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«Le banche avevano ritirato improvvisamente dal mercato
diciottomila milioni di dollari, cancellando le aperture di credito
e chiedendone la restituzione »
(Emile Moreau, Governatore della Banca di
Francia, 8 febbraio del 1928)
La grande depressione, detta anche crisi del 1929, grande crisi o
crollo di Wall Street, fu una grave crisi economica che sconvolse
l'economia mondiale alla fine degli anni venti, con forti
ripercussioni durante i primi anni del decennio successivo. La
depressione ebbe alla propria origine contraddizioni simili a quelle
che avevano portato alla crisi economica del 1873-1895. L'inizio
della grande depressione è associato con la crisi del New
York Stock Exchange (la borsa di Wall Street) avvenuta il 24 ottobre
del 1929 (giovedì nero), a cui fece seguito il definitivo
crollo della borsa valori del 29 ottobre (martedì nero), dopo
anni di boom azionario.
La depressione ebbe effetti devastanti sia nei paesi
industrializzati, sia in quelli esportatori di materie prime. Il
commercio internazionale diminuì considerevolmente,
così come i redditi dei lavoratori, il reddito fiscale, i
prezzi e i profitti. Le maggiori città di tutto il mondo
furono duramente colpite, in special modo quelle che basavano la
loro economia sull'industria pesante. Il settore edilizio
subì un brusco arresto in molti paesi. Le aree agricole e
rurali soffrirono considerevolmente in conseguenza di un crollo dei
prezzi fra il 40 e il 60%. Le zone minerarie e forestali furono tra
le più colpite, a causa della forte diminuzione della domanda
e delle ridotte alternative d'impiego.
La crisi negli USA
L'economista John Kenneth Galbraith ha individuato almeno cinque
fattori di debolezza nell'economia americana responsabili della
crisi:
* cattiva distribuzione del reddito;
* cattiva struttura, o cattiva gestione delle aziende
industriali e finanziarie;
* cattiva struttura del sistema bancario;
* eccesso di prestiti a carattere speculativo (Margin);
* errata scienza economica (perseguimento ossessivo del
pareggio di bilancio e quindi assenza di intervento statale
considerato un fattore penalizzante per l'economia).
Dopo la Grande Guerra gli Stati Uniti conobbero un periodo di
prosperità e progresso trainato soprattutto dal settore
automobilistico (che a sua volta ha trascinato con sé altri
settori come l'industria metallurgica, della gomma, il settore
petrolifero, dei trasporti ed edile). Sembrava essersi innescato un
circolo virtuoso: l'alta produttività permetteva di mantenere
inalterati i salari e i prezzi dei prodotti sul mercato. Questo
favoriva quindi gli investimenti che permettevano a loro volta di
aumentare la produttività. Tuttavia agli investimenti e al
continuo aumento della produttività, non corrispose una
proporzionata crescita del potere d'acquisto. Nei primi anni dopo il
primo conflitto mondiale, lo sviluppo era stato infatti sostenuto
dai risparmi accumulati negli anni della guerra e dai bassi tassi
d'interesse.
Una seconda contraddizione interna all'economia statunitense era
rappresentata dal sistema finanziario. Non furono posti limiti alle
attività speculative delle banche e della borsa valori,
dovute alla volontà da parte degli acquirenti di detenere
titoli, non tanto per ottenere dividendi e dunque profitti, quanto
per aumentare il proprio capitale. Si comperava per rivendere, senza
preoccuparsi della qualità dei titoli: all'aumento della
domanda dei titoli si accompagnò quella delle quotazioni. A
tutto questo va aggiunta la responsabilità dei rappresentanti
delle holding che detenevano portafogli d'azioni e che quindi
avevano interesse che i corsi dei titoli si alzassero. Per spingere
i risparmiatori all'acquisto dei titoli, questi effettuavano
dichiarazioni troppo ottimistiche. L'aumento del valore delle azioni
industriali, però, non corrispose a un effettivo aumento
della produzione e della vendita di beni tanto che, dopo essere
cresciuto artificiosamente per via della speculazione economica
diffusasi a tutti i livelli in quegli anni, scese rapidamente e
costrinse i possessori a una massiccia vendita, che provocò
il crollo della borsa.
