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Poeta italiano (Napoli 1860-1934). Abbandonati gli studi di medicina, si dedicò alla letteratura e al giornalismo. Fu anche bibliotecario della Lucchesi-Palli di Napoli. Nel 1929 fu nominato accademico d'Italia. Alla fama di Di Giacomo contribuì la sua affermazione come poeta di celebri canzoni di Piedigrotta, le cui alternanze di tono, dalla malinconia di Marechiaro alla malizia vivace di Spingole francese, costituiscono la vocale modulazione del popolo napoletano, capace di ridere anche nel pianto. Il maggiore Di Giacomo va tuttavia ricercato nel lirismo intenso e struggente con cui sono evocate le umili cose della vita quotidiana, nella purissima vena musicale che un critico sensibile come R. Serra ha riportato alle sorgenti della lirica greca.
Di Giacomo esordì come "verista sentimentale", affrontando la tematica delle prigioni, degli ospizi, del mondo plebeo dei "bassi", formicolante di una folla colorita e picaresca di vagabondi, di scugnizzi, di reietti (A San Francisco, 'O funneco verde, Zi' Munacella, 'O munasterio). Passa poi dal sentimentalismo al fiabesco (Donn'Amalia 'a Speranzella), per consacrare la sua pienezza lirica in Marzo, 'Na tavernella, Dint'a Villa, Pianefforte 'e notte, Arillo, animaluccio cantatore.
L'alone d'incanto di queste liriche, raccolte nel volume Poesie, viene meno nelle prose, tra le quali tuttavia spiccano le Novelle napolitane (1914), le cui pagine migliori trascorrono dalla contenuta commozione di Senza vederlo alla drammaticità abilmente orchestrata di Assunta Spina. Nella trasposizione teatrale di queste e di altre novelle (Mese mariano, 1900; Assunta Spina, 1909; 'O voto, scritto in collaborazione con G. Cognetti con il titolo Malavita, 1881, trasferito poi in dialetto con il titolo definitivo), si perdono inevitabilmente il colore e l'efficacia descrittiva.
Di Giacomo ha scritto anche volumi di antichità e curiosità napoletane: Storia della prostituzione in Napoli dal XV al XVII secolo (1889), Storia del teatro di S. Carlo (1891), Napoli: figure e paesi (1909), Luci e ombre napoletane (1914).
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DBI
di Angelo Pellegrino
Nacque a Napoli da Francesco Saverio e Patrizia Buongiorno il 12
marzo 1860. Conseguita la licenza ginnasiale presso il collegio
della Carità, si iscrisse nel 1875 al liceo "Vittorio
Emanuele", dove fu suo insegnante di lettere italiane V. Padula.
Ancora studente, il D. fondò e diresse un giornale letterario
Il Liceo, cui collaborò lo stesso Padula. Per compiacere il
padre, medico, si iscrisse poi alla facoltà di medicina, ma
al terz'anno l'abbandonò per darsi al giornalismo.
In una colorita pagina autobiografica si può leggere il
disgusto del poeta per l'anatomia, che lo indusse a lasciare gli
studi e l'università, specie dopo il macabro incidente
avvenuto il giorno in cui vide rovesciarsi per le scale una tinozza
ricolma di membra umane.
Con O. Fava e V. Pica fondò Il Fantasio, periodico letterario
tra i più brillanti di Napoli intorno al 1880. Poi, per un
breve periodo, fu impiegato presso la tipografia Giannini. Nel 1882
passò a collaborare a vari giornali (era l'epoca d'oro del
giornalismo napoletano), fra cui Il Corriere del mattino diretto da
M. Cafiero, con una serie di racconti fantastici - fra Hoffmann e
Poe - ambientati in una immaginaria città tedesca popolata di
sinistri studenti e di scienziati maniacali. Lo stesso Cafiero e F.
