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Letterato (Livorno 1806 - Carrara 1842), fu tra i fondatori
dell'Indicatore livornese; amico fraterno del Mazzini, che
dettò una commossa prefazione ai suoi scritti (pubbl. post.,
1843), fu un temperamento inquieto, sempre desideroso di liberarsi
dagli impegni della vita di commerciante alla quale il padre lo
aveva avviato. Il Manoscritto di un prigioniero, opera paradossale,
ricca di digressioni filosofiche (fu scritta a Portoferraio dove il
B. fu carcerato politico nel 1833), chiarisce la fisionomia del
romanticismo del Bini, oscillante fra ironia e sentimentalismo; le
Lettere all'Adele rispecchiano, in una vivace prosa, il tumultuoso
mondo interiore che egli non riuscì mai a fermare in una
pacata purezza di linee. Tradusse dal Byron e dallo Sterne: degli
influssi della prosa di quest'ultimo risente largamente il
Manoscritto di un prigioniero.
Nato a Livorno il 1º dic. 1806 da Giulio,
commerciante di grasce originario di Fivizzano, e da Violante
Milanesi, frequentò il collegio di S. Sebastiano, tenuto dai
barnabiti, dove fra il 1819 e il '22 figura fra gli studenti
premiati.
Nel collegio strinse amicizie che dovevano durare tutta la vita,
prima fra tutte quella con F. D. Guerrazzi. Il loro incontro sembra
avvenisse però fuori delle mura scolastiche, quasi un
"incontro d'anime" di due giovanetti di tredici e quindici anni
(Memorie di F. D. Guerrazzi, scritte da lui medesimo, Livorno 1848,
p. 33), uniti da una forte curiosità per le letture classiche
e moderne e dal medesimo spirito insieme ribelle e scettico. Scolari
dei barnabiti furono pure in quegli anni P. Bastogi, E. Mayer, A.
Biscardi, che sarà specie negli ultimi anni l'amico
più intimo, e P. Tausch, figlio del console austriaco a
Livorno, prima liberale e mazziniano poi nel '33 delatore. Proprio
da uno screzio col Tausch nacque il primo componimento letterario
del B., Il viaggio di don Pietro Tausch, un poemetto eroicomico in
sestine di endecasillabi, parzialmente presentato da L. Mannucci (C.
B. poeta, in C. B. nel centenario della morte..., pp. 78-83).
Terminato il corso di retorica e desiderando continuare gli studi,
consapevole delle difficoltà economiche familiari, il B.
partecipò con successo a un concorso per un posto di studio
presso l'Accademia di Pisa. Incontrò però
l'opposizione irremovibile del padre, il cui commercio, ampliatosi
nel frattempo, aveva bisogno di aiuto (L. Pescetti, C. B. uomo
d'affari, in Boll. stor. livornese, VI [1942], p. 247); la rinuncia
pesò assai al B., che ancora molti anni dopo, in una famosa
lettera (Camaiore, 28 luglio 1836), ricorda al padre "il sacrificio
doloroso" (Scritti, p. 367). Iniziò così una sorta di
doppia vita, di uomo di banco e di letterato al medesimo tempo.
Continuò a frequentare i primi amici, e altri ancora ne
conobbe, fra cui Giovanni e Michele Palli, di origine greca,
fratelli della poetessa A. Palli nella cui casa "giungevano dalla
Grecia continue notizie tali da destare a un tempo ammirazione e
terrore" (A. Linaker, La vita e i tempi di E. Mayer, I, Firenze 1898,
p. 16). Per gli incontri e gli scambi di idee certamente fu
importante la frequenza del B. al gabinetto Doveri (G. La
Cecilia, Memorie storico-politiche dal 1820 al 1876, I, Roma 1876, p.
44) e alla libreria Masi; il B. non abbandonò però le
consuetudini popolari, cui era portato, oltre che dalla propria
origine, anche dalla profonda simpatia per "i più sventurati
delle classi lavoratrici" (ibid.). Proprio tornando da una serata in
osteria, il 2 dic. 1827, ricevette in una rissa, cui sembra fosse
estraneo, ferite tanto gravi da determinare per lui una progressiva
decadenza fisica e poi la morte precoce.