La caduta della borsa colpì soprattutto quel ceto di media
borghesia che nel corso degli anni venti aveva sostenuto la domanda
di beni di consumo durevole e aveva investito i propri risparmi in
borsa. La loro uscita dal mercato indeboliva, quindi, proprio le
industrie produttrici di beni di consumo durevole (come quello
dell'auto). Queste industrie cessarono di commissionare materiali a
quelle operanti negli stessi settori, le quali dovettero ridurre il
personale e ridurre i salari, provocando una contrazione anche nei
settori dei beni di consumo (come quello agricolo).
La situazione era poi aggravata dalla stretta interconnessione che
legava il settore industriale a quello bancario. Infatti, nel
momento in cui la borsa crollò, si diffuse un'ondata di
panico devastante tra i piccoli risparmiatori i quali si
precipitarono nelle banche nel tentativo di salvare il proprio
denaro. Il ritiro del denaro dal mercato provocò una crisi di
liquidità di ampie dimensioni e il fallimento di molte banche
che trascinarono nella crisi le industrie nelle quali avevano
investito. Molte di queste furono costrette a chiudere i battenti o
a ridimensionarsi. I licenziamenti, operati dalle aziende in crisi,
portarono a una elevata diminuzione delle domande di lavoro,
bloccando quasi completamente l'economia americana. La produzione
industriale scese di quasi il 50% tra il 1929 e il 1932.
Il sistema economico globale
Tuttavia la causa principale che portò il crollo finanziario
a diventare una depressione economica di enormi dimensioni fu la
chiusura delle economie nazionali e coloniali. Così come
nella Grande depressione del 1873-95, furono i dazi doganali a
deprimere l'economia. Alcuni stati producevano beni in surplus che
però altri stati non acquistavano, poiché venivano
resi troppo costosi dai dazi all'importazione imposti per favorire i
produttori interni. Quindi quando in un paese produttore un dato
bene raggiunge livelli di saturazione, il prezzo scende tanto che
non è più conveniente produrre quel bene, a meno di
trovare nuovi mercati che possano assorbire parte delle merci. In
assenza di nuovi mercati la produzione, pur mantenendo un potenziale
valore, si ferma. Per fare un esempio riguardo alla crisi degli anni
1873-95 il grano è il bene ideale: negli Stati Uniti vi era
una sovrapproduzione di grano dovuta all'ampiezza degli spazi
coltivati estensivamente e alla bassa densità di popolazione.
I progressi tecnologici consentivano di trasportare il grano su
distanze sempre più lunghe, cosicché gli USA
iniziarono a esportare grano in Europa, che lo acquistava a prezzo
più basso rispetto a quello locale. Questo danneggiava i
proprietari terrieri europei, i quali imposero ai governi i dazi per
bloccare le importazioni dall'America. Ciò produsse le
seguenti conseguenze:
* carenza di grano in Europa e quindi prezzi più alti;
* eccedenza di grano in USA con conseguente abbandono di
terre coltivate e disoccupazione;
* mancato afflusso di beni dall'Europa all'America (coi quali
veniva pagato il grano); tali beni potevano essere prodotti
industriali o minerari o beni di lusso.
In definitiva:
* al popolo europeo veniva a mancare il nutrimento a
basso prezzo;
* ai grandi coltivatori americani venivano a mancare
quei beni "superflui" ma che erano l'incentivo alla
produttività agricola;
* i coltivatori americani più piccoli e i
dipendenti restarono senza lavoro;
* i beni "superflui" che restavano in Europa andavano
alle classi agiate (anche agricole) locali, che li potevano
acquistare a prezzo più basso rispetto al prezzo che
avrebbero pagato gli americani;
* i produttori europei di questi beni superflui
vedevano anch'essi ridotte le loro entrate, il che li portava in
alcuni casi al fallimento o al licenziamento dei dipendenti.
Come si vede questo circolo vizioso nuoce a tutti fuorché a
una ristretta minoranza, ma in una visione più ampia nuoce
anche a essa nella crisi economica generale. Lo stesso circolo
vizioso che causò la crisi del 1873-95 è la causa
principale di quella del 1929, ma con modalità differenti.
La crisi del 1873-95 aveva trovato sbocco con il colonialismo,
grazie al quale si erano aperti nuovi mercati nei quali si poteva
dirigere il commercio, sebbene ogni colonia commerciasse quasi
esclusivamente con la propria nazione, essendo preclusi gli altri
commerci tramite dazi che creavano sistemi commerciali isolati gli
uni con gli altri. Quella che fu la soluzione alla crisi del 1873-95
portò a quella del 1929, e questo perché a un certo
punto anche i mercati coloniali arrivarono al punto di saturazione
(e in questo contesto come mercati coloniali si riconosce come tale
anche il Sudamerica nei confronti degli Stati Uniti) e l'isolamento
dei sistemi commerciali, imposto dai dazi, rese impossibile la
diversificazione delle produzioni.