Verdinois, che dirigeva la pagina letteraria, dubitarono a lungo che
fossero suoi. Più tardi ne raccolse una scelta di sei nel
volume Pipa e boccale (1893), ma accettò il consiglio di
Matilde Serao che benevolmente lo sconsigliò di proseguire
per quella strada. In quel periodo strinse amicizia con R. Bracco e
cominciò a frequentare gli ambienti artistici e letterari fra
cui il cenacolo della piccola birreria Strasburgo a piazza
Municipio. Sempre nel 1882 iniziò a collaborare al Pro
Patria, alla Gazzetta, al Pungolo, al Corriere di Napoli (dove si
firmava "II paglietta" per la cronaca giudiziaria), e
pubblicò su Il Corriere del mattino il sonetto Uocchie de
suonno, che aprirà nel 1907 l'edizione ricciardiana delle
Poesie. Il sonetto, scritto ancora, come tutte le prime liriche,
nella prima maniera dialettale usata dal D. (che era poi il
napoletano di fine Ottocento, con l'articolo determinativo e la
preposizione articolata completi), subito rivela, insieme con gli
altri due del gruppo di Nannina, i tre aspetti cardine della poesia
digiacomiana: il colore, la melodia, l'azione scenica. Ancora in
quello straordinario 1882, dopo aver conosciuto il giovane musicista
M. Costa, il D. compose la canzone Nannì! Meh, dimme ca
sì, la prima di una lunghissima serie che egli scrisse per la
popolare festa di Piedigrotta, di cui diventò presto
l'acclamato poeta non senza danno, però, per la sua fortuna
critica.
L'anno dopo, presso l'editore Pierro di Napoli uscirono le novelle
Minuetto Settecento, che ricevettero i lusinghieri apprezzamenti di
Fogazzaro, cui il D. le inviò, nonché le lodi e gli
utili consigli di Matilde Serao e di F. Martini.
Esse rivelano l'amore nostalgico che il D. sempre portò al
Settecento soprattutto musicale, al melodramma e all'opera buffa di
Cimarosa, Paisiello, Pergolesi, di cui l'invaghivano la
felicità, la spontaneità e anche la facilità
creative che vedeva destinate a ridursi fortemente nel sopravanzante
secolo XX.
Nel 1884 perse il padre in seguito a una epidemia di colera,
venendosi a trovare in difficili condizioni economiche. Nello stesso
anno pubblicò i "bozzetti napoletani" Nennella e, sempre a
Napoli, i Sonetti con una dedica a Olga Ossani, una giornalista che
si firmava Febea. A la prima raccolta di poesie pubblicata dal D.,
che, mentre fu sempre sollecito a pubblicare le novelle, nei
confronti delle liriche si mostrò spesso neghittoso forse per
una estrema forma di pudore da cui non riuscì mai a liberarsi
del tutto. Due anni dopo pubblicò le novelle Mattinate
napoletane, dove il colore e un tenero strazio sentimentale
predominano in una scrittura impressionistica, e a volte
contemporaneamente di forte espressione, o pervasa d'idillio e
malinconia. In quello stesso 1886 uscirono i sonetti
'Ofùnneco verde.
Era stato detto, provocatoriamente, che il D. non sarebbe stato in
grado di esprimere l'anima "rumorosa, gaia, canzonatoria ed
epigrammatica" del popolo napoletano. Così compose quei
sonetti: magistrali scene di vita di un "basso" che presto sarebbe
stato distrutto dai lavori di risanamento. Prostituzione, malavita,
fatture, usura, miseria, commedia e tanta umanità vi sono
rappresentate con straordinaria vivacità teatrale. Due
sonetti iniziali dipingono realisticamente la miserabilità
del luogo evocandone persino gli odori. Gli altri sono invece
dialogati, ma la parlata popolare è colta piuttosto nei
sentimenti che nei fatti sceneggiati, nella tipica emotività
delle classi povere meridionali più che nel folklore vero e
proprio.
Nel 1887, presso Pierro, uscì il poemetto 'Omunasterio che
insieme con un altro, titolato Zì munacella (1888), è
una storia conventuale di sospiri amorosi, dove di più
predomina non la vita claustrale ma il potente richiamo della vita
di fuori.
In 'O munasterio un marinaio si fa frate per amore ma non sa darsi
pace. In Zi' munacella si racconta il delicato gesto di una ragazza
che per salvare il suo innamorato, condannato a morte per aver
commesso un delitto passionale, si fa monaca senza sapere che quel
delitto non è stato commesso per lei, ma per un'altra donna.
Nelle novelle Rosa Bellavita, invece, che il D. pubblicò
nello stesso anno di Zì munacella, le storie di passione, di
gelosia, di vendetta hanno libero corso: storie popolari,
però, sempre trattate con un realismo che a tratti si
stempera e trapassa nella psicologia. Presso l'editore Bideri
uscì nel 1889 il dramma in tre atti Mala vita, "scene
popolari napolitane", che l'anno precedente era stato rappresentato
in numerose città con notevole successo. Lo stesso Verga ne
scrisse al D. con parole entusiastiche. Mala vita era stato tratto,
con la collaborazione di G. Cognetti, dalla novella Il voto (e
nell'edizione definitiva del Teatro si intitolerà 'Ovoto).