Nel '28, già in rapporto con la tipografia Vignozzi come
correttore di bozze, il B. prese a tradurre - fermandosi alla
metà circa del terzo volume - la Vie politique et militaire
de Napoléon di H. Jomini, uscita l'anno dopo a Livorno. Una
partecipazione più fattiva alla vita culturale fu
rappresentata dalla collaborazione allo Indicatore livornese del
Guerrazzi, alla cui fondazione, negli ultimi mesi del '28, anche il
B., insieme con R. e S. Uzielli, F. Pachò, G. Ott, E. Mayer,
e poi G. Doveri, G. Gordini, e soprattutto E. Basevi, aveva
contribuito (L. Cambini, Le origini dell'Indicatore livornese, in A
Vittorio Cian i suoi scolari dell'Università di Pisa.
1900-1908, Pisa 1909, pp. 231 s.).
La collaborazione del B. non fu assidua, ché non era nella
sua indole, ma importante, e rivolta a tutti e due gli aspetti del
giornale: quello "morale e letterario" e quello
economico-commerciale. Per quest'ultimo, insieme col Guerrazzi,
scrisse caldeggiando l'introduzione dell'allevamento del merino
(Ovis hispanica) in Toscana (n. 5). Si inseriva invece nelle
discussioni condotte soprattutto dai collaboratori genovesi
(Mazzini, E. Benza, F. Bettini) con l'articolo sull'Educazione (n.
4), con quello dal titolo Cenno sulla letteratura (n. 30), con le
traduzioni dello Sterne (nn. 12 e 13) e del Byron (n. 44), ambedue
precedute da considerazioni sugli autori, e per ultimo con le
Osservazioni sopra uno scritto di Melchior Missirini (n. 41), che
per la loro arditezza e irriverenza verso le istituzioni della
cultura cittadina furono la causa più immediata della
soppressione del giornale (R. Guastalla, La vita e le opere di F. D.
Guerrazzi, I, Rocca San Casciano 1901, pp. 177 ss.).
Il tema dell'educazione è dominante nell'Indicatore
livornese, ed è affrontato dal punto di vista pratico
(Mayer), storico (Missirini), teorico (Bettini). Per il B., compito
dell'educazione è volgere al bene le passioni, vera forza
dell'animo; "primo bisogno dell'Italia nostra" è
l'educazione: se la "pianta non germoglia e non cresce felice" la
colpa è solo degli educatori che si sono allontanati dalla
strada indicata dalla storia; bando a quelle discipline come la
retorica, la grammatica, la mitologia, che soffocano l'"intimo senso
della natura", "affaticano senza frutto la mente", seminano
incertezza: la storia insegna che il progresso si raggiunge
"studiando i bisogni e l'indole del proprio secolo e conformando ad
esso le istituzioni del paese (Scritti, pp. 1-11).
Nel Cenno sulla letteratura, ai ricorrenti temi romantici
sull'unità del bello e dell'utile, e sulla funzione
educatrice della letteratura, si uniscono esigenze di uguaglianza
sociale, ritenuta la "pietra angolare" per "stringere i mortali in
una famiglia di fratelli". Il B. ribadisce la fiducia nella natura
"savia e provvidente" e nelle leggi riformatrici, né si
allontana dalla precettistica romantica l'excursus attraverso la
storia letteraria; conclude infine con una rinnovata polemica
anticlassicista, presente nell'articolo precedente e motivo di
collegamento fra questi saggi, quelli che precedono le traduzioni di
Sterne e Byron, e le Osservazioni, dettate da scopi civili etici e
sociali più che artistici.
Lo Sterne, diffuso in Italia prima attraverso la traduzione del
Viaggio sentimentale fatta dal Foscolo e poi attraverso
l'assimilazione spirituale che questi aveva compiuto nel Didimo,
sembra prestarsi alla vena umoristica e malinconica e alla sottile
capacità di analisi puntualizzatrice del Bini.
Nell'Indicatore egli tradusse tre episodi del Tristan Shandy (Storia
di Yorick, Il naso grosso, Storia di Le Fevre); nella premessa, pur in
mezzo a una presentazione encomiastica dell'autore, individua con
finezza e brevità il senso intimo dell'opera sterniana, "uno
spirito gentile cui toccò in sorte profonda la sensazione
dell'amore, della pietà e del sorriso" (Scritti, p. 166).
