Curci, Carlo Maria
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Polemista, oratore (Napoli 1810 - Careggi 1891), gesuita. Singolare
figura di sacerdote, prima fu amico del Gioberti, poi ne
contestò duramente le idee antigesuitiche; sostenitore del
potere temporale (fondò a Napoli nel 1850 la Civiltà
Cattolica), nel 1874 ne era diventato avversario deciso. Espulso
(1877) dalla Compagnia di Gesù, scrisse La nuova Italia e i
vecchi zelanti (1881), Il Vaticano regio, tarlo roditore della
Chiesa cattolica (1883), Lo scandalo del Vaticano regio (1884), che
furono posti all'Indice. Condannato, il C. si ritrattò e
visse gli ultimi anni nell'ombra. Prima di morire fu riammesso nella
Compagnia di Gesù.
*
DBI
di Giacomo Martina
CURCI, Carlo Maria. - Nato a Napoli il 4 sett. 1810 da Vincenzo e
Costanza De Ferrante, entrò nella Compagnia di Gesù il
13 sett. 1826, e fu ordinato sacerdote il 1° nov. 1836. Il
carattere focoso gli provocò qualche difficoltà, come
alcuni rapidi trasferimenti e un breve rinvio dell'incorporazione
definitiva nell'Ordine per altro presto superate. Dopo due anni di
insegnamento a Lecce, e un anno come predicatore a Faenza, venne
richiamato a Napoli dove alternò l'insegnamento dell'ebraico
e della Scrittura con la predicazione, svolta con grande successo in
varie città, e con la cura spirituale dei reclusi nelle
carceri napoletane.
Apparso intanto nel 1843 Il Primato del Gioberti, il C., con altri
due confratelli entusiasti dell'opera ne curò un'edizione,
stampata a Benevento. Due anni più tardi uscivano però
a Bruxelles i Prolegomeni del Primato, secondo il C. "repertorio
generale di tutte le accuse antiche e moderne apposte a' gesuiti".
All'attacco replicò con moderazione il p. F. Pellico,
fratello di Silvio, ma il provinciale di Napoli p. F. Manera
scriveva in proposito al generale p. G. Roothaan: "Non sarà
mai dato ad una persona sola di rispondere al bisogno. Sarebbe
quindi opportuno che alla scrittura posata e grave del p. Pellico...
succedesse l'altra... non meno forse stringente e più
brillante del p. Curci, nella quale i sali e i frizzi arguti entro i
termini del decente sarebbero esca assai efficace... Così...
si vedrebbero ne' due estremi della penisola uscire l'una dopo
l'altra... due assennate e varie apologie...". Il C. ebbe
così via libera, lavorò con la sua solita lena ("Se
non fo presto, non fo nulla", confessava ancora nel 1874), e
pubblicò a Imola entro il 1845 Fatti ed argomenti in risposta
alle molte parole di Vincenzo Gioberti intorno ai Gesuiti.
Dopo aver puntualizzato gli errori di metodo del Gioberti
(genericità delle accuse, travisamento dei fatti, apriorismo,
sicurezza assoluta di giudizio), il C. lo segue passo per passo,
chiarendo obiettivamente la natura dell'ubbidienza gesuitica, il
molinismo e il probabilismo, dottrine comuni nell'Ordine,
rivendicando il valore dell'educazione impartita dalla Compagnia, il
contributo dato in molti settori delle scienze e delle lettere,
negando che i gesuiti siano avversari della civiltà moderna.
Il successo dell'opera è dimostrato dal rapido seguirsi di
dieci edizioni: effettivamente la confutazione è generalmente
persuasiva, anche se non mancano punti deboli (come la pretesa
neutralità politica dell'Ordine, altrettanto vera in teoria
quanto discutibile in pratica, e la validità di una pedagogia
in parte superata: lo stesso C. nel 1847 e nel 1849 si sforzò
con scarso successo di introdurvi alcuni aggiornamenti).
Esule nel 1848 a Malta e poi a Parigi, lo scrittore, ormai popolare,
continuò la sua battaglia contro Gioberti, che nel 1847 aveva
pubblicato il prolisso Gesuita moderno. In Una divinazione sulle tre
ultime opere di Vincenzo Gioberti, stampata a Parigi nel 1849, il C.
riprese e sviluppò alcuni temi di fondo appena sfiorati nel
lavoro precedente. In netto contrasto con l'abate piemontese egli
sottolineò che il cristianesimo, pur avendo esercitato un
influsso sociale positivo, non può ridursi ad una
civiltà, e che l'attacco contro i gesuiti nascondeva il
tentativo di una riforma sostanziale del cattolicesimo. L'opera
venne letta con grande interesse da Pio IX a Gaeta: il papa, fin
troppo propenso in quei mesi a scaricare su altri le proprie
responsabilità, dimenticando le ampie critiche mosse al
Gesuita moderno nei primi mesi del 1848 dal cappuccino Giusto da
Camerino, confidò ad alcuni intimi che solo ora gli erano
stati esposti i veri pericoli delle dottrine giobertiane.