È la vicenda a sfondo sociale dell'impossibile redenzione di
una prostituta costretta dalla forza del coro sociale a ricadere nel
primitivo mestiere. Sempre dall'editore Bideri, il D.
pubblicò nel 1891 Canzoni napolitane, illustrate da E. Rossi.
Il meglio della canzone napoletana s'avvalse dei versi del D., che
per quasi trent'anni non smise di comporre per Piedigrotta. La
raccolta Canzoni napolitane va letta pensando sempre alla
destinazione musicale dei versi, i quali qui si rarefanno in pura
melodia assai più che altrove. Ricordiamo alcune che hanno
fatto epoca: A Marechiare, dove nella prima strofa è detto lo
sconvolgimento panico allo spuntare della luna: i pesci s'accoppiano
felici, le onde si rivoltano, per la contentezza cambiano colore:
magico scenario della passione del poeta per la ragazza della
celebre finestra, invitata a svegliarsi col canto della sua chitarra
alla dolcezza dell'aria serale; 'E spingole frangese, la maliziosa
canzone dell'intraprendente venditore ambulante di spilli di
sicurezza; la delicatissima Palomma e' notte, dove il poeta cerca di
allontanare una farfalla che rischia di bruciarsi le ali alla fiamma
della candela, perché non può tollerare che possa
distruggersi lei che ha la facoltà di volarsene libera
nell'aria odorosa.
Nel 1892 il D. fondò insieme con il Croce e con altri la
rivista Napoli nobilissima, e nello stesso anno subentrò -
insieme con R. Bracco - a Matilde Serao presso la rubrica Api,
mosconi e vespe del Corriere di Napoli. Ma ormai la sua parabola
giornalistica volgeva al termine (una raccolta di suoi articoli. con
il titolo La vita a Napoli, è stata pubblicata a Napoli nel
1986 a cura di A. Fratta e M. Piancastelli). La collaborazione ai
giornali lo stancava, aveva bisogno di maggiore concentrazione.
Scoppiato di nuovo il colera a Napoli, il D., memore della
disgraziata morte del padre, si trasferì a Santa Maria Capua
Vetere, con la madre e la sorella. Nel dicembre di quell'anno
assunse l'incarico di vicebibliotecario presso il conservatorio
"S.Pietro, a Maiella", ma l'anno dopo passò alla Biblioteca
universitaria.
Nel 1895 pubblicò da Pierro i sette sonetti A S. Francisco,
serrata e forte vicenda di gelosia e malavita ambientata
nell'omonimo carcere napoletano, svolta con magistrale
capacità descrittiva e teatrale insieme.
Don Giovanni Accietto, marito tradito, uccide la moglie e finisce in
galera, dove, non pago del primo omicidio, sa che incontrerà
l'amante Tore 'Nfamità e potrà uccidere anch'esso. La
pittura dello stanzone ove sono ammucchiati i carcerati, l'ambiguo
dialogo tra don Giovanni e la futura vittima, la fulmineità
dell'accoltellamento di questa che si era accostata a don Giovanni
non pensando che lui sapesse, l'andante spasmodico tutto teso al
tragico epilogo, fanno di quest'opera condotta con un ritmo poetico
perfettamente funzionale all'azione drammatica un piccolo capolavoro
della poesia dialettale italiana.
L'anno dopo fu incaricato della sistemazione della biblioteca
dell'istituto di belle arti, dove ebbe modo di frequentare
agevolmente i suoi amati amici pittori, l'ambiente dei quali fu
forse il più congeniale alla sua natura. Nel 1898, ancora
presso l'editore Pierto, pubblicò Ariette e sunette, la
raccolta che contiene alcune fra le più celebrate liriche del
Di Giacomo.
Pensiamo all'incanto plenilunare e meditativo di Pianefforte 'e
notte, alla vivacità del settenario sdrucciolo usato in 'E
ttrezze e Carulina, dove il poeta esorta il pettine della donna
desiderata a strapparle tutti i capelli, lo specchio della toletta
ad appannarsi, le lenzuola ad infuocarsi e pungere le sue carni, le
piante sul tetto della casa a farsi trovare seccate, ma poi è
felice di constatare che nella realtà avviene tutto il
contrario. Pensiamo alla sentimentale e filosofica mestizia di Tutto
se scorda, una delle liriche più dense, al raffinato,
impressionistico idillio di Dint''o ciardino ... La raccolta
contiene inoltre, insieme con una gran copia di altre felici
liriche, Marzo, la canzone dell'incostanza atmosferica di questo
mese che è come l'amore della volubile Caterina, la lirica di
gelosia e di disprezzo Dint''o suonno, i cinque sonetti di Nunmero
vintuno, di contenuto vagamente deamicisiano.
