Bini Carlo

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Letterato (Livorno 1806 - Carrara 1842), fu tra i fondatori dell'Indicatore livornese; amico fraterno del Mazzini, che dettò una commossa prefazione ai suoi scritti (pubbl. post., 1843), fu un temperamento inquieto, sempre desideroso di liberarsi dagli impegni della vita di commerciante alla quale il padre lo aveva avviato. Il Manoscritto di un prigioniero, opera paradossale, ricca di digressioni filosofiche (fu scritta a Portoferraio dove il B. fu carcerato politico nel 1833), chiarisce la fisionomia del romanticismo del Bini, oscillante fra ironia e sentimentalismo; le Lettere all'Adele rispecchiano, in una vivace prosa, il tumultuoso mondo interiore che egli non riuscì mai a fermare in una pacata purezza di linee. Tradusse dal Byron e dallo Sterne: degli influssi della prosa di quest'ultimo risente largamente il Manoscritto di un prigioniero.

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DBI

di Maria Fubini Leuzzi

Nato a Livorno il 1º dic. 1806 da Giulio, commerciante di grasce originario di Fivizzano, e da Violante Milanesi, frequentò il collegio di S. Sebastiano, tenuto dai barnabiti, dove fra il 1819 e il '22 figura fra gli studenti premiati.

Nel collegio strinse amicizie che dovevano durare tutta la vita, prima fra tutte quella con F. D. Guerrazzi. Il loro incontro sembra avvenisse però fuori delle mura scolastiche, quasi un "incontro d'anime" di due giovanetti di tredici e quindici anni (Memorie di F. D. Guerrazzi, scritte da lui medesimo, Livorno 1848, p. 33), uniti da una forte curiosità per le letture classiche e moderne e dal medesimo spirito insieme ribelle e scettico. Scolari dei barnabiti furono pure in quegli anni P. Bastogi, E. Mayer, A. Biscardi, che sarà specie negli ultimi anni l'amico più intimo, e P. Tausch, figlio del console austriaco a Livorno, prima liberale e mazziniano poi nel '33 delatore. Proprio da uno screzio col Tausch nacque il primo componimento letterario del B., Il viaggio di don Pietro Tausch, un poemetto eroicomico in sestine di endecasillabi, parzialmente presentato da L. Mannucci (C. B. poeta, in C. B. nel centenario della morte..., pp. 78-83).

Terminato il corso di retorica e desiderando continuare gli studi, consapevole delle difficoltà economiche familiari, il B. partecipò con successo a un concorso per un posto di studio presso l'Accademia di Pisa. Incontrò però l'opposizione irremovibile del padre, il cui commercio, ampliatosi nel frattempo, aveva bisogno di aiuto (L. Pescetti, C. B. uomo d'affari, in Boll. stor. livornese, VI [1942], p. 247); la rinuncia pesò assai al B., che ancora molti anni dopo, in una famosa lettera (Camaiore, 28 luglio 1836), ricorda al padre "il sacrificio doloroso" (Scritti, p. 367). Iniziò così una sorta di doppia vita, di uomo di banco e di letterato al medesimo tempo. Continuò a frequentare i primi amici, e altri ancora ne conobbe, fra cui Giovanni e Michele Palli, di origine greca, fratelli della poetessa A. Palli nella cui casa "giungevano dalla Grecia continue notizie tali da destare a un tempo ammirazione e terrore" (A. Linaker, La vita e i tempi di E. Mayer, I, Firenze 1898, p. 16). Per gli incontri e gli scambi di idee certamente fu importante la frequenza del B. al gabinetto Doveri (G. La Cecilia, Memorie storico-politiche dal 1820 al 1876, I, Roma 1876, p. 44) e alla libreria Masi; il B. non abbandonò però le consuetudini popolari, cui era portato, oltre che dalla propria origine, anche dalla profonda simpatia per "i più sventurati delle classi lavoratrici" (ibid.). Proprio tornando da una serata in osteria, il 2 dic. 1827, ricevette in una rissa, cui sembra fosse estraneo, ferite tanto gravi da determinare per lui una progressiva decadenza fisica e poi la morte precoce.