Questa presentazione, e quella alla versione del Prigioniero di
Chillon del Byron (n. 44), daranno spunto al B. per interessanti
osservazioni sulla traduzione. Questa, anche nel migliore dei casi,
rimane "una immagine più o meno velata", giacché "i
pensieri di uno scrittore, trapassando nell'anima nostra tengono
assai del moto e dei colori di quella", ma poiché "non si
possono ritrarre se non come si concepiscono", vengono a far parte
in un certo senso della "nostra essenza": gli "scrittori originali"
sarà impossibile quindi tradurli (ibid., pp. 168, 169). Il B.
offre la traduzione del Byron desiderando di far conoscere un poeta
che "sentì e fece sentire le universe passioni, che
nell'umana materia risvegliano un'anima"; rifiuta invece di compiere
un'esame dell'opera "perché l'alta poesia sfugge ad esso" e
per l'opportunità di lasciare a ciascuno indipendenza di
opinione (ibid., pp. 46-47).
Le Osservazioni sopra uno scritto..., firmate dal Guerrazzi che vi
aveva portato poche aggiunte, sono una risposta all'articolo del
Missirini sulle Consorterie (n. 37), improntato ad un facile e
superficiale ottimismo. Ancora una volta è posta in evidenza
l'insofferenza innovatrice dei redattori per il vuoto accademismo,
la loro posizione di agitatori e problematizzatori della vita
cittadina; ma vi si intuisce ormai la crisi del giornale, "un povero
foglio bianco, annerito da pochi giovani qua e là dispersi, i
quali alla meglio si schermiscono e cercano di mantenergli la vita".
L'Indicatore cessava di uscire col n. 48 dell'8 febbraio 1830.
Il B. incontrò per la prima volta, nell'agosto 1830, il
Mazzini, che - da poco carbonaro - si era recato a Livorno per
fondarvi una vendita centrale. Questi trovò nel B., che
già gli aveva procurato l'affiliazione di P. Tausch, F.
Pachò, C. d'Adda Salvaterra e altri, una perfetta consonanza
di sentimenti e ne ottenne facilmente l'adesione al suo progetto;
con il Guerrazzi, invece, che visitò accompagnato dal B. nel
confino di Montepulciano, almeno momentaneamente non fu possibile
l'intesa (Guastalla, p. 213). Il B. fin dal 1828 svolgeva opera di
proselitismo "fra i giovani della plebe" (La Cecilia, p. 55): non
tanto forse con un diretto intento patriottico, che nei suoi scritti
compare assai raramente (non possiamo tener conto delle lettere a
Mazzini prima del '34 andate bruciate: Ediz. naz. degli scritti...
di G. Mazzini, Epistol., XXIII, p. 358), quanto perché in
Toscana prevaleva un indirizzo tendente a dare al popolo
un'educazione civica, iniziandolo "alla coscienza dei suoi interessi
e dei suoi diritti" (Montanelli, Memorie, p. 37). Si tenga del resto
conto della diffusione del sansimonismo, che aveva a Livorno un
importante tramite. In ogni caso, il B., in occasione dei moti del
'31, avrebbe dovuto essere il propagatore della rivolta a Livorno,
dietro segnalazione del Guerrazzi da Firenze. Il progetto
finì però nel nulla; ma l'arresto del Benza, avvenuto
a Genova, nel febbraio del 1831, fece individuare il B. come
affiliato della carboneria.
Quando nell'estate del 1831 Mazzini elaborò il programma
della Giovine Italia, per la diffusione in Toscana pensò al
B., al Mayer e al Guerrazzi, i quali però, pur aderendo
all'iniziativa, "non adoperarono tutta la loro attività nel
primo periodo della Giovine Italia" (I. Grassi, Ilprimo periodo della
"Giovine Italia" nel Granducato di Toscana (1831-1834),in Riv. st.
del Risorg., II [1897], p. 907), preferendo continuare nella loro
opera di proselitismo senza programmi immediati e precisi. Del resto
il B., dopo il fallimento della rivoluzione di Savoia nel '34,
giudicava il Mazzini "un figliolo che scambiava la realtà con
le larve dorate della fantasia" e non gli perdonava "la pretensione
di voler dirigere il movimento stando fuori d'Italia" (Montanelli,
p. 33). Solo nel '33 il nome del B. cominciò a figurare nei
rapporti della polizia; questa, al corrente di riunioni in casa
Guerrazzi alla presenza di ufficiali francesi, si rese tuttavia
conto della scarsa volontà dei sorvegliati (il B., Guerrazzi,
Orsini e Minutelli) di passare all'azione (Grassi, pp. 922 ss.). Lo
stesso Mazzini, nonostante l'appello all'insurrezione inviato da
Ginevra il 16 agosto a J. Coraggi, prevedendo che la congrega
livornese potesse essere dissidente, la sciolse da ogni impegno.