Si comprende quindi facilmente come il C., tornato a Napoli alla
fine del 1849, venisse accolto con simpatia dall'Antonelli e da Pio
IX, e che l'idea di un periodico, destinato a chiarire i principi
fondamentali della civiltà cristiana, e a giudicare sotto
questa luce gli avvenimenti e le pubblicazioni contemporanee, fosse
immediatamente fatta propria dal papa, che l'impose al riluttante
generale p. Roothaan, tornato anch'egli dall'esilio ed arrivato a
Napoli alla metà di gennaio del 1850. Il progetto era in aria
da tempo, senza che il C. ne fosse al corrente. Venutone a
conoscenza, questi se ne impadronì, ne specificò i
lineamenti, seppe guadagnare alla causa Pio IX: egli può
dunque a ragione esser considerato il fondatore della Civiltà
cattolica, il nome che la rivista assunse.
Il p. Roothaan, pur assecondando in pieno la volontà del
papa, non nutriva però troppa fiducia nel C., proclive alla
polemica e portato a considerare il periodico come opera sua, non
della Compagnia: gli mise perciò a fianco altri gesuiti a suo
avviso più equilibrati, come il p. L. Taparelli, il p. M.
Liberatore e il p. A. Bresciani, e volle che articoli e decisioni
fossero approvate collegialmente. Il C. in ogni modo mostrò
eccezionali capacità organizzative, stabilendo in poche
settimane non solo il programma definitivo della rivista, da lui
esposto nel primo numero, ma creando dal nulla la rete capillare
necessaria alla diffusione rapida ed universale del periodico, e
inondando la penisola di un manifesto programmatico in 120.000
copie, cifra altissima per quei tempi.
Più tardi, nelle Memorie della Civiltà cattolica, il
C. racconterà le difficoltà superate: una rivista
destinata "per tutta l'Italia", che voleva essere considerata "come
indigen[a] da Susa insino a Malta, e da Nizza insino a Trieste",
doveva traversare quattro Stati, subire numerose revisioni da parte
di varie dogane non sempre disinteressate, trovare mezzi di
trasporto celeri e regolari in un'epoca in cui mancava un servizio
postale stabile ed esteso a tutta l'Italia. Paradossalmente, proprio
l'organizzazione di una rivista che avrebbe difeso ad oltranza il
potere temporale, attribuendo le aspirazioni nazionali ad una
minoranza settaria, portava inconsciamente il C. a descrivere
obiettivamente i fattori storico-politici che rendevano necessaria
l'unificazione. Si aggiunsero le angherie del governo napoletano,
fautore di una severa censura preventiva, sospettoso in genere della
cultura, spaventato dalla professione fatta dalla Civiltà di
rispetto per tutte le forme di governo che avessero
"legittimità nell'essere e... giustizia nell'operare".
Nonostante i timori del C. e dei suoi collaboratori, che a Roma la
libertà della rivista sarebbe stata limitata in misura non
inferiore che a Napoli, nel settembre 1850 era deciso il
trasferimento nella capitale pontificia. Gravi conseguenze ebbe, nel
1854, la stampa, in numero limitato di copie, delle Memorie della
Civiltà cattolica. Primo quadriennio, scritte dal C., che
accennavano chiaramente alle difficoltà frapposte dal governo
napoletano. Il lavoro cadde nelle mani della polizia borbonica, e
provocò un'autentica tempesta: divieto della rivista nel
Regno, allontanamento dei gesuiti da vari uffici pastorali a Napoli,
e, pro bono pacis, esilio del C. a Bologna dal dicembre 1854 al
luglio 1857.
Questi aveva continuato a seguire da lontano la sua creatura, che,
ormai in mano di altri, andava assumendo un diverso tono. Al suo
ritorrio. ebbe l'impressione di non godere più della fiducia
dei suoi antichi collaboratori: di qui lamentele, visite di
superiori incaricati di ristabilire l'armonia, periodi sempre
più frequenti in cui il C. si ritirava in una casa vicino a
Roma. Dopo il 1864 la sua collaborazione alla Civiltà
diminuì sensibilmente, per cessare del tutto all'inizio del
'66: in una relazione inedita sulla situazione della Compagnia in
Italia, datata 12 nov. 1865, il C. si lamentava amaramente che la
rivista fosse "divenuta strumento di private propensioni", e ne
prevedeva prossima la fine.