Nel '28, già in rapporto con la tipografia Vignozzi come correttore di bozze, il B. prese a tradurre - fermandosi alla metà circa del terzo volume - la Vie politique et militaire de Napoléon di H. Jomini, uscita l'anno dopo a Livorno. Una partecipazione più fattiva alla vita culturale fu rappresentata dalla collaborazione allo Indicatore livornese del Guerrazzi, alla cui fondazione, negli ultimi mesi del '28, anche il B., insieme con R. e S. Uzielli, F. Pachò, G. Ott, E. Mayer, e poi G. Doveri, G. Gordini, e soprattutto E. Basevi, aveva contribuito (L. Cambini, Le origini dell'Indicatore livornese, in A Vittorio Cian i suoi scolari dell'Università di Pisa. 1900-1908, Pisa 1909, pp. 231 s.).

La collaborazione del B. non fu assidua, ché non era nella sua indole, ma importante, e rivolta a tutti e due gli aspetti del giornale: quello "morale e letterario" e quello economico-commerciale. Per quest'ultimo, insieme col Guerrazzi, scrisse caldeggiando l'introduzione dell'allevamento del merino (Ovis hispanica) in Toscana (n. 5). Si inseriva invece nelle discussioni condotte soprattutto dai collaboratori genovesi (Mazzini, E. Benza, F. Bettini) con l'articolo sull'Educazione (n. 4), con quello dal titolo Cenno sulla letteratura (n. 30), con le traduzioni dello Sterne (nn. 12 e 13) e del Byron (n. 44), ambedue precedute da considerazioni sugli autori, e per ultimo con le Osservazioni sopra uno scritto di Melchior Missirini (n. 41), che per la loro arditezza e irriverenza verso le istituzioni della cultura cittadina furono la causa più immediata della soppressione del giornale (R. Guastalla,  La vita e le opere di F. D. Guerrazzi, I, Rocca San Casciano 1901, pp. 177 ss.).

Il tema dell'educazione è dominante nell'Indicatore livornese, ed è affrontato dal punto di vista pratico (Mayer), storico (Missirini), teorico (Bettini). Per il B., compito dell'educazione è volgere al bene le passioni, vera forza dell'animo; "primo bisogno dell'Italia nostra" è l'educazione: se la "pianta non germoglia e non cresce felice" la colpa è solo degli educatori che si sono allontanati dalla strada indicata dalla storia; bando a quelle discipline come la retorica, la grammatica, la mitologia, che soffocano l'"intimo senso della natura", "affaticano senza frutto la mente", seminano incertezza: la storia insegna che il progresso si raggiunge "studiando i bisogni e l'indole del proprio secolo e conformando ad esso le istituzioni del paese (Scritti, pp. 1-11).

Nel Cenno sulla letteratura, ai ricorrenti temi romantici sull'unità del bello e dell'utile, e sulla funzione educatrice della letteratura, si uniscono esigenze di uguaglianza sociale, ritenuta la "pietra angolare" per "stringere i mortali in una famiglia di fratelli". Il B. ribadisce la fiducia nella natura "savia e provvidente" e nelle leggi riformatrici, né si allontana dalla precettistica romantica l'excursus attraverso la storia letteraria; conclude infine con una rinnovata polemica anticlassicista, presente nell'articolo precedente e motivo di collegamento fra questi saggi, quelli che precedono le traduzioni di Sterne e Byron, e le Osservazioni, dettate da scopi civili etici e sociali più che artistici.

