro Napoleone più grande fece
subito pensare alle campagne italiane del Napoleone volgare, alla
via sacra di Montenotte, Dego, Millesimo, Montebello, Marengo, Lodi,
Castiglione, Rivoli ed Arcole. Confrontiamo dunque la copia con
l’originale.
Il Napoleone volgare assunse il comando di 30.000 soldati
semiaffamati, scalzi e laceri, in un momento in cui la Francia con
le finanze dissestate, nell’impossibilità di contrarre dei
prestiti, doveva mantenere non soltanto due eserciti nella zona
delle Alpi, ma anche due eserciti in Germania. La Sardegna e gli
altri Stati italiani erano non dalla sua parte ma contro di lui.
L’esercito che gli stava di fronte era superiore al suo per numero e
per organizzazione. Ciò nonostante egli attaccò,
batté gli austriaci ed i piemontesi in sei battaglie
rapidamente susseguentisi, riuscendo sempre
ad assicurarsi la superiorità numerica,
costrinse il Piemonte a far la pace, passò il Po,
forzò il passaggio dell’Adda presso Lodi e assediò
Mantova. La prima armata di soccorso inviata dagli austriaci fu da
lui battuta presso Lonato e Castiglione e quando avanzò per
la seconda volta egli la costrinse con un’audace manovra a gettarsi
entro Mantova. La seconda armata di soccorso fu fermata da lui
presso Arcole e fu tenuta in iscacco due mesi, sino a quando,
rinforzata, essa avanzò da capo per farsi battere presso
Rivoli. Poi costrinse Mantova alla resa, ed i principi dell’Italia
meridionale alla pace, e penetrò attraverso le Alpi Giulie ai
pie di del Semmering, dove ottenne la pace.
Così il Napoleone volgare. Come si è comportato il
più grande? Egli trova un esercito che è il migliore e
il più forte che la Francia abbia mai avuto ed una situazione
finanziaria che almeno gli permette di far fronte facilmente alle
spese di guerra mediante prestiti. Ha sei mesi di tempo per
preparare, nella pace più profonda, la sua campagna. Ha dalla
sua parte la Sardegna, dotata di ottime fortezze e di un esercito
eccellente e numeroso; occupa Roma113; l’Italia centrale non aspetta
che il suo segnale per sollevarsi ed unirsi a lui. La base delle sue
operazioni non si trova nelle Alpi marittime, ma sul medio Po,
presso Alessandria e Casale. Dove il suo predecessore aveva i
sentieri, egli ha le ferrovie. E che cosa fa? Getta in Italia cinque
forti corpi d’armata, così forti che insieme coi sardi supera
di molto gli austriaci in quantità, li supera talmente che
può ancora cedere il sesto corpo all’armata turistica di suo
cugino per una passeggiata militare. Nonostante tutte le ferrovie,
gli occorre un mese intero per concentrare le sue truppe. Finalmente
avanza. L’incapacità di Gyulai gli fa un regalo con la
battaglia indecisa di Magenta che si trasforma in una vittoria a
causa delle condizioni strategiche in cui vengono per caso a
trovarsi i due eserciti dopo la battaglia, condizioni delle quali il
più grande Napoleone non ha nessuna colpa, essendo l’unico
colpevole Gyulai. In segno di gratitudine egli lascia che gli
austriaci filino via invece di inseguirli. Presso Solferino
Francesco Giuseppe lo costringe quasi a vincere; tuttavia il
risultato è appena migliore che a Magenta. Allora si presenta
la situazione nella quale il Napoleone volgare avrebbe impiegato
tutti i suoi mezzi; la guerra si svolge su di un campo dove
c’è da fare qualche cosa di reale, ed assume dimensioni tali
da appagare una grande ambizione. Giunto al punto in cui comincia,
solo allora, la via sacra del Napoleone volgare, dove si apre, solo
allora, una prospettiva grandiosa, a questo punto, il più
grande Napoleone chiede la pace!
Note
106 Sul giornale Volk nel testo di Engels fu inserita la frase:
«Se non ci fosse stata questa fermata di quattro ore e mezzo,
il corpo non avrebbe potuto sopportare quell’estrema tensione di
forze con la quale s’affrettava al campo di battaglia». Questa
frase, giudicata da Engels inopportuna in una lettera a Marx (25
luglio 1859), è qui omessa.
107 Si vedano le note 63 e 72.
108 Pioupious, soprannome dei fanti francesi.
109 Le regioni della periferia meridionale del regno ungarico
dall’Adriatico alla Transilvania. A cominciare dal XVI sec, il
governo austriaco concesse alla popolazione di queste regioni
appezzamenti di terra e privilegi vari in cambio della difesa
dell’Austria dalle invasioni turche. Eliminato il pericolo turco,
nella seconda metà del XIX sec., questa struttura
amministrativa e militare della frontiera fu abolita.
110 Via sacra, via della antica Roma per la quale passavano gli
eserciti vittoriosi. L’espressione divenne proverbiale per indicare
qualsiasi campagna vittoriosa.
111 Si allude alla incarcerazione di Luigi Bonaparte nella fortezza
di Ham dopo il fallimento del suo colpo di Stato di Boulogne (1840),
da dove evase nel 1846.
112 Porte Saint Martin, teatro parigino presso il quale, nei giorni
del colpo di Stato del dicembre 1851, i bonapartisti fecero strage
dei repubblicani.
113 L’occupazione di Roma da parte delle truppe francesi si
protrasse dal 1849 al 1870.
Scritto il 20 e 28 luglio e intorno al 3 agosto 1859.
Pubblicato sul Giornale Das Volk nn. 12, 13 e 14, 23, 30
luglio e 6 agosto 1859
K. Marx
Luigi Napoleone e L’Italia
Ogni giorno che passa getta nuova luce sulle parole e sugli atti di
Napoleone III in Italia e ci aiuta a comprendere che cosa
significhino sulle sue labbra le parole libertà «dalle
Alpi all’Adriatico». Per lui la guerra è stata soltanto
un’altra spedizione francese su Roma, senza dubbio di maggiori
proporzioni da ogni punto di vista, ma non dissimile da quella
impresa «repubblicana» nei motivi e nei risultati114,
«Salvata» la Francia da una guerra europea
con la conclusione del trattato
di Villafranca, il Liberatore si
accinge ora a
«salvare» la società italiana restaurando con la
forza i prIncipi, che una parola proveniente dalle Tuilleries aveva
cacciato dal potere, e soffocando con le armi i movimenti popolari
nell’Italia centrale e nelle Legazioni. Mentre la stampa britannica
pullulava di vaghe congetture e di on dit sui probabili cambiamenti
che avrebbero presumibilmente subito gli accordi di Villafranca alla
Conferenza di Zurigo, e lord John Russell con quell’incorreggibile
indiscrezione che indusse lord Palmerston ad affidargli i sigilli
del ministero degli esteri, si sentì autorizzato a dichiarare
solennemente alla Camera dei Comuni che Bonaparte si sarebbe
astenuto dal prestare le sue baionette ai principi detronizzati, la
Wiener Zeitung dell’8 agosto portava in prima pagina la seguente
dichiarazione ufficiale:
La Conferenza di Zurigo sta per
iniziare i suoi lavori, con lo scopo dì giungere alla
conclusione della pace di cui le linee principali furono fissate a
Villafranca. È difficile per chi consideri il significato
evidente della Conferenza, comprendere come la stampa, non solo
all’estero ma anche in Austria, si sia concessa la libertà
di esprimere dubbi circa l’esecuzione e l’applicabilità
degli accordi di Villafranca. Quei preliminari di pace,
contrassegnati dalla firma e dai suggelli di due imperatori,
racchiudono la garanzia della loro esecuzione negli impegni e
nella potenza dei due monarchi.
Questo si chiama parlar chiaro. Da una parte ci sono le vane
declamazioni degli italiani delusi, dall’altra c’è il
«sic volo, sic jubeo»115 di Francesco Giuseppe e di
Luigi Bonaparte, spalleggiato da baionette, cannoni rigati ed altre
«armes de precision». I patrioti italiani, se si
rifiutano di cedere a melliflue persuasioni, devono piegarsi di
fronte al la forza bruta. Non esiste altra alternativa, nonostante
l’affermazione contraria di lord John Russell, che egli
probabilmente pronunciò in perfetta buona fede, poiché
gli era stata messa in bocca allo scopo di sbarazzarsi del
Parlamento inglese durante il periodo fissato per schiacciare
l’Italia ha sotto il ferreo tallone dei despoti alleati. In quanto
al potere temporale del papa nelle Legazioni, Luigi Napoleone non
attese neppure la fine della guerra per imporne il mantenimento. I
preliminari di Villafranca stipulano la restaurazione dei principi
austriaci in Toscana ed a Modena. Negli accordi non è stato
incluso il ritorno al potere della duchessa di Parma [Luisa],
perché Francesco Giuseppe intende vendicarsi della
principessa, la quale aveva dichiarato apertamente di non voler
legare il suo destino a quello dell’Austria. Però, colla sua
innata magnanimità, Luigi Napoleone ha accondisceso ad
ascoltare le umili preghiere della donna errante Per tramite di
Walewski egli ha dato la sua parola d’onore al sig. Mon,
ambasciatore spagnolo a Parigi, il quale è anche
plenipotenziario della duchessa, che questa sarà rimessa sul
trono e il suo dominio abbraccerà lo stesso territorio di
prima, con la sola eccezione, forse, della fortezza di Piacenza che
dovrà essere data a Vittorio Emanuele se questi si
comporterà bene alla Conferenza di Zurigo. All’idea di
sostenere la parte del protettore della
sorella dei Borboni, il parvenu non soltanto si
è sentito immensamente lusingato, ma ha pensato di avere
finalmente scovato un mezzo sicuro per cattivarsi le buone grazie
del Faubourg Saint-Germain116 che fino a quel momento aveva
respinto sdegnosamente le sue lusinghe e mantenuto nei suoi riguardi
un atteggiamento di altezzosa riserva.
Ma come poteva il «liberatore delle nazionalità»
diventare il missionario della «Legge e dell’Ordine», il
salvatore della «società costituita»? Come
assumere con successo questa parte meno poetica? Ciò
significava muoversi precipitosamente su un piano inclinato. Creare
e protrarre l’incertezza del pubblico circa il vero significato dei
preliminari di Villafranca e intrattenerlo con pazze ipotesi e sagge
congetture, era ovviamente un metodo per preparare gradualmente
l’Europa al peggio. Lord Palmerston, che odia l’Austria, professa di
amare l’Italia ed è notoriamente il confidente di Napoleone
III, ha aiutato l’uomo di dicembre su questo terreno sdrucciolevole.
Messo alla porta il ministro Derby, a causa delle sue simpatie
austriache, Palmerston sembra essersi reso garante di fronte a tutta
l’Europa, e all’Italia in particolare, delle oneste intenzioni di
Napoleone III, suo augusto alleato. E così, alla chetichella,
egli ha tolto di mezzo il Parlamento, se pur non l’ha mandato a casa
con una menzogna deliberata. La sua esplicita dichiarazione che
l’Inghilterra non ha ancora deciso se partecipare o no al Congresso
europeo che probabilmente sanzionerà le conclusioni della
Conferenza di Zurigo e alleggerirà quindi il far dello d’odio
che altrimenti graverebbe sulle spalle di Napoleone, distribuendolo
fra tutte le potenze d’Europa — è contraddetta dai giornali
prussiani, che hanno pubblicato una nota ufficiosa, in cui si
dichiara che l’Inghilterra e la Russia si sono rivolte insieme alla
corte di Berlino per do mandare la sua partecipazione al Congresso
europeo.
Il secondo passo di Napoleone, che egli fece soltanto dopo che
l’eccitazione febbrile dell’opinione pubblica si era alquanto
calmata, fu compiuto nel regno di Sardegna. Egli cercò di
indurre Vittorio Emanuele a fare il lavoro per lui, cosa non facile
ad ottenersi. Sembrava che Vittorio Emanuele avesse guadagnato tutto
quello che l’Austria e i suoi vassalli avevano perduto. Egli era
divenuto, di fatto se non di nome, il reggente dell’Italia centrale
e delle Legazioni, poiché gli abitanti di queste regioni
avevano generalmente riconosciuto la sua dinastia per odio
dell’Austria, se non per amore del Piemonte. La prima richiesta che
il crociato francese della libertà fece al suo nuovo
vassallo, fu di rinunciare alla sua posizione di capo ufficiale del
movimento popolare. Questo Vittorio Emanuele non poteva rifiutarlo.
Egli ritirò i commissari sardi dai ducati e dai territori
papali, richiamando Boncompagni da Firenze, Massimo d’Azeglio dalla
Romagna e Farmi (almeno nella sua veste ufficiale) da Modena117.
Ma l’imperial liberatore non era ancora soddisfatto. Dalla
precedente esperienza in Francia, aveva tratto ragione per
conchiudere che, abilmente manipolato, il suffragio popolare
è il miglior meccanismo del mondo per stabilire un dispotismo
su una base solida e dignitosa. Di conseguenza, incaricò il
re di Sardegna di influire sulle elezioni popolari nelle province
insorte in modo che la restaurazione dei loro principi apparisse
come il risultato della volontà del popolo. Vittorio Emanuele
non volle naturalmente saperne di una richiesta che se soddisfatta
avrebbe frustrato per sempre ogni prospettiva di indipendenza
italiana, e avrebbe trasformato gli evviva in un grido generale di
esecrazione in tutta la penisola. Si dice che egli abbia risposto al
conte de Reiset, il francese inviato a tentarlo:
Monsieur, io sono anzitutto un principe italiano; non dimenticate
questo fatto. Gli interessi dell’Italia mi sembrano più
importanti di quelli dell’Europa ai quali avete avuto la compiacenza
di alludere. Non posso prestare l’autorità del mio nome alla
restaurazione dei principi detronizzati e non lo farò. Sono
già troppo indulgente per mettendo che le cose seguano il
loro corso, come sta avvenendo.
E si dice anche che il cavalleresco re abbia aggiunto:
Se si intende giungere
all’intervento armato, sentirete parlare di me. In quanto alla
confederazione, il mio interesse e il mio onore vi si oppongono
egualmente, e perciò la combatterò sino alla morte.
Non appena questa risposta fu trasmessa a Parigi, comparve il famoso
articolo di Granier de Cassagnac sull’ingratitudine italiana118,
contenente il sinistro avvertimento che qualora venisse ritirata la
protezione di una mano potente, l’aquila austriaca non tarderebbe a
posarsi sul palazzo reale di Torino. Vittorio Emanuele fu allora
informato che il possesso di Piacenza sarebbe dipeso dalla sua buona
condotta, che la relativa influenza dei principi italiani nella
progettata confederazione era ancora materia di discussione. E il
colpo finale gli fu dato mettendo sul tappeto la questione della
nazionalità della Savoia, accompagnata dall’avvertimento che,
se Bonaparte aveva aiutato Vittorio Emanuele a liberare l’Italia dal
giogo austriaco, non poteva rifiutarsi di liberare la Savoia dal
giogo della Sardegna. Queste minacce assunsero tosto
forma tangibile nell’agitazione che, ad un segnale da Parigi,
scoppiò nel partito feudale e cattolico della Savoia.
…… I savoiardi (esclamò un giornale parigino) sono stanchi di
spendere il loro denaro e di spargere il sangue dei loro figli per
la causa italiana…..
Questo era un forte argumentum ad hominem119 per Vittorio Emanuele
e, se egli non ha accettato apertamente l’incarico propostogli,
v’è qualche ragione di temere che abbia almeno promesso di
preparare il terreno per un intervento armato francese. La notizia
contenuta nel telegramma datato Parma, 9 agosto, secondo la quale
«i piemontesi sono stati cacciati dalla città, mentre i
possidenti e gli amici dell’ordine si danno alla fuga», se
degna di fede, promette poco di buono per il futuro. Ma vera o falsa
che sia, potrebbe essere il segnale dello intervento per il
«salvatore dell’Ordine e della Proprietà», della
marcia dei suoi zuavi contro gli «incorreggibili
anarchici», e dell’azione destinata ad aprire la strada del
ritorno ai principi, uno dei quali [Ferdinando IV di Lorena, conte
dell’Alberese], il figlio del granduca di Toscana, a favore del
quale il padre aveva abdicato, ha avuto
«un’accoglienza cordiale» alle Tuilleries. E le truppe
francesi, che erano sulla via del ritorno in patria, hanno ricevuto
l’ordine di rimanere in Italia, cosìcché gli ostacoli
che si frappongono al successo dei negoziati di Zurigo non
tarderanno a scomparire.
Note
114 Si tratta dell’invio in Italia, su iniziativa di Luigi
Bonaparte, Presidente della Repubblica francese, di un corpo di
spedizione contro la Repubblica romana e per restaurare il potere
temporale del papa.
115 Sic volo, sic jubeo (e più precisamente: Hoc volo, hoc
jubeo), citazione dalla VI satira di Giovenale contro la sete
smisurata di potere dell’aristocrazia.
116 Quartiere aristocratico parigino.
117 I legati plenipotenziari furono inviati da Vittorio Emanuele II
nei ducati insorti contro il dominio austriaco e nella Romagna (Io
Stato della Chiesa) per prepararne l’annessione al Piemonte.
Stipulato il trattato di Villafranca (vedi nota 101), che
suscitò proteste in tutta l’Italia, il re, in seguito a
pressioni da parte francese, richiamò i suoi legati.
118 Si tratta dell’articolo del giornalista francese Granier de
Cassagnac intitolato L’ingratitudine dell’Italia
pubblicato sul Constitutionnel il 3 agosto 1859.
119 Argomento che, per confutare l’avversario, assume come valido il
principio ammesso da questo e quindi non può avere portata
generale.
Scritto a metà agosto 1859.
Pubblicato come articolo di fondo sulla New York Daily Tribune n.
5725, 29 agosto 1859
K. Marx
Da: Un punto di vista radicale sulla pace
……. Quanto all’Italia, dobbiamo giudicare il suo stato dai fatti,
non dai proclami. C’è Garibaldi, incapace di ottenere il
denaro necessario per armare il suo esercito di volontari120 e
c’è questo esercito, la cui forza appare quasi ridicola
quando la si paragona alle schiere che accorsero ad arruolarsi in
Prussia durante la guerra di indipendenza121 al tempo in cui la
Prussia era diventata uno Stato di dimensioni ancora minori della
Lombardia.
Lo stesso Mazzini, nel suo appello a Vittorio Emanuele122 confessa
che la corrente dell’entusiasmo nazionale va rapidamente
congelandosi nelle paludi della provincia, e che stanno bellamente
maturando le condizioni per un ritorno al vecchio stato di cose.
È vero che il triste intermezzo tra il trattato di
Villafranca e la pace di Zurigo fu colmato, nei ducati e in Romagna,
da alcuni grandi fatti politici, sotto la direzione dei registi
piemontesi; ma, ad onta dei rumorosi applausi di tutte le gallerie
d’Europa, quei prestigiatori politici fecero solo il giuoco dei loro
nemici segreti. I toscani, i modenesi, i parmensi e i romagnoli
furono i benvenuti quando stabilirono dei governi provvisori,
deposero i loro principi assenteisti dai loro minuscoli troni e
proclamarono Vittorio Emanuele Re eletto; ma, al tempo stesso
pervenne loro l’ingiunzione di accontentarsi di queste
formalità, di star quieti e di lasciare il resto alla
provvidenza francese intenta a fissare il loro destino a Zurigo e
particolarmente avversa a tutte le fantasie d’entusiasmo, alle
esplosioni delle passioni popolari e alle al révolutionnaires
in generale. Essi dovevano tutto aspettarsi non dal vigore dei loro
sforzi, ma dalla modestia della loro condotta, non dal loro potere,
ma dalla buona grazia di un despota straniero.
L’Italia centrale sarebbe dovuta passare dal giogo straniero
all’autogoverno nazionale non meno placidamente di quanto una
proprietà terriera viene trasferita da un proprietario
all’altro. Nulla fu cambiato nell’amministrazione in terna, ogni
agitazione popolare fu messa in tacere, la stessa libertà di
stampa fu soffocata e, per la prima volta forse nella storia
d’Europa, sembrò che si potessero raccogliere i frutti di una
rivoluzione senza passare attraverso le prove di una rivoluzione.
Con questo l’atmosfera politica dell’Italia ha si era raffreddata a
tal punto da permettere a Luigi Bonaparte di presentarsi con le sue
conclusioni belle e pronte lasciando gli italiani in preda alla loro
rabbiosa impotenza.
Con un esercito francese a Roma, un altro esercito francese in
Lombardia, un esercito austriaco che vigila minaccioso dal Tirolo,
un altro esercito austriaco che occupa il quadrilatero e soprattutto
con lo spegnitoio messo così abilmente dai piemontesi
sull’entusiasmo popolare, restano oggi ben poche speranze per
l’Italia. In quanto alla pace di Zurigo, richiamiamo particolarmente
l’attenzione sui due articoli che non si trovano nella prima
edizione del trattato123. Uno di questi articoli impone alla
Sardegna un debito di 250 milioni di franchi, da pagarsi in parte a
Francesco Giuseppe, e in parte proveniente dalla
responsabilità addossatale di far fronte ai tre quinti del
passivo della Banca lombardo- veneta. Con questo nuovo debito di 250
milioni di franchi sommato ai debiti contratti durante la spedizione
di Crimea e l’ultima guerra italiana, cui va aggiunto un conticino
presentato pochi giorni fa da Luigi Napoleone per il suo patrocinio
armato, la Sardegna non tarderà a trovarsi tosto allo stesso
livello di prosperità finanziaria del suo odiato antagonista.
L’altro articolo cui abbiamo accennato sancisce che
….. i confini territoriali degli Stati indipendenti dell’Italia
che non hanno partecipato all’ultima guerra, possono essere
cambiati soltanto coi consenso delle altre potenze europee che hanno
preso parte alla formazione di questi Stati e ne garantiscono
l’esistenza. (Al tempo stesso) i diritti dei principi di Toscana,
Modena, e Parma sono espressamente riservati al beneplacito delle
alte potenze contraenti.
Così i governi provvisori italiani, una volta sostenuta la
parte che era stata loro assegnata, vengono ignorati col massimo
disprezzo, e le popolazioni, che essi hanno fatto il possibile per
mantenere in uno stato di così normale passività,
possono, se lo desiderano, andare a tendere la mano alla porta degli
autori del trattato di Vienna.
Note
120 Nel corso della guerra con l’Austria Vittorio Emanuele Il,
temendo l’espansione del movimento rivoluzionario nel paese, fece di
tutto per limitare le operazioni del corpo garibaldino mettendolo
nelle condizioni più sfavorevoli. Concluso il trattato di
Villafranca, Garibaldi propose di continuare la lotta contro gli
austriaci. Nel novembre 1859, però, su insistenze del re, il
corpo fu di sciolto.
121 Si tratta della guerra di liberazione nazionale del popolo
tedesco contro il dominio napoleonico negli anni 1813-1815.
122 Si tratta della lettera di Mazzini a Vittorio Emanuele II del 16
settembre 1859, rimasta senza risposta, nella quale egli proponeva
al re di mettersi a capo della lotta di liberazione di tutta Italia,
di sollevare con l’aiuto di Garibaldi il Meridione e di organizzare
la marcia su Roma.
123 Si tratta del trattato preliminare di Villafranca (vedi nota
101).
Scritto il 20 ottobre 1859.
Pubblicato sulla .Nev York Daily Tribune n. 5786, 8 novembre
1859
F. Engels
Da: Savoia, Nizza e Reno
I
…. Questo era l’autentico comando austriaco di vecchio tipo. Quello
che non riuscì a fare da sola l’incapacità di Gyulai
lo fece la mancanza di unità nel comando, assicurata dalla
camarilla e dalla presenza di Francesco Giuseppe. Gyulai irruppe
nella Lomellina e si fermò appena entrato nella zona di
Casale-Alessandria; l’intera offensiva era fallita. I francesi si
unirono senza ostacoli ai sardi. Per provare in modo esauriente la
propria indecisione, Gyulai ordinò la ricognizione di
Montebello, come se volesse dimostrare fin da principio che lo
spirito della vecchia Austria, fatto d’incerti brancolamenti e di
gravi irrisolutezze nella condotta della guerra, era pur sempre
vivo, come ai tempi del defunto Consiglio aulico di guerra124.
Lascia completamente l’iniziativa al nemico. Disperde il suo
esercito da Piacenza fino a Verona per coprire ogni tratto
direttamente, secondo la prediletta maniera austriaca. Le tradizioni
di Radetzky sono già cadute in dimenticanza dopo dieci anni.
Mentre il nemico attacca a Palestro, le brigate austriache entrano
in combattimento l’una dopo l’altra così lentamente, che
l’una è sempre rigettata dalla posizione già prima
dell’arrivo dell’altra. E quando il nemico intraprende realmente la
manovra la cui possibilità soltanto dava un senso a tutta la
posizione della Lomellina — la marcia di fianco da Vercelli alla
Buffalora — quando finalmente si presenta l’occasione di parare con
un colpo verso Novara questa manovra arrischiata e di sfruttare la
situazione sfavorevole nella quale si trovava il nemico, allora
Gyulai perde la testa e rivalica il Ticino per presentarsi — facendo
un giro — di traverso sul fronte dell’attaccante. Nel bel mezzo di
questa ritirata — il 3 giugno alle 4 di mattina — Hess fa la sua
comparsa al quartiere generale di Rosate. Sembra che al consiglio
aulico di guerra, ricostituito a Verona, fossero venuti dei dubbi
sulla capacità di Gyulai proprio nel momento decisivo. E
adesso vi erano perciò due comandanti in capo. Su proposta di
Hess tutte le colonne si fermano, finché Hess si è
convinto che il momento per l’attacco a Novara è passato e
che bisogna lasciar andare le cose per il loro verso. Frattanto sono
passate circa cinque ore, durante le quali le truppe hanno
interrotto la marcia [Vedi la spiegazione fornita dal capitano
Blakeley, il primo corrispondente del Times nel campo austriaco, su
questo giornale125 in cui vengono riportati i fatti citati. Nella
Darmstädter Allgeneine Militär Zeitung si trova una difesa
di Gyulai, in cui si dice che la sosta di cinque ore fu dovuta a un
avvenimento non comunicabile per ragioni di servizio e indipendente
dall’azione di Gyulai, e ad essa si attribuisce la perdita della
battaglia. Blakeley aveva però già comunicato in che
cosa consistesse l’avvenimento.]
Esse giungono nel corso del 4 a Magenta alla spicciolata, affamate,
stanche; si battono tuttavia egregiamente e con ottimi risultati,
finché Mac-Mahon, in contrasto con le sue disposizioni, che
parlano di una diretta avanzata da Turbigo a Milano, piega su
Magenta e attacca il fianco austriaco. Intanto giungono gli altri
corpi francesi, quelli degli austriaci ritardano, e la battaglia
è perduta. La ritirata de gli austriaci procede così
lentamente che presso Melegnano una delle loro divisioni è
assalita da due interi corpi d’armata francesi. Una brigata mantiene
le posizioni contro sei brigate francesi per parecchie ore e cede
soltanto dopo aver perduto più della metà dei suoi
effettivi. Finalmente Gyulai viene richiamato. L’esercito marcia da
Magenta a Milano descrivendo un grande arco e ha il tempo
(tanto poco si poteva parlare di inseguimento!) di
giungere nella posizione di Castiglione e di Lonate ancor prima del
nemico, che marciava lungo la corda, cioè su una linea
più breve. Questa posizione, da anni esplorata minuziosamente
dagli austriaci, Francesco Giuseppe l’aveva scelta, così si
dice, espressamente per le sue truppe. Il fatto è che essa da
lungo tempo era inclusa nel sistema difensivo del quadrilatero e
offriva un’eccellente posizione per una battaglia difensiva con
contraccolpo offensivo. Qui dunque l’esercito si riunì con i
rinforzi che frattanto erano giunti o che fino allora erano stati
tenuti indietro; ma appena il nemico è giunto sull’altra riva
del Chiese, risuona di nuovo il segnale di ritirata e si passa al di
qua del Mincio. Questa operazione è appena terminata che di
nuovo l’esercito austriaco passa al di là dello stesso fiume,
per riprendere ora al nemico quella stessa posizione che poco prima
gli aveva ceduto spontaneamente. E in questa confusione di ordine,
contrordine e disordine, piuttosto indebolito nella sua fiducia
verso il comando supremo, l’esercito austriaco si trova impegnato
nella battaglia di Solferino. È una disordinata carneficina
da ambedue le parti; non si poteva parlare di direzione tattica
né da parte francese né da parte austriaca; la
maggiore incapacità, la confusione e il timore della
responsabilità dei generali austriaci, la maggior sicurezza
dei comandanti di brigata e di divisione francesi, la naturale
superiorità dei francesi, sviluppata al massimo grado in
Algeria, nel combattimento sparso e di villaggio, cacciarono alla
fine gli austriaci dal campo di battaglia. Con ciò si chiuse
la campagna, e il più contento fu il povero signor Orges, che
sull’Augsburger Allgemeine Zeitung aveva dovuto lodare per lungo e
per largo il comando supremo austriaco e aveva dovuto attribuirgli
motivi strategici razionali!
Anche Luigi Napoleone ne aveva abbastanza. La magra gloria di
Magenta e di Solferino era sempre più di quel che egli avesse
diritto di attendersi e tra le fatali quattro fortezze poteva ben
giungere il momento in cui gli austriaci non si lasciassero
più battere dai propri generali. Inoltre la Prussia
mobilitava e né l’armata francese del Reno né i russi
erano
pronti alla guerra. In breve, fu lasciata cadere l’idea dell’Italia
libera fino al Mare Adriatico; Luigi Napoleone offrì la pace
e fu firmato il trattato di Villafranca. La Francia non otteneva
nessun pezzo di terra; la Lombardia, che le veniva ceduta, la
regalava generosamente al Piemonte: essa aveva fatto la guerra per
un’idea; come poteva aver pensato al confine del Reno!
Frattanto l’Italia centrale si era annessa provvisoriamente al
Piemonte e il Regno dell’Alta Italia rappresentava ora una potenza
abbastanza rispettabile.
Le precedenti province della terraferma e l’isola di Sardegna
rappresentavano una popolazione di
4.730.500 abitanti
La Lombardia tranne Mantova circa
2.651.700 abitanti
Toscana
1.719.900 abitanti
Parma e Modena
1.090.900 abitanti
La Romagna (Bologna, Ferrara, Ravenna e Forli)
1.058.800 abitanti
Totale (secondo le cifre del 1848)
11.251.800 abitanti
La superficie dello Stato si allargava da 1.873 a 2.684 miglia
tedesche quadrate126. Il Regno dell’Alta Italia sarebbe dunque, se
si costituisse definitivamente, la prima potenza italiana. Di fronte
ad esso rimangono ancora soltanto
le Venezie
2.452.900 abitanti
Napoli
8.517.600 abitanti
ciò che resta dello Stato Pontificio
2.235.600 abitanti
Totale
13.206.100 abitanti
cosicché dunque l’Alta Italia da sola avrebbe una popolazione
quasi pari a quella di tutti gli altri Stati regionali italiani
messi insieme. Per la sua potenza finanziaria e militare e per il
grado di civiltà dei suoi abitanti, un tale Stato potrebbe
pretendere di esser collocato in Europa prima della Spagna,
cioè subito dopo la Prussia e, certo della crescente simpatia
del resto dell’Italia, lo esigerebbe senz’altro.
Ma non era questo che la politica bonapartista aveva voluto.
Un’Italia unita, essa lo aveva apertamente dichiarato, la Francia
non può né potrà mai tollerarla. Per
indipendenza e libertà d’Italia essa intendeva una specie di
confederazione renana italiana, sotto la tutela bonapartista e sotto
la presidenza onoraria del papa: la sostituzione dell’egemonia
austriaca con quella francese. A ciò si accompagnava la
benevola intenzione di fondare nell’Italia centrale un regno
d’Etruria, un regno di Vestfalia italiano, per l’erede di Girolamo
Bonaparte127. A tutti questi piani pose fine il consolidamento dello
Stato dell’Alta Italia. Girolamo Bonaparte junior non aveva ottenuto
nulla nella sua marcia attraverso i Ducati, neppure un voto;
l’Etruria bonapartista era irrealizzabile come lo era la
restaurazione, non rimaneva altro che l’annessione al Piemonte128.
Ma, a mano a mano che risultava inevitabile l’unificazione
dell’Italia settentrionale, veniva anche in luce
l’«idea» per la quale la Francia aveva stavolta fatto la
guerra:
l’idea dell’annessione della Savoia e di Nizza alla Francia.
Già durante la guerra si erano levate delle voci, le quali
sostenevano che questo fosse il prezzo dell’intervento francese in
Italia. Ma non erano state ascoltate. E non le confutava il trattato
di Villafranca? Ciò nonostante il mondo venne a sapere tutto
a un tratto che, sotto il regime nazionale e costituzionale del re
galantuomo», due province languivano dominate dallo straniero
— due province francesi che volgevano con nostalgia gli occhi pieni
di lacrime alla grande madrepatria, dalla quale soltanto la brutale
violenza le teneva separate — e che Luigi Napoleone non poteva
più a lungo rimanere insensibile al grido di dolore che si
levava dalla Savoia e da Nizza.
Ora risultava veramente che Nizza e Savoia rappresentavano il prezzo
al quale Luigi Napoleone aveva intrapreso l’unificazione della
Lombardia e del Veneto con il Piemonte e che egli, poiché il
Veneto per il momento non si poteva avere, se le prendeva come
prezzo del suo consenso all’annessione dell’Italia centrale. Ora
cominciarono le ripugnanti manovre degli agenti bonapartisti nella
Savoia e a Nizza e i clamori della stampa prezzolata di Parigi,
secondo cui il governo piemontese soffocava la volontà
popolare in queste province, che chiedevano ad alta voce
l’annessione alla Francia; ora finalmente si affermò
apertamente a Parigi che le Alpi erano il confine naturale della
Francia e che la Francia aveva diritto ad esse.
II
Se la stampa francese sostiene che la Savoia è francese per
lingua e costumi, la stessa cosa è almeno altrettanto vera
per la Svizzera francese, per la parte vallona del Belgio e per le
isole anglo-normanne del Canale. Il popolo savoiardo parla un
dialetto francese meridionale e la lingua scritta e colta è
dappertutto il francese. Tanto poco si può parlare di un
elemento italiano in Savoia, che anzi la lingua popolare francese
(cioè il francese meridionale o provenzale) si estende anche
al di là delle Alpi, entro il Piemonte, fino alle alte valli
della Dora Riparia e della Dora Baltea. Ciò nonostante prima
della guerra non si avvertivano quasi affatto simpatie per
un’annessione alla Francia, pensieri simili erano nutriti soltanto
da singoli qua e là nella Bassa Savoia, che ha un certo
traffico commerciale con la Francia; alla massa della popolazione
quei sentimenti erano estranei, come lo sono in tutte le altre
regioni di lingua francese confinanti con la Francia. È in
generale caratteristico che nessuna delle regioni che furono
incorporate alla Francia dal 1792 al 1812 abbia la minima voglia di
ritornare sotto le ali dell’aquila francese. Ci si è
appropriati dei frutti della prima rivoluzione francese, ma se ne ha
fin sopra i capelli della rigida centralizzazione amministrativa,
del governo dei prefetti, dell’infallibilità degli apostoli
della civiltà inviati da Parigi. Le simpatie che erano state
nuovamente risvegliate dalle rivoluzioni di luglio e di febbraio,
sono state subito di nuovo soffocate dal bonapartismo. Nessuno ha
voglia di importare Lambessa, Caienna e la loi des suspects129.A
ciò si aggiunge ancora l’isolamento di tipo cinese in cui si
è chiusa la Francia nei confronti di quasi tutto il commercio
d’importazione, e che è sentito più che altrove
proprio ai confini. La Prima Repubblica trovò a tutti i
confini province oppresse, dissanguate, popoli divisi, privati di
tutti i naturali interessi comuni, ai quali essa portò
l’emancipazione delle popolazioni rurali, dell’agricoltura,
dell’industria, del commercio. Il Secondo Impero urta, a tutti i
confini, contro una maggiore libertà di quella che esso
stesso può offrire; urta in Germania e in Italia contro un
sentimento nazionale rafforzato, nei paesi minori contro interessi
particolari consolidati, che, attraverso quarantacinque anni di
sviluppo industriale straordinariamente rapido, si sono allargati,
intrecciandosi in tutte le direzioni con il commercio mondiale; esso
non porta nient’altro che il dispotismo dell’epoca romana dei
Cesari, l’imprigionamento del commercio e del l’industria nel grande
carcere della sua linea doganale e tutt’al più ancora il
libero passaggio per il paese dove cresce il pepe [Gioco di parole
con cui Engels, da una parte, allude alla Caienna, capitale della
Guiana francese, nota per i suoi ergastoli e per le sue spezie (pepe
di Caienna), e, dall’altra, riprende un’espressione popolare tedesca
che corrisponde all’italiano: mandare a quel paese.]
Separata dal Piemonte dalla catena principale delle Alpi, la Savoia
riceve quasi tutto ciò che le abbisogna dal nord, da Ginevra
e in parte da Lione, proprio come dall’altra parte il Canton Ticino,
che giace a sud dei valichi alpini, si rifornisce da Genova e da
Venezia. Se questa circostanza è un motivo per la separazione
dal Piemonte, ad ogni modo non lo è in nessun caso per
l’annessione alla Francia, poiché la metropoli commerciale
della Savoia è Ginevra; a ciò provvedono, oltre la
situazione geografica, la saggezza della legislazione doganale
francese e le vessazioni della dogana francese.
Ma, nonostante la lingua, l’origine comune e la catena delle Alpi, i
savoiardi non mostrano la minima voglia di farsi rendere felici
dalle istituzioni imperiali della grande madrepatria francese. Vive
in loro il sentimento tradizionale che non l’Italia ha conquistato
la Savoia, ma la Savoia ha conquistato il Piemonte. Dalla piccola
Bassa Savoia il guerriero popolo montanaro di tutta la provincia si
unì in uno Stato, per poi scendere nella pianura italiana ed
annettersi uno dopo l’altro, sia con la conquista che con la
politica, il Piemonte, il Monferrato, Nizza, la Lomellina, la
Sardegna e Genova. La dinastia si stabili a Torino e diventò
italiana, ma la Savoia rimase la culla dello Stato e la croce di
Savoia è oggi lo stemma dell’Italia settentrionale, da Nizza
a Rimini e da Sondrio a Siena. La Francia conquistò la Savoia
nelle campagne dal 1792 al 1794, e fino al 1814 il paese si
chiamò Département du Mont-Blanc. Ma nel 1814 non era
affatto incline a rimanere francese; l’unica questione era
l’annessione alla Svizzera o il ritorno all’antico legame con il
Piemonte. Ciò nonostante la Bassa Savoia rimase francese fin
dopo i Cento giorni130 allorché fu restituita al Piemonte.
L’antica tradizione storica si è naturalmente indebolita col
tempo; la Savoia fu trascurata, le province italiane dello Stato
acquistarono troppa preponderanza; gli interessi della politica
piemontese si volgevano sempre più verso sud e verso est.
È tanto più da rilevare che nutriva soprattutto brame
separatiste proprio quella classe della popolazione che sosteneva
tuttavia di essere più di ogni altra la depositaria della
tradizione storica, la vecchia nobiltà conservatrice e
ultramontana; e queste brame tendevano all’annessione alla Svizzera,
finché colà domina vano le antiche costituzioni
oligarchiche di tipo patrizio; soltanto dopo l’affermazione generale
della democrazia in Svizzera esse mostrano di aver preso un’altra
direzione; sotto Luigi Napoleone la Francia è divenuta
abbastanza reazionaria e ultramontana per apparire alla
nobiltà savoiarda come un rifugio dalla politica
rivoluzionaria del Piemonte.
Attualmente lo stato delle cose sembra sia questo: in generale non
vi è alcun desiderio di separare la Savoia dal Piemonte.
Nella parte superiore del paese, Maurienne, Tarantaise ed Alta
Savoia, la popolazione è decisamente per lo status quo. Nel
Ginevrino, Faucigny e Chablais, se mai dovesse avvenire un
mutamento, l’annessione alla Svizzera è preferita ad ogni
altra soluzione; soltanto qua e là nella Bassa Savoia, e
ancor più in generale nella nobiltà reazionaria della
regione, si manifesta una tendenza all’annessione con la Francia.
Queste voci sono però così isolate che perfino a
Chambéry la stragrande maggioranza della popolazione vi si
oppone decisamente e la nobiltà reazionaria (vedi la
dichiarazione di Costa de Beauregard) non osa confessare le sue
simpatie.
Questo per quanto riguarda la questione della nazionalità e
della volontà popolare.
Ed ora, quali sono gli aspetti della questione militare? Quali
vantaggi strategici dà il possesso della Savoia al Piemonte,
quali vantaggi darebbe alla Francia? E quali conseguenze un
cambiamento di possesso in Savoia avrebbe sul terzo Stato
confinante, la Svizzera?
Da Basilea a Briançon il confine francese descrive un arco
ampio e fortemente rientrante; un buon pezzo della Svizzera e tutta
la Savoia penetrano qui entro il territorio francese. Se tracciamo
la corda di questo arco, troviamo che il segmento circolare viene
colmato quasi esattamente dalla Svizzera francese e dalla Savoia. Se
il confine della Francia venisse fatto avanzare fino a questa corda,
costituirebbe da Lauterburg al Fréjus su per giù una
linea retta come da Lauterburg a Dunkerque; ma questa linea avrebbe
per la difesa ben altra importanza che non quella. Mentre il confine
settentrionale è interamente scoperto, il confine orientale
sarebbe protetto nella parte settentrionale dal Reno e nella parte
meridionale dalle Alpi. Veramente tra Basilea e il Monte Bianco
nessun tratto del suolo segnerebbe la linea di confine; piuttosto in
questa zona il «confine naturale» sarebbe costituito dal
Giura fino a Fort l’Ecluse e da qui in poi dal ramo delle Alpi che
partendo dal Monte Bianco delimita a sud la valle dell’Arve e
termina appunto presso Fort l’Ecluse. Ma se il confine naturale
disegna un arco concavo rientrante, allora esso non adempie affatto
il suo scopo e non è dunque più un confine naturale. E
se accade che questo segmento circolare rientrante, che spinge
indietro in modo così innaturale il nostro confine, è
per di più abitato da gente che «per lingua, costumi e
civiltà» è francese, non deve forse essere
rettificato l’errore commesso dalla natura, non deve forse essere
ristabilita praticamente la convessità teoricamente
richiesta, o, per lo meno, la linea retta, o debbono dunque i
francesi che vivono al di là dei confini naturali, essere
sacrificati a un lusus naturae?
Che simili ragionamenti bonapartisti non siano senza importanza, lo
dimostra il Primo Impero, che andò avanti di annessione in
annessione, finché non fu messo nell’impossibilità di
nuocere; anche il confine più perfetto ha i suoi punti
deboli, dove si può migliorare e correggere; e, se si
è in grado di fare il proprio comodo, si può
continuare senza fine nelle annessioni. In ogni caso dal suesposto
ragionamento deriva quanto segue: ciò che si può dire
per l’annessione della Savoia, tanto in relazione alla
nazionalità quanto agli interessi militari della Francia,
vale anche per la Svizzera francese.