Comunque, fra il 1850 e il 1866 pubblicò sulla
Civiltàcattolica oltre duecento articoli e note (alcuni dei
quali ristampati a parte e tradotti), passando liberamente da un
argomento all'altro: il tono era però sempre identico,
fortemente conservatore e duramente polemico, sia che trattasse
della questione romana o della questione sociale, della stampa, un
male ormai inevitabile, degli asili infantili (riprendendo la
discussione sorta fin dal loro primo apparire nel 1828), degli
avvenimenti del giorno. Più moderato si mostrò invece
sia nella querelle sull'usonelle scuole cattoliche dei classici
pagani, sollevata dal Gaume, sia nell'interpretazione del Sillabo, a
proposito del quale egli riaffacciò la distinzione fra tesi
ed ipotesi.
Intanto andava maturando nel polemista intransigente una nuova
coscienza. L'avvenimento decisivo fu Porta Pia, che mostrava la
debolezza intrinseca di quella cieca fiducia nella provvidenza, che
anche egli aveva difeso nell'articolo Le due Rome (1861). Ne La
caduta di Roma per le armi italiane considerata nelle sue cagioni e
nei suoi effetti, uscito a Firenze un mese dopo il 20 settembre, il
C. oscilla fra lo sgomento per quanto è accaduto, e la
fiducia nella provvidenza che permette il male a fin di bene, ma
ammette senza mezzi termini, contro molti intransigenti, che il
potere temporale non sarebbe più risorto. Per il momento
tuttavia, inaugurando agli inizi del 1871 la Società romana
per gl'interessi cattolici, il C. non vedeva altra tattica possibile
al di fuori della separazione più completa dalla
società contemporanea, per resistere alle pressioni
ambientali e prepararsi alle lotte di domani. Pur colpito da molte
critiche e costretto a qualche momentanea concessione ai tempi, egli
ribadì nella prefazione ad un nuovo lavoro, Sopra
l'internazionale (Firenze 1871). la sua convinzione
dell'impossibilità di una restaurazione: persuasione espressa
con cautela unita a chiarezza, anzi alla fiducia nei vantaggi della
nuova situazione, nella Ragione dell'opera premessa alle Lezioni
esegetiche e morali sopra i quattro Evangeli (Firenze 1874). L'anno
dopo, nel giugno 1875, il C. inviò direttamente al papa, in
via riservata, una nuova stesura della Ragione dell'opera, da
premettere alla seconda edizione delle Lezioni. Partendo dal
presupposto dell'impossibilità del ristabilimento del potere
temporale, e delle conseguenze negative del non expedit e
dell'opposizione al nuovo stato di cose, proponeva questa soluzione:
sciolte le Camere, il nuovo Parlamento eletto con la partecipazione
massiccia dei cattolici avrebbe dichiarato di considerare il re come
autorità data da Dio non dal popolo, di voler impedire
efficacemente leggi contrarie alla religione e alla morale, di
creare al papa condizioni tali che gli permettessero di restare a
Roma come sovrano "non pur di Roma, ma dell'Italia". Pio IX
considerò la proposta come un'"insolenza", e ne proibì
la pubblicazione, che invece avvenne, senza che il C. vi prendesse
parte alcuna, nella Rivista europea del febbraio-marzo 1877, e
successivamente in altri giornali: la stampa liberale, come la
Gazzetta d'Italia del 6 luglio, giudicò negativamente le
proposte, che non mancavano di una certa ingenuità.
A questo punto le cose precipitarono. Il nuovo generale della
Compagnia, p. P. Beckx, chiese una ritrattazione, che il C. non
volle dare. Fallì presto la mediazione di alcuni gesuiti
amici dello scrittore, perché l'interessato ritrattò
una formula conciliante e dignitosa propostagli dai suoi
confratelli, considerata sufficiente anche dal Vaticano, e non
accettò di essere inviato àll'estero. Il 22 ott. 1877
il generale gli comunicava le dimissioni dall'Ordine, da lui chieste
il 16 ottobre.