Lo Sterne, diffuso in Italia prima attraverso la traduzione del Viaggio sentimentale fatta dal Foscolo e poi attraverso l'assimilazione spirituale che questi aveva compiuto nel Didimo, sembra prestarsi alla vena umoristica e malinconica e alla sottile capacità di analisi puntualizzatrice del Bini. Nell'Indicatore egli tradusse tre episodi del Tristan Shandy (Storia di Yorick, Il naso grosso, Storia di Le Fevre); nella premessa, pur in mezzo a una presentazione encomiastica dell'autore, individua con finezza e brevità il senso intimo dell'opera sterniana, "uno spirito gentile cui toccò in sorte profonda la sensazione dell'amore, della pietà e del sorriso" (Scritti, p. 166). Questa presentazione, e quella alla versione del Prigioniero di Chillon del Byron (n. 44), daranno spunto al B. per interessanti osservazioni sulla traduzione. Questa, anche nel migliore dei casi, rimane "una immagine più o meno velata", giacché "i pensieri di uno scrittore, trapassando nell'anima nostra tengono assai del moto e dei colori di quella", ma poiché "non si possono ritrarre se non come si concepiscono", vengono a far parte in un certo senso della "nostra essenza": gli "scrittori originali" sarà impossibile quindi tradurli (ibid., pp. 168, 169). Il B. offre la traduzione del Byron desiderando di far conoscere un poeta che "sentì e fece sentire le universe passioni, che nell'umana materia risvegliano un'anima"; rifiuta invece di compiere un'esame dell'opera "perché l'alta poesia sfugge ad esso" e per l'opportunità di lasciare a ciascuno indipendenza di opinione (ibid., pp. 46-47).

Le Osservazioni sopra uno scritto..., firmate dal Guerrazzi che vi aveva portato poche aggiunte, sono una risposta all'articolo del Missirini sulle Consorterie (n. 37), improntato ad un facile e superficiale ottimismo. Ancora una volta è posta in evidenza l'insofferenza innovatrice dei redattori per il vuoto accademismo, la loro posizione di agitatori e problematizzatori della vita cittadina; ma vi si intuisce ormai la crisi del giornale, "un povero foglio bianco, annerito da pochi giovani qua e là dispersi, i quali alla meglio si schermiscono e cercano di mantenergli la vita". L'Indicatore cessava di uscire col n. 48 dell'8 febbraio 1830.

Il B. incontrò per la prima volta, nell'agosto 1830, il Mazzini, che - da poco carbonaro - si era recato a Livorno per fondarvi una vendita centrale. Questi trovò nel B., che già gli aveva procurato l'affiliazione di P. Tausch, F. Pachò, C. d'Adda Salvaterra e altri, una perfetta consonanza di sentimenti e ne ottenne facilmente l'adesione al suo progetto; con il Guerrazzi, invece, che visitò accompagnato dal B. nel confino di Montepulciano, almeno momentaneamente non fu possibile l'intesa (Guastalla, p. 213). Il B. fin dal 1828 svolgeva opera di proselitismo "fra i giovani della plebe" (La Cecilia, p. 55): non tanto forse con un diretto intento patriottico, che nei suoi scritti compare assai raramente (non possiamo tener conto delle lettere a Mazzini prima del '34 andate bruciate: Ediz. naz. degli scritti... di G. Mazzini, Epistol., XXIII, p. 358), quanto perché in Toscana prevaleva un indirizzo tendente a dare al popolo un'educazione civica, iniziandolo "alla coscienza dei suoi interessi e dei suoi diritti" (Montanelli, Memorie, p. 37). Si tenga del resto conto della diffusione del sansimonismo, che aveva a Livorno un importante tramite. In ogni caso, il B., in occasione dei moti del '31, avrebbe dovuto essere il propagatore della rivolta a Livorno, dietro segnalazione del Guerrazzi da Firenze. Il progetto finì però nel nulla; ma l'arresto del Benza, avvenuto a Genova, nel febbraio del 1831, fece individuare il B. come affiliato della carboneria.

Quando nell'estate del 1831 Mazzini elaborò il programma della Giovine Italia, per la diffusione in Toscana pensò al B., al Mayer e al Guerrazzi, i quali però, pur aderendo all'iniziativa, "non adoperarono tutta la loro attività nel primo periodo della Giovine Italia" (I. Grassi, Ilprimo periodo della "Giovine Italia" nel Granducato di Toscana (1831-1834),in Riv. st. del Risorg., II [1897], p. 907), preferendo continuare nella loro opera di proselitismo senza programmi immediati e precisi. Del resto il B., dopo il fallimento della rivoluzione di Savoia nel '34, giudicava il Mazzini "un figliolo che scambiava la realtà con le larve dorate della fantasia" e non gli perdonava "la pretensione di voler dirigere il movimento stando fuori d'Italia" (Montanelli, p. 33). Solo nel '33 il nome del B. cominciò a figurare nei rapporti della polizia; questa, al corrente di riunioni in casa Guerrazzi alla presenza di ufficiali francesi, si rese tuttavia conto della scarsa volontà dei sorvegliati (il B., Guerrazzi, Orsini e Minutelli) di passare all'azione (Grassi, pp. 922 ss.). Lo stesso Mazzini, nonostante l'appello all'insurrezione inviato da Ginevra il 16 agosto a J. Coraggi, prevedendo che la congrega livornese potesse essere dissidente, la sciolse da ogni impegno. Ciò nonostante, nella notte fra il 2 e il 3 settembre, per delazione di F. Guerri di Siena, e contemporaneamente con gli esponenti delle altre congreghe toscane, a Livorno venivano arrestati il B., il Guerrazzi, il buonarrotiano C. Guitera, i pisani A. Agostini e A. Angiolini; l'11 successivo venivano trasferiti dalla Fortezza Vecchia di Livorno al Forte della Stella a Portoferraio.