Le Alpi, che dal Colle di Tenda seguono una direzione nord-ovest,
dal Monte Tabor, che costituisce la pietra di confine tra il
Piemonte, la Savoia e la Francia, si volgono nella loro direzione
generale verso nord per piegare ancor più est a partire dal
Monte Gigante, punto di confine tra il Piemonte, la Savoia e la
Svizzera. Di conseguenza dal Monte Tabor fino al Monte Gigante le
Alpi possono costituire il confine naturale della Francia soltanto
se questo confine continua in linea retta dal Monte Gigante a
Basilea. In altre parole: la richiesta dell’annessione della Savoia
alla Francia include in sé la richiesta dell’annessione della
Svizzera francese.
In tutto il tratto in cui la cresta principale delle Alpi
costituisce l’attuale confine dei due Stati, vi è soltanto un
valico munito di fondo stradale: quello del Monginevro. Oltre a
questo c’è ancora il Col d’Argentera, che porta da
Barcellonette nella valle dello Stura, che può essere
attraversato con l’artiglieria, e anche altre mulattiere possono
essere rese con un certo sforzo transitabili per tutte le armi. Ma
finché la Savoia e Nizza offrono ciascuna due passi muniti di
fondo stradale sulla catena principale delle Alpi, ogni assalitore
francese, se non è ancora in possesso di queste province, ne
conquisterà almeno una, prima di valicare le Alpi. Si
aggiunga poi che per un attacco dalla parte della Francia, dal
Monginevro possibile soltanto una puntata diretta su Torino, mentre
il Moncenisio e ancor più il Piccolo San Bernardo, i due
valichi della Savoia, esercitano un’azione di fianco; e che, per un
esercito italiano attaccante, il Monginevro rende necessario un
lungo giro per inferire un colpo al cuore della Francia, mentre il
Moncenisio costituisce la grande strada maestra da Torino a Parigi.
Non può dunque venir in mente a nessun generale di adoperare
il Monginevro altrimenti che per colonne di fianco; la linea di
operazioni principale passerà sempre attraverso la Savoia.
Il possesso della Savoia darebbe dunque alla Francia soprattutto un
territorio del quale essa ha bisogno assoluto per una guerra
d’attacco contro l’Italia e che altrimenti dovrebbe prima
conquistare. Un esercito italiano che si trovi sulla difensiva non
impegnerà certamente una battaglia decisiva per difendere la
Savoia, ma esso può in una certa misura trattenere gli
attaccanti, conducendo una vivace guerra di montagna e guastando le
strade già nella parte superiore delle valli delI’Arc e
dell’Isère (che sono percorse dalle strade del Moncenisio e
del San Bernardo) e quindi può anche mantenere per qualche
tempo il declivio settentrionale della catena principale delle Alpi.
Di una difesa assoluta si può qui parlare naturalmente come
se ne può parlare in una guerra di montagna; la battaglia
decisiva sarà riservata al momento della discesa del nemico
nella pianura. Ma si sarà guadagnato sicuramente del tempo,
che può essere decisivo per la concentrazione delle forze per
la battaglia principale e che è particolarmente importante
per un paese così allungato e povero di ferrovie come
l’Italia, di fronte a un paese compatto e dotato di un’eccellente
rete ferroviaria strategica come la Francia; e questo tempo è
sicuramente perduto se la Francia possiede la Savoia già
prima della guerra. Ma l’Italia non farà mai da sola una
guerra contro la Francia; e se ha degli alleati, vi è la
possibilità che i due eserciti si equilibrino già in
Savoia. La conseguenza di ciò sarà che la lotta per il
possesso della catena alpina andrà in lungo; che nel peggiore
dei casi gli italiani manterranno per un po’ di tempo il declivio
settentrionale della catena e dopo averlo perduto contrasteranno ai
francesi il declivio meridionale, poiché padrone di una
cresta montagnosa è soltanto chi ne possiede i due versanti e
può valicarla. Che poi l’attaccante sia ancora abbastanza
forte e deciso da seguire il difensore nella pianura, questo
è assai dubbio.
Le campagne combattute in Savoia dal 1792 al 1795 ci danno un
esempio di una tale incerta guerra di montagna, anche se l’azione fu
da ambo le parti fiacca, indecisa e brancolante.
Il 21 settembre 1792 il generale Montesquiou irruppe in Savoia. I
10.000 sardi che la difendevano erano, secondo la moda preferita del
tempo, talmente sparpagliati in una catena di presidi, che non
poterono raccogliere in nessun luogo forze sufficienti per
resistere. Chambéry e Montmélian furono occupate e i
francesi percorsero le valli fino ai piedi della catena principale
delle Alpi. La cresta però rimaneva interamente nelle mani
dei sardi, i quali il 15 agosto 1793, dopo alcuni piccoli
combattimenti agli ordini del generale Gordon, avanzarono di nuovo
contro i francesi, indeboliti dagli invii di truppe all’assedio di
Lione, e li ricacciarono dalle valli dell’Arc e dell’Isère
verso Montmélian. Qui le colonne sconfitte si unirono alle
loro riserve, Kellermann tornò indietro da Lione,
passò subito all’attacco (11 settembre) e con poca fatica
respinse nuovamente i sardi fino ai valichi alpini; qui però
anche la sua forza si era esaurita, e dovette fermarsi ai piedi
della catena. Ma nell’anno 1794 l’armata delle Alpi fu portata a
75.000 uomini, ai quali i piemontesi potevano opporne soltanto
40.000, oltre a una riserva, forse disponibile, di 10.000 austriaci.
Ciò nonostante i primi attacchi dei francesi sia sul Piccolo
San Bernardo che sul Moncenisio non ebbero successo, finché
finalmente il 23 aprile presero il San Bernardo e il 14 maggio il
Moncenisio, e in tal modo tutta la cresta fu nelle loro mani.
C’erano volute dunque tre campagne per strappare ai piemontesi
l’accesso in Italia da questa parte. Anche se non è possibile
oggigiorno che una guerra siffatta, priva cioè di
scontri decisivi, si possa trascinare per parecchie campagne in un
così piccolo territorio, sarà tuttavia sempre
difficile ai francesi, nel caso che vi sia un certo equilibrio di
forze, non soltanto forzare i passi alpini, ma anche rimanere
abbastanza forti da poter discendere senz’altro nella pianura.
Più di questo la Savoia non offre all’Italia; ma questo
è già abbastanza.
Supponiamo al contrario che la Savoia venga unita alla Francia. Come
si trova allora l’Italia? Il versante settentrionale della catena
alpina è nelle mani dei francesi, gli italiani possono ancora
difendere soltanto quello meridionale, i cui punti di sbarramento e
le cui posizioni possono essere dominate o almeno sorvegliate
dall’alto crinale e nella maggior parte dei casi anche aggirate
piuttosto da vicino. La difesa delle montagne è ridotta al
suo ultimo atto, il più debole e insieme quello che costa
più perdite. La possibilità di raccogliere
informazioni che dà la guerra di montagna in Savoia, scompare
completamente. Ma ciò non basta. Fintanto che la Savoia era
da conquistare, la Francia poteva in certi casi contentarsi di far
questo, e limitare così l’Italia alla difesa passiva: era
già un risultato e le truppe potevano forse essere meglio
impiegate altrove; la Francia aveva interesse a non impegnare troppe
forze in questo teatro di guerra. Viceversa una volta che la Savoia
è definitivamente una provincia francese, allora vale la pena
di difenderla con un’azione offensiva, alla maniera francese. La
difesa passiva può costare in una campagna tanti soldati
quanto un attacco all’Italia; per l’attacco non vi è bisogno
di un nerbo di truppe molto maggiore, e si ha la prospettiva di ben
altri risultati!
Il giorno dopo l’annessione si vedranno ufficiali dello Stato
maggiore francese andar su e giù per le valli dell’Arc e
dell’Isère, esplorare le valli laterali, scalare le dorsali
montane, interrogare le migliori guide alpine, misurare le distanze,
rilevare le quote e annotare tutto coscienziosamente; e tutto
ciò non con il capriccio del turista, ma secondo un piano
evidente, probabilmente già pronto fin d’ora. Li seguiranno
ben presto ingegneri e imprenditori, e non passerà molto
tempo che saranno costruite strade e opere in muratura nel cuore
dell’alta montagna, costruzioni delle quali né l’abitante dei
luoghi né il viaggiatore potranno spiegare il significato:
poiché esse non riguardano né contadini né
turisti, ma hanno soltanto lo scopo di sfruttare le prerogative
strategiche naturali della Savoia.
Sia il passo del Moncenisio che quello del Monginevro portano
ambedue a Susa. Se i loro versanti meridionali vengono attaccati (la
colonne francesi, i reparti italiani che li difendono vengono a
trovarsi sotto doppio scacco. Essi non possono sapere da quale parte
verrà l’attacco principale; sanno bene però che se uno
dei due passi viene forzato e Susa viene occupata, le truppe che
difendono l’altro passo sono tagliate fuori. Se viene forzato prima
il Moncenisio, le truppe del Monginevro possono forse salvarsi
ancora, dopo aver abbandonato l’artiglieria, i bagagli e i cavalli,
passando attraverso i sentieri nella valle di Fenestrelle; ma se gli
attaccanti avanzano attraverso il Monginevro fino a Susa, le truppe
del Moncenisio non hanno più possibilità di ritirata.
In queste condizioni la difesa di questi due passi si limita a una
semplice azione dimostrativa. Ora però le direttrici di
operazione dei due reparti francesi, le strade da Grenoble a Brian e
da Chambéry a Lans-le-Bourg, corrono nell’insieme parallele e
sono separate solo da una dorsale montana diramantesi dal Monte
Tabor, sulla quale corrono molti sentieri e mulattiere. Basta che i
francesi costruiscano a cavallo di questa montagna una strada
trasversale, che deve essere lunga soltanto quattro miglia tedesche,
perché possano gettare le loro masse a piacimento dal l’una
all’altra strada: il doppio scacco diviene ancora più
efficace e la difesa della linea alpina contro un attacco
dell’Italia diviene da questo lato enormemente più forte.
Proseguiamo. La Savoia possiede ancora un secondo valico alpino, il
Piccolo San Bernardo. Molta gente autorevole sostiene in Francia che
Napoleone avrebbe fatto meglio a servirsi di questo passo, invece
che del Gran Bernardo, per la sua marcia attraverso le Alpi. Il
valico è più basso, quindi si libera prima dalle nevi
in primavera ed è in generale di
più facile passaggio. Le colonne convergono da Lione e da
Besançon almeno la stessa facilità sia verso
Albertville che verso Losanna; e ambedue i passi portano a Aosta e a
Ivrea. Già il solo fatto che possa essere sorta una polemica
sulla preferenza da accordarsi all’uno o all’altro passo per gli
scopi di Napoleone nella campagna del 1800, dimostra quale
importanza abbia il Piccolo San Bernardo dal punto di vista
militare. Certamente bisogna che si verifichino condizioni del tutto
particolari, prima che il Piccolo San Bernardo possa servire a una
ripetizione dell’aggiramento strategico di Marengo. Si hanno grossi
eserciti che non possono più attraversare un’alta montagna su
una colonna sola; oggigiorno un aggiramento con soli 30.000 uomini
nella maggior parte dei casi andrebbe incontro a una completa
rovina. Questo è completamente vero per la prima e la seconda
campagna. Ma se, come sembra, tutte le guerre condotte con
perseveranza dalle due parti per via dei gruppi di fortezze e dei
campi trincerati dell’epoca più recente hanno acquistato un
altro carattere, di più lunga durata; se una guerra non
può più essere effettivamente combattuta, prima che i
belligeranti non si siano lentamente fiaccati in parecchie campagne,
allora anche gli eserciti diventeranno infine sempre più
piccoli. Poniamo il caso che una guerra abbia per più anni
ondeggiato avanti e indietro nella pianura dell’Italia
settentrionale; e che i francesi, i quali nel frattempo avessero
preso Casale o Alessandria, o tutt’e due, fossero ricacciati al di
là delle Alpi e la lotta venisse a fermarsi qui, con gli
eserciti dell’una e dell’altra parte abbastanza indeboliti.
Sarà anche allora tanto complicato, con le nostre ferrovie,
con l’artiglieria, che va diventando ormai dappertutto più
leggera, gettare rapidamente su Ivrea da 30.000 a 40.000 uomini, e
anche di più, attraverso il Piccolo San Bernardo? Da Ivrea
essi possono passare nel loro centro di rifornimento fortificato
nella pianura, dove trovano ciò che è più
necessario e vengono rinforzati con la guarnigione; se questo non
dovesse essere possibile, la via per Torino e la via della ritirata
attraverso i due passi più vicini non può sicuramente
esser loro sbarrata da forze preponderanti. Questi 30-40.000 uomini,
insieme alle guarnigioni, saranno però in un tal frangente
una forza molto rispettabile; nel peggiore dei casi, dopo aver
sconfitto le truppe nemiche più vicine, possono condurre la
guerra intorno al loro campo trincerato con tutte le prospettive di
un successo. Si pensi come gli eserciti già nel 1814 fossero
divenuti più piccoli e con quante poche forze Napoleone abbia
in quell’anno condotto un’azione così ampia.
La strada del Gran San Bernardo corre, come abbiamo detto, nella
valle dell’Isère, e quella del Moncenisio nella valle
dell’Arc. Ambedue questi fiumi nascono dal Mont-Iséran. Al di
sopra di Bourg Saint-Maurice la strada del San Bernardo abbandona il
fiume per attraversare direttamente la montagna, mentre la valle,
dalle pareti ripide (Val de Tignes), continua giù a destra
verso sud. Al di sotto di Lans-le-Bourg, presso Termignon, una
piccola valle laterale (Val Saint-Barthélemy) sbocca nella
valle dell’Arc. Dalla Val de Tignes tre sentieri
attraversano la dorsale montana, tra il Mont-Iséran e il
Mont- Chaffequarré, raggiungendo la Val
Saint-Barthélemy. Uno di questi tre passi potrà
certamente esser munito di un fondo stradale. Se qui verrà
costruita una strada, allora, in collegamento con la strada
trasversale prima indicata, il sistema stradale strategico della
Savoia — come provincia di confine francese — è già
abbastanza largamente sviluppato. Immediatamente dietro la cresta
principale delle Alpi correrebbe una strada che unirebbe tra di loro
i tre passi più importanti e renderebbe possibile spostare in
due giorni le forze principali dal San Bernardo e dal Monginevro nei
pressi del Moncenisio, e in quattro o cinque giorni spostarle da un
fianco all’altro. Se questo sistema fosse ancora completato da una
strada da Moutiers attraverso il passo di Prolognan a Saint
Barthélemy e Lans-le- Bourg e una seconda da Moutiers a
Saint-Jean de Maurienne, difficilmente ci sarebbe ancora qualcosa da
aggiungere. Ci sarebbe ancora soltanto da impiantare le
fortificazioni necessarie per la difesa — non per uno sbarramento
assoluto — e da assicurarsi Moutiers, il nodo stradale più
importante, come centro di rifornimento, in previsione di un
attacco in forze. Qui si tratta in tutto di meno di 25 miglia
tedesche di nuove costruzioni stradali.
Se vengono fatti questi o simili impianti — e lo stato maggiore
francese ha già pronto fin d’ora un piano per il completo
sfruttamento strategico della Savoia, questo è indubbio —
cosa accadrà allora della difesa del versante alpino
meridionale? E quali colpi terribili non potrebbe portare — in caso
di difesa — un nuovo Lecourbe, appoggiato a un solido centro di
rifornimenti e a piccoli forti, se una tale rete di strade gli
assicurasse la mobilità? Non si dica che la guerra di
montagna non può essere più condotta dai grossi
eserciti dei giorni nostri. Finché gli eserciti sono
effettivamente grandi e c’è una decisiva superiorità
da una parte, questo è abbastanza giusto. Ma gli eserciti
logoreranno buona parte dei loro effettivi contro le moderne
fortezze e vi sarà un sufficiente numero di casi in cui la
superiorità farà posto all’equilibrio. Non si va
naturalmente in montagna se non c’è bisogno, ma la via di
Parigi verso l’Italia e dall’Italia verso Parigi passerà
sempre attraverso la Savoia o il Vallese.
Riassumiamo. Per la sua posizione geografica e specialmente per i
suoi valichi alpini la Savoia, come provincia francese,
permetterebbe a un esercito francese, solo di poco superiore, di
impossessarsi del versante italiano delle Alpi, di compiere
incursioni nelle valli e di acquistare una importanza molto
più grande di quella che gli verrebbe dalle sue forze
combattenti. Con una certa preparazione del teatro di guerra, anzi,
l’esercito francese sarebbe posto in posizione così
favorevole che supererebbe immediatamente il suo avversario, nel
caso che le forze fossero per il resto completamente eguali; e oltre
a ciò Piccolo San Bernardo costringerebbe gli italiani a
distaccare delle forze in posizioni lontane, mentre esso in certi
casi offre ai francesi la possibilità di attacchi piuttosto
decisivi.
La Savoia, nelle mani della Francia, invece che dell’Italia,
è uno strumento esclusivamente offensivo.
III
……. In tutti i punti della zona alpina in cui l’italiano viene a
contatto con altre lingue, esso si è sempre dimostrato
l’elemento più debole. Nemmeno in un punto esso si spinge al
di là della catena alpina; i dialetti romanzi dei Grigioni e
del Tirolo sono affatto indipendenti dall’italiano. Al contrario
tutte le lingue confinanti hanno guadagnato terreno ai suoi danni a
sud delle Alpi. Nei distretti montani orientali della provincia
veneta di Udine, si parla carnico-sloveno. Nel Tirolo l’elemento
tedesco domina tutto il versante meridionale e tutta l’alta valle
dell’Adige; più a sud, in mezzo al territorio italiano, noi
troviamo le isole linguistiche tedesche dei sette comuni e dei
tredici comuni131; alle pendici meridionali del Gries, sia nella
ticinese Val di Caverna che nella piemontese Val Formazza, nell’alta
Val Vedro ai piedi del Sempione, infine in tutto il versante
sud-orientale del Monte Rosa, nella Vai di Lys, nell’alta Valsesia e
Val Anzasca si parla tedesco. Dalla Val di Lys comincia il confine
linguistico francese, che comprende l’intera Val d’Aosta e la
pendice orientale delle Alpi Cozie, a partire dal Moncenisio,
così che per comune consenso rientrano in esso le sorgenti di
tutti i fiumi dell’alto bacino del Po. Per comune consenso questo
confine parte da Demonte (sulla Stura), un po’ a occidente del Col
di Tenda, e segue il corso della Roia fino al mare.
Sul confine linguistico tra il tedesco o lo slavo e l’italiano non
vi può essere dubbio. Altra cosa è però dove si
incontrano due lingue romanze che poi non sono né la lingua
scritta italiana, il vero toscano
né la lingua colta della
Francia settentrionale, ma il dialetto
piemontese, dalla parte italiana, e la lingua franco-meridionale dei
trovadori, tra passata in mille corrotti patois [dialetti]che per
brevità designeremo con il termine inesatto, ma conosciuto,
di provenzale. Chi ha per caso studiato, anche soltanto
superficialmente, la grammatica comparata delle lingue romanze o la
letteratura provenzale, si sarà accorto che nella Lombardia e
nel Piemonte il linguaggio popolare presenta notevoli somiglianze
con il provenzale. Nel lombardo questa somiglianza si limita
veramente solo all’habitus esteriore del dialetto; l’elisione delle
finali in vocale maschili, mentre le femminili al singolare vengono
mantenute, come l’elisione della maggior parte delle finali in
vocale nella coniugazione gli danno un suono provenzale, mentre
d’altra parte la nasale n, la pronuncia della u e della oeu,
ricordano il francese settentrionale. Ma la morfologia e la fonetica
sono essenzialmente italiane e, là dove sopravvengono delle
variazioni, spesso queste, come anche nel reto-romano132 ricordano
stranamente il portoghese [Latino: clavis, Italiano: chiave,
Portoghese: chave, Lombardo ciàu, La Augsburger Allgemeine
Zeitung ha scritto la scorsa estate in una corrispondenza da Verona
(vedi le corrispondenze dal Quartier generate austriaco) che
là le persone si chiamavano per la strada «ciàu
ciàu». Il saggio foglio, che è molto scrupoloso
in fatto di errori linguistici, era chiaramente imbarazzato a trovar
la chiave di questo e «ciàu ciàu». La
parola suona s-ciàu ed è la forma analoga lombarda per
schiavo, servitore, come si saluta anche da noi: «Servo
vostro, servo devoto», ecc. Delle forme realmente provenzali
nel lombardo ne ricordiamo soltanto due: il participio passato al
femminile in da (àma, amada) e la prima persona del presente
in i (ami, io amo, saludi, io saluto)].
Il dialetto piemontese nelle sue linee fondamentali concorda
abbastanza, con il lombardo, ma si avvicina già di più
ai provenzale e gli si avvicina tanto, senza dubbio, nelle Alpi
Cozie e Marittime, che diventa difficile delineare un preciso
confine [Segni caratteristici distintivi dei dialetti italiano o
provenzale sarebbero: 1) la vocalizzazione italiana della I dopo
consonante (fiore, più, bianco) che è estranea al
provenzale; 2) la formazione del plurale dei sostantivi dal
nominativo latino (donne, cappelli). È vero che nel Medioevo
il provenzale e l’antico francese avevano anch’essi questa
formazione per il nominativo, mentre tutti gli altri casi erano
derivati dall’accusativo latino (desinenza s). Ciò nondimeno
tutti i dialetti Provenzali moderni, per quanto ci consta, hanno
solo l’ultima forma. Tuttavia nella zona di confine potrebbe
sembrare dubbio se la forma conservata del nominativo provenga
dall’italiano o dal provenzale.]
A ciò si aggiunge che la maggior parte dei patois della
Francia meridionale non sono molto più vicini dello stesso
piemontese alla lingua scritta della Francia del nord. Qui dunque la
lingua parlata può decidere poco della nazionalità;
l’alpigiano che parla provenzale impara con la stessa
facilità l’italiano e il francese e si serve sia dell’uno che
dell’altro altrettanto raramente; comprende bene il piemontese con
cui se la cava abbastanza. Se quindi deve esser trovato un punto
d’appoggio, questo lo può dare soltanto la lingua scritta, e
questa è certamente in tutto il Piemonte e a Nizza
l’italiano, le uniche eccezioni essendo costituite in certa misura
dalla Val d’Aosta e dalle valli valdesi, dove qua e là
predomina la lingua scritta francese.
IV
A noi tedeschi questo baratto di Nizza e Savoia ci interessa
principalmente per tre ragioni. Primo, l’interpretazione che in
pratica Luigi Napoleone dà dell’indipendenza italiana:
l’Italia divisa in almeno tre, o possibilmente quattro Stati,
Venezia austriaca, e la Francia padrona del Piemonte, grazie al
possesso della Savoia e di Nizza. Lo Stato pontificio, diminuito
della Romagna, separerà completamente Napoli dallo Stato
dell’Alta Italia e, per impedire ogni ingrandimento di quest’ultimo
verso sud, deve essere «garantito» al papa il rimanente
possesso territoriale. Se allo stesso tempo Venezia viene tenuta
davanti allo Stato dell’Alta Italia come l’esca più vicina,
il movimento nazionale d’Italia continua ad avere nell’Austria il
suo diretto e primo nemico; e così il nuovo regno può
essere messo in movimento contro l’Austria a beneplacito di Luigi
Napoleone, i francesi si impadroniscono di tutte le posizioni
dominanti sulle Alpi occidentali e spingono i loro avamposti fino a
nove miglia da Torino. Questa è la posizione che il
bonapartismo si é fatto in Italia e che in caso di guerra per
il confine del Reno gli vale quanto un esercito. Essa dà
all’Austria il miglior pretesto per fornire, al massimo, il suo
contingente federale, se non anche di meno. Qui ci sarebbe un solo
rimedio: un completo rovesciamento della politica tedesca nei
riguardi dell’Italia. Che la Germania non abbia bisogno del Veneto
fino al Mincio e al Po, crediamo di averlo dimostrato in altro
luogo. Al mantenimento della signoria pontificia e napoletana noi
non abbiamo parimenti alcun interesse, mentre l’abbiamo invece alla
costituzione di un’Italia forte e unita, che possa avere una
politica propria. In date circostanze possiamo dunque offrire
all’Italia più di quello che non le offra il bonapartismo; e
forse è vicino il momento in cui sarà importante
ricordarsi di questo.
Note
124 Hofkriegsrat, il sommo consiglio militare di corte in Austria
(1556-1843) avente le funzioni di Ministero della guerra e dell’alto
comando delle operazioni militari nel corso della guerra. Distaccato
dal teatro delle operazioni, la sua ingerenza non faceva altro che
impedire le decisioni dei comandanti in capo.
125 Si tratta dell’articolo pubblicato sul Times del 10 giugno 1859.
126 Il miglio tedesco pari a metri 7.420.
127 Il Regno di Vestfalia fu creato da Napoleone I sul territorio
della Germania centrale nel 1307 ed esistette fino al 1813. Sul
trono di Vestfalia stette Girolamo Bonaparte, fratello minore di
Napoleone I, che ebbe per figlio il principe Napoleone (Plon-Plon).
128 Si tratta della restaurazione, prevista dai trattati di
Villafranca e di Zurigo, delle dinastie ducali di Modena, Parma e
Toscana, travolte dalle insurrezioni del 1859 (vedi nota 102).
L’espandersi del movimento popolare d’unificazione al Piemonte rese
vani i tentativi di restaurazione: i ducati entrarono a far parte
del Piemonte nel marzo 1860.
129 Loi des suspects (Legge sui sospetti), la legge di sicurezza
sociale approvata il 19 febbraio 1858 dal corpo legislativo francese
che diede all’imperatore e al governo tutti i diritti di relegare in
diverse località di Francia o di Algeria, oppure
semplicemente espatriare, tutte le persone sospette di
slealtà verso il regime.
130 «Cento giorni», il periodo della restaurazione
dell’impero napoleonico. Parte dall’arrivo a Parigi dell’imperatore
(20 marzo 1815), fuggito dall’isola d’Elba alla sua seconda
deposizione dopo la sconfitta di Waterloo il 28 giugno.
131 Sette e tredici comuni, venivano così chiamate le piccole
zone a popolazione tedesca a piè delle Alpi meridionali nella
provincia di Venezia. Le colonie tedesche sorsero qui nella seconda
metà del XIII sec. Ora il dialetto tedesco, parlato una volta
nelle colonie, si conserva solo in alcuni villaggi.
132 La lingua reto-romana (da Rezia, antica provincia romana)
appartiene alle lingue romanze; è diffusa, soprattutto come
lingua parlata, nelle regioni di alta montagna della Svizzera
sud-orientale e in quelle dell’Italia nord-orientale.
Scritto nel febbraio 1860.
Pubblicato in opuscolo ai primi di aprile del 1860
F. Engels
Brescia
La provincia di Brescia si trova in Lombardia e confina con la
provincia di Bergamo e col Tirolo a nord, con le province di Verona
e Mantova ad ovest, con la provincia di Cremona a sud, con Lodi e
con la provincia di Bergamo ad est. Superficie, 1.300 miglia
quadrate; popolazione, 350.000. La fertilità del suolo
favorisce la coltivazione di prodotti eccellenti; uno dei più
importanti settori dell’economia è la bachicoltura. Si
producono ogni anno
1.000.000 di libbre di seta; il numero degli opifici per la
tessitura della seta ammonta a 27 e quello dello filande per la seta
a 1.064. Si producono annualmente circa 70.000 libbre di ottima lana
e ci sono non meno di 45 opifici per la tessitura della lana, 40
fabbriche di articoli di lana e di cotone, 13 fabbriche di tessuti
di lana, 27 fabbriche di articoli in oro, argento e bronzo, 12
fabbriche di ferramenta e porcellana, 7 tipografie, 137 stabilimenti
per la produzione di acciaio e di altri metalli (l’acciaio di
Brescia gode di fama mondiale) e 77 fabbriche di armi da fuoco e di
munizioni, per la cui eccellente produzione Brescia era chiamata
l’Armata. Il burro, il formaggio, il frumento, il granturco, il
fieno, il lino, le castagne, l’olio e il vino sono altre notevoli
fonti di benessere. Il commercio della provincia si svolge
principalmente nel capoluogo omonimo.
Brescia (l’antica Brixia) ha una popolazione di 40.000 abitanti ed
è situata sulle rive dei fiumi Mella e Garza, ai piedi di una
collina. Il castello fortificato in cima alla collina era chiamato a
suo tempo «falco della Lombardia». Brescia è una
città ben costruita, ridente e molto animata, nota per le sue
fontane, di cui, oltre ad un centinaio in case private, ve ne sono
non meno di 72 nelle vie e nelle piazze. L’antica cattedrale e le
altre chiese conservano molti importanti dipinti di grandi maestri
italiani. La costruzione della nuova cattedrale o del Duomo Nuovo
incominciò nel 1604, ma la cupola fu portata a termine solo
nel 1825. Il tesoro principale della chiesa di Santa Afra
l’«Adultera» [Il titolo più diffuso è
«Il Cristo e la peccatrice»] di Tiziano. Vi sono
in tutto più di 20 chiese, note grazie ai loro tesori
artistici. Agli edifici pubblici degni d’attenzione appartiene il
Palazzo della Loggia nella Piazza Vecchia, che fu concepito come
sede del municipio e la cui bellissima facciata fu molto danneggiata
dai bombardamenti dell’aprile 1849. Il Palazzo Tosio, donato alla
città dal conte Tosio, conserva fra molte famose tele il
celebre «Salvatore» di Raffaello. Le pinacoteche
nei palazzi Averoldi, Fenaroli, Lecchi, Martinengo e in altri
palazzi sono anch’esse note per i tesori artistici custoditi. In una
strada, il Corso del Teatro, le facciate del primo piano sono ornate
con pitture su temi biblici, mitologici e storici. La Biblioteca
Quiriniana, fondata alla metà del XVIII secolo dal cardinale
Quirini, contiene circa 80.000 volumi e una ricca raccolta di rari
manoscritti e di oggetti dell’antichità. Il più
originale monumento di Brescia è il cimitero (Campo Santo),
il più bello d’Italia, inaugurato nel 1810. È composto
da una piazza, intorno alla quale sono situate a semicerchio le
tombe e una fila di cipressi. Brescia è sede del governo
provinciale, di un vescovato, di un tribunale commerciale e di altri
tribunali. Essa ha vari enti di beneficenza, un seminario teologico,
due ginnasi, un liceo, un orto botanico, un museo di
antichità e un museo di storia naturale, un’associazione
agraria, alcune accademie, una filarmonica — una delle più
vecchie in Italia — un casinò, un bellissimo teatro e
un’ampia piazza del mercato fuori della città per la fiera
annuale, periodo di intensi affari e di letizia. Il settimanale di
Brescia si chiama Giornale della provincia Bresciana. Un tempio
romano in marmo fu portato alla luce nelle vicinanze della
città nel 1822. Brescia è collegata per ferrovia con
Verona e con altre città italiane.
Si ritiene che la città sia stata fondata dagli etruschi.
Dopo il crollo dell’Impero romano fu devastata dai goti e più
tardi passò in mano ai franchi. Ottone il Grande
l’elevò al rango di libera città imperiale, ma le
lotte fra i guelfi e i ghibellini133 erano per la città fonte
di inquietudine. Dopo essere stata per un periodo di tempo sotto il
dominio dei signori di Verona, cadde nel 1339 nelle mani dei
milanesi. Nel 1426 fu presa da Carmagnola. Nel 1438 fu assediata da
Piccinino. Nel 1509 si arrese ai francesi. Nel 1512 fu conquistata
dal generale veneziano Gritti, ma in seguito fu liberata da Gaston
de Foix. Subendo nel corso del XVI secolo altri tre assedi, rimase
in possesso di Venezia fino alla caduta di questa repubblica134.
Durante l’èra napoleonica fu capoluogo del dipartimento del
Mella. Durante la rivoluzione del 1849 gli abitanti di Brescia si
sollevarono contro la dominazione dell’Austria, cui erano sottomessi
sin dal 1814. La città fu bombardata il 30 marzo dal generai
Haynau e si difese sino a mezzogiorno del 2 aprile, quando fu
costretta ad arrendersi e a pagare un tributo di 1.200.000 dollari
per evitare di essere completamente distrutta.
Note
133 Guelfi e ghibellini, partiti politici in Italia nei secoli XII e
XV durante le lotte tra i papi e gli imperatori germanici.
134 Si tratta dell’occupazione francese di Venezia nel 1797
durante la campagna d’Italia del generale
Bonaparte che portò alla liquidazione della Repubblica di
Venezia (esistita dal V sec.) e alla spartizione dei suoi
possedimenti tra la Francia e l’Austria secondo il trattato di
Campoformio (vedi nota 100).
Scritto intorno ai 24 febbraio 1858.
Pubblicato nella New American Cyclopaedia, vol. III, 1858
K.Marx
Da: Garibaldi in Sicilia — La situazione in Prussia135
Qui, come ovunque in Europa, le gesta di Garibaldi in Sicilia136
sono il tema dominante. Ebbene, dovete sapere che il telegrafo non
è stato mai utilizzato in maniera così vergognosa come
avviene ora sia a Napoli che a Genova e Torino. Le cavallette non
sono mai scese in una tale quantità sull’Europa come ora i
canard telegrafici. Perciò sarebbe opportuno riportare in
poche parole le opinioni che qui i più competenti circoli
militari esprimono sugli avvenimenti in Sicilia. In primo luogo,
l’insurrezione, come è generalmente noto, era in corso
già da un mese prima dell’arrivo di Garibaldi; ma nonostante
l’eccezionale importanza di questa circostanza, essa può
essere tuttavia sopravvalutata, come ha mostrato il Costitutionnel
parigino. Le forze militari di cui disponeva Napoli in Sicilia,
prima dell’arrivo del generale Lanza con truppe fresche, ammontavano
appena a 20.000 uomini, di cui la parte preponderante doveva essere
concentrata nelle fortezze di Palermo e Messina, di modo che il
reparto volante, destinato a perseguire gli insorti, anche se ha
potuto vantare alcuni scontri vittoriosi, anche se ha potuto
disperdere l’avversario in determinate località e insidiano
in diverse direzioni, si è tuttavia mostrato assolutamente
incapace di reprimere definitivamente l’insurrezione. Sembra che
attualmente siano concentrati a Palermo circa 30.000 uomini
dell’esercito napoletano, di cui due terzi presiedono la fortezza,
mentre un terzo si è accampato fuori delle sue mura. Si dice
che Messina sia presidiata da 15.000 napoletani. Quanto a Garibaldi,
secondo le ultime notizie, egli non si è spinto oltre
Monreale. Anche se questa città è situata sulle
colline che dominano Palermo dalla parte del retroterra, per
sfruttare le possibilità che offre questa posizione, manca a
Garibaldi la premessa più importante e precisamente
l’artiglieria d’assedio. Nell’immediato futuro il successo di
Garibaldi, il cui esercito conta appena 12.000 uomini,
dipenderà dunque da due importanti circostanze: dal rapido
estendersi dell’insurrezione a tutta l’isola e dalla condotta dei
soldati napoletani a Palermo137. Se questi ultimi vacilleranno e
entreranno in conflitto con i mercenari stranieri che si trovano
nelle loro file, il sistema difensivo di Lanza potrà crollare
come un castello di carte. Se l’insurrezione acquisterà
proporzioni molto consistenti, l’esercito di Garibaldi
crescerà in proporzioni ancor più minacciose. Se
Garibaldi riuscirà ad impossessarsi di Palermo, egli
prenderà tutto quello che si trova sul suo cammino, ad
eccezione di Messina, dove gli si porrà di nuovo un compito
difficile. Voi ricorderete che nel 1848-1849 i napoletani persero
tutto all’infuori di Messina, che serve da tête-de-pont fra la
Sicilia e Napoli; allora l’aver conservato Messina bastò per
riconquistare tutta l’isola. Questa volta però la caduta di
Palermo e la conquista da parte dei patrioti di tutta l’isola, ad
eccezione di Messina, avrebbero, date le mutate circostanze
politiche, un’importanza più decisiva che nel 1848-49. Se
Garibaldi espugnerà Palermo, egli sarà ufficialmente
appoggiato dal
«re d’Italia». Se Garibaldi sarà sconfitto, la
sua marcia verrà sconfessata come un’avventura privata.
C’è un pathos ironico nelle parole di Garibaldi che,
rivolgendosi a Vittorio Emanuele gli dice che avrebbe conquistato
per lui una nuova provincia, ma di sperare però che il re non
la venderà, come Nizza, città natale di Garibaldi.
Note
135 Il titolo dell’Istituto di marxismo-leninismo presso il CC del
PCUS.
136 Garibaldi sbarcò io Sicilia nei primi di maggio 1860 a
capo di un reparto di patrioti italiani, i famosi Mille.
137 Le truppe garibaldine liberarono Palermo il 27 maggio 1860.
Scritto il 28 maggio 1860.
Pubblicato sulla New York Daily Tribune n. 5972, 14 giugno 1860
F. Engels
Garibaldi in Sicilia
Finalmente dopo le più svariate e contraddittorie
informazioni riceviamo qualche notizia che sembra degna di fede
sulla meravigliosa marcia di Garibaldi da Marsala a Palermo. Si
tratta, invero, di una delle più stupefacenti imprese
militari del nostro secolo, impresa che sembrerebbe quasi in
concepibile se non fosse per il prestigio che precede la marcia di
un generale rivoluzionario trionfante. Il successo di Garibaldi
prova che le truppe regie di Napoli sono tuttora terrorizzate
dall’uomo che ha tenuto alta la bandiera della rivoluzione italiana
in faccia ai battaglioni francesi, napoletani ed austriaci, e che il
popolo della Sicilia non ha perduto fede in lui o nella causa
nazionale.
Il 6 maggio due vapori lasciano la costa di Genova con a bordo circa
1.400 uomini armati, organizzati in sette compagnie, ciascuna delle
quali, evidentemente, è destinata a diventare il nucleo di un
battaglione da reclutarsi tra gli insorti. L’8 sbarcano a Talamone
sulla costa toscana, e persuadono il comandante di quel forte,
valendosi non si sa di quali argomenti, a fornir loro carbone,
munizioni e quattro pezzi di artiglieria da campo. Il 10 entrano nel
porto di Marsala, all’estremità occidentale della Sicilia, e
scendono a terra con tutto il loro materiale, ad onta dell’arrivo di
due navi da guerra, che al momento buono sono incapaci di impedire
Io sbarco. La storia dell’interferenza britannica a favore degli
invasori si è dimostrata falsa ed ora è stata
abbandonata persino dagli stessi napoletani. Il 12 la piccola banda
aveva raggiunto Salemi, che si trova a 18 miglia nell’entroterra
sulla strada (li Palermo. Sembra che qui i capi del partito
rivoluzionario si siano incontrati con Garibaldi, si siano
consultati con lui e abbiano raccolto rinforzi, in tutto circa 4.000
insorti. Mentre questi venivano organizzati, l’insurrezione,
soffocata ma non repressa alcune settimane prima, scoppiava di nuovo
ovunque sulle montagne della Sicilia occidentale, e non senza
effetto, come fu dimostrato il giorno 16. Il 15 Garibaldi, con i
suoi 1.400 regolari organizzati e 4.000 contadini armati, avanza a
nord attraverso le colline, in direzione di Calatafimi, dove la
strada di campagna proveniente da Marsala raggiunge la strada
maestra che unisce Trapani a Marsala. La gola che conduce a
Calatafimi, attraverso un contrafforte dell’elevato Monte Cerrara,
chiamato Pianto dei Romani, era difesa da tre battaglioni di truppe
regie con cavalleria ed artiglieria al comando del generale Landi.
Garibaldi attaccò immediatamente questa posizione, che
dapprima fu ostinatamente difesa; ma, benché in questo
attacco Garibaldi non possa aver impegnato contro i 3.000 o 3.500
napoletani altro che i suoi volontari e una parte molto esigua degli
insorti siciliani, i regi furono successivamente sloggiati da cinque
forti posizioni, perdendo un cannone da montagna e numerosi uomini
uccisi e feriti. I garibaldini, come essi stessi dichiarano, hanno
avuto 18 morti e 128 feriti. I napoletani pretendono di essersi
impadroniti in questo scontro di una delle bandiere di Garibaldi,
ma, poichè avevano rinvenuto una bandiera dimenticata a bordo
di uno dei vapori abbandonati a Marsala, sono capacissimi di aver
esibito questa stessa bandiera a Napoli come prova della loro
pretesa vittoria. La loro sconfitta a Calatafimi, tuttavia, non li
costrinse ad abbandonare la città la sera stessa. La
lasciarono solo il mattino seguente e sembra che dopo non abbiano
più opposto resistenza alcuna a Garibaldi finché non
raggiunsero Palermo. Vi giunsero, ma in uno stato spaventoso di
disgregazione e di disordine. La certezza di aver dovuto soccombere
davanti a dei semplici «filibustieri e alla plebaglia
armata» richiamava di colpo alla loro mente l’immagine
terrificante di quel Garibaldi che, mentre difendeva Roma dai
francesi, poteva ancora trovare il tempo di marciare su Velletri e
mandare a carte quarantotto l’avanguardia dell’intero
esercito napoletano, di quel Garibaldi
che in seguito aveva battuto, sulle pendici
delle Alpi, guerrieri di ben altro stampo di quelli che genera
Napoli138. La precipitosa ritirata, senza neanche una finzione di
resistenza, deve aver aumentato ancora il loro avvilimento e la
tendenza a disertare che già esisteva nei loro ranghi, e
quando all’improvviso si trovarono accerchiati e attaccati da
quell’insurrezione che era stata preparata nell’incontro di Salemi,
la loro compagine andò del tutto in pezzi; della brigata di
Landi rientrò a Palermo, in piccole bande successive,
soltanto un branco disordinato e demoralizzato, grandemente ridotto
di numero.
Garibaldi entrò a Calatafimi il giorno stesso in cui Landi
lasciò la città, cioè il 16. Il 17 raggiunse
Alcamo (10 miglia), il 18 Partinico (10 miglia) e proseguì
verso Palermo. Il 19 una pioggia incessante e torrenziale
impedì alle truppe di muoversi.
Nel frattempo Garibaldi si era accertato che i napoletani stavano
scavando trincee attorno a Palermo e rafforzavano i vecchi, cadenti
bastioni della città dalla parte che si trova di fronte alla
strada per Partinico. I napoletani disponevano ancora di non meno di
22.000 uomini, e quindi numericamente superavano di gran lunga
qualsiasi forza che egli avrebbe potuto loro opporre. Ma erano
demoralizzati, la loro disciplina era rilassata, molti cominciavano
a pensare di passare dalla parte degli insorti, mentre i loro
generali erano noti come degli imbecilli tanto ai propri soldati
quanto al nemico. Le sole truppe fidate in mezzo a loro erano i due
battaglioni stranieri. Così stando le cose, Garibaldi non
poteva arrischiare un attacco frontale contro la città,
mentre d’altra parte i napoletani non potevano tentare nulla di
decisivo contro di lui, anche se le truppe fossero state in grado di
farlo, perché dovevano in ogni modo lasciare una forte
guarnigione nella città e non allontanarsi mai troppo. Con un
generale di stampo comune al posto di Garibaldi, queste circostanze
avrebbero condotto ad una serie di piccole azioni staccate e non
decisive, in cui egli avrebbe potuto addestrare nell’arte della
guerra una parte delle sue reclute, ma in cui anche le truppe regie
avrebbero potuto in breve tempo riacquistare buona parte della
fiducia e della disciplina perdute, perché non avrebbero
potuto non conseguire qualche successo in alcune di queste
scaramucce. Ma una guerra di questa specie non avrebbe giovato
né a un’insurrezione né a Garibaldi. Un’audace
offensiva è il solo sistema di tattica che una rivoluzione si
può permettere; un successo folgorante, quale la liberazione
di Palermo, si impose nel momento stesso in cui gli insorti giunsero
in vista della città.