L'anno 1900 venne rappresentato al S. Ferdinando, e pubblicato,
l'atto unico 'Omese mariano che il D. ricavò dalla novella
Senza vederlo: dramma di una madre che non riesce a vedere il
proprio figlio illegittimo ricoverato all'Albergo dei poveri
perché - le viene detto - il bambino sta per avviarsi in
chiesa insieme con gli altri per celebrare il mese mariano. In
realtà nessuno del personale trova il coraggio di comunicarle
che suo figlio è morto di meningite la sera prima.
Presso l'editore Laterza di Bari, nel 1903 uscirono le novelle di
Nella vita. In quell'anno il Croce intervenne autorevolmente su La
Critica con un saggio sulla poesia dialettale manifestando la sua
ammirazione per l'opera del D., nonostante qualche riserva sui
lavori giovanili: è il primo, notevole riconoscimento
ufficiale della sua poesia. Sempre nel 1903 il D. assunse la
direzione della biblioteca Lucchesi Palli, sezione della Nazionale
di Napoli, incarico che portò avanti con competenza e amore.
L'attività di bibliotecario fu quella dove egli raggiunse se
non la felicità almeno la maggiore serenità di cui
poté disporre nella sua vita. Fu alla Lucchesi Palli che
conobbe Elisa Avigliano, romantica studentessa di quasi vent'anni
più giovane, che dopo undici anni di difficile, tortuoso
fidanzamento sposò nel 1916, soltanto una volta morta la
madre.
Di recente sono state ritrovate e pubblicate le Lettere a Elisa
(1973), che illuminano sufficientemente sul carattere del D. e la
sua sensibilità esacerbata dalla paura del mondo: un
carattere mite e fragile che può farsi crudele e far soffrire
per nevrotico timore di soffrire, la dipendenza dalla madre,
l'incapacità di sostituire l'immagine di lei con quella di
un'altra donna che potesse occupare nel suo animo un posto
altrettanto importante (ecco spiegata la quantità di figure
femminili fittizie che occupa l'opera poetica, le Caruli, le Nanni,
le Carmè, le Mari, le Adelà, le Rusì, le
Catarì, e così via: tante, tutte, cioè
nessuna).
Vicino ai cinquant'anni, il D. non aveva ancora raccolto in un unico
volume le sue poesie sparse presso vari editori. La prima edizione
completa delle Poesie uscì per l'intervento del Croce e
dell'amico F. Gaeta presso l'editore Ricciardi soltanto nel 1907,
con il glossario a cura del Gaeta e le note dello stesso Croce:
un'edizione storica con cui la benemerita casa editrice napoletana
iniziò la sua attività. Vide la luce così anche
la raccolta Vierze nuove, che contiene il gruppo di liriche 'A
strata, dove ritornano il clima e gli ambienti già intravisti
in 'O fùnneco verde, precedentemente pubblicate (1900) in una
serie di sei cartoline dal titolo Napoli illustrata.
Ricordiamo 'A lezzione, il colorito ripasso di una lezione di
accattonaggio, la patetica e sconsolata nottata di Irma, "nomme
furastiero: ma se chiamma Peppenella", la prostituta cacciata dalla
locanda in mezzo alla strada, che tutta la notte cerca invano
clienti per dormire da qualche parte, e al mattino stanca morta si
mangia una fresella bagnata nell'acqua e si getta in terra a dormire
come "na mappata", un grosso involto. O il trionfo agreste del
maggio odoroso nella rapida rappresentazione di Na tavernella.
