Storiografia
§63 Argomenti di cultura. Come studiare la storia? Ho letto l’osservazione dello storico inglese Seeley il quale faceva notare che, a suo tempo, la storia dell’indipendenza americana attirò meno attenzione della battaglia di Trafalgar, degli amori di Nelson, degli episodi della vita di Napoleone, ecc.1 Eppure da quei fatti dovevano uscire conseguenze di grande portata per la storia mondiale: l’esistenza degli Stati Uniti come potenza mondiale non è certo piccola cosa nello svolgersi degli avvenimenti degli ultimi anni.
Come fare dunque nello studiare la storia? Ci si dovrebbe fermare sui fatti che sono fecondi di conseguenze? Ma nel momento in cui tali fatti nascono come si fa a sapere della loro fecondità avvenire? La quistione è realmente irrisolvibile.
Nella affermazione del Seeley si trova implicita la rivendicazione di una storia obbiettiva, in cui l’obbiettività è concepita come nesso di causa ed effetto. Ma quanti fatti non solo sfuggono, ma sono trascurati dagli storici e dall’interesse dei lettori, che obbiettivamente sono importanti?
La lettura dei libri dello Wells sulla storia mondiale richiama a questa trascuratezza e dimenticanza. In realtà ci ha finora interessato la storia europea e abbiamo chiamato «storia mondiale» quella europea con le sue dipendenze non europee. Perché la storia ci interessa per ragioni «politiche» non oggettive sia pure nel senso di scientifiche.
Forse oggi questi interessi diventano più vasti con la filosofia della praxis, in quanto ci convinciamo che solo la conoscenza di tutto un processo storico ci può render conto del presente e dare una certa verosimiglianza che le nostre previsioni politiche siano concrete. Ma non è da illudersi neanche su questo argomento. Se in Russia c’è molto interesse per le quistioni orientali, questo interesse nasce dalla posizione geopolitica della Russia e non da influssi culturali più universali e scientifici.
Devo dire la verità: tanta gente non conosce la storia d’Italia anche in quanto essa spiega il presente, che mi pare necessario far conoscere questa prima di ogni altra. Però un’associazione di politica estera che studiasse a fondo le quistioni anche della Cocincina e dell’Annam non mi dispiacerebbe intellettualmente: ma quanti ci si interesserebbero?
Risorgimento, fine Ottocento
§8 Risorgimento. Nella formazione dello Stato unitario italiano c’è stata «eredità» di tutte le funzioni politico‑culturali svolte dai singoli staterelli precedenti o c’è stata, da questo punto di vista, una perdita secca? Cioè la posizione internazionale che venne ad occupare il nuovo Stato riassumeva le singole posizioni particolari degli Stati regionali precedenti, oppure accanto a ciò che fu guadagnato ci fu anche qualcosa di perduto? E le perdite ebbero una conseguenza negli anni di vita unitaria dal 61 al 1914?
§16 Risorgimento italiano. Una derivazione delle diverse «dottrine» sul Risorgimento italiano è quel certo particolare settarismo che caratterizza la mentalità italiana e che si manifesta in una certa mania di persecuzione, nel credersi sempre malgiudicati e malcontenti, nel credersi le vittime di congiure internazionali, nel credere di avere particolari diritti storici misconosciuti e calpestati, ecc.
Questa mentalità è diffusa sia nelle correnti democratiche di origine mazziniana sia in quelle conservatrici di origine neoguelfa e giobertiana, ed è legata all’idea di una «missione» nazionale, nebulosamente intesa e misticamente intuita; in ogni caso si cristallizza in gallofobia, poiché appare che sia stata la Francia a carpire all’Italia la primogenitura civile dell’eredità di Roma.
Nel periodo del Risorgimento, la lotta contro l’Austria attutì questo sentimento, ma oggi, dopo la scomparsa dell’Impero austriaco, esso ha ripreso e si è ancora acuito per le quistioni balcaniche, che sono viste come un riflesso del malanimo francese.
Machiavelli
§3 Machiavelli. Centro. Uno studio accurato dei partiti di centro in senso largo sarebbe oltremodo educativo. Termine esatto, estensione del termine, cambiamento storico del termine e dell’accezione. Per esempio, i giacobini furono un partito estremo: oggi sono tipicamente di centro; così i cattolici (nella loro massa); così anche i socialisti, ecc. Credo che un’analisi dei partiti di centro e della loro funzione sia parte importante della storia contemporanea.
E non lasciarsi illudere dalle parole o dal passato: è certo per esempio che i «nichilisti» russi sono da considerarsi partito di centro, e così perfino gli «anarchici» moderni. La quistione è se per simbiosi un partito di centro non serva a un partito «storico», esempio il partito hitleriano (di centro) a Hugenberg e Papen (estremisti: estremisti in un certo senso, agrari e in parte industriali, data la storia tedesca particolare). Partiti di centro e partiti «demagogici» ‑demagogici.
§9 Machiavelli. Chi è il legislatore? In uno studio di teoria finanziaria (delle imposte) di Mauro Fasiani (Schemi teorici ed «exponibilia» finanziari, nella Riforma Sociale del settembre‑ottobre 1932) si parla di «volontà supposta di quell’essere un po’ mitico, chiamato legislatore». L’espressione cautelosa ha due significati, cioè si riferisce a due ordini ben distinti di osservazioni critiche.
Da una parte, si riferisce al fatto che le conseguenze di una legge possono essere diverse da quelle «previste» cioè volute coscientemente dal legislatore individuale, per cui «obbiettivamente», alla «voluntas legislatoris», cioè agli effetti previsti dal legislatore individuale, si sostituisce la «voluntas legis», cioè l’insieme di conseguenze effettuali che il legislatore individuale non aveva previsto ma che di fatto conseguono dalla legge data. (Naturalmente sarebbe da vedere se gli effetti che il legislatore individuale prevede a parole sono da lui previsti «bona fide» oppure solo per creare l’ambiente favorevole all’approvazione della legge, se i «fini» che il legislatore individuale pretende di voler conseguire non sono un semplice mezzo di propaganda ideologica o demagogica).
Ma l’espressione cautelosa ha anche un altro significato che precisa il primo e lo definisce: la parola «legislatore» può essere infatti interpretata in senso molto ampio, «fino ad indicare con essa l’insieme di credenze, di sentimenti, di interessi e di ragionamenti diffusi in una collettività in un dato periodo storico».
Ciò in realtà significa:
1) che il legislatore individuale (e legislatore individuale deve intendersi non solo nel caso ristretto dell’attività parlamentare‑statale, ma anche in ogni altra attività «individuale» che cerchi, in sfere più o meno larghe di vita sociale, di modificare la realtà secondo certe linee direttive) non può mai svolgere azioni «arbitrarie», antistoriche, perché il suo atto d’iniziativa, una volta avvenuto, opera come una forza a sé nella cerchia sociale determinata, provocando azioni e reazioni che sono intrinseche a questa cerchia oltre che all’atto in sé;
2) che ogni atto legislativo, o di volontà direttiva e normativa, deve anche e specialmente essere valutato obbiettivamente, per le conseguenze effettuali che potrà avere;
3) che ogni legislatore non può essere che astrattamente e per comodità di linguaggio considerato come individuo, perché in realtà esprime una determinata volontà collettiva disposta a rendere effettuale la sua «volontà», che è volontà solo perché la collettività è disposta a darle effettualità;
4) che pertanto ogni individuo che prescinda da una volontà collettiva e non cerchi di crearla, suscitarla, estenderla, rafforzarla, organizzarla, è semplicemente una mosca cocchiera, un «profeta disarmato», un fuoco fatuo.
§13 Machiavelli. Chi è legislatore? Il concetto di «legislatore» non può non identificarsi col concetto di «politico». Poiché tutti sono «uomini politici» tutti sono anche «legislatori». Ma occorrerà fare delle distinzioni. «Legislatore» ha un preciso significato giuridico‑statale, cioè significa quelle persone che sono abilitate dalle leggi a legiferare. Ma può avere anche altri significati.
Ogni uomo, in quanto è attivo, cioè vivente contribuisce a modificare l’ambiente sociale in cui si sviluppa (a modificarne determinati caratteri o a conservarne altri), cioè tende a stabilire «norme», regole di vita e di condotta. La cerchia di attività sarà maggiore o minore, la consapevolezza della propria azione e dei fini sarà maggiore o minore; inoltre, il potere rappresentativo sarà maggiore o minore, e sarà più o meno attuato dai «rappresentati» nella sua espressione sistematica normativa. Un padre è un legislatore per i figli, ma l’autorità paterna sarà più o meno consapevole e più o meno obbedita e così via.
In generale si può dire che tra la comune degli uomini e altri uomini più specificatamente legislatori la distinzione è data dal fatto che questo secondo gruppo non solo elabora direttive che dovrebbero diventare norma di condotta per gli altri, ma nello stesso tempo elabora gli strumenti attraverso i quali le direttive stesse saranno «imposte» e se ne verificherà l’esecuzione. Di questo secondo gruppo il massimo di potere legislativo è nel personale statale (funzionari elettivi e di carriera) che hanno a loro disposizione le forze coercitive legali dello Stato. Ma non è detto che anche i dirigenti di organismi e organizzazioni «private» non abbiano sanzioni coercitive a loro disposizione, fino anche alla pena di morte.
Il massimo di capacità del legislatore si può desumere dal fatto che alla perfetta elaborazione delle direttive corrisponde una perfetta predisposizione degli organismi di esecuzione e di verifica e una perfetta preparazione del consenso «spontaneo» delle masse che devono «vivere» quelle direttive, modificando le proprie abitudini, la propria volontà, le proprie convinzioni conformemente a queste direttive e ai fini che esse si propongono di raggiungere.
Se ognuno è legislatore nel senso più largo del concetto, ognuno continua ad essere legislatore anche se accetta direttive di altri, ed eseguendole controlla che anche gli altri le eseguano, avendole comprese nel loro spirito, le divulga, quasi facendone dei regolamenti di applicazione particolare a zone di vita ristretta e individuata.
§18 Machiavelli. Volontarismo e garibaldinismo. Occorre distinguere: altro è il volontarismo o garibaldinismo che teorizza se stesso come forma organica di attività storico‑politica e si esalta con frasi che non sono altro che una trasposizione del linguaggio del superuomo individuo a un insieme di «superuomini» (esaltazione delle minoranze attive come tali ecc.), altro è il volontarismo o garibaldinismo concepito come momento iniziale di un periodo organico da preparare e sviluppare, in cui la partecipazione della collettività organica, come blocco sociale, avvenga in modo completo.
Le «avanguardie» senza esercito di rincalzo, gli «arditi» senza fanteria e artiglieria, sono anch’esse trasposizioni del linguaggio dell’eroismo retorico; non così le avanguardie e gli arditi come funzioni specializzate di organismi complessi e regolari.
Così è della concezione delle élites di intellettuali senza massa, ma non degli intellettuali che si sentono legati organicamente a una massa nazionale-popolare. In realtà si lotta contro queste degenerazioni di falsi eroismi e di pseudo‑aristocrazie stimolando la formazione di blocchi sociali omogenei e compatti che esprimono un gruppo di intellettuali, di arditi, un’avanguardia loro propria che reagiscono nel loro blocco per svilupparlo e non solo per perpetuare il loro dominio zingaresco.
La bohème parigina del romanticismo è stata anch’essa alle origini intellettuali di molti modi di pensare odierni che pure pare émiens.
§23 Machiavelli. Cesarismo ed equilibrio «catastrofico» delle forze politico‑sociali. Sarebbe un errore di metodo (un aspetto del meccanicismo sociologico) ritenere che, nei fenomeni di cesarismo, sia progressivo, sia regressivo, sia di carattere intermedio episodico, tutto il nuovo fenomeno storico sia dovuto all’equilibrio delle forze «fondamentali»; occorre anche vedere i rapporti che intercorrono tra i gruppi principali (di vario genere, sociale‑economico e tecnico‑economico) delle classi fondamentali e le forze ausiliarie guidate o sottoposte all’influenza egemonica.
§32 Machiavelli. Teoria e pratica. Riletta la famosa dedica del Bandello a Giovanni delle Bande Nere dove si parla del Machiavelli e dei suoi tentativi inutili per ordinare secondo le sue teorie dell’arte della guerra una moltitudine di soldati in campo, mentre Giovanni delle Bande Nere «in un batter d’occhio con l’aita dei tamburini» ordinò «quella gente in vari modi e forme, con ammirazione grandissima di chi vi si ritrovò». Appare chiaro che né in Bandello e neanche in Giovanni vi fu alcun proposito di «sfottere» il Machiavelli per la sua incapacità, e che lo stesso Machiavelli non se l’ebbe a male. L’impiego di questo aneddoto per trarre conseguenze sull’astrattezza del Machiavelli è un non senso e dimostra che non si capisce la sua portata esatta.
Il Machiavelli non era un militare di professione, ecco tutto; cioè non sapeva il «linguaggio» degli ordini e dei segnali militari (trombe, tamburi ecc.). D’altronde prima che un complesso di soldati, graduati, sottufficiali, ufficiali, abbia preso l’abitudine a evolvere in un certo senso, ci vuole molto tempo. Un ordinamento teorico delle milizie può essere ottimo in tutto, ma per essere applicato deve diventare «regolamento», disposizioni d’esercizio, ecc., «linguaggio» subito capito e quasi automaticamente attuato.
Si sa che molti legislatori di primo ordine non sanno compilare i «regolamenti» burocratici e organizzare gli uffici e selezionare il personale atto ad applicare le leggi, ecc. Si può dire dunque solo questo del Machiavelli, che fu troppo corrivo ad improvvisarsi «tamburino».