Ma come riuscirvi? E qui Garibaldi provò in modo brillante di
essere un generale atto non solo alla guerra partigiana, ma ad
operazioni ben più importanti.
Il 20 e i giorni successivi Garibaldi attaccò gli avamposti
napoletani e le posizioni nei dintorni di Monreale e Parco, sulla
strada che conduce a Palermo da Trapani e Corleone, facendo
così credere al nemico che il suo attacco avrebbe avuto luogo
soprattutto contro il fianco sud-ovest della città, e che qui
si trovasse concentrato il grosso delle sue forze. Con un’abile
combinazione di attacchi e finte ritirate indusse il generale
napoletano a far uscire dalla città un numero sempre maggiore
di truppe, finché il 24, fuori della città, in
direzione di Parco, comparvero 10.000 napoletani. Era quel che
voleva Garibaldi. Egli li impegnò immediatamente con una
parte delle sue forze, ripiegando quindi lentamente di fronte ad
essi, in modo da allontanarli sempre più, passo a passo,
dalla città; e quando li ebbe attirati a Piana, al di
là della principale catena di alture che attraversa la
Sicilia e che qui divide la Conca d’Oro (la valle di Palermo) dalla
valle di Corleone, di colpo gettò il grosso delle sue truppe
sull’altro versante della stessa catena, nella valle di Misilmeri,
che si apre sul mare vicino a Palermo. Il 25 egli stabilì il
suo quartier generale a Misilmeri, ad otto miglia dalla capitale.
Non siamo informati di quel che fece dei 10.000 uomini disseminati
lungo l’unica strada in cattivo stato che attraversa la montagna, ma
possiamo essere certi che li tenne occupati a dovere con una serie
di nuove, apparenti vittorie, per impedire loro di ritornare troppo
presto a Palermo. Avendo così quasi dimezzato il numero dei
difensori della città e trasferito la linea di attacco dalla
strada di Trapani a quella di Marsala, egli poté procedere al
grande attacco. Se l’insurrezione abbia preceduto l’attacco o se sia
divampata quando Garibaldi si presentò alle porte della
città, è una questione che i telegrammi contraddittori
non chiariscono; ma è certo che la mattina del 27 tutta la
città insorse in armi e Garibaldi prese d’assalto Porta
Termini, sul lato sud-est della città, dove nessun napoletano
stava ad attenderlo. Il resto è noto; l’abbandono graduale
della città eccezion fatta delle batterie, della cittadella e
del palazzo reale, da parte delle truppe; cui fecero seguito il
bombardamento, l’armistizio, la capitolazione. Mancano ancora i
particolari precisi di queste fasi dell’azione, ma i fatti
principali sono ormai ben sicuri.
Nel frattempo, dobbiamo affermare che le manovre con cui Garibaldi
preparò l’attacco di Palermo lo qualificano immediatamente
come un generale di grande statura. Fino ad oggi lo conoscevamo
soltanto in veste di capo di guerriglieri assai abile e molto
fortunato; persino l’assedio di Roma, con il suo modo di difendere
la città mediante sortite continue, difficilmente poteva
offrirgli l’occasione di sollevarsi al di sopra di quel livello. Ma
qui noi lo vediamo agire su un buon terreno strategico; ed egli
supera la prova da maestro consumato nella sua arte. Il modo con cui
induce il comandante napoletano a commettere lo sproposito di
inviare la metà delle sue truppe fuor di portata di mano, la
sua fulminea marcia laterale per riapparire a Palermo là dove
meno era atteso, ed il suo energico attacco nel momento in cui la
guarnigione era indebolita, sono operazioni che portano l’impronta
del genio militare più di qualsiasi altro avvenimento della
guerra italiana del 1859.
L’insurrezione siciliana ha trovato un capo militare di prim’ordine;
speriamo che l’uomo politico Garibaldi, il quale dovrà presto
comparire sulla scena, saprà conservare senza macchia la
gloria del generale.
Note
138 Si tratta della difesa della Repubblica romana, che dall’aprile
al luglio 1849 fu guidata da Garibaldi. Nel corso di alcuni mesi
l’esercito della repubblica respinse con successo l’offensiva delle
truppe francesi, austriache e napoletane. Nata da una rivolta
popolare, la Repubblica romana cadde il 3 luglio 1849 a causa della
preponderanza delle truppe reazionarie e la perfidia del generale
francese Oudinot, che violò l’armistizio e occupò
Roma.
Engels intende pure le felici operazioni di Garibaldi a capo dei
«Cacciatori delle Alpi» nel corso della guerra
austro-italo francese del 1859.
Scritto intorno al 7 giugno 1860.
Pubblicato come articolo di fondo sulla New York Daily Tribune n.
5979, 22 giugno 1860
K. Marx
Notizie interessanti dalla Sicilia — La lite di Garibaldi con La
Farina — Una lettera di Garibaldi
Secondo un telegramma ricevuto oggi da Palermo, l’atteso attacco del
colonnello Medici su Milazzo ha deciso il re di Napoli a impartire
all’esercito napoletano l’ordine di evacuare completamente la
Sicilia e di ritirarsi nella parte continentale dei suoi domini.
Benché questo telegramma abbia bisogno di esser confermato,
sembra indiscutibile che la causa di Garibaldi si fa strada, ad onta
del morbo che serpeggia fra le sue truppe e degli intrighi
diplomatici che affliggono il suo governo.
L’aperta rottura di Garibaldi con il partito di Cavour, vale a dire
l’espulsione dalla Sicilia del noto intrigante La Farina e dei
signori Griscelli e Totti, corsi di nascita e agenti della polizia
bonapartista di professione, ha sollevato commenti molto
contrastanti nella stampa europea.
Una Lettera privata di Garibaldi a un amico di Londra139 che mi
è stata comunicata con il permesso di pubblicarne il
contenuto nella Tribune, non lascerà dubbi sulla vera natura
del caso. La lettera di Garibaldi è anteriore al suo decreto
del 7 u.s., col quale i tre suddetti intriganti venivano allontanati
senza tante cerimonie dall’isola, ma spiega a fondo quali sono i
punti di disaccordo tra il generale e il ministro, tra il popolare
dittatore e il gran visir dinastico; in una parola tra Garibaldi e
Cavour. Quest’ultimo in segreto accordo con Luigi Napoleone, che
Garibaldi bolla come «homme faux» (questo uomo falso) e
con cui prevede «la necessità di incrociare la spada
una bella mattina» — Cavour, dunque, aveva deciso di annettere
pezzo a pezzo quelle fette di territorio italiano che la spada di
Garibaldi sarebbe riuscita a tagliare, o che le insurrezioni
popolari avrebbero staccato dai loro antichi sovrani. Quel processo
di annessioni al Piemonte pezzo a pezzo dovrebbe essere accompagnato
da un simultaneo processo di «compensi» per il Secondo
Impero. Come Savoia e Nizza sono state il prezzo che si è
dovuto pagare per la Lombardia e i ducati, così la Sardegna e
Genova sono il prezzo che si dovrebbe pagare per la Sicilia; ogni
nuovo atto di annessione separata dovrebbe dar luogo a una nuova
transazione separata con il protettore del Piemonte. Un secondo
smembramento a beneficio della Francia, oltre ad essere un implicito
attentato all’integrità e all’indipendenza dell’Italia,
soffocherebbe immediatamente i movimenti patriottici a Napoli e a
Roma. La diffusa convinzione che per unirsi sotto gli auspici del
Piemonte l’Italia dovrebbe rimpicciolirsi sempre più, avrebbe
dato a Bonaparte la possibilità di mantenere a Napoli e a
Roma governi separati, indipendenti di nome, ma di fatto vassalli
della Francia.
Perciò Garibaldi ha pensato che il suo principale compito
è quello di liquidare qualsiasi pretesto di interferenza
diplomatica francese, ben comprendendo però che questo
può essere fatto soltanto conservando al movimento il suo
carattere prettamente popolare e spogliandolo di ogni parvenza di
legame con progetti di ingrandimenti dinastici. Non appena liberate
la Sicilia, Napoli e Roma, sarebbe giunto il momento di unirle al
regno di Vittorio Emanuele, se questi si assumesse l’impegno di
tenerle e difenderle non soltanto dal nemico che ha di fronte,
cioè l’Austria, ma anche dal nemico che ha alle spalle,
cioè la Francia. Facendo affidamento, forse un po’ troppo,
sulla buona volontà del governo inglese e sulle esigenze
della situazione di Luigi Bonaparte, Garibaldi ritiene che
finché non annette nessun territorio al Piemonte e ricorre
soltanto ad armi italiane per la liberazione dell’Italia, Luigi
Bonaparte non oserà interferire in aperta violazione dei
pretesti con i quali egli iniziò la crociata italiana.
Comunque vadano le cose, questo almeno è sicuro: il piano di
Garibaldi, sia che abbia o non abbia successo, è l’unico che
nelle circostanze attuali offra qualche possibilità di
liberare l’Italia non solo dai suoi antichi tiranni e dalle antiche
divisioni, ma anche dalle grinfie del nuovo protettore francese. E
la particolare missione per cui Cavour aveva spedito in Sicilia La
Farina, appoggiato dai due compari corsi, consisteva appunto nel
mandare a monte questo piano.
La Farina è nato in Sicilia, dove nel 1848 si distinse tra i
rivoluzionari più per il suo odio contro il partito
repubblicano e i suoi intrighi con i dottrinari piemontesi che per
vera energia o per gesta memorabili. Dopo il fallimento della
rivoluzione siciliana e durante il suo soggiorno a Torino,
pubblicò una voluminosa storia d’Italia140 dove fece del suo
meglio per esaltare la dinastia dei Savoia e denigrare Mazzini.
Legato anima e corpo a Cavour, permeò di spirito bonapartista
la «Società nazionale italiana»141 divenuto il
presidente di questa associazione, se ne servì e non
già per favorire ma per impedire ogni tentativo di azione
nazionale indipendente. Del tutto coerente con questi precedenti,
quando circolarono le prime voci sulla progettata spedizione di
Garibaldi in Sicilia, La Farina coprì di ridicolo e di
insulti la semplice idea di una tale spedizione. Quando, tuttavia,
si intrapresero passi immediati per preparare l’audace impresa, La
Farina mise in movimento tutte le risorse della
«Società nazionale» con lo scopo di impedirla.
Quando la sua opposizione non raggiunse l’intento di scoraggiare il
generale e i suoi uomini, e quando finalmente la spedizione
alzò le vele, La Farina, con cinico sarcasmo, si
abbandonò alle più funeste previsioni ed ebbe anche la
faccia tosta di predire l’immediato e totale fallimento
dell’impresa. Non appena, però, Garibaldi ebbe preso Palermo
e si fu proclamato dittatore, La Farina si affrettò a
raggiungerlo, munito di un mandato di Vittorio Emanuele, o meglio di
Cavour, che gli conferiva il potere di assumere il comando
dell’isola in nome del re, non appena si fosse votata l’annessione.
Ricevuto dapprima — come egli stesso ammette — nonostante i suoi
poco raccomandabili precedenti, molto cortesemente da Garibaldi,
cominciò subito ad assumere arie da padrone, intrigando
contro il ministero Crispi, cospirando con gli agenti della polizia
francese, raccogliendo intorno a sé i liberali aristocratici
ansiosi di por fine alla rivoluzione con un voto di annessione
separata, e proponendo, invece delle misure necessarie per espellere
i napoletani dalla Sicilia, piani per espellere dalla pubblica
amministrazione i mazziniani e quegli uomini su cui il suo padrone
Cavour non poteva fare assegnamento.
Crispi, contro il quale La Farina aveva aperto la serie dei suoi
intrighi minandone il ministero, era stato per lungo tempo esule a
Londra, dove era annoverato fra gli amici di Mazzini, e aveva fatto
della liberazione della Sicilia lo scopo supremo dei suoi sforzi.
Nella primavera del 1859, con nome e documenti di Valacco, e con
grande rischio personale, si era recato in Sicilia ed aveva visitato
tutti i principali centri dell’isola preparando un’insurrezione per
il mese di ottobre. Gli avvenimenti dell’autunno142 ritardarono
l’insurrezione, dapprima fino a novembre, poi fino a quest’anno. Nel
frattempo Crispi si rivolse a Garibaldi, il quale, pur rifiutando di
scatenare un’insurrezione, diede la promessa di accorrere in suo
aiuto non appena essa fosse scoppiata e avesse posto in chiaro quali
fossero i veri sentimenti dei siciliani. Durante la spedizione,
Crispi insieme alla moglie, unica donna della spedizione,
accompagnò Garibaldi e combatté in ogni azione, mentre
la moglie dirigeva l’opera di assistenza ai malati ed ai feriti.
Questo era l’uomo che La Farina cercò dapprima di buttare a
mare, con la segreta speranza, naturalmente, di buttargli dietro il
dittatore. Garibaldi, sia per riguardo verso Vittorio Emanuele, sia
perché premuto dall’aristocrazia liberale, acconsenti, pur
protestando, a formare un nuovo ministero e a congedare Crispi, che
però rimase presso di lui come consigliere ed amico. Ma
appena fatto questo sacrificio, Garibaldi si accorse che le
dimissioni del ministero Crispi gli erano state insistentemente
richieste soltanto per accollargli un gabinetto che in tutto,
fuorché nel nome, non era suo ma di La Farina o di Cavour, e
che, contando sulla protezione di Cavour e incoraggiato dalla
presenza di La Farina, in breve tempo avrebbe paralizzato
completamente il suo piano di liberazione dell’isola, e si sarebbe
valso della propria influenza in tutto il paese ai danni
dell’intruso nizzardo, come già veniva soprannominato
Garibaldi. Egli salvò allora la sua causa non meno di quella
della Sicilia e dell’Italia espellendo La Farina e i due messeri
corsi, accettando le dimissioni del ministero nominato da La Farina,
e costituendo un ministero patriottico, fra i cui membri possiamo
fare il nome del signor Mario.
Note
139 La lettera che Garibaldi scrisse all’inglese Green, un
conoscente di Marx, nell’estate del 1860, testimonia che l’autore
puntava all’unità d’Italia e alla liberazione dal dominio
straniero indipendentemente dalla politica di Napoleone III.
140 Si tratta del libro di La Farina Storia d’Italia dal 1815 al
1850, vv. I-VI, Torino, 1851-1852.
141 Si tratta della «Società nazionale»,
organizzazione politica dei liberali d’indirizzo monarchico
istituita nel 1856 a Torino e in altre città da Pallavicino e
La Farina, agente di Cavour, allo scopo di propagare l’idea
dell’unificazione italiana sotto i Savoia. Sebbene Garibaldi, che ne
rappresentava l’ala rivoluzionaria, prendesse attiva parte alle
varie iniziative, la funzione decisiva spettò al Cavour.
142 Nell’autunno 1859 a Parma, Modena, in Toscana e Romagna ci fu un
ampio movimento per l’annessione al Piemonte. I governi provvisori
di questi Stati avevano già forze armate assai numerose con a
capo Garibaldi. Il 5 ottobre, dinanzi alla minaccia di aggressione
da parte dell’Austria e del regno di Napoli, Garibaldi rivolse un
appello al popolo italiano, organizzò una sottoscrizione
nazionale per l’acquisto di armi e annunciò la sua intenzione
di iniziare la marcia di liberazione del Regno delle due Sicilie.
Scritto il 23 luglio 1860.
Pubblicato sulla New York Daily Tribune n. 6018, 8 agosto 1860
F. Engels
Il movimento garibaldino
Nell’Italia meridionale la crisi è imminente, Se dobbiamo
prestar fede ai giornali francesi e sardi, 1.500 garibaldini sono
sbarcati sulla costa calabrese e Garibaldi è atteso da un’ora
all’altra. Ma anche se questa notizia fosse prematura, Garibaldi
avrà indubbiamente trasferito il teatro della guerra sul
continente italiano prima della metà d’agosto.
Per comprendere i movimenti dei napoletani occorre ricordare che nel
loro esercito operano due opposte correnti: il partito liberale
moderato, ufficialmente al potere e rappresentato dal ministero, e
la cricca assolutista, cui aderisce la maggior parte dei capi
militari. Gli ordini del ministero sono resi nulli dagli ordini
segreti della corte e dagli intrighi dei generali. Donde movimenti
contrastanti e rapporti contraddittori. Oggi sentiamo dire che tutte
le truppe regie devono lasciare la Sicilia, domani troviamo queste
truppe intente a preparare una nuova base di operazioni a Milazzo.
Questo stato di cose è caratteristico di tutte le rivoluzioni
lasciate a metà; l’anno 1848 offre esempi del genere in tutta
Europa.
Mentre il ministero proponeva di evacuare l’isola, Bosco — a quanto
sembra, il solo uomo risoluto in quel mazzo di comari che portano le
spalline da generale napoletano — tentò silenziosamente di
trasformare l’angolo nord-orientale dell’isola in una roccaforte,
dalla quale si sarebbe potuta tentare la riconquista dell’isola, e a
questo scopo si diresse verso Milazzo alla testa di un reparto
formato dagli Uomini migliori che si potevano avere a Messina, Qui
si imbatté nella brigata garibaldina di Medici. Però
egli non arrischiò nessun serio attacco contro di essa,
finché non fu chiamato Garibaldi che sopraggiunse con qualche
rinforzo. A questo punto il capo degli insorti attaccò a sua
volta i regi e, dopo una lotta ostinata che durò più
di dodici ore, li sconfisse completamente. Le forze impegnate da
ambedue le parti erano quasi eguali, ma la posizione tenuta dai
napoletani era molto forte. Tuttavia né posizioni né
uomini poterono resistere all’impeto degli insorti che inseguirono i
napoletani attraverso la città fin dentro la cittadella. Qui
altro non restava loro che capitolare, e Garibaldi permise loro di
imbarcarsi, ma senza armi. Dopo questa vittoria,
Garibaldi marciò immediatamente su Messina, dove il generale
napoletano consenti a cedere i forti esterni della città a
condizione di non essere molestato nella cittadella. Ma questa
cittadella, poiché può contenere al massimo qualche
migliaio di uomini, non costituirà mai un serio ostacolo
contro qualsiasi operazione offensiva di Garibaldi, il quale
perciò agì molto bene risparmiando alla città
un bombardamento che
sarebbe stato l’inevitabile conseguenza di un attacco. Stando
così le cose, questa serie di capitolazioni a Palermo,
Milazzo e Messina devono contribuire a distruggere la fiducia delle
truppe regie in se stesse e nei loro capi più di un numero
doppio di vittorie. È ormai diventato cosa del tutto naturale
che i napoletani capitolino sempre davanti a Garibaldi.
Da quel momento è diventato possibile per il dittatore
siciliano pensare ad uno sbarco sul continente. La sua flotta a
vapore non sembra sia finora numerosa abbastanza da permettergli di
tentare uno sbarco più a nord, in qualche punto a sei od otto
giorni di marcia da Napoli, per esempio nella baia di Policastro.
Perciò, a quanto pare, egli avrebbe deciso di attraversare lo
stretto nel punto più angusto, vale a dire all’altezza dell’
estrema punta nord-orientale dell’isola a nord di Messina. Si dice
che abbia concentrato in questo punto circa mille battelli, la
maggior parte dei quali sono probabilmente pescherecci e feluche
costiere, molto in uso in quei paraggi, e, se lo sbarco dei 1.500
uomini al comando di Sacchi fosse confermato, essi formerebbero la
sua avanguardia. Il punto non è dei più favorevoli per
una marcia su Napoli, essendo questa la parte del continente
più lontana dalla capitale, ma se la flotta a vapore non
è in grado di trasportare circa 10.000 uomini in una sola
volta, egli non può sceglierne un altro, e qui ha almeno il
vantaggio che i calabresi si uniranno a lui immediatamente. Ma se
egli può stipare almeno 10.000 uomini a bordo dei suoi vapori
e contare sulla neutralità della regia marina (che sembra
decisa a non combattere contro altri italiani), potrà
sbarcare tuttavia pochi uomini in Calabria come manovra
dimostrativa, e recarsi di persona col grosso delle truppe nel golfo
di Policastro o persino in quello di Salerno.
La forza di cui attualmente dispone Garibaldi consiste in cinque
brigate di fanteria regolare, di quattro battaglioni ciascuna,
più altri battaglioni, e cioè dieci di cacciatori
dell’Etna, due di cacciatori delle Alpi, che sono l’élite del
suo esercito, di un battaglione straniero (ora italiano) sotto il
colonnello Dunne, inglese, un battaglione di genieri, un reggimento
e uno squadrone di cavalleria e quattro battaglioni di artiglieria
da campo; in tutto trentaquattro battaglioni, quattro squadroni e
trentadue cannoni, pari a circa 25.000 uomini complessivamente, dei
quali più della metà sono italiani del nord, il resto
italiani originari di altre regioni. Quasi tutta questa forza
può esser impiegata per l’invasione di Napoli, perché
le nuove formazioni che si stanno organizzando basteranno per far la
guardia alla cittadella di Messina e per proteggere Palermo e le
altre città da un attacco. Tuttavia questa forza appare molto
piccola quando la si paragoni con quella di cui il governo
napoletano dispone sulla carta.
L’esercito napoletano consiste in tre reggimenti della guardia,
quindici reggimenti di linea, quattro reggimenti stranieri, composti
ciascuno di due battaglioni; tredici battaglioni di cacciatori, nove
reggimenti di cavalleria e due di artiglieria: in tutto
cinquantasette battaglioni e quaranta- cinque squadroni sul piede di
pace. Se si aggiungono i 9.000 gendarmi che sono anch’essi
perfettamente organizzati sul piede di guerra, questo esercito sul
piede di pace conta 90.000 uomini. Ma durante gli ultimi due anni,
esso è stato portato al pieno organico di guerra; sono stati
formati i terzi battaglioni dei reggimenti; gli squadroni di riserva
sono stati messi in servizio attivo, le truppe di guarnigione sono
state completate; e quest’esercito ora conta, sulla carta, oltre
150.000 uomini.
Ma che razza d’esercito è questo! Bello a vedersi
esternamente tanto da soddisfare la persona più esigente, ma
non vi si trova né vita, né spirito, né
patriottismo. Non ha tradizioni militari nazionali. Quando i
napoletani combatterono come tali furono sempre sconfitti. Soltanto
al seguito di Napoleone essi conobbero la vittoria. Non è un
esercito napoletano. È semplicemente un esercito regio.
È stato formato ed organizzato con l’espresso ed esclusivo
scopo di tener sottomesso il popolo. E persino per questo scopo
appare inadatto. Esso comprende un buon numero di elementi
antimonarchici, i quali ora vengono alla luce dappertutto. I
sergenti e i caporali, in particolar modo, sono quasi tutti
dei liberali. Interi reggimenti gridano: «Viva
Garibaldi!». Nessun esercito ha mai subito tanti disastri
quanti ne ha subiti questo da Calatafimi a Palermo, e se le truppe
straniere e qualche napoletano hanno combattuto bene a Milazzo, non
bisogna dimenticare che gli elementi scelti formano soltanto una
piccola minoranza dell’esercito.
Così si può dar quasi per sicuro che se Garibaldi
sbarca con forze sufficienti tali da ottenere alcuni successi sul
continente, nessun massiccio concentramento di truppe napoletane
potrà contrastargli il passo con probabilità di
successo; e noi possiamo attenderci da un momento all’altro la
notizia che egli sta continuando la sua marcia trionfale da
Scilla a Napoli con 15.000 uomini contro un numero dieci volte
superiore.
Scritto 18 agosto 1860.
Pubblicato sulla New York Daily Tribune n. 6031, 23 agosto 1860
F. Engels
L’avanzata di Garibaldi
Gli avvenimenti, a misura che si sviluppano, incominciano a darci
un’idea del piano che Garibaldi aveva preparato per liberare
l’Italia meridionale; e quanto più veniamo a conoscere questo
piano, tanto più ne ammiriamo la grandiosità. Un piano
simile non avrebbe potuto esser concepito e la sua esecuzione non
avrebbe potuto essere tentata in nessun altro paese che non fosse
l’Italia, dove il partito nazionale è così
perfettamente organizzato e così completamente controllato
dal solo uomo che ha impugnato la spada con successi così
brillanti per la causa dell’unità e dell’indipendenza
d’Italia.
Il piano non era limitato soltanto alla liberazione del regno di
Napoli; si doveva attaccare simultaneamente lo Stato pontificio in
modo da tenere occupato l’esercito di Lamoricière e i
francesi a Roma143, oltre alle truppe di Bombalino. Intorno al 16
agosto, 6.000 volontari trasferiti poco a poco da Genova al Golfo
degli Aranci, sulla costa nord-orientale della Sardegna, sarebbero
dovuti sbarcare sulle coste dello Stato pontificio, mentre
contemporaneamente sarebbe scoppiata l’insurrezione nelle varie
province napoletane del continente, e Garibaldi avrebbe dovuto
attraversare la stretto di Messina e sbarcare in Calabria. Alcune
espressioni di Garibaldi, che vengono riportate, circa la codardia
dei napoletani, e la notizia, ricevuta con l’ultimo piroscafo, che
egli è entrato a Napoli dove è stato accolto
trionfalmente, ci inducono a pensare che un’insurrezione nelle vie
della città, resa inutile dalla fuga del re [Francesco II]
facesse parte del piano.
Lo sbarco nello Stato pontificio,. come è già noto,
è stato impedito in parte dalle resistenze di Vittorio
Emanuele, in parte, soprattutto, dal fatto che lo stesso Garibaldi
si era convinto che quegli uomini non erano in condizione di
intraprendere una campagna indipendente. Perciò egli li
portò in Sicilia, ne lasciò parte a Palermo e
inviò il resto, a mezzo di due piroscafi, che fecero il giro
dell’isola, a Taormina, dove li troveremo di nuovo. Nel frattempo,
come era stato predisposto, avvennero i moti nelle città
della provincia napoletana, ed in modo tale che risultò
chiaro come il partito rivoluzionario fosse ben organizzato e come
il paese fosse maturo per un’insurrezione. Il 17 agosto
l’insurrezione scoppiò a Foggia, in Puglia. I dragoni, che
costituivano la guarnigione della città, passarono dalla
parte del popolo. Il generale F comandante del distretto,
inviò due compagnie del 13° reggimento che, appena
giunte, fecero la stessa cosa. Allora il generale Flores giunse in
persona, accompagnato dal suo stato maggiore, ma non poté far
nulla e fu costretto ad andarsene. Questo modo di procedere dimostra
che lo stesso Flores non desiderava opporre una seria resistenza al
partito rivoluzionario. Se egli avesse voluto far sul serio
avrebbe inviato due battaglioni invece di due compagnie, e quando
andò in persona avrebbe dovuto farlo alla testa di tutte le
forze di cui poteva disporre, invece di farsi aiutare da pochi
aiutanti e attendenti. Infatti la sola circostanza che gli insorti
gli abbiano permesso di lasciare di nuovo la città è
sufficiente a dimostrare che esisteva almeno una tacita intesa. Un
altro moto scoppiò nella Basilicata. Qui gli insorti
radunarono le loro forze a Corleto Perticara, paese sul fiume Lagni
(dev’essere la località chiamata Corleto nei telegrammi).
Da questa remota regione montagnosa essi marciarono su Potenza,
capoluogo della provincia, dove giunsero in numero di 6.000 il 17.
L’unica resistenza che incontrarono fu opposta da circa 400
gendarmi, che dopo un breve scontro furono dispersi e in seguito
ritornarono per arrendersi uno dopo l’altro. Fu costituito un
governo provvisorio in nome di Garibaldi e si insediò un pro
dittatore. Si dice che il regio intendente (governatore della
provincia) abbia accettato questo ufficio: un altro segno che prova
fino a qual punto la causa dei Borboni sia considerata perduta
persino dai loro stessi dipendenti. Quattro compagnie del 6°
reggimento di linea furono inviate a Salerno per soffocare questa
insurrezione, ma quando giunsero ad Auletta, a circa 23 miglia da
Potenza, si rifiutarono di marciare oltre e gridarono: «Viva
Garibaldi!». Questi sono i soli moti di cui ci sono giunti
particolari. Ma siamo informati che anche altri centri sono passati
dalla parte degli insorti; per esempio, Avellino, città a
meno di 30 miglia da Napoli, Campo basso, nel Molise
(sull’Adriatico), e Celenza in Puglia, che deve essere il luogo
chiamato Cilenta nei telegrammi (si trova a mezza strada tra
Campobasso e Foggia), ed ora la stessa Napoli si è aggiunta
al numero.
Intanto, mentre almeno le città di provincia eseguivano
quella parte di compito che era stata loro assegnata, Garibaldi non
rimaneva inattivo. Appena ritornato dal suo viaggio in Sardegna,
prese le ultime disposizioni per il passaggio sul continente. Il suo
esercito consisteva ora in tre divisioni, comandate da Tϋrr,
Cosenz e Medici. Le due ultime, concentrate nei pressi di Messina e
di Faro, furono dirette verso la costa settentrionale della Sicilia,
fra Milazzo e Faro, come se si avesse l’intenzione di imbarcarle
lì e sbarcarle sulla costa calabrese a nord dello stretto, in
qualche punto vicino a Palmi o Nicotera. Della divisione Tϋrr, la
brigata Eber si era accampata nei pressi di Messina, la brigata
Bixio era stata inviata nell’interno, a Bronte, per reprimervi i
disordini. Entrambe ricevettero l’ordine di recarsi immediatamente a
Messina, dove, la sera del 18 agosto, la brigata Bixio insieme
agli uomini trasportati dalla Sardegna
fu imbarcata su due piroscafi,
il «Torino» e il
«Franklin», e su alcuni trasporti presi a rimorchio.
Circa dieci giorni prima il maggiore Missori, con 300 uomini, aveva
passato lo stretto e attraversato le linee dei napoletani giungendo
incolume sul terreno collinoso e accidentato dell’Aspromonte. Qui fu
raggiunto da altri piccoli distaccamenti, lanciati di tanto in tanto
attraverso lo stretto, e da insorti calabresi, cosicché verso
il 18 agosto, si trovò alla testa di un corpo di circa 2.000
uomini. I napoletani avevano inviato circa 1.800 uomini per
ostacolare lo sbarco di questa piccola banda, ma i 1.800 eroi fecero
in modo di non raggiungere mai i garibaldini.
Il 19, all’alba, la spedizione di Garibaldi (poiché lui
stesso era a bordo) sbarcò tra Melito e Capo
Spartivento, sull’estrema punta meridionale
della Calabria. Non incontrarono
resistenza. I napoletani erano stati così completamente
ingannati dai movimenti che facevano prevedere uno sbarco a nord
dello stretto, che non si curarono affatto della regione a sud del
medesimo. Così 9.000 uomini furono lanciati attraverso lo
stretto, oltre i 2.000 radunati da Missori.
Raggiunto da questi ultimi, Garibaldi marciò immediatamente
su Reggio, che era occupata da quattro compagnie di linea e quattro
di cacciatori. Questa guarnigione, però, doveva aver ricevuto
qualche rinforzo, perché si dice che il 21 davanti a Reggio,
o all’interno di questa città, si svolse un combattimento
molto accanito. Dopo che Garibaldi ebbe preso d’assalto alcuni
capisaldi esterni, l’artiglieria del forte di Reggio rifiutò
di continuare il fuoco e il generale Viale capitolò. In
questo scontro rimase ucciso il colonnello De Flotte (deputato
repubblicano all’Assemblea legislativa di Parigi del 1851).
La flotta napoletana dello stretto si distinse nel non far nulla.
Dopo lo sbarco di Garibaldi, uno dei suoi comandanti
telegrafò a Reggio che le navi non avevano la
possibilità di opporre nessuna resistenza, perché
Garibaldi aveva con sé otto navi da guerra e sette navi da
trasporto! La flotta non si oppose neppure al passaggio della
divisione del generale Cosenz, che deve essere avvenuto il 20 o il
21, nel punto più angusto dello stretto, tra Scilla e Villa
San Giovanni, proprio là dove le navi e le truppe napoletane
erano più concentrate. Lo sbarco di Cosenz fu accompagnato da
un successo di portata eccezionale. Le due brigate Melendez e
Briganti (i napoletani dicono battaglioni e non brigate) e il forte
di Pezzo (non Pizzo, come dicono alcuni telegrammi, che si trova
molto più a nord, oltre Monteleone) si arresero
senza colpo ferire. Si dice che
questo sia avvenuto il 21, giorno in cui anche Villa San
Giovanni fu occupata dopo un breve combattimento.
Così in tre giorni Garibaldi si rese padrone di tutta la
costa lungo lo stretto, inclusi alcuni dei punti fortificanti; i
pochi forti ancora occupati dai napoletani non servivano ormai
più a nulla.
I due giorni seguenti, a quanto pare, furono impiegati nel passaggio
del resto delle truppe e del materiale, o almeno non abbiamo notizia
di altri scontri fino al 24, data in cui secondo le notizie ricevute
un accanito combattimento avrebbe avuto luogo in un posto chiamato
nel telegramma Piale, che non troviamo sulle carte geografiche.
Forse è il nome di qualche torrente di montagna,
il cui alveo profondo avrebbe potuto essere utilizzato dai
napoletani come posizione difensiva. Si dice che questo scontro
abbia avuto esito indeciso. Dopo qualche tempo i garibaldini
offrirono un armistizio, che il comandante napoletano trasmise al
suo generale in capo a Monteleone. Ma prima che potesse arrivare una
risposta, sembra che i soldati napoletani siano giunti alla
conclusione di aver fatto più che abbastanza per il loro re,
e se ne siano andati lasciando indifese le batterie.
Sembra anche che il grosso delle truppe napoletane, al comando di
Bosco, durante tutto questo tempo sia rimasto tranquillamente a
Monteleone, a trenta miglia circa dallo stretto. Non pare che esse
fossero molto ansiose di combattere contro gli invasori,
cosicché il generale Bosco andò a Napoli per prendere
sei battaglioni di cacciatori, che sono, dopo la guardia e le truppe
straniere, le truppe più fidate dell’esercito. Resta a vedere
se anche questi sei battaglioni sono stati
contagiati dallo spirito di scoraggiamento e di demoralizzazione che
regna nell’esercito napoletano. Certo è che né essi
né altre truppe sono stati capaci di impedire a Garibaldi di
effettuare la sua marcia vittoriosa, e probabilmente senza ostacoli,
su Napoli, dove trovò che la famiglia reale era fuggita e le
porte della città erano spalancate per accoglierlo
trionfalmente.
Note
143 Si veda la nota 113.
Scritto intorno allo settembre 1860.
Pubblicato come articolo di fondo sulla New York Daily Tribune n.
6056, 21 settembre 1860
F. Engels
Garibaldi in Calabria
Disponiamo ora di informazioni particolareggiate circa la conquista
della Calabria meridionale da Garibaldi e la totale dispersione del
corpo napoletano incaricato della sua difesa. In questo momento
della sua trionfale carriera Garibaldi ha dimostrato di essere non
soltanto un capo coraggioso e un abile stratega, ma anche un
magistrale condottiero. L’attacco aperto a una catena di forti
costieri è un’impresa che richiede non soltanto talento
militare, ma anche scienza militare: ed è soddisfacente
constatare che il nostro eroe, che in tutta la sua vita non ha mai
dato neanche un esame militare, e che non ha neanche mai fatto parte
di un esercito regolare, si è trovato pienamente a suo agio
su un campo di battaglia di questo tipo come su ogni altro.
La punta dello stivale italiano è formata dalla catena
montuosa dell’Aspromonte, che culmina nel picco di Montalto, di
circa 4.300 piedi. Da questo picco le acque fluiscono verso la costa
in numerose gole profonde, che si irradiano dal Montalto, come da un
centro, simili ai raggi di un semi cerchio, la cui periferia
è formata dalla costa. Queste gole, con i letti dei
rispettivi torrenti montani che in questa stagione sono asciutti,
sono chiamate fiumare e formano altrettante posizioni per un
esercito in ritirata. Esse possono, è vero, essere aggirate
dalla parte del Montalto, soprattutto perché mulattiere e
sentieri corrono lungo la cresta di ogni contrafforte della catena
principale dell’Aspromonte; ma la completa mancanza di acqua nella
regione alta renderebbe una manovra con forze numerose piuttosto
difficile in estate. I contrafforti delle colline scendono verso la
costa per precipitare in mare con rupi a picco e irregolarmente
frastagliate. I forti a guardia dello stretto tra Reggio e Scilla
sono costruiti in parte sulla spiaggia, ma generalmente su rocce
basse e sporgenti vicino alla riva. Di conseguenza essi possono
tutti essere attaccati dall’alto delle rupi dominanti che li
circondano; e i punti dominanti quantunque siano inaccessibili per
l’artiglieria, e per lo più fuori del tiro della vecchia
«Brown Bess»144 tanto che non se ne tenne affatto conto
quando i forti furono costruiti, hanno acquistato un’importanza
decisiva dopo l’introduzione del fucile moderno; essi sono per lo
più a portata del medesimo, cosicché sono essi che in
realtà oggi dominano i forti. In queste circostanze un
attacco in forze contro questi forti, disdegnando tutte le regole di
un assedio regolare, era perfettamente giustificato. Garibaldi
evidentemente doveva fare quanto segue: inviare una colonna lungo la
strada maestra, che rasenta la spiaggia sotto il fuoco dei forti,
per simulare un finto attacco frontale contro le truppe napoletane,
e portare un’altra colonna sulle colline, tanto in alto nelle
fiumare quanto lo esigevano la natura del terreno o l’estensione del
fronte formato da tutte le posizioni difensive dei napoletani,
aggirando così sia le truppe che i forti, assicurandosi in
ogni scontro il vantaggio della posizione dominante.
Perciò il 21 agosto Garibaldi inviò Bixio, con parte
delle sue truppe, lungo la costa verso Reggio, mentre egli stesso
con un piccolo distaccamento e le truppe di Missori, che l’avevano
raggiunto, si avviava verso le montagne. I napoletani, otto
compagnie o 1.200 uomini circa, occuparono una fiumara proprio alle
porte di Reggio. Bixio, essendo il primo ad attaccare, inviò
una colonna all’estrema sinistra sulla spiaggia sabbiosa, mentre
egli stesso avanzava sulla strada. I napoletani ben presto
cedettero; ma la loro ala sinistra, sulle colline, tenne duro contro
i pochi uomini dell’avanguardia di Garibaldi finché
sopraggiunsero gli uomini del Missori che li obbligarono a
retrocedere. Essi si ritirarono allora nel forte che si trova al
centro della città e in un piccolo ridotto sulla spiaggia.
Quest’ultimo fu preso con un attacco audacissimo da tre compagnie di
Bixio, che irruppero per una breccia. Il forte maggiore fu
cannoneggiato da Bixio con i due cannoni pesanti napoletani trovati
con le munizioni nel ridotto; ma ciò non avrebbe potuto
obbligare alla resa, se i franchi tiratori di Garibaldi non avessero
occupato le alture dominanti, da cui potevano vedere e prendere di
mira i cannonieri nelle batterie. Così si raggiunse l’effetto
voluto: gli artiglieri abbandonarono le piattaforme e si rifugiarono
nelle casematte; il forte si arrese, e parte degli uomini si
unì a Garibaldi, ma la maggioranza se ne tornò a casa.
Mentre questo accadeva a Reggio, e tutta l’attenzione dei piroscafi
napoletani era concentrata su questo combattimento, sulla
distruzione del vapore «Torino» incagliatosi e sul finto
imbarco degli uomini di Medici a Messina, Cosenz riuscì a far
uscire dalle acque di Faro 1.500 uomini in sessanta imbarcazioni e a
sbarcarli sulla costa nord-occidentale tra Scilla e Bagnara.
Il 23 agosto un piccolo scontro ebbe luogo presso Salice, un poco al
di là di Reggio; cinquanta garibaldini, inglesi e francesi,
comandati dal colonnello De Flotte, sconfissero un numero quattro
volte superiore di napoletani. De Flotte cadde in questo scontro. Lo
stesso giorno, il generale Briganti, comandante, nella Calabria
meridionale, di una brigata che faceva parte delle truppe di Viale,
ebbe un colloquio con Garibaldi per conoscere quali condizioni gli
sarebbero state fatte se fosse passato nel campo italiano. Questo
colloquio, però, non ebbe alcun risultato se non quello di
dimostrare che i napoletani erano completamente demoralizzati. Da
questo momento non fu più questione di vittoria, ma soltanto
di resa. Briganti e Melendez, comandante della seconda brigata
mobile nella Calabria meridionale, avevano occupato una posizione
vicino alla costa, fra Villa San Giovanni e Scilla, spiegando la
loro ala sinistra verso le alture vicino a Fiumara di Muro. Si
calcola che le loro forze unite contassero 3.600 uomini.
Garibaldi, stabilito il contatto con Cosenz, che era sbarcato a
tergo di questo corpo, avvolse i napoletani da ogni parte e poi
tranquillamente ne attese la resa, che ebbe luogo il 24 verso sera.
Egli prese le armi e permise agli uomini di andarsene a casa, se lo
desideravano, cosa che la maggioranza fece. Anche il forte di Punta
di Pizzo si arrese, e i posti fortificati di Altifiumara, Torre
Cavallo e Scilla seguirono l’esempio, scoraggiati tanto dai colpi di
fucile che partivano dalle alture dominanti, quanto dalla generale
defezione degli altri forti e delle truppe in campo aperto.
Così, non soltanto fu assicurato l’assoluto dominio di
ambedue le rive dello stretto, ma fu conquistata l’intera Calabria
meridionale, e le truppe inviate a difendere questa regione furono
prese prigioniere e inviate alle loro case in meno di cinque giorni.
Questa serie di disfatte spezzò ogni capacità di
ulteriore resistenza nell’esercito napoletano. A Monteleone, gli
ufficiali dei restanti battaglioni di Viale decisero di difendere la
loro posizione per un’ora, per salvare le apparenze, e poi di
deporre le armi. L’insurrezione nelle altre province fece rapidi
progressi; interi reggimenti si rifiutarono di marciare contro gli
insorti, e diserzioni in massa avvennero persino fra le truppe che
difendevano Napoli. E così la via di Napoli era finalmente
aperta davanti all’eroe d’Italia.
Scritto ai primi di settembre 1860.
Pubblicato come articolo di fondo sulla New York Daily Tribune il 24
settembre 1860
Note
144 Brown Ben (Bruna Bess), cosi si chiamava il moschetto a canna
liscia e di colore bruno in dotazione all’esercito inglese del XVIII
e dell’inizio del XIX secolo.