Nel 1909 avvenne il debutto trionfale dei due atti di Assunta Spina,
rappresentati per la prima volta al teatro Nuovo di Napoli. Il
dramma, tratto dall'ornonima novella della raccolta Rosa Bellavita,
dove l'enigmatica figura di Assunta Spina prima istiga il marito a
vendicarla dell'amante che l'ha lasciata e offesa, poi, quando
questi viene ucciso a coltellate dal marito che si dà alla
fuga, dichiara alla legge di essere stata lei ad assassinarlo, nel
passare dal racconto alla scena perde alcuni inquietanti
significati, ma rimane uno dei più riusciti del teatro
digiacomiano. L'anno dopo - 1910 - tutto il Teatro fu pubblicato
dall'editore Carabba di Lanciano in una edizione comprendente 'O
voto, A S. Francisco, Assunta Spina, 'O mese mariano e l'atto unico
Quand l'amour meurt. Su proposta del Croce in quell'anno il D. fu
ammesso nell'Accademia Pontaniana di Napoli, mentre nel 1911 apparve
a Firenze un altro notevole contributo alla comprensione della sua
opera: l'amorevole studio dell'amico Gaeta, ricco di preziose
testimonianze.
L'ultima raccolta di poesie Canzone e ariette nove vide la luce nel
1916 sempre presso Ricciardi. Vi si legge un D. ripiegato su se
stesso, a tratti mesto, sempre più autunnale.
Il tema della nostalgia e dell'impossibilità del recupero del
tempo trascorso anima di dolce, malinconica poesia le tre ultime
liriche, quiete, aeree, di una sofferenza intensa e lieve al
contempo: Stammo 'int'aùsto e chiove..., dove il poeta,
stanco dell'affaticante estate, non si dispiace che un temporale
d'agosto sembri porre fine alla stagione, l'aria fresca d'autunno
ormai è ciò che più anela, Arillo, animaluccio
cantatore, dove il D. invoca sconsolato un grillo di accompagnarlo a
casa col suo canto perché è ormai un pover'uomo dal
cuore confuso, dai pensieri scontenti. La primavera invece torna in
Aspetta 'a primmavera, ma viene per altri, non più per il
poeta da cui non si ferma, passa e diventa martirio estivo che
costringe ad invocare di nuovo il sospirato autunno.
Nel 1921 Luigi Russo diede alle stampe un notevole saggio sull'opera
digiacomiana, uno degli studi più riusciti, scritto, come
notò egli stesso, in una specie di ebbrezza intellettuale e
artistica. Per il Russo la personalità del D. è
largamente comprensiva e rappresentatrice di un intero mondo
culturale, quello musicale, poetico e pittorico di Napoli, che
confluisce tutt'intero nella sua poesia.
Dopo essere stato proposto nel 1924 per il Senato, proposta cui non
seguì la convalida perché si disse, amareggiandolo
molto, che Piedigrotta non poteva entrare a palazzo Madama, si
riparò con la nomina ad accademico d'Italia nel 1929. Ma il
D., colpito fin dall'estate del 1930 da un attacco uricemico seguito
da una grave forma di atassia nervosa che lo ridusse alla quasi
immobilità, non partecipò mai ad alcuna seduta. Il
fascismo, poi, lo intimidiva, lo stordiva, e certo non poteva
alleggerire la profonda misantropia che lo colse negli ultimi anni.
Morì nella notte fra il 4 e il 5 apr. 1934 a Napoli, dopo un
nuovo attacco uricemico.
Accanto al D. poeta, novelliere e scrittore di teatro, non va
dimenticato l'appassionato ricercatore e il colorito e nostalgico
saggista. Dotato di capacità rievocativa più da
artista che da erudito, servendosi della piacevolezza di una prosa
più aneddotica che scientifica, il D. rivisse amorosamente
interi momenti di storia patria e di costume. Cronaca del teatro S.
Carlino (1891) rievoca le gloriose gesta sceniche dei Cammarano, dei
De Martino, dei Petito, in quello che fu per un secolo e mezzo il
centro della scena napoletana. La prostituzione in Napoli nei secoli
XV, XVI, XVII (1899), invece, è lo studio - rigoroso ma privo
di pedanteria - su come veniva regolata la prostituzione cittadina
sin dall'età di Ruggero I. Testimoniano poi dei suoi forti
interessi per le arti figurative i due saggi pubblicati nel 1905:
Vincenzo Gemito. La vita, l'opera, e Domenico Morelli pittore
(datato quest'ultimo 1901), e di quelli storici - sempre legati alla
vita cittadina - lo studio Il Quarantotto, "notizie, aneddoti,
curiosità, intorno al 15 maggio 1848". E poi ancora le sue
ricerche sui conservatori musicali del Settecento, l'interesse
filologico per l'origine di certe famose canzoni (Fenesta ca lucive,
Te voglio bene assaie), per la storia di importanti manifestazioni
popolari come quella di Piedigrotta, ecc.