§33 Machiavelli. Interpretazione del Principe. Se, come è stato scritto in altre note, l’interpretazione del Principe deve (o può) esser fatta ponendo come centro del libro l’invocazione finale, è da rivedere quanto di «reale» ci sia nella interpretazione così detta «satirica e rivoluzionaria» di esso (come si esprime Enrico Carrara nella nota al passo rispettivo dei Sepolcri nella sua opera scolastica Storia ed esempi della Letteratura Italiana, VII, L’Ottocento, p. 59 (ed. Signorelli, Milano).
Per ciò che riguarda il Foscolo non pare debba parlarsi di una particolare interpretazione del Principe, cioè dell’attribuzione al Machiavelli di intenzioni riposte democratiche e rivoluzionarie; più giusto pare l’accenno del Croce (nel libro sulla Storia del Barocco) che risponde alla lettera dei Sepolcri, e cioè: «Il Machiavelli, per il fatto stesso di “temprare” lo scettro, ecc., di rendere il potere dei principi più coerente e consapevole, ne sfronda gli allori, distrugge i miti, mostra cosa sia realmente questo potere ecc.»; cioè la scienza politica, in quanto scienza, è utile sia ai governanti che ai governati per comprendersi reciprocamente.
Nei Ragguagli del Parnaso del Boccalini la quistione del Principe è invece posta in modo tutto diverso che nei Sepolcri. Ma è da domandare: chi vuole satireggiare il Boccalini? Machiavelli o i suoi avversari?
La quistione è dal Boccalini posta così: «I nemici del Machiavelli reputano il Machiavelli uomo degno di punizione perché ha esposto come i principi governano e così facendo ha istruito il Popolo; ha “messo alle pecore denti di cane”, ha distrutto i miti del potere, il prestigio dell’autorità, ha reso più difficile il governare, poiché i governati ne possono sapere quanto i governanti, le illusioni sono rese impossibili ecc.».
È da vedere tutta l’impostazione politica del Boccalini, che in questo ragguaglio mi pare faccia la satira degli antimachiavellici, i quali non sono tali perché non facciano in realtà ciò che il Machiavelli ha scritto, cioè non sono antimachiavellici perché il Machiavelli abbia avuto torto, ma perché ciò che il Machiavelli scrive «si fa e non si dice», anzi è fattibile appunto perché non è criticamente spiegato e sistemato. Il Machiavelli è odiato perché «ha scoperto gli altarini» dell’arte di governo ecc.
La quistione si pone anche oggi e l’esperienza della vita dei partiti moderni è istruttiva; quante volte si è sentito il rimprovero per aver mostrato criticamente gli errori dei governanti: «mostrando ai governanti gli errori che essi fanno, voi insegnate loro a non fare errori», cioè «fate il loro gioco». Questa concezione è legata alla teoria fanciullesca del «tanto peggio, tanto meglio». La paura di «fare il gioco» degli avversari è delle più comiche ed è legata al concetto balordo di ritenere sempre gli avversari degli stupidi; è anche legata alla non comprensione delle «necessità» storico‑politiche, per cui «certi errori devono essere fatti» e il criticarli èutile per educare la propria parte.
Pare che le intenzioni del Machiavelli nello scrivere il Principe siano state più complesse e anche «più democratiche» di quanto non sarebbero secondo l’interpretazione «democratica». Cioè il Machiavelli ritiene che la necessità dello Stato unitario nazionale è così grande che tutti accetteranno che per raggiungere questo altissimo fine siano impiegati i soli mezzi che sono idonei. Si può quindi dire che il Machiavelli si sia proposto di educare il popolo, ma non nel senso che di solito si dà a questa espressione o almeno gli hanno dato certe correnti democratiche. Per il Machiavelli «educare il popolo» può aver significato solo renderlo convinto e consapevole che può esistere una sola politica, quella realistica, per raggiungere il fine voluto e che pertanto occorre stringersi intorno e obbedire proprio a quel principe che tali metodi impiega per raggiungere il fine, perché solo chi vuole il fine vuole i mezzi idonei a raggiungerlo.
La posizione del Machiavelli, in tal senso, sarebbe da avvicinare a quella dei teorici e dei politici della filosofia della prassi, che anche essi hanno cercato di costruire e diffondere un «realismo» popolare, di massa e hanno dovuto lottare contro una forma di « gesuitismo» adeguato ai tempi diversi.
La «democrazia» del Machiavelli è di un tipo adatto ai tempi suoi, è cioè il consenso attivo delle masse popolari per la monarchia assoluta, in quanto limitatrice e distruttrice dell’anarchia feudale e signorile e del potere dei preti, in quanto fondatrice di grandi Stati territoriali nazionali, funzione che la monarchia assoluta non poteva adempiere senza l’appoggio della borghesia e di un esercito stanziale, nazionale, centralizzato, ecc.
§34 Machiavelli. Partiti politici e funzioni di polizia. È difficile escludere che qualsiasi partito politico (dei gruppi dominanti, ma anche di gruppi subalterni) non adempia anche una funzione di polizia, cioè di tutela di un certo ordine politico e legale. Se questo fosse dimostrato tassativamente, la quistione dovrebbe essere posta in altri termini: e cioè, sui modi e gli indirizzi con cui una tale funzione viene esercitata. Il senso è repressivo o diffusivo, cioè è di carattere reazionario o progressivo? Il partito dato esercita la sua funzione di polizia per conservare un ordine esteriore, estrinseco, pastoia delle forze vive della storia, o la esercita nel senso che tende a portare il popolo a un nuovo livello di civiltà di cui l’ordine politico e legale è un’espressione programmatica?
Infatti, una legge trova chi la infrange: 1) tra gli elementi sociali reazionari che la legge ha spodestato; 2) tra gli elementi progressivi che la legge comprime; 3) tra gli elementi che non hanno raggiunto il livello di civiltà che la legge può rappresentare.
La funzione di polizia di un partito può dunque essere progressiva e regressiva: è progressiva quando essa tende a tenere nell’orbita della legalità le forze reazionarie spodestate e a sollevare al livello della nuova legalità le masse arretrate. È regressiva quando tende a comprimere le forze vive della storia e a mantenere una legalità sorpassata, antistorica, divenuta estrinseca.
Del resto il funzionamento del Partito dato fornisce criteri discriminanti: quando il partito è progressivo esso funziona «democraticamente» (nel senso di un centralismo democratico), quando il partito è regressivo esso funziona «burocraticamente» (nel senso di un centralismo burocratico). Il Partito in questo secondo caso è puro esecutore, non deliberante: esso allora è tecnicamente un organo di polizia e il suo nome di Partito politico è una pura metafora di carattere mitologico.
§51 Machiavelli. Morale e politica. Si verifica una lotta. Si giudica della «equità» e della «giustizia» delle pretese delle parti in conflitto. Si giunge alla conclusione che una delle parti non ha ragione, che le sue pretese non sono eque, o addirittura che esse mancano di senso comune. Queste conclusioni sono il risultato di modi di pensare diffusi, popolari, condivisi dalla stessa parte che in tal modo viene colpita da biasimo. Eppure questa parte continua a sostenere di «aver ragione», di essere nell’«equo» e ciò che più conta, continua a lottare, facendo dei sacrifici, ciò che significa che le sue convinzioni non sono superficiali e a fior di labbra, non sono ragioni polemiche, per salvar la faccia, ma realmente profonde e operose nelle coscienze. Significherà che la quistione è mal posta e mal risolta. Che i concetti di equità e di giustizia sono puramente formali.
Infatti può avvenire che di due parti in conflitto, ambedue abbiano ragione, «così stando le cose», e una appaia aver più ragione dell’altra «così stando le cose», ma non abbia ragione «se le cose dovessero mutare».
Ora appunto in un conflitto ciò che occorre valutare non sono le cose così come stanno, ma il fine che le parti in conflitto si propongono col conflitto stesso; e come questo fine, che non esiste ancora come realtà effettuale e giudicabile, potrà essere giudicato? E da chi potrà essere giudicato? Il giudizio stesso non diventerà un elemento del conflitto, cioè non sarà niente altro che una forza del giuoco a favore o a danno di una o dell’altra parte?
In ogni caso si può dire: 1) che in un conflitto ogni giudizio di moralità è assurdo perché esso può essere fatto sui dati di fatto esistenti che appunto il conflitto tende a modificare; 2) che l’unico giudizio possibile è quello «politico» cioè di conformità del mezzo al fine (quindi implica una identificazione del fine o dei fini graduati in una scala successiva di approssimazione). Un conflitto è «immorale» in quanto allontana dal fine o non crea condizioni che approssimano al fine (cioè non crea mezzi più conformi al raggiungimento del fine) ma non è «immorale» da altri punti di vista «moralistici».
Così non si può giudicare l’uomo politico dal fatto che esso è o meno onesto, ma dal fatto che mantiene o no i suoi impegni (e in questo mantenimento può essere compreso l’«essere onesto», cioè l’essere onesto può essere un fattore politico necessario, e in generale lo è, ma il giudizio è politico e non morale), viene giudicato non dal fatto che opera equamente, ma dal fatto che ottiene o no dei risultati positivi o evita un male e in questo può essere necessario l’«operare equamente», ma come mezzo politico e non
§49 Machiavelli. Lo Stato. Il prof. Giulio Miskolczy, direttore dell’Accademia ungherese di Roma, nella «Magyar Szemle» (articolo riportato nella «Rassegna della Stampa Estera» del 3‑10 gennaio 1933) scrive che in Italia il «Parlamento, che prima era, per così dire, fuori dello Stato, è rimasto un collaboratore prezioso, ma è stato inserito nello Stato ed ha subito un cambiamento essenziale nella sua composizione ecc.» Che il Parlamento possa essere «inserito» nello Stato è una scoperta di scienza e di tecnica politica degna dei Cristoforo Colombo del forcaiolismo moderno. Tuttavia l’affermazione è interessante, per vedere come concepiscono lo Stato praticamente molti uomini politici.
Che il regime rappresentativo possa politicamente «dar noia» alla burocrazia di carriera s’intende; ma non è questo il punto. Il punto è se il regime rappresentativo e dei partiti invece di essere un meccanismo idoneo a scegliere funzionari eletti che integrino ed equilibrino i burocratici nominati, per impedire ad essi di pietrificarsi, sia divenuto un inciampo e un meccanismo a rovescio e per quali ragioni.
Del resto, anche una risposta affermativa a queste domande non esaurisce la quistione: perché anche ammesso (ciò che è da ammettere) che il parlamentarismo è divenuto inefficiente e anzi dannoso, non è da concludere che il regime burocratico sia riabilitato ed esaltato. È da vedere se parlamentarismo e regime rappresentativo si identificano e se non sia possibile una diversa soluzione sia del parlamentarismo che del regime burocratico, con
§53 Machiavelli. La forza dei partiti agrari. Uno dei fenomeni caratteristici dell’epoca moderna è questo: che nei parlamenti, o almeno in una serie di essi, i partiti agrari hanno una forza relativa che non corrisponde alla loro funzione storica, sociale, economica.
§68 Machiavelli. Scritto (a domande e risposte) di Giuseppe Bessarione [Stalin ndc] del settembre 1927 su alcuni punti essenziali di scienza e di arte politica.1 Il punto che mi pare sia da svolgere è questo: come secondo la filosofia della prassi (nella sua manifestazione politica) sia nella formulazione del suo fondatore, ma specialmente nella precisazione del suo più recente grande teorico, la situazione internazionale debba essere considerata nel suo aspetto nazionale. Realmente il rapporto «nazionale» è il risultato di una combinazione «originale» unica (in un certo senso) che in questa originalità e unicità deve essere compresa e concepita se si vuole dominarla e dirigerla. Certo lo sviluppo è verso l’internazionalismo, ma il punto di partenza è «nazionale» ed è da questo punto di partenza che occorre prender le mosse. Ma la prospettiva è internazionale e non può essere che tale.
Occorre pertanto studiare esattamente la combinazione di forze nazionali che la classe internazionale dovrà dirigere e sviluppare secondo la prospettiva e le direttive internazionali. La classe dirigente è tale solo se interpreterà esattamente questa combinazione, di cui essa stessa è componente e in quanto tale appunto può dare al movimento un certo indirizzo in certe prospettive.
Su questo punto mi pare sia il dissidio fondamentale tra Leone Davidovici e Bessarione come interprete del movimento maggioritario. Le accuse di nazionalismo sono inette se si riferiscono al nucleo della quistione. Se si studia lo sforzo dal 1902 al 1917 da parte dei maggioritari si vede che la sua originalità consiste nel depurare l’internazionalismo di ogni elemento vago e puramente ideologico (in senso deteriore) per dargli un contenuto di politica realistica.
Il concetto di egemonia è quello in cui si annodano le esigenze di carattere nazionale e si capisce come certe tendenze di tale concetto non parlino o solo lo sfiorino. Una classe di carattere internazionale in quanto guida strati sociali strettamente nazionali (intellettuali) e anzi spesso meno ancora che nazionali, particolaristi e municipalisti (i contadini), deve «nazionalizzarsi», in un certo senso, e questo senso non è d’altronde molto stretto, perché prima che si formino le condizioni di una economia secondo un piano mondiale, è necessario attraversare fasi molteplici in cui le combinazioni regionali (di gruppi di nazioni) possono essere varie.
D’altronde non bisogna mai dimenticare che lo sviluppo storico segue le leggi della necessità fino a quando l’iniziativa non sia nettamente passata dalla parte delle forze che tendono alla costruzione secondo un piano, di pacifica e solidale divisione del lavoro.
Che i concetti non nazionali (cioè non riferibili a ogni singolo paese) siano sbagliati si vede per assurdo: essi hanno portato alla passività e all’inerzia in due fasi ben distinte: 1) nella prima fase, nessuno credeva di dover incominciare, cioè riteneva che incominciando si sarebbe trovato isolato; nell’attesa che tutti insieme si muovessero, nessuno intanto si muoveva e organizzava il movimento; 2) la seconda fase è forse peggiore, perché si aspetta una forma di «napoleonismo» anacronistico e antinaturale (poiché non tutte le fasi storiche si ripetono nella stessa forma).
Le debolezze teoriche di questa forma moderna del vecchio meccanicismo sono mascherate dalla teoria generale della rivoluzione permanente che non è altro che una previsione generica presentata come dogma e che si distrugge da sé,
§70 Machiavelli. Quando si può dire che un partito sia formato e non possa essere distrutto con mezzi normali. Il punto di sapere quando un partito sia formato, cioè abbia un compito preciso e permanente, dà luogo a molte discussioni e spesso anche luogo, purtroppo, a una forma di boria che non è meno ridicola e pericolosa che la «boria delle nazioni» di cui parla il Vico. È vero che si può dire che un partito non è mai compiuto e formato, nel senso che ogni sviluppo crea nuovi compiti e mansioni e nel senso che per certi partiti è vero il paradosso che essi sono compiuti e formati quando non esistono più, cioè quando la loro esistenza è diventata storicamente inutile. Così, poiché ogni partito non è che una nomenclatura di classe, è evidente che per il partito che si propone di annullare la divisione in classi, la sua perfezione e compiutezza consiste nel non esistere più perché non esistono classi e quindi loro espressioni.
Ma qui si vuole accennare a un particolare momento di questo processo di sviluppo, al momento successivo a quello in cui un fatto può esistere e può non esistere, nel senso che la necessità della sua esistenza non è ancora divenuta «perentoria», ma dipende in «gran parte» dall’esistenza di persone di straordinario potere volitivo e di straordinaria volontà. Quando un partito diventa «necessario» storicamente? Quando le condizioni del suo «trionfo», del suo immancabile diventar Stato sono almeno in via di formazione e lasciano prevedere normalmente i loro ulteriori sviluppi. Ma quando si può dire, in tali condizioni, che un partito non può essere distrutto con mezzi normali?
Per rispondere occorre sviluppare un ragionamento: perché esista un partito è necessario che confluiscano tre elementi fondamentali (cioè tre gruppi di elementi).
1) Un elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui partecipazione è offerta dalla disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito creativo ed altamente organizzativo. Senza di essi il partito non esisterebbe, è vero, ma è anche vero che il partito non esisterebbe neanche «solamente» con essi. Essi sono una forza in quanto c’è chi li centralizza, organizza, disciplina, ma in assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si annullerebbero in un pulviscolo impotente. Non si nega che ognuno di questi elementi possa diventare una delle forze coesive, ma di essi si parla appunto nel momento che non lo sono e non sono in condizioni di esserlo, o se lo sono lo sono solo in una cerchia ristretta, politicamente inefficiente e senza conseguenza.
2) L’elemento coesivo principale, che centralizza nel campo nazionale, che fa diventare efficiente e potente un insieme di forze che lasciate a sé conterebbero zero o poco più; questo elemento è dotato di forza altamente coesiva, centralizzatrice e disciplinatrice e anche (anzi forse per questo, inventiva, se si intende inventiva in una certa direzione, secondo certe linee di forza, certe prospettive, certe premesse anche): è anche vero che da solo questo elemento non formerebbe il partito, tuttavia lo formerebbe più che non il primo elemento considerato. Si parla di capitani senza esercito, ma in realtà è più facile formare un esercito che formare dei capitani. Tanto vero che un esercito già esistente è distrutto se vengono a mancare i capitani, mentre l’esistenza di un gruppo di capitani, affiatati, d’accordo tra loro, con fini comuni non tarda a formare un esercito anche dove non esiste.
3) Un elemento medio, che articoli il primo col terzo elemento, che li metta a contatto, non solo «fisico» ma morale e intellettuale. Nella realtà, per ogni partito esistono delle «proporzioni definite» tra questi tre elementi e si raggiunge il massimo di efficienza quando tali «proporzioni definite» sono realizzate.
Date queste considerazioni, si può dire che un partito non può essere distrutto con mezzi normali, quando, esistendo necessariamente il secondo elemento, la cui nascita è legata all’esistenza delle condizioni materiali oggettive (e se questo secondo elemento non esiste, ogni ragionamento è vacuo) sia pure allo stato disperso e vagante, non possono non formarsi gli altri due, cioè il primo che necessariamente forma il terzo come sua continuazione e mezzo di esprimersi. Occorre che perché ciò avvenga si sia formata la convinzione ferrea che una determinata soluzione dei problemi vitali sia necessaria. Senza questa convinzione non si formerà il secondo elemento, la cui distruzione è la più facile per lo scarso suo numero, ma è necessario che questo secondo elemento, se distrutto, abbia lasciato come eredità un fermento da cui riformarsi. E dove questo fermento sussisterà meglio e potrà meglio formarsi che nel primo e nel terzo elemento, che, evidentemente, sono i più omogenei col secondo?
L’attività del secondo elemento per costituire questo elemento è perciò fondamentale: il criterio di giudizio di questo secondo elemento sarà da cercare: 1) in ciò che realmente fa; 2) in ciò che prepara nell’ipotesi di una sua distruzione. Tra i due fatti è difficile dire quale sia più importante. Poiché nella lotta si deve sempre prevedere la sconfitta, la preparazione dei propri successori è un elemento altrettanto importante di ciò che si fa per vincere.
A proposito della «boria» del partito, si può dire che essa è peggiore della boria delle nazioni di cui parla Vico. Perché? Perché una nazione non può non esistere e nel fatto che esiste è sempre possibile, sia pure con la buona volontà e sollecitando i testi, trovare che l’esistenza è piena di destino e di significato. Invece un partito può non esistere per forza propria. Non occorre mai dimenticare che nella lotta fra le nazioni, ognuna di esse ha interesse che l’altra sia indebolita dalle lotte interne e che i partiti sono appunto gli elementi delle lotte interne. Per i partiti dunque, è sempre possibile la domanda se essi esistano per forza propria, come propria necessità, o esistano invece solo per interesse altrui (e infatti nelle polemiche questo punto non è mai dimenticato, anzi è motivo d’insistenza anche, specialmente quando la risposta non è dubbia, ciò che significa che ha presa e lascia dubbi). Naturalmente, chi si lasciasse dilaniare da questo dubbio, sarebbe uno sciocco. Politicamente la quistione ha una rilevanza solo momentanea.
Mat.Bibliog.: Gramsci, Stalin e Trotzky
§11 Argomenti di coltura. Le grandi potenze mondiali. Una ricostruzione storico‑critica dei regimi politici degli Stati che hanno una funzione decisiva nella vita mondiale. Il punto più interessante pare debba essere questo: come la costituzione scritta si adatti (sia adattata) al variare delle congiunture politiche, specialmente a quelle sfavorevoli alle classi dominanti. È quindi necessaria l’esposizione obbiettiva e analitica della costituzione e di tutte le leggi organiche, ma questa descrizione deve essere fatta sul modello di quella che si ha della costituzione spagnola del 1812 nel volume sulla Quistione d’Oriente (ediz. italiana; nell’ed. francese, nell’VIII volume degli Scritti politici), ma è specialmente necessaria una analisi critica delle forze costitutive politiche dei diversi Stati, forze che devono essere viste in una sufficiente prospettiva storica.
Così lo studio del regime presidenziale americano (Stati Uniti d’America), con la sua unità tra capo del governo e capo dello Stato è difficile da comprendere per un medio europeo moderno: eppure esso è simile al regime delle repubbliche comunali medioevali italiane (fase economico‑corporativa dello Stato).
In ogni costituzione sono da vedere i punti che permettono il passaggio legale dal regime costituzionale‑parlamentare a quello dittatoriale: esempio l’art. 48 della costituzione di Weimar, che tanta importanza ha avuto nella recente storia tedesca.
Si può dire in generale che le costituzioni sono più che altro «testi educativi» ideologici, e che la «reale» costituzione è in altri documenti legislativi (ma specialmente nel rapporto effettivo delle forze sociali nel momento politico‑militare).
Uno studio serio di questi argomenti, fatto con prospettiva storica e con metodi critici, può essere uno dei mezzi più efficaci per combattere l’astrattismo meccanicistico e il fatalismo deterministico.
La storia dei partiti e delle correnti politiche non può andar disgiunta dalla storia dei gruppi e delle tendenze religiose. Proprio gli Stati Uniti d’America e il Giappone offrono un terreno d’esame eccezionale per comprendere l’interdipendenza tra i gruppi religiosi e quelli politici, cioè per comprendere come ogni ostacolo legale o di violenza privata allo sviluppo spontaneo delle tendenze politiche e al loro organizzarsi in partito determina un moltiplicarsi di sette religiose. Da questo punto di vista la storia politico‑religiosa degli Stati Uniti d’America può essere paragonata a quella della Russia zarista (con la differenza, importante, che nella Russia zarista se mancava la libertà politica legale, mancava anche la libertà religiosa e quindi il settarismo religioso assumeva forme morbose ed eccezionali).
Negli Stati Uniti d’America legalmente e di fatto non manca la libertà religiosa (entro certi limiti, come ricorda il processo contro il darwinismo), e se legalmente (entro certi limiti) non manca la libertà politica, essa manca di fatto per la pressione economica e anche per l’aperta violenza privata. Da questo punto di vista assume importanza l’esame critico dell’organizzazione giudiziaria e di polizia, che lasciano impunite e spalleggiano le violenze private rivolte a impedire la formazione di altri partiti oltre quello repubblicano e democratico. Anche il nascere di nuove sette religiose è quasi sempre sollecitato e finanziato dai gruppi economici, per canalizzare gli effetti della compressione culturale‑politica. Le enormi somme destinate in America alla attività religiosa hanno un fine ben preciso politico‑culturale.
Nei paesi cattolici, dato il centralismo gerarchico vaticanesco, la creazione di nuovi ordini religiosi (che sostituisce la creazione settaria dei paesi protestanti) non è più sufficiente allo scopo (lo fu prima della Riforma), e si ricorre a soluzioni di carattere locale: nuovi santi, nuovi miracoli, campagne missionarie, ecc.
§67 Argomenti di cultura. «Razionalismo». Concetto romantico dell’innovatore. Secondo questo concetto è innovatore chi vuol distruggere tutto l’esistente, senza curarsi di ciò che avverrà poi, poiché, già si sa, metafisicamente ogni distruzione è creazione, anzi non si distrugge che ciò che si sostituisce ricreando. A questo concetto romantico si accompagna un concetto «razionale» o «illuministico». Si pensa che tutto ciò che esiste è una «trappola» dei forti contro i deboli, dei furbi contro i poveri di spirito. Il pericolo viene dal fatto che «illuministicamente» le parole sono prese alla lettera, materialmente. La filosofia della prassi contro questo modo di concepire.
La verità è questa, invece: che ogni cosa che esiste è «razionale», cioè ha avuto o ha una funzione utile. Che ciò che esiste sia esistito, cioè abbia avuto la sua ragion d’essere in quanto «conforme» al modo di vita, di pensare, di operare, della classe dirigente, non significa che sia divenuto «irrazionale» perché la classe dominante è stata privata del potere e della sua forza di dare impulso a tutta la società. Una verità che si dimentica è questa: ciò che esiste ha avuto la sua ragione d’esistere, è servito, è stato razionale, ha «facilitato» lo sviluppo storico e la vita.
Che a un certo punto ciò non sia avvenuto più, che da modi di progresso, certe forme di vita siano divenute un inciampo e un ostacolo, è vero, ma non è vero «su tutta l’area»: è vero dove è vero, cioè nelle forme più alte di vita, in quelle decisive, in quelle che segnano la punta del progresso ecc. Ma la vita non si sviluppa omogeneamente, si sviluppa invece per avanzate parziali, di punta, si sviluppa per così dire per crescenza «piramidale». Dunque di ogni modo di vita occorre studiare la storia, cioè l’originaria «razionalità» e poi, riconosciuta questa, porsi la domanda, se ogni singolo caso questa razionalità esiste ancora, in quanto esistono ancora le condizioni su cui la razionalità si basava.
Il fatto invece a cui non si bada è questo: che i modi di vita appaiono a chi li vive come assoluti, «come naturali», così come si dice, e che è già una grandissima cosa il mostrarne la «storicità», il dimostrare che essi sono giustificati in quanto esistono certe condizioni, ma mutate queste non sono più giustificati, ma «irrazionali». La discussione pertanto contro certi modi di vita e di operare assume un carattere odioso, persecutorio, diventa un fatto di «intelligenza» o «stupidaggine», ecc. Intellettualismo, illuminismo puro, contro cui occorre combattere incessantemente.
Se ne deduce:
1) che ogni fatto è stato «razionale»;
2) che esso è da combattere in quanto non è più razionale, cioè non più conforme al fine ma si trascina per la vischiosità dell’abitudine;
3) che non bisogna credere che poiché un modo di vivere, di operare o di pensare è diventato «irrazionale» in un ambiente dato, sia diventato irrazionale da per tutto e per tutti e che solo la malvagità o la stupidaggine lo facciano ancora vivere;
4) che però il fatto che un modo di vivere, di pensare, di vivere e di operare, sia diventato irrazionale in qualche posto abbia una grandissima importanza, è vero, ed occorre metterlo in luce in tutti i modi: così si modifica inizialmente il costume, introducendo il modo di pensare storicistico, che faciliterà i mutamenti di fatto appena le condizioni saranno mutate, che cioè renderà meno «vischioso» il costume abitudinario.
Un altro punto da fissare è questo: che un modo di vivere, di operare, di pensare, si sia introdotto in tutta la società perché proprio della classe dirigente, non significa di per sé che sia irrazionale e da rigettare. Se si osserva da vicino si vede: che in ogni fatto esistono due aspetti: uno «razionale», cioè conforme al fine, economico, e uno di «moda», che è un determinato modo di essere del primo aspetto razionale. Portare le scarpe è razionale, ma la determinata foggia di scarpe sarà dovuta alla moda. Portare il colletto è razionale perché permette di cambiare spesso quella parte dell’indumento camicia che più facilmente si sporca, ma la àdalla moda, ecc.
Si vede insomma che la classe dirigente «inventando» una utilità nuova, più economica o più conforme alle condizioni date o al fine dato, ha nello stesso tempo dato una «sua» particolare forma all’invenzione, all’utilità nuova. È modo di pensare da muli bendati confondere l’utilità permanente (in quanto lo è) con la moda. Invece compito del moralista e del creatore di costumi è quello di analizzare i modi di essere e di vivere, e di criticarli, sceverando il permanente, l’utile, il razionale, il conforme al fine (in quanto sussiste il fine), dall’accidentale, dallo snobistico, dallo scimmiesco, ecc. Sulla base del «razionale», può essere utile creare una «moda» originale, cioè una forma nuova che interessi.
Che il modo di pensare notato non sia giusto si vede dal fatto che esso ha dei limiti: per esempio nessuno (almeno che sia matto) predicherà di non insegnare più a leggere e a scrivere, perché il leggere e lo scrivere è certamente stato introdotto dalla classe dirigente, perché la scrittura serve a diffondere certa letteratura o a scrivere le lettere di ricatto o i rapporti delle spie.
Chiesa e Stato
§44 Concordati. Sul concordato del Laterano è da vedere: il libro di Vincenzo Morello Il conflitto dopo la Conciliazione (Bompiani 1931) e la risposta di Egilberto Martire, Ragioni della Conciliazione (Roma, «Rassegna Romana» 1932). Sulla polemica Morello‑Martire è da vedere l’articolo firmato Novus nella «Critica Fascista» del 1° febbraio 1933 (Una polemica sulla conciliazione).
Azione Cattolica
§55 Azione Cattolica. Don Ernesto Vercesi ha iniziato la pubblicazione di un’opera, I papi del secolo XIX di cui è uscito il primo volume su Pio VII (pp. 340, Torino, Società Editrice Internazionale, L. 12).
Per uno studio dell’Azione Cattolica è necessario studiare la storia generale del Papato e della sua influenza nella vita politica e culturale nel secolo XIX (forse addirittura dal tempo delle monarchie illuminate, del giuseppinismo, ecc., che è la «prefazione» alla limitazione della Chiesa nella società civile e politica). Il libro del Vercesi è anche scritto contro il Croce e la sua Storia d’Europa.
Il succo del libro del Vercesi pare sia riassunto in queste parole: «Il secolo XIX attaccò il cristianesimo nei suoi aspetti più diversi, sul terreno politico, religioso, sociale, culturale, storico, filosofico, ecc. Il risultato definitivo fu che al tramonto del secolo XIX il cristianesimo in genere, il cattolicismo romano in ispecie, era più forte, più robusto che all’alba dello stesso secolo. È questo un fatto che non può essere contestato dagli storici imparziali».
Che possa essere «contestato» risulta anche solo da questo fatto: che il cattolicismo è diventato un partito fra gli altri, è passato dal godimento incontestato di certi diritti, alla difesa di essi e alla rivendicazione di essi in quanto perduti. Che sotto certi aspetti la Chiesa abbia rinforzato certe sue organizzazioni è certo incontestabile, che sia più concentrata, che abbia stretto le file, che abbia fissato meglio certi principii e certe direttive, ma questo significa appunto un suo minore influsso nella società e quindi la necessità della lotta e di una più strenua milizia. È anche vero che molti Stati non lottano più con la Chiesa, ma perché vogliono servirsene e vogliono subordinarla ai propri fini.
Si potrebbe fare un elenco di attività specifiche in cui la Chiesa conta molto poco e si è rifugiata in posizioni secondarie; per alcuni aspetti, cioè dal punto di vista della credenza religiosa, è poi vero che il cattolicismo si è ridotto in gran parte a una superstizione di contadini, di ammalati, di vecchi e di donne. Nella filosofia cosa conta oggi la chiesa? In quale Stato il tomismo è filosofia prevalente tra gli intellettuali? E socialmente, dove la chiesa dirige e padroneggia con la sua autorità le attività sociali?
Appunto l’impulso sempre maggiore dato all’Azione Cattolica dimostra che la Chiesa perde terreno, sebbene avvenga che ritirandosi si concentri e opponga maggiore resistenza e «sembri» più forte (relativamente).
Cattolici integralisti, gesuiti e modernisti
§20 Cattolici integrali, gesuiti, modernisti. La prima enciclica papale contro le manifestazioni politiche e filosofiche dell’epoca moderna (liberalismo, ecc.) sarebbe stata del 1832, la Mirari vos di Gregorio XVI; a cui sarebbe seguita l’Enciclica Quanta cura di Pio IX dell’8 settembre 1864, accompagnata dal Sillabo; terza enciclica quella Pascendi di Pio X, contro il modernismo. Queste le tre encicliche «organiche» contro il pensiero moderno ma non mi pare che esse siano i soli documenti del genere.
Non si può accanto a tali encicliche dimenticare le altre «costruttive», tipiche la Rerum Novarum e la Quadragesimo anno che integrano le grandi encicliche teoriche contro il pensiero moderno e cercano risolvere a loro modo alcuni dei problemi ad esso legati e connessi. (Non bisogna dimenticare che alcune ricerche per questa rubrica sono connesse a quelle per la rubrica sulla «Storia dell’Azione Cattolica»; cioè i due studi sono inscindibili in un certo senso e come tali devono essere elaborati).
§52 Cattolici integrali, gesuiti, modernisti. Nella «Cultura» dell’ottobre‑dicembre 1932 (pp. 846 sgg.) Luigi Salvatorelli scrive di Joseph Turmel recensendo questi due libri: 1) Felix Sartiaux, Joseph Turmel, prêtre historien des dogmes, Paris, Rieder, 1931, pp. 295; 2) J. Turmel, Histoire des dogmes, I, Le péché originel. La rédemption, Paris, Rieder, 1931.
Il libro del Sartiaux è indispensabile per la valutazione del caso Turmel.
Per i gesuiti Turmel era ed è un modernista in senso «scientifico» (sebbene il Turmel realmente sia un ateo, cioè completamente fuori dal campo religioso, nella sua coscienza, sebbene continui ad essere «prete» per ragioni subordinate, ciò che pare sia un caso abbastanza comune nel clero come appare dal libro del Sartiaux o dalle Memorie del Loisy).
Ciò che importa qui notare è che sia il modernismo, sia il gesuitismo, sia l’integralismo hanno significati più vasti che non siano quelli strettamente religiosi: sono «partiti» nell’«impero assoluto internazionale» che è la Chiesa Romana ed essi non possono evitare di porre in forma religiosa problemi che spesso sono puramente mondani, di «dominio».
§36 Criteri metodologici. Una manifestazione tipica del dilettantismo intellettuale (e dell’attività intellettuale dei dilettanti) è questa: che nel trattare una quistione si tende ad esporre tutto quello che si sa e non solo ciò che è necessario e importante di un argomento. Si coglie ogni occasione per fare sfoggio dei propri imparaticci, di tutti gli sbrendoli e nastri del proprio bazar; ogni piccolo fatterello è elevato a momento mondiale per poter dare corso alla propria concezione mondiale, ecc. Avviene poi che, siccome si vuol essere originali e non ripetere le cose già dette, ogni altra volta si deve sostenere un gran mutamento nei «fattori» fondamentali del quadro e quindi si cade in stupidaggini d’ogni genere.
Intellettuali italiani
§22 Argomenti di cultura. Personalità del mondo economico nazionale. Sono meno conosciute e apprezzate di quanto talvolta meriterebbero. Una loro classificazione:
1) scienziati, scrittori, giornalisti, la cui attività è prevalentemente teorica: che influiscono nella pratica, ma come «educatori» e teorici;
2) pratici, ma che danno molta attività come «pubblicisti» o «relatori» o «conferenzieri» (es. Alberto Pirelli, Teodoro Mayer, Gino Olivetti);
3) pratici, di valore indiscusso e solido (es. Agnelli, Crespi, Silvestri, ecc.) noti al pubblico;
4) pratici che si tengono nell’ombra, quantunque la loro attività sia molto grande (es. Marsaglia);
5) pratici demi‑monde (un esempio tipico era quel ragioniere Panzarasa della società a catena Italgas);
6) esperti statali, specialisti della burocrazia statale per le dogane, le aziende autonome, il commercio internazionale, ecc.;
7) banchieri e speculatori ecc.
Si dovrebbero esaminare queste personalità «pratiche» per ogni attività industriale, tecnica, finanziaria, ecc. E anche «politico‑parlamentare» (compilatori e relatori per i bilanci e per le leggi economiche finanziarie al Senato e alla Camera) e «tecnici» (tipo ing. Omodeo).
§26 Note di cultura italiana. A proposito del protestantesimo in Italia, ecc. Riferimento a quella corrente intellettuale contemporanea che sostenne il principio che le debolezze della nazione e dello Stato italiano erano dovute alla mancanza di una riforma protestante, corrente rappresentata specialmente dal Missiroli. Il Missiroli, come appare, prese questa sua tesi di peso dal Sorel, che l’aveva presa dal Renan (poiché Renan una tesi simile, adattata alla Francia e più complessa aveva sostenuto nel libro La riforma intellettuale e morale).
Il libro del Sartiaux è indispensabile per la valutazione del caso Turmel.
Non è però escluso che il Missiroli conoscesse anche le idee del Masaryk sulla cultura russa (egli per lo meno conosceva il saggio sul Masaryk di Antonio Labriola: ma il Labriola accenna a questa tesi «religiosa»? non mi pare) e nel 1918 conobbe dal «Grido del Popolo» il saggio sul Masaryk, con l’accenno alla tesi religiosa, pubblicato dal «Kampf» di Vienna nel 1914 e da me tradotto appunto nel «Grido» (questo saggio era anche conosciuto dal Gobetti).
Le critiche fatte al Masaryk in questo saggio, metodologicamente, si avvicinano a quelle fatte dal Croce ai sostenitori di «riforme protestanti» ed è strano che ciò non sia stato visto dal Gobetti (per il quale, del resto, non si può dire che non comprendesse questo problema in modo concreto, a differenza del Missiroli, come dimostravano le sue simpatie politico‑pratiche). Occorrerebbe stroncare invece il Missiroli che è una carta asciugante di alcuni elementi culturali francesi.
Questo problema del protestantesimo non deve essere confuso con quello «politico» presentatosi nel periodo del Risorgimento, quando molti liberali, per esempio quelli della «Perseveranza», si servirono dello spauracchio protestante per far pressione sul papa a proposito del potere temporale e di Roma.
Sicché in una trattazione del problema religioso in Italia occorre distinguere in primo luogo tra due ordini fondamentali di fatti: 1) quello reale, effettuale, per cui si verificano nella massa popolare dei movimenti di riforma intellettuale e morale, sia come passaggio dal cattolicismo ortodosso e gesuitico a forme religiose più liberali, sia come evasione dal campo confessionale per una moderna concezione del mondo; 2) i diversi atteggiamenti dei gruppi intellettuali verso una necessaria riforma intellettuale e morale.
La corrente Missiroli è la meno seria di queste, la più opportunistica, la più dilettantesca e spregevole per la persona del suo corifeo.
Così occorre per ognuno di questi ordini di fatti distinguere cronologicamente tra varie epoche: quella del Risorgimento (col liberalismo laico da una parte, e il cattolicismo liberale dall’altra), quella dal 70 al 900 col positivismo e anticlericalismo massonico e democratico; quella dal 900 fino alla guerra, col modernismo e il filosofismo idealistico; quella fino al concordato, con l’organizzazione politica dei cattolici italiani; e quella post‑concordataria, con una nuova posizione del problema, sia per gli intellettuali che per il popolo.
È innegabile, nonostante la più potente organizzazione cattolica e il risveglio di religiosità in questa ultima fase, che molte cose stanno mutando nel cattolicesimo, e che la gerarchia ecclesiastica ne è allarmata, perché non riesce a controllare queste trasformazioni molecolari; accanto a una nuova forma di anticlericalismo, più raffinata e profonda di quella ottocentesca, c’è un maggiore interesse per le cose religiose da parte dei laici, che portano nella trattazione uno spirito non educato al rigore ermeneutico dei gesuiti e quindi sconfinante spesso nell’eresia, nel modernismo, nello scetticismo elegante. «Troppa grazia!» per i gesuiti, che vorrebbero invece che i laici non s’interessassero di religione altro che per seguire il culto.
Critica letteraria
§5 Criteri metodologici. Nell’esaminare criticamente una «dissertazione» può essere quistione:
1) di valutare se l’autore dato ha saputo con rigore e coerenza dedurre tutte le conseguenze dalle premesse che ha assunto come punto di partenza (o di vista): può darsi che manchi il rigore, che manchi la coerenza, che ci siano omissioni tendenziose, che manchi la «fantasia» scientifica (che cioè non si sappia vedere tutta la fecondità del principio assunto ecc.);
2) di valutare i punti di partenza (o di vista), le premesse, che possono essere negate in tronco, o limitate, o dimostrate non più valide storicamente;
3) di ricercare se le premesse sono omogenee tra loro, o se, per incapacità o insufficienza dell’autore (o ignoranza dello stato storico della quistione) è avvenuta contaminazione tra premesse o principii contradditori o eterogenei o storicamente non avvicinabili.
Così la valutazione critica può avere diversi fini culturali (o anche polemico‑politici): può tendere a dimostrare che Tizio individualmente è incapace e nullo; che il gruppo culturale a cui Tizio appartiene è scientificamente irrilevante; che Tizio il quale «crede» o pretende di appartenere a un gruppo culturale, si inganna o vuole ingannare, che Tizio si serve delle premesse teoriche di un gruppo rispettabile per trarre deduzioni tendenziose e particolaristiche ecc.
§24 Elementi di cultura italiana.
§41 Balzac. (Cfr qualche altra nota: accenni all’ammirazione per Balzac dei fondatori della filosofia della prassi; lettera inedita di Engels in cui questa ammirazione è giustificata criticamente). Confrontare l’articolo di Paolo Bourget, Les idées politiques et sociales de Balzac nelle «Nouvelles Littéraires» dell’8 agosto 1931.
Il Bourget comincia col notare come oggi si dà sempre più importanza alle idee di Balzac: «l’école traditionaliste (cioè forcaiola), que nous voyons grandir chaque jour, inscrit son nom à côté de celui de Bonald, de Le Play, de Taine lui même». Invece non era così nel passato. Sainte‑Beuve, nell’articolo dei Lundis consacrati a Balzac dopo la sua morte, non accenna neppure alle sue idee politiche e sociali. Taine, che ammirava lo scrittore di romanzi, gli negò ogni importanza dottrinale. Lo stesso critico cattolico Caro, verso gli inizi del secondo Impero, giudicava futili le idee del Balzac. Flaubert scrive che le idee politiche e sociali di Balzac non valgono la pena di essere discusse: «Il était catholique, légitimiste, propriétaire! – scrive Flaubert – un immense bonhomme, mais de second ordre». Zola scrive: «Rien de plus étrange que ce soutien du pouvoir absolu, dont le talent est essentiellement démocratique et qui a ecrit l’œuvre la plus révolutionnaire». Eccetera.
Si capisce l’articolo del Bourget. Si tratta di trovare in Balzac l’origine del romanzo positivista, ma reazionario, la scienza al servizio della reazione (tipo Maurras), che d’altronde è il destino più esatto del positivismo stabilito dal Comte.
Ma se tutta la costruzione del Balzac è senza importanza come «programma pratico», cioè dal punto di vista da cui l’esamina il Bourget, in essa sono elementi che hanno interesse per ricostruire il mondo poetico del Balzac, la sua concezione del mondo in quanto si è realizzata artisticamente, il suo «realismo» che, pur avendo origini ideologiche reazionarie, di restaurazione, monarchiche, ecc., non perciò è meno realismo in atto.
E si capisce l’ammirazione che per il Balzac nutrirono i fondatori della filosofia della prassi: che l’uomo sia tutto il complesso delle condizioni sociali in cui egli si è sviluppato e vive, che per «mutare» l’uomo occorre mutare questo complesso di condizioni è intuito chiaramente dal Balzac. Che «politicamente e socialmente» egli sia un reazionario, appare solo dalla parte extra‑artistica dei suoi scritti (divagazione, prefazioni, ecc.). Che anche questo «complesso di condizioni» o «ambiente» sia inteso «naturalisticamente» è anche vero; infatti il Balzac precede una determinata corrente letteraria francese, ecc.
§59 Giustificazione delle autobiografie. Una delle giustificazioni può essere questa: aiutare altri a svilupparsi secondo certi modi e verso certi sbocchi. Spesso le autobiografie sono un atto di orgoglio: si crede che la propria vita sia degna di essere narrata perché «originale», diversa dalle altre, perché la propria personalità è originale, diversa dalle altre, ecc. L’autobiografia può essere concepita «politicamente». Si sa che la propria vita è simile a quella di mille altre vite, ma che per un «caso» essa ha avuto uno sbocco che le altre molte non potevano avere e non ebbero di fatto. Raccontando si crea questa possibilità, si suggerisce il processo, si indica lo sbocco. L’autobiografia sostituisce quindi il «saggio politico» o «filosofico»: si descrive in atto ciò che altrimenti si deduce logicamente. È certo che l’autobiografia ha un grande valore storico, in quanto mostra la vita in atto e non solo come dovrebbe essere secondo le leggi scritte o i principii morali dominanti.
§61 Critica letteraria. Sincerità (o spontaneità) e disciplina. La sincerità (o spontaneità) è sempre un pregio e un valore? È un pregio e un valore se disciplinata. Sincerità (e spontaneità) significa massimo di individualismo, ma anche nel senso di idiosincrasia (originalità in questo caso è uguale a idiotismo). L’individuo è originale storicamente quando dà il massimo di risalto e di vita alla «socialità», senza cui egli sarebbe un «idiota» (nel senso etimologico, che però non si allontana dal senso volgare e comune). C’è dell’originalità, della personalità, della sincerità un significato romantico, e questo significato è giustificato storicamente in quanto nacque in opposizione con un certo conformismo essenzialmente «gesuitico»: cioè un conformismo artificioso, fittizio, creato superficialmente per gli interessi un piccolo gruppo o cricca, non di una avanguardia.
C’è conformismo «razionale» cioè rispondente alla necessità, al minimo sforzo per ottenere un risultato utile e la disciplina di tale conformismo è da esaltare e promuovere, è da fare diventare «spontaneità» o «sincerità».
Conformismo significa poi niente altro che «socialità», ma piace impiegare la parola «conformismo» appunto per urtare gli imbecilli. Ciò non toglie la possibilità di formarsi una personalità e di essere originali, ma rende più difficile la cosa.
È troppo facile essere originali facendo il contrario di ciò che fanno tutti; è una cosa meccanica. È troppo facile parlare diversamente dagli altri, essere neolalici, il difficile è distinguersi dagli altri senza perciò fare delle acrobazie. Avviene proprio oggi che si cerca una originalità e personalità a poco prezzo. Le carceri e i manicomi sono pieni di uomini originali e di forte personalità.
Battere l’accento sulla disciplina, sulla socialità, e tuttavia pretendere sincerità, spontaneità, originalità, personalità: ecco ciò che è veramente difficile e arduo.
Né si può dire che il conformismo è troppo facile e riduce il mondo a un convento. Intanto: qual è il «vero conformismo», cioè qual è la condotta «razionale» più utile, più libera in quanto ubbidisce alla «necessità»? Cioè quale è la «necessità»? Ognuno è portato a far di sé l’archetipo della «moda», della «socialità» e a porsi come «esemplare». Pertanto la socialità, il conformismo, è il risultato di una lotta culturale (e non solo culturale), è un dato «oggettivo» o universale, così come non può non essere oggettiva e universale la «necessità» su cui si innalza l’edificio della libertà. Libertà e arbitrio, ecc.
Nella letteratura (arte) contro la sincerità e spontaneità si trova il meccanismo o calcolo, che può essere un falso conformismo, una falsa socialità, cioè l’adagiarsi nelle idee fatte e abitudinarie.
La disciplina è anche uno studio del passato, in quanto il passato è elemento del presente e del futuro, ma non elemento «ozioso», ma necessario, in quanto è linguaggio, cioè elemento di «uniformità» necessaria, non di uniformità «oziosa», impigrita.
Letteratura non nazionale-popolare
§14 Carattere non nazionale‑popolare della letteratura italiana. Che esista una coscienza diffusa di questo carattere della letteratura italiana si può vedere da certe polemiche che periodicamente ritornano ad accendersi fra i gruppi letterari. Nell’«Italia letteraria» polemiche simili avvengono a ripetizione, ma sono sempre superficiali, perché urtano contro il pregiudizio rettorico che la nazione italiana sia sempre esistita, su un certo numero di idoli e di borie nazionali. Altre volte lo stesso problema è mal posto, per l’influsso di concetti estetici d’origine crociana, specialmente concernente il così detto «moralismo» nell’arte, il «contenuto estrinseco» dell’arte ecc.
Non si riesce a capire che l’arte è sempre legata a una determinata cultura o civiltà e che lottando per riformare la cultura, si tende e si giunge a modificare il «contenuto» dell’arte, cioè si lavora a creare una nuova arte non dall’esterno (pretendendo un’arte didascalica, a tesi, moralistica), ma dall’interno, perché si modifica tutto l’uomo, in quanto si modificano i rapporti di cui l’uomo è l’espressione necessaria.
Che sia esistita ed esista la coscienza di questo carattere non nazionale‑popolare, si può vedere dalle polemiche: 1) «Perché la letteratura italiana non è popolare in Italia?» per dirla con la parola del Bonghi; 2) sulla non‑esistenza di un teatro italiano, polemica impostata dal F. Martini; 3) sulla quistione della lingua impostata dal Manzoni; 4) se sia esistito un romanticismo italiano.
Letteratura popolare
§4 Letteratura popolare. Origini popolaresche del «superuomo». Ogni volta che ci si imbatte in qualche ammiratore del Nietzsche, è opportuno ricercare se le sue concezioni «superumane», contro la morale convenzionale ecc. ecc., sono di genuina origine nicciana, sono cioè il prodotto di una elaborazione di pensiero da porsi nella sfera della «alta cultura», oppure hanno origini molto più modeste, per esempio sono connesse alla letteratura d’appendice. (Ma lo stesso Nietzsche non sarà stato per nulla influenzato dai romanzi francesi d’appendice? Occorre ricordare che tale letteratura, oggi degradata alla portineria e al sottoscala, è stata molto diffusa tra gli intellettuali fino al 70 almeno, come oggi il romanzo «giallo»). In ogni modo pare si possa dire che molta sedicente superumanità nicciana ha solo come modello e origine «dottrinale» il… Conte di Montecristo di A. Dumas. In Dumas, per quanto mi consta, il tipo di Montecristo è stato rappresentato più volte: esso è da vedere, per es., nell’Athos dei Tre Moschettieri e in Giuseppe Balsamo, ma forse si potrà trovare anche in altri romanzi.
Il tipo del «superuomo» è Montecristo (liberato di quel particolare alone di «fatalismo» che è proprio del basso romanticismo che è ancora più calcato in Athos e in Giuseppe Balsamo). Montecristo portato nella politica, è certo pittoresco: la lotta contro i «nemici» personali del Montecristo. Si può osservare come certi paesi siano rimasti provinciali e arretrati anche in ciò in confronto di altri; mentre già Sherlock Holmes sembra anacronistico per molta Europa, in certi paesi si è ancora a Montecristo e a Fenimore Cooper (i «selvaggi», «pizzo di ferro» ecc.).
In Montecristo vi sono due capitoli dove esplicitamente si «disserta» del superuomo d’appendice: il capitolo intitolato «Ideologia», quando Montecristo si incontra col procuratore Villefort, e il capitolo che descrive la colazione presso il visconte di Morcerf al primo viaggio di Montecristo a Parigi. Sarà da vedere se in altri romanzi del Dumas esistono spunti «ideologici» del genere: nei Tre Moschettieri la figura di Athos ha più dell’uomo fatale generico del basso romanticismo. Si solleticano gli umori popolareschi individualistici piuttosto con l’attività avventurosa ed extralegale dei «moschettieri» come tali. In Giuseppe Balsamo, la potenza dell’individuo è legata a forze oscure di magia e all’appoggio della massoneria europea, quindi meno suggestivo l’esempio per il lettore popolaresco. Non ricordo altre figure tipiche.
Nel Balzac le figure sono più concretamente artistiche, ma tuttavia rientrano nell’atmosfera del romanticismo. Rastignac e Vautrin non sono da confondere certo con i personaggi dumasiani: ma appunto perciò la loro influenza è più «confessabile» non solo da parte di uomini come Paolo Valera e i suoi collaboratori della «Folla», ma anche da mediocri intellettuali, come V. Morello, che però ritengono (e sono ritenuti da molti) di appartenere all’alta cultura.
§17 Letteratura popolare. Se è vero che la biografia romanzata continua, in un certo senso, il romanzo storico popolare tipo A. Dumas padre, si può dire che da questo punto di vista, in questo particolare settore, in Italia si sta «colmando una lacuna». È da vedere ciò che pubblica la Casa ed. «Corbaccio», e qualche altra, e specialmente i libri di Mazzucchelli. È da notare però che la biografia romanzata, se ha un pubblico popolare, non è popolare in senso completo come il romanzo d’appendice: essa si rivolge a un pubblico che ha o crede avere delle pretese di cultura superiore, alla piccola borghesia rurale e urbana che crede essere diventata «classe dirigente», e arbitra dello Stato. Il tipo moderno del romanzo popolare è quello poliziesco, «giallo», e in questo settore si ha zero. Così si ha zero nel romanzo d’avventure in senso largo, sia del tipo Stevenson, Conrad, London, sia del tipo francese odierno (Mac‑Orlan, Malraux, ecc.).
§19 Letteratura popolare. Il gusto melodrammatico. Come combattere il gusto melodrammatico del popolano italiano quando si avvicina alla letteratura, ma specialmente alla poesia? Egli crede che la poesia sia caratterizzata da certi tratti esteriori, fra cui predomina la rima e il fracasso degli accenti prosodici, ma specialmente dalla solennità gonfia, oratoria, e dal sentimentalismo melodrammatico, cioè dall’espressione teatrale, congiunta a un vocabolario barocco.
Una delle cause di questo gusto è da ricercare nel fatto che esso si è formato non alla lettura e alla meditazione intima e individuale della poesia e dell’arte, ma nelle manifestazioni collettive, oratorie e teatrali.
Si combatte questo gusto in due modi principali: con la critica spietata di esso, e anche diffondendo libri di poesia scritti o tradotti in lingua non «aulica», e dove i sentimenti espressi non siano retorici o melodrammatici.
§27 Letteratura popolare. Origini popolaresche del «superuomo». Da riavvicinare al Balzac per le origini romantiche del «superuomo» è lo Stendhal col Giuliano Sorel del Rosso e Nero e altre figure del suo repertorio romanzesco. Per il «superuomo» nietzschiano, oltre all’influsso romantico dello Stendhal (e in generale del culto di Napoleone I) sono da vedere le tendenze razziste che hanno culminato nel Gobineau e poi nel Chamberlain e nel pangermanismo (Treitschke e le teorie della «potenza» ecc.).
Ma non è questa l’origine di certe forme moderne del superuomo: piuttosto, come ho scritto, Dumas del Montecristo e Balzac di Vautrin. Da vedere anche Dostojevsckij, come reazione panslavista ‑cristiana a queste dottrine della forza e del superuomo, ed è da notare che nel Dostojevsckij è stato grande l’influsso del romanzo francese d’appendice (cfr nel numero della «Cultura» dedicato a Dostojevsckij).
Nel carattere popolaresco del «superuomo» molti elementi teatrali, esteriori, da «prima donna» più che da «superuomo»: molto formalismo «soggettivo e oggettivo», ambizioni fanciullesche di essere il «primo della classe», ma specialmente di essere ritenuto e proclamato tale.
§28 Letteratura popolare. Luigi Volpicelli, nella «Italia Letteraria» del 1° gennaio 1933 (articolo Arte e religione) nota: «Il quale (il popolo) si potrebbe osservare tra parentesi, ha amato sempre l’arte più per quello che non è arte che per ciò che è essenziale all’arte; e forse proprio per questo è così diffidente verso gli artisti di oggi, i quali, volendo nell’arte la pura e sola arte, finiscono col diventare enigmatici, inintelligibili, profeti di pochi iniziati».
Osservazione senza costrutto né base: è certo che il popolo vuole un’arte «storica» (se non si vuole impiegare la parola «sociale»), cioè vuol un’arte espressa in termini di cultura «comprensibili», cioè universali, o «obbiettivi», o «storici» o «sociali» che è la stessa cosa. Non vuole «neolalismi» artistici specialmente se il «neolalico» è anche un imbecille.
Mi pare che il problema è sempre da porre partendo dalla domanda: «Perché scrivono i poeti? Perché dipingono i pittori? ecc.» (Ricordare l’articolo di Adriano Tilgher nell’«Italia che scrive»). Il Croce risponde, su per giù: per ricordate le proprie opere, dato che, secondo l’estetica crociana, l’opera d’arte è «perfetta» anche già e solo nel cervello dell’artista. Ciò che potrebbe ammettersi approssimativamente e in un certo senso. Ma solo approssimativamente e in un certo senso. In realtà si ricade nella quistione della «natura dell’uomo» e nella quistione «cos’è l’individuo?»
Se non si può pensare l’individuo fuori della società, e quindi se non si può pensare nessun individuo che non sia storicamente determinato, è evidente che ogni individuo e anche l’artista, e ogni sua attività, non può essere pensata fuori della società, di una società determinata. L’artista pertanto non scrive o dipinge, ecc., cioè non «segna» esteriormente i suoi fantasmi solo per «un suo ricordo», per poter rivivere l’istante della creazione, ma è artista solo in quanto «segna» esteriormente, oggettivizza, storicizza i suoi fantasmi. Ma ogni individuo‑artista è tale in modo più o meno largo e comprensivo, più o meno «storico» o «sociale».
Ci sono i «neolalici» o i «gerghisti», cioè quelli che essi soli possono rivivere il ricordo dell’istante creativo (ed è di solito un’illusione, il ricordo di un sogno o di una velleità), altri che appartengono a conventicole più o meno larghe (che hanno un gergo corporativo) e finalmente quelli che sono universali, cioè «nazionali‑popolari».
§30 Letteratura popolare.
§37 Letteratura popolare. Italia e Francia. Si può forse affermare che tutta la vita intellettuale italiana fino al 1900 (e precisamente fino al formarsi della corrente culturale idealistica Croce‑Gentile) in quanto ha tendenze democratiche, cioè in quanto vuole (anche se non ci riesce sempre) prendere contatto con le masse popolari è semplicemente un riflesso francese, dell’ondata democratica francese che ha avuto origine dalla Rivoluzione del 1789: l’artificiosità di questa vita è nel fatto che in Italia essa non aveva avuto le premesse storiche che invece erano state in Francia. Niente in Italia di simile alla Rivoluzione del 1789 e alle lotte che ne seguirono; tuttavia in Italia si «parlava» come se tali premesse fossero esistite. Ma si capisce che un tale parlare non poteva essere che a fior di labbra. Da tal punto di vista, s’intende il significato «nazionale», seppure poco profondo, delle correnti conservatrici e reazionarie in confronto di quelle democratiche; queste erano grandi «fuochi di paglia», di grande estensione superficiale, quelle erano di poca estensione, ma ben radicate e intense.
Se non si studia la cultura italiana fino al 1900 come un fenomeno di provincialismo francese, se ne comprende ben poco.
Letteratura popolare. Manzoni e gli «umili». L’atteggiamento «democratico» del Manzoni verso gli umili (nei Promessi Sposi) in quanto è d’origine «cristiana» e in quanto è da connettere con gli interessi storiografici che il Manzoni aveva derivato dal Thierry e dalle sue teorie sul contrasto tra le razze (conquistatrice e conquistata) divenuto contrasto di classi. Queste teorie del Thierry sono da vedere in quanto sono legate al romanticismo e al suo interesse storico per il Medio Evo e per le origini delle nazioni moderne, cioè nei rapporti tra razze germaniche invaditrici e razze neolatine invase, ecc. (Su questo argomento del «democraticismo» o «popolarismo» del Manzoni vedere altre note). Anche su questo punto dei rapporti tra l’atteggiamento del Manzoni e le teorie del Thierry è da vedere il libro dello Zottoli, Umili e potenti nella poetica di A. .
Queste teorie di Thierry nel Manzoni si complicano, o almeno hanno aspetti nuovi nella discussione sul «romanzo storico» in quanto esso rappresenta persone delle «classi subalterne» che «non hanno storia», cioè la cui storia non lascia tracce nei documenti storici del passato. (Questo punto è da connettere con la rubrica «Storia delle classi subalterne», in cui si può fare riferimento alle dottrine del Thierry, che del resto hanno avuto tanta importanza per le origini della storiografia della filosofia della prassi).1
§45 Letteratura popolare. Manzoni. Adolfo Faggi nel «Marzocco» del 1° novembre 1931 scrive alcune osservazioni sulla sentenza «Vox populi vox Dei» nei Promessi Sposi.
Il Faggi distingue tra i casi in cui per il Manzoni la voce del popolo non è in certi casi voce di Dio, da altri in cui può esser tale. Non sarebbe voce di Dio «quando si tratti d’idee o meglio di cognizioni specifiche, che soltanto dalla scienza e dai suoi continui progressi possono essere determinate; ma quando si tratti di quei principii generali e sentimenti comuni per natura a tutti quanti gli uomini, che gli antichi comprendevano nella ben nota espressione di conscentia generis humani».
Ma il Faggi non pone molto esattamente la quistione, che non può essere risolta senza riferirsi alla religione del Manzoni, al suo cattolicismo. Così riporta per esempio il famoso parere di Perpetua a don Abbondio, parere che coincide con l’opinione del card. Borromeo. Ma nel caso non si tratta di una quistione morale o religiosa, ma di un consiglio di prudenza pratica, dettato dal senso comune più banale. Che il card. Borromeo si trovi d’accordo con Perpetua non ha quella importanza che sembra al Faggi. Mi pare sia legato al tempo e al fatto che l’autorità ecclesiastica aveva un potere politico e un’influenza; che Perpetua pensi che don Abbondio debba ricorrere all’arcivescovo di Milano, è cosa naturale (serve solo a mostrare come Don Abbondio avesse perduto la testa in quel momento e Perpetua avesse più «spirito di corpo» di lui), come è naturale che Federico Borromeo così parli. Non c’entra la voce di Dio in questo caso. Così non ha molto rilievo l’altro caso: Renzo non crede all’efficienza del voto di castità fatto da Lucia e in ciò si trova d’accordo col padre Cristoforo. Si tratta anche qui di «casistica» e non di morale.
Il Faggi scrive che «il Manzoni ha voluto fare un romanzo di umili», ma ciò ha un significato più complesso di ciò che il Faggi mostri di credere. Tra il Manzoni e gli «umili» c’è distacco sentimentale; gli umili sono per il Manzoni un «problema di storiografia», un problema teorico che egli crede di poter risolvere col romanzo storico, col «verosimile» del romanzo storico. Perciò gli umili sono spesso presentati come «macchiette» popolari, con bonarietà ironica, ma ironica. E il Manzoni è troppo cattolico per pensare che la voce del popolo sia voce di Dio: tra il popolo e Dio c’è la chiesa, e Dio non s’incarna nel popolo, ma nella chiesa. Che Dio s’incarni nel popolo può crederlo il Tolstoi, non il Manzoni.
Certo questo atteggiamento del Manzoni è sentito dal popolo e perciò i Promessi Sposi non sono mai stati popolari: sentimentalmente il popolo sentiva il Manzoni lontano da sé e il suo libro come un libro di devozione non come ’epopea popolare.
§72 Letteratura popolare. Contenuto e forma. L’accostamento di questi due termini può assumere nella critica d’arte molti significati. Ammesso che contenuto e forma sono la stessa cosa, ecc. ecc., non significa ancora che non si possa fare la distinzione tra contenuto e forma. Si può dire che chi insiste sul «contenuto» in realtà lotta per una determinata cultura, per una determinata concezione del mondo contro altre culture e altre concezioni del mondo; si può anche dire che storicamente, finora, i così detti contenutisti sono stati «più democratici» dei loro avversari parnassiani, per esempio, cioè volevano una letteratura che non fosse per gli «intellettuali», ecc.
Si può parlare di una priorità del contenuto sulla forma? Se ne può parlare in questo senso, che l’opera d’arte è un processo e che i cambiamenti di contenuto sono anche cambiamenti di forma, ma è «più facile» parlare di contenuto che di forma, perché il contenuto può essere «riassunto» logicamente. Quando si dice che il contenuto precede la forma si vuol dire semplicemente che, nell’elaborazione, i tentativi successivi vengono presentati col nome di contenuto, niente altro. Il primo contenuto che non soddisfaceva era anche forma e in realtà quando si è raggiunta la «forma» soddisfacente anche il contenuto è cambiato.
È vero che spesso quelli che chiacchierano di forma ecc. contro il contenuto, sono completamente vuoti, accozzano parole che non sempre si tengono neanche secondo grammatica (esempio Ungaretti); per tecnica, forma ecc. intendono vacuità di gergo da conventicola di teste vuote.
Anche questa è da porre fra le quistioni della storia nazionale italiana, in altra nota registrata, e assume varie forme: 1) c’è una differenza di stile tra gli scritti dedicati al pubblico e gli altri, per esempio tra le lettere e le opere letterarie. Sembra spesso di aver che fare con due scrittori diversi tanta è la differenza. Nelle lettere (salvo eccezioni, come quella di D’Annunzio che fa la commedia anche allo specchio, per se stesso), nelle memorie e in generale in tutti gli scritti dedicati a poco pubblico o a se stesso, predomina la sobrietà, la semplicità, la immediatezza, mentre negli altri scritti predomina la tronfiezza, lo stile oratorio, l’ipocrisia stilistica.
Questa «malattia» è talmente diffusa che si è attaccata al popolo, per il quale infatti «scrivere» significa «montare sui trampoli», mettersi a festa, «fingere» uno stile ridondante, ecc., in ogni modo esprimersi in modo diverso dal comune; e siccome il popolo non è letterato, e di letteratura conosce solo il libretto dell’opera ottocentesca, avviene che gli uomini del popolo «melodrammatizzano». Ecco allora che «contenuto e forma» oltre che un significato «estetico» hanno anche un significato «storico».
Forma «storica» significa un determinato linguaggio, come «contenuto» indica un determinato modo di pensare, non solo storico, ma «sobrio», espressivo senza pugni in faccia, passionale senza che le passioni siano arroventate all’Otello o al melodramma, senza la maschera teatrale, insomma. Questo fenomeno, credo, si verifica solo nel nostro paese, come fenomeno di massa, s’intende, perché papi singoli sono da per tutto. Ma occorre stare attenti: perché il paese nostro è quello in cui al convenzionale barocco è successo il convenzionale arcadico: sempre teatro e convenzione però.
Occorre dire che in questi anni le cose sono molto migliorate: D’Annunzio è stato l’ultimo accesso di malattia del popolo italiano e il giornale, per le sue necessità, ha avuto il gran merito di «razionalizzare» la prosa. Però l’ha impoverita e stremenzita e anche questo è un danno. Ma purtroppo nel popolo, accanto ai «futuristi antiaccademici» esistono ancora i «secentisti» di conversione.
D’altronde qui si fa una quistione storica, per spiegare il passato, e non una lotta puramente attuale, per combattere mali attuali, sebbene anche questi non siano del tutto scomparsi e si ritrovano in alcune manifestazioni specialmente (discorsi solenni, specialmente funebri, patriottici, iscrizioni idem, ecc.). (Si potrebbe dire che si tratta di «gusto» e sarebbe errato. Il gusto è «individuale» o di piccoli gruppi; qui si tratta di grandi masse, e non può non trattarsi di cultura, di fenomeno storico, di esistenza di due culture; individuale è il gusto «sobrio», non l’altro, il melodramma è il gusto nazionale, cioè la cultura nazionale).
Né si dica che di tale quistione non occorre occuparsi: anzi, la formazione di una prosa vivace ed espressiva e nello stesso tempo sobria e misurata deve essere uno dei fini culturali da proporsi. Anche in questo caso forma ed espressione si identificano ed insistere sulla «forma» non è che un mezzo pratico per lavorare sul contenuto, per ottenere una deflazione della retorica tradizionale che guasta ogni forma di cultura, anche quella «antiretorica», ahimè!
La domanda se sia esistito un romanticismo italiano può avere diverse risposte, a seconda di ciò che s’intende per romanticismo. E certo molte sono le definizioni che del termine di romanticismo sono state date. Ma a noi importa una di queste definizioni e importa non precisamente l’aspetto «letterario» del problema. Romanticismo ha, tra gli altri significati, assunto quello di uno speciale rapporto o legame tra gli intellettuali e il popolo, la nazione, cioè è un particolare riflesso della «democrazia» (in senso largo) nelle lettere (in senso largo, per cui anche il cattolicismo può essere stato «democratico» mentre il «liberalismo» può esserlo non stato). In questo senso ci interessa il problema per l’Italia ed esso è legato ai problemi che abbiamo raccolto in serie: se è esistito un teatro italiano, la quistione della lingua, perché la letteratura non è stata popolare, ecc.
La ricerca quindi è di storia della cultura e non di storia letteraria, meglio di storia letteraria in quanto parte e aspetto di una più vasta storia della cultura.
Ebbene, in questo preciso senso, il romanticismo non è esistito in Italia, e nel miglior caso le sue manifestazioni sono state minime, scarsissime e in ogni caso di aspetto puramente letterario.
Altro
§1 Letteratura popolare (cfr paragrafo successivo). È giusto che lo studio della funzione non è sufficiente, pur essendo necessario, per creare la bellezza: intanto sulla stessa «funzione» nascono discordie, cioè anche l’idea e il fatto di funzione è individuale o dà luogo a interpretazioni individuali. Non è poi detto che la «decorazione» non sia «funzionale» e si intende «decorazione» in senso largo, per tutto ciò che non è strettamente «funzionale» come la matematica. Intanto la «razionalità» porta alla «semplificazione», ciò che è già molto. (Lotta contro il secentismo estetico che appunto è caratterizzato dal prevalere dell’elemento esternamente decorativo su quello «funzionale» sia pure in senso largo, cioè di funzione in cui sia compresa la «funzione estetica»). È molto che si sia giunti ad ammettere che l’«architettura è l’interpretazione di ciò che è pratico».
Forse questo potrebbe dirsi di tutte le arti che sono una «determinata interpretazione di ciò che è pratico», dato che all’espressione «pratico» si tolga ogni significato «deteriore, giudaico» (o piattamente borghese: è da notare che «borghese» in molti linguaggi significa solo «piatto, mediocre, interessato», cioè ha assunto il significato che una volta aveva l’espressione «giudaico»: tuttavia questi problemi di linguaggio hanno importanza, perché linguaggio = pensiero, modo di parlare indica modo di pensare e di sentire non solo ma anche di esprimersi, cioè di far capire e sentire).
Certo per le altre arti le quistioni di «razionalismo» non si pongono nello stesso modo che per l’architettura, tuttavia il «modello» dell’architettura è utile, dato che a priori si deve ammettere che il bello è sempre tale e presenta gli stessi problemi, qualunque sia l’espressione formale particolare di esso. Si potrebbe dire che si tratta di «tecnica», ma tecnica non è che espressione e il problema rientra nel suo circolo iniziale con diverse parole.
§2 Letteratura popolare. Quistioni di nomi. È evidente che in architettura «razionalismo» significa semplicemente «moderno»: è anche evidente che «razionale» non è altro che un modo di esprimere il bello secondo il gusto di un certo tempo. Che ciò sia avvenuto nell’architettura prima che in altre arti si capisce, perché l’architettura è «collettiva» non solo come «impiego», ma come «giudizio». Si potrebbe dire che il «razionalismo» è sempre esistito, cioè che si è sempre cercato di raggiungere un certo fine secondo un certo gusto e secondo le conoscenze tecniche della resistenza e dell’adattabilità del «materiale».
§65 Letteratura popolare. Cosa corrisponde in letteratura al «razionalismo» architettonico? Certamente la letteratura «secondo un piano», cioè la letteratura «funzionale», secondo un indirizzo sociale prestabilito. È strano che in architettura il razionalismo sia acclamato e giustificato e non nelle altre arti. Ci deve essere un equivoco. Forse che l’architettura sola ha scopi pratici? Certo apparentemente così pare, perché l’architettura costruisce le case d’abitazione, ma non si tratta di questo: si tratta di «necessità». Si dirà che le case sono più necessarie che non le altre arti e si vuol dire solo che le case sono necessarie per tutti, mentre le altre arti sono necessarie solo per gli intellettuali, per gli uomini di coltura. Si dovrebbe concludere che proprio i «pratici» si propongono di rendere necessarie tutte le arti per tutti gli uomini, di rendere tutti «artisti».
Ancora. La coercizione sociale! Quanto si blatera contro questa coercizione. Non si pensa che essa è una parola! La coercizione, l’indirizzo, il piano, sono semplicemente un terreno di selezione degli artisti, nulla più: e da scegliere per scopi pratici, cioè in un campo in cui la volontà e la coercizione sono perfettamente giustificate. Sarebbe da vedere se la coercizione non è sempre esistita! Perché è esercitata inconsciamente dall’ambiente e dai singoli e non da un potere centrale o da una forza centralizzata non sarebbe forse coercizione? Si tratta in fondo sempre di «razionalismo» contro l’arbitrio individuale. Allora la quistione non verte sulla coercizione, ma sul fatto se si tratta di razionalismo autentico, di reale funzionalità, o di atto d’arbitrio, ecco tutto.
La coercizione è tale solo per chi non l’accetta, non per chi l’accetta: se la coercizione si sviluppa secondo lo sviluppo delle forze sociali non è coercizione, ma «rivelazione» di verità culturale ottenuta con un metodo accelerato. Si può dire della coercizione ciò che i religiosi dicono della determinazione divina: per i «volenti» essa non è determinazione, ma libera volontà. In realtà la coercizione in parola è combattuta perché si tratta di una lotta contro gli intellettuali e contro certi intellettuali, quelli tradizionali e tradizionalisti, i quali, tutto al più, ammettono che le novità si facciano strada a poco a poco, gradualmente.
§60 Giornalismo. Almanacchi. Poiché il giornalismo è stato considerato, nelle note ad esso dedicate, come esposizione di un gruppo che vuole, attraverso diverse attività pubblicistiche, diffondere una concezione integrale del mondo, si può prescindere dalla pubblicazione di un almanacco?
L’almanacco è, in fondo, una pubblicazione periodica annuale, in cui, anno per anno, si esamina l’attività storica complessa di un anno da un certo punto di vista. L’almanacco è il «minimo» di «pubblicità» periodica che si può dare alle proprie idee e ai propri giudizi sul mondo e la sua varietà mostra quanto nel gruppo si sia venuto specializzando ogni singolo momento di tale storia, così come la organicità mostra la misura di omogeneità che il gruppo è venuto acquistando.
Certo, per la diffusione, occorre che l’almanacco tenga conto di determinati bisogni del gruppo di compratori cui si rivolge, gruppo che non può, spesso, spendere due volte, per uno stesso bisogno. Occorrerà pertanto scegliere il contenuto: 1) quelle parti che rendono inutile l’acquisto di altro almanacco; 2) quella parte per cui si vuole influire sui lettori per indirizzarli secondo un senso prestabilito. La prima parte sarà ridotta al minimo: a quanto basta per soddisfare il bisogno dato. La seconda parte insisterà su quegli argomenti che si ritengono di maggior peso educativo e formativo.
§62 Giornalismo. I lettori. I lettori devono essere considerati da due punti di vista principali: 1) come elementi ideologici, «trasformabili» filosoficamente, capaci, duttili, malleabili alla trasformazione; 2) come elementi «economici», capaci di acquistare le pubblicazioni e di farle acquistare ad altri. I due elementi, nella realtà, non sono sempre distaccabili, in quanto l’elemento ideologico è uno stimolo all’atto economico dell’acquisto e della diffusione. Tuttavia, occorre nel costruire un piano editoriale, tenere distinti i due aspetti, perché i calcoli siano realisti e non secondo i propri desideri.
§66 Giornalismo. Integralismo. Il tipo di giornalismo che viene considerato in queste note è quello «integrale», cioè quello che presuppone non solo di soddisfare tutti i bisogni del suo pubblico, ma di creare questi bisogni e quindi di creare, in un certo senso, il pubblico stesso. Se si osserva, tutte le forme di giornalismo e di attività editoriale in genere esistenti presuppongono che altre forze esistono che sono da integrare. Mi pare invece, per esaurire il problema e vederne tutti i lati, sia da presupporre tutt’altra situazione, che esista solo, come punto di partenza, un gruppo più o meno omogeneo, di un certo tipo, di un certo livello e specialmente con un certo orientamento generale e che su di esso occorra far leva per stabilire un edifizio completo, a cominciare dalla… lingua, cioè dal mezzo di espressione e di contatto.
Tutto l’edifizio deve essere costruito secondo principii razionalistici, cioè funzionali, in quanto si hanno determinate premesse e si vuole raggiungere determinate conseguenze. È evidente che durante l’elaborazione le stesse premesse vengono a mutare, perché se è vero che un fine presuppone certe premesse è anche vero che oltre un certo limite il fine stesso reagisce sulle premesse, mutandole.
L’esistenza oggettiva delle premesse permette di pensare a certi fini, cioè le premesse date sono tali solo dei fini, solo in quanto… pensabili. Ma se questi fini cominciano a realizzarsi, per il fatto di realizzarsi, di diventare effettuali, mutano necessariamente le premesse iniziali, che non sono più… iniziali e quindi mutano anche i fini pensabili, ecc. È questo un nesso al quale si pensa ben raramente e che pure è chiaro e lampante. La sua applicazione la vediamo nelle imprese «secondo un piano», che non sono puri meccanismi appunto perché si basano su questo modo di pensare, in cui entra più libertà e spirito d’iniziativa di quanto sogliono ammettere, per il ruolo di maschera da commedia dell’arte che recitano, i rappresentanti della «libertà» e dell’«iniziativa».
§71 Giornalismo. Movimenti e centri intellettuali. È dovere dell’attività giornalistica (nelle sue varie manifestazioni) seguire e controllare tutti i movimenti e i centri intellettuali che esistono e si formano nel paese. Tutti. Cioè con l’esclusione appena di quelli che hanno un carattere arbitrario e pazzesco; sebbene anche questi, col tono che si meritano, devono essere per lo meno registrati.
Distinzione tra centri e movimenti intellettuali e altre distinzioni e graduazioni.
Distinzione tra movimenti militanti, che sono i più interessanti, e movimenti di «retroguardia» o di idee acquisite e divenute classiche o commerciali. Tra questi dove mettere l’«Italia Letteraria»? Non certo militante e neppure classica! Sacco di patate mi pare proprio la definizione più esatta e appropriata.
§73 Giornalismo. Riviste tipo. Confronto tra il primo numero della rivista «Leonardo» edita dal Sansoni di Firenze e i numeri editi da Casa Treves. La differenza è molto notevole e tuttavia Casa Treves è tipograficamente non delle ultime.
Il problema fondamentale di ogni periodico (quotidiano o no) è quello di assicurare una vendita stabile (possibilmente in continuo incremento), ciò che significa poi possibilità di costruire un piano commerciale (in isviluppo, ecc.).
Certo l’elemento fondamentale di fortuna per un periodico è quello ideologico, cioè il fatto che soddisfa o no determinati bisogni intellettuali-politici. Ma sarebbe grosso errore il credere che questo sia l’unico elemento e specialmente che esso sia valido «isolatamente» preso. Solo in condizioni eccezionali, in determinati periodi di boom dell’opinione pubblica, avviene che un’opinione, qualunque sia la forma esteriore in cui è presentata, ha fortuna. Di solito, il modo di presentazione ha una grande importanza per la stabilità dell’azienda e l’importanza può essere positiva ma anche negativa.
§80 Giornalismo. Riviste tipo. La rivista di Gentile «Educazione politica» il cui nome fu poi trasformato.
§31 I nipotini dell’abate Bresciani.
§35 I nipotini di padre Bresciani. Si moltiplicano gli scritti sul distacco tra arte e vita.
Pare però che oggi sia più possibile far riconoscere la realtà della situazione: c’è indubbiamente più buona volontà di comprendere, più spregiudicatezza ed esse sono date dal diffuso spirito antiborghese anche se generico e di origini spurie. Per lo meno si vorrebbe creare una effettiva unità nazionale‑popolare, anche se con mezzi estrinseci, pedagogici, scolastici, col «volontarismo»: per lo meno si sente che questa unità manca e che tale mancanza è una debolezza nazionale e statale. Ciò differenzia radicalmente l’attuale epoca da quella degli Ojetti, dei Panzini e C. Perciò nella trattazione di questa rubrica conviene tenerne conto.
Le debolezze, d’altronde, sono evidenti: la prima è quella dell’essere persuasi che sia avvenuto un rivolgimento radicale popolare‑nazionale; se è avvenuto, vuol dire che non si deve far nulla più oltre di radicale, ma che si tratta solo di «organizzare», educare, ecc.; tutt’al più si parla di «rivoluzione permanente» ma in significato ristretto, nella solita accezione che tutta la vita è dialettica, è milizia, quindi rivoluzione.
Le altre debolezze sono di più difficile comprensione: esse infatti possono risultare solo da una esatta analisi della composizione sociale italiana, da cui risulta che la grande massa degli intellettuali appartiene a quella borghesia rurale, la cui posizione economica è possibile solo se le masse contadine sono spremute fino alle midolla. Quando dalle parole si dovesse passare ai fatti concreti, questi significherebbero una distruzione radicale della base economica di questi gruppi intellettuali.
§46 I nipotini di padre Bresciani.
§15 Il teatro di Pirandello. Forse ha ragione il Pirandello a protestare egli per il primo contro il «pirandellismo», cioè a sostenere che il così detto pirandellismo è una costruzione astratta dei sedicenti critici, non autorizzato dal suo concreto teatro, una formula di comodo, che spesso nasconde interessi culturali e ideologici tendenziosi, che non vogliono confessarsi esplicitamente.
In realtà non pare si possa attribuire al Pirandello una concezione del mondo coerente, non pare si possa estrarre dal suo teatro una filosofia e quindi non si può dire che il teatro pirandelliano sia «filosofia». È certo però che nel Pirandello ci sono dei punti di vista che possono riallacciarsi genericamente a una concezione del mondo, che all’ingrosso può essere identificata con quella soggettivistica.
Ma il problema è questo: 1) questi punti di vista sono presentati in modo «filosofico», oppure i personaggi vivono questi punti di vista come individuale modo di pensare? cioè la «filosofia» implicita è esplicitamente solo «cultura» ed «eticità» individuale, cioè esiste, entro certi gradi almeno, un processo di trasfigurazione artistica nel teatro pirandelliano? e ancora si tratta di un riflesso sempre uguale, di carattere logico, o invece le posizioni sono sempre diverse, cioè di carattere fantastico? 2) questi punti di vista sono necessariamente di origine libresca, dotta, presi dai sistemi filosofici individuali, o non sono invece esistenti nella vita stessa, nella cultura del tempo e persino nella cultura popolare di grado infimo, nel folclore?
Questo secondo punto mi pare fondamentale ed esso può essere risolto con un esame comparativo dei diversi drammi, quelli concepiti in dialetto e dove si rappresenta una vita paesana, «dialettale» e quelli concepiti in lingua letteraria e dove si rappresenta una vita superdialettale, di intellettuali borghesi di tipo nazionale e anche cosmopolita.
Ora pare che, nel teatro dialettale, il pirandellismo sia giustificato da modi di pensare «storicamente» popolari e popolareschi, dialettali; che non si tratti cioè di «intellettuali» travestiti da popolani, di popolani che pensano da intellettuali, ma di reali, storicamente, regionalmente, popolani siciliani che pensano e operano così proprio perché sono popolani e siciliani. Che non siano cattolici, tomisti, aristotelici non vuol dire che non siano popolani e siciliani; che non possano conoscere la filosofia soggettivistica dell’idealismo moderno non vuol dire che nella tradizione popolare non possano esistere filoni di carattere «dialettico» e immanentistico. Se questo si dimostrasse, tutto il castello del pirandellismo cioè dell’intellettualismo astratto del teatro pirandelliano crollerebbe, come pare debba crollare.
Ma non mi pare che il problema culturale del teatro pirandelliano sia ancora esaurito in questi termini.
In Pirandello abbiamo uno scrittore «siciliano», che riesce a concepire la vita paesana in termini «dialettali», folcloristici (se pure il suo folclorismo non è quello influenzato dal cattolicismo, ma quello rimasto «pagano», anticattolico sotto la buccia cattolica superstiziosa), che nello stesso tempo è uno scrittore «italiano» e uno scrittore «europeo». E in Pirandello abbiamo di più: la coscienza critica di essere nello stesso tempo «siciliano», «italiano» ed «europeo», ed è in ciò la debolezza artistica del Pirandello accanto al suo grande significato «culturale» (come ho notato in altre note).
Questa «contraddizione», che è intima nel Pirandello, ha esplicitamente avuto espressione in qualche suo lavoro narrativo (in una lunga novella, mi pare Il Turno, si rappresenta l’incontro tra una donna siciliana e un marinaio scandinavo, tra due «province» così lontane storicamente).
Quello che importa è però questo: il senso critico‑storico del Pirandello, se lo ha portato nel campo culturale a superare e dissolvere il vecchio teatro tradizionale, convenzionale, di mentalità cattolica o positivistica, imputridito nella muffa della vita regionale o di ambienti borghesi piatti e abbiettamente banali, ha però dato luogo a creazioni artistiche compiute? Se anche l’intellettualismo del Pirandello non è quello identificato dalla critica volgare (di origine cattolica tendenziosa, o tilgheriana dilettantesca) è però il Pirandello libero di ogni intellettualismo? Non è più un critico del teatro che un poeta, un critico della cultura che un poeta, un critico del costume nazionale‑regionale che un poeta? Oppure dove è realmente poeta, dove il suo atteggiamento critico è diventato contenuto‑forma d’arte e non è «polemica intellettuale», logicismo sia pure non da filosofo, ma da «moralista» in senso superiore? A me pare che Pirandello sia artista proprio quando è «dialettale» e Liolà mi pare il suo capolavoro, ma certo anche molti «frammenti» sono da identificare di grande bellezza nel teatro «letterario».
§21 Il teatro di Pirandello. È da vedere quanto nella «ideologia» pirandelliana sia, per dir così, della stessa origine di ciò che pare formi il nucleo degli scritti «teatrali» di Nicola Evreinov. Per l’Evreinov la teatralità non è solamente una determinata forma di attività artistica, quella che si esprime tecnicamente nel teatro propriamente detto. Per l’Evreinov la «teatralità» è nella vita stessa, è un atteggiamento proprio all’uomo, in quanto l’uomo tende a credere e a farsi credere diverso da ciò che è.
Occorre vedere bene queste teorie dell’Evreinov, perché mi pare che egli colga un tratto psicologico esatto, che dovrebbe essere esaminato e approfondito. Cioè esistono parecchie forme di «teatralità» in questo senso: una è quella comunemente nota e appariscente in forma caricaturale che si chiama «istrionismo»; ma ne esistono anche delle altre, che non sono deteriori, o sono meno deteriori e alcune che sono normali e anche meritorie.
In realtà ognuno tende, a suo modo, sia pure, a crearsi un carattere, a dominare certi impulsi e istinti, ad acquistare certe forme «sociali» che vanno dallo snobismo, alle convenienze, alla correttezza, ecc. Ora cosa significa: «ciò che si è realmente» e da cui si cerca di apparire «diversi?»
«Ciò che si è realmente» sarebbe l’insieme degli impulsi e istinti animaleschi e ciò che si cerca di apparire è il «modello» sociale‑culturale, di una certa epoca storica, che si cerca di diventare; mi pare che ciò «che si è realmente» è dato dalla lotta per diventare ciò che si vuol diventare.
Come ho notato altrove, il Pirandello è criticamente un «paesano» siciliano che ha acquisito certi caratteri nazionali e certi caratteri europei, ma che sente in se stesso questi tre elementi di civiltà come giustapposti e contradditori. Da questa esperienza gli è venuto l’atteggiamento di osservare le contraddizioni nelle personalità degli altri e poi addirittura di vedere il dramma della vita come il dramma di queste contraddizioni.
Del resto un elemento non solo del teatro dialettale siciliano (Aria del continente) ma di ogni teatro dialettale italiano e anche del romanzo popolare è la descrizione, la satira e la caricatura del provinciale che vuole apparire «trasfigurato» in un carattere «nazionale» o europeo‑cosmopolita, e non è altro che un riflesso del fatto che non esiste ancora una unità nazionale‑culturale nel popolo italiano, che il «provincialismo» e particolarismo è ancora radicato nel costume e nei modi di pensare e di agire; non solo, ma che non esiste un «meccanismo» per elevare la vita dal livello provinciale a quello nazionale europeo collettivamente e quindi le «sortite», i «raids» individuali in questo senso assumono forme caricaturali, meschine, «teatrali», ridicole, ecc. ecc.
§42 Cultura italiana. Si insiste molto sul fatto che sia aumentato il numero dei libri pubblicati. L’Istituto italiano del Libro comunica che la media annuale del decennio 1908‑1918 è stata esattamente di 7300.
Si legge meno o più? E chi legge meno o più? Si sta formando una «classe media colta» più numerosa che in passato, che legge di più, mentre le classi popolari leggono molto meno; ciò appare dal rapporto tra libri, riviste e giornali. I giornali sono diminuiti di numero e stampano meno copie; si leggono più riviste e libri (cioè ci sono più lettori di libri e riviste). Confronto tra Italia e altri paesi nei modi di fare la statistica libraria e nella classificazione per gruppi di ciò che si pubblica.
§69 Argomento di cultura. L’autodidatta. Non si vuole ripetere il solito luogo comune che tutti i dotti sono autodidatti, in quanto l’educazione è autonomia e non impressione dal di fuori. Luogo comune tendenzioso che permette di non organizzare nessun apparato di cultura e di negare ai poveri il tempo da dedicare allo studio, unendo allo scorno la beffa, cioè la dimostrazione teorica che se non sono dotti la colpa è loro poiché ecc. ecc.
Ammettiamo dunque che, salvo a pochi eroi della cultura (e nessuna politica può fondarsi sull’eroismo), per istruirsi e educarsi è necessario un apparato di cultura, attraverso cui la generazione anziana trasmette alla generazione giovane tutta l’esperienza del passato (di tutte le vecchie generazioni passate), fa acquistar loro determinate inclinazioni e abitudini (anche fisiche e tecniche che si assimilano con la ripetizione) e trasmette arricchito il patrimonio del passato. Ma non di ciò vogliamo parlare.
Vogliamo proprio parlare degli autodidatti in senso stretto, cioè di quelli che sacrificano una parte o tutto il tempo che gli altri appartenenti alla loro generazione dedicano ai divertimenti o ad altre occupazioni, per istruirsi ed educarsi, e rispondere alla domanda: oltre alle istituzioni ufficiali esistono attività che soddisfino i bisogni nascenti da queste inclinazioni e come le soddisfano? Ancora: le istituzioni politiche esistenti, in quanto dovrebbero, si pongono questo compito di soddisfare tali bisogni? Mi pare che questo sia un criterio di critica da non buttar via, da non trascurare in ogni modo.
Si può osservare che gli autodidatti in senso stretto sorgono in certi strati sociali a preferenza di altri e si capisce. Parliamo di quelli che hanno a loro disposizione solo la loro buona volontà e disponibilità finanziarie limitatissime, possibilità di spendere molto piccole o quasi nulle. Devono essere trascurati? Non pare, in quanto appunto pare che nascano partiti dedicati proprio a questi elementi, i quali appunto partono dal concetto di aver che fare con simili elementi. Ebbene: se questi elementi sociali esistono, non esistono le forze che cercano di ovviare ai loro bisogni, di elaborare questo materiale. O meglio: tali forze sociali esistono a parole, ma non nei fatti, come affermazione ma non come attuazione.
D’altronde non è detto che non esistano forze sociali generiche che di tali bisogni si occupano, anzi fanno il loro unico lavoro, la loro precipua attività, con questo risultato: che esse finiscono col contare più di quel che dovrebbero, con avere un influsso più grande di quello che «meriterebbero» e spesso addirittura collo «speculare» finanziariamente su questi bisogni, perché gli autodidatti, nel loro stimolo, se spendono poco singolarmente, finiscono con lo spendere ragguardevolmente come insieme (ragguardevolmente nel senso che permettono con la loro spesa di vivere a parecchie persone).
Il movimento di cui si parla (o si parlava) è quello libertario, e il suo antistoricismo, la sua retrività, si vede dal carattere dell’autodidattismo, che forma persone «anacronistiche» che pensano con modi antiquati e superati e questi tramandano, «vischiosamente». Dunque: 1) un movimento sorpassato, superato, in quanto soddisfa certi bisogni impellenti, finisce con l’avere un influsso maggiore di quanto storicamente gli spetterebbe; 2) questo movimento tiene arretrato il mondo culturale per le stesse ragioni ecc.
Sarebbe da vedere tutta la serie delle ragioni che in Italia per tanto tempo hanno permesso che un movimento arretrato, superato, tenesse più campo di quanto gli spettasse, provocando spesso confusioni e anche catastrofi. D’altronde bisogna affermare energicamente che in Italia il moto verso la cultura è stato grande, ha provocato sacrifici, che cioè le condizioni obbiettive erano molto favorevoli. Il principio che una forza non vale tanto per la propria «forza intrinseca» quanto per la debolezza degli avversari e delle forze in cui si trova inserita, non è tanto vero come in Italia.
Un altro elemento della forza relativa dei libertari è questo: che essi hanno più spirito di iniziativa individuale, più attività personale. Perché questo avvenga dipende da cause complesse: 1) che hanno maggior soddisfazione personale dal loro lavoro; 2) che sono meno intralciati da impacci burocratici, i quali non dovrebbero esistere per le altre organizzazioni: perché mai l’organizzazione che dovrebbe potenziare l’iniziativa individuale, si dovrebbe mutare in burocrazia, cioè in impaccio delle forze individuali ? 3) (e forse maggiore) che un certo numero di persone vivono del movimento, ma ci vivono liberamente, cioè non per posti occupati per nomina, ma in quanto la loro attività li rende degni di essi: per mantenere questo posto, cioè per mantenere il loro guadagno, fanno degli sforzi che altrimenti non farebbero.
§47 Caratteri della cultura italiana. Si potrebbero raccogliere, in uno stesso saggio, diverse serie di note, scritte partendo da interessi intellettuali diversi, ma che in realtà sono espressione di uno stesso problema fondamentale. Così le note sