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Dottrina politico-sociale che realizza il principio della
collaborazione tra le classi e le categorie sociali. Si
distinguono due concezioni del c.: quello cattolico (R.-C-H. La
Tour du Pin ed E. Villeneuve in Francia; W.E. von Ketteler in
Germania; G. Toniolo in Italia) e quello fascista attuato in
Italia, Spagna, Portogallo, Brasile ecc., e tuttora fonte di
ispirazione per movimenti di estrema destra.
Il c. cattolico , nato in opposizione alla società liberale
scaturita dalla rivoluzione industriale, fu alla base della
dottrina sociale cattolica della seconda metà
dell’Ottocento che trovò la sua sistemazione dottrinaria
nell’enciclica Rerum Novarum (1892), nella quale Leone XIII
sollecitò, in nome del solidarismo cristiano, la formazione
di «corporazioni di arti e mestieri miste di operai e
padroni» onde «unire le due classi tra loro».
Il c. fascista , il cui manifesto programmatico fu la Carta del
lavoro (1927) – ritenuta fonte legislativa primaria del diritto
corporativo –, in sede teorica ebbe numerose interpretazioni e,
almeno nei primi anni fu oggetto di vivacissime polemiche,
attraverso le quali si espressero le varie tendenze sociali che
sottendevano il fascismo. Per es., per A. Rocco le corporazioni
dovevano essere uno strumento fondamentale per lo sviluppo della
potenza economica e politica italiana, mentre U. Spirito vide nel
c. la soluzione del problema proprietario.
Attualmente il termine è usato, in senso estensivo, per
indicare la politica rivendicativa ristretta e settoriale seguita
da associazioni o gruppi di lavoratori.
*
Dizionario di Storia (2010)
Corporativismo
Dottrina politico-sociale tendente a realizzare il principio della collaborazione tra le classi e le categorie sociali, sulla base di organismi rappresentativi delle varie attività professionali (corporazioni). Si possono distinguere due concezioni del c.: quella cattolica – i cui principali teorici sono stati nei secc. 19°-20° R. de La Tour du Pin e J.-P.-A. de Villeneuve in Francia, W. Ketteler in Germania e G. Toniolo in Italia – e quella fascista, attuata in Italia e, con varie sfumature, in Spagna, Portogallo, Brasile ecc., e rimasta di ispirazione per movimenti politici e culturali di estrema destra.
La concezione corporativa cattolica ebbe origine dalla reazione alla società liberale scaturita dalla Rivoluzione industriale e dalla Rivoluzione francese. All’individualismo economico e all’egualitarismo politico fu contrapposta la restaurazione di una struttura politico-sociale gerarchicamente ordinata secondo le norme etiche tradizionali. Quest’ideale corporativo fu alla base della dottrina sociale cattolica della seconda metà dell’Ottocento, che trovò la sua sistemazione dottrinaria nell’enciclica Rerum novarum (1892), nella quale Leone XIII sollecitò, in nome del solidarismo cristiano, la formazione di «corporazioni di arti e mestieri» costituite da soli operai, ovvero «miste di operai e padroni», per «unire le due classi tra loro». Il mancato riscontro in sede storica di questo modello corporativo portò nei decenni successivi al suo abbandono e alla creazione delle prime organizzazioni cattoliche di lavoratori. Tuttavia, il principio dell’interclassismo sostenuto dalla Chiesa fu ereditato dal nascente movimento politico cattolico.
Nella versione fascista del c. fu determinante, oltre all’azione conciliatrice e autoritaria dello Stato (richiamandosi a essa, e ritenendo di abolire la lotta di classe per legge, il fascismo vietò gli strumenti dello sciopero e della serrata), il valore politico-ideologico che gli venne assegnato come supposta «terza via» tra capitalismo e socialismo. Il fascismo definì corporazioni dapprima, dal genn. 1922, i propri sindacati (la Confederazione delle corporazioni sindacali), che in teoria avrebbero dovuto organizzare unitariamente datori di lavoro e lavoratori. Dopo i «patti» di palazzo Chigi (1923) e di palazzo Vidoni (1925), che invece confermarono il tradizionale dualismo, le corporazioni furono gli organi dell'amministrazione statale ai quali fu attribuita la funzione di collegamento tra i sindacati di un ramo produttivo o tra una o più categorie di imprese.
Il 2 luglio 1926 fu istituito il ministero delle Corporazioni,
con vaste competenze su salari e organizzazione del lavoro ma
anche nel campo dell’economia nazionale. Il c. fascista, il cui
manifesto fu la Carta del lavoro (1927), liquidò di fatto i
sindacati dei lavoratori intesi in senso proprio, assorbiti quasi
completamente nello Stato; in misura molto minore incise sulle
organizzazioni dei datori di lavoro.
In sede teorica il c. fascista ebbe varie interpretazioni e,
almeno nei primi anni, fu oggetto di vivaci polemiche, attraverso
le quali si espressero le diverse tendenze interne al fascismo: da
quella di A. Rocco, per il quale le corporazioni dovevano essere
uno strumento essenziale per lo sviluppo della potenza economica
italiana, a quella di U. Spirito, che vide nel c. la soluzione del
problema proprietario.
La legge del 5 febbr. 1934 assegnò alle corporazioni il
diritto di emettere norme giuridiche (ordinanze corporative)
riguardanti la disciplina della produzione, i rapporti di lavoro,
le tariffe delle prestazioni e dei beni di consumo. I membri del
loro Consiglio nazionale costituirono, insieme a quelli del
Consiglio nazionale del Partito nazionale fascista, la Camera dei
fasci e delle corporazioni (6 nov. 1938).
*
Enciclopedia delle Scienze Sociali
di Philippe C. Schmitter
Corporativismo/Corporatismo
Sommario: 1. Introduzione: a) un metodo di mediazione degli
interessi; b) una mescolanza di rappresentanza e di controllo; c)
una grande varietà di prefissi e di sottotipi. 2. Cause: a)
una tradizione nascosta; b) una prassi diversificata; c) una
dottrina ambigua; d) un'esperienza in ripresa. 3. Conseguenze: a)
un miglioramento dell'economia?; b) una trasformazione della
democrazia? 4. Il futuro: un'eredità incerta. □
Bibliografia.
1. Introduzione
Il corporativismo, sia come prassi politica sia come concetto
teorico, ha conosciuto alterne fortune: da una parte è
stato presentato come un metodo nuovo e promettente per creare
un'armonia sociale; dall'altra è stato condannato come
soluzione reazionaria e screditata per soffocare le richieste
politiche. La prassi/concetto è stata spesso definita in
termini assai differenti, ed è stata sempre controversa.
Dopo il crollo del fascismo in Italia, del nazionalsocialismo in
Germania e di vari altri regimi autoritari fioriti in Europa nel
periodo tra le due guerre mondiali - i quali asserivano tutti di
praticare qualche forma di corporativismo - questo concetto
è più o meno scomparso dalla terminologia politica
rispettabile, tranne che nella Spagna di Franco e nel Portogallo
di Salazar, paesi nei quali il corporativismo rimase
anacronisticamente in auge fino alla metà degli anni
settanta.A partire dal 1974 studiosi di diversi paesi, e di
diverse discipline accademiche, hanno proposto la nozione di
corporatismo per descrivere e spiegare alcune caratteristiche
peculiari della politica nelle società capitalistiche
avanzate, che il modello dominante applicato alle relazioni
Stato-società, il modello pluralistico, sembrava non
spiegare in maniera adeguata (v. Lehmbruch, 1979; v. Pahl e
Winkler, 1974; v. Schmitter, 1974). I politologi, i sociologi, gli
specialisti di relazioni industriali, gli economisti e gli storici
che in seguito hanno partecipato al dibattito sul corporatismo e
ne hanno fatto una "industria fiorente" (v. Panitch, 1980; v.