Pochi poeti sul tramontare dell'Ottocento hanno avvertito e
sottilmente sofferto il mutamento dei tempi come Salvatore Di
Giacomo. L'opera sua di ricerca erudita in fondo testimonia un
bisogno sentimentale di recupero di un mondo culturale ormai
scomparso, e di conservazione di quanto ancora ai tempi suoi mandava
gli ultimi, pallidi bagliori. Su un altro versante, e con intenti
meno scientifici, somiglia a quanto andava facendo su per giù
nella stessa epoca Giuseppe Pitrè con la cultura popolare
siciliana. La nostalgia è la musa che l'attraversa, si
può dire, tutta quanta, e più ancora che nei versi o
nelle novelle dove vive trasfigurata dalla necessità
dell'invenzione. Il D. scriveva rivolto sinceramente al passato,
soprattutto a quel Settecento partenopeo di cui ancora qualche
traccia permaneva ai tempi suoi, e che egli viveva come il secolo
"delle favole melodiose e idilliche, dove si componeva senza sforzo,
senza lotta, senza il sentimento del distacco, la dissonanza della
vita" (L. Russo).
Il fascino della sua arte nasce da una mistura felicemente riuscita
di naturalismo e decadentismo, così in essa invano si
cercherebbe una reale dipendenza da un Verga come da D'Annunzio, da
Fogazzaro come da Pascoli. Il modo di ritrarre del D. ha ben poco a
che vedere con la luce cruda, meridiana e pietrificata del verismo
verghiano, trattasi piuttosto di un realismo di tipo ellenistico,
chiaroscurale e pittorico, che sconfina naturalmente e felicemente
nell'impressionismo. Le parole che il D. scrisse in un articolo
dedicato ai suoi adorati pittori della scuola di Posillipo, in fondo
si potrebbero riferire alla sua poesia: "Né - si dica che
quelli artisti rimasero, nella contemplazione della natura,
solamente oggettivi: un qualunque paesaggio è sempre uno
stato dell'anima, ogni filo d'erba ha la sua storia. E attraverso le
ardite forme veristiche di quella poesia tonica e fortificante,
forse è passata, per raggiungere vette più sublimi, la
poesia morelliana, penetrata di terrore e di pietà" (Lucied
ombre napoletane, in Opere, II, pp. 816 s.).
Lo stesso dialetto usato, di una dolcezza e raffinatezza mai
più uguagliate, non è forgiato per ritrarre
veristicamente, ma più per raggiungere effetti di colore
mescolati alla più aerea musicalità. Perché
poesia dialettale non significa per forza poesia popolare, nel senso
di incolta o rozza, specie a Napoli dove il vernacolo attraversa
tutti gli strati sociali, e veniva usato persino a corte. Infatti il
D. rimane sempre un borghese che scrive in modi dialettali, un puro
intellettuale che nella cultura popolare opera selezioni e
trasceglie, che semmai risulta "popolare" di ritorno, nel senso
della vasta popolarità di cui ancora oggi gode la sua opera.
Il popolo è per forza visto attraverso i suoi occhi, non
certo dal di dentro. D'altra parte il popolo non può
esprimersi come autore. Da come ha scritto in Napoli: figure e
paesi, il D. al riguardo aveva le idee piuttosto chiare e corrette:
"Come potrei affermare ancora una volta, contro l'opinione generale,
che dal popolo, dal popolo basso, dalla plebe infine non è
mai rampollata di getto, con ugual metro e con pulita forma, la
canzone della quale non si ritrova l'autore? ... Il popolo -
è vero - può creare e inventare e dar volo alla sua
produzione fantasiosa, ma non è il popolo quello che scrive e
stampa: qualcuno sta tra tipografo e plebe, le più volte uno
sconosciuto ed umile rifacitore e rimpastatore, talvolta pur chi sa
modellare nella grossolana abbozzatura di un canto o narrativo o
puramente e semplicemente lirico un'opera poetica perfetta" (ibid.,
p. 480).
La poesia del D. è certo inseparabile dal suo dialetto,
perché pensata e costruita nei termini di quella
coralità che appartiene inconfondibilmente a tutta la
civiltà partenopea. Però, se da una parte è
fatta di suoni che sono e restano quelli profondi e antichi di
un'intera comunità, dall'altra con essi il D. erige lo
squisito edificio di una poesia fortemente originale, sicuramente
fra le maggiori espressioni letterarie della fine del nostro
Ottocento.