K. Marx
Da: La situazione in Prussia — La Prussia, la Francia e l’Italia145
Il principe reggente che, come ho già detto ai vostri lettori
sin da quando è salito al supremo potere, è nel fondo
dell’animo suo un lugubre e irriducibile legittimista, nonostante i
chiassosi emblemi di liberalismo con cui è stato adornato
dagli oracoli ufficiali dell’Olimpo prussiano degli sciocchi, ha
colto testé un occasione di farsi della pubblicità
dando libero sfogo ai suoi sentimenti lungamente repressi.
E’ un fatto strano, ma tuttavia è un dato di fatto, che il
principe reggente di Prussica [Guglielmo] abbia impedito ai
garibaldini di entrare nella fortezza di Messina, salvando
quell’importante piazzaforte per il suo amato fratello, re Bombalino
di Napoli. L’ambasciatore prussiano a Napoli, conte di Perponcher,
personaggio noto per il suo ostinato legittimismo non meno
dell’ambasciatore prussiano a Roma, barone di Canitz, come molti dei
suoi colleghi aveva seguito re Bombalino a Gaeta dove si trovava la
corvetta prussiana «Loreley» per proteggere i sudditi
tedeschi. Ora, il 15 settembre la cittadella di Messina era sul
punto di capitolare. Gli ufficiali si erano dichiarati per Vittorio
Emanuele ed avevano inviato una deputazione a Gaeta per dire al re
che la posizione non poteva più essere tenuta. Il giorno
seguente la deputazione fu imbarcata alla volta di Messina sulla
corvetta «Loreley», con a bordo un commissario prussiano
che, appena entrato in porto, si portò immediatamente nella
cittadella dove ebbe un lungo colloquio con il comandante
napoletano. Oltre alla sua eloquenza personale l’agente prussiano
sfoderò un mucchio di dispacci da parte del re [Francesco II]
in cui si incoraggiava il generale a resistere, e si deprecava con
veemenza ogni proposta di cedere, persino alle condizioni più
favorevoli, i forti che avevano provvigioni sufficienti per parecchi
mesi. Durante la permanenza del commissario prussiano si udirono
echeggiare dalla cittadella grida di «Evviva il re!» e
quando egli se ne andò, le trattative appena iniziate con il
proposito di fissare i termini della capitolazione furono
immediatamente interrotte. Non appena giunse questa notizia, il
conte di Cavour si affrettò a inviare una nota di protesta a
Berlino deplorando l’«abuso della bandiera prussiana» e
la violazione della promessa di mantenersi perfettamente neutrali
nella guerra rivoluzionaria d’Italia. Nonostante la giustezza della
protesta, il conte di Cavour era il meno adatto a formularla. Herr
von Schleinitz, i cui dispacci durante la guerra del 1859 si erano
acquistati una certa notorietà per il loro stile melato e
adulatorio, la loro argomentazione tortuosa e l’arte incomparabile
di snocciolare frasi su frasi a scapito degli argomenti, colse
zelantemente l’occasione per accattivarsi le grazie del principe
reggente e per cambiare una volta tanto il suo umile sottovoce con i
toni striduli dell’arroganza. Egli rivolse un rabbuffo perentorio al
conte di Cavour, cui fu detto in tutte le lettere che la Sicilia non
era ancora divenuta una provincia sarda, che gli impegni del
trattato erano quotidianamente violati dalla corte di Torino e che
se Cavour voleva protestare contro l’intervento straniero in Italia,
avrebbe fatto meglio a collocare la sua protesta alle Tuileries.
Il ritiro dell’ambasciatore francese da Torino viene considerato qui
come un artificio trasparente, dal momento che si sa perfettamente
che subito dopo l’incontro di Chambéry tra Luigi Bonaparte e
i signori Farmi e Cialdini, quest’ultimo è stato posto al
comando delle truppe piemontesi destinate ad invadere gli Stati del
papa. L’invasione è stata decisa a Chambéry con lo
scopo di togliere la faccenda dalle mani di Garibaldi per metterla
in quelle di Cavour, il più arrendevole dei servi
dell’imperatore francese. Si sa che la guerra rivoluzionaria
nell’Italia meridionale è considerata alle Tuileries non come
una valanga provocata fortuitamente dalla caduta di una palla di
neve, ma come azione deliberata del partito italiano indipendente,
che, sin dal momento in cui Luigi Napoleone fece il suo ingresso
nella via sacra146 aveva proclamato l’invasione del sud come l’unico
mezzo atto a dissipare l’incubo della protezione francese.
Effettivamente Mazzini, nel suo proclama al popolo italiano del 16
maggio 1859, aveva dichiarato francamente:
A certe condizioni il Nord
può unirsi sotto le bandiere di Vittorio Emanuele dovunque
si trovino gli austriaci: sul territorio italiano o in quelli
vicini; l’insurrezione del Sud dovrebbe operarsi e mantenersi
più indipendente. Un’insurrezione, un’insurrezione
unita, che costituisca una potestà provvisoria, che armi,
scelga un punto strategico centrale dal quale mantenere le sue
posizioni e far partecipare i volontari dal Nord, da Napoli e
dalla Sicilia — tale insurrezione potrebbe ancora salvare la causa
d’Italia e costituirne il potere, rappresentato da un Campo
Nazionale. Mercé quel campo e i volontari del Nord, sul
finir della guerra, l’Italia sarebbe, qualunque
fosse l’intenzione degli
iniziatori, arbitra suprema dei propri destini……… Una tale
manifestazione delle aspirazioni popolari escluderebbe ogni
possibilità di un nuovo riparto d’Italia, ogni rimpianto di
dinastie straniere, ogni pace all’Adige e al Mincio, ogni
abbandono d’una parte qualunque di territorio italiano. E il nome
di Roma s’avvicendi sempre al nome d’Italia. Là, nella
città sacra, sta il palladio della nostra Unità
Nazionale. Dovere di Roma è non d’inviare all’esercito
Sardo un pugno di volontari, ma di provare alla Francia Imperiale,
che chi serve da sostegno dell’assolutismo papale a Roma, non
verrà mai riconosciuto combattente per l’indipendenza
d’Italia……. Dovere d’Italia è ricordarlo sempre ai
Romani... Roma rappresenta l’unità della patria: Napoli e i
volontari del Nord devono costituirne l’esercito.
Queste furono le parole di Mazzini nel maggio 1859, riecheggiate da
Garibaldi, quando alla testa dell’esercito popolare creato in
Sicilia e a Napoli aveva promesso di proclamare l’unità
d’Italia dall’alto del Quirinale147.
Voi ricorderete come Cavour, fin dall’inizio, abbia fatto tutto
quanto era in suo potere per rendere la spedizione di Garibaldi irta
di difficoltà; come dopo le prime vittorie dell’eroe popolare
inviasse La Farina, accompagnato da due agenti bonapartisti, a
Palermo con lo scopo di togliere al conquistatore la sua dittatura;
come in seguito ad ogni mossa militare di Garibaldi Cavour abbia
risposto con contro-mosse, prima diplomatiche e infine militari148.
Dopo la caduta di Palermo e la marcia su Messina, la
popolarità di Garibaldi era cresciuta a tal punto tra il
popolo e l’esercito di Parigi che Luigi Napoleone ritenne prudente
tentare i metodi delle blandizie. Quando il generale Tϋrr, in quel
momento inabile al servizio attivo, si rifugiò a Parigi, fu
coperto dalle adulazioni imperiali. Egli fu non soltanto ospite
molto onorato al Palais Royal, ma fu persino ammesso alle
Tuileries149 fu iniziato all’illimitato entusiasmo dell’imperatore
per il suo suddito «annesso», l’eroe nizzardo, e
sommerso sotto testimonianze di amicizia, come un fucile rigato,
ecc. Al tempo stesso Tϋrr fu profondamente impressionato dalla
convinzione espressa dall’imperatore, secondo cui Garibaldi, dopo
essersi assicurato Napoli e la flotta napoletana, non avrebbe potuto
far nulla di meglio di tentare, unitamente con i profughi ungheresi,
uno sbarco a Fiume, per piantarvi la bandiera della rivoluzione
ungherese. Ma Luigi Napoleone partiva da una premessa del tutto
errata supponendo che Tϋrr fosse, o s’immaginasse di essere, l’uomo
capace di esercitare il benché minimo controllo sul modo di
agire di Garibaldi. Tϋrr, che io conosco personalmente, è un
soldato coraggioso e un ufficiale intelligente, ma oltre la sfera
dell’attività militare è una vera nullità, al
di sotto della media dei comuni mortali, in quanto gli manca non
soltanto l’esercizio intellettuale e la cultura, ma quella
perspicacia e quell’istinto che possono sostituire l’istruzione, le
cognizioni e l’esperienza. In una parola, egli è un buon
diavolo, gioviale e leggero, dotato di uno straordinario grado di
credulità, ma non certo l’uomo che possa controllare chiunque
politicamente, meno di tutti Garibaldi, che ad un animo ardente
unisce un granello di quella sottile genialità italiana
rintracciabile in Dante non meno che in Machiavelli. Di Tϋrr, dopo
che si è constatato l’errore di calcolo, si parla il meno
possibile alle Tuileries. Poi si provò con Kossuth,
mandandolo da Garibaldi per fargli accettare le idee dell’imperatore
e farlo uscire dalla pista che conduceva dritto a Roma. Garibaldi si
servì di Kossuth per sollevare l’entusiasmo rivoluzionario,
facendolo accogliere dalle ovazioni popolari, ma seppe saggiamente
distinguere fra il suo nome, che rappresenta una causa popolare, e
la sua missione, che portava celata un’insidia bonapartista. Kossuth
fece ritorno a Parigi piuttosto scornato; ma per dare una seria
prova della sua fedeltà agli interessi imperiali, secondo
quanto riporta l’Opinion Nationale, il Moniteur di Plon Plon, egli
ha ora indirizzato una lettera a Garibaldi in cui Io sollecita a
conciliarsi con Cavour, ad astenersi dal fare qualsiasi tentativo su
Roma per non inimicarsi la Francia,che è la vera speranza
delle nazioni oppresse, e anche a non occuparsi dell’Ungheria, paese
non ancora maturo per un’insurrezione…….
Note
145 Il titolo è dell’Istituto di marxismo-leninismo presso il
CC del PCUS.
146 Si veda la nota 110.
147 Si tratta dell’Appello di Garibaldi al popolo di Palermo.
148 Si veda K. Marx Notizie interessanti dalla Sicilia – La lite di
Garibaldi con La Farina – Una lettera di Garibaldi.
Scritto il 27 settembre 1860.
Pubblicato sulla New York Daily Tribune n. 6076, 15 ottobre 1860
K. Marx
Da: « Il Capitale ». Libro primo Nota dell’autore n 189
In Italia, dove la produzione capitalistica si sviluppa prima che
altrove, anche il dissolvimento dei rapporti di servitù della
gleba ha luogo prima che altrove. Quivi il servo della gleba viene
emancipato prima di essersi assicurato un diritto di usucapione
sulla terra. Quindi la sua emancipazione lo trasforma subito in
proletario eslege, che per di più trova pronti i nuovi
padroni nelle città, tramandate nella maggior parte fin
dall’età romana. Quando la rivoluzione del mercato mondiale
dopo la fine del secolo XV150 distrusse la supremazia commerciale
dell’Italia settentrionale, sorse un movimento in direzione opposta.
Gli operai delle città furono spinti in massa nelle campagne
e vi dettero un impulso mai veduto alla piccola coltura, condotta
sul tipo dell’orticoltura.
Note
149 Palais Royal (Palazzo Reale), negli anni ‘50-’60 sede del
principe Giuseppe Bonaparte (Plon-Plon). (Palais des) Tuileres, sede
di Napoleone III.
150 Si allude alla brusca diminuzione del ruolo commerciale di
Genova, Venezia e di altre città settentrionali alla fine del
XV sec, a seguito delle grandi scoperte geografiche.
K. Marx
Da: Quarto rapporto annuale del Consiglio Generale
dell’Associazione Internazionale degli Operai
…. In Italia l’Associazione è stata paralizzata dalla
reazione dopo la carneficina di Mentana151. Una delle conseguenze
immediate sono state le restrizioni poliziesche dei diritti di
associazione e di riunione. La nostra vasta corrispondenza dimostra
però che la classe operaia italiana va conquistando sempre
più la completa indipendenza da tutti i vecchi partiti…..
Note
151 Il 8 novembre 1867 presso Mentana l’esercito francese e le
truppe papaline sconfissero i volontari di Garibaldi che volevano
liberare Roma dall’occupazione francese e unificarla quindi allo
Stato italiano.
Pubblicato sul Times, 9 settembre 1868; sul Vorbote, n. 9, settembre
1868; e sul supplemento di Le Peuple Belge: Troisième
congrès de l’Association lnternationale des Travailleurs.
Compte rendu officiel. Bruxelles, 1869
F. Engels
Sulla partecipazione di Mazzini alla fondazione
dell’Internazionale152
L’articolo di Engels fu scritto in relazione alla campagna
denigratrice nei riguardi dell’Internazionale e della Comune di
Parigi sollevata da Mazzini alla vigilia del Congresso delle
società operaie italiane (1°- 6 novembre 1871) allo scopo
di sminuire l’influenza esercitata dall’Internazionale sul movimento
operaio italiano e impedire la creazione di un’organizzazione
proletaria in Italia.
Mazzini nel suo Indirizzo agli operai italiani dice:
Quest’Associazione fondata anni
addietro in Londra ed alla quale io ricusai fin da principio la
mia cooperazione….. Un nucleo d’individui, che s’assuma di
governare direttamente una vasta moltitudine d’uomini diversi per
patria, tendenze, condizioni politiche, interessi economici, mezzi
d’azione, finirà sempre per non operare, o dovrà
operare tirannicamente. Per questo io mi ritrassi e si ritrasse
poco dopo la sezione operaia italiana, ecc.
Ora ecco i fatti. Dopo la riunione del 28 settembre 1864 nella quale
l’Associazione internazionale degli operai fu
fondata, tostoché il consiglio provvisorio eletto in
quell’assemblea si radunò, il maggiore L. Wolff
presentò un manifesto ed un progetto di Statuto steso da
Mazzini stesso. Nel qual progetto non solamente non si trovava
difficoltà
«a governare direttamente una moltitudine» ecc., non
solamente non si diceva che questo
«nucleo d’individui. . . finirà sempre per non operare,
o dovrà operare tirannicamente », ma al contrario lo
Statuto era ispirato ad una centralizzata cospirazione, dando poteri
tirannici al corpo centrale. Il manifesto era nello stile solito di
Mazzini: la democrazia borghese che offriva diritti politici agli
operai, onde poter conservare i privilegi sociali delle classi medie
e superiori.Questo manifesto e progetto di Statuto furono
naturalmente rigettati. Gl’italiani rimasero membri sino a che
alcune questioni non furono di nuovo messe fuori per causa di certi
borghesi francesi che volevano servirsi dell’Internazionale.
Non essendo questi riusciti, Wolff dapprima e poscia gli altri si
ritirarono153.
E così l’Internazionale la fece finita con Mazzini. Qualche
tempo dopo il Consiglio centrale provvisorio, rispondendo ad un
articolo di Vesinier, dichiarò nel Journal de Liege che
Mazzini non era stato mai membro dell’Associazione internazionale e
che i suoi progetti, manifesti e statuti erano stati rigettati154
Mazzini ha furiosamente attaccato la Comune di Parigi anche sulla
stampa inglese. Questo è proprio ciò che egli ha
sempre fatto quando i proletari si sono sollevati; dopo
l’insurrezione di Giugno 1848 egli fece Io stesso, denunciando i
proletari insorti tanto oltraggiosamente che lo stesso Luigi Blanc
scrisse un opuscolo contro di lui. E Luigi Blanc ha diverse volte
ripetuto in quel tempo che l’insurrezione di Giugno era l’opera di
agenti bonapartisti!
Mazzini chiama Marx uomo «d’ingegno. . dissolvente, di tempra
dominatrice», ecc. forse perché Marx ha saputo molto
ben dissolvere la cabala ordita da Mazzini a danno
dell’Internazionale, dominando talmente la mal dissimulata libidine
di autorità del vecchio cospiratore, da renderlo per sempre
innocuo all’Associazione. Se è così, l’Internazionale
dev’essere ben lieta di possedere fra i suoi membri un ingegno ed
una tempra, che in tal guisa dissolvendo e dominando l’ha tenuta in
piedi per sette anni, lavorando più che ogni altro uomo per
portarla alla sua attuai superba posizione.
Riguardo allo smembramento dell’Associazione, che, secondo Mazzini,
è già cominciato in Inghilterra, il fatto è che
due membri inglesi del Consiglio [Odger e Lucraft], che erano
divenuti troppo intimi con la borghesia, trovarono l’Indirizzo sulla
guerra civile155 troppo spinto e si ritirarono. In loro vece quattro
nuovi membri inglesi [Taylor, Roach, MilIs, Loc] ed uno irlandese
[Mac Donnel] sono entrati a far parte del Consiglio Generale, il
quale si stima con ciò più rafforzato di prima.
Invece di essere in uno stato di dissoluzione l’Internazionale
è ora per la prima volta riconosciuta pubblicamente da tutta
la stampa inglese come una grande potenza europea; e mai un piccolo
opuscolo ha fatto in Londra tanta impressione quanto l’Indirizzo del
Consiglio Generale sulla guerra civile in Francia, del quale si
pubblicherà ora la terza edizione.
È mestieri che gli operai italiani osservino che il grande
cospiratore ed agitatore Mazzini non ha per essi altro consiglio
che: Educatevi, istruitevi come meglio potete (come se ciò
potesse esser fatto senza mezzi!) …. adopratevi a creare più
frequenti le società cooperatrici di consumo (nemmeno di
produzione!) e fidate nell’avvenire!!!
Note
152 Avendo ricevuto da C. Cafiero, uno dei dirigenti della sezione
napoletana dell’Internazionale, la lettera e l’appello agli operai
italiani di Mazzini, pubblicato su La Roma del popolo (n. 20, 13
luglio 1871), in cui l’autore calunniava l’Internazionale
snaturandone la storia, il programma ed i principi, Engels, il 25
luglio alla seduta del Consiglio Generale parlò
dell’atteggiamento di Mazzini nei riguardi dell’Internazionale. I
punti base del discorso furono da Engels sviluppati e approfonditi
nell’articolo menzionato, che egli inviò a Cafiero allegato
alla lettera del 28 luglio 1871. Nella sua lettera Engels rilevava
la necessità di portare a conoscenza degli operai
l’attività calunniatrice di Mazzini mettendo a nudo il vero
senso della sua propaganda. Cafiero inviò l’articolo di
Engels alle redazioni di diversi giornali. Basandosi sull’articolo e
su un estratto del protocollo della seduta del Consiglio Generale
mandatigli da Engels, si mise a scrivere un proprio articolo contro
Mazzini, che però non terminò causa il suo arresto. La
brutta copia dell’articolo fu confiscata dalla polizia.
153 Si tratta dell’uscita dei mazziniani dal Consiglio Generale
nell’aprile 1865 in relazione alla discussione del conflitto sorto
tra il giornalista A. Lefore e i proudhoniani Frieboure, Tollenne ed
altri nella sezione parigina dell’Internazionale, che gli elementi
borghesi cercavano di sfruttare nel loro interesse. Risultato della
discussione del conflitto furono le risoluzioni redatte da Marx e
adottate dal Consiglio.
154 Si tratta della lettera (scritta nel febbraio 1866 da Jung,
membro del Consiglio Generale della I Internazionale, e redatta da
Marx) al giornale democratico-borghese L’Echo de Vervziers in
risposta alle sortite calunniose contro la direzione
dell’Internazionale da parte di Vésinier, repubblicano
piccolo-borghese.
155 Si tratta de La Guerra civile in Francia di Marx, opera stampata
a Londra nel giugno 1870 come Appello del Consiglio Generale della I
Internazionale.
Scritto il 28 luglio 1871.
Pubblicato sul Libero Pensiero n. 9, 31 agosto 1871, e su altri
quotidiani italiani
F. Engels
Sul mandato di Giuseppe Boriani156
Jnternational Working Men’s Association, 256, High Holborn
London. — W. C. 30 novembre 1871
Il Cittadino Giuseppe Boriani è ammesso Membro
dell’Associazione Internazionale degli Operai ed è
autorizzato ad ammettere nuovi membri e a formare nuove sezioni,
sotto la condizione che egli, ed i membri e le sezioni da
ammettersi, riconoscano come obligatorii gli atti ufficiali
dell’Associazione, cioè
Gli Statuti Generali e Regolamenti Amministrativi, L’Indirizzo
Inaugurale,
Le Risoluzioni dei Congressi,
Le Risoluzioni della Conferenza di Londra, settembre 1871.
Per ordine e in nome del Consiglio Generale
Il Segretario per l’Italia
Note
156 Il mandato che concedeva a G. Boriani i pieni poteri per
accettare nell’Associazione Internazionale degli Operai (I
Internazionale) nuovi membri fu redatto da Engels e spedito in
risposta alla lettera del 14 novembre 1871 di E. Bignami, uno dei
dirigenti della sezione dell’internazionale a Lodi. Nella lettera
egli dava notizia dell’organizzazione delle sezioni
dell’Internazionale a Ferrara ed in altre città e chiedeva
l’invio di documenti per alcuni romagnoli (nonché per G.
Boriani) attestanti il loro diritto di fondare nuove sezioni
dell’Associazione Internazionale degli Operai
Pubblicato per la prima volta in russo in: K. Marx-F. Engels, Opere,
I ed., Mosca, 1935, voI. 26
Friedrich Engels
Dichiarazione del Consiglio Generale ai giornali italiani in merito
agli articoli di Mazzini sull’Internazionale157
Al direttore de La Roma del popolo»
Signor Direttore,
International Working Men’s Association, 256, High Holborn,
London.— W. C. 6 dicembre 1871
chiedo dalla vostra lealtà la pubblicazione della
dichiarazione qui annessa. Se dobbiamo farci la guerra, facciamocela
almeno lealmente.
Gradite i miei distinti saluti
F. Engels Segretario per l’Italia presso il
Consiglio Generale
Associazione Internazionale degli Operai
Alla Redazione de «LA ROMA DEL POPOLO»
Nel n° 38 de La Roma del Popolo il cittadino G. Mazzini pubblica
il primo di una serie di articoli intitolati Documenti
sull’internazionale. Egli avverte i lettori:
Io ho... raccolto da quante
sorgenti mi fu possibile interrogare tutti i suoi atti, tutte le
dichiarazioni parlate o scritte dai suoi membri influenti
Sono questi i documenti di cui intraprende la pubblicazione.
Comincia col darne due saggi.
I. L’abdicazione [dell’azione
politica] andò tanto oltre che taluni fra i fondatori
francesi offrirono a Luigi Napoleone di rinunziare ad ogni
attività politica, purché egli concedesse agli
operai non so qual somma d’utile materiale,
Noi attendiamo dal cittadino Mazzini le prove di questa asserzione
che qualifichiamo calunniosa.
II. Bakunin, in un suo discorso da
lui pronunziato nel Congresso della Lega della Pace e della
Libertà in Berna nel 1868, voglio, ei diceva,
l’egualizzazione degli individui e delle classi: senza queste non
è possibile una idea di giustizia e la pace non sarà
fondata. L’operaio non deve essere più aggirato da lunghi
discorsi. Bisogna dirgli quel/o ch’ei DEVE volere, se non lo sa
egli stesso. Io son collettivista e non comunista, e se chiedo
l’abolizione dell’eredità, la chiedo per giungere
più rapidamente all’eguaglianza sociale.
Che il cittadino Bakunin abbia, o no, pronunciato queste parole, non
ci riguarda in nulla. Quanto importa al Consiglio Generale di
constatare si è:
che queste parole, al dire di Mazzini stesso, sono state pronunziate
in un congresso che non era quello dell’Internazionale, ma
bensì della borghese Lega della Pace e della
Libertà;158
che il congresso dell’internazionale riunito a Bruxelles in
settembre 1868 ha sconfessato con un voto speciale questo stesso
congresso della Lega della Pace e della Libertà
che il cittadino Bakunin quando pronunciò le parole in
questione non era punto membro dell’Internazionale;
che il Consiglio Generale ha sempre fatto opposizione ai tentativi
reiterati di sostituire al largo programma dell’Internazionale (che
ha permesso l’ammissione nel suo seno degli aderenti di Bakunin), il
programma stretto e settario di Bakunin, e la cui adozione
escluderebbe d’un sol colpo l’immensa maggioranza dei membri
dell’Internazionale;
che dunque l’Internazionale non può, in nessuna maniera,
accettare la responsabilità degli atti e delle dichiarazioni
individuali del cittadino Bakunin.
Quanto agli altri documenti sull’Internazionale di cui il cittadino
Mazzini annuncia la prossima pubblicazione, il Consiglio Generale
dichiara d’avanzi che l’Internazionale non è responsabile che
dei documenti ufficiali da lei emessi.
Per ordine ed in nome del Consiglio Generale dell’Associazione
Internazionale degli Operai
Il Segretario per l’Italia Friederich Engels
Note
157 La dichiarazione del Consiglio Generale scritta da Engels in
relazione alle sortite diffamatorie di Mazzini, a giudicare da una
nota marginale di Engels in brutta copia del manoscritto, oltre che
a La Roma del Popolo, entro il 5-7 dicembre 1871 fu spedita pure ad
altri giornali: Il Motto d’Ordine, Il Ciceruacchio, L’Eguaglianza,
La Plebe, Il proletario Italiano e Gazzettino Rosa.
158 Engels allude alla risoluzione del Congresso di Bruxelles
dell’Associazione Internazionale degli Operai (3- 13 settembre 1868)
di non accettare l’invito a partecipare ufficialmente al congresso
della Lega della Pace e della Libertà che doveva tenersi a
Berna. La risoluzione ammetteva la partecipazione di membri della I
Internazionale a titolo personale.
Pubblicato su La Plebe n. 144, 12 dicembre 1871; sul Gazzettino
Rosa, n. 345, 12
dicembre 1871, e su La Roma del Popolo, n. 43, 21 dicembre 1871
Friedrich Engels
Lettera al direttore del «Gazzettino Rosa»159
International Working Men’s Association, 256, High Holborn,
London. — W. C. 7 febbraio 1871
Al cittadino direttore del «Gazzettino Rosa» Cittadino,
da alcuni mesi il Libero Pensiero di Firenze non lascia di attaccare
l’Internazionale come se la grande associazione operaia potesse
pigliar gelosia della società di prebendati razionalisti
propugnata da questo giornale. Finora mi pareva soverchio il
riscontrare a questi attacchi, ma, quando il suddetto foglio si
abbassa sino a dar corso in Italia alle calunnie della stampa
bismarckiana contro l’Internazionale ed il suo Consiglio Generale,
è tempo di protestare. Ho dunque indirizzato al Libero
Pensiero la seguente lettera alla quale vi prego dare
pubblicità anche nel Gazzettino Rosa.
Salute e fratellanza
Segretario per l’Italia
presso il Consiglio Generale.
Friedrich Engels
AI Sig. Luigi Stefanoni,
direttore del «LIBERO PENSIERO»
Signore,
Nel n. I del Libero Pensiero, 4 gennaio 1872 si trova un articolo:
L’Internazionale e il Consiglio supremo di Londra al quale giovami
di riscontrare alcune parole.
Si domanda in questo articolo:
Vorrei dimandare qual mandato abbia il Signor
Engels di rappresentare l’Italia.
Io non ho, e non ho giammai avuto, nessuna pretesa di rappresentare
l’Italia. Ho l’onore di essere, presso il Consiglio Generale, il
segretario specialmente incaricato della corrispondenza coll’Italia,
missione nella quale è mio dovere di rappresentare il
Consiglio e non l’Italia.
Poi l’articolo traduce alcune corrispondenze da Londra tirate dal
.Neuer Sozial Democrat di Berlino e piene delle più infami
calunnie contro il Consiglio Generale e tutta l’Internazionale. A
quelle non riscontrerò. Con quel giornale non si discute.
È ben conosciuto per tutta la Germania cosa sia il Neuer
Sozial Democrat, giornale pagato da Bismarck, organo del socialismo
governativo prussiano. Se ha bisogno d’informazioni più
precise su questo giornale, scriva al suo corrispondente Liebknecht
di Lipsia e ne avrà certamente per soddisfarla. Mi
permetterò solamente di aggiungere, che se lei è avido
di simili calunnie contro l’Internazionale, ne troverà a
migliaia nel Figaro, Gaulois Pètit Journal ed il resto
della stampa del demi-monde parigino, nello Standard di Londra, nel
Journal de Genéve, nella Tages-presse di Vienna e nella
Gazzetta di Mosca, autorità che la dispenseranno di citare
questo povero diavolo di Schneider.
In una nota della direzione si dice:
Forse allude alla società
segreta comunista costituita da Carlo Marx nell’anno 1850 a
Colonia, la quale, come al solito, essendo scoperta, molti poveri
diavoli caddero nelle mani della polizia prussiana, mentre gli
agenti principali si salvarono a Londra.
Chiunque le disse cotali cose, ha mentito. Io ne fui di questa
società160.
Essa non fu fondata né da Marx, né nel 1850, né
in Colonia. Esisteva più di dieci anni avanti. Marx ed io
eravamo in Inghilterra già da un anno, esuli cacciati dal
governo prussiano, quando la sezione di Colonia, per propria
imprevidenza, cadde nelle mani della polizia. Se vuole più
ampie informazioni, potrà ricorrere al signor Becker,
sindaco di Dortmund e membro dei parlamenti prussiano e tedesco;
Klein, medico e consigliere municipale a Colonia; Bϋrgers, direttore
della Gazzetta di Wiesbaden; Lesner, sarto e membro del Consiglio
Generale dell’Internazionale in Londra. Vennero tutti condannati in
questo processo contro i comunisti161. La prego di pubblicare, nel
suo prossimo numero, questa rettificazione ed ho l’onore di
riverirla
Fredrich Engels
Note
159 La lettera alla redazione del Gazzettino Rosa fu scritta da
Engels in relazione alla campagna calunniatrice contro
l’Internazionale sollevata dalla rivista Libero Pensiero di Firenze
(stampata dal 1866 al 1876 a cura di
L. Stefanoni, democratico piccolo-borghese, membro dell’Alliance di
Bakunin).
Al fine di minare l’influenza dell’Internazionale Stefanoni promosse
la creazione di una cosiddetta «Società universale dei
razionalisti». Demagogicamente la sua società era
schierata a difesa dei principi dell’Internazionale, però
«senza i suoi lati brutti». Stefanoni propagandò
le idee utopistiche e piccolo- borghesi del
riscatto dei latifondi e della creazione di colonie agricole come
unico mezzo per salvare i lavoratori dallo sfruttamento. Gli operai
italiani rifiutarono il programma di Stefanoni e il suo progetto non
fu mai effettuato.
Engels, ironizzando, chiama i razionalisti «prebendari»,
facendo allusione al loro piano di soluzione del problema sociale
tramite la creazione di un patrimonio fondiario a mezzo di
beneficenza.
Oltre ad essere pubblicata sul Gazzettino Rosa, la lettera di Engels
fu pure stampata sul Libero Pensiero il 22 febbraio 1872.
160 Si tratta della Lega dei comunisti, la prima organizzazione
comunista internazionale del proletariato, creata su iniziativa di
Marx ed Engels all’inizio del giugno 1847 a Londra, a
riorganizzazione della Lega dei giusti, società clandestina
costituitasi negli anni ‘50 con filiali in Germania, Francia,
Svizzera ed Inghilterra. I principi programmatici e organizzativi
della Lega dei comunisti furono elaborati da Marx e da Engels. Per
incarico del lI Congresso della Lega (19 novembre-8 dicembre 1847)
essi scrissero insieme il documento programmatico, il Manifesto del
Partito comunista, pubblicato nel febbraio 1848. Oggetto di continue
persecuzioni e di arresti, la Lega, nel maggio 1851, cessò di
fatto la sua attività in Germania. Il 17 novembre 1852, su
proposta di Marx, la Lega fu sciolta ma i militanti continuarono la
lotta.
La Lega dei comunisti espletò un ruolo storico di grande
rilievo quale scuola di rivoluzionari proletari, germe del partito
proletario, predecessore della I Internazionale.
161 Il Processo di Colonia dei comunisti (4 ottobre-12 novembre
1852), ebbe un carattere provocatorio e fu montato dal governo
prussiano. Davanti alla corte apparvero 11 membri della Lega dei
comunisti accusati di
«complotto e alto tradimento». Quale materiale d’accusa
figuravano il «libro autentico dei protocolli» delle
sedute del CC ed altri «documenti» fabbricati dalla
polizia prussiana, nonché quelli rubati dalla stessa polizia
alla frazione avventuriera di Willich-Schapper, espulsa dalla Lega.
In base a documenti falsificati e a false testimonianze i 7 imputati
furono condannati ad una pena variante da 3 a 6 anni. I metodi
provocatori e vili dello Stato poliziesco prussiano contro il
movimento operaio internazionale furono denunciati da Engels
nell’articolo Il recente processo di Colonia e nel pamphlet di Marx
La verità sul processo di Colonia dei comunisti.
Pubblicato sul Gazzettino Rosa n. 50, 20 febbraio 1872
Dal riassunto di un discorso di Fredrich Engels sulla situazione
dell’Internazionale in Italia e Spagna
Verbali della seduta del Consiglio Generale del 12 marzo 1872
Il cittadino Engels dichiara che il rapporto pubblicato sulla seduta
della settimana scorsa riproduce in modo completamente falso quello
che egli ha detto a proposito dell’Italia162. Mentre corregge questo
rapporto, egli coglie l’occasione per completare quanto ha detto
sulla situazione dell’Internazionale in Italia. Fino ad ora i
rapporti che pervenivano da questo paese, o tramite la
corrispondenza con il Consiglio o tramite i giornali delle sezioni
italiane dell’Internazionale, rappresentavano le cose come se queste
sezioni appoggiassero all’unanimità la dottrina
dell’astensione completa dall’attività politica e
respingessero la risoluzione della conferenza su tale questione. Ma
non si deve dimenticare che fino ad ora sia la corrispondenza con il
Consiglio Generale, sia i giornali si trovavano non in mano agli
operai, ma in mano ad elementi di origine borghese: avvocati,
medici, giornalisti, ecc. Infatti, la maggiore difficoltà per
il Consiglio consisteva nello stabilire dei legami diretti proprio
con gli operai italiani. Ciò è avvenuto ora in una o
in due località, e si è chiarito che questi operai,
lungi dall’essere entusiasti dell’astensionismo politico, erano, al
contrario, molto lieti di apprendere che il Consiglio Generale, che
guida la massa fondamentale dell’Internazionale, non sostiene in
alcun modo tale dottrina. È così da sperare che anche
su questa questione gli operai italiani presto si troveranno
d’accordo con gli operai del resto d’Europa e degli Stati Uniti
d’America.
Note
162 Il 12 marzo 1872 alla seduta del Consiglio Generale Engels
protestò contro il fatto che Heils, membro del Consiglio,
«avesse redatto a modo suo» i resoconti delle sedute del
Consiglio Generale che quest’ultimo come segretario pubblicava
sull’Eastern Post muniti di sua firma. In particolare si trattava
dell’intervento di Engels del 5 marzo pubblicato sul giornale il 9
marzo 1872.
La relazione di Engels si basava sui fatti fornitigli da Regis nella
sua lettera del 1° marzo 1872.
Pubblicato sul giornale Eastern Post n. 181, 17 marzo 1872
F. Engels
Sulle persecuzioni del membro dell’internazionale Theodor Cuno163
Già da qualche tempo è noto che i governi della
Germania, dell’Austria e dell’Italia hanno ordito un complotto per
dar caccia ai membri dell’Internazionale. Come funziona questo
complotto lo mostrano i seguenti fatti: un eminente membro
dell’Internazionale a Milano, il cittadino Theodor Cuno, nativo
della Prussia, ingegnere, privato di un posto in una grande fabbrica
metalmeccanica, fu arrestato il 25 febbraio, e tutte le sue carte e
tutte le fotografie in suo possesso (comprese quelle di suo padre,
ecc.) furono sequestrate. Egli fu trasportato in catene a Verona,
dove lo tenevano per quasi un mese in carcere in compagnia di ladri
e assassini e lo trattavano precisamente alla stregua di questi
ultimi, mentre le sue carte furono mandate a Roma per la verifica.
Il 29 marzo egli fu portato, incatenato ad un delinquente comune,
alla frontiera e consegnato alle autorità austriache. Qui
egli venne a conoscere per la prima volta il motivo di quello che
ebbe causato tutto ciò. Quanto fosse grande il suo stupore
nel leggere che egli fu arrestato poiché
era - ozioso a Milano, viveva come
vagabondo e senza mezzi di sussistenza, era inoltre un pericoloso
agente del partito socialista internazionale e fu espulso per
tutti questi motivi dal regno d’Italia (!)
Ebbene, lungi dall’essere ozioso, lui doveva assumere il marzo un
impiego vantaggioso a Como come direttore di una fabbrica, ed era
lungi dall’essere privo di mezzi di sussistenza: le autorità
italiane nel congedarsi da lui, dovettero restituirgli 111 franchi
del suo proprio denaro! Gli austriaci non potevano spiegarsi questa
contraddizione, ma invece di liberarlo, lo posero sotto sorveglianza
di un poliziotto che avrebbe dovuto portarlo, a spese di Cuno, alla
frontiera bavarese, e in tal modo Cuno non solo dovette passare
altri sette notti in carcere, ma anche spendere la maggior parte del
suo denaro. Alla frontiera bavarese egli ottenne, senza dubbio
grazie all’assenza delle rispettive istruzioni e grazie alla
stupidità innata della polizia bavarese, che venisse spedito
un telegramma ai suoi parenti e, dopo l’arrivo di una risposta
soddisfacente, egli fu posto finalmente in libertà. Sembra
così che l’alleanza poliziesca europea contro
l’Internazionale sia una realtà. Cuno poteva essere mandato
alla frontiera svizzera e là rimesso in libertà, ma al
posto di ciò egli fu consegnato agli austriaci e da questi ai
bavaresi per essere trasferito come delinquente comune di carcere in
carcere. Questo è il liberalismo delle «libere»
monarchie costituzionali.
Note
163 La relazione sulla persecuzione poliziesca del socialista
tedesco Th. Cuno, uno dei dirigenti della sezione milanese della I
Internazionale, fu presentata da Engels alla seduta del Consiglio
Generale il 23 aprile 1872. Le notizie Engels le ebbe dai giornali
italiani e dalla lettera di Cuno che egli ricevette il 22 aprile.
Engels dava una grande importanza allo smascheramento delle
persecuzioni di Cuno, vedendovi un fatto concreto della congiura dei
governi reazionari d’Europa contro l’Internazionale. Il comunicato
di Engels fu pubblicato nel resoconto della seduta del Consiglio
Generale, prima sull’Eastern Post del 27 aprile 1872 e poi sul
Gazzettino Rosa del 7 maggio 1872.
Scritto il 22-23 aprile 1872.
Pubblicato sul giornale Eastern Post n. 187, 27 aprile 1872, e sul
Gazzettino Rosa n. 127, 7 maggio 1872
F. Engels
Da: Nota per il Consiglio Generale
…...3. A Lodi La Plebe si comporta bravamente, anche se non rompe
apertamente con gli altri, ciò che essa, del resto, non
sarebbe in grado di fare. Ma essi stessi spingono le cose agli
estremi. Essi indicano un congresso italiano per il 15 marzo, ma
vogliono ammettere solo quelle sezioni che hanno riconosciuto le
decisioni di Rimini164 o le riconosceranno alla scadenza
stabilita! Questa è l’autonomia e la libera federazione. Lo
Statuto dell’Internazionale si può calpestarlo, ma le
risoluzioni di Rimini sono sacrosante.
.….8. A Lodi si trova ora solo Bignami. Il Comitato di partito di
Amburgo ha mandato loro 20 talleri e Oberwinder da Vienna 50
fiorini, il che non ha mancato di sortire il suo effetto.
9. La manovra di Cuno di
travestirsi da Capestro è stata
già smascherata ne
L’internationale di Bruxelles …..165
Note
164 Dal 15 al 17 marzo 1873 si tenne a Bologna il I Congresso degli
anarchici italiani che crearono una loro federazione alla conferenza
di Rimini.
165 Dopo il Congresso dell’Aia Cuno emigrò in America.
Lottando contro l’anarchismo, egli con lo pseudonimo di Capestro
firmò l’appello del 10 gennaio 1873 della sezione n. 29
dell’Associazione Internazionale degli Operai alla Nuova federazione
di Madrid. Sull’lnternationale di Bruxelles (n. 212 del 2 febbraio
1873) veniva riportato questo fatto e si diceva che Cuno e Capestro
erano la stessa persona.
Pubblicato integralmente per la prima volta in russo in: K. Marx-F.
Engels, Opere, I ed., Mosca, 1935, voI. 26
K. Marx, F. Engels
Da: L’Alleanza Internazionale della Democrazia Socialista e
l’Associazione Internazionale degli Operai166
V
L’Alleanza in Italia
In Italia l’Alleanza era sorta prima dell’Internazionale. Papa
Michele vi aveva soggiornato e aveva stabilito nume rosi contatti
con i giovani elementi radicali della borghesia. La prima sezione
dell’Internazionale italiana, quella di Napoli, si trovava sin dalla
fondazione sotto la direzione di questi elementi borghesi e
alleanzisti. L’avvocato Gambuzzi uno dei fondatori dell’Alleanza,
portò alla presidenza della sezione il suo « operaio
modello » Caporosso [Uno dei partigiani più zelanti di
Caporusso era l’avvocato Carlo Gambuzzi, che credeva di aver trovato
in lui il presidente modello di una sezione dell’Internazionale. Era
sempre Gambuzzi che gli forni i mezzi perché potesse recarsi
al Congresso di Basilea. Quando, nell’assemblea generale della
sezione, fu decisa l’espulsione di Caporusso, egli si oppose
vivamente alla pubblicazione di questo fatto nel Bollettino, e
persuase i suoi amici di non insistere neanche sulla divulgazione di
un’altra vergognosa azione: l’appropriazione di 300 franchi»
(Lettera di Cafiero del 12 luglio 1871167)].
Al Congresso di Basilea.168 Bakunin rappresentò, a fianco del
suo fedele Caporusso, gli aderenti napoletani all’Internazionale,
mentre l’Antonelli dell’Alleanza, Fanelli, delegato di alcune
associazioni operaie che stanno al di fuori dell’Internazionale, fu
trattenuto per via di un’indisposizione [Fanelli siede già da
tempo al parlamento italiano. Interpellato in proposito, Gambuzzi
dichiarò che è molto bello essere deputato:
l’immunità nei confronti della polizia e la
possibilità di viaggiare gratuitamente su tutte la ferrovie
italiane. L’Alleanza vieta agli operai ogni attività
politica, poiché esigere dallo Stato l’istituzione di una
giornata lavorativa normale per le donne e i bambini, vuol dire
riconoscere lo Stato e capitolare di fronte al cattivo principio, ma
i capi borghesi dell’Alleanza hanno una dispensa papale che permette
loro di sedere al parlamento e di godere dei privilegi offerti dallo
Stato borghese. L’attività ateistica e anarchica di Fanelli
al parlamento italiano si è limitata finora ad un ampolloso
elogio dell’autoritario Mazzini, l’uomo del «Dio e
popolo».]