Cawson e Ballard, 1984, che citano circa 580 tra articoli e libri
comparsi dopo il 1974) non sempre si sono trovati d'accordo sulla
maniera di definire il fenomeno e solitamente sono stati del tutto
in disaccordo al momento di giudicare se la sua comparsa era
desiderabile o meno. Nella vita politica contemporanea questo
termine viene utilizzato soprattutto con connotazioni polemiche:
da evitare, quindi, da parte di chi fa uso di prassi di questo
tipo e da utilizzare invece per accusare i propri avversari. Dove
è stato possibile, ad esempio in inglese, in italiano, in
tedesco e in spagnolo, si è cercato di ovviare parzialmente
a questo uso contrastato chiamando 'corporativismo' la vecchia
versione politica e definendo 'corporatismo' la nuova versione
accademica (v. Ornaghi, 1984). In francese non è stato
possibile far ricorso a una distinzione di tal genere: in Francia
il corporatisme - termine usato spesso al plurale - non ha
ricevuto la medesima attenzione da parte degli studiosi e continua
ad essere utilizzato soprattutto come accusa da lanciare ai propri
avversari.
a) Un metodo di mediazione degli interessi
Sebbene il corporatismo possa essere e sia stato in effetti
definito un'ideologia, un indirizzo della cultura politica, un
tipo di Stato, una forma di economia, o perfino un tipo di
società, la prospettiva di indagine più feconda
consiste nel considerarlo uno dei tanti possibili tipi di accordo
attraverso i quali gli interessi organizzati possono mediare tra i
propri membri (siano questi individui, famiglie, aziende,
comunità, gruppi) e vari interlocutori (in particolare
rappresentanti dello Stato o del governo). In questo processo
hanno un ruolo centrale le organizzazioni di carattere permanente
e dotate di personale a tempo pieno, che si specializzano
nell'opera di individuazione, promozione e difesa degli interessi,
influenzando e contestando le politiche pubbliche. A differenza
dei partiti politici - l'altro principale strumento di mediazione
nella politica moderna - queste associazioni non presentano
candidati alle elezioni né accettano alcuna
responsabilità diretta nella formazione dei governi. Quando
le associazioni di interesse, e soprattutto quando intere reti di
queste, assumono una certa conformazione e/o quando esse prendono
parte in un certo modo alle decisioni prese a diversi livelli
dello Stato, possiamo affermare di trovarci in presenza del
corporatismo moderno.Occorre sottolineare che gli accordi
corporati non rappresentano l'unico modo in cui è possibile
istituzionalizzare gli scambi pattizi tra la tutela degli
interessi e il riconoscimento di un'autorità. Come vedremo
tra breve, se si escludono le pratiche delle città
medievali e le dittature del periodo tra le due guerre, gli
accordi corporati sono stati rari, assai selettivi e relativamente
recenti. Nelle società moderne si è fatto molto
più spesso ricorso al pluralismo al fine di strutturare
queste relazioni. Questa concezione 'rivale' non soltanto ha avuto
maggiori fautori nei circoli accademici (in particolare negli
Stati Uniti), ma per lungo tempo è stata considerata
l'unica compatibile con la moderna democrazia. Di fronte a questa
egemonia ideologica del pluralismo e ai suoi presunti legami con
la democrazia, pochi sono stati i sostenitori dichiarati del
corporatismo in tempi recenti, e gli studiosi che lo hanno
analizzato empiricamente sono stati spesso accusati di favorire un
esito intrinsecamente antidemocratico (v. Schmitter, 1983).
b) Una mescolanza di rappresentanza e di controllo
Sia il pluralismo sia il corporatismo, come pure altri metodi di
mediazione meno discussi quali il sindacalismo e il monismo, sono
necessariamente coinvolti in due aspetti contrastanti del processo
politico: 1) far conoscere le preferenze dei propri membri e
trasformarle in richieste verso terzi; 2) controllare e
influenzare la successiva condotta mirata al soddisfacimento di
tali richieste. Nella terminologia della teoria dei sistemi le
associazioni di mediazione hanno una funzione di input e una di
output; nel vocabolario della teoria politica esse sono
contemporaneamente impegnate in un'opera di rappresentanza e di
controllo - il che pone queste organizzazioni in una situazione
spesso difficile e talvolta contraddittoria, in quanto le
costringe a conformarsi alle preferenze già formulate dei
propri membri e alle richieste avanzate dai propri interlocutori.
È infatti improbabile che un'associazione, che si limiti a
rappresentare i propri membri e non possa influenzare il loro
successivo comportamento, attiri l'attenzione di rappresentanti
dello Stato; d'altra parte, un'organizzazione che cerchi soltanto
di controllare i comportamenti senza riflettere l'opinione dei
membri rischia di essere considerata un'emanazione dello Stato e
di essere pertanto rifiutata come illegittima da quegli stessi
soggetti che essa pretende di rappresentare (v. tabella).
Dietro le etichette contrapposte di pluralismo e corporatismo si
trovano assunti di fondo assai differenti riguardo alle
modalità con cui rappresentanza e controllo sono
intrecciati ed espressi nelle associazioni. Un confronto fra
questi due elementi può fornire lo schema generale
più utile per definire i due concetti. La tabella delinea
l'arco delle proprietà connesse al ruolo e alle risorse
delle associazioni di interesse e precisa gli elementi di
mediazione degli interessi presenti in un modello corporato 'puro'
e in uno pluralista 'puro'. È importante sottolineare che
le distinzioni qui richiamate sono teoriche, non empiriche, e
possono presentare gradazioni e approssimazioni. Nessun sistema
politico realmente esistente riproduce in se stesso esattamente e
nella sua interezza la Gestalt schematizzata in ciascuna colonna.
E, cosa ancora più importante, molte ricerche hanno
dimostrato che all'interno di un determinato sistema politico la
struttura degli interessi organizzati può variare
notevolmente secondo i diversi scenari politici. Perfino la
medesima organizzazione - associazione industriale, sindacato o
organizzazione professionale - può agire di volta in volta
o contemporaneamente in maniera più pluralista o più
corporata quando interagisce con differenti istituzioni o livelli
governativi.
La colonna destra dello schema riassume le caratteristiche di un
sistema corporato puro sia rispetto ai membri sia rispetto agli
interlocutori. Viene preso in considerazione innanzitutto
l'aspetto rappresentativo o di input, ossia gli interessi
organizzati in unità monopolistiche di rappresentanze non
sovrapposte, coordinate gerarchicamente da associazioni più
ampie, 'di vertice', e basate su contributi non volontari,
automatici (tra i quali l'iscrizione effettiva). In cambio lo
Stato garantisce l'esplicito riconoscimento di un'associazione per
ogni categoria, inserisce tale organizzazione in maniera diretta e
sicura nel processo decisionale, e negozia per ottenere il suo
assenso su misure di sua pertinenza che solitamente assumono la
forma di accordi globali complessivi concernenti diverse
questioni. Osservato dal punto di vista degli outputs (ossia del
controllo sociale), il corporatismo implica la presenza di
associazioni impegnate attivamente nel compito di definire e di
sostenere gli interessi dei propri membri e nell'esercitare la
propria autorità sul comportamento dei membri stessi, se
necessario attraverso l'imposizione di sanzioni coercitive e la
fornitura di beni di cui i membri hanno necessità, quali
licenze, permessi, marchi di fabbrica, diritti legali e
così via. In contraccambio lo Stato si assicura il consenso
e l'adesione dell'intera categoria e demanda all'associazione
parte della responsabilità nell'attuazione della politica
adottata.
Una definizione del moderno corporatismo che ha dato inizio a
buona parte dell'attuale discussione è quella proposta da
Schmitter (v., 1974, pp. 93-94): "Un sistema di rappresentanza
degli interessi nel quale le unità costitutive sono
organizzate in un numero limitato di categorie singole,
obbligatorie, non in competizione, ordinate gerarchicamente e
differenziate nelle funzioni, riconosciute o autorizzate (se non
create) dallo Stato, alle quali è assicurato un deliberato
monopolio della rappresentanza [...] in cambio dell'osservanza di
alcuni controlli sulla propria selezione dei leaders e sulla
formulazione delle richieste e degli aiuti".
Questo approccio sottolinea quasi esclusivamente l'aspetto di
input, ossia la struttura organizzativa delle associazioni di
interessi. Lehmbruch, nel suo saggio apparso nello stesso periodo,
definiva quello che chiamava "corporatismo liberale" come "un tipo
particolare di partecipazione da parte di grandi gruppi
organizzati al processo di policy-making pubblico, specialmente in
campo economico, caratterizzato da un alto grado di cooperazione
tra i gruppi stessi" (v. Lehmbruch, 1979, p. 53). Alcune
definizioni successive hanno congiunto questi due aspetti di input
e di output e talvolta vi hanno aggiunto anche un'esplicita
componente di classe: "Una struttura politica all'interno del
capitalismo avanzato, che integra gruppi organizzati di produttori
socioeconomici attraverso un sistema di rappresentanza e di mutua
interazione cooperativa a livello di leadership, e di
mobilitazione e controllo sociale a livello di massa" (v. Panitch,
1979, p. 123). Il proliferare di concettualizzazioni ha
determinato inizialmente una certa confusione, quasi del tutto
eliminata dalle recenti sintesi (v. Cawson, Corporatism..., 1986;
v. Williamson, 1985).
c) Una grande varietà di prefissi e di sottotipi
Nel rinnovato dibattito sul corporatismo gli studiosi compresero
immediatamente la necessità di introdurre precisazioni, di
procedere per genus et differentiam al fine di individuare i
sottotipi. La distinzione più importante è quella
che separa i tipi di corporatismo imposti dall'alto nei regimi
dittatoriali - il cosiddetto corporativismo di Stato o
corporativismo autoritario - e quelli emersi dal basso con il
volontario assenso delle categorie di interessi coinvolte negli
accordi - il cosiddetto corporatismo liberale o contrattato, che
si fonda sulla società e non sullo Stato. Gli studiosi che
si sono occupati dei paesi dell'Europa meridionale (v. Linz, 1981;
v. Schmitter, 1975), dell'America Latina (v. Schmitter, 1971; v.
Collier e Collier, 1977; v. Malloy, 1977) e di altre realtà
politiche del Terzo Mondo (v. Bianchi, 1986) hanno rivolto la
propria attenzione soprattutto al primo genere di corporatismo;
quelli che hanno studiato le società industriali avanzate
dell'Europa occidentale, dell'America settentrionale e del
Giappone si sono concentrati esclusivamente sul secondo tipo (v.
Schmitter e Lehmbruch, 1979; v. Lehmbruch e Schmitter, 1982; v.
Berger, 1981; v. Goldthorpe, 1984; v. Maraffi, 1981).
Gli osservatori di orientamento più spiccatamente storico
hanno a volte operato una distinzione tra il paleo-corporativismo
dei Comuni medievali (v. Black, 1984), il proto-corporativismo
tentato nel periodo immediatamente successivo alla prima guerra
mondiale e durante gli anni venti e trenta nella Germania di
Weimar, in Svezia e in Svizzera (v. Maier, 1975; v. Telò,
1985), lo pseudo-corporatismo che fu tentato negli Stati Uniti
durante il New Deal ma che non riuscì a creare una durevole
concertazione degli interessi di classe (v. Maier, 1981) e i vari
neo-corporatismi che, nel periodo successivo alla seconda guerra
mondiale, riuscirono a dare vita a una determinazione consensuale
dei salari e alla formazione di una politica economica in molti
paesi europei (v. Lange, 1982; v. Altvater e altri, 1983).
Altri studiosi hanno ritenuto importante differenziare gli accordi
corporati in base al numero e al tipo di partecipanti. Nel caso
più comune ci si è trovati di fronte a trattative
trilaterali, nelle quali i rappresentanti del capitale, dei
lavoratori e dello Stato erano presenti su base pressoché
paritaria. Sono stati osservati però anche casi di
trattative bilaterali, con la partecipazione di soli
rappresentanti dell'industria e dello Stato - il cosiddetto
'corporatismo senza la componente del lavoro' (un caso
particolarmente cospicuo in questo contesto è rappresentato
dal Giappone: v. Pempel e Tsunekawa, 1979). I casi di trattative
bilaterali tra capitale e lavoratori senza alcuna presenza
ufficiale del governo o dello Stato sono stati molto più
rari (in Svizzera si è avuto dal 1937 un accordo di questo
genere per la determinazione dei salari: v. Katzenstein, 1984).
Da ultimo, gli autori che più recentemente si sono occupati
di questo tema hanno prestato molta attenzione ai diversi livelli
ai quali il corporatismo può operare. Precedentemente si
riteneva che le esperienze più importanti di questo tipo
fossero rappresentate dagli accordi complessivi su scala nazionale
- i cosiddetti 'patti' sociali o 'trattati di pace' -, che
implicavano un coordinamento di politiche attraverso molteplici
settori economici e diversi scenari politici. Con il mutare del
clima politico ed economico a partire dalla metà degli anni
settanta e con il vacillare di questi macrocorporatismi, gli
studiosi hanno riscoperto l'importanza dei mesocorporatismi
attuati a livello di settori specifici (industrie o categorie
professionali) e di governi locali (province o regioni). Il
settore agricolo è sembrato per lungo tempo il più
adatto per interventi di questo tipo, ma la rinnovata importanza
attribuita alla ristrutturazione industriale e allo sviluppo
tecnologico ha dato vita a una molteplicità di iniziative
tese a coinvolgere le associazioni industriali, i sindacati e le
istituzioni statali in un continuo dialogo volto alla risoluzione
di problemi comuni (v. Cawson, 1985; v. Streeck e Schmitter,
1985). Analogamente, i tentativi di realizzare una
codeterminazione, una democrazia economica, un'amministrazione
decentrata, un decentramento politico e così via sono stati
a lungo sull'agenda dei politici e sono perfino sfociati in
esperimenti politici di rilievo; ma solo in epoca molto recente
queste iniziative sono state classificate come microcorporatismo -
concertazione di interessi organizzati all'interno di aziende o di
comunità locali - e si è utilizzata questa categoria
per confrontare il loro funzionamento e la loro efficacia (v.
Hernes e Selvik, 1981; v. Cawson, 1985).
2. Cause
a) Una tradizione nascosta
Sebbene il concetto di corporativismo o corporatismo sia di
origine recente - in quanto ha fatto la propria comparsa
probabilmente negli ultimi due decenni del secolo scorso ed
è entrato nell'uso comune solo in questo secolo - il
fenomeno che esso descrive è assai antico. Le corporazioni
(o collegia), intese come organizzazioni composte di persone che
esercitano la medesima professione o che producono il medesimo
bene, caratterizzate da specifici statuti e dotate di privilegi
monopolistici, esistevano già durante la Repubblica e
l'Impero romani. La loro importanza sembra essere stata allora
alquanto marginale, sebbene fossero evidentemente considerate
abbastanza pericolose da giustificare una loro prima soppressione
sotto il consolato di Cicerone e una seconda sotto Cesare. Nel
Medioevo, in particolare nel periodo di sviluppo dei Comuni (dal
1000 circa fino al 1500), i sistemi delle corporazioni locali (o
gilde) assursero al rango di importanti organi di governo. Come ha
evidenziato Anthony Black (v., 1984), pochi pensatori dell'epoca
riconobbero la loro importanza - Marsilio da Padova, Clemens
Jäger di Augusta, Jean Bodin, Johannes Althusius
costituiscono delle eccezioni -, sebbene la loro influenza si
estendesse in ogni campo. Machiavelli, ad esempio, visse in una
città in cui le corporazioni erano onnipresenti, eppure ne
ignorò praticamente l'esistenza. Egli preferì invece
sottolineare la funzione degli individui che mediavano tra le
famiglie rivali di magnati e il popolo; la nuova civitas doveva
essere composta, nella sua opinione, di cittadini virtuosi in
grado di farsi valere, e non di membri di corporazioni che si
davano mutuo sostegno e prendevano decisioni collettivamente.
Anche in quei paesi europei dove l'ordinamento corporativo di
città e villaggi sopravvisse fino all'epoca moderna -
Svizzera, Germania, Austria, Paesi Bassi - un'esplicita
elaborazione teorica fu assai ridotta. Divennero dominanti
concezioni dell'ordine politico che solitamente diffidavano della
nozione stessa di corpi intermedi posti tra l'individuo e
l'autorità pubblica. Così, per esempio, Thomas
Hobbes affermò che tali corpi, in quanto non erano
subordinati al potere sovrano, erano come "vermi nelle viscere del
corpo politico" e Jean-Jacques Rousseau li considerava solamente
"associazioni faziose" che ostacolavano l'espressione della
volontà generale.
b) Una prassi diversificata
In questa penombra intellettuale il corporativismo sopravvisse
come una tradizione praticamente invisibile, senza competere, per
così dire, con le grandi correnti di pensiero che agitarono
l'Europa all'inizio dell'epoca moderna. In diverse occasioni i
governanti trovarono vantaggioso 'nazionalizzare' la prassi delle
gilde, per fare propri i privilegi e l'autogoverno delle
istituzioni locali e per trasformarle in strumenti
dell'autorità centrale. Colbert in Francia fu uno dei primi
a estendere e razionalizzare il loro potere, nel quadro di un
più ampio tentativo di creare un'alternativa mercantilista
al capitalismo emergente. Il suo esempio fu imitato da altri
riformatori in Spagna, Portogallo, Prussia, Austria e Russia,
senza che questo producesse però molti risultati. Una volta
sradicate dalla scala ridotta dell'economia locale e persa la loro
identità, le gilde sembrarono private della propria
vitalità e autonomia. In paesi quali l'Olanda e
l'Inghilterra le corporazioni di artigiani o piccoli proprietari
terrieri ebbero un ruolo importante nella Rivolta olandese del
Cinquecento e nella Rivoluzione inglese del Seicento, ma i
successivi regimi parlamentari furono composti da rappresentanti
designati a livello individuale e su base territoriale. Già
nel XVIII secolo le dottrine del libero scambio e della
libertà di produzione, unitamente ai nuovi metodi di
produzione e alla pressione della concorrenza, avevano compromesso
in larga misura i privilegi monopolistici delle gilde. L'Enquiry
(1776) di Adam Smith trabocca di ostilità verso le
corporazioni.Ormai indebolite dalle interferenze dei sovrani e
dalle resistenze politiche, le gilde ebbero il colpo di grazia
dalla Rivoluzione francese. La legge Le Chapelier (1791)
abolì tutte le corporazioni in Francia, e le armate
rivoluzionarie portarono con sé l'editto allorché
mossero alla conquista dei Paesi Bassi, dei principati renani,
delle repubbliche svizzere, della Baviera, della Prussia,
dell'Italia e della Spagna. Ironia della sorte, per reazione alla
disgregazione economica provocata da questo decreto, il successivo
governo di Napoleone diede vita al primo istituto corporativo
moderno, costituito da un articolato sistema nazionale di camere
di commercio. Questi nuovi organismi, che in alcuni casi
succedevano a preesistenti corporazioni di mercanti, erano basati
sull'iscrizione obbligatoria ed ebbero il ruolo di strumenti per
l'attuazione delle politiche governative. I paesi confinanti
sottoposti al dominio napoleonico - i Paesi Bassi, la Renania,
l'Italia, la Spagna - furono dotati di organismi analoghi. Altri
paesi, come l'Austria e la Grecia, li adottarono successivamente.
In seguito, nel corso del XIX secolo e all'inizio del XX, questo
sistema di camere semipubbliche fu esteso ad altri settori e
impieghi: industriali, agricoltori, artigiani e perfino lavoratori
salariati (come nel caso dell'Austria). In alcuni paesi queste
camere sono divenute strumenti relativamente passivi dello Stato e
raramente hanno la funzione di esprimere o negoziare gli interessi
dei propri membri (questo avviene ad esempio in Italia e in
Francia). In Austria esse costituiscono il fondamento
organizzativo dell'attuale ordinamento macrocorporativo. In altri
paesi (come la Germania) svolgono un ruolo importante a livello
settoriale o locale.Questi tentativi volti a favorire il sorgere
di un sistema di corporazioni di stampo medievale passarono in
generale quasi inosservati durante il XIX secolo. La dottrina
dominante era il liberalismo, incentrato sulla rappresentanza
individuale e sui contratti volontari. La 'libertà di
lavoro' e, in seguito, la 'libertà di associazione' furono
proclamate in un paese dopo l'altro, e ciò implicitamente
significava non riconoscere la legittimità di richieste di
tipo corporativo e dell'obbligo di appartenere a qualche
associazione, così come furono esplicitamente eliminati i
residui poteri delle corporazioni. Si utilizzarono le disposizioni
del codice civile e i precedenti del diritto consuetudinario al
fine di scoraggiare azioni collettive, specialmente da parte dei
lavoratori, asserendo che esse sovvertivano o limitavano i
rapporti commerciali. A eccezione delle camere sopracitate e di
anacronistiche vestigia del passato quali l'ordine dei notai,
l'albo dei ragionieri, l'ordine degli avvocati o dei medici,
rimase un numero assai ridotto di associazioni che incarnavano gli
ideali corporativi di mutua assistenza e fratellanza,
professionalità, proporzionalità numerica, armonia
organica e libertà comunale, che avevano avuto un ruolo
così importante nello sviluppo economico e politico
dell'Europa. È superfluo aggiungere che nelle 'nuove
società politiche' americane queste tradizioni erano ancora
più deboli.
c) Una dottrina ambigua
Già verso la fine del secolo scorso l'emergere dei
movimenti sindacali costrinse i giuspubblicisti e i politici a
riconoscere la legittimità della rappresentanza di gruppo e
della contrattazione collettiva. I conservatori si resero conto
che il libero funzionamento dei mercati del lavoro e la presenza
di condizioni di produzione non regolamentate avrebbero portato a
una radicale messa in discussione dello status quo. La risposta di
Bismarck, volta a controbilanciare il sindacalismo su base di
classe, fu l'istituzione della pensione obbligatoria e
dell'indennità di malattia e disoccupazione per diverse
categorie professionali (Berufsgenossenschaften). Ancora
più rilevante, dal punto di vista della dottrina
corporativa, fu il sorgere di un forte movimento di 'cattolicesimo
sociale' guidato inizialmente da ecclesiastici e laici tedeschi,
austriaci, belgi, francesi e italiani: Wilhelm von Ketteler, Karl
von Vogelsang, René de la Tour du Pin, Albert de Mun,
Giuseppe Toniolo. Questa corrente di pensiero coniò
esplicitamente il concetto di 'corporativismo' e lo diffuse
ampiamente nell'uso politico (v. Mayer-Tasch, 1971). L'enciclica
pontificia Rerum novarum, emanata nel 1891 da papa Leone XIII,
invocava la creazione di associazioni miste di datori di lavoro e
lavoratori come via media tra capitalismo e socialismo.
A partire da questo momento i sostenitori di una qualche forma di
corporativismo cominciarono a proliferare in tutta Europa. A
sinistra, le gilde socialiste puntarono alla creazione di un
sistema fondato su unità di produzione decentrate e
autogestite. Al centro vi erano gli esponenti del solidarismo
francese - Paul Boncour, Charles Benoist, Leon Duguit - che
divulgarono i concetti di federalismo economico e di
rappresentanza funzionale, riprendendo gli ideali delineati da
Émile Durkheim in De la division du travail social (1893).
A destra, i sostenitori del cattolicesimo sociale si trovarono in
competizione con vari autori romantici fautori di un ritorno al
sistema medievale delle corporazioni di mestiere (v. Elbow, 1966;
v. Bowen, 1947). La monumentale opera di Otto von Gierke, Das
deutsche Genossenschaftsrecht (1868-1881), ebbe un certo ruolo in
questa ripresa specialmente grazie alla sua traduzione parziale in
inglese a cura di F. Maitland (1900).
Questa ventata di attenzione per il corporativismo al passaggio
del secolo avrebbe probabilmente costituito un capitolo minore
nella storia delle idee se non fosse stato per un evento decisivo
che trasformò completamente la prassi della politica degli
interessi, vale a dire la prima guerra mondiale. L'enorme e
prolungato impatto della guerra sulla produzione, le esigenze del
razionamento e della mobilitazione e la necessità di
ridurre al minimo lo sconvolgimento nel campo del lavoro furono
tutti elementi che indussero le autorità a travalicare i
limiti imposti dalle legislazioni precedenti e a negoziare
contratti collettivi con le associazioni industriali e i
sindacati. Fu così che per la prima volta le associazioni
industriali acquisirono poteri effettivi di coordinamento e i
sindacati si assicurarono il diritto di sostenere le
rivendicazioni dei lavoratori sul luogo di lavoro. All'interno
dell'apparato statale proliferarono gli accordi per via di
consultazione che davano ai rappresentanti degli interessi accesso
diretto alle decisioni politiche. Vi fu un fiorire delle
iscrizioni ai sindacati, il numero delle associazioni industriali
aumentò vertiginosamente e le organizzazioni di vertice di
entrambi i tipi si trovarono ad avere un ruolo sempre più
rilevante (v. Feldman, 1970 e 1981; v. Middlemas, 1979; v. Oualid
e Picquenard, 1928; v. Einaudi, 1933).
Se al termine della guerra le nazioni che vi avevano preso parte
fossero riuscite a ricreare un 'ordine borghese' di stampo
liberale come quello precedente, difficilmente il corporativismo
sarebbe sopravvissuto, sia come dottrina sia come prassi politica.
L'incapacità di ritornare alla normalità nel periodo
immediatamente successivo alla guerra e, di conseguenza, la
continua necessità di contrattare con rappresentanze
organizzate delle classi, di settori o di professioni, o di creare
una struttura alternativa in grado di impedire le loro richieste
contribuirono a mantenere il corporativismo, in una forma o
nell'altra, al centro dell'interesse politico (v. Maier, 1975). La
più chiara manifestazione di questo nuovo fenomeno si ebbe
in Germania. L'accordo Stinnes-Legien tra le associazioni di
vertice degli industriali e dei lavoratori contribuì a
porre fine alla lotta rivoluzionaria scoppiata al termine della
guerra (v. Feldman, 1970). Più tardi la Costituzione di
Weimar istituì un Consiglio economico che prometteva di
rendere istituzionale la rappresentanza dei principali gruppi di
interesse all'interno del processo politico. Entrambi ebbero in
effetti una vita relativamente breve, ma contribuirono a mettere
in evidenza la possibilità che l''ordine' postbellico
necessitasse di qualcosa di più della solita azione di
istituzioni parlamentari e amministrative. Perfino in paesi con
una tradizione politica liberale e individualista ben più
forte, quali la Gran Bretagna (v. Carpenter, 1976) e gli Stati
Uniti (v. Hawley, 1978; v. Vaudagna, 1981), durante gli anni venti
e trenta emersero alcuni fautori del corporativismo. John Maynard
Keynes, nella sua opera The end of laissez-faire, sostenne che
probabilmente "il progresso è rappresentato dalla crescita
e dal riconoscimento di corpi semiautonomi all'interno dello
Stato" (v. Keynes, 1927, p. 41).
I sostenitori più vigorosi del corporativismo nel primo
dopoguerra provenivano però, inaspettatamente, dalla destra
radicale. Fino ad allora questa estremità dello
schieramento politico era stata formata da monarchici reazionari
come Charles Maurras, fautori di una versione del corporativismo
di stampo romantico, cattolico, neomedievale, dotata di scarsa
presa popolare (v. Bowen, 1947). I nuovi sostenitori del
corporativismo, probabilmente in seguito alle proprie esperienze
del periodo bellico, erano invece laici, talvolta perfino
anticlericali, e traevano ispirazione da ideali socialisti e
sindacali di produzione cooperativa e da concetti nazionalistici
di autarchia e modernizzazione. In Italia, esponenti nazionalisti
quali Enrico Corradini, Alfredo Rocco, Alceste De Ambris e Filippo
Corridoni influenzarono dapprima D'Annunzio (che, dopo
l'occupazione di Fiume, proclamò, nel 1920, la prima
costituzione 'corporativa', la Carta del Carnaro) e in seguito
Mussolini (che fece del corporativismo uno degli elementi basilari
del regime fascista a partire dal 1926). Successivamente si
formò in Italia un'intera 'scuola' di teorici del
corporativismo statale, tesa a giustificare e a esaltare questi
cambiamenti: Sergio Panunzio, Ugo Spirito, Edmondo Rossoni e
Giuseppe Bottai. Nel 1931 l'enciclica di Pio XI Quadragesimo anno
sancì l'approvazione delle nuove istituzioni fasciste da
parte della Chiesa cattolica.
La proclamazione assai pubblicizzata di uno 'Stato corporativo'
dotato di una Carta del lavoro, da parte di Mussolini, produsse
una vera valanga di imitatori nell'Europa meridionale e orientale,
così come nell'America Latina. Il teorico del
corporativismo di gran lunga più originale e stimolante nel
periodo tra le due guerre fu l'economista e ingegnere rumeno
Mihail Manoilescu. Fu Manoilescu che avanzò la predizione
cosmica secondo cui, così come il XIX secolo era stato il
secolo del liberalismo, il XX sarebbe stato il secolo del
corporativismo (v. Manoilescu, 1934). L'ineluttabile successo di
questa dottrina non aveva alcuna connessione, a suo parere, con
un'ipotetica rinascita di pratiche cattoliche o medievali, ma era
determinato dalle necessità ineludibili di modernizzazione,
e in particolare dalla necessità da parte delle nazioni
collocate alla periferia del capitalismo mondiale di organizzare
la propria produzione attraverso una pianificazione e la
collaborazione tra le classi, al fine di contrastare lo
sfruttamento da parte delle nazioni più sviluppate. Secondo
Manoilescu il corporativismo non costituiva un mero espediente
temporaneo per proteggere una classe minacciata da un'altra,
bensì rappresentava un'istituzione permanente posta al di
sopra della lotta di classe, l'unica in grado di sottomettere gli
interessi particolari ai superiori fini della nazione. Complessi
mutamenti nelle relazioni internazionali - il crollo dell'ordine
economico liberale prebellico, la crescente richiesta di
uguaglianza di status e di privilegi tra Stati nazionali, la
definitiva demarcazione dei confini territoriali su scala mondiale
- richiedevano una modernizzazione difensiva promossa dall'alto.
Solamente il corporativismo poteva fornire la necessaria gerarchia
di autorità nella produzione, la specificità
funzionale nella pianificazione e nella contrattazione e
quell'armonia tra interessi di gruppo che avrebbe consentito allo
Stato di agire in maniera incisiva ed efficiente in circostanze
così critiche.
Non esistono prove dirette che le tesi di Manoilescu abbiano avuto
un'influenza significativa sui regimi autoritari sorti nel periodo
tra le due guerre, sebbene le sue opere (unitamente a quelle dei
teorici italiani del corporativismo di Stato) fossero state
tradotte e circolassero ampiamente nell'Europa meridionale e
nell'America Latina. Sembra, tuttavia, che vi sia realmente una
specie di 'affinità elettiva' (se non proprio un legame
causale) tra capitalismo periferico e arretrato, consapevolezza
del proprio relativo sottosviluppo, risentimento per la condizione
di inferiorità sul piano internazionale, desiderio di
autarchia economica nazionale e di autonomia politica, estensione
della proprietà statale, pianificazione e controllo
dell'economia e quello che sopra abbiamo definito 'corporativismo
di Stato'.
d) Un'esperienza in ripresa
Frattanto, in numerosi paesi europei di piccole dimensioni rimasti
democratici negli anni trenta, i leaders dei gruppi di interesse
iniziarono tacitamente a sperimentare nuove forme di
'contrattazione sociale', evitando accuratamente, nel contempo, la
controversa etichetta di 'corporativismo'. Costretti ad affrontare
una crisi del commercio internazionale, un alto tasso di
disoccupazione e una tendenza al ribasso dei salari come
conseguenza della 'grande depressione', sindacalisti e dirigenti
delle associazioni industriali trovarono un punto di convergenza
in quella che sembrò la seconda soluzione migliore
possibile, soluzione che evitava sia i costi sociali di un assetto
imposto dal mercato sia la rigidità burocratica di una
soluzione imposta dallo Stato. Fu così negoziato un
compromesso tra le diverse organizzazioni, inteso a stabilire ampi
parametri di politica macroeconomica al di fuori dei canali
partitico-parlamentari e pubblico-amministrativi. Il 'trattato di
pace sociale' firmato in Svizzera nel 1937 e l'accordo svedese di
Saltsjöbaden del 1938, per quanto differenti nella forma e
nella sostanza, stabilirono un precedente. Anzi, rinegoziati e
corretti essi rimangono ancora oggi il fondamento principale delle
relazioni industriali e della politica economica di questi due
paesi - il che rappresenta un vero record di continuità.
Al termine della seconda guerra mondiale risultò molto
più semplice ristabilire l''ordine borghese' rispetto al
primo dopoguerra, anche grazie all'esempio e all'aiuto su larga
scala fornito dagli Stati Uniti. Fin dall'inizio gli ordinamenti
corporati sembrarono non soltanto una soluzione di ripiego, ma
qualcosa di superfluo nella maggior parte delle nazioni. Svezia e
Svizzera continuarono a utilizzare i propri rispettivi patti
sociali. L'Olanda e, con minore successo, il Belgio erano
governati da coalizioni formatesi in esilio che comprendevano
componenti corporative. La Norvegia, la Danimarca e in seguito la
Finlandia (v. Helander, 1982) si avviarono gradualmente a una
contrattazione centralizzata tra capitale e forza lavoro, che
poneva le scelte politiche più importanti al di fuori della
sfera partitica e amministrativa - sebbene in tutti questi casi vi
sia stata una significativa collaborazione da parte del governo.
Tuttavia il caso più sorprendente di corporatismo moderno
è stato (e rimane) l'Austria (v. Marin, 1983 e 1985).
Nell'ambito di una strategia globale finalizzata alla riconquista
della propria indipendenza nazionale, le élites austriache
siglarono un complesso accordo di spartizione del potere tra i due
schieramenti, precedentemente in lotta tra loro, dei conservatori
e dei socialisti, accordo che comprendeva anche alcune
disposizioni per istituire una 'collaborazione sociale' tra
associazioni che rappresentavano interessi di classe contrapposti.