Ciò nonostante, nella notte fra il 2 e il 3 settembre, per
delazione di F. Guerri di Siena, e contemporaneamente con gli
esponenti delle altre congreghe toscane, a Livorno venivano
arrestati il B., il Guerrazzi, il buonarrotiano C. Guitera, i pisani
A. Agostini e A. Angiolini; l'11 successivo venivano trasferiti
dalla Fortezza Vecchia di Livorno al Forte della Stella a
Portoferraio.
Gli addebiti agli arrestati non erano molto consistenti; il B., tra
altre accuse, era imputato di essere uno dei dirigenti della Giovine
Italia a Livorno; i sospetti erano resi più consistenti dal
ritrovamento di una lettera indirizzatagli, da Ajaccio, in cui erano
accenni rivoluzionari. Certo è che la detenzione al Forte
della Stella fu assai benevola, e il processo istituito contro il B.
e compagni, tranne che per il Guitera, fu "economico"; la prigionia
era un'ammonizione che doveva finire quando si fossero dissipati
"certi torbidi che si dice sieno per aria" (Scritti, pp. 347-348).
Pur in mezzo allo scoramento morale e alla malferma salute, in
questi mesi il B. scrisse, oltre alle lettere al padre - che nella
semplicità di stile testimoniano capacità
introspettiva e delicatezza sentimentale -, la scena unica IlForte
della Stella, dialogo fra Carlo e Innocenzo Tienlistretti, e il
Manoscritto di un prigioniero.
Il dialogo serrato e brillante, con un linguaggio derivato dai modi
colloquiali toscani, è una satira sottile ma radicale.
L'assurdità della condizione di prigioniero dà
pretesto al B. per demolire, con brevi e apparentemente paradossali
battute, le istituzioni e le convenzioni morali, sociali e politiche
più ovvie. La giustizia non si vede neanche in tribunale
(Scritti, p. 172); i sessi sono uguali, la donna è libera
quanto l'uomo, che crede invece di possederla "come possiede un
pappagallo" (ibid., pp. 178-179); "il contratto nuziale stabilito in
perpetuo è contro natura... Un contratto infatti che ha per
base l'amore vuolsi stipulare per infino che dura l'amore" (ibid.,
p. 178); necessaria quindi è l'istituzione del divorzio. E
per risolvere i problemi che da esso derivano, l'eredità, la
prole, il B. mette a fuoco la questione che più gli
interessa: togliere "il sistema sociale dai cardini antichi". Il
comunismo delle sostanze e dei figli può risolverlo: "San
Simone" vi aveva già pensato; "altri... potrà dargli
pratica" (ibid., p. 179). Oltre al motivo sociale, su cui insiste,
degne di nota, per intendere meglio i suoi rapporti con il movimento
mazziniano, sono le affermazioni antisettarie e antiaccademiche: "io
sono sempre stato nemico giurato di tutte le accademie letterarie,
religiose, politiche", esse non potranno mai operare veramente una
rivoluzione: "le fiumane vanno da sé", l'avvicendamento della
storia è, in altre parole, un fatto naturale a cui tutto il
popolo coopera, e per cui non può essere sufficiente
spiegazione "un pugno di lunatici incappati di rosso o di verde"
(ibid., pp. 183 s.). Né da Mazzini il B. sembra mutuare una
precisa forma istituzionale di governo, più attento al merito
dei governanti che non a ciò di cui le loro teste vadano
"coperte" (ibid., p. 184).
Il Manoscritto di un prigioniero, pur analizzando argomenti in parte
comuni col dialogo Il Forte della Stella, presenta una maggiore
complessità di composizione. Non si possono escludere infatti
cospicue reminiscenze letterarie (Sterne e il Foscolo didimeo), che
non sono però sovrapposte all'intimo sentire del B.; al
contrario egli, avvertendo confacente a sé l'autobiografismo,
lo psicologismo e il frammentarismo dello stile e del discorso dei
due autori, li assume come suoi. Il sentimentalismo di Sterne
però diventa spesso nel B. un sentire appassionato e
doloroso, sia pure controllato dall'ironia sempre desta. Fra le
fonti d'ispirazione non vanno dimenticati F.-X. De Maistre e S.