Gli addebiti agli arrestati non erano molto consistenti; il B., tra altre accuse, era imputato di essere uno dei dirigenti della Giovine Italia a Livorno; i sospetti erano resi più consistenti dal ritrovamento di una lettera indirizzatagli, da Ajaccio, in cui erano accenni rivoluzionari. Certo è che la detenzione al Forte della Stella fu assai benevola, e il processo istituito contro il B. e compagni, tranne che per il Guitera, fu "economico"; la prigionia era un'ammonizione che doveva finire quando si fossero dissipati "certi torbidi che si dice sieno per aria" (Scritti, pp. 347-348). Pur in mezzo allo scoramento morale e alla malferma salute, in questi mesi il B. scrisse, oltre alle lettere al padre - che nella semplicità di stile testimoniano capacità introspettiva e delicatezza sentimentale -, la scena unica IlForte della Stella, dialogo fra Carlo e Innocenzo Tienlistretti, e il Manoscritto di un prigioniero.

Il dialogo serrato e brillante, con un linguaggio derivato dai modi colloquiali toscani, è una satira sottile ma radicale. L'assurdità della condizione di prigioniero dà pretesto al B. per demolire, con brevi e apparentemente paradossali battute, le istituzioni e le convenzioni morali, sociali e politiche più ovvie. La giustizia non si vede neanche in tribunale (Scritti, p. 172); i sessi sono uguali, la donna è libera quanto l'uomo, che crede invece di possederla "come possiede un pappagallo" (ibid., pp. 178-179); "il contratto nuziale stabilito in perpetuo è contro natura... Un contratto infatti che ha per base l'amore vuolsi stipulare per infino che dura l'amore" (ibid., p. 178); necessaria quindi è l'istituzione del divorzio. E per risolvere i problemi che da esso derivano, l'eredità, la prole, il B. mette a fuoco la questione che più gli interessa: togliere "il sistema sociale dai cardini antichi". Il comunismo delle sostanze e dei figli può risolverlo: "San Simone" vi aveva già pensato; "altri... potrà dargli pratica" (ibid., p. 179). Oltre al motivo sociale, su cui insiste, degne di nota, per intendere meglio i suoi rapporti con il movimento mazziniano, sono le affermazioni antisettarie e antiaccademiche: "io sono sempre stato nemico giurato di tutte le accademie letterarie, religiose, politiche", esse non potranno mai operare veramente una rivoluzione: "le fiumane vanno da sé", l'avvicendamento della storia è, in altre parole, un fatto naturale a cui tutto il popolo coopera, e per cui non può essere sufficiente spiegazione "un pugno di lunatici incappati di rosso o di verde" (ibid., pp. 183 s.). Né da Mazzini il B. sembra mutuare una precisa forma istituzionale di governo, più attento al merito dei governanti che non a ciò di cui le loro teste vadano "coperte" (ibid., p. 184).