Quindi a causa di questo blocco del commercio si ritornò alla
situazione del 1873-95, nella quale le industrie non trovavano
sbocchi commerciali per le proprie merci o i prezzi erano tanto
bassi da dover abbandonare la produzione, e al contempo i prezzi
delle merci da comprare diventavano troppo alti. Con il crescere
delle tensioni economiche, i dazi doganali furono l'arma con cui fu
combattuta una guerra commerciale tra nazioni, guerra che da
commerciale era divenuta militare negli anni 1914-18 e il cui
risultato aveva ridato "ossigeno" all'economia globale per qualche
anno in più, fino al 1929 appunto. Senza la Prima guerra
mondiale la crisi del 1929 sarebbe arrivata molto prima. Se qualche
anno prima lo scoppio delle ostilità aveva scongiurato
l'imminente crisi (che rappresenta un grosso stimolo all'economia
per la massiccia mobilitazione di risorse da parte dei governi), nel
1929 le condizioni internazionali non erano tali da scatenare una
guerra. Ma una volta iniziata la Grande depressione, la soluzione
venne spasmodicamente ricercata, fino a raggiungerla, nella seconda
guerra mondiale, che aprì i mercati coloniali a tutte le
nazioni in vista della futura e auspicata indipendenza delle
colonie.
Soluzioni intermedie furono adottate durante gli anni Trenta; gli
USA diedero l'esempio concedendo l'indipendenza o l'autonomia alle
loro colonie (vari staterelli centroamericani e caraibici) ,
l'Inghilterra fece lo stesso col Trattato di Westminster, ma furono
tutte soluzioni effimere.
La visione "austriaca"
La Scuola austriaca ha elaborato una teoria in merito alle cause
della Grande Depressione che si discosta nettamente dalla visione
comune.
L'economista appartenente a tale scuola che più di tutti ha
trattato questo argomento è stato lo statunitense Murray N.
Rothbard, che, nella pubblicazione La Grande Depressione datata
1963, ha esposto la sua teoria per cui la crisi del '29 sarebbe
stata causata non dall'eccessivo libero mercato, come sostenuto da
molti, bensì dall'eccessivo interventismo statale
nell'economia a partire dagli anni Dieci con il presidente Woodrow
Wilson.
La causa principale secondo Rothbard sarebbe stata la politica
monetaria tenuta dalla Federal Reserve a partire dalla sua
creazione, nel 1913 (sebbene la Federal Reserve sia, come molte
altre banche centrali, un organismo indipendente dal governo). La
continua espansione del credito ottenuta attraverso tassi tenuti
artificialmente bassi e il successivo inevitabile rialzo dei tassi
avrebbe causato una reazione a catena che ha portato poi al famoso
giovedì nero.
In sintesi, secondo la Scuola austriaca le cause della crisi del '29
furono la politica inflazionistica (permessa anche dall'abbandono
del sistema aureo classico) della Federal Reserve iniziata negli
anni Dieci (ossia all'inizio della Prima guerra mondiale) combinata
con un eccessivo peso dello Stato culminato poi nel New Deal
roosveltiano, che secondo gli austriaci non fu altro che la
continuazione dell'interventismo del suo predecessore, Herbert
Hoover[1].
Le cause della recessione internazionale
Una prima causa di fragilità del sistema economico
internazionale è insita nell'eredità dei debiti di
guerra. Alla fine del conflitto infatti Gran Bretagna, Francia e
Italia si erano ritrovate debitrici con gli Stati Uniti per somme
ingenti, che costringevano tutte e tre a una politica di
esportazioni molto aggressiva per procurarsi la valuta necessaria a
pagare i debiti. Si era quindi fatta strada l'idea di adottare lo
stesso espediente dell'indomani della guerra franco-prussiana,
quando le riparazioni di guerra imposte alla Francia avevano
permesso non solo di coprire il costo della guerra ma anche di
consentire la ripresa economica. Perciò fu deciso di
addebitare i costi bellici alla Germania.