La famigliarità con il santo padre inebbriò il bravo
Caporusso. Ritornato a Napoli, egli credeva di stare al di sopra
degli altri alleanzisti; egli si comportava da padrone in seno alla
sezione.
Il viaggio a Basilea
trasformò Caporusso da capo a piedi... Egli
ritornò dal congresso con strane idee e pretese,
assolutamente in contrasto con l’essenza della nostra
associazione. Egli parlò prima per via d’allusioni, poi
apertamente con tono imperioso, di poteri che lui non aveva
né poteva avere; egli affermò che il Consiglio
Generale non aveva fiducia che per lui e che lui, ove la sezione
non seguisse la sua volontà, avrebbe il potere di
scioglierla e di fondarne una nuova. (Rapporto ufficiale della
sezione di Napoli al Consiglio Generale, luglio 1871, steso e
firmato dall’avvocato alleanzista Carmelo Palladino)
I poteri di Caporusso dovevano derivare dal Comitato centrale
dell’Alleanza, poiché l’Internazionale mai
accorda tali poteri. Il buon Caporusso, il quale vedeva
nell’Internazionale solo una fonte di lucro personale, nominò
suo genero — ex gesuita e prete disertore
professore dell’Internazionale e
costrinse i poveri operai a sorbirsi le sue tirate sul rispetto
della proprietà e altre
stupidaggini dell’economia politica borghese. (lettera di Cafiero)
[Avuta una risposta per le rime a Napoli, Caporusso due anni dopo
spinse la sua spudoratezza al punto di voler
imporre questo tipo al Consiglio Generale,
reclamizzandolo nel seguente modo: «Cittadino presidente
dell’Internazionale! Il grande problema del lavoro e del capitale
che è stato discusso al congresso operaio di Basilea e che
occupa oggi la mente di tutte le classi, è stato
attualmente risolto. L’uomo che si è dedicato allo studio
di un problema complesso come la questione sociale, è mio
genero, marito di mia figlia; dopo aver studiato le deliberazioni
del suddetto congresso e dopo aver chiamato in aiuto la scienza,
lui ha trovato il modo di sciogliere un nodo intricato, il che
permette di stabilire un equilibrio completo fra la famiglia
operaia e la borghesia in conformità ai diritti di
ciascuna», ecc. (firmato:
Stefano Caporusso)]169
Dopo di che si lasciò comprare dai capitalisti che furono
posti in inquietudine dai progressi dell’Internazionale a Napoli.
Dietro loro ordine egli trascinò i pellicciai di Napoli in
uno sciopero disperato. Gettato in carcere insieme ad altri tre
membri della sezione, egli si appropriò di una somma di 300
franchi, inviata dalla sezione per aiutare i quattro prigionieri.
Queste gesta gloriose gli valsero l’espulsione dal la sezione, che
continuò ad esistere fino a quando non fu sciolta con la
forza (20 agosto 1871). Ma l’Alleanza, sfuggita agli attacchi della
polizia, approfittò di questa circo stanza per occupare il
posto dell’Internazionale. Carmelo Palladino protestò,
all’atto dell’invio del sopraccitato rapporto ufficiale del 13
novembre 1871, contro la Conferenza londinese negli stessi termini e
per gli stessi motivi che si possono trovare nella circolare di
Sonvillier datata un giorno prima.
Nel novembre 1871 si costituì a Milano una sezione formata da
diversi elementi170. Ne facevano parte operai, particolarmente
meccanici portati da Cuno, nonché studenti, giornalisti della
piccola stampa, commessi, interamente influenzati dall’Alleanza.
Cuno era estraniato dai loro misteri a causa della sua origine
germanica. Ciò nondimeno egli ebbe modo di convincersi che,
dopo un pellegrinaggio a Locarno, questa Roma degli alleanzisti,
questi giovani borghesi si costituirono in sezione di
un’associazione segreta. Poco tempo dopo (febbraio 1872) Cuno fu
arrestato dalla polizia italiana ed estradato. Grazie a questo aiuto
del cielo l’Alleanza trovò libero il campo d’azione e si
sottomise pian piano la sezione milanese dell’Internazionale.
L’8 ottobre 1871 si costituì a Torino la Federazione
operaia171 essa chiese al Consiglio Generale di essere ammessa
all’Internazionale. Il suo segretario, Carlo Terzaghi, scrisse
letteralmente: «Attendiamo i vostri ordini» Come per
mostrare che in Italia l’Internazionale doveva sin dalla sua
fondazione passare attraverso l’istanza burocratica dell’Alleanza,
egli comunica che
Il Consiglio
Generale riceverà tramite Bakunin una lettera
dell’Associazione operaia di Ravenna, in cui questa si proclama
sezione dell’ Internazionale.
Il 4 dicembre Carlo Terzaghi annuncia al Consiglio Generale che la
Federazione operaia si è scissa, poiché la maggioranza
è mazziniana, e che la minoranza si è costituita in
sezione sotto il nome di Emancipazione del Proletario. Egli
approfitta dell’occasione per chiedere al Consiglio Generale denaro
per il suo giornale Il Proletario. Non era compito del Consiglio
Generale sopperire ai bisogni della stampa, ma esisteva a Londra un
comitato che si preoccupava di raccogliere soldi per appoggiare le
pubblicazioni dell’Internazionale. Il comitato era già in
procinto di mandare a titolo di aiuto 150 franchi, quando il
Gazzettino Rosa annunciò che la sezione torinese si era
schierata apertamente dalla parte dei giuresi e aveva deciso di
mandare un delegato al congresso generale convocato dalla
Federazione del Giura172. Due mesi dopo Terzaghi si vantava davanti
a Regis di aver imposto lui questa decisione, dopo che aveva
ricevuto personalmente a Locarno le istruzioni di Bakunin. Di fronte
a questa posizione ostile all’Internazionale il comitato non
inviò i soldi.
Anche se Terzaghi era a Torino il braccio destro dell’Alleanza, il
vero legato papale era, però, un certo Jakobi, sedicente
medico polacco. Proclamando il suo odio per il presunto
pangermanismo del Consiglio Generale, il dottore alleanzista
accusava quest’ultimo
di negligenza e
d’inattività all’epoca della guerra franco-prussiana; si
deve attribuirgli la caduta della Comune poiché non ha
saputo servirsi della propria immensa autorità per
sostenere il movimento parigino; le sue tendenze
filogermaniche saltano agli occhi, se si pensa che davanti alle
mura di Parigi si trovavano nell’esercito tedesco 40.000 aderenti
all’Internazionale (?) e che il Consiglio Generale non ha saputo o
non ha voluto servirsi del suo influsso per impedire la
continuazione della guerra. [Rapporto di Regis al Consiglio
Generale, 1° marzo 1872)173
Egli accusa il Consiglio Generale,
confondendolo con il Comitato per
la stampa, di
«seguire la teoria dei governi corruttori e corrotti»,
negando i 150 franchi all’alleanzista Terzaghi. Per dimostrare che
questa lagnanza dell’Alleanza veniva dal cuore, Cuillaume ritenne
suo obbligo ripeterla al Congresso dell’Aia.
Mentre Terzaghi nel suo foglio suonava davanti al pubblico il grande
tamburo antiautoritario dell’Alleanza, di nascosto scriveva al
Consiglio Generale chiedendo che quest’ultimo respingesse
autoritariamente i contributi della Federazione operaia torinese e
scomunicasse con tutte le regole il giornalista Beghelli, che non
era neanche membro del l’Internazionale. Lo stesso Terzaghi,
«amicone del prefetto di Torino, che lo invitava a bere un
bicchierino di vermut» se lo incontrava (rapporto ufficiale
del Consiglio federale di Torino del 5 aprile 1872), denunciò
in un’assemblea pubblica la presenza dell’emigrato Regis, inviato
dal Consiglio Generale a Torino. Questa indicazione portò
subito la polizia sulle tracce di Regis, e solo con l’aiuto della
sezione quest’ultimo riuscì a raggiungere la frontiera.
Terzaghi concluse la sua missione alleanzista a Torino nel seguente
modo. Poiché gli furono mosse dure accuse, egli
minacciò di bruciare i
libri della sezione, se non fosse stato rieletto segretario, e se
si fosse cercato di sottrarsi alla sua volontà, alla sua
autorità e se fosse stato deciso un biasimo nei suoi
confronti. In tutti questi casi egli si sarebbe vendicato,
diventando questurino. [sopraccitato rapporto del Consiglio
federale di Torino].
Terzaghi aveva ogni motivo di cercare di intimidire la sezione.
Quale cassiere e segretario egli andò troppo oltre nei suoi
furti alleanzisti alla cassa. Contrariamente ad un divieto formale
del Consiglio lui si accordò uno stipendio di 90 franchi;
egli registrava nei libri come pagate somme che non erano state
pagate ma che erano scomparse dalla cassa; la bilancia dei conti
preparata da lui stesso indicava un effettivo di cassa pari a 56
franchi che non era possibile rintracciare e che egli si rifiutava
di risarcire, così come anche i 200 marchi di quota da lui
ricevuti dal Consiglio Generale. L’assemblea generale lo
scacciò all’unanimità (il sopraccitato rapporto).
L’Alleanza, che rispetta sempre l’autonomia delle sezioni,
approvò anche questa espulsione, facendo nominare
immediatamente Terzaghi membro d’onore della sezione di Firenze e
più tardi delegato di questa sezione alla conferenza di
Rimini.
Alcuni giorni dopo, in una lettera in data 10 marzo, Terzaghi spiega
al Consiglio Generale la sua espulsione nel seguente modo: egli
avrebbe presentata la domanda di dimissione da membro e segretario
di questa sezione di canaglie e di inetti (canaglia et mardocheria),
poiché essa «era formata da agenti del governo e da
mazziniani» e poiché si è tentato di formulare
un voto di biasimo nei suoi con fronti, «sapete voi
perché? perché io predicavo la guerra contro il
capitale!» (questa guerra lui la conduceva proprio contro la
cassa della sezione). La lettera aveva lo scopo di dimostrare al
Consiglio Generale che esso era stato stranamente tratto in
errore nel suo giudizio su questo bravo Terzaghi,
il quale non desidererebbe altro che diventare un umile
servitore del Consiglio Generale. Egli non ha forse «sempre
dichiarato che, per essere un membro dell’Internazionale, bisogna
pagare i contributi al Consiglio Generale», in contrasto con
gli ordini segreti dell’Alleanza?
Se noi abbiamo aderito al
congresso del Giura, ciò è avvenuto non per
dichiarare guerra a voi, cari amici, ma abbiamo seguito
semplicemente la corrente; la nostra intenzione era quella di
apportare nel conflitto una parola di pace. Per quanto riguarda la
centralizzazione delle sezioni, senza però negare ad esse
una certa propria autonomia, io considero ciò una cosa
molto utile. Lo spero che il grande Consiglio rifiuterà
l’ammissione della Federazione operaia mazziniana; siate certi che
nessuno lo interpreterà come mania di autorità da
parte vostra; io mi assumo ogni responsabilità per
ciò... Io vorrei, se possibile, avere una particolareggiata
biografia di Karl Marx; in Italia non abbiamo nessuna sua
biografia autentica e io vorrei essere degnato per primo di tale
onore.
E che cosa significa tutto questo scodinzolare?
Non per amor mio, ma in nome della
causa, per non cedere il posto ai miei numerosi nemici, per
mostrare loro che l’Internazionale è unita, io prego
insistentemente, se si è ancora in tempo, di accordarmi il
sussidio di 150 franchi, deciso dal grande Consiglio.
Credendosi sicuro della sua impurità, sembra che Terzaghi,
realizzando nuovi colpi, si sia posto a Firenze in una situazione
talmente impossibile che lo stesso Fascio Operaio si è visto
costretto a sconfessarlo. Noi speriamo che il Comitato del Giura
sappia apprezzare meglio i suoi meriti.
Se in Terzaghi l’Alleanza ha trovato un suo vero rappresentante,
nella Romagna essa ha trovato il terreno più fertile. Essa ha
formato là un gruppo di sedicenti sezioni
dell’Internazionale, per le quali la prima regola di condotta era di
non curarsi degli Statuti generali, di non notificare al Consiglio
Generale la propria costituzione e di non pagare i contributi. Erano
sezioni veramente autonome. Esse si sono assunte la denominazione di
«Fascio Operaio e servivano come centri unificatori di varie
associazioni operaie. Il loro primo congresso, a Bologna il 17
marzo, rispose alla domanda:
Si deve nell’interesse di tutti e
per assicurare l’autonomia completa del Fascio Operaio subordinare
quest’ultimo alla direzione del Comitato Generale a Londra o del
Comitato del Giura o si deve conservare l’indipendenza completa,
mantenendo i rapporti con i due comitati?
con la seguente risoluzione:
Il Congresso vede nel Consiglio
Generale di Londra e in quello del Giura null’altro che semplici
uffici di corrispondenza e di statistica e incarica il Consolato
del circondano di Bologna di entrare in contatto con entrambi e di
informarne le sezioni.
Il Fascio Operaio ha preso un grosso granchio rivelando ai profani
l’esistenza misteriosa del centro segreto
dell’Alleanza. Il Comitato del Giura
si è visto costretto a negare
pubblicamente la propria attività segreta. Per quanto
concerne il Consiglio Generale, il Consolato di Bologna non si
è fatto assolutamente vivo con esso.
Non appena l’Alleanza era venuta a sapere della convocazione di un
congresso all’Aia, essa ha messo avanti il suo Fascio Operaio, il
quale in nome della sua autorità autonoma o della sua
autonomia autoritaria si è dato il nome di «Federazione
italiana» e ha indetto per il 5 agosto una conferenza a
Rimini. Sulle 21 sezioni che vi erano rappresentate, solo una,
quella di Napoli, apparteneva a suo tempo all’Internazionale, mentre
nessuna delle sezioni veramente appartenenti all’Internazionale,
persino quella di Milano, aveva là un rappresentante. Questa
conferenza ha svelato il piano di campagna dell’Alleanza nella
seguente risoluzione:
Considerando che la Conferenza di
Londra (settembre 1871) ha tentato di imporre con la sua
risoluzione IX a tutta l’Associazione Internazionale degli Operai
una dottrina autoritaria che è la dottrina del Partito
comunista tedesco;
che il Consiglio Generale
è la leva e il punto d’appoggio di questo tentativo;
che la dottrina dei
comunisti autoritari è la negazione del sentimento
rivoluzionario del proletariato italiano;
che il Consiglio Generale
ha utilizzato mezzi fra i più indegni, come la calunnia e
l’inganno, unicamente allo scopo di imporre all’intera
Associazione Internazionale degli Operai la sua speciale dottrina
autoritario—comunista;
che il Consiglio Generale
ha raggiunto il colmo dell’indegnità con la sua circolare
confidenziale, datata Londra, 5 marzo 1872, nella quale esso,
proseguendo nella sua opera di diffamazione e di inganno svela
tutta la sua mania autoritaria, particolarmente nei due seguenti
punti degni di attenzione:
«Sarebbe difficile
eseguire gli ordini senza autorità “morale” in assenza di
ogni altra autorità liberamente riconosciuta».
(Circolare confidenziale, p. 27)174.
«Il Consiglio
Generale è intenzionato di chiedere al prossimo congresso
un’inchiesta sull’operato di questa organizzazione segreta e dei
suoi capi in vari paesi, ad esempio, in Spagna» (p. 31);
che lo spirito reazionario
del Consiglio Generale ha indignato il sentimento rivoluzionario
dei belgi, francesi, spagnoli, slavi, italiani e di una parte
degli svizzeri e ha dato vita alla proposta per l’abolizione del
Consiglio Generale e per la riforma degli Statuti generali;
che il Consiglio Generale
non senza motivo ha convocato il congresso all’Aia situata lontana
da tutti questi paesi rivoluzionari.
Considerando tutto
ciò,
la Conferenza dichiara
solennemente davanti a tutti gli operai del mondo che la
Federazione italiana dell’Associazione Internazionale degli Operai rinuncia da questo momento ad ogni
solidarietà con il Consiglio Generale londinese, ribadendo,
però, al tempo stesso la sua solidarietà economica
con tutti gli operai e chiama tutte le sezioni che non condividono
i principi autoritari del Consiglio Generale ad inviare propri
rappresentanti il 2 settembre 1872 non all’Aia, ma a Neuchatel
(Svizzera), per aprire nel medesimo giorno un congresso
antiautoritario generale.
Rimini, 6 agosto 1872.
Per la
Conferenza: Carlo Cafiero, Presidente; Andrea Costa, segretario.
Il tentativo di mettere il Fascio Operaio al posto del Consiglio
Generale è completamente fallito. Persino il Consiglio
federale spagnolo, questa semplice filiale dell’Alleanza, non ha
osato porre ai voti la risoluzione di Rimini fra gli aderenti
spagnoli all’Internazionale. L’Alleanza ha cercato quindi di
rimediare alla sua cantonata ed è andata a senza rinunciare
tuttavia al suo congresso antiautoritario a Saint-Imier,
L’Italia è diventata in forza di circostanze particolarmente
favorevoli la terra promessa dell’Alleanza. Papa Michele rivela
questo segreto nella sua lettera a Mora (Documenti, n. 3):
In Italia c’è quello che
manca negli altri paesi: una gioventù ardente, energica,
senza alcuna occupazione, senza prospettive di carriera, senza via
d’uscita (tout-à-fait déplacée, sans
carrière, sans issue), che nonostante tutta la sua origine
borghese, non è esaurita sul piano morale e intellettuale
come la giovane borghesia degli altri paesi. Oggi essa si lancia a
capofitto (a tête perdue) nel socialismo rivoluzionario con
il nostro intero programma, con il programma del l’Alleanza.
Mazzini, il nostro geniale (sic!) e potente avversario, è
morto, il partito mazziniano è completamente
disorganizzato, e Garibaldi si lascia sempre più trascinare
da quella gioventù che porta il suo nome, ma che
però va, anzi, corre infinitamente più lontano di
lui. [Lo stesso Garibaldi scrive in proposito: «Mio caro
Grescio, ringrazio cordialmente dell’Avvenire sociale che Lei mi
ha mandato e che leggerò con interesse. Lei vuole nel Suo
foglio combattere la menzogna e la schiavitù: è un
programma molto bello. Ma io credo che la lotta contro il
principio dell’autorità sia uno di quegli errori
dell’Internazionale che ostacolano i suoi progressi. La Comune di
Parigi è caduta poiché a Parigi non esisteva alcuna
autorità, ma esisteva solo l’anarchia. La Spagna e la
Francia soffrono a causa del medesimo male. Auguro all’Avvenire
prosperità e rimango Suo G. Garibaldi».]
Il santo padre ha ragione. L’Alleanza in Italia non è un
Fascio Operaio, ma un pugno di elementi declassati. Tutte le
sedicenti sezioni dell’Internazionale in Italia sono dirette da
avvocati senza clienti, da medici senza pazienti e senza cognizioni,
da studenti delle sale da biliardo, da commessi viaggiatori e da
altri commessi e particolarmente da giornalisti della piccola stampa
di fama più o meno ambigua. L’Italia è l’unico paese,
in cui la stampa dell’Internazionale — o la stampa che così
si chiama — abbia il carattere proprio al giornale Figaro. Basti
gettare solo uno sguardo sulla calligrafia dei segretari di queste
sedicenti sezioni, per convincersi che essa
è sempre una calligrafia da commessi o tradisce
l’abituale uso della penna. Impadronendosi così di tutti i
posti ufficiali nelle sezioni, l’Alleanza ha potuto costringere gli
operai italiani, ogniqualvolta volevano entrare in contatto fra di
loro o con un Consiglio esterno dell’Internazionale, a ricorrere ai
servigi di quella degradata borghesia alleanzista che ha trovato
finalmente nell’Internazionale una «carriera» e una
«via d’uscita».
Note
166 Alliance internationale de la democratie socialiste (Alleanza
internazionale della democrazia socialista) fu fondata da M. Bakunin
nell’ottobre 1868 a Ginevra come organizzazione internazionale degli
anarchici nella quale egli incluse pure la sua alleanza segreta.
L’Alliance aveva sue sezioni nelle regioni industrialmente poco
sviluppate di Italia, Spagna, Svizzera e del sud della Francia. Nel
1869 l’Alliance si rivolse al Consiglio Generale dell’Associazione
Internazionale degli Operai con la richiesta di affiliarla alla I
Internazionale. Il Consiglio Generale fu d’accordo di affiliare solo
le sezioni dell’Alliance, a condizione però che l’Alliance
stessa fosse sciolta come organizzazione autonoma. Entrata a far
parte dell’Internazionale come sezione ginevrina, l’organizzazione
conservò la sua denominazione precedente, mentre Bakunin in
sostanza ignorò la decisione del Consiglio Generale: in seno
all’Internazionale i bakunisti continuarono la loro attività
sovvertitrice sia aperta che occulta cercando di porre il movimento
internazionale dei lavoratori sotto la loro influenza. Il fatto che
gli anarchici negassero la dittatura del proletariato e la
necessità di creare partiti operai di massa portava il
movimento operaio a dipendere direttamente dalla borghesia. Marx,
Engels e il Consiglio Generale decisamente lottarono contro
l’Alliance smascherandola come setta nemica del movimento operaio.
Al Congresso dell ‘Aia della I Internazionale (1872) ai bakunisti fu
assestato un colpo demolitore. Bakunin e Guillaume furono espulsi
dall’Internazionale. il marxismo riportò una vittoria ideale
e organizzativa sulle forme premarxiste e piccolo-borghesi del
socialismo.
Con questo scritto Marx ed Engels dettero il colpo di grazia alle
pretese bakuniste di egemonizzare il movimento operaio europeo. Gli
autori, servendosi di un’enorme quantità di dati di fatto
svelarono i vari raggiri con i quali i bakunisti avevano cercato di
impadronirsi dell’internazionale e sfruttare per i propri scopi la
sua influenza e la sua organizzazione. Con questo lavoro furono
tirate le somme della lotta teorica e organizzativa contro i
bakunisti in seno all’internazionale.
L’opera fu scritta sulla scorta di numerosi documenti presentati
alla commissione d’inchiesta del Congresso dell’Aia
sull’attività della segreta Alliance.
167 Si cita la lettera di Cafiero a Engels del 12-16 luglio 1871,
nella quale si parlava della situazione creatasi nella sezione
napoletana della I Internazionale.
168 Il Congresso di Basilea della I Internazionale (6-11 settembre
1869) conferma la rivendicazione del passaggio della terra alla
proprietà collettiva e adottò la risoluzione che
chiamava gli operai a creare le unioni sindacali nazionali. Era
quella la vittoria del marxismo sui proudhoniani in seno
all’Internazionale. Nel corso dei dibattiti sulla questione agraria
e sulla proposta di abolire l’ereditarietà si svolse una
aspra lotta tra l’ala proletaria dell’Associazione e i bakunisti e
sorsero dei seri contrasti di principio che più tardi resero
impossibile la loro appartenenza all’Internazionale. il congresso
inoltre ampliò i diritti del Consiglio Generale e
approvò la sua attività.
169 Citazione dalla lettera di Caporusso a Odger del 21 gennaio
1872.
170 La sezione milanese della I Internazionale fu costituita da T
Cuno, sotto l’influenza diretta di Engels. Influenzata da Cuno, una
parte della Società di mutua assistenza morale degli operai
di orientamento mazziniano l’abbandonò e costituì il
Circolo operaio della liberazione del proletario, che il 7 gennaio
1872 si dichiarò sezione dell’internazionale. Il Circolo
adottò lo Statuto corrispondente ai principi
dell’Internazionale. Il 30 gennaio 1872 Engels riferì al
Consiglio Generale la costituzione della sezione e dichiarò
che il suo Statuto corrispondeva ai principi dell’Internazionale. La
sezione fu affiliata all’Associazione. Cuno, sotto la guida di
Engels, lottò in seno alla sezione contro gli anarchici che
ne facevano parte e ottenne che la sezione non desse loro appoggio
nella lotta contro il Consiglio Generale.
171 La Federazione operaia costituita a Torino nell’autunno 1871 fu
influenzata dai mazziniani. Nel gennaio 1872 gli elementi
proletari l’abbandonarono per costituire la società
denominata «L’emancipazione del proletario», che
più tardi, quale sezione, fu accettata in seno alla I
Internazionale. Fino al febbraio 1872 a capo della società vi
fu Terzaghi, agente segreto della polizia.
172 La Federazione delle sezioni della I Internazionale del Giura
(Svizzera) appoggiava gli anarchici.
173 La relazione di Regis sul viaggio in Italia per l’incarico del
Consiglio Generale fu scritta come lettera a Engels. Nella seconda
metà del febbraio 1872 Regis per dieci giorni fu a Milano e
Torino per informarsi sulla situazione nelle sezioni e rendere note
le decisioni dell’Associazione Internazionale degli Operai. Su
istruzioni di Engels, Regis spiegò il netto contrasto tra i
punti di vista anarchici ed i principi e gli obiettivi
dell’Internazionale.
174 Qui gli autori citano la circolare chiusa del Consiglio
Generale della I Internazionale scritta da Marx ed Engels all’inizio
del 1872 ed intitolata Le presunte scissioni nell’internazionale,
che svelava l’attività faziosa dell’Alliance bakunista.
Scritto da K. Marx e F. Engels
con la partecipazione di P. Lafargue nell’aprile-luglio 1873.
Pubblicato in opuscolo a Londra e ad Amburgo nell’agosto 1873
F. Engels
Da: In seno all’Internazionale
……. In Italia, dove gli anarchici della federazione separatista
danno attualmente il tono, uno di essi, Crescio di Piacenza, ha
inviato il suo nuovo foglio — L’Avvenire Sociale a Garibaldi, che
questi signori considerano continuamente uno dei loro. Il foglio era
pieno di grida indignate contro quello che essi chiamano
«principio dell’autorità», il quale è,
secondo loro, la radice di ogni male. Garibaldi così ha
risposto:
Caro Crescio! Ringrazio
cordialmente, ecc. Lei vuole nel suo foglio combattere la menzogna
e la schiavitù; è un programma molto bello. Ma io
credo che la lotta contro il principio dell’autorità sia
uno di quegli errori dell’Internazionale che ostacolano i suoi
progressi. La Comune di Parigi è caduta poiché a
Parigi non esisteva alcuna autorità, ma solo l’anarchia.
Il vecchio combattente per la libertà, il quale nel solo anno
1860175 ha fatto più di quanto possano tentare di fare tutti
gli anarchici nella loro vita, sa apprezzare la disciplina, tanto
più che egli doveva costantemente disciplinare le proprie
forze armate e lo faceva non come gli ambienti militari ufficiali
mediante la disciplina militare, la minaccia costante della
fucilazione, ma di fronte al nemico…...
Scritto il 19-20 giugno 1873.
Pubblicato sul Volhsstaat n. 53, 2, luglio 1878
F. Engels In Italia
Finalmente anche in Italia il movimento socialista è stato
posto su un solido terreno e promette un rapido e vittorioso
sviluppo. Ma perché il lettore possa comprendere in pieno la
svolta avvenuta, dobbiamo rivolgerci alla storia del sorgere del
socialismo italiano.
Il sorgere del movimento in Italia è legato agli influssi
bakunisti. Mentre nelle masse operaie dominava l’odio di classe
appassionato, ma al sommo grado indefinito, per i propri
sfruttatori, in tutte le località dove si presentava
l’elemento operaio rivoluzionario, si era impadronito della
direzione un pugno di giovani avvocati, dottori, letterati,
commessi, ecc. al comando personale di Bakunin. Essi tutti erano
stati iniziati al mistero dai membri della segreta Alleanza
bakunista, il cui scopo era di sottomettere alla propria direzione
tutto il movimento operaio europeo e di conseguire così il
dominio della setta bakunista nella rivoluzione sociale a venire.
Dati più precisi in merito sono esposti
particolareggiatamente nell’opuscolo: Un complotto contro
l’internazionale (Brauncshweig, ediz. Bracke176.
Fino a quando il movimento fra gli operai era soltanto in germe,
ciò riusciva nel miglior modo possibile. Le furiose frasi
rivoluzionarie bakuniste suscitavano ovunque gli applausi voluti;
persino quegli elementi che erano cresciuti dai precedenti movimenti
politico- rivoluzionari, venivano travolti da questo torrente; oltre
alla Spagna anche l’Italia era diventata, secondo un’espressione
dello stesso Bakunin, «il paese più rivoluzionario
d’Europa»177. Rivoluzionario nel senso che vi era molto fumo,
ma poco arrosto. In contrappeso a quella lotta in sostanza politica,
grazie alla quale è sorto e si è rafforzato il
movimento operaio inglese, poi quello francese e, infine, quello
tedesco, qui veniva condannata ogni attività politica,
poiché essa implica il riconoscimento dello
«Stato», ma lo
«Stato» è l’incarnazione di ogni
male. Quindi: si proibisce la creazione di un
partito operaio; si proibisce la lotta per qualsiasi misura
protettiva contro lo sfruttamento, ad esempio, per la normale
giornata lavorativa, per la restrizione del lavoro femminile e
infantile; e, cosa essenziale, si proibisce la partecipazione a
tutte le elezioni. Al posto di ciò occorrono l’agitazione,
l’organizzazione e la cospirazione ai fini della futura rivoluzione,
la quale, non appena cadrà dal cielo, deve essere attuata
senza qualsiasi governo provvisorio, sopprimendo completamente tutte
le istituzioni statali o le istituzioni simili a quelle statali
mediante la sola iniziativa (diretta in segreto dall’Alleanza) delle
masse operaie…... «Ma non domandateci, come!»178
Fino a quando il movimento, come abbiamo detto, era ancora in fasce,
tutto ciò riusciva bene. La stragrande maggioranza delle
città italiane rimangono ancora in una certa misura tagliate
fuori dai legami mondiali, ad esse noti solo nella forma di visite
degli stranieri. Queste città riforniscono i contadini dei
dintorni con articoli della produzione artigianale e fanno da
intermediarie nella vendita dei prodotti agricoli su scala
più vasta; inoltre, vi risiedono i nobili, proprietari
terrieri, consumandovi la propria rendita; infine, una moltitudine
di stranieri vi portano i propri soldi. In queste città gli
elementi di opposizione sono poco numerosi, sono assai poco
sviluppati e, per giunta, sono molto annacquati da gente senza
occupazione sistematica o permanente, il che è favorito dai
rapporti con gli stranieri e dal clima mite. Qui prima di tutto ha
trovato un terreno propizio la frase ultrarivoluzionaria che parlava
sommessamente del pugnale e del veleno. Ma in Italia vi sono anche
città industriali, principalmente nel nord; e non appena il
movimento ha messo radici fra le masse veramente proletarie di
queste città, un tale cibo di qualità scadente non
poteva più soddisfare, e questi operai non potevano
più permettere che essi fossero tutelati anche per l’avvenir
da quei giovani borghesi sfortunati che si sono lanciati verso il
socialismo, poiché, secondo le parole di Bakunin, la loro
«carriera era venuta a trovarsi in un vicolo cieco».
Ed è accaduto proprio così. Il malcontento degli
operai dell’Alta Italia per la proibizione di ogni attività
politica, cioè di ogni vera attività che esca dai
limiti delle chiacchiere vuote e dell’attività cospiratrice,
cresceva di giorno in giorno. Le vittorie elettorali dei tedeschi
nel 1874 e il risultato da essi conseguito: l’unificazione dei
socialisti della Germania179 erano noti anche in Italia. Gli
elementi che provenivano dal vecchio movimento repubblicano e che si
sottomettevano solo a malavoglia agli strilli
«anarchici», si sono messi ad approfittare sempre
più spesso dell’occasione per sottolineare la
necessità della lotta politica e hanno avuto modo di
esprimere l’opposizione che nasceva su La Plebe. Questo giornale
settimanale, di tendenza repubblicana nei primi anni della sua
esistenza, ha presto aderito al movimento socialista e si è
tenuto nella misura del possibile lontano da ogni settarismo
«anarchico». Quando, infine, nell’Alta Italia le masse
operaie hanno sorpassato i loro dirigenti importuni e hanno dato
vita ad un vero movimento al posto di quello fantastico, hanno
trovato ne La Plebe un organo che pubblicava volentieri di tanto in
tanto allusioni eretiche alla necessità della lotta politica.
Se fosse ancora in vita Bakunin, egli ingaggerebbe una lotta contro
questa eresia, seguendo il suo metodo abituale. Egli attribuirebbe
alla gente de La Plebe, l’«autoritarismo», la sete del
potere, l’ambizione, ecc., muoverebbe contro di essa ogni sorta di
piccole accuse personali e ripeterebbe ciò a più
riprese, servendosi di tutti gli organi dell’Alleanza in Svizzera,
in Italia, in Spagna. E solo poi egli rileverebbe che tutti questi
peccati non sarebbero che una conseguenza inevitabile del peccato
mortale originale, cioè del riconoscimento eretico
dell’attività politica, poiché l’attività
politica presuppone il riconoscimento dello Stato, mentre lo
Stato è l’incarnazione dell’autoritarismo, del dominio
e di conseguenza chiunque invochi l’attività politica della
classe operaia, deve coerentemente invocare il potere politico per
se stesso, quindi è un nemico della classe operaia e
lapidatelo! Questo metodo preso in prestito da quella buona anima di
Maximilien Robespierre, Bakunin lo possedeva alla perfezione, ma
solo ne abusava troppo e se ne serviva in maniera troppo monotona.
Ciò nondimeno era tuttavia l’unico metodo che promettesse un
successo anche se di breve durata.
Ma Bakunin è morto e la direzione segreta del mondo è
passata nelle mani del signor James Guillaume di Neuchâtel in
Svizzera. Il posto di un uomo laico che ne aveva visto di tutti i
colori, è stato occupato da un pedante senza cuore che ha
apportato nella dottrina sull’anarchia il fanatismo di un calvinista
svizzero. La vera fede doveva essere salvaguardata costi quel che
costi e come papa di questa fede vera doveva essere riconosciuto a
qualsiasi costo un maestro dalla gretta mentalità di
Neuchâtel. Il Bollettino della Federazione del Giura,
federazione che non contava, come è ben noto, neanche 200
soci contro i 5.000 dell’Alleanza operaia svizzera, è stato
proclamato organo governativo della setta e si è messo a
rampognare senza cerimonie i tentennanti. Ma gli operai lombardi
organizzati nella Federazione dell’Alta Italia, non erano più
inclini ad ascoltare queste rimostranze. E quando l’autunno scorso
il Bollettino del Giura si è semplicemente permesso di
ordinare a La Plebe di allontanare da Parigi il corrispondente non
gradito al signor Guillaume, questa volta l’amicizia è
finita. Il bollettino continuava ad accusare di eresia La Plebe e
gli italiani del Nord. Ma quelli sapevano già di che cosa si
trattava: sapevano che dietro la predica dell’anarchia e
dell’autonomia si nascondeva la pretesa di alcuni intriganti a
comandare dittatorialmente tutto il movimento operaio:
Quattro piccole righe innocenti in
una postilla hanno irritato il Bolletino del Giura ed esso
presenta le cose nel modo come se noi fossimo arrabbiati nei suoi
riguardi, mentre esso ci divertiva soltanto.
Infatti, sarebbe una
fanciullaggine abboccare all’amo degli uomini che picchiano con
morbosa invidia a tutte le porte e, mettendo in giro calunnie,
chiedono da mendicanti sia pure una goccia di odio contro di noi e
i nostri amici. La mano che agisce da tempo seminando liti e
discordie, è ben nota perché possano ancora
ingannare i suoi intrighi gesuitici (loyolani) (La Plebe, 21 gennaio 1877 ).
E nel numero del 26 febbraio gli stessi uomini sono caratterizzati
come «alcune grette teste anarchiche e — una contraddizione
mostruosa! — al tempo stesso dittatoriali»; è la
migliore prova del fatto che a Milano questi signori sono stati
perfettamente capiti e che essi non potranno più farne
laggiù delle belle.
Le elezioni tedesche del 10 gennaio e la svolta, ad esse legata, nel
movimento belga — la rinuncia alla precedente politica di astensione
e la sostituzione di essa con l’agitazione a favore del suffragio
universale e della legislazione di fabbrica — hanno fatto il resto.
Il17 e il 18 febbraio si è tenuto a Milano un congresso della
Federazione dell’Alta Italia. Nelle sue risoluzioni il congresso si
astiene da ogni ostilità superflua e inopportuna contro i
gruppi bakunisti di membri italiani dell’Internazionale, In esse si
esprime persino la disposizione a prender parte al congresso che
viene convocato a Bruxelles, congresso che dovrà compiere un
tentativo di unire le varie frazioni del movimento operaio europeo.
Ma al tempo stesso essi avanzano con la massima precisione tre punti
di importanza decisiva per il movimento italiano:
1) che per assicurare il successo del movimento devono essere
impiegati tutti i mezzi possibili, quindi anche quelli politici;
2) che gli operai socialisti devono costituirsi in partito
socialista, partito che non dipenda da qualsiasi altro partito
politico o religioso, e
3) che la Federazione dell’Alta Italia, a condizione del la sua
autonomia e sulla base degli Statuti iniziali dell’Internazionale,
si considera membro di questa grande associazione, membro che non
dipende da tutte le altre associazioni italiane, alle quali,
però, essa continuerà a fornire anche per l’avvenire
prove della sua solidarietà.
Quindi: lotta politica, organizzazione di un partito politico e
rottura con gli anarchici. Con queste risoluzioni la Federazione
dell’Alta Italia ha ripudiato definitivamente la setta bakunista e
si è posta sul terreno comune del grande movimento operaio
europeo. E dato che essa abbraccia la parte dell’Italia più
sviluppata industrialmente — la Lombardia, il Piemonte, il Veneto —
i suoi successi non si lasceranno attendere molto. Di fronte
all’impiego degli stessi ragionevoli mezzi di agitazione,
corroborati dall’esperienza di tutti gli altri paesi, il vaniloquio
dei ciarlatani bakunisti rivelerà molto presto la sua
impotenza e il proletariato italiano anche nel sud del paese, si
libererà presto del giogo degli uomini che fanno derivare la
loro missione di guidare il movimento operaio dalla propria
condizione dei borghesi rovinati.
Note
175 Si tratta della lotta rivoluzionaria nel Mezzogiorno guidata da
Garibaldi.
176 Si allude all’edizione tedesca dell’opera di Marx e di Engels
L’Alleanza internazionale della democrazia socialista e
l’Associazione internazionale degli operai.
177 Qui e più oltre Engels cita la lettera di Bakunin al
socialista spagnolo Mora del 5 aprile 1872, che insieme agli altri
documenti dell’Alliance fu pubblicata nella IX sezione dell’opera
citata sopra (vedi nota 176).
178 Citazione da H. Heine. Il ciclo poetico Tormenti della prima
gioventù, sezione Canzoni, poesia VIII.
179 Si tratta dell’unificazione dei due partiti operai tedeschi: di
quello socialdemocratico (di Eisenach) e dei lassalliani.
Scritto fra il 6 e il 14 marzo 1877.
Pubblicato sul giornale Vorwärts. n. 32, 16 marzo 1877
F. Engels
Da: Gli operai europei nel 1877
Gli operai d’Italia pure sono molto impediti nella loro
attività dalla legislazione borghese. Una serie di eggi
speciali promulgate con il pretesto di sopprimere il banditismo e le
segrete organizzazioni banditesche largamente diffuse, leggi che
concedono al governo poteri immensi, illimitati, sono applicate
senza scrupoli alle associazioni operaie, i loro membri eminenti
sono soggetti alla pari dei banditi a sorveglianza poliziesca e
possono essere confinati senza processo e istruttoria. Ciò
nondimeno, il movimento va avanti e il migliore indice della sua
vitalità è il fatto che il suo centro di
gravità si sposta dalle città rispettabili ma
semimorte della Romagna nelle dinamiche città industriali del
Nord; questa svolta ha fatto si che gli elementi veramente operai
hanno preso il sopravvento sui pochi
«anarchici» intrufolatisi nel movimento provenendo dalla
borghesia, nel le cui mani era stata in precedenza la direzione. I
club operai e i sindacati, continuamente chiusi e sciolti dal
governo, sorgono di nuovo sotto nuove denominazioni. La stampa
proletaria, nonostante che molti suoi organi a causa delle
persecuzioni, delle multe e delle condanne detentive contro i loro
editori siano di breve durata, risorge e, nonostante tutti gli
ostacoli, conta alcuni giornali con un’esistenza relativamente
lunga. Alcuni di questi organi, per la maggior parte edizioni di
breve durata, professano ancora le dottrine
«anarchiche», ma questa frazione ha rinunciato ad ogni
pretesa alla direzione del movimento e si spegne gradualmente
insieme al partito borghese-repubblicano di Mazzini. E ogni palmo d
terreno che perdono queste due cricche, è il palmo
conquistato dal vero e cosciente movimento della classe operaia.
Scritto tra la metà di febbraio e la metà di marzo del
1878.
Pubblicato sul Labour Standard (New York) il 3, 10, 17, 24 e 31
marzo 1878
F. Engels
Da: La funzione della violenza nella storia
…….. La cosa ebbe inizio in Italia [Annotazione in margine a matita
di Engels: «Orsini»].. Qui daI 1849 dominava
incontrastata l’Austria, e l’Austria in quell’epoca era il capro
espiatorio per tutta l’Europa. Gli squallidi risultati della guerra
di Crimea venivano attribuiti non all’irresolutezza delle potenze
occidentali, che volevano solo una guerra dimostrativa, ma alla
posizione oscillante dell’Austria, posizione di cui però
nessuno era più colpevole delle stesse potenze occidentali.
La Russia dal canto suo era talmente offesa per l’avanzamento degli
austriaci verso il Prut — la gratitudine per l’aiuto russo
all’Ungheria nel 1849180 (anche se proprio questo avanzamento la
salvò) — da rallegrarsi di ogni attacco all’Austria. Della
Prussia non se ne teneva pii conto e già al Congresso della
pace di Parigi essa fu bistrattata en canaille. Quindi, la guerra
per la liberazione dell’Italia fino all’Adriatico, promossa con il
concorso della Russia, fu iniziata nella primavera del 1859 e
conclusa già nell’estate sul Mincio. L’Austria non fu buttata
fuori dal l’Italia, l’Italia non divenne libera fino all’Adriatico e
non fu unificata. La Sardegna estese, è vero, il suo
territorio, ma la Francia ebbe la Savoia e Nizza e raggiunse
così i suoi confini con l’Italia del 1801.
Ma ciò non accontentò gli Italiani. Nell’Italia di
allora dominava la produzione puramente manifatturiera, la grande
industria era in fasce. La classe operaia era lungi dall’essere
espropriata e proletarizzata completamente; nelle città essa
possedeva ancora i propri strumenti di produzione, nelle campagne il
lavoro industriale era un’attività collaterale dei piccoli
contadini o degli affittuari. Perciò l’energia della
borghesia non era ancora minata dall’esistenza dell’antagonismo fra
di essa e il proletariato moderno, conscio dei propri interessi di
classe. E poiché lo spezzettamento dell’Italia perdurava solo
a causa della dominazione straniera austriaca, sotto la cui
protezione gli abusi dei governi monarchici arrivarono all’estremo,
sia i nobili, grandi proprietari terrieri, che le masse popolari
delle città erano dalla parte della borghesia come
combattente d’avanguardia per l’indipendenza nazionale. Ma il
dominio straniero nel 1859 fu rovesciato ovunque, ad eccezione di
Venezia; all’ulteriore ingerenza dell’Austria negli affari italiani
fu posto fine dalla Francia e dalla Russia, nessuno temeva
più ciò. E nella persona di Garibaldi l’Italia aveva
un eroe di stampo antico, che era capace di fare e che faceva
davvero dei miracoli. Con mille volontari egli mise sottosopra tutto
il regno di Napoli, unificò di fatto l’Italia, spezzò
l’abile rete della politica bonapartista. L’Italia era libera e in
sostanza unificata, ma non per gli intrighi di Luigi Napoleone,
bensì grazie alla rivoluzione.