Nel corso del tempo questo aspetto dell'accordo è rimasto
in vita anche quando i partiti sono passati a forme di alternanza
competitiva al potere, ed è divenuto il tratto peculiare
dell'attuale politica economica austriaca (v. Pelinka, 1985; v.
Gerlich e altri, 1985).
Il quadro che abbiamo precedentemente tratteggiato permette di
intuire quale sia stato il luogo elettivo di insediamento del
corporatismo moderno: i paesi europei di minore estensione
territoriale, dotati di associazioni di classe e settoriali ben
organizzate e con economie fortemente integrate su scala
internazionale e quindi facilmente vulnerabili (v. Katzenstein,
1984 e 1985). Questa tendenza risultava ancora più marcata
in presenza di forti partiti socialdemocratici, di un elettorato
stabile, di una relativa unità culturale o linguistica e di
politiche estere di neutralità. Anzi, le nazioni che
incontrarono maggiori difficoltà nel sostenere patti
sociali di questo tipo avevano socialdemocrazie deboli, un
elettorato volubile e profonde divisioni sui problemi militari e
della sicurezza: si veda ad esempio il caso dell'Olanda e della
Danimarca. Il relativo insuccesso riscontrato in Belgio è
ascrivibile alla sua divisione in due gruppi linguistici rivali.
Questo non significa tuttavia che i tentativi di siglare accordi
corporati per la definizione di una politica a livello
macroeconomico si siano limitati a questi paesi. In tutte le
nazioni dell'Europa occidentale era avvertita la necessità
di una forma istituzionalizzata per negoziare (e far rispettare)
compromessi espliciti tra classi sociali e settori economici. La
tesi liberale, di un consenso implicito su un''equa' distribuzione
dei profitti, degli investimenti e dei redditi, e l'assunto
pluralista, secondo cui un accordo normativo su 'appropriate'
regole del gioco sarebbe stato sufficiente ad assicurare
un'ordinata convivenza di libertà democratiche e processi
capitalistici, apparvero sempre più discutibili, almeno
fino alla recente comparsa del neoliberalismo. Alcuni fattori
politici generali (quali una più effettiva libertà
di associazione, una maggiore capacità di azione
collettiva, un più profondo impegno nel perseguire
politiche di pieno impiego, e una legittimazione fondata sulla
partecipazione) sembrarono combinarsi con fenomeni economici e
amministrativi largamente diffusi (quali la fiducia
nell'esperienza professionale, l'informazione specializzata,
l'accettazione collettiva delle decisioni politiche, la
necessità di pianificazione, di ampi orizzonti temporali e
di maggiore sicurezza nella valutazione degli investimenti, cui si
aggiunse l'imperativo fondamentale di assicurare la pace sociale,
la flessibilità della manodopera e il contenimento dei
salari allo scopo di accrescere la competitività
internazionale). Ciò contribuì a creare un contesto
politico qualitativamente differente nel moderno Stato del
benessere, un contesto nel quale il patteggiamento e la
contrattazione pressoché continui tra rappresentanti di
diversi interessi erano destinati a divenire una caratteristica
distintiva del 'capitalismo moderno' (tra le prime trattazioni v.
Shonfield, 1965; inoltre v. Beer, 1969; v. Pahl e Winkler, 1974;
v. Panitch, 1979; v. Jessop, 1979; v. Cawson, 1983). Per quanto
questa teoria possa sembrare vagamente 'funzionalista', essa
lascia intendere che il bisogno di corporatismo non è
limitato alle nazioni piccole, ben organizzate, neutrali,
socialdemocratiche e vulnerabili dal punto di vista
internazionale, nelle quali sembra funzionare meglio. È
forse possibile, anzi, considerare il corporatismo come
un''attraente tentazione', se non proprio come un'inesorabile
'tendenza', in quasi tutte le democrazie a capitalismo avanzato.
Tra le grandi nazioni la Repubblica Federale Tedesca è
stata quella che si è spinta più in là in
questa direzione, sebbene i tentativi di formalizzare questa
intesa a un alto livello con accordi per un'azione concertata
siano falliti di fronte alle resistenze dei sindacati (v. Alemann
e Heinze, 1979; v. Alemann, 1981). Tuttavia la contrattazione 'a
modello' (pattern bargaining) tra capitale e lavoro a livello
settoriale-regionale, estesa in un secondo tempo a tutta
l'economia, genera una specie di equivalente funzionale di un
patto sociale negoziato a un livello più centrale. La
persistenza di questo semicorporatismo per più di due
decenni ha avuto un notevole influsso sulla struttura e sul
comportamento politico del movimento sindacale tedesco (v.
Streeck, 1982).
Nella Gran Bretagna l'assetto postbellico era fondato
principalmente su un consenso iniziale dei partiti politici
intorno a obiettivi quali il pieno impiego, il potenziamento dello
Stato del benessere, una combinazione di impresa pubblica e
privata, la libera contrattazione collettiva e la crescita
economica, senza un patto sociale generale né un insieme di
accordi settoriali sicuri. Di fatto, le trattative tra capitale e
lavoro sono sempre state tradizionalmente acrimoniose, frammentate
e difficili da far rispettare, in particolare a livello locale o
di singola impresa. La lentezza della crescita inglese, il declino
dei tassi di profitto e di investimento, le croniche
difficoltà della bilancia dei pagamenti e le ricorrenti
crisi della sterlina, tutti questi fattori hanno indotto a cercare
soluzioni di tipo corporato. La prima di queste fu l'istituzione
all'inizio degli anni sessanta di un Consiglio nazionale per lo
sviluppo economico nel quale vi era una rappresentanza trilaterale
(v. Middlemas, 1983). Il tentativo da esso attuato di collegare la
politica industriale alla politica dei redditi, come integrazione
di una gestione della domanda di stampo keynesiano, fallì e
in seguito si ebbero ripetuti tentativi, da parte sia dei governi
conservatori sia di quelli laburisti, di negoziare un 'contratto
sociale' globale, tentativi integrati dall'imposizione di
politiche dei redditi fissate per legge nel momento in cui
anch'essi fallivano. Tra il 1975 e il 1979 questa strategia
corporata riuscì effettivamente a realizzare una riduzione
dei salari in cambio di una revisione della legislazione sulle
relazioni industriali e di un aumento delle spese per i servizi
sociali; essa, tuttavia, si sfaldò nell'aspro conflitto
dell''inverno dello scontento' del 1978-1979 (v. Regini, 1983) e
si dimostrò vulnerabile alle fortune delle parti politiche.
La successiva elezione di Margaret Thatcher nel 1979 vide
l'introduzione di politiche deliberatamente rivolte allo
smantellamento delle istituzioni corporate in Gran Bretagna. La
Francia è stata frequentemente descritta come un paese 'al
di là del corporatismo'. Secondo uno dei suoi più
eminenti studiosi (v. Birnbaum, 1982), l'autonomia e le
capacità esemplari dello Stato francese rendono superflue
la mediazione degli interessi e le politiche concertate. Questa
tesi trascura deliberatamente gli elementi di corporatismo
bilaterale tra industria e funzionari pubblici presenti nel
processo di pianificazione indicativa (v. Shonfield, 1965),
l'intera sfera dell'agricoltura, nella quale le associazioni di
categoria hanno goduto per lungo tempo di uno status semipubblico
(v. Keeler, 1987), e un'ampia varietà di 'ordini' che
regolano professioni quali quelle di notaio, medico, avvocato, il
personale della marina mercantile e così via (v. Closets,
1983; v. Segrestin, 1985). Si può affermare con certezza,
invece, che in Francia non ha funzionato la contrattazione sociale
al macrolivello. Il tardivo tentativo, da parte di de Gaulle, di
istituzionalizzare quella che egli chiamava la participation -
attraverso la sostituzione dei notabili locali che sedevano nel
Senato con rappresentanti degli interessi organizzati - fu
respinto in un referendum del 1969. Dodici anni dopo, con l'ascesa
al potere di Mitterrand, si poteva supporre che i socialisti
vittoriosi avrebbero seguito il modello austro-svedese inserendo
le associazioni di punta degli industriali e dei lavoratori nel
processo di formazione delle scelte politiche. Non fu così.