Pellico, il cui diario di prigionia era stato pubblicato proprio nel
gennaio di quell'anno. È indicativo del resto che anche il
Guerrazzi abbia scritto nel medesimo periodo le sue Note
autobiografiche, di cui è dedicatario e interlocutore il B.
(come le Memorie del '48 saranno dedicate al Mazzini), e che d'altra
parte il Manoscritto, pur sempre diario, ma d'altro genere, fosse
letto durante la composizione dal Guerrazzi, di cui sono riportate
le osservazioni (ibid., p. 144). Gli amici si sarebbero accordati
per compiere un medesimo tentativo, sortito a effetti diversi per i
diversi loro temperamenti. Né il riferimento al Pellico vale
più che come a genere letterario; che nello spirito il B.
tiene a distaccarsene (ibid., p. 135).
Il Manoscritto è composto di ventidue capitoli e di un
epilogo, se così possiamo chiamare le brevi paginette di
chiusura, dedicate dal B. a un commosso ritratto della madre. Sono
ripensamenti personali sulle considerazioni più
filosoficamente dibattute: che cosa sia la verità e come la
si raggiunga, la religione naturale e quella rivelata, l'anima e il
corpo, l'egoismo, il diritto al suicidio, il tema della noia. Ma
tutte queste riflessioni in genere sono collegate allo spunto
sociale, che rimane essenziale. Da esso traggono ispirazione gli
iniziali e riusciti capitoli sul ricco e il povero in prigione; le
considerazioni sulla rivoluzione, come opera di popolo, compiuta
dalla classe sociale apparentemente più debole (ibid., p.
73); la constatazione del privilegio morale e politico; e
soprattutto le argomentazioni dell'ultimo capitolo, una ventina di
pagine in cui il B. compie una disamina attenta e realistica delle
condizioni in cui si trova la società e prospetta la
possibilità di miglioramento. "La società presente
è falsa, ingiusta, putrida in ogni sua fibra... La luce...
è penetrata nelle forre più chiuse e ha rivelato le
molle più intime di questa macchina... La scienza è lo
spirito vivificante delle moderne opinioni e sembra che voglia
assidersi regina dell'avvenire" (ibid., p. 160). Ci si attenga
dunque con "più saviezza al presente"; conviene stabilire
condizioni per cui "le leggi, le opinioni, i costumi suppliscano
quello che manca al debole e contengano l'esuberanza del forte
quand'ei la volge a detrimento dei suoi simili" (ibid., p. 154).
"Nella società di oggi vi è troppo ristagno di potere
e di ricchezza"; unica soluzione sarà il combattimento
"inevitabile e finale" "dei diseredati contro gli usurpatori"
(ibid., p. 161).
Una prospettiva di questo genere lascia facilmente
trapelare la conoscenza degli scrittori socialisti, principalmente
Saint-Simon, e fra gli illuministi almeno Rousseau, per i continui
richiami alla bontà della natura. Appare evidente anche la
fiducia nutrita dal B. in un miglioramento che è già
possibile constatare, pur attraverso gli "ingombri" che si
oppongono: l'uomo sarà vicino ad essere felice quando
"giungeremo ad uno stato di tolleranza universale" che sembra essere
solo un momento di passaggio, prima di ritrovare nell'anima la
"luce" di cui "rivestire" la "natura umana" (ibid., pp. 166-168).
Secondo queste convinzioni risultano chiare le scelte politiche del
B.: condanna di Luigi Filippo ("né cittadino, né re"),
di lord Grey ("le riforme vengono fatte complete o non vengono mai
tentate"), del Belgio ("esci dallo stato provvisorio in cui ti van
disfacendo"), dei falsi democratici, e ammirazione incondizionata
per l'America del Nord ("tu dai un esempio meraviglioso di sapienza
e di virtù") (ibid., pp. 137-144).