Note
180 Si tratta dell’aiuto prestato dalle truppe russe alla monarchia
austriaca per soffocare la rivoluzione degli anni 1848-1849.
Scritto nel periodo tra dicembre 1887 e marzo 1888.
Pubblicato per la prima volta sulla Neue Zeit, Bd. 1, nn. 22-26,
1895-1896
F. Engels
Risposta all’onorevole Giovanni Bovio181
In un articolo della Tribuna del 2 corr. febbraio, l’illustre
Giovanni Bovio rimprovera ai deputati repubblicani italiani, passati
in questi ultimi tempi al campo monarchico, di trattare con disdegno
soverchio la questione della forma di governo. Questo, invero, non
mi tocca gran fatto: quel che mi tocca è ch’egli si occupa
del mio articolo sul socialismo tedesco (Critica sociale, 16 gennaio
1892)182 per dirigere lo stesso rimbrotto ai socialisti tedeschi in
generale ed a me in particolare.
Ecco le sue stesse parole:
Quindi, ancora, si vede come e
perché diano in fallo que’ socialisti che con Federico
Engels parlano dell’imminente avvenimento del socialismo al potere
e non determinano quale. Engels arriva a fissare con ragioni
aritmetiche (e non da oggi a me il numero nella storia pare buona
ragione) l’anno non lontano in cui il partito socialista
diverrà maggioranza nel parlamento germanico. Bene
arrivato: e poi?
Prenderà il potere.
Meglio: ma quale?
sarà regio, repubblicano, o tornerà all’utopia di
Weitling, superata dal Manifesto comunista del gennaio 1848?
A noi le forme sono
indifferenti.
Davvero?... E non potete
parlar di potere che dove si concreta è forma. Potete dire
che la nuova sostanza, la nuova idea si creerà da se stessa
la forma, e la produrrà dal proprio fondo, ma non potete,
non dovete prescinderne.
A ciò rispondo che non accetto in nessun modo
l’interpretazione dell’on. Bovio.
Anzitutto io non dissi che «il partito socialista
diverrà maggioranza, e poi prenderà il potere»
Dissi espressamente, al contrario, che v’è il dieci contro
uno di probabilità che i nostri dirigenti, assai prima di
cotesto termine, impiegheranno contro noi la violenza; il che ci
trasferirebbe, dal terreno delle maggioranze, al terreno
rivoluzionario. Ma passiamo.
Prenderà il potere — ma
quale? Sarà regio, repubblicano, o tornerà
all’utopia di Weitling, superata dal Manifesto comunista del
gennaio 1848?
Qui debbo permettermi di far uso di una espressione dello stesso on.
Bovio. Convien essere davvero «uomo di chiostro» per
nutrire il menomo dubbio sulla natura di cotesto potere.
Tutta la Germania, governativa, aristocratica e borghese, rimprovera
agli amici nostri del Reichstag di essere repubblicani e
rivoluzionari.
Marx ed io, da quarant’anni, ripetemmo a sazietà che, per
noi, la repubblica democratica è la sola forma politica in
cui la lotta fra la classe operaia e la classe capitalista possa
dapprima universalizzarsi, indi toccare la sua mèta colla
vittoria decisiva del proletariato.
Certo l’on. Bovio non è così ingenuo da supporre che
un qualsivoglia imperatore di Germania piglierebbe i suoi ministri
nel partito socialista e che — quando pur volesse farlo
— accetterebbe le condizioni, implicanti la sua propria abdicazione,
senza le quali quei ministri non potrebbero contare sull’appoggio
del loro partito. Sebbene, a dir vero, il timore di vederci
«tornare all’utopia di Weitling» mi dia un’idea
piuttosto elevata dell’ingenuità del mio interlocutore.
Oppure l’on. Bovio, parlando di Weitling, vuole egli forse lasciare
intendere che i socialisti tedeschi non fanno maggior caso della
forma sociale, di quel che fanno, a suo avviso, della forma
politica? In questo caso il suo inganno non sarebbe minore. Egli
dovrebbe avere del socialismo tedesco conoscenza bastevole per non
ignorare che esso domanda la socializzazione di tutti i mezzi della
produzione. In qual modo si compirà questa rivoluzione
economica? Ciò dipenderà dalle circostanze nelle quali
il nostro partito prenderà il potere, dal momento e dal modo
in cui ciò avverrà. Come scrive lo stesso
Bovio, «la nuova sostanza, la nuova idea si creerà da
se stessa la forma, e la produrrà dal proprio fondo».
Infrattanto, se domani un accidente qualsiasi chiamasse il nostro
partito al potere, io so perfettamente quel che proporrei come
programma d’azione.
A noi «le forme sono indifferenti»?
Tengo a constatare che non io né alcun altro socialista
tedesco ha mai detto ciò, o cosa che vi somigli; ma soltanto
l’on. Bovio. E amerei sapere con qual diritto egli ci attribuisce
una «sciocchezza compagna.
Del resto, se l’on Bovio avesse attesa e letta la seconda prefazione
all’edizione italiana metà del mio articolo (Critica sociale,
10 febbraio), forse non si sarebbe data la pena di confondere i
socialisti rivoluzionari tedeschi con dei repubblicani monarchici
italiani.
Note
181 È la risposta alla critica di G. Bovio, filosofo borghese
e uomo politico italiano, nei confronti della prima parte
dell’articolo di Engels Il socialismo in Germania pubblicato su
Critica Sociale (n. 2 del 16 gennaio 1892) e tradotto in italiano
dal testo dell’Almanach de la Parti Ouvrier pour 1892. Il 2 gennaio
1892, F. Turati, direttore di Critica Sociale, spedì a Engels
l’articolo di Bovio pubblicato sulla Tribuna con la preghiera di
rispondergli. Engels scrisse la risposta in francese e il 6 febbraio
1892 la spedì allegandola alla lettera a Turati. La
traduzione italiana dell’articolo fatta da Turati fu approvata
dall’autore e pubblicata nel n. 4 di Critica Sociale del 16 febbraio
1892 sotto titolo Federico Engels a Giovanni Bovio. Ne apparve la
ristampa in molti giornali italiani.
182 Si tratta dell’opera di Engels Il socialismo in Germania.
Scritto il 6 febbraio 1892. Pubblicato su Critica sociale. n. 4, 16
febbraio 1892
F. Engels
Al lettore italiano
Prefazione dell’edizione italiana del «Manifesto del Partito
comunista del 1893183
La pubblicazione del Manifesto del Partito comunista coincidette,
quasi giorno per giorno, con le rivoluzioni di Milano e di Berlino
del 18 marzo 1848, che furono la levata di scudi delle due nazioni
situate nel centro l’una del Continente, l’altra del Mediterraneo;
due nazioni fino allora indebolite dalla divisione e dalla discordia
all’interno e passate, per conseguenza, sotto il dominio straniero.
Se l’Italia ha era soggetta all’imperatore d’Austria, la Germania
subiva il giogo non meno effettivo, benché indiretto, dello
zar di tutte le Russie. Le conseguenze del 18 marzo 1848 liberarono
l’Italia e la Germania da codesta vergogna. Se dal 1848 al 1871
queste due grandi nazioni sono state ricostituite, e, in qualche
modo, rese a se stesse, ciò avvenne, come diceva Karl Marx,
perché gli uomini che avevano abbattuto la rivoluzione del
1848 ne divennero tuttavia, loro malgrado, gli esecutori
testamentari184.
Dappertutto, quella rivoluzione fu l’opera della classe operaia; fu
questa che fece le barricate e pagò di persona.
Solo gli operai di Parigi, rovesciando il governo, avevano
l’intenzione ben determinata di rovesciare il regime della
borghesia. Ma, per quanto essi avessero coscienza dell’antagonismo
fatale che esisteva fra la loro propria classe e la borghesia,
né il progresso economico del paese, né lo sviluppo
intellettuale delle masse operaie francesi erano giunti al grado che
avrebbe reso possibile una ricostruzione sociale. I frutti della
rivoluzione furono dunque raccolti, in ultima analisi, dalla classe
capitalista. Negli altri paesi, in Italia, in Germania, in Austria,
in Ungheria, gli operai non fecero, dapprincipio, che portare al
potere la borghesia. Ma in nessun paese il regno della borghesia
è possibile senza l’indipendenza nazionale. La rivoluzione
del 1848 doveva dunque trarsi dietro l’unità e l’autonomia
delle nazioni che fino allora ne erano state prive: l’Italia,
l’Ungheria, la Germania. La Polonia seguirà a sua volta.
Se, dunque, la rivoluzione del 1848 non fu una rivoluzione
socialista, essa spianò la via, preparò il terreno a
quest’ultima. Collo slancio dato, in ogni paese, alla grande
industria, il regime borghese degli ultimi quarantacinque anni ha
creato dappertutto un proletariato numeroso, concentrato e forte; ha
allevato dunque, per usare l’espressione del Manifesto, i suoi
propri seppellitori. Senza l’autonomia e l’unità restituite a
ciascuna nazione europea, né l’unione internazionale del
proletariato, né la tranquilla e intelligente cooperazione di
queste nazioni verso fini comuni potrebbero compiersi. Immaginate,
se vi riesce, un’azione internazionale e comune degli operai
italiani, ungheresi, tedeschi, polacchi, russi, nelle condizioni
politiche precedenti il 1848!
Così le battaglie del 1848 non furono date invano; i
quarantacinque anni che ci separano da quella tappa rivoluzionaria
del pari non sono passati invano. I frutti vengono a maturazione, e
tutto ciò che io desidero è che la pubblicazione di
questa traduzione italiana del Manifesto sia di altrettanto buon
augurio per la vittoria del proletariato italiano, quanto la
pubblicazione dell’originale lo fu per la rivoluzione
internazionale.
Il Manifesto del Partito comunista rende piena giustizia all’azione
rivoluzionaria del capitalismo nel passato. La prima nazione
capitalista fu l’Italia. Il chiudersi del Medioevo feudale,
l’aprirsi dell’era capitalista moderna sono contrassegnati da
una figura gigantesca: quella di un italiano, Dante, al tempo
stesso l’ultimo poeta del Medioevo e il primo poeta moderno. Oggi,
come nel 1300, una nuova era storica si affaccia.
L’Italia ci darà essa il nuovo Dante, che segni l’ora della
nascita di questa era proletaria?
Note
183 La prefazione, a richiesta di Turati, fu scritta da Engels in
francese (la traduzione italiana di Turati) per l’edizione italiana
del Manifesto del Partito comunista (tradotto da P. Bettini)
pubblicato a Milano nel 1893 nelle edizioni della rivista Critica
Sociale.
Vi fu inclusa anche la prefazione di Engels alla IV edizione tedesca
del 1890 del Manifesto (autorizzata, spedita a Turati dietro sua
richiesta nel gennaio 1893).
184 L’idea che dopo il 1848 la reazione divenisse una specie di
esecutrice testamentaria della rivoluzione esaudendo le sue
rivendicazioni, trova espressione in tutta una serie di lavori di
Marx e, in particolare, nell’articolo L’erfurtovismo nel 1859.
Scritto il 1 febbraio 1893.
Pubblicato in « Carlo Marx e Federico Engels Il Manifesto del
Partito comunista», Milano, 1893
F. Engels
La futura rivoluzione italiana e il partito socialista185
La situazione in Italia, a mio parere, è questa.
La borghesia, giunta al potere durante e dopo l’emancipazione
nazionale, non seppe né volle completare la sua vittoria. Non
ha distrutti i residui della feudalità né ha
riorganizzato la produzione nazionale sul modello borghese moderno.
Incapace di far partecipare il paese ai relativi e temporanei
vantaggi del regime capitalista, essa gliene impose tutti i carichi,
tutti gli inconvenienti. Non contenta di ciò, perdette per
sempre, in ignobili bindolerie bancarie, quel che le restava di
rispettabilità e di credito.
Il popolo lavoratore — contadini, artigiani, operai agricoli e
industriali — si trova dunque schiacciato, da una parte da antichi
abusi, retaggio non solo dei tempi feudali, ma benanche
dell’antichità (mezzadria, latifondi del mezzo di, ove il
bestiame surroga l’uomo); dall’altra parte, dalla più vorace
fiscalità che mai sistema borghese abbia inventato. E ben il
caso di dire con Marx che «noi siamo afflitti, come tutto
l’occidente continentale europeo, e dallo sviluppo della produzione
capitalista, e ancora dalla mancanza di questo sviluppo. Oltre i
mali dell’epoca presente abbiamo a sopportare una lunga serie di
mali ereditari, derivanti dalla vegetazione continua dei modi
di produzione che hanno vissuto, colla conseguenza dei rapporti
politici e sociali anacronistici che essi producono. Abbiamo a
soffrire non solo dai vivi, ma anche dai morti. Le mort saisit le
vif »186.
Questa situazione spinge a una crisi. Dappertutto la massa
produttrice è in fermento: qua e là si solleva. Dove
ci condurrà questa crisi?
Evidentemente il partito socialista è troppo giovane e, per
effetto della situazione economica, troppo debole per sperare una
vittoria immediata del socialismo. Nel paese la popolazione agricola
prevale, e di gran lunga, sulla urbana; poche, nelle città,
le industrie sviluppate, scarso quindi il proletariato tipico; la
maggioranza è composta di artigiani, di piccoli bottegai, di
spostati, massa fluttuante fra la piccola borghesia e il
proletariato. È la piccola e media borghesia del medio evo in
decadenza e disintegrazione, la più parte proletari futuri,
non ancora proletari dell’oggi. E questa classe, sempre faccia a
faccia colla rovina economica ed ora spinta alla disperazione, che
sola potrà fornire e la massa dei combattenti e i capi di un
movimento rivoluzionario. Su questa via la seconderanno i contadini,
ai quali il loro stesso sparpagliamento sul territorio e il
loro analfabetismo vietano ogni iniziativa efficace, ma che
saranno ad ogni modo ausiliari potenti e indispensabili.
In caso di un successo più o meno pacifico, si avrà un
cangiamento di Ministero, coll’avvenimento al potere dei
repubblicani «convertiti»187, Cavallotti e compagnia; in
caso di rivoluzione, si avrà la repubblica borghese.
Di fronte a queste eventualità, quale sarà l’ufficio
del partito socialista?
Dal 1848 in poi, la tattica che ha portato i maggiori successi ai
socialisti fu quella del Manifesto comunista:
«I socialisti [nella citazione Engels sostituì
«comunisti» con «socialisti»], nei vari
stadi attraversati dalla lotta fra proletariato e borghesia,
difendono sempre l’interesse del movimento generale…… Lottano
bensì per raggiungere scopi immediati nell’interesse delle
classi lavoratrici, ma nel moto presente rappresentano eziandio
l’avvenire del movimento»188.
Essi pigliano dunque parte attiva in ciascuna delle fasi evolutive
della lotta delle due classi, senza mai perder di vista che queste
fasi non sono che altrettante tappe conducenti alla prima grande
meta: la conquista del potere politico da parte del proletariato,
come mezzo di riorganizzazione sociale. Il loro posto è fra i
combattenti per ogni vantaggio immediato da ottenere nell’interesse
della classe operaia; tutti questi vantaggi politici o sociali essi
li accettano, ma solo come acconti. Perciò essi considerano
ogni movimento rivoluzionario o progressivo come un passo nella
direzione del loro proprio cammino; è loro missione speciale
di spingere avanti gli altri partiti rivoluzionari, e, quando uno di
questi trionfasse, di salvaguardare gli interessi del proletariato.
Questa tattica, che mai non perde di vista il gran fine, risparmia
ai socialisti le disillusioni cui vanno soggetti infallibilmente gli
altri partiti meno chiaroveggenti, sia repubblicani, sia socialisti
sentimentali, che scambiano ciò che è una semplice
tappa per il termine finale della marcia in avanti.
Applichiamo tutto questo all’Italia.
La vittoria della piccola borghesia in disintegrazione e dei
contadini porterà dunque forse un Ministero di repubblicani
«convertiti». Ciò ci procurerà il
suffragio universale e una libertà di movimento (stampa,
riunione, associazione, abolizione dell’ammonizione, ecc.) assai
più considerevole: nuove armi che non sono da disdegnare.
Oppure ci porterà la repubblica borghese, cogli stessi nomini
e qualche mazziniano con essi. Ciò allargherebbe ancora e di
assai la nostra libertà e il nostro campo di azione, almeno
pel momento. E la repubblica borghese, ha detto Marx, è la
sola forma politica nella quale la lotta fra proletariato e
borghesia può avere soluzione189. Senza dire del contraccolpo
che ne risentirebbe l’Europa.
La vittoria del movimento rivoluzionario che si prepara non
potrà dunque che renderci più forti e collocarci in un
ambiente più favorevole. Commetteremmo il più grande
degli errori se, di fronte ad esso, vorremo astenerci, se nel nostro
contegno rispetto ai partiti «affini» vorremo limitarci
a una critica puramente negativa. Potrà arrivare il momento
nel quale fosse dover nostro di cooperare con essi in modo positivo.
Quale sarà questo momento?
Evidentemente non è a noi che spetta di preparare
direttamente un movimento che non è quello precisamente della
classe che noi rappresentiamo. Se i repubblicani e i radicali
credono scoccata l’ora di muoversi, diano essi libero sfogo alla
loro impetuosità. Quanto a noi, fummo troppo spesso ingannati
dalle grandi promesse di questi signori, per lasciarvicisi prendere
un’altra volta. Né le loro proclamazioni né le loro
cospirazioni dovranno menomamente toccarci. Se noi siamo tenuti a
sostenere ogni movimento realmente popolare, siamo tenuti ugualmente
a non sacrificare indarno il nucleo appena formato del nostro
partito proletario, e a non lasciar decimare il proletariato in
sterili sommosse locali.
Se al contrario il movimento è davvero nazionale, i nostri
uomini non staranno nascosti, non vi sarà neppure bisogno di
lanciar loro una parola d’ordine. Ma allora dovrà ben essere
inteso, e noi dovremmo proclamarlo altamente, che noi partecipiamo
come partito indipendente, alleato pel momento ai radicali e
repubblicani, ma interamente distinto da essi; che non ci facciamo
alcuna illusione sul risultato della lotta in caso di vittoria; che
questo risultato, lungi dal renderci soddisfatti, non sarà
per noi che una tappa guadagnata, nuova base d’operazione per
conquiste ulteriori; che il dì stesso della vittoria le
nostre strade si divideranno; che da quel giorno, di fronte al nuovo
governo, noi formeremo la nuova opposizione, opposizione non
già reazionaria, ma progressista, opposizione d’estrema
sinistra che spingerà a nuove conquiste al di là dei
terreni guadagnati.
Dopo la vittoria comune, potrebbe esserci offerto qualche seggio nel
nuovo governo, ma sempre nella minoranza. Questo è il
pericolo più grande.
Dopo febbraio 1848 i democratici socialisti francesi (della Reforme,
Ledru-Rollin, Louis Blanc, Flocon, ecc.) commisero l’errore di
accettare cosiffatte cariche190.
Minoranza nel governo, essi condivisero volontariamente la
responsabilità di tutte le infamie e i tradimenti di fronte
alla classe operaia, commessi dalla maggioranza di repubblicani
puri; mentre la presenza loro nel governo paralizzava completamente
l’azione rivoluzionaria della classe lavoratrice ch’essi
pretendevano rappresentare.
In tutto questo, io non do che la mia opinione personale,
poiché me l’avete domandata, e ancora con la maggior
diffidenza. Quanto alla tattica generale, ne ho sperimentato
l’efficacia durante tutta la mia vita; non una volta essa mi ha
fallito. Ma quanto alla sua applicazione alle condizioni attuali in
Italia, è altra cosa; ciò deve decidersi sul posto e
da coloro che si trovano in mezzo agli avvenimenti.
Note
185 L’articolo fu scritto da Engels in risposta all’invito, rivolto
da Anna Kuliscioff e Filippo Turati nella lettera del 19 gennaio
1894, a pronunciarsi sulla tattica del partito in relazione alla
crisi rivoluzionaria che allora stava maturando nel paese.
L’articolo fu tradotto da Turati e pubblicato su Critica Sociale (10
febbraio 1894,
n. 3) quale lettera di Engels a Turati sotto il titolo redazionale
La futura rivoluzione italiana e il partito socialista. Nel tradurre
l’articolo Turati si allontanò in alcuni punti
dall’originale.
L’articolo fu pure stampato sul tedesco Sozialdemokrat (n. 24, 12
luglio 1894) sotto il titolo Friedrich Engels sulla situazione in
Italia.
La lettera si attiene al manoscritto francese riprodotto nel 1958 a
Milano negli Annali Feltrinelli.
186 Citazione dalla Prefazione di Marx alla prima edizione del
1° volume del Capitale
187 Repubblicani «convertiti» venivano chiamati i
radicali italiani di F. Cavallotti. Esprimendo gli interessi della
piccola e media borghesia, i radicali si attenevano a posizioni
democratiche, venendo, talvolta, ai compromessi coi socialisti.
188 Engels cita i capitoli II e IV del Manifesto del Partito
comunista.
189 L’autore cita il primo capitolo de il 18 brumaio di Luigi
Bonaparte di Marx.
190 Si tratta del governo provvisorio della Repubblica francese
istituito il 24 febbraio 1848, in cui la maggior parte delle cariche
fu in mano dei repubblicani borghesi moderati. Della compagine
governativa facevano parte tre rappresentanti del partito sorto
intorno al giornale Reforme (democratici piccolo-borghesi: Le dru-
Rollin e Flocon; socialista piccolo-borghese Louis Blanc)
nonché Albert, meccanico, membro di società
rivoluzionarie clandestine. I «ministri-socialisti»,
senza parlare poi dei «ministri— democratici», come si
seppe ben presto, altro non furono che una misera appendice del
governo borghese.
Scritto il 26 gennaio 1894.
Pubblicato su Critica Sociale n. 3 , 1° febbraio 1894
F. Engels
Al III Congresso del Partito socialista dei lavoratori italiani
(lettera a Della Valle)191
Eastbourne, 6 settembre
Caro cittadino,
…….. Se non posso assistere in persona al vostro Congresso, vi invio
ad ogni modo i miei migliori auguri per il successo dei vostri
lavori nell’interesse del socialismo internazionale.
Sui socialisti italiani è piombata una inaudita legge
eccezionale192 che costerà loro senza dubbio vari anni di
sofferenze severe. Ebbene! Altri dovettero passare per simili prove.
Caduta la Comune di Parigi, la reazione borghese
in Francia si ubriacò nel sangue proletario; il risultato lo
ave te sotto gli occhi: la Camera francese ha 50 deputati
socialisti.
In Germania Bismarck mise i socialisti fuori della legge per 12
lunghi anni; essi finirono col calpestare la legge eccezionale, per
scacciare Bismarck dal potere; ed eccoli divenuti il più
forte dei partiti dell’Impero.
Ciò che gli operai francesi e tedeschi hanno fatto, faranno
del pari gli operai italiani. Un Crispi non riuscirà certo
dove non riuscirono il Thiers, il Mac-Mahon, il Bismarck. La
vittoria è vostra.
Viva il socialismo rivoluzionario internazionale! Fraterni saluti
Friedrich Engels
Note
191 Questo messaggio di saluto fu la risposta di Engels all’invito
(speditogli da Carlo Della Valle, con la lettera del 30 agosto 1894)
di partecipare al lI Congresso del Partito socialista dei lavoratori
italiani. Il congresso, che avrebbe dovuto tenersi il 7-9 settembre
1894 a Imola, non ebbe luogo in quanto vietato dalla polizia.
Al messaggio di Engels, cosi come ai messaggi pervenuti all’in
dirizzo del congresso dagli altri esponenti del movimento socialista
(P. Lafargue, P. Inglesias, ecc.) fu data lettura alla seduta del CC
del partito il 10 settembre 1894. Il messaggio di Engels fu poi
pubblicato sul n. 38 della Lotta di classe del 22-23 settembre 1894.
Il Partito socialista dei lavoratori italiani (la denominazione
risale al 1893) fu fondato nel 1892 al congresso di Genova. Dal 1895
si chiamò Partito socialista italiano. Separatosi recisamente
dagli anarchici, il partito, nonostante alcuni errori di carattere
riformista, negli anni ‘90 si fece guida attiva del movimento di
massa della classe operaia.
192 Engels allude alla legge sulle misure d’urgenza per la sicurezza
sociale, approvata il 14 luglio 1894 dal parlamento italiano. La
legge, emanata quale pseudomisura esclusiva contro gli anarchici, in
verità fu sfruttata dal governo reazionario Crispi per
soffocare il movimento operaio e la crescente influenza dei
socialisti nella vita sociale del paese. In base ad essa fu messo
fuori legge il Partito socialista dei lavoratori italiani, furono
chiuse organizzazioni operaie, redazioni di giornali e riviste; un
carattere di massa assunsero gli arresti, le perquisizioni e i
procedimenti giudiziari. Però, nonostante le repressioni, i
socialisti italiani non cessarono la lotta e nel gennaio 1895
convocarono a Parma il loro I Congresso.
Pubblicato sulla Lotta di classe n. 38, 22-23 settembre 1894
F. Engels
Saluto ai socialisti siciliani193
Salute e lunga vita al vostro giornale, organo dei lavoratori
siciliani, salute al vostro partito che si riorganizza!
La natura ha fatto della Sicilia un paradiso terrestre; ragione
sufficiente questa perché la società umana, divisa in
classi opposte, ne facesse un inferno.
L’antichità greco-romana ha dotato la Sicilia della
schiavitù per far produrre le grandi proprietà e le
miniere.
Il medioevo alla schiavitù ha sostituito il servaggio e la
feudalità.
L’epoca moderna, benché pretendesse di aver spezzate queste
catene, non ha fatto che cambiarne la forma. Non soltanto essa ha
conservato in realtà queste antiche servitù, ma vi ha
aggiunta una nuova forma di sfruttamento e la più crudele, la
più spietata di tutte: lo sfruttamento capitalista.
Gli antichi poeti della Sicilia, Teocrito e Mosco, hanno cantata la
vita idillica degli schiavi- pastori loro contemporanei. Erano,
senza dubbio, sogni poetici. Ma vi è un poeta moderno
così audace da cantare la vita idillica dei
«liberi» lavoratori della Sicilia d’oggi? I contadini di
quest’isola non sarebbero felici se potessero lavorare i loro campi
financo con le dure condizioni della mezzadria romana? Ecco sin dove
ci ha condotti il sistema capitalista: gli uomini liberi rimpiangono
la schiavitù del passato!
Ma ch’essi si rassicurino. L’aurora d’una nuova e migliore
società sorge luminosa per le classi oppresse di tutti i
paesi. E dappertutto gli oppressi serrano le file; dappertutto essi
s’intendono a traverso le frontiere, a traverso le diverse lingue;
l’esercito deI proletariato internazionale si forma, e il nuovo
secolo, che sta per cominciare, lo guiderà alla vittoria!
Note
193 Il messaggio fu scritto da Engels in risposta alla richiesta
rivoltagli nella lettera del 18 settembre 1894 da
F. Colnago uno degli esponenti del Partito socialista siciliano.
Il messaggio fu pubblicato solo il 30 giugno 1895, causa, forse, la
censura, nel settimanale Riscossa, supplemento di Giustizia Sociale.
Dopo la sua morte, la lettera di Engels fu ristampata da Critica
Sociale (n. 16, 16 agosto 1895) col titolo redazionale Parola
d’addio all’Italia, nonché dal tedesco Sächsisches
Volksblatt (Giornale popolare sassone,
n. 95, 13 agosto 1895) sotto il titolo L’ultimo messaggio di Engels
agli operai.
Scritto il 26 settembre 1894.
Pubblicato su La Riscossa del 20 giugno 1895 e su Critica Sociale n.
16, 16 agosto 1895
F. Engels
Il socialismo internazionale e il socialismo italiano
(lettera alla redazione di «Critica sociale»)194
Nel momento in cui il giovane partito socialista italiano subisce i
colpi della reazione governativa la più. violenta, è
dovere di noi, socialisti d’oltr’alpe, procurare di venirgli in
aiuto. Contro gli scioglimenti di sezioni e di società noi
nulla possiamo. Ma forse la nostra testimonianza non sarà
inutile del tutto, di fronte alle calunnie odiose e sfacciate d’una
stampa ufficiosa o corrotta.
Questa stampa rimprovera ai socialisti italiani di avere, a disegno,
simulato una propaganda marxista [Nel manoscritto qui segue: a
imitazione dei socialisti tedeschi], per celare sotto questa
maschera una politica affatto diversa, una politica che proclama la
«lotta di classe» (cosa che «ci ricondurrebbe al
medio evo») e che ha per iscopo la formazione d’un partito
politico aspirante alla «conquista del potere dello
Stato»; laddove i partiti socialisti degli altri paesi, e i
tedeschi in particolare, «non si occupano di politica, non
attaccano la forma di governo in vigore», non sono infine che
innocui buoni diavoli, dei quali è lecito farsi beffe!
Se con ciò ci si fa beffe di qualche cosa, è del
pubblico italiano. Non si oserebbe sballargli simili asinerie se non
si supponesse in esso una ignoranza completa di ciò che
avviene al di fuori. Se i socialisti italiani proclamano la
«lotta delle classi» come il fatto dominante della
società nella quale viviamo, se essi si costituiscono in
«partito politico aspirante alla conquista dei pubblici poteri
e alla direzione degli affari nazionali», essi fanno della
propaganda marxista nel senso letterale della parola, essi seguono
esattamente la linea indicata nel Manifesto del Partito comunista
pubblicato da Marx e da me nel 1848; essi fanno precisamente quel
che fanno i partiti socialisti di Francia, del Belgio, della
Svizzera [Nel manoscritto la Svizzera non si menziona], di Spagna e
soprattutto di Germania. Non c’è uno solo, fra tutti questi
partiti, che non aspiri alla conquista dei poteri pubblici,
così come gli altri partiti conservatori, liberali,
repubblicani, ecc. ecc.
Quanto alla «lotta delle classi», essa ci riconduce non
solo al «medio evo», ma benanco ai conflitti intestini
delle repubbliche dell’antichità: di Atene, di Sparta, di
Roma. Tutti quei conflitti erano lotte di classe. Dalla dissoluzione
delle comunità primitive in poi, la lotta fra le diverse
classi, onde si compose ogni società, fu sempre la gran forza
motrice del progresso storico. Questa lotta non sparirà se
non con queste classi medesime, cioè a dire dopo la vittoria
del socialismo. Fino a quel giorno, le classi opposte, il
proletariato, la borghesia, la nobiltà terriera [Nel
manoscritto mancano le parole «il proletariato, la borghesia,
la nobiltà terriera], continueranno a combattersi fra loro,
checché ne dica la stampa ufficiosa italiana.
Del resto, l’Italia traversa in questo momento la medesima prova che
traversò la Germania [Nel manoscritto sta: «la Germania
socialista»] durante i dodici anni della legislazione
eccezionale. La Germania ha vinto Bismarck; l’Italia socialista
avrà ragione di Crispi [Nel manoscritto invece sta scritto:
«I tedeschi hanno vinto Bismarck, gl’italiani avranno ragione
di Crispi»].
Note
194 La lettera fu scritta da Engels in relazione alla richiesta
della direzione del Partito socialista dei lavoratori italiani
(esposta nella lettera di Turati del 24 ottobre 1894) di intervenire
su Critica Sociale allo scopo di smantellare le calunnie
antisocialiste della stampa borghese a giustificazione delle
repressioni del governo. La lettera fu pubblicata su Critica Sociale
(n. 21, 10 novembre 1894) sotto il titolo redazionale Socialismo
internazionale e quello italiano, poi ristampata in tedesco
sull’Arbeiter Zeitung (n. 89, 6 novembre 1894) intitolata Espedienti
da poco e calunnia, e sul Vorwärts (n. 263, 10 novembre 1894)
nell’articolo Italia.
Scritto 27 ottobre 1894.
Pubblicato su Critica Sociale n. 21, 1 novembre 1894
DALL’EPISTOLARIO
Engels a Marx
9 maggio 1851
…… Ieri sono stati qui due commercianti di Lecco, uno dei quali
è un vecchio conoscente del 1841. Gli austriaci conciano
proprio bene la Lombardia. Dopo tutte le contribuzioni, i ripetuti
prestiti forzosi, le tasse riscosse sempre tre volte di seguito
all’anno, si ristabilisce finalmente una certa regolarità. I
medi commercianti di Lecco devono pagare annualmente dalle 10.000
alle 24.000 svanziche (350-750 sterline) di imposte dirette
regolari, tutto hard cash [in contanti] Poiché con l’anno
prossimo dovranno essere introdotte anche là le banconote
austriache, il governo vuole trarne fuori in precedenza ogni moneta
metallica. In ciò l’alta nobiltà, i gran ricchi e i
contadini vengono relativamente risparmiati parecchio, il medio ceto
liberale delle città deve pagare tutto. Vedi la politica di
questi messeri. Si comprende che con questa pressione — a Lecco
hanno firmato e hanno mandato al governo una dichiarazione che non
pagheranno più, che per conto loro si può anche
procedere ai sequestri, ma loro, se non cessasse questo sistema,
emigrerebbero tutti, e parecchi hanno già subito sequestri, —
aspettino Mazzini e dichiarino che deve scoppiar qualcosa
perché non ce la fanno più, perchè rovinati
siamo e rovinati saremo in ogni caso. Questo spiega un po’ della
smania che hanno gli italiani di scatenarsi. Questi tipi qui sono
tutti repubblicani, e a dire il vero tutti rispettabili borghesi;
uno è il primo commerciante di Lecco e paga 2.000 svanziche
al mese di tasse. Voleva sapere senz’altro quando scoppierà
la rivoluzione; a Lecco — l’unico posto dove io sono popolare —
avevano deciso tra di loro che io dovessi saper tutto a puntino...
Marx a Joseph Weydemeyer
11 settembre 1851
…. .Anche il signor Mazzini ha dovuto sperimentare come questo sia
il tempo dello scioglimento dei governi provvisori
«democratici». La minoranza è uscita dal Comitato
italiano195 dopo lotte accanite. Questi sarebbero i più
progrediti.
Ritengo che la politica di Mazzini sia fondamentalmente sbagliata.
Col suo insistere affinché l’Italia si metta ora in
movimento, egli fa il giuoco dell’Austria. D’altra parte
trascura di rivolgersi a quella parte dell’Italia che è
oppressa da secoli, ai contadini, e in tal modo prepara nuove
riserve alla controrivoluzione. Il signor Mazzini conosce soltanto
le città con la loro nobiltà liberale e il loro
citoyens éclaires [cittadini illuminati] Naturalmente i
bisogni materiali delle popolazioni agricole italiane — dissanguate
e sistematicamente snervate e incretinite come quelle irlandesi —
sono troppo al di sotto del firmamento retorico dei suoi manifesti
cosmopolitico-neocattolico-idelogici. Certo ci vorrebbe del coraggio
per dichiarare ai borghesi e alla nobiltà che il primo passo,
per fare l’indipendenza d’Italia, è la completa emancipazione
dei contadini e la trasformazione del loro sistema di mezzadria in
libera proprietà borghese. A quanto pare per Mazzini un
prestito di 10 milioni di franchi è più rivoluzionario
che conquistare 10 milioni di uomini. Io temo che il governo
austriaco, in caso di estrema necessità, cambierà esso
stesso i rapporti di proprietà in Italia e farà
riforme di tipo «galiziano»196…….
Note
195 Si veda la nota 36.
Marx a Engels
13 settembre 1851
…… Anche il Comitato italiano si è scisso. Una notevole
minoranza è uscita. Mazzini racconta con dolore questo
avvenimento nella Voix du Peuple [Marx intende dire probabilmente
Voix du Proscrit]. I motivi principali dovrebbero essere: d’abord
Dio. Ils ne veulent pas de Dieu. Ensuite, et c’est plus grave, ils
reprochent à Maître Mazzini de travailler dans
l’intérêt autrichien en prêchant l’insurrection,
cioè en la précipitant. Enfin: ils insistent sur un
appel direct aux intérêts materiels des paysans
italiens, ce qui ne peut se faire sans attaquer de l’autre
côte’ les intérêts matériels des bourgeois
et de la noblesse libérale, qui forme la grande phalange
mazzinienne [Prima di tutto Dio. Essi non vogliono Dio. Inoltre, ed
è ‘a cosa più grave, rimproverano al maestro Mazzini
di lavorare nell’interesse degli austriaci predicando
l’insurrezione, cioè facendola precipitare. Infine: essi
insistono su di un appello diretto agli interessi materiali dei
contadini italiani, ciò che non può avvenire senza,
d’altro canto, intaccare gli interessi materiali dei borghesi e
della nobiltà liberale, che formano la grande falange
mazziniana.]. Quest’ultima cosa è di enorme importanza. Se
Mazzini, o chiunque si metta alla testa dell’agitazione italiana,
non trasforma questa volta franchement e immediatement i contadini
da métaires in liberi proprietari — la situazione dei
contadini italiani è spaventosa, ora ho sgobbato a fondo su
questa merda — allora il governo austriaco in caso di rivoluzione
farà ricorso a mezzi galiziani. Ha già minacciato nel
Lloyd una «completa trasformazione della
proprietà» e «l’annientamento della irrequieta
nobiltà». Se a Mazzini non si aprono ancora gli occhi,
è un bestione. Senza dubbio c’entrano gli interessi
dell’agitazione. Da dove prendere i 10 milioni di franchi, se egli
si mette contro i borghesi? Come conservare la nobiltà ai
suoi servizi, se le deve annunziare che si tratta anzitutto della
sua espropriazione? Queste sono difficoltà per siffatti
demagoghi della vecchia scuola.
Engels a Marx
23 settembre 1851
…. .La scissione tra gli italiani è stupenda. È una
cosa eccellente che a quello scaltrito fanatico di Mazzini
finalmente gli interessi materiali si mettano un buona volta di
traverso e proprio nel suo stesso paese. La rivoluzione italiana
è stata un bene per il fatto che ha trascinato anche
là nel movimento le classi più tagliate fuori e che
ora, di fronte alla vecchia emigrazione mazziniana, si forma un
nuovo partito più radicale che soppianta a poco a poco il
signor Mazzini. Anche dalle notizie dei giornali sembra che il
mazzinismo cada in discredito perfino presso gente che non è
né costituzionale né reazionaria, e che i resti della
libertà di stampa piemontese vengano usati da questa per
attacchi contro Mazzini, la cui porte [portata] il governo non
comprende. Per il rimanente la rivoluzione italiana supera di gran
lunga quella tedesca per la povertà delle idee e l’abbondanza
delle parole. È una fortuna che il paese dove invece di
proletari ci sono quasi soltanto lazzaroni, abbia almeno dei
métayers. Anche gli altri motivi dei dissidenti italiani sono
spassosi, e in fin dei conti è molto bello che anche l’unica
emigrazione finora almeno ufficialmente non scissa, ora si accapigli
……
Note
196 Marx allude alla politica del governo austriaco volta ad
approfittare delle contraddizioni di classe e nazionali tra i
contadini della Galizia e la nobiltà polacca per reprimere il
movimento di liberazione della Polonia. Nell’inverno 1846, quando si
fece un tentativo d’insurrezione per la liberazione della Polonia,
scoppiò contemporaneamente l’insurrezione in Galizia. Allora
il governo austriaco riuscì a indirizzare, in parte, la
rivolta dei contadini galiziani contro i rivoltosi polacchi.
Repressa la rivolta di Cracovia, anche quella galiziana fu
crudelmente schiacciata. Cercando di assicurarsi l’appoggio dei
contadini nella lotta contro il movimento di liberazione nazionale
polacco pure per il periodo del 1848, il governo austriaco
dichiarò nell’estate dello stesso anno l’abolizione in
Galizia dei servigi obbligatori gratuiti e di alcuni altri obblighi
dei contadini. Però questa fu una mezza misura che
lasciò intatta la proprietà fondiaria e scaricò
sulle spalle dei contadini un enorme riscatto che si protrasse per
decine d’anni.
Engels a Marx
Caro Marx,
11 febbraio 1853
ecco dunque che abbiamo la grande affaire dei signori Kossuth e
Mazzini197. Le notizie che abbiamo qui sono molto incomplete, ma,
secondo la mia opinione, domani o lunedì sapremo che tutto
è finito. Milano è un bellissimo terreno per le lotte
di strada: poche vie dritte, e senza collegamento tra loro, quasi
dappertutto vicoli stretti e in curva con alte e massicce case di
pietra, ognuna delle quali è una fortezza a sé sovente
coi muri spessi da tre a cinque piedi e più; a prenderle
d’assalto non c’è da pensare, le finestre del rez
de_chaussée [pian terreno] sono (quasi sempre) fornite
d’inferriate, come qua e là a Colonia. Ma a che serve tutto
ciò, non hanno nessuna probabilità di riuscita. Dopo
il 1849 Radetzky ha fatto risistemare tutte le fortificazioni della
vecchia cittadella, e se i lavori sono finiti, e per questo
c’è stato tempo a sufficienza, Milano appartiene agli
austriaci finché questi possiedono la cittadella,
imprendibile per gli insorti senza una rivolta militare. Il fatto
che non ci siano più notizie da Bellinzona, da dove i
ticinesi hanno sempre mandato per il mondo una massa di bugie a
favore di ogni movimento italiano198 è molto esplicito contro
il diffondersi dell’insurrezione nei dintorni.
Io ritengo che tutta questa storia sia molto mal à propos,
perché il suo unico punto d’appoggio, oltre la tirannia degli
austriaci in general, è in fondo soltanto quella merda del
Montenegro199 dove après tout, anche l’«ordine»
turco dovrà vincere sull’omerica barbarie cernogorica.
Sicché questi grandi dittatori si lasciano trascinare proprio
alla Seiler da volgari messinscene diplomatiche, e giurano
sull’importanza storica della «questione orientale».
È chiaro che in questa faccenda contano su un qualche
windfall [aiuto inaspettato] da parte di Luigi Napoleone, ma costui,
a meno che tutto non riesca contro l’aspettativa, li lascerà
bellamente nei pasticci e li tratterà da anarchici. Inoltre
è presumibile che, come in
tutte le insurrezioni preorganizzate, il momento dello scoppio sia
stato stabilito in base ai più insignificanti incidenti
locali piuttosto che in base ad avvenimenti decisivi.
Pare almeno che Mazzini sia sul posto; non era neanche possibile
altrimenti. Per quanto stupido sia il suo ampolloso proclama,
tuttavia può aver qualche effetto tra gli ampollosi italiani.