Il Manoscritto di un prigioniero, pur analizzando argomenti in parte comuni col dialogo Il Forte della Stella, presenta una maggiore complessità di composizione. Non si possono escludere infatti cospicue reminiscenze letterarie (Sterne e il Foscolo didimeo), che non sono però sovrapposte all'intimo sentire del B.; al contrario egli, avvertendo confacente a sé l'autobiografismo, lo psicologismo e il frammentarismo dello stile e del discorso dei due autori, li assume come suoi. Il sentimentalismo di Sterne però diventa spesso nel B. un sentire appassionato e doloroso, sia pure controllato dall'ironia sempre desta. Fra le fonti d'ispirazione non vanno dimenticati F.-X. De Maistre e S. Pellico, il cui diario di prigionia era stato pubblicato proprio nel gennaio di quell'anno. È indicativo del resto che anche il Guerrazzi abbia scritto nel medesimo periodo le sue Note autobiografiche, di cui è dedicatario e interlocutore il B. (come le Memorie del '48 saranno dedicate al Mazzini), e che d'altra parte il Manoscritto, pur sempre diario, ma d'altro genere, fosse letto durante la composizione dal Guerrazzi, di cui sono riportate le osservazioni (ibid., p. 144). Gli amici si sarebbero accordati per compiere un medesimo tentativo, sortito a effetti diversi per i diversi loro temperamenti. Né il riferimento al Pellico vale più che come a genere letterario; che nello spirito il B. tiene a distaccarsene (ibid., p. 135).

Il Manoscritto è composto di ventidue capitoli e di un epilogo, se così possiamo chiamare le brevi paginette di chiusura, dedicate dal B. a un commosso ritratto della madre. Sono ripensamenti personali sulle considerazioni più filosoficamente dibattute: che cosa sia la verità e come la si raggiunga, la religione naturale e quella rivelata, l'anima e il corpo, l'egoismo, il diritto al suicidio, il tema della noia. Ma tutte queste riflessioni in genere sono collegate allo spunto sociale, che rimane essenziale. Da esso traggono ispirazione gli iniziali e riusciti capitoli sul ricco e il povero in prigione; le considerazioni sulla rivoluzione, come opera di popolo, compiuta dalla classe sociale apparentemente più debole (ibid., p. 73); la constatazione del privilegio morale e politico; e soprattutto le argomentazioni dell'ultimo capitolo, una ventina di pagine in cui il B. compie una disamina attenta e realistica delle condizioni in cui si trova la società e prospetta la possibilità di miglioramento. "La società presente è falsa, ingiusta, putrida in ogni sua fibra... La luce... è penetrata nelle forre più chiuse e ha rivelato le molle più intime di questa macchina... La scienza è lo spirito vivificante delle moderne opinioni e sembra che voglia assidersi regina dell'avvenire" (ibid., p. 160). Ci si attenga dunque con "più saviezza al presente"; conviene stabilire condizioni per cui "le leggi, le opinioni, i costumi suppliscano quello che manca al debole e contengano l'esuberanza del forte quand'ei la volge a detrimento dei suoi simili" (ibid., p. 154). "Nella società di oggi vi è troppo ristagno di potere e di ricchezza"; unica soluzione sarà il combattimento "inevitabile e finale" "dei diseredati contro gli usurpatori" (ibid., p. 161).

Una prospettiva di questo genere lascia facilmente trapelare la conoscenza degli scrittori socialisti, principalmente Saint-Simon, e fra gli illuministi almeno Rousseau, per i continui richiami alla bontà della natura. Appare evidente anche la fiducia nutrita dal B. in un miglioramento che è già possibile constatare, pur attraverso gli "ingombri" che si oppongono: l'uomo sarà vicino ad essere felice quando "giungeremo ad uno stato di tolleranza universale" che sembra essere solo un momento di passaggio, prima di ritrovare nell'anima la "luce" di cui "rivestire" la "natura umana" (ibid., pp. 166-168). Secondo queste convinzioni risultano chiare le scelte politiche del B.: condanna di Luigi Filippo ("né cittadino, né re"), di lord Grey ("le riforme vengono fatte complete o non vengono mai tentate"), del Belgio ("esci dallo stato provvisorio in cui ti van disfacendo"), dei falsi democratici, e ammirazione incondizionata per l'America del Nord ("tu dai un esempio meraviglioso di sapienza e di virtù") (ibid., pp. 137-144).