Rimasto sacerdote, lo scrittore volle innanzi tutto esporre
pubblicamente le sue ragioni (Il moderno dissidio fra la Chiesa e
l'Italia considerato per occasione di un fatto particolare, uscito a
Firenze ai primi del 1878). L'elezione di Leone XIII gli aprì
uno spiraglio di speranza (fu ospite qualche giorno in Vaticano del
fratello del papa, l'ex gesuita poi cardinale G. Pecci; ebbe il
permesso di dire la messa in privato; partecipò alle riunioni
di casa Campello, in vista della fondazione di un partito cattolico,
subito sfumato). Svanite però le sue speranze, egli
formulò, in modo frammentario e non organico, un autentico
piano di riforma della Chiesa, contenuto nella trilogia La nuova
Italia e i vecchi zelanti, studi utili ancora all'ordinamento dei
partiti parlamentari (Firenze 1881); Il Vaticano regio, tarlo
roditore della Chiesa cattolica, studi dedicati al giovane clero ed
al laicato credente (Firenze-Roma 1883); Lo scandalo del Vaticano
regio duce la Provvidenza buona a qualche cosa; brevi note onde
l'autore di quello valedice a siffatte polemiche (Firenze 1884).
Tutte e tre le opere vennero subito messe all'Indice e., dopo la
pubblicazione della seconda, il C. venne sospeso a divinis per non
essersi sottomesso. Leone XIII, in una lettera del 28 ag. 1884
all'arcivescovo di Firenze mons. E. Cecconi, riassunse la vicenda
deplorando la condotta dell'autore che, per altro, conosciuto il
documento pontificio, il 14 settembre dello stesso anno ritrattava
pubblicamente quanto nei suoi scritti si trovava di contrario alla
fede, alla morale, alla disciplina ed ai diritti della Chiesa. Il
papa rimproverava al C. soprattutto la pretesa (allora quasi
inconcepibile) di giudicare e criticare quanto deciso dalla suprema
autorità ecclesiastica, e di attribuire al pontefice la
responsabilità del dissidio, dando l'apparenza di
giustificare la guerra mossa alla Chiesa.
Effettivamente, nocquero al C. il tono aspro e polemico, ma
soprattutto le circostanze del tempo. Si spiega così la serie
di risposte, uscite in quegli anni, anche ad opera di alcuni suoi ex
confratelli, con l'impostazione e lo stile tipico del momento.
La sua ecclesiologia, più vicina a quella di J. A.
Möhler che a quella bellarminiana (Chiesa come popolo di Dio
più che come società perfetta), trae ispirazione
prossima da autori come Rosmini e Audisio, ma soprattutto dal
contatto con la realtà viva, dall'ansia di salvare l'Italia
dall'indifferentismo: pericolo che egli, predicatore e confessore,
non studioso puro, avvertiva profondamente. L'incondizionato
rispetto per la tradizione dogmatica si unisce alla certezza che la
fede implica anche un confronto critico coi nuovi problemi che la
storia continuamente pone. Del resto accanto ad elementi immutabili
incontriamo nella Chiesa strutture variabili col tempo: i primi,
anche se antichi, nulla hanno perduto del loro valore, le altre
possono essere divenute vecchie, inutili, e se non cadono da
sé vanno rimosse. Il rinnovamento non consiste dunque in un
semplice ritorno alle origini, ma in un adattamento ai tempi,
promosso dal basso ed attuato dall'alto, prova della
credibilità della Chiesa, che non teme di denunziare e
riconoscere i propri errori.
In questo spirito il C. insorge contro il Vaticanoregio ("la corte
regale e la regale curia costituitesi intorno al Pontefice", con
tutte le caratteristiche delle corti, adulazione, carrierismo,
ostinazione nel difendere metodi anacronistici, limitazione
dell'effettiva libertà del pontefice). A
quest'autorità incline al dispotismo, circondata da un
apparato burocratico trionfalistico, occorre sostituire un governo
fondato sullo spirito di umiltà e di servizio, aperto alle
voci della base. La Chiesa darà così esempio di
povertà, senza rimpiangere il potere temporale e le ricchezze
perdute, eliminando inutili pompe, e di sincerità,
rispettando il pluralismo di opinioni senza coprirlo con
un'unanimità fittizia, imposta dall'alto.
La riorganizzazione della Curia impone la nomina di persone capaci e
meritevoli, non di incapaci giunti al vertice per un fatale
meccanismo. Contrario alla centralizzazione, il C. difende poi
l'autorità e l'autonomia dei vescovi, non è alieno da
una certa partecipazione dei laici alla loro elezione, auspica una
riforma dei seminari, riducendone il numero per elevare il livello
del corpo docente, imponendo come condizione di ammissione la
licenza liceale, dando una formazione aperta alla discussione,
curando - come aveva suggerito Rosmini - la stretta unione fra
scienza e pietà.