Il B. e i suoi compagni furono rilasciati dal carcere fra il 15 e il
20 dicembre, dopo ammonizioni. Negli anni seguenti, comunque, il suo
nome ricorre spesso nei rapporti di polizia per l'amicizia, talvolta
soltanto epistolare, che lo legava a fuorusciti e liberali. Fra i
più intimi vanno ricordati P. Berghini, di cui fu ospite a
Lucca e ai Bagni di Lucca fra l'11 maggio e il 25 giugno 1840, P.
Bastogi, i fratelli Palli (di Angelica cominciò a frequentare
la casa nel '38), G. Baldini, E. Mayer, G. Modena. L'amicizia con il
Guerrazzi, invece, si era raffreddata già dal '35 o dal '36;
e non se ne conoscono con precisione le ragioni. Il Guerrazzi,
rimasto isolato a Livorno (La Cecilia, pp. 390 s.; D. Provenzal, Le
più belle pagine di C. B., Milano 1931, pp. 286 s.),
provò certamente una profonda gelosia per la scelta di altre
amicizie e ambienti fatta dal B., di cui egli si sentiva l'educatore
(vedi la lettera amarissima alla Palli con cui vuol giustificare la
mancata sottoscrizione alla edizione biniana del 1843: P.
Micheli, Guerrazzi e C. Bini, in Liburni Civitas, II [1929], pp.
222-24); da parte sua il B., probabilmente, era divenuto
intollerante dell'esclusivismo del Guerrazzi (Modena, p. 423) ed
è certo che non si rivolse a lui per le numerose
sottoscrizioni in favore di compagni di idea perseguitati. Rimangono
invece, anche se non vi furono continui rapporti epistolari,
molteplici testimonianze della calda stima reciproca tra il B. e il
Mazzini, prima fra tutte, il prestito che il B. procurò
all'esule nel '38 presso Mayer e Bastogi (Ediz. naz. degli
scritti..., di G. Mazzini, Epistol., XXVI, p. 187). Il B. del resto
fu ancora il punto di riferimento a Livorno quando si trattò
di diffondere l'Apostolato popolare nel 1840 (ibid., XIX, p. 454); e
infine calorosa e commossa è la premessa del Mazzini
all'edizione postuma delle Opere del B. del '43. In questi anni di
generale ripensamento, rimase nel B. la sfiducia nell'azione
cospirativa come strumento di rinnovamento politico: soltanto
l'Italia delle generazioni future "avrà il diritto di sperare
nella sua resurrezione" (A. Mancini, C. B. e P. Berghini, in
Bollettino stor. livornese, VI [1942], p. 238). Dal '34 al '42 il B.
manifestò ancora una volta le esigenze del proprio animo
attraverso le traduzioni, non più soltanto dall'inglese, ma,
pur con minore spigliatezza, anche dal tedesco. Una parentesi alla
monotonia di questi anni fu la sua passione per Adele Perfetti De
Witt, che il B. visse profondamente attraverso continue
contraddizioni e gelosie tra il febbraio e il dicembre del '38, e
che si concluse con la morte improvvisa di lei.
In questo amore, testimoniato da un epistolario (edizione integrale,
a cura di A. Mancini e D. Provenzal: C. B., Lettere all'Adele, Roma
1925), che ricorda assai quello amoroso del Foscolo, il B. manifesta
tutto il suo bisogno represso di affetto, attraverso alternanze
sentimentali, sempre del resto contenute dall'oggettività
dell'analisi che gli è propria. Anzi, alle lettere si
accompagna il frammento di un racconto che, in chiave satirica,
narra di due amanti le cui vicende sono in tutto simili a quelle del
B. e di Adele, oggettivazione di una passione che pure tanto lo
aveva preso.
Dopo la morte di Adele il fisico e il morale del B. andarono
maggiormente decadendo, e sempre più nelle sue lettere si fa
presente il pensiero della morte. Gravissimo di presagi e di
tristezza è il sonetto L'Immortalità (1842). Ma quasi
a compensare le proprie disillusioni, e per un vero e proprio
"bisogno di fare", egli si dedicò, e con un certo successo,
al commercio, in cui ottenne una più ampia libertà dal
padre dopo il '36, compiendo frequenti viaggi a Carrara, in
Lunigiana, a Lucca e anche a Roma. Durante uno di questi viaggi,
intrapreso con la consapevolezza delle proprie precarie condizioni
di salute (lettera ad A. Palli, del 12 ott. '42, in Scritti, p.
395), morì a Carrara il 12 nov. 1842.