I socialisti tentarono invece inutilmente di promuovere un
rapporto più pluralistico e distaccato rispetto agli
interessi organizzati (v. Cerny e Schain, 1985). In Francia, il
termine corporatisme, nella misura in cui questa rimane una
nozione politica attuale, viene utilizzato (spesso al plurale) per
indicare i tentativi isolati volti a favorire interessi di un
gruppo ben determinato a discapito di tutti gli altri (v. Cotta,
1983) - con un significato pressoché opposto a quello che
ha in tutte le altre nazioni.In quasi tutti i tentativi di
valutare sistematicamente il corporatismo moderno (v. Schmitter,
1981; v. Schmidt, 1982; v. Lehmbruch, 1983) l'Italia si è
ritrovata in fondo alla graduatoria. La struttura competitiva e
diversificata dei suoi sindacati e la loro mancata incorporazione
in regolari processi di formazione delle scelte politiche
sembrerebbero escludere tale soluzione sia dal punto di vista
dell'input sia da quello dell'output. Perfino in campo
imprenditoriale l'Italia è divisa tra un'associazione
pubblica (Intersind) e una privata (Confindustria), ed è
organizzata più secondo criteri territoriali che funzionali
(v. Schmitter e Lanzalaco, 1988). Ciò nonostante, si sono
manifestate chiare tendenze verso un'azione unitaria da parte
delle confederazioni sindacali (CGIL-CISL-UIL) e durante gli anni
del governo di solidarietà nazionale (1977-1979) sono stati
stipulati di fatto alcuni accordi politici tra capitale,
lavoratori e Stato (v. Regini, 1983). Il momento più alto
del limitato corporatismo italiano fu raggiunto con l'Accordo del
22 gennaio 1983 e con il Protocollo d'intesa del 14 febbraio 1984.
Il rifiuto di ratificare quest'ultimo da parte della CGIL
costrinse il governo Craxi a procedere per decreto. Questa
decisione fu osteggiata dal Partito Comunista, ma la posizione del
governo fu approvata dall'elettorato in un successivo referendum.
Questa esperienza tuttavia non ha avuto seguito e l'Italia
è ritornata a essere una delle democrazie occidentali con
minore presenza di macrocorporatismo, assieme alla Francia, gli
Stati Uniti, il Canada e la Gran Bretagna.
3. Conseguenze
a) Un miglioramento dell'economia?
Data la quasi completa assenza di teorici del corporatismo nel
mondo attuale, l'influenza degli accordi corporati sull'andamento
economico raramente è stata valutata nella giusta misura o
pubblicizzata. Certamente la relativa 'pace sociale' esistente nel
secondo dopoguerra in paesi quali la Svizzera, la Svezia, la
Norvegia e l'Austria è stata frequentemente messa in luce e
diversi studi quantitativi confermano che quanto maggiore è
il livello di corporatismo, tanto minore è il tasso di
conflitti del lavoro (v. Schmidt, 1982; v. Cameron, 1984) e di
'indisciplina' complessiva da parte dei cittadini (v. Schmitter,
1981). Non è chiaro invece in che modo questa relazione
influenzi fattori quali i tassi di crescita economica, di
inflazione, di disoccupazione, di produttività e
così via.
Le analisi econometriche del 'campione' OCSE di paesi capitalisti
avanzati non forniscono sempre risultati conclusivi, in
particolare se effettuate in periodi di tempo differenti; esse
lasciano trasparire, tuttavia, che il corporatismo a livello
macroeconomico è accompagnato da tassi di inflazione
notevolmente più bassi e da un minore tasso di
disoccupazione (v. Schmidt, 1982; v. Cameron, 1984). Non è
chiaro però se questo voglia dire che la curva di Phillips
si è modificata secondo un andamento più vantaggioso
in virtù della relativa pace sociale determinata dal
corporatismo. L'intento di fondo è invece chiarissimo:
servirsi di accordi globali tra classi sociali organizzate al fine
di evitare il dilemma kaleckiano inerente al capitalismo 'del
benessere', cioè la tendenza del pieno impiego a portare
all'inflazione attraverso l'uso strategico della militanza
sindacale. Il macrocorporatismo sembra offrire la
possibilità di contrattare un sottoutilizzo di tali
vantaggi di potere a breve termine in cambio di concessioni
politiche a lungo termine. Se questo meccanismo funziona (e i dati
empirici, comunque, suggeriscono che è difficile da
realizzare) gli obiettivi che prima era illusorio perseguire
contemporaneamente (del pieno impiego, della stabilità dei
prezzi e della competitività internazionale) ora possono
essere perseguiti (v. Bordogna e Provasi, 1984; v. Goldthorpe,
1984).
Il legame esistente tra macrocorporatismo e crescita economica non
è molto chiaro, sia nella teoria sia nella pratica. La
crescita nella produzione è un fenomeno così
complesso e composito che è possibile che il corporatismo
abbia un influsso contraddittorio su di essa. Mancur Olson (v.,
1982) ha sostenuto che i potenti interessi acquisiti tendono a
formare 'coalizioni distributive' e a ridurre, di conseguenza,
l'efficienza delle economie moderne, ma allorché le
organizzazioni coinvolte hanno obiettivi di ampia portata e uno
status semipubblico possono comportarsi in maniera più
'altruistica', e i loro accordi tra antagonisti possono ridurre
momentaneamente le risposte opportunistiche. Probabilmente
l'ipotesi più corretta è che il corporatismo non
aumenta né diminuisce il tasso di crescita economica
complessiva, ma può ridurre la sua tendenza a variare nel
tempo - almeno in quei casi in cui tale esperienza sia ripetuta
regolarmente.Fin dalla sua riscoperta nella metà degli anni
settanta, gli studiosi del corporatismo si sono trovati in
disaccordo riguardo al suo impatto sulle diseguaglianze
economiche. La domanda 'cui bono?' si è rivelata di
difficile risposta. Alcuni autori hanno asserito che, dal momento
che il moderno corporatismo implica un compromesso di classe che
favorisce la sopravvivenza del capitalismo, esso necessariamente
avvantaggia il capitale rispetto ai lavoratori (v. Panitch, 1979;
v. Jessop, 1979; v. Offe, 1981). Altri autori vedono il
corporatismo (o 'contrattazione sociale') come una prova che
l'equilibrio delle forze si è alterato a favore dei
lavoratori (v. Korpi, 1983; v. Streeck, 1982) e portano ad esempio
i redditi relativamente più alti, la maggiore sicurezza
occupazionale, gli accresciuti diritti sul posto di lavoro, e i
più generosi sussidi assistenziali che si riscontrano in
paesi quali la Svezia, la Norvegia, l'Austria, l'Olanda e la
Repubblica Federale Tedesca. Cameron (v., 1984) ha tentato di
rispondere a questa domanda analizzando i dati quantitativi
concernenti il reddito dei lavoratori in termini di percentuale
del prodotto nazionale lordo nei paesi OCSE, ma non è
pervenuto ad alcun risultato significativo.
Un altro aspetto dell'andamento economico che può essere
ricondotto agli accordi corporati, soprattutto a livello
settoriale e regionale, è la produttività. L'idea
che la contrattazione tra associazioni industriali e sindacati
possa fornire una soluzione più efficiente ed equa rispetto
alla 'liberalizzazione' del mercato in base alla competizione e
agli accordi individuali può apparire una bestemmia ai
neoliberali, ma l'esperienza della cosiddetta 'politica attiva del
mercato del lavoro', i sistemi di formazione professionale e
alcune politiche di ristrutturazione industriale (v. Scharpf e
Brockmann, 1983; v. Streeck, Neocorporatist..., 1984; v. Dyson e
Wilks, 1983; v. Grant, 1985) sembrano indicare il contrario. Gli
accordi di questo tipo non soltanto possono produrre risultati
più consensuali ed evitare costi sociali diffusi, ma
possono anche portare a una generale promozione delle
capacità e a un maggiore investimento nel capitale umano
che gioveranno nel lungo termine all'intera economia. Una sempre
più vasta pubblicistica sul governo e sulla concertazione
degli interessi privati è pervenuta a risultati analoghi
riguardo a specifici settori industriali (v. Streeck e Schmitter,
1985). È indiscutibile, comunque, che le realtà
politiche altamente corporate come la Svezia e l'Austria non
sembrano affatto rimanere indietro per quanto concerne la
produttività lavorativa e la competizione internazionale.
b) Una trasformazione della democrazia?
Le pratiche corporate a livello macroeconomico, ossia su scala
nazionale, sono state collegate in maniera convincente con
numerosi risultati politici: maggiore rispetto per
l'autorità da parte dei cittadini ed efficienza fiscale (v.