Si eliminerà così l'assurdità di avere un
elevato numero di sacerdoti, soprattutto nelle regioni più
povere, a cui non corrisponde un adeguato numero di pastori
preparati al loro compito: si avrà insomma un clero
più pastorale e meno secolare, ma insieme dedito allo studio
per superare con minor difficoltà la solitudine e il
celibato: problema che il riformatore pone con estrema
sincerità, sino a chiedersi se non sia possibile una duplice
classe di sacerdoti, celibi e sposati. Anche i religiosi devono
comprendere che la loro sopravvivenza dipende largamente dalla loro
capacità di rispondere alle nuove esigenze della
società. Il C. avverte anche la necessità di una
promozione del laicato, che deve affrontare le lotte politiche, in
un partito di cattolici, non in un partito cattolico, aperta
contraddizione. La liturgia dovrebbe tentare di attenuare gli
inconvenienti dell'uso di una lingua sconosciuta alla massa, per
divenire strumento efficace di catechesi, e curare un'impostazione
più cristocentrica della pietà. Non mancano poi
accenni efficaci al rispetto della coscienza (la persona umana ha
diritto a non subire coazioni esterne nei suoi rapporti con Dio), ad
un'accettazione delle libertà moderne (prima tanto criticate
dal C. nella Civiltà!), al superamento dell'identificazione
fra Chiesa e cultura europea.
Questo programma - che anticipa in vari punti alcuni aspetti del
Vaticano II - pur nella sua genericità e
nell'incapacità di risolvere un'antinomia fondamentale (la
Chiesa deve essere distaccata dal mondo, ma insieme inserita in esso
per fermentarlo), presenta i tratti di un genuino riformismo,
soprattutto per la sincera fedeltà alla Chiesa, e la forte
comunione con la tradizione biblica a patristica.
Come esegeta, nonostante i suoi commenti a vari libri del Vecchio e
Nuovo Testamento, il C. presenta oggi un interesse puramente
storico: egli è tipico esponente di un'esegesi ancora
incapace di rispondere adeguatamente alla sfida lanciata dalla
scuola di Tubinga. Maggiore attenzione merita l'evoluzione da lui
subita nei confronti della questione sociale. Se negli articoli
sulla Civiltà e nell'Internazionale egli descrive in modo
semplicistico il socialismo, come scatenamento di brutali passioni,
e non trova altra soluzione che la rassegnazione e la carità,
nel saggio sul "socialismo cristiano" (Firenze 1885) l'analisi
è sufficientemente serena ed obiettiva, nonostante il
carattere farraginoso, e le molte digressioni non solo sul duello e
sul militarismo, ma anche sulla cronologia biblica.
Il C. analizza chiaramente le cause, le conseguenze, i rimedi della
questione sociale. Questa nasce dalla rivoluzione industriale, dalla
libera concorrenza (frutto di un'utopistica concezione di
un'umanità non ferita dal peccato originale), dalla
soppressione delle corporazioni, dalla coscienza che gli operai
hanno acquisito della propria dignità. Frutti inevitabili del
sistema attuale sono il pauperismo, l'alienazione del lavoratore
davanti alla macchina, la pace armata fra padroni e operai. I rimedi
efficaci sono da un lato un risveglio religioso delle due parti,
dall'altro il ristabilimento dell'associazionismo operaio, una
concezione morale e non materiale dei salario, tale da assicurare
all'operaio ed alla sua famiglia una condizione di vita degna di un
uomo, il superamento della divisione fra capitale e lavoro con
l'azionariato operaio o la creazione di cooperative di produzione,
un codice del lavoro. Il C. si mostra molto più informato,
obiettivo, coraggioso della maggior parte dei cattolici del tempo.
Il C. fu sincero, pieno di ottime intenzioni e di zelo, pronto a
pagare di persona, dotato di un'acuta sensibilità storica
rara in quell'epoca, ma insieme suscettibile, accentratore,
instabile, troppo sicuro di sé, portato alla polemica
radicale, qualche volta un po' ingenuo. Si spiega così come
tutta la sua vita sia stata una battaglia, ed abbia presentato
l'esempio, per altro non unico nel secolo scorso, di un'evoluzione
da un estremo all'altro. Ma l'opera da lui fondata e poi abbandonata
ha mostrato una vitalità sorprendente, e molte delle sue idee
sulla questione romana, sulla questione sociale, sulla riforma della
Chiesa ne fanno un autentico precursore.
Il 29 maggio 1891 fu nuovamente ammesso nella Compagnia; morì
a Careggi, presso Firenze, l'8 giugno dello stesso anno.