L'industria tedesca, pur avendo un grande potenziale, era uscita
dalla guerra stremata. Da allora gli stessi paesi vincitori,
soprattutto gli Stati Uniti, si erano resi conto della
necessità di sostenere l'economia tedesca con ingenti
finanziamenti. Questi finanziamenti avevano creato un curioso
triangolo in cui la Germania usava gran parte di queste risorse per
pagare i debiti a Gran Bretagna e Francia, e queste a loro volta
usavano i capitali per pagare i propri debiti. Dunque questo sistema
sarebbe sopravvissuto fin quando gli U.S.A. fossero stati in grado
di esportare capitali in Germania.
Un secondo elemento di fragilità del sistema economico
internazionale era costituito dall'assenza di un Paese guida
credibile, con la volontà e un'influenza tale da correggere
eventuali crisi economiche globali. Dopo la Grande guerra il primato
sarebbe dovuto passare in mano agli Stati Uniti, il cui apparato
industriale era di gran lunga superiore a quello degli altri paesi,
i quali però non si impadronirono dello status internazionale
che gli sarebbe spettato a causa di una politica isolazionista
(status che rimase in mano alla Gran Bretagna). L'assenza di
un'appropriata guida economico-finanziaria si rifletteva in modo
drammatico sul sistema internazionale: nella conferenza di Genova
del 1922 venne definito un sistema misto, noto come gold exchange
standard, che da una parte garantiva respiro all'economia
britannica, dall'altro affidava alla sua finanza un ruolo di
regolatore dell'economia internazionale che non era in grado di
assumere.
La crisi fuori dagli USA
La crisi si propagò rapidamente a tutti i paesi che avevano
stretti rapporti finanziari con gli Stati Uniti, a partire da quelli
europei che si erano affidati all'aiuto economico degli americani
dopo la Prima guerra mondiale, ovvero Gran Bretagna, Austria e
Germania, dove il ritiro dei prestiti americani fece saltare il
complesso e delicato sistema delle riparazioni di guerra,
trascinando nella crisi anche Francia e Italia. In tutti questi
paesi si assistette a un drastico calo della produzione seguito da
diminuzione dei prezzi, crolli in borsa, fallimenti e chiusura di
industrie e banche, aumento di disoccupati (12 milioni negli USA, 6
in Germania, 3 in Gran Bretagna). Va notato che la crisi non
colpì l'economia dell'URSS, la quale in quegli anni aveva
inaugurato il suo primo piano quinquennale con l'obiettivo di creare
una base industriale moderna. Restarono inoltre immuni dalla crisi
anche il Giappone - che affrontò la crisi (inclusa la guerra)
con misure inflazionistiche - e i Paesi scandinavi che, in quanto
esportatori di particolari materie prime, non risentirono della
riduzione della domanda dei loro prodotti.
Nel 1931 la Gran Bretagna abbandonò il gold standard, imitata
subito dai paesi scandinavi. Nel 1934 sterlina e dollaro vennero
fortemente svalutati.
Conseguenze politiche ed economiche
Il fallimento dei tentativi iniziali di trovare soluzioni comuni sul
piano internazionale alla crisi spinse da una parte tutti i paesi a
introdurre misure protezionistiche e a creare "aree economiche
chiuse" (maggiore esempio fu il sistema di "tariffe preferenziali"
fra gli Stati del Commonwealth britannico deciso nel 1931);
dall'altra i governi furono indotti a sperimentare su vastissima
scala forme di partecipazione diretta dello Stato alla vita
economica nazionale.
Gli Stati svolsero così funzioni imprenditoriali (ricorrendo
alla spesa pubblica come elemento strutturale e centrale della
dinamica economica nazionale) e previdenziali (con l'attivazione di
misure legislative di sicurezza sociale), come avvenne, per esempio
negli USA col New Deal (dove si cercò di mettere in pratica
politiche keynesiane) e in Italia con la fondazione dell'IRI.
In Germania, che subì in particolare il contraccolpo
più violento, la crisi provocò milioni di disoccupati
che andarono poi a formare la base di consenso che portò il
Partito nazista al potere nel 1933. Nel complesso, nonostante un
accenno di ripresa a partire dal 1933, la crisi non fu completamente
superata fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale.
Il Giappone si riprese continuando la sua politica di espansione
imperialista, occupando la Manciuria e instaurando lo stato
fantoccio del Manciukuò nel 1931, per poi riprendere
l'espansione in Cina occupando la città di Shanghai e altre
province. Iniziò così la guerra sino-giapponese, che
sarà uno dei fronti della seconda guerra mondiale.