Guarda invece Kossuth, l’uomo dall’illimitata attività! Celui
là est absolument mort, après cela [dopo di ciò
sarà uomo morto] Non si sbandierano impunemente simili
ridicole pretese nell’anno di grazia 1853. Per quanto assurda sembri
qui l’astratta furia insurrezionale di Mazzini, però fa
ancora una brillante figura al confronto del bravo Kossuth, che
riprende la sua parte di Vidin200 e decreta da un sicuro rifugio la
liberazione della patria dal niente, senza niente per niente. Questo
tipo è veramente un lâche e un misérable.
Ora staremo a vedere che fanno i contadini italiani: anche in caso
di incredibili e inauditi colpi di fortuna, il padre Mazzini, i suoi
borghesi e i suoi nobili potrebbero trovarsi in una situazione molto
spiacevole; e se gli austriaci trovano l’occasione per scatenare
questi contadini contro la nobiltà, lo fanno di certo.
Gli austriaci devono avere ancora 120.000 uomini in Italia; non vedo
come si possa insorgere contro questa forza senza una sollevazione
tra le truppe stesse. E a una sollevazione degli honved201 in
Italia, anche su comando di Kossuth, non ci credo; per questo ci
vogliono davvero avvenimenti maggiori, e, con l’aiuto dei tre anni
di disciplina e di calma, gli austriaci hanno ammorbidito a forza di
bastonate anche qualche duro sedere di honved.
Tutta questa storia mi sembra importante solo come sintomo; comincia
la reazione contro lo stato d’oppressione che risale al 1849, e
naturalmente nella parte più vulnerabile. Qui la cosa fa
molto effetto, e i filistei cominciano ad esser d’accordo sul fatto
che quest’anno non passerà tranquillo. Ora un cattivo
raccolto di cereali e cotone, scarsità di denaro con gli
annessi e connessi, e nous verrons ! [vedremo!] ….
Note
197 Si veda la nota 38.
198 Il cantone svizzero del Ticino nel XIX sec, fu uno dei centri
dell’emigrazione italiana. Nei capoluoghi del cantone c’erano delle
tipografie nelle quali i partigiani della liberazione nazionale
dell’Italia stampavano il loro materiale propagandistico.
199 Si tratta del conflitto tra la Turchia e il Montenegro (ex paese
vassallo), che cercava di ottenere l’autonomia completa. All’inizio
del 1853 l’esercito turco irruppe nel paese, ma la posizione della
Russia e le pressioni da parte dell’Austria costrinsero il sultano
alla ritirata.
Marx a Engels
23 febbraio 1853
….. .Per quanto questa storia di Milano sia miserevole come
conclusione dell’eterno cospirare di Mazzini, e per quanto io creda
che lui personalmente ne subisca un danno, tuttavia mi sembra sicuro
che nell’insieme l’avvenimento sia favorevole al movimento
rivoluzionario. Soprattutto per la maniera brutale con cui gli
austriaci sfruttano [? in questo punto la carta è
danneggiata.]. Se Radetzky avesse imitato il modo di procedere di
Strassoldo, avrebbe lodato la cittadinanza di Milano per il suo
«comportamento esemplare», stigmatizzato tutta la
faccenda come il miserevole colpo di mano di alcuni miscreants
[mascalzoni]e allentano in apparenza le briglie come segno della sua
fiducia; e così il partito rivoluzionario era squalificato
davanti a cani e porci. Ma così, introducendo un perfetto
sistema di saccheggio, fa dell’Italia quel «cratere
rivoluzionario» che Mazzini non è riuscito a evocare
con le sue declamazioni…..
Note
200 Dopo la sconfitta dell’esercito nazionale ungherese, Kossuth
passò nel territorio dipendente dalla Turchia e fu internato
nella fortezza di Vidin (Bulgaria). Egli rivolse agli insorti
riparatisi tra le mura della fortezza Koma-rom l’appello a
continuare la lotta di liberazione promettendo loro il più
presto possibile l’appoggio dell’Inghilterra. Però, data
l’inutilità di una ulteriore resistenza, gli insorti
accettarono le condizioni austriache di capitolazione.
201 Honved (in ungherese: «difensore della patria»),
così durante la rivoluzione borghese e la lotta di
liberazione nazionale degli anni 1848-1849 si chiamavano i soldati
dell’esercito ungherese, costituito dal governo nell’estate del
1848. Qui si tratta dei soldati ungheresi nelle file dell’esercito
austriaco.
Marx a Engels
8 ottobre 1858 [Nel manoscritto la data è stata apposta da
Engels]
3) Il nuovo manifesto del signor Mazzini202 Sempre il vecchio
somaro. Soltanto ora si degna di non considerare più il
sistema del salario come la forma ultima ed assoluta. Non vi
è cosa più ridicola della contraddizione esistente nel
fatto che lui da una parte dice che in Italia il partito
rivoluzionario è organizzato secondo le sue vedute, e
dall’altra dimostra a modo «suo» che non solo la nazione
lo segue compatta, ma anche che esistono tutte le premesse materiali
del successo, e finalmente non spiega perché l’Italia,
nonostante «Dio e Popolo» e Mazzini into the bargain
[per soprammercato ] se ne resti tranquilla.
Note
202 Marx spedì a Engels una copia del Pensiero ed Azione
italiano, edito a Londra, del 14 settembre 1858 con il testo
stampato del Manifesto di Mazzini. Le osservazioni critiche
riguardanti il Manifesto, furono da Marx espresse nell’articolo Il
nuovo manifesto di Mazzini.
Marx a Ferdiand Lassalle
4 febbraio 1859
…..Ad vocem bellum [riguardo alla guerra] qui è opinione
generale che la guerra in Italia sia inevitabile. Tanto è
certo: il signor Emanuele fa sul serio, e il signor Bonaparte faceva
sul serio. Ciò che condiziona quest’ultimo è 1. la
paura dei pugnali italiani. Dalla morte di Orsini egli ha continuato
a truffare segretamente i carbonari203 e Plon-Plon, il
marito di
«Clotilde», faceva la parte del mediatore. 2. Una crisi
finanziaria estremamente paurosa: in realtà è
impossibile nutrire più a lungo l’esercito francese «in
tempi di pace» ; la Lombardia è opulenta. Inoltre la
guerra permetterebbe di nuovo anche «prestiti di
guerra». Qualsiasi prestito di altro genere è
«impossibile». 3. Negli ultimi due anni Bonaparte ha
quotidianamente perduto prestigio presso tutti i partiti in Francia,
e le sue transactions [trattative] diplomatiche sono egualmente
state una serie di failures [insuccessi] Dunque bisogna che accada
qualcosa per ristabilire il prestigio. Persino nelle campagne il
malcontento è grande a causa dei prezzi rovinosamente bassi
dei cereali, e il signor Bonaparte ha tentato inutilmente di alzare
artificiosamente il prezzo del grano con i suoi decreti sui
magazzini di cereali204. 4. La Russia incalza il parvenu delle
Tuileries. Col movimento panslavista in Boemia, Moravia, Galizia,
Ungheria meridionale, settentrionale e orientale, Illiria, ecc. e
con una guerra in Italia, la Russia sarebbe praticamente certa di
rompere la resistenza che l’Austria continua ad opporle. (La Russia
vede con spavento l’approssimarsi di una rivoluzione agraria
all’interno, e una guerra esterna sarebbe forse benvenuta per il
governo come diversivo, a parte ogni altro scopo diplomatico.) 5. lI
signor Plon-Plon, figlio dell’ex re di Vestfalia [Girolamo
Bonaparte] e la sua cricca (una ciurmaglia di pseudo rivoluzionari
ungheresi, polacchi, italiani con alla testa Girardin) fanno di
tutto per provocare la decisione in questa faccenda. 6. La guerra in
Italia con l’Austria sarebbe l’unica guerra nella quale
l’Inghilterra, che non può impegnarsi direttamente a favore
del papa, ecc. e contro la cosiddetta libertà, rimarrebbe
neutrale, almeno agli inizi. La Russia a sua volta terrebbe la
Prussia in scacco nel caso in cui quest’ultima — ciò che io
non credo — avesse voglia di immischiarsi fin dagli inizi della
lotta.
D’altra parte è assolutamente certo che il signor Luigi
Bonaparte ha una paura del diavolo di una guerra sul serio.
Quell’uomo è sempre pieno di dubbi e, come tutti i giocatori,
nient’affatto risoluto. Egli si è sempre strascicato fino al
Rubicone, ma la gente che gli stava dietro ha sempre dovuto
gettarcelo dentro. A Boulogne, Strasburgo, nel dicembre 1851205 egli
fu sempre costretto ad attuare finalmente davvero i propri piani.
La straordinaria freddezza con cui il suo progetto è stato
accolto in Francia, non è naturalmente incoraggiante. Le
masse si mostrano indifferenti. Al contrario hanno protestato
direttamente ed energicamente: l’alta finanza, industria e
commercio; il partito clericale; infine l’alta generalità
(Pélissier e Canrobert per es.). In effetti le prospettive
militari non sono brillanti. Accettiamo pure le fanfaronate del
Constitutionnel come moneta sonante. Se la Francia riesce a mettere
insieme, tutto sommato, 700.000 uomini, di essi sono tutt’al
più efficienti 580.000. Se ne devono togliere 50.000 per
Algeri; 49.000 per la gendarmeria, ecc.; 100.000 (minimo) per la
sorveglianza delle città (Parigi, ecc.) e delle
fortificazioni in Francia; 181.000 almeno per l’esercito di
ricognizione al confine svizzero, tedesco, belga. Ne rimangono
200.000 e questa non è davvero an averwhelming force [una
potenza travolgente] anche se ci aggiungi quel poco di esercito
piemontese, contro gli austriaci nelle loro solide posizioni sul
Mincio e sull’Adige.
Comunque sia, se il signor Bonaparte si tira indietro in questo
momento, è rovinato davanti alla massa dell’esercito
francese; e questo potrebbe indurlo a risolversi ad andare avanti...
Note
203 Si allude al timore di Luigi Napoleone per una possibile
vendetta carbonara per la condanna a morte inflitta all’attentatore
Orsini.
204 Si tratta dei decreti di Luigi Napoleone sul regolamento dei
prezzi del grano e sull’istituzione dei magazzini sociali.
205 Si tratta dei tentativi di Napoleone III di organizzare un colpo
di Stato a Strasburgo (30 ottobre 1836) e a Boulogne (6 agosto
1840), nonché del colpo di Stato di Parigi (2 dicembre 1851)
che portò alla dittatura bonapartista in Francia.
Engels a Marx
4 novembre 1859
.Pare che Garibaldi .sostenga una parte alquanto ambigua. Un
generale di questa specie ci si trova male. E stato costretto a
cedere al diavolo il mignolo, ed ecco che questo pare si sia preso
tutta la mano. Per Vittorio Emanuele naturalmente andrebbe benissimo
sfruttare prima Garibaldi e comprometterlo poi. Altro esempio del
punto a cui può condurre nelle rivoluzioni un
«atteggiamento pratico». Del resto è un peccato
per il nostro. D’altra parte è una cosa eccellente che il
Piemonte perda il carattere a torto attribuitogli di campione
dell’unità italiana ….. 206
Note
206 Nell’autunno 1859 a Parma, Modena, Toscana e Romagna si
sollevò una nuova ondata del movimento di unificazione. I
governi provvisori, costituitisi in questi Stati nel corso della
guerra di Francia e Piemonte contro l’Austria, disponevano di un
discreto esercito che volevano affidare a Garibaldi. Ma in seguito
alle trame di Cavour, timoroso dell’espansione del movimento
rivoluzionario, sotto il comando di Garibaldi fu posta una sola
divisione.
Engels a Ludwig Kugelmann
8 e 20 novembre 1867
…... La storia romana207 ci ha reso di nuovo un grande servigio. Mi
sembra che il nobile Bonaparte sia già al suo ultimo respiro,
e quando questo episodio in Francia si concluderà, allora, in
quanto la situazione in Inghilterra di giorno in giorno diventa
sempre più rivoluzionaria, e l’Italia sta di fronte alla
necessità di una rivoluzione, allora, certo, anche in
Germania finirà il regno degli «europei» …. 208
Note
207 Dopo che nel 1866 Venezia entrò a far parte del Regno
d’Italia, per ultimare l’unificazione del paese rimaneva solo lo
Stato della Chiesa. I circoli dirigenti non osavano fare questo
passo per paura di conflitti con la Francia napoleonica, protettrice
del papa. Garibaldi si fece promotore del movimento per la conquista
di Roma. Egli iniziò i preparativi di una operazione
militare, ma il governo, che dapprima aveva chiuso un occhio, alla
fine arrestò Garibaldi. Però i suoi volontari
entrarono nello Stato della Chiesa. A Roma i patrioti cominciarono a
preparare l’insurrezione con il motto dell’unificazione di tutta
l’Italia. Il 17 ottobre 1867 il papa Pio IX rivolse ai vescovi un
messaggio sulla minaccia che correva il pontefice. Il governo di
Napoleone I già il 18 ottobre promise l’aiuto al papa e
incominciò a preparare allo scopo un corpo di spedizione.
Quando i volontari guidati da Garibaldi (che il 14 ottobre
riuscì a fuggire) arrivarono sotto le mura di Roma, il corpo
di spedizione francese parti per l’Italia e il 30 ottobre 1867
entrò nella città. Solo grazie all’aiuto francese le
truppe pontificie sbaragliarono i garibaldini a Mentana il 3
novembre 1867. La questione romana fu risolta soltanto nel 1870.
208 Così si chiamavano quei membri della Unione nazionale
borghese- liberale tedesca che erano contrari alla unificazione
della Germania con a capo la Prussia.
Engels a Marx
28 agosto 1868
….. Dupont ha ricevuto il mandato da Napoli di rappresentare quella
branche. Dopo la faccenda di Mentana209 là è
subentrata, come vediamo dalle notizie italiane, una reazione
generale e specialmente il diritto di riunione e di associazione
degli operai è quasi annullato …...
Note
209 Su Mentana si veda la nota 207
Engels a Carlo Cafiero
1 luglio 1871
….. .Mazzini nel 1864 tentò mutare la nostra associazione ad
utile proprio, ma andò fallito. Il suo strumento capo era un
garibaldino, maggiore Wolff (suo vero nome Principe Thurn und Taxis)
il quale ora è stato scovato per una spia della polizia
francese da Tibaldi210 Quando Mazzini vide che l’int. non poteva
servirgli come mezzo, egli l’attaccò con molta violenza ed ha
tratto partito d’ogni occasione per oltraggiarla, ma come voi dite
il tempo è presto andato e «Dio e popolo» non
è più il motto d’ordine della classe lavoratrice
italiana.
Noi ci siamo bene avveduti che il sistema dei fittavoli o
métayers è stato dai Romani fino noi la base della
produzione agricola in Italia. Questo sistema senza dubbio dà
generalmente ai fittavoli un’indipendenza politica più ampia
rispetto al proletario di quella ch’è permessa qui ai
fittavoli. Ma se noi vogliamo credere al Sismondi ed ai recenti
scrittori su questo soggetto, lo sfruttamento dei fittavoli da parte
dei proprietari è tanto grande in Italia come dappertutto, ed
i pesi che gravano sul più basso ceto dei contadini sono
particolarmente onerosi. In Lombardia, dove i poderi sono estesi, i
fittavoli, quando io ero colà211 erano discretamente comodi,
ma esisteva ancora una certa classe di proletari rurali adoperati
dai fittavoli, i quali non facevano che il lavoro reale e che non
traevano nessun beneficio da questo sistema. Nelle altre parti
d’Italia dove vi sono meno fittavoli il sistema métayers, per
quanto posso conoscere da lontano, non li protegge dalla stessa
miseria, ignoranza e degradazione che è la sorte dei piccoli
fittavoli in Francia, Germania, Belgio ed Irlanda. La nostra
politica rispetto alle popolazioni agricole è stata
generalmente e naturalmente così: dove vi sono estesi fondi,
lì il fittavolo è capitalista rispetto ai lavoratori,
e lì dobbiamo spingere pel lavoratore; dove poi vi sono
piccoli poderi il fittavolo, sebbene nominalmente sia un piccolo
capitalista oppure proprietario (come in Francia e parte della
Germania), pure in realtà è generalmente ridotto alla
stessa miseria del proletario, e noi dobbiamo allora lavorare per
lui. Senza dubbio dev’essere lo stesso in Italia. Ma il Consiglio vi
sarà molto obbligato se voi ci date delle informazioni in
proposito ed anche sulla recente legislazione in Italia in quanto
alle proprietà rurali ed altre questioni sociali.
Note
210 Alla seduta del Consiglio Generale del 4 luglio 1871, Paolo
Tibaldi, comunardo parigino, smascherò Wolff quale agente
della polizia francese, dichiarando di aver visto sul libro dei
fondi segreti del ministro delle finanze le note attestanti il
versamento mensile a Wolff di 1.000 franchi.
Engels a Carlo Cafiero
16 luglio 1871
…….Siamo contenti di sentire che voi ed altri amici non temete le
persecuzioni, ma al contrario le salutate come il miglior mezzo di
propaganda. Questa è la mia opinione e sembra siamo destinati
ad aver in abbondanza di tali persecuzioni. In Ispagna molti sono
stati imprigionati ed altri si vanno nascondendo. Nel Belgio vi
è tutto il desiderio da parte del Governo di dare pieno corso
alla legge ed anche di più contro di noi. In Germania i
partigiani di Bismarck stanno anch’essi cominciando questo giuoco se
non che essi qui più che in Ispagna sono attraversati dalla
energica resistenza dei nostri uomini che sono stati assai
più felici. Senza dubbio avrete ancora la vostra parte in
Italia ma siamo soddisfatti che queste persecuzioni s’incontreranno
in uno spirito diverso da quello di Caporusso e dei suoi amici212.
È veramente meraviglioso che questi partigiani di Bakunin
mostrerebbero tale codardia tosto che vi sarebbe il minimo pericolo.
I bakunisti spagnuoli, i quali poco tempo fa ci scrissero che la
loro condotta di astensione dalle cose politiche aveva avuto immenso
successo, e tanto che i socialisti non erano più temuti, ma
considerati come popolo affatto innocente(!!), non si sono poi per
nulla comportati bene di fronte alle recenti persecuzioni, e non
siamo capaci di trovarne un solo tra essi, di qualunque nazione, il
quale abbia quando che sia esposto se stesso di sua propria
volontà in un pericolo sia su di una barricata od in altro
luogo. Sarà buona fortuna disfarsi di loro intieramente e, se
potete trovare elementi in Napoli, o in altre città i quali
non hanno niente a che fare con questa corrente ginevrina,
sarà molto meglio.
Qualunque cosa possiamo fare e qualunque congresso prescriveremo,
questi uomini formeranno sempre in realtà, se non in nome,
una setta interna nella nostra società, e gli uomini di
Napoli, Spagna, ecc. porranno maggior peso sulle comunicazioni che
ricevono dai loro propri capi quartieri, piuttosto che su di ogni
altra cosa possa fare l’Associazione. Così se essi rientrano
nella nostra Associazione, ci sembra che sia per un breve
tempo solamente e le questioni si eleveranno di nuovo che meneranno
alla loro esclusione. Noi abbiamo avuto delle prove che ci mostrano
essere essi ancora intenzionati di formare un’Internazionale loro
accanto alla nostra Grande Internazionale, e possono essere sicuri
che né il Consiglio Generale né il Congresso
permetteranno alcuna violazione al nostro Statuto.
Ciò che dite intorno allo stato delle popolazioni nel
mezzogiorno d’Italia non ci sorprende. Pure qui in Inghilterra, dove
il movimento delle classi operaie è quasi cosi vecchio che il
secolo, s’incontra l’apatia e l’ignoranza in abbondanza. Il
movimento dell’unione commerciale [cioè il movimento delle
trade-unions] è, fra tutte le grandi potenti e ricche unioni
commerciali, divenuto più un ostacolo al movimento generale,
che uno strumento del suo progresso, e al di fuori della unione
commerciale esiste qui un’immensa massa di operai di Londra che da
parecchi anni si tengono affatto lontani dal movimento politico, e
in conseguenza sono molto ignoranti. Ma d’altra parte essi sono
anche esenti da molti pregiudizi tradizionali degli unionisti
commerciali ed altre antiche sette, e perciò formano un
eccellente materiale sul quale si può lavorare. Essi stanno
per essere posti in moto dalla nostra Associazione, e li abbiamo
riconosciuti intelligenti.
La vostra posizione in Napoli ho potuto perfettamente comprendere,
essa è la stessa di quella nella quale alcuni di noi ci
trovammo in Germania 25 anni fa, quando da principio fondammo il
movimento sociale. Allora avevamo tra i proletari i soli pochi
uomini che in Svizzera, Francia ed Inghilterra si erano imbevuti
d’idee socialiste e comuniste, noi avevamo pochissimi mezzi per
operare sulle masse e come voi, dovevamo trovare aderenti tra i
maestri di scuola, giornalisti e studenti. Fortunatamente in questo
periodo del movimento di uomini, non appartenenti esattamente alla
classe operaia, se ne trovavano, facilmente; più tardi quando
la gente lavoriera padroneggia il movimento come una massa,
divengono certamente rari.
Con la libertà assicurata dal 1848, con la stampa, col
registro dei meeting e delle associazioni questa prima parte di
movimento è stata naturalmente abbreviata di molto, e senza
dubbio in un anno o due potrete farci un differente rapporto sullo
stato delle cose in Napoli.
Vi ringraziamo anche per la vostra risoluzione ad esporci i fatti
come realmente sono. La nostra Associazione è forte
abbastanza a mostrare di conoscere la reale verità, anche
quando sembra sfavorevole, e niente potrebbe indebolirla se non
rapporti esagerati i quali non avrebbero nessuna realtà.
Agite così e non riceverete giammai da me alcun ragguaglio
che potrebbe menomamente farvi vedere le cose diversamente da quel
che sono.
Accludo il rapporto della riunione del Consiglio del 3 luglio con
tutti i fatti riguardanti il maggiore Wolff. Siccome è l’uomo
ben conosciuto in Italia sarà bene pubblicarli costì.
Posso aggiungere che abbiamo una regola per tutti i giornali
periodici pubblicati dalla nostra organizzazione: due copie debbono
essere mandate regolarmente al Consiglio qui, una per l’archivio
dove sono tenute tutte, ed una per la segreteria del paese nel quale
si pubblicano. Vorreste darvi la pena di far adempiere a ciò
subito che vi sia un organo italiano dell’Associazione? Anche delle
traduzioni italiane alquante copie dovrebbero essere mandate qui.
Abbiamo ora sei italiani qui rifugiati i quali combatterono a Parigi
per la Comune e si soccorrono con i nostri fondi per i rifugiati.
Salute e fraternità.
Note
211 Engels fu in Lombardia tra gli ultimi del 1841 e i primi del
1842
212 Secondo quanto dice Cafiero, S. Caporusso dopo una breve
permanenza in carcere per lo sciopero organizzato all’inizio del
1870 da parte della sezione napoletana, ripudiò le sue
convinzioni socialiste e repubblicane.
Engels a Carlo Cafiero
28 luglio 1871 Caro Cafiero,
ho ricevuto la vs. lettera del 12, e spero abbiate ricevuto la mia
diretta a Napoli alquanti giorni prima213 contenente le norme
dell’Associazione, le deliberazioni dei Congressi di Ginevra e
Bruxelles, la 3” edizione del discorso sulla guerra civile in
Francia, quelle sulla guerra franco-germanica, l’altro inaugurale
dell’Associazione 1864, ecc. Siffatti documenti basteranno di certo
a spiegarvi quali fossero le regole ed i principi della ns.
società ed i mezzi di cui dispone il Cons. Gen.le per agire
in nome ed in pro della società istessa. Ancora ho ricevuto
La Plebe di Lodi, il bollettino su Caporusso ed il n. de La Roma del
Popolo che contiene l’attacco di Mazzini contro noi214.
Quanto ai fatti che si riferiscono a Caporusso
pubblicati e poi citati nella vs. lettera
sarebbero bastevoli a dichiararlo incapace di farci male alcuno in
avvenire. Qualora osasse ripresentarsi al pubblico quale
rappresentante le classi operaie, si renderebbe pubblico il fatto
delle L. 300215 e ciò annullerebbe le ultime vestigia della
sua influenza. Siamo lieti di sapere come costi nulla esista della
setta dei bakunisti. Ci si era fatto ritenere il contrario
poiché i bakunisti svizzeri clic sempre tosi fosse
affermarono. Costantemente lo ripetevano e, siccome non ricevevamo
alcuna risposta alle ns. lettere da Napoli, vi credemmo. Non avemmo
indirizzo a Napoli oltre quello di Caporusso cui furono scritte
almeno 3 lettere dal ns. segretario francese E. Dupont presente
Marx, ma il Caporusso ha dovuto soffocarle. Se credete ne valga la
pena, interrogate il Caporusso intorno a tali lettere. D’altronde
mai si ricevettero in risposta lettere da Napoli e, se quelle che
furono spedite fossero state dirette, come affermate, direttamente
al Consiglio, l’è troppo chiaro che tra la polizia italiana,
francese ed inglese non ce ne sarebbe per venuta nessuna…..
Note
213 Si veda la lettera precedente
214 Si tratta dell’articolo di Mazzini su La Roma del Popolo (n. 20
del 13 luglio 1874) intitolato Agli operai italiani che Cafiero
spedì a Engels. Engels respinse queste insinuazioni
nell’articolo Sulla partecipazione di Mazzini alla fondazione
dell’internazionale
215 Caporusso si appropriò di 300 lire raccolte dai membri
della sezione napoletana per aiutare i compagni arrestati (Caporusso
ivi compreso). A Caporusso in persona spettava solo un quarto del la
somma raccolta.
Engels a Wilhelm Liebknecht
4 novembre 1871
…… Del resto, le cose vanno molto bene, abbiamo ora in Italia una
massa di organi, ti accludo un elenco per la pubblicazione, e la
corrispondenza è così intensa da costringermi ad un
enorme lavoro...
Engels a Theodor Cuno216
13 novembre 1871 Egregio Amico,
sono spiacente di dovervi dire, in risposta alla vostra pregiata
lettera del 1° corrente, che non abbiamo in questo momento
nessun collegamento con Milano, salvo il Gazzettino Rosa, al quale
spediamo dei documenti per la pubblicazione217 ma che non ci ha mai
fatto proposte per la fondazione di sezioni, ecc. Il movimento
ispirato all’Internazionale è scoppiato in Italia in modo
così brusco ed inaspettato, che tutto è ancora molto
disorganizzato; e i mardochei [agenti di polizia], come sapete,
fanno di tutto per far saltare l’organizzazione. Che a Milano ci
debbano essere elementi idonei lo prova il fatto che il Gazzettino
Rosa vi trova dei lettori; la sola cosa da fare, nell’attesa,
è che voi vi mettiate alla ricerca di tali lettori, ed io vi
prometto di mandarvi l’indirizzo del primo che si rivolgerà a
me di costì. Ciò accadrà indubbiamente presto,
perché attraverso le numerose e imminenti pubblicazioni del
Consiglio Generale, il mio nome, come segretario per l’Italia,
sarà presto conosciuto dappertutto. Milano, finora centro
principale del mazzinianesimo e grossa città industriale,.
è per noi specialmente importante anche perché con
Milano cadranno in nostre mani i distretti dell’industria della seta
in Lombardia. Perciò quel che voi e i vostri amici potrete
fare a Milano per la causa comune, avrà un valore tutto
particolare.
A Torino abbiamo una forte sezione (indirizzo: Proletario Italiano);
da Lodi (La Plebe) sono andate perdute delle lettere, che dovevano
senza dubbio contenere informazioni sulla costituzione di sezioni.
Ho veduto stamattina, da Marx, Ricciotti Garibaldi. E un giovanotto
assai intelligente, molto calmo, ma più un soldato che un
pensatore. Può però diventare assai utile. Mostra
nelle sue teorie più buona volontà che chiarezza,
proprio come il vecchio, la cui ultima lettera a Petroni, tuttavia,
è per noi d’un valore infinito218. Se i suoi figli sapranno
dimostrare in tutte le grandi crisi lo stesso giusto istinto del
vecchio, potranno far molto. Non avete la possibilità di
procurarci un indirizzo sicuro a Genova? Si tratta di far arrivare
con sicurezza le nostre cose al vecchio a Caprera, e Ricciotti dice
che molto viene intercettato…...
Note
216 La lettera apre la corrispondenza tra Engels e Th. Cuno,
organizzatore della sezione della I Internazionale a Milano.
Arrivato a Milano e sistematosi come ingegnere all’officina
«Elvetica», Cuno, membro del Partito socialdemocratico
di Germania, fece tentativi di mettersi in contatto con la sezione
dell’internazionale. Il 1° novembre 1871 egli scrisse una
lettera a Engels quale segretario-corrispondente del Consiglio
Generate per l’Italia. Nella lettera Th. Cuno comunicò a
Engels tutto ciò che poteva interessarlo e pregò di
metterlo in contatto con i membri della I Internazionale a Milano e
in Italia in generale.
217 Engels si mise in contatto con il Gazzettino Rosa nei mesi di
luglio-agosto 1871 grazie a Cafiero. In questo tempo il giornale
pubblicò una serie di documenti del Consiglio Generale e un
estratto dell’articolo di Engels Sulla partecipazione di Mazzini
alla fondazione dell’internazionale (n. 255, 13 settembre 1871).
218 Si tratta della lettera che il 21 ottobre 1871 Garibaldi scrisse
a G. Petroni. direttore del mazziniano La Roma del Popolo. Nella sua
lettera Garibaldi rese noto il suo distacco da Mazzini per i suoi
attacchi alla Comune e la I Internazionale. il 7 novembre 1871
Engels ne riferì il contenuto alla seduta del Consiglio
Generale, rilevando che quella lettera aveva avuto una forte eco in
Italia. Pubblicata la lettera sui periodici italiani, Engels la
tradusse e la riportò quasi interamente nel resoconto della
seduta del Consiglio.
Engels a Wilhelm Liebknecht
gennaio 1872
…. Abbiamo a Milano Cuno, un ingegnere svizzero, che conosce te e
Bebel e che là ha ostacolato finora l’approvazione di
deliberazioni bakuniste. Gli altri sono o bakunisti o gente che
occupa una posizione molto riservata. È un terreno difficile
e mi costringe ad un enorme lavoro……
Engels a Paul Lafargue
gennaio 1872
…… In Italia non c’è fino ad ora nessuna organizzazione. I
gruppi sono così autonomi da non poter o non voler unirsi.
Ciò è la reazione all’estrema centralizzazione
borghese di Mazzini, il quale aspirava a dirigere tutto da solo e
per- giunta in modo molto stupido. Poco a poco apriranno gli occhi
anche laggiù, ma bisogna concedere loro del tempo
perché possano acquistare una propria esperienza…..
Engels a Theodor Cuno
24 gennaio 1872
…. In Italia, infine, a mia conoscenza, le sezioni di Torino,
Bologna e Girgenti si sono dichiarate per la convocazione anticipata
del Congresso. La stampa bakunista pretende che venti sezioni
italiane si siano pronunciate in questo senso; ma io non le conosco.
Ad ogni modo, quasi dappertutto la direzione è nelle
mani degli amici e dei seguaci di Bakunin, i quali si danno delle
grandi arie; ma se si va in fondo, si vede chiaramente che essi non
hanno molta gente dietro di loro, perché alla fin dei conti
la grande massa dei lavoratori italiani è ancora mazziniana e
lo rimarrà fino a quando l’Internazionale
s’identificherà con l’astensione politica.
In ogni caso, ecco come stanno le cose in Italia: i bakunisti hanno
il predominio nell’Internazionale e fanno gli spavaldi. Il Consiglio
Generale non ha nessuna intenzione di lagnarsene: gli italiani hanno
il diritto di fare tutte le sciocchezze che vogliono. Il Consiglio
Generale interverrà soltanto a mezzo di amichevoli
discussioni. Essi hanno anche il diritto di pronunciarsi per il
Congresso nello stesso senso dei giurassiani; ma, comunque, è
molto strano che delle sezioni le quali hanno appena aderito e non
sono quindi informate di nulla, prendano senz’altro partito in una
simile faccenda, soprattutto senza aver sentito tutte e due le
parti! A questo proposito ho parlato chiaro ai torinesi e
farò lo stesso con le altre sezioni che si sono pronunciate
nello stesso senso. Ogni simile dichiarazione di adesione è
un’indiretta approvazione della circolare219 contenente menzogne e
false accuse contro il Consiglio Generale che, del resto,
pubblicherà tra poco una sua circolare sulla questione. Se
potrete impedire che i milanesi facciano una dichiarazione analoga
fino all’uscita della nostra circolare, attuerete in pieno i nostri
desideri.
Il più comico è che questi stessi torinesi che si sono
dichiarati a favore dei giurassiani e ci accusano perciò di
autoritarismo, chiedono ora improvvisamente al Consiglio Generale di
intervenire contro la rivale Federazione operaia di Torino, e di
intervenire in modo così autoritario come non ha mai fatto:
di espellere il Beghelli dal Ficcanaso, il quale non è
neppure membro dell’Internazionale, ecc. E tutto ciò prima
che noi sentiamo almeno cos’ha da dire in merito la Federazione
operaia!.....
Note
219 Al congresso di Sonvilliers della Federazione del Giura
bakunista, tenutosi il 12 novembre 1871, fu adottata la Circolare di
Sonvilliers «Circulaire à toutes les
fédérations de l’Association internationale des
travailleurs» indirizzata contro il Consiglio Generale e la
conferenza di Londra del 1871. Alle decisioni della conferenza la
Circolare contrapponeva i dogmi anarchici dell’indifferentismo
politico e dell’autonomia delle sezioni, nonché la solita
calunnia nei riguardi del Consiglio Generale. Nella Circolare i
bakunisti proponevano inoltre a tutte le sezioni di chiedere
l’immediata convocazione del congresso per riesaminare il suo
Statuto generale e condannare l’attività del Consiglio
Generale.
Engels a Johann Philipp Becker
16 febbraio 1872
….. Puoi indicarmi il modo di aiutare Cuno a rimanere a Milano? Io
non vedo da qui nessuna via, ma certamente faremo volentieri di
tutto per mantenere questo bravo giovane in un posto così
importante. Questi maledetti italiani mi fanno lavorare più
che tutta la restante Internazionale il Consiglio Generale, e
ciò è tanto più spiacevole per il fatto che
probabilmente non ne verrà fuori nulla fino a quando gli
operai italiani sopporteranno che un pugno di dottrinari —
libellisti e avvocati — dica a nome loro la parola decisiva.
Engels a Laura Lafargue
11 marzo 1872
…..Da La Campana di Napoli vedo che Pani ha esteso la sua
attività anche a questa città, tanto meglio. A Napoli
si sono insediati i peggiori bakunisti di tutta l’Italia. Cafiero
è un bravo ragazzo, ma un mediatore innato e come tale,
naturalmente, debole; se non migliorerà fra poco,
rinuncerò a lui. In Italia i giornalisti, gli avvocati e i
dottori si sono fatti talmente innanzi che fino ad ora non siamo
riusciti mai ad entrare direttamente in contatto con gli operai; ora
la situazione comincia a cambiare e noi troviamo che gli operai,
come ovunque, si distinguono assolutamente dai loro porta voce.
È ridicolo: questa gente grida di volere l’autonomia
completa, di non volere i capi, ma al tempo stesso si lascia menare
per il naso da un pugno di dottrinari borghesi come in nessun altro
posto.
Engels a Gennaro Bovio
16 aprile 1872 Egregio cittadino,
ho ricevuto, e vi ritorno colla presente, ringraziandovi, i vari
documenti che m’avete fatto l’onore di trasmettermi per mezzo
dell’egregio citt. Enrico Bignami.
Il Consiglio Generale dell’Internazionale, essendo comitato
amministrativo con funzioni definite, non ha
potuto prendere conoscenza e
deliberare ufficialmente su questi
documenti; ma mi sono fatto un dovere di sommetterli a coloro fra i
suoi membri che comprendono l’italiano, e tutti li hanno letti col
più grande piacere.
Riconosciamo volontieri che, al tempo dove qui in Londra si
realizzava, per la prima volta, una lega internazionale degli
operai, voi, nella remota Puglia, avete rilevata questa medesima
idea e l’avete valorosamente propugnata nel congresso di Napoli220.
Vi ringraziamo di averci comunicato questo fatto, perché
contiene una nuova prova che l’alleanza degli operai del mondo
incivilito fu riconosciuta, già nel 1864, come una
necessità storica anche nei paesi coi quali non potevamo
allora metterci in relazione, non sapendo a chi indirizzarci. E
sinceramente lagniamo che le società operaie italiane, per
non rilevare nel 1864 la vostra idea, hanno di molto ritardato lo
sviluppo del movimento proletario in Italia.
Ci ha causato molta gioia il leggere i vostri articoli nella
Libertà in difesa della Comune di Parigi contro V. Hugo ed
altri221, che crediamo volontieri furono i primi articoli scritti in
italiano, con questo scopo. Noi qui, allo stesso tempo, pubblicammo
il manifesto del Consiglio Generale sopra La Guerra civile in
Francia di che mi sono permesso di indirizzarvi, il 23 marzo, un
esemplare in inglese ed un altro in tedesco, non avendo qui la
traduzione francese e quella italiana (nella Eguaglianza di
Girgenti) non essendo compita. Vedrete da questo opuscolo che anche
su questo punto v’ha armonia d’idee fra di noi, e che noi pure non
abbiamo mancato al nostro dovere…..
Note
220 Si tratta del congresso napoletano delle società operaie
italiane influenzate dai mazziniani tenutosi il 25- 27 ottobre 1864.
In quella sede Gennaro Bovio, rappresentante délla
società a Trani, propose di dare al congresso un carattere
periodico e internazionale, e di elaborare allo scopo uno Statuto
generale. Savi, uno dei capi mazziniani, evidentemente informato
sull’istituzione dell’Associazione Internazionale degli Operai,
dichiarò che il congresso internazionale degli operai si
sarebbe tenuto neI 1865; il congresso di Napoli deliberò di
assicurarvi una rappresentanza di operai italiani.
221 Si tratta degli articoli di G. Bovio Via smarrita e Una difesa
dopo la morte pubblicati su La Libertà (n. 90 del 10 giugno
1871 e nn. 97-100 del 5,8, 12 e 15 luglio 1871), in cui l’autore
prese le difese dei comunardi.
Engels a Theodor Cuno
22 [-23] aprile 1872 Caro Cuno,
ho ricevuto stamattina la vostra lettera che attendevo
impazientemente. Gandolfi mi aveva già scritto poco tempo fa
che si presumeva che il governo italiano vi avesse consegnato alla
Prussia. Il vostro arresto, ecc. l’ho appreso dai giornali, i quali
annunciavano già anche che siete stato espulso perché
«mancante di mezzi di sussistenza». La Gazzetta di
Milano ha pubblicato un comunicato della polizia in questo senso.
Questo fatto ha il suo significato. È il primo atto della
cospirazione poliziesca internazionale tra la Prussia, l’Austria e
l’Italia; e se non siete stato tradotto sotto scorta dalla frontiera
bavarese a Dϋsseldorf, lo dovete soltanto alla stupidità dei
bavaresi. Domani sera porterò la questione davanti al
Consiglio Generale, e tutto passerà nel resoconto ufficiale
che sarà stampato nell’Eastern Post e andrà in tutte
le parti del mondo222. Scrivete intanto una relazione a vostro nome,
e mandatela al Volksstaat, all’Ègalité di Ginevra e al
Gazzettino Rosa. Per l’Inghilterra, l’America, la Spagna e anche per
la Francia ci penseremo noi da qui223.
Questi luridi cani dovranno rendersi conto che le cose non vanno
lisce come sperano e che il braccio dell’Internazionale è pi
lungo di quello del re d’Italia. Appena la cosa sarà
stampata, ve ne manderò un esemplare insieme con tutto quel
che potrò raccogliere nei giornali; ma non sarà molto.
.Durante il periodo della vostra incarcerazione sono avvenute molte
cose. A Torino, Terzaghi è stato pubblicamente accusato dalla
«Emancipazione del Proletario» di malversazioni e di
relazioni sospette con il questore. Egli ha pubblicato ancora 2 o 3
numeri del Proletario in cui, come già aveva fatto in
precedenza, attacca la Federazione operaia chiamando i suoi membri
canaglia, borghesia, vigliacchi, ecc. Il giornale però, come
quasi tutti i nuovi piccoli giornali in Italia — il Martello, La
Campana, ecc. — sembra oggi morto. Ho scritto a Terzaghi per
chiedergli che cosa erano in realtà queste accuse, ed egli mi
ha mandato un Proletario pieno di insulti dicendo che da esso potevo
rendermi conto che i suoi accusatori erano una banda di miserabili!
Codesto individuo mi era sospetto già da mesi; Regis (che era
stato da voi sotto il nome di Péchard, ed oggi è a
Ginevra) riuscì a sapere che si recava continuamente da
Bakunin a Locarno. È molto bene che sia stato smascherato
come un volgare furfante.
A Bologna il Fascio operaio della Romagna ha tenuto un congresso e
si è rivelato bakunista puro224. I romagnoli aderiscono
all’Internazionale, ma non vogliono saperne di riconoscere gli
Statuti, ecc. Sebbene il congresso abbia avuto luogo fin dal 18
marzo, non ci hanno ancora scritto; avranno da noi una bella
accoglienza. La sezione di Ravenna ci ha scritto informandoci della
sua adesione, dichiarando però di « conservare la
propria autonomia ». Ho chiesto loro semplicemente se
accettano o no i nostri Statuti225.
Ricevo ora un pacco di giornali: e vedo che anche Pezza e Testini
sono stati arrestati a Milano (verso il 30 marzo).
La circolare del Consiglio Generale su Bakunin e i suoi è in
corso di stampa e sarà pronta alla fine della settimana
prossima. Ve la manderò immediatamente. Parla molto
schiettamente e farà certo rumore.
Domani spero di potervi mandare dei giornali, il Gazzettino Rosa e
qualche altra cosa italiana che potrò racimolare.
… A Torino l’unico giornale che esce presentemente è
L’Anticristo, una specie di Gazzettino Rosa settimanale. Però
escono sempre La Plebe di Lodi, il Fascio Operaio di Bologna,
l’Eguaglianza di Girgenti. Tutti gli altri giornali italiani sono
spariti. Sulla base dell’esperienza degli altri paesi, era da molto
tempo chiaro per me che le cose dovevano andare a finire
così. I pochi uomini che sono alla direzione non fanno
niente, e in Italia le masse sono ancora troppo arretrate per poter
mantenere in vita tanti giornali. Sarà necessario fare un
lavoro lungo e paziente, e con un contenuto teorico superiore a
quello che posseggono i bakunisti, per strappare le masse al
cretinismo mazziniano.
Tante grazie per l’indirizzo milanese. Non sarebbe meglio se
scriveste dapprima a questa persona [Danieli] pregandola di inviarvi
una relazione sulla presente situazione dell’Internazionale a
Milano? Potreste poi farmela pervenire: ed io, allora, gli
risponderei. Il segretario per la corrispondenza è
attualmente M. Gandolfi, e cioè uno dei bakunisti…..