Il B. e i suoi compagni furono rilasciati dal carcere fra il 15 e il 20 dicembre, dopo ammonizioni. Negli anni seguenti, comunque, il suo nome ricorre spesso nei rapporti di polizia per l'amicizia, talvolta soltanto epistolare, che lo legava a fuorusciti e liberali. Fra i più intimi vanno ricordati P. Berghini, di cui fu ospite a Lucca e ai Bagni di Lucca fra l'11 maggio e il 25 giugno 1840, P. Bastogi, i fratelli Palli (di Angelica cominciò a frequentare la casa nel '38), G. Baldini, E. Mayer, G. Modena. L'amicizia con il Guerrazzi, invece, si era raffreddata già dal '35 o dal '36; e non se ne conoscono con precisione le ragioni. Il Guerrazzi, rimasto isolato a Livorno (La Cecilia, pp. 390 s.; D. Provenzal, Le più belle pagine di C. B., Milano 1931, pp. 286 s.), provò certamente una profonda gelosia per la scelta di altre amicizie e ambienti fatta dal B., di cui egli si sentiva l'educatore (vedi la lettera amarissima alla Palli con cui vuol giustificare la mancata sottoscrizione alla edizione biniana del 1843: P. Micheli, Guerrazzi e C. Bini, in Liburni Civitas, II [1929], pp. 222-24); da parte sua il B., probabilmente, era divenuto intollerante dell'esclusivismo del Guerrazzi (Modena, p. 423) ed è certo che non si rivolse a lui per le numerose sottoscrizioni in favore di compagni di idea perseguitati. Rimangono invece, anche se non vi furono continui rapporti epistolari, molteplici testimonianze della calda stima reciproca tra il B. e il Mazzini, prima fra tutte, il prestito che il B. procurò all'esule nel '38 presso Mayer e Bastogi (Ediz. naz. degli scritti..., di G. Mazzini, Epistol., XXVI, p. 187). Il B. del resto fu ancora il punto di riferimento a Livorno quando si trattò di diffondere l'Apostolato popolare nel 1840 (ibid., XIX, p. 454); e infine calorosa e commossa è la premessa del Mazzini all'edizione postuma delle Opere del B. del '43. In questi anni di generale ripensamento, rimase nel B. la sfiducia nell'azione cospirativa come strumento di rinnovamento politico: soltanto l'Italia delle generazioni future "avrà il diritto di sperare nella sua resurrezione" (A. Mancini, C. B. e P. Berghini, in Bollettino stor. livornese, VI [1942], p. 238). Dal '34 al '42 il B. manifestò ancora una volta le esigenze del proprio animo attraverso le traduzioni, non più soltanto dall'inglese, ma, pur con minore spigliatezza, anche dal tedesco. Una parentesi alla monotonia di questi anni fu la sua passione per Adele Perfetti De Witt, che il B. visse profondamente attraverso continue contraddizioni e gelosie tra il febbraio e il dicembre del '38, e che si concluse con la morte improvvisa di lei.

In questo amore, testimoniato da un epistolario (edizione integrale, a cura di A. Mancini e D. Provenzal: C. B., Lettere all'Adele, Roma 1925), che ricorda assai quello amoroso del Foscolo, il B. manifesta tutto il suo bisogno represso di affetto, attraverso alternanze sentimentali, sempre del resto contenute dall'oggettività dell'analisi che gli è propria. Anzi, alle lettere si accompagna il frammento di un racconto che, in chiave satirica, narra di due amanti le cui vicende sono in tutto simili a quelle del B. e di Adele, oggettivazione di una passione che pure tanto lo aveva preso.

Dopo la morte di Adele il fisico e il morale del B. andarono maggiormente decadendo, e sempre più nelle sue lettere si fa presente il pensiero della morte. Gravissimo di presagi e di tristezza è il sonetto L'Immortalità (1842). Ma quasi a compensare le proprie disillusioni, e per un vero e proprio "bisogno di fare", egli si dedicò, e con un certo successo, al commercio, in cui ottenne una più ampia libertà dal padre dopo il '36, compiendo frequenti viaggi a Carrara, in Lunigiana, a Lucca e anche a Roma. Durante uno di questi viaggi, intrapreso con la consapevolezza delle proprie precarie condizioni di salute (lettera ad A. Palli, del 12 ott. '42, in Scritti, p. 395), morì a Carrara il 12 nov. 1842.