Schmitter, 1981); minore instabilità politica e minore
'ciclo politico dell'economia' (v. Bordogna e Provasi, 1984) -
tutti fattori che indicano che i paesi in cui queste pratiche
vengono ampiamente utilizzate sono più governabili (v.
Schmitter, 1981). Questo non li rende, tuttavia, maggiormente
democratici.Fin dalla sua riscoperta alla metà degli anni
settanta, il concetto di corporativismo/corporatismo ha pagato lo
scotto dei propri legami passati con il fascismo e con altre forme
di dominio autoritario. Definire 'corporativo' un sistema di
governo o una prassi politica significava in pratica accusarli di
essere antidemocratici. Certe caratteristiche permanenti del
corporatismo, inoltre, sembrarono confermare questo sospetto: le
organizzazioni sostituivano le persone come protagonisti della
vita politica; i rappresentanti di professione guadagnavano
posizioni a spese dei cittadini interessati alla politica in modo
non professionale; a particolari associazioni veniva accordato un
accesso privilegiato (se non esclusivo) al processo di formazione
delle decisioni politiche; i monopoli venivano riconosciuti e
perfino esaltati a spese degli intermediari degli interessi in
competizione fra loro; le gerarchie organizzative estendentisi
fino a formare amplissime associazioni di vertice su scala
nazionale diminuivano l'autonomia delle organizzazioni di
carattere locale e settoriale. Il funzionamento della democrazia
moderna si era venuto a legare così strettamente al
pluralismo e al "liberalismo dei gruppi di interesse" (v. Lowi,
1969), che risultava pressoché inconcepibile che un altro
metodo di mediazione - soprattutto se diametralmente opposto -
potesse essere anch'esso democratico.Man mano che le indagini sul
corporatismo si ampliavano, tuttavia, cominciavano a mutare i
giudizi riguardo al suo influsso sulla democrazia. In primo luogo,
molti paesi dichiaratamente corporati sono anche evidentemente
democratici, nel senso che difendono tutta la gamma delle
libertà civili, garantiscono il diritto di cittadinanza nel
modo più ampio, indicono regolari competizioni elettorali
dall'esito incerto, obbligano le autorità politiche a
rendere conto delle proprie azioni, perseguono politiche che
cercano di rispondere alle richieste popolari. Alcune di queste
nazioni, soprattutto i Paesi Scandinavi, sono state perfino
all'avanguardia nella sperimentazione di riforme democratiche
avanzate, come la partecipazione dei lavoratori alla gestione
delle aziende, la trasparenza nei processi di decisione politica,
l'ombudsman per ascoltare le rimostranze dei cittadini, il
finanziamento pubblico dei partiti politici, perfino i fondi per i
lavoratori salariati per estendere la partecipazione popolare
all'economia.In secondo luogo, divenne ben presto evidente che gli
accordi corporati hanno un influsso sostanziale sulle condizioni
che regolano la partecipazione dei diversi e contrapposti
interessi al processo di formazione dell'influenza politica. Le
relazioni spontanee, volontaristiche ed episodiche esistenti nei
regimi pluralistici sembrano più libere in linea di
principio, ma nella pratica determinano una maggiore ineguaglianza
di accesso al processo decisionale. I gruppi privilegiati,
numericamente limitati, più compatti e dotati di risorse
concentrate, sono per natura avvantaggiati rispetto ai gruppi
più vasti e dispersi quali i lavoratori e i consumatori. Il
corporatismo tende a rendere più omogenea la distribuzione
delle risorse tra le categorie meglio organizzate e a garantire
quantomeno una parità formale di accesso al processo
decisionale. Inoltre l'incorporazione diretta di associazioni nei
successivi processi di attuazione di una linea politica può
garantire risultati maggiormente rispondenti alle necessità
dei gruppi rispetto alle relazioni 'distaccate', che nei regimi
pluralistici separano la sfera pubblica da quella privata.
Schmitter (v., 1983) ha sostenuto che la valutazione dell'influsso
del corporatismo sulla democrazia è strettamente correlata
alle qualità della democrazia sulle quali si sceglie di
mettere l'accento. Visti nella prospettiva 'classica', che
incoraggiava la partecipazione degli individui alle decisioni che
riguardavano la collettività e garantiva che le
autorità accordassero un'eguale udienza alle richieste dei
cittadini, questi nuovi accordi vengono valutati negativamente. Se
passiamo invece a una prospettiva più attenta all'output,
che vuole scoprire se le persone al potere possano essere ritenute
effettivamente responsabili delle proprie azioni e se queste
azioni corrispondano alle necessità dei cittadini, il
giudizio sul corporatismo diviene necessariamente più
positivo. Il suo influsso sul meccanismo centrale della
democrazia, la competitività, è più ambiguo.
Da una parte, essa diminuisce perché viene meno la lotta
fra le associazioni rivali per incrementare il numero dei propri
membri e accedere al potere. D'altra parte, essa aumenta
poiché si incoraggiano concezioni contrapposte
dell'interesse comune a esprimersi all'interno di una medesima
associazione. Schmitter conclude che la prassi del corporatismo
moderno sta trasformando le democrazie contemporanee. Le
organizzazioni si stanno trasformando in soggetti politici a
fianco, se non al posto, degli individui. La responsabilità
di chi ricopre incarichi e la sensibilità alle richieste
dei cittadini sono in aumento, a spese però della
partecipazione e dell'accesso ai meccanismi politici. La
competizione avviene in misura sempre minore tra organizzazioni e
in misura sempre maggiore al loro interno. Il ritmo di questo
fenomeno è irregolare, la sua accettazione è
ineguale, e il risultato non è assolutamente univoco;
è certo però che la democrazia nelle società
moderne diviene sempre più 'incentrata sugli interessi',
più 'organizzata' e più 'indiretta'.
4. Il futuro: un'eredità incerta
I critici si compiacciono spesso di far notare che gli studiosi
della società scoprono le cose quando esse non esistono
più o quando la loro importanza sta scemando. Non molto
tempo dopo la riscoperta del corporatismo a metà degli anni
settanta, i meccanismi che questa nozione descriveva e spiegava
divennero sempre più precari. La crisi petrolifera, il calo
della crescita economica, le profonde ristrutturazioni nei
meccanismi della produzione, la persistente disoccupazione in
tutte le economie dei paesi occidentali compromisero la
capacità delle gerarchie che monopolizzano la
rappresentanza di parlare a nome di ampie categorie di interessi,
e resero sempre più difficile raggiungere compromessi
attraverso una concertazione politica. Molti osservatori
asserirono che il corporatismo era intrinsecamente instabile, che
era un prodotto adatto ai tempi di benessere economico, che
sarebbe scomparso una volta esaurito quel surplus che aveva reso
relativamente facile stringere accordi a spese degli altri negli
anni cinquanta e sessanta.
Ma il corporatismo non è scomparso. Non soltanto le nazioni
che si erano servite di pratiche di questo tipo continuano ad
avvalersene (sebbene con maggiori difficoltà e qualche
fallimento occasionale), ma altri paesi tentano periodicamente di
adottare una qualche forma di corporatismo. In Spagna, ad esempio,
nella transizione da un regime autoritario alla democrazia si
è ritenuto utile instaurare questo tipo di meccanismo a
livello nazionale (v. Pérez-Díaz, 1984).Nel lungo
periodo, tuttavia, il macrocorporatismo sarà probabilmente
sostituito in maniera sempre crescente da varie forme di
mesocorporatismi. I mutamenti qualitativi nelle relazioni di
scambio, nei processi di produzione, nella struttura occupazionale
e negli interessi dei cittadini potrebbero spostare l'attenzione
dei responsabili politici al livello settoriale e, in alcuni casi,
a quello regionale. In un'economia altamente internazionalizzata,
dotata di sistemi di produzione molto flessibili e di una forza
lavoro sempre più specializzata, potrebbe divenire sempre
meno importante, perfino controproducente, stabilire parametri
macroeconomici standardizzati. Le associazioni non saranno
più in grado di rappresentare ampie categorie di lavoratori
o di datori di lavoro. Gli enti statali mireranno a obiettivi
più particolari e specifici di accordo e di promozione. Per
ironia, mentre l'economia mondiale va verso una maggiore
integrazione e interdipendenza, le economie nazionali si stanno
frantumando in settori industriali e regionali. Abbiamo buone
ragioni per ipotizzare che le pratiche corporate - adattate
opportunamente a quei livelli di operatività - saranno
utilizzate per far fronte a questi sviluppi.