Note
222 Si veda F. Engels, Sulle persecuzioni del membro
dell’Internazionale Theodor Cono
223 Si veda la nota 163
224 Il Congresso di Bologna, congresso dei cosiddetti Fasci operai,
costituitisi in Romagna, ed anche dei rappresentanti di sezioni
anarchiche di Mirandola, Genova, Cantò e Napoli, si tenne il
17-18 marzo 1872. Il congresso appoggiò la proposta della
sezione torinese della I Internazionale — società
«L’emancipazione del proletario » — di convocare la
conferenza delle sezioni italiani dell’Internazionale. Una serie di
risoluzioni del congresso portava un’impronta bakunista, in
particolare: pur non negando la lotta politica in generale, il
congresso si dichiarò contrario alla partecipazione alle
elezioni. Fu dichiarato poi che si considerava il Consiglio Generale
ed il Comitato federale del Giura quali semplici uffici di
corrispondenza incaricando il consolato eletto al congresso di
mettersi in contatto con tutt’e due.
225 Si tratta del gruppo anarchico costituitosi nella seconda
metà del 1871 a Ravenna che si trovava sotto l’influsso del
bakunisia L. Nabruzzi, con il quale Engels era in corrispondenza. Il
gruppo non fu ammesso all’Associazione Internazionale degli Operai.
Engels a Thdodor Cuno
7- 8 maggio 1872
…...Gli operai spagnoli si sono burlati naturalmente di questi
dottrinari e unanimemente li hanno ridotti al silenzio. È
questo il colpo più forte che Bakunin abbia ricevuto finora.
Egli contava sicuramente sulla Spagna: e la ripercussione in Italia
non si farà aspettare.
Che la stessa organizzazione segreta esista in Italia, anche se non
così solida come nella formalistica Spagna, non ne ho il
minimo dubbio. La miglior prova di ciò è per me la
precisione quasi militare con la quale anche in Italia, da tutte le
parti del paese, si sfodera sempre simultaneamente la stessa parola
d’ordine data dall’alto (e si noti che proprio costoro predicano
sempre al popolo ed all’Internazionale il principio dal basso
all’alto). Che voi non siate stato iniziato nei loro segreti, si
capisce: tra i bakunisti solo i capi vengono ammessi in questa
società esoterica. Nel frattempo sono arrivate alcune notizie
dall’Italia, che rivelano sintomi migliori. I ferraresi si sono
sottomessi: hanno riconosciuto gli Statuti e i regolamenti
amministrativi ed hanno mandato a noi i loro Statuti per
l’approvazione, il che è contro la parola d’ordine lanciata
dai bakunisti. In Italia la maledetta difficoltà è
soltanto di riuscire a mettersi in contatto diretto con gli operai.
Questi maledetti dottrinari bakunisti, avvocati, dottori, ecc., si
sono interposti dappertutto e si comportano come se fossero i
rappresentanti nati dei lavoratori. Dove riusciamo a superare questo
sbarramento, ed a prendere contatto con le masse stesse, tutto va
bene e le cose si mettono rapidamente a posto. Ma, data la mancanza
di indirizzi, ciò non è possibile quasi in nessuna
parte. Sarebbe quindi stato molto importante se voi foste potuto
rimanere a Milano. Di tanto in tanto, col tempo, avreste potuto
visitare questa o quella città con uno o due tipi in gamba, e
in sei mesi ci saremmo sbarazzati di tutto questo ingombro nei
luoghi principali...
Engels a Thdodor Cuno
10 giugno 1872
Sulla società segreta spagnola, «La Alleanza»,
abbiamo ora le prove in mano, e al congresso rideremo. Anche in
Italia essa esiste certamente. Se almeno Regis potesse andarvi! Ma
questo povero diavolo fa ora il giornalaio a Ginevra per poter
vivere. Cafiero di Napoli e qualcheduno di Torino, che non so ancora
chi sia, hanno passato alcune mie lettere ai giurassiani226. La cosa
m’importa poco; ma il fatto del tradimento è sgradevole. Gli
italiani devono fare ancora un p0’ di scuola di esperienza, per
imparare che un popolo di contadini arretrati, come loro, non fa che
rendersi ridicolo quando vuol insegnare ai lavoratori dei grandi
paesi industriali come debbono affrancarsi.
Note
226 Qui Engels allude alla dichiarazione redazionale, apparsa sul n.
6 del Bulletin de la Fedération Jurassien del 10 maggio 1872,
di avere a disposizione le lettere di Engels scritte «ai suoi
amici italiani» nell’autunno del 1871. Le lettere erano state
consegnate a Guillaume, direttore del giornale, da Cafiero.
Engels a Friedrich Adolf Sorge
2 novembre 1872
….. Sono stato appena invitato a notificare ufficialmente al
Consiglio Generale la costituzione delle due seguenti sezioni:
1) Associazione degli operai e degli agricoltori della Bassa
Lombardia (sezione di Lodi), Enrico Bignami, Via Cavour 19,
Segretario.
2) Associazione dei liberi lavoratori abruzzesi (sezione di Aquila,
provincia omonima. Corrispondenza per ora via Lodi).
La comunicazione viene da Bignami, il quale informa purè che
entrambe le sezioni hanno approvato Statuti che corrispondono agli
Statuti generali. Ne chiederò delle copie e ve le
invierò227.
Bignami è l’unico uomo che in Italia, anche se per ora in
modo non molto energico, parteggia per noi. Nel suo giornale La
Plebe egli ha pubblicato non solo il mio rapporto sul Congresso
dell’Aia, ma anche una mia lettera privata, molto più forte,
indirizzata a lui228. Dato che devo inviargli delle corrispondenze,
terremo il giornale nelle nostre mani. Non solo, ma egli ha fatto
pubblicare nuovamente gli Statuti generali con gli emendamenti
dell’Aia nonché la mia relazione al congresso229. Bignami si
trova in mezzo agli autonomisti e perciò deve ancora essere
cauto.
Su Torino non sento più nulla. Cuno deve almeno aiutarci a
trovare un collegamento a Milano, affinché di lì
possano giungerci se non altro delle informazioni. Con Ferrara il
collegamento avviene attraverso Lodi; la sezione è stata
fondata da Bignami…..
Note
227 Tutte due le sezioni si costituirono nell’ottobre 1872 sotto
l’influsso di Bignami e rappresentavano le sezioni della I
Internazionale, una di Lodi e un’altra dell’Aquila. Fu proprio
Bignami a comunicare a Engels il 28 ottobre 1872 che esse avevano
adottato gli Statuti corrispondenti agli Statuti generali. Il 22
dicembre 1872 il Consiglio Generale, su raccomandazione di Engels,
affiliò tutt’e due le sezioni all’Internazionale. Nel
dicembre 1872 - gennaio 1873 le sezioni furono disciolte dalla
polizia.
228 Si tratta degli articoli di Engels: Il Congresso dell’Aia (Una
lettera a Bignami) e Le Lettere da Londra — II. Ancora sul Congresso
dell’Aia pubblicate su La Plebe del 5 e dell’8 ottobre 1871.
229 Engels allude all’annuncio de La Plebe (n. 112 del 26 ottobre
1872) sulla prossima pubblicazione in brossura del resoconto del
Congresso dell’Aia e degli Statuti generali con gli emendamenti del
congresso. Però Bignami non riuscì a pubblicare
l’opuscolo.
Engels a Friedrich Adolf Sorge
16 novembre 1872
…… Se mi invierete o no i poteri per l’Italia, mi rimetto a voi230.
Con la lotta che avviene, nella quale i nostri rappresentano una
minoranza estremamente modesta, è molto desiderabile un
rapido intervento. Anche se io mantengo la mia corrispondenza
privata e scrivo su La Plebe, non posso però senza pieni
poteri influire sulle sezioni che, come quella di Torino, sembrano
del tutto decadute e non fanno sentire di sé nulla, come
ciò solo in Italia accade troppo spesso..
Note
230 Su decisione del Consiglio Generale del 5 gennaio 1873 Engels fu
nominato rappresentante del Consiglio per l’Italia con poteri ed
istruzioni relative.
Engels a Friedrich Adolf Sorge
14 dicembre 1872
…… A Lodi è stato confiscato il n. 118 de La Plebe, in cui
è stato pubblicato il vostro indirizzo; Bignami, direttore,
è stato arrestato231. Sembra che abbia a ripetersi
laggiù il processo di Lipsia sull’alto tradimento232. Noi,
naturalmente, sfrutteremo subito al massimo questa storia; essa
apparirà subito sul Volksstaat233 e sull’Emancipation per
dimostrare chi è ritenuto pericoloso dai governi: il
Consiglio Generale e i suoi partigiani o gli alleanzisti. In Italia
non poteva accadere per noi nulla di meglio…..
Note
231 Il 21 novembre 1872 il procuratore reale di Lodi ordinò
il sequestro del n. 118 de La Plebe del 17 novembre per aver
pubblicato .l’appello del Consiglio Generale del 20 novembre 1872.
Nel contempo il procuratore intentò causa contro Bignami,
direttore del giornale, quale organizzatore della sezione
dell’Internazionale a Lodi. Nel dicembre 1872 Bignami e alcuni
membri della redazione furono arrestati e citati in giudizio come
appartenenti all’Associazione Internazionale degli Operai e
propagandisti delle sue idee.
232 L’11-26 marzo 1872 a Lipsia ebbe luogo il processo contro Bebel,
Liebknecht e Gepner arrestati il 17 ottobre 1870 e imputati di
«preparativi d’alto tradimento». I tentativi dei circoli
dirigenti della Germania di far giustizia dei capi del movimento
operaio si scontrarono con il coraggio di Bebel e Liebknecht che
apertamente difesero le loro convinzioni.
Nonostante l’infondatezza delle accuse, Bebel e Liebknecht furono
condannati a due anni di carcere ciascuno. Gepner fu assolto.
Terminato il processo di Lipsia, Bebel, all’inizio del luglio 1872,
fu di nuovo citato in causa accusato dell’«insulto alla
Maestà» che avrebbe fatto in un discorso davanti agli
operai del la città di Lipsia. Per questo Bebel ricevette
altri nove mesi di carcere e fu privato del mandato al Reichstag.
233 La notizia dell’arresto di Bignami e del sequestro del n. 118 de
La Plebe apparve sul Volksstaat (n. 101 del 18 dicembre 1872).
Sull’Emancipation la notizia invece non apparve.
Engels a Marx
Caro Moro,
23 febbraio 1877
la settimana scorsa ho scritto a Bignami, facendo l’abbonamento a La
Plebe e dandogli notizia delle elezioni234. Il giorno anteriore
all’altro ieri, prima della partenza235 ho ricevuto tre
numeri, alcuni numeri mancanti me li spedirà dopo236. Il mio
intervento non poteva capitare in un momento più opportuno.
La Plebe riferisce in data 7 gennaio sul processo alle Assise contro
il questore di Torino, Bignami (lo stesso che offriva il vermut a
Terzaghi, vedi Alliance de la Démocratie Socialiste) per
peculato (tout comme chez nous!237 ).Un certo poliziotto Blandini
depone: che su ordine di Bignami aveva fatto la perquisizione in
casa di Terzaghi pro forma, e che inoltre aveva avuto da Bignami
l’ordine di portar via con sé solo quello che Terzaghi gli
avrebbe dato. Quando fu emanato un ordine d’arresto contro Terzaghi
questi sarebbe stato arrestato prima su ordine di Bignami da un
altro poliziotto, Premerlani; «Terzaghi era un agente segreto
di Bignami che gli dava tre lire» (franchi) «al
giorno». La Plebe commenta: qui si vede come vengono usati i
«fondi segreti dei governi di classe»
A questo risponde un giornaletto bakunista, Il Martello — dal nome
riconosco il mio Cafiero. Siccome non si doveva entrare in argomento
sullo spiacevole caso Terzaghi, il giornaletto si attacca ai
«fondi segreti dei governi di classe»: dunque da voi
«i governi non di classe» avranno anche essi
«fondi segreti», dunque anche con voi tutto rimane come
era, e poi tutta la solita tirata arcianarchica que l’on sait. La
Plebe gli risponde come si deve e attacca subito dopo il Bulletin
Jurassien che per quattro righe de La Plebe sarebbe montato su tutte
le furie e agirebbe come se La Plebe fosse arrabbiatissima, mentre
non era che edificata delle insinuazioni dei jurassiens.
Del resto (continua La Plebe) si
dovrebbe essere molto «ingenui» per lasciarsi attirare
dall’esca di gente che, malata d’invidia, bussa a una porta dopo
l’altra per mendicare un po’ di animosità contro di noi,
servendosi della diffamazione. La mano che da molto tempo semina
l’erba maligna e le provocazioni, sufficientemente nota,
cosicchè i suoi intrighi loyoleschi sono subito individuati
e gli onesti non ne facciano tan tosto giustizia.
Nello stesso numero vi è una corrispondenza di E.
Dörenberg (Drbg. della Berliner Freine Presse) sulle elezioni a
Berlino.’
Nel numero del 16 febbraio vi è una corrispondenza da
Bruxelles «C. D. P.» [César de Paepe] sul nuovo
movimento fiammingo per la legge sulle fabbriche e per il suffragio
universale che termina con le parole:
Noi crediamo altresì di
arrivare, con questo metodo, più prontamente e più
puramente, all’emancipazione del proletariato, piuttosto che star
lì, abbaiando alla luna per degli anni e dei quarti di
secolo, e attendendo che mamma Rivoluzione voglia degnarsi di
venire a spezzarci le catene dei lavoratori.
Inoltre è menzionato come sintomo e in maniera molto
amichevole l’appello del vecchio Becker238.
Oggi ricevo una lettera molto entusiasta di Bignami, in cui dice che
avrebbe pubblicato le mie cose sulle elezioni, e conferma che la
Federazione dell’Alta Italia che da Venezia va fino a Torino e tiene
in questi giorni il suo congresso239, vuole lottare sul terreno del
suffragio universale. La Plebe è il suo organo ufficiale.
In Italia dunque la breccia nella fortezza degli avvocati, letterati
e ciondoloni è fatta. E la miglior cosa è che tutti i
vecchi alleanzisti240 di Milano, Mauro Gandolfi, ecc. dell’epoca di
Cuno, sembra si siano schierati anch’essi da questa parte. In
realtà un movimento pseudo-operaio in una città
industriale come Milano non era possibile che per poco tempo. E
l’Alta Italia decide non solo strategicamente, ma anche per il
movimento operaio, delle sorti della lunga penisola contadina.
Note
234 La lettura della lettera di Engels a Bignami del 13 febbraio
sulle elezioni al Reichstag del 10 gennaio 1877, alle quali i social
democratici avevano colto un gran successo, fu data al congresso
della Federazione dell’Alta Italia e quindi pubblicata su La Plebe
(n. 7 del 26 febbraio 1877).
235 Causa la malattia della moglie, Engels, dal 20 febbraIo al 14
marzo e nella seconda metà del maggio 1877, si trovò a
Brighton.
236 Il 20 febbraio Engels ricevé da Bignami tre numeri de La
Plebe: nn. I e 3 del 7 e del 21 gennaio e n. 6 del 16 febbraio 1877.
237 Tout comme chez nous (tutto come a casa nostra), modo
proverbiale passato in uso dalla commedia di Nolane de Fatouville
Arlecchino, imperatore della Luna.
238 Si tratta dell’appello del Comitato centrale del gruppo di
sezioni tedesche scritto da I. Ph. Becker e indirizzato alla sezione
di Zurigo. Fu pubblicato a Zurigo nell’ottobre 1876 in tedesco e in
francese come opuscolo a parte e rivolto contro la proposta della
sezione di partecipare al congresso degli anarchici a Berna
nell’ottobre 1876
239 Si veda la nota 234.
240 Si veda la nota 170
241 La Santa Alleanza, unione di monarchi europei costituitasi nel
1815 dopo la caduta dell’Impero napoleonico per lottare contro il
movimento rivoluzionario, cessò la sua attività nella
metà degli anni ‘20. Nelle loro lettere Marx ed Engels
così chiamano la frequente collaborazione
dell’Austria-Ungheria, della Germania e della Russia nelle questioni
internazionali.
242 Cioè dopo l’unificazione dell’Italia
Engels a Karl Kautsky
7 febbraio 1882
…...Uno dei compiti reali della rivoluzione del 1848 (i compiti
reali e non illusori di una rivoluzione si risolvono sempre come
risultato di questa rivoluzione) è stato il ristabilimento
delle nazionalità oppresse e divise della Media Europa, in
quanto esse in generale erano vitali e, in particolare, erano
già mature per l’indipendenza. Questo compito è stato
risolto per l’Italia, l’Ungheria e la Germania dagli esecutori
testamentari della rivoluzione: Bonaparte, Cavour e Bismarck, in
conformità ai rapporti di allora. Sono rimaste l’Irlanda e la
Polonia. L’Irlanda si può lasciarla qui in disparte, essa
influisce solo nel modo più indiretto sugli affari del
continente. Ma la Polonia è situata in mezzo al continente e
il permanere della divisione della Polonia è proprio quel
legame che sempre rinnova l’unità della Santa Alleanza241 e
perciò la Polonia ci interessa molto.
Fino a quando manca l’indipendenza nazionale, un grande popolo non
è in grado sul piano storico nemmeno di discutere in modo
più o meno serio queste o quelle questioni interne. Fino al
1859 di socialismo in Italia non se ne parlava nemmeno, persino i
repubblicani erano pochi, anche se erano l’elemento più
energico. I repubblicani sono cominciati a diffondersi solo dal
1861242 e solo in seguito essi hanno dato le loro energie migliori
ai socialisti.
Engels a Laura Lafargue
12 febbraio 1893
..…. È possibile che i socialisti proprio alla vigilia delle
elezioni243 suscitino con il loro silenzio il sospetto che essi non
siano migliori dei protagonisti del Panama e abbiano un proprio
motivo per coprirli e per passare sotto silenzio tutto ciò?
In Italia le cose stanno proprio così. Alcune persone dette
in Romagna come socialisti, sono nelle mani del governo grazie
ai sussidi, che esso corrisponde alle cosiddette associazioni
cooperative dirette da queste persone; sussidi, molto probabilmente,
arrivano dalle casseforti della Banca di Roma. È così
che si spiega il loro silenzio….
Note
243 Alle elezioni francesi del 20 agosto e del 3 settembre 1893 alla
Camera i socialisti ottennero, complessivamente, 700.000 voti e 30
seggi. A questi si aggiunsero altri 20 deputati appartenenti ai
gruppi borghesi di sinistra — soprattutto radicali — sotto il nome
di «socialisti indipendenti». Dunque il gruppo
socialista in complesso raggiunse le 50 unità.
Engels a Friedrich Adolf Sorge
23 febbraio 1894
…..In Italia si possono attendere, da un giorno all’altro, forti
sconvolgimenti. I borghesi hanno saputo mantenere in tutta la loro
interezza tutte le turpitudini del feudalesimo che sta per
tramontare, e hanno aggiunto a ciò la loro propria perfidia e
la loro propria crudeltà. Il paese ha esaurito tutte le sue
risorse e lì dovrebbe prodursi una svolta, ma il partito
socialista244 è fin’ora ancora molto debole, con concezioni
molto confuse, anche se vi sono in esso dei marxisti abbastanza in
gamba.....
Note
244 Si tratta del Partito socialista dei lavoratori italiani (si
veda la nota 191).
Engels a Paul Lafargue
18 dicembre 1894
…...Anche in Italia la monarchia è in una situazione critica.
L’erede del trono [Vittorio Emanuele III] è immischiato nella
storia con il Banco di Roma; quanto a lui, si tratta di
300.000 franchi, ma quanto al re [Umberto I], che agiva tramite
persone interposte, si tratta di somme notevolmente maggiori. Tutti
lo sanno. Crispi è colpito a morte dal trucco efficace di
Giolitti: è stato compromesso tutto il
parlamento, nonché tutti i funzionari superiori; nell’Italia
illibata gli uomini sono ancora dei cattolici, cioè degli
atei al punto che tutto ciò si compie alla luce del giorno,
che non possono nascondere la corruzione, al contrario, se ne
vantano, e così si arriva alla crisi.
Engels a Pasquale Martignetti
8 gennaio 1895
… .Molte grazie per la pena che vi siete dato per la prefazione al
III volume del Capitale. È certo bene che sia pubblicata
sulla Rassegna245 così in Italia si vedrà che la falsa
grandezza di Loria viene giudicata all’estero del tutto diversamente
che in patria. D’altra parte posso capire che in questo momento
Turati consideri tatticamente più opportuno non attaccare
quell’individuo così aspramente come faccio io. Quando in
Germania avevamo contro di noi le leggi eccezionali, anche la nostra
tattica era sotto molti aspetti diversa, e ci furono singoli
avversari risparmiati per considerazioni di opportunità, che
poi sono stati attaccati spietatamente. In casi di questo genere
debbo affidarmi nella maggior misura al giudizio di chi sta nel
mezzo della mischia, come Turati; può darsi che questa gente
non faccia sempre quello che io qui dal mio punto di vista ritengo
più giusto e più utile, ma tuttavia fa qualcosa, e fa
il suo dovere nella misura delle sue possibilità, e si assume
il peso delle conseguenze; se Turati e i suoi amici milanesi non
fossero molto sgraditi al governo, non li si sarebbe mandati per 3 o
5 mesi in domicilio coatto…...
Note
245 La traduzione italiana della Prefazione di Engels al III volume
del Capitale, redatta da Martignetti, fu pubblicata nella rivista La
Rassegna (n. 1, gennaio 1895).
Engels a Friedrich Adolf Sorge
16 gennaio 1895
…… Ebbene, e la Francia! Laggiù, come in Italia, la borghesia
si è data a capofitto alla corruzione e ha superato al
riguardo l’America. È già da tre anni che in entrambi
i paesi tutto verte intorno al problema di trovare un ministero
borghese, non diremo del tutto incorruttibile, ma almeno non
così apertamente compromesso dagli scandali diventati di
pubblico dominio, perché il parlamento possa appoggiarlo,
senza offendere troppo i sentimenti più elementari della
decenza. In Italia Crispi resisterà ancora per certo tempo
solo perché il re e il principe ereditario si sono
invischiati negli scandali bancari altrettanto profondamente come
lui stesso…..
Engels a Conrad Schmidt
12 marzo 1895
…..Il famoso Loria con la perspicacia che gli è propria, vede
nel terzo volume una palese rinuncia alla teoria del valore,246 e il
Suo articolo è una risposta a ciò. Ora della questione
si interessano due persone: Labriola a Roma e La fargue, che conduce
su Critica sociale una polemica con Loria247. Quindi, se Lei potesse
mandare una copia dell’articolo al professor
Antonio Labriola all’indirizzo: Corso Vittorio Emanuele 251, Roma,
questi farebbe tutto quanto è in suo potere per pubblicarlo,
tradotto in italiano……
Note
246 Si tratta dell’articolo di Loria L’opera postuma di Carlo Marx,
pubblicato nella Nuova Antologia di scienze, lettere ed arti, serie
III, vol. LV, n. 3 del 1° febbraio 1893.
247 Si tratta di due articoli di P. Lafargue: Breve risposta-domanda
ai critici di Marx circa la teoria del valore e Replica di Lafargue
pubblicate nella Critica Sociale (nn. 20 e 22 del 16 ottobre e del
16 novembre 1894) in risposta agli interventi di alcuni economisti
italiani per appoggiare i punti di vista di Loria a proposito del
III volume del Capitale espressi dall’autore nell’articolo L’opera
postuma di Carlo Marx (si veda pure la nota 246)
Karl Marx e Friederich Engels hanno dedicato una forte attenzione
all'Italia. Engels soprattutto conosceva bene lingua e cultura
italiane (da giovane aveva fatto un soggiorno prolungato nel nostro
paese a cui farà riferimento spesso nelle lettere), e anche
per questo aveva avuto presso il Consiglio Generale
dell’Internazionale il compito di Segretario incaricato della
corrispondenza con l’Italia. Nel biennio delle rivoluzioni 1848-49
avevano espresso viva ammirazione e grande speranza per la
rivoluzione in Italia, considerata una premessa per la rivoluzione
in Europa: Engels, commentando l’insurrezione parigina del giugno
1848, aveva definito le Cinque Giornate milanesi “la lotta
più calda” e importante di tutte le rivoluzioni fatte fino a
quel momento: “una popolazione di 170.000 anime, quasi disarmata,
batté un esercito di 20-30.000 uomini” (M.E. Opere, VII, p.
127).
Si erano presto disillusi, verificando il peso di principi e sovrani
ipocritamente proclamatisi liberali, a partire da Pio IX. Il papa
era stato definito fin dal primo momento “l’uomo che occupa la
posizione più reazionaria in tutta Europa, che rappresenta la
fossile ideologia del medioevo”, ma sottolineando al tempo stesso
che era stato costretto a porsi alla testa di un movimento liberale.
Questo già in un bilancio del 1847, pubblicato sulla
“Deutsche Brüsseler Zeitung” nel gennaio del 1848. Pochi mesi
dopo avrebbero dovuto verificare con amarezza che nonostante la
generosa prova del popolo milanese nel marzo, in altre parti
d’Italia (in particolare a Napoli il 15 maggio 1848) il ruolo
decisivo era stato svolto dai 20.000 “lazzaroni” schieratisi contro
i liberali come nel 1799.
Nell’agosto dello stesso anno, in un articolo sulla “Neue Rheinische
Zeitung” (La lotta di liberazione in Italia e la causa del suo
attuale insuccesso, 12/8/1848), Engels registrava con franchezza una
sostanziale sconfitta: “Con la stessa rapidità con cui, nel
marzo, furono cacciati dalla Lombardia, gli austriaci sono ora
tornati da trionfatori, e già sono entrati a Milano”. Engels
elogiava lo spirito di sacrificio, l’entusiasmo, il coraggio della
popolazione, ma non aveva dubbi sulle responsabilità di
coloro che detenevano il potere: “apertamente o segretamente, hanno
fatto di tutto (…) per paralizzare la forza popolare e per
ripristinare, in sostanza, il più presto possibile, l’antico
ordine di cose.”
In primo luogo denunciava il ruolo di quel Pio IX che aveva
suscitato in Italia tante speranze, e che invece era “giorno per
giorno sempre più lavorato dalla politica austro-gesuitica”;
ma anche e soprattutto quello di Carlo Alberto, bollato senza mezzi
termini come “il nemico principale della libertà italiana”.
Per Engels il re Carlo Alberto, che aveva già tradito i
Carbonari a cui si era unito “per ambizione”, aveva tentato di
“confiscare a beneficio della sua miseranda persona” l’intero
movimento popolare dell’anno 1848, inviando in tutta l’Italia
settentrionale suoi emissari che “lo dipingevano come l’uomo che
avrebbe salvato la patria.
Il ritratto che Engels traccia di Carlo Alberto è spietato:
“Pieno di odio e diffidenza contro tutti gli uomini veramente
liberali, si circondava di persone più o meno devote
all’assolutismo (…). Alla testa dell’esercito pose dei generali di
cui non doveva temere la superiorità intellettuale o le
opinioni politiche, ma che non godevano la fiducia dei soldati e non
possedevano il talento necessario a condurre felicemente a termine
la guerra. Egli si faceva chiamare pomposamente il “liberatore”
d’Italia, mentre a quegli stessi che avrebbe dovuto liberare
imponeva, come condizione, il suo giogo”. (Ivi, p. 398)
L’accusa al re di aver perso per cupidigia quanto aveva già
conquistato è circostanziata: l’esercito piemontese fu tenuto
fermo da Carlo Alberto mentre aveva ancora una netta
superiorità numerica su quello austriaco, per timore delle
tendenze repubblicane in Lombardia, nel Veneto, a Parma e Modena.
Engels osserva che “i popoli si sono scavata tante volte la fossa
con la loro longanimità, che devono ormai rinsavire e
imparare un po’ dai loro nemici”. Rimprovera infatti ai modenesi di
aver lasciato andar via tranquillamente “quel duca, che durante il
suo governo aveva fatto incarcerare, impiccare e fucilare migliaia
di persone per le loro tendenze politiche” e ora se lo vedevano
tornare a esercitare con raddoppiata ferocia “il suo sanguinario
ufficio di principe”. Ed Engels auspicava in genere che gli italiani
imparassero a non affidare la loro liberazione a un principe o un
re. “Per la loro salvezza, essi devono anzi, al più presto,
mettere da parte come inservibile questa «spada
d’Italia». Se l’avessero fatto prima, se avessero messo a
riposo il re e il suo regime assieme con tutti i suoi seguaci, e
avessero realizzato un’unione democratica, oggi probabilmente non ci
sarebbero più austriaci in Italia”. (Ivi, p. 399)
Ma nonostante la constatazione realistica sul successo completo
della reazione e della restaurazione, Engels concludeva che questa
era “solo provvisoria. Lo spirito rivoluzionario è troppo
profondamente penetrato nel popolo, perché alla lunga esso
possa esser domato. Milano, Brescia ed altre città hanno
mostrato nel marzo di cosa sia capace questo spirito. L’eccesso dei
mali condurrà a una nuova sollevazione”.(Ibidem)
Pochi mesi dopo credeva di scorgere ancora nella lotta tenace di
Livorno, Roma e Venezia il sintomo di una ripresa generale delle
lotte, in base a una specie di “circolarità” che assegnava
all’Italia il ruolo di anticipatore e detonatore. Intanto molti
scritti di Marx ed Engels tendevano a spiegare ai tedeschi la
necessità di sostenere la causa italiana, polacca, ungherese
e al tempo stesso a sottolineare che “né l’Ungherese
né il Polacco né l’Italiano possono essere liberi
finché rimane schiavo l’operaio”. Ma senza abbellire mai la
realtà. Nel 1850 hanno ormai la piena consapevolezza che si
è concluso un ciclo, e cominciano a pensare che “le
cosiddette rivoluzioni del 1848 furono soltanto piccoli incidenti –
fessure e squarci di poca importanza nella dura crosta della
società borghese”, come dirà Marx in un discorso
tenuto a Londra nell’aprile 1856. (M.E. Opere, XIV, p. 655).
Il carteggio tra i due, prezioso e affascinante, anche se di
difficile lettura per la quantità di allusioni ellittiche, di
battute, di scherzi, e con ovvie lacune nei periodi in cui potevano
comunicare a voce, rivela un profondo e costante fastidio per il
“popolo degli esiliati” che continua a sognare di provocare
rivoluzioni con i suoi proclami da lontano. Il bersaglio più
frequente è Mazzini, che comunque i due difesero sempre dagli
attacchi della repressione, pur discordando sulla sua tattica e mal
sopportando la sua retorica su “Dio e Popolo”…
Ma sono anche altri rivoluzionari più vicini a loro a
infastidirli: in una lettera del 13 febbraio 1851 Engels si sfogava
con Marx per la stupidità e la mancanza di tatto di un
compagno, George Harney, capo del movimento cartista in Inghilterra
che stava cercando di organizzare un meeting con i capi
dell’immigrazione. Finalmente abbiamo (…) – per la prima volta dopo
lungo tempo – l’occasione di dimostrare che non abbiamo bisogno di
nessuna popolarità”. Non possiamo neanche lamentarci molto
che certe persone ci temano e ci detestino, continuava. Non dobbiamo
assumere “nessuna posizione ufficiale nello Stato, ma anche,
finché è possibile, nessuna posizione ufficiale nel
partito, nessun seggio in comitati ecc., nessuna
responsabilità per conto di somari, critica spietata per
tutti, e inoltre quella serenità che tutte le cospirazioni di
queste teste di pecora non ci leveranno davvero. E questo possiamo
farlo. Possiamo nella realtà essere sempre più
rivoluzionari di tutti i frasaioli, perché noi abbiamo
imparato qualche cosa e loro no”. E tra le cose che avevano
imparato, Engels indicava la capacità di affrontare le cose
freddamente. (Marx Engels, Carteggio, Editori Riuniti, Roma, 1972,
vol. I, p. 177-178)
E negli stessi giorni se la prendeva con Harney, che faceva un
“imbroglio da ciarlatani” con le suppliche di Mazzini, e descriveva
uno “stupido esule ungherese” che gli era venuto fra i piedi qualche
tempo prima, e da cui aveva appreso che “questa nobile specie di
gente vaneggia ancora di attentati e di sommosse”, cosa che gli
faceva percepire nel fracasso “l’eroica voce di alcuni esaltati di
Londra”. (Marx Engels, Carteggio, Editori Riuniti, Roma, 1972, vol.
I, p. 168-170).
Insomma come tutti i veri rivoluzionari (viene in mente il Lenin del
1907 che si batte contro la riproposizione del boicottaggio della
Duma zarista in una fase di riflusso) Marx ed Engels distinguevano i
periodi in cui la rivoluzione stava maturando da quelli di
arretramenti e sconfitte.
Per alcuni anni – peraltro fecondi, dato che stava iniziando il
primo lavoro di stesura del Capitale, che nel 1851 si illudeva di
poter concludere in poche settimane, e richiese quasi due decenni -
gli scritti sull’Italia si diradano, a parte alcuni articoli
puntuali sulle poche vicende di rilievo, come un’insurrezione
mazziniana di Milano del febbraio 1853, che sarebbe altrimenti
dimenticata. Il commento è un esempio perfetto di dialettica.
Dapprima Marx denuncia le sopraffazioni di Radetzky, che infligge
alla maggioranza della popolazione multe di entità
illimitata, e considera comunque “significativa” l’insurrezione di
Milano, che considera “un sintomo della crisi rivoluzionaria che
incombe su tutto il continente europeo”. La definisce “ammirevole,
in quanto atto eroico di un pugno di proletari che armati di soli
coltelli, hanno avuto il coraggio di attaccare una cittadella e un
esercito di 40 mila soldati tra i migliori d’Europa”. (M.E. Opere,
XI, pp. 532-533). Sui coltelli dovrà ritornare, il 29
novembre, denunciando l’ipocrita indignazione della stampa
quotidiana di Londra che aveva manifestato “con grande ostentazione
tutto il suo orrore e sdegno morale” per un proclama di Mazzini
trovato in possesso di Felice Orsini (quello che tenterà poi
invano di uccidere Napoleone III, e finirà sul patibolo).
Marx difende l’uso del pugnale, che “se colpisce all’improvviso,
colpisce nel segno, rende un buon servizio e tiene il posto dei
moschetti”. Non è un invito all’assassinio a tradimento,
scrive Marx, commentando: “vorrei sapere in qual modo, in un paese
come l’Italia dove non esistono i mezzi per una resistenza aperta e
le spie sono ovunque, un movimento insurrezionale potrebbe avere una
grande probabilità di successo se non si facesse ricorso alla
sorpresa!”.
La difesa morale di Mazzini è totale: “Mazzini non dice
affatto di servirsi del pugnale per assassinare vilmente il nemico
disarmato; egli esorta invece a servirsene di sorpresa, ma nella
piena luce del giorno, come a Milano, dove un pugno di patrioti,
armati soltanto di coltelli, si precipitarono sui corpi di guardia
delle ben armate guarnigioni austriache”. Oggi che basta tirare due
uova per essere bollati come terroristi, la franchezza di Marx
appare sorprendente. Ma il bello è che, dopo aver difeso la
“moralità dell’indirizzo di Mazzini”, Marx aggiunge: “In
quanto al suo valore politico la questione è diversa. Da
parte mia penso che Mazzini sbagli tanto nell’opinione che ha del
popolo piemontese, quanto nei suoi sogni di una rivoluzione
italiana, la quale, secondo lui, dovrebbe attuarsi non già
grazie alle possibilità favorevoli che offrono le
complicazioni europee, ma grazie all’azione individuale di
cospiratori italiani che agiscano di sorpresa”. (M.E. Opere, XII, p.
527) Le “complicazioni europee” alludono ovviamente alle tensioni
che porteranno alla guerra di Crimea, a cui Marx dedicherà
molti articoli, consolidando anche la sua fama di buon giornalista.
Ma non si trattava di approdare alla realpolitik o di sposare la
tattica di Cavour, sul quale nello stesso carteggio tra i due autori
del “Manifesto” gli accenni sono scarsi e sempre poco benevoli. Per
Marx la polemica con Mazzini non nasceva solo dalla contrapposizione
del suo materialismo all’idealismo mazziniano, ma dalla convinzione
che fossero pericolose le illusioni di Mazzini sul ruolo di una
minoranza eroica che avrebbe potuto suscitare le energie necessarie
a determinare una rivoluzione, indipendentemente dalla situazione
oggettiva e soprattutto senza preoccuparsi troppo del rapporto tra
la minoranza rivoluzionaria e la massa della popolazione.
Marx continuava a credere possibile, oltre che necessaria, la
rivoluzione, ma riteneva essenziale che esistessero alcune
condizioni oggettive su cui inserire l’azione cosciente dei
rivoluzionari. Le riteneva possibili perché, sia pur senza
stabilire un nesso deterministico, riteneva essenziale per la
rivoluzione l’instabilità generata da una crisi economica, e
sapeva bene che le crisi economiche periodiche sono ineliminabili
dal normale funzionamento del capitalismo.
Nell’insieme degli scritti degli anni Cinquanta si riscontrano
puntuali osservazioni sui mutevoli schieramenti internazionali,
sempre ispirati dall’internazionalismo e non sempre compresi da chi
cercava di appoggiarsi più o meno apertamente a un paese
“protettore”, in particolare la Francia di Napoleone III, che aveva
nei suoi libri paga non pochi ex rivoluzionari come l’ungherese
Kossuth, e aveva cercato di annettersi (malvolentieri e senza
riuscirci) Garibaldi.
Su Garibaldi soprattutto Engels, attentissimo agli aspetti
più propriamente militari, dava un giudizio molto favorevole:
ne aveva seguito il ruolo nella guerra del 1859 (a cui i due avevano
dedicato moltissime pagine), e sosteneva che l’impresa dei Mille,
fin dalla marcia da Marsala a Palermo, era “una delle più
stupefacenti imprese militari del nostro secolo, impresa che
sembrerebbe quasi inconcepibile se non fosse per il prestigio che
precede la marcia di un generale rivoluzionario trionfante”.
Più volte, registrando lo sbandamento delle truppe
borboniche, Engels osserva che “il successo di Garibaldi prova che
le truppe regie di Napoli sono tuttora terrorizzate dall’uomo che ha
tenuto alta la bandiera della rivoluzione italiana in faccia ai
battaglioni francesi, napoletani ed austriaci”. (K. Marx, F. Engels, Sul Risorgimento italiano, Editori Riuniti, Roma, 1979, p. 360).
Pochi giorni dopo aggiunge che “le manovre con cui Garibaldi
preparò l’attacco a Palermo lo qualificano immediatamente
come un generale di grande statura. Fino ad oggi lo conoscevamo
soltanto come capo di guerriglieri assai abile e molto fortunato;
(…) ma qui noi lo vediamo agire su un buon terreno strategico; ed
egli supera la prova da maestro consumato nella sua arte”. (Ivi, p.
363).
E del piano per liberare l’Italia Engels dice, dopo lo sbarco in
Calabria, che “ne ammiriamo la grandiosità”, e che “la sua
esecuzione non avrebbe potuto essere tentata in nessun altro paese
che non fosse l’Italia, dove il Partito nazionale è
così perfettamente organizzato e così completamente
controllato dal solo uomo che ha impugnato la spada con successi
così brillanti per la causa dell’unità e
dell’indipendenza d’Italia”. (Ivi, p. 379).
Forse l’inconveniente era proprio che quel movimento fosse
“controllato da un solo uomo”. Ma intanto gli elogi aumentavano: il
24 settembre, pur registrando le manovre di agenti che operavano in
Sicilia per conto di Cavour e Napoleone III, Engels era ancora
sinceramente ammirato: “Garibaldi ha dimostrato di essere non
soltanto un capo coraggioso, ma anche un generale dotato di una
buona preparazione scientifica. L’attacco aperto a una catena di
forti costieri è un’impresa che richiede non soltanto talento
militare, ma anche scienza militare”. Engels, che aveva combattuto
nel 1849 nella rivoluzione del Baden e del Palatinato, e aveva poi
studiato storia militare, era colpito dal fatto che “il nostro eroe,
che in tutta la sua vita non ha mai dato neanche un esame militare,
e che non ha neanche mai fatto parte di un esercito regolare, si
è trovato pienamente a suo agio su un campo di battaglia di
questo tipo come su ogni altro”. (Ivi, p. 384).
Mancava un mese all’incontro di Teano. Gli articoli poi si
interrompono, ma ricostruiamo dal carteggio tra Marx ed Engels il
mutamento nella valutazione del generale autodidatta, perfino sul
piano militare. Già qualche settimana prima della
capitolazione, Engels scrive in una lettera del 1° ottobre, che
teme che lo slancio di Garibaldi si stia esaurendo: “pare che,
militarmente, non ce la faccia più”. Le sue buone truppe sono
state troppo suddivise nei battaglioni siciliani e napoletani, e non
ha più una buona organizzazione, anche per le manovre dei
cavouriani: “ questi miserabili borghesi sono capaci di rendere fra
poco insostenibile la sua posizione”. Il pericolo è che debba
attaccare prima di essere in condizione di vincere, ma soprattutto
che arrivi Vittorio Emanuele. (Ivi, p. 452). Poi un lungo silenzio.
Il 27 febbraio 1861 troviamo un giudizio comparativo sferzante: dopo
un elogio entusiastico di Spartaco, ricavato dalla lettura delle
Guerre civili romane di Appiano, Marx dice che lo schiavo ribelle
“vi figura come il tipo più in gamba che ci sia posto sotto
gli occhi da tutta la storia antica. Grande generale (non un
Garibaldi)”! (Marx Engels, Carteggio, Editori Riuniti, Roma, 1972,
vol. IV, p. 26)
Poi il 10 giugno dello stesso anno si accenna semplicemente a
“quell’asino di Garibaldi”, che si “è reso ridicolo con la
lettera sulla concordia ai Yankees”. (Ivi, p. 40). Marx alludeva a
una lettera in cui il generale aveva rifiutato di assumere un posto
di comando nell’esercito nordista, che gli era stato proposto
all’inizio della guerra civile negli Stati Uniti. Forse Marx era un
po’ drastico nella definizione, perché la motivazione del
rifiuto non era l’equidistanza o la “concordia”, ma il dubbio che la
lotta non fosse davvero per l’emancipazione degli schiavi, ma ormai
il giudizio politico ed umano su Garibaldi era secco: un asino… E un
commento ironico registrerà una visita di Lassalle (verso il
quale la polemica di Marx fu sempre impietosa e talvolta un po’
prevenuta) a Garibaldi in esilio a Caprera.
Dopo il 1860 comunque è diminuito l’interesse dei due per la
causa italiana, perché sono diminuite le speranze su di essa.
Dell’Italia parlano solo nel contesto della politica europea, come
si era fatto già precedentemente nei numerosi articoli
dedicati alla guerra di Crimea, in cui il Piemonte era stato
logicamente considerato un protagonista non essenziale, o in quelli
sulla guerra del 1859, che tendevano a smascherare le manovre di
Luigi Bonaparte senza per questo attenuare l’ostilità nei
con-fronti della corona austriaca.
E all’Italia gli scritti di Marx ed Engels si riferiranno d’ora in
poi quasi esclusivamente nel quadro delle polemiche con Mazzini e
Bakunin (e gli anarchici italiani), pubblicate da Gianni Bosio (K.
Marx, F: Engels, Scritti italiani, Edizioni Avanti!, 1955) è
però un’altra questione, che non ha più a che vedere
con il Risorgimento e l’unità d’Italia, ma solo con la storia
del movimento operaio. (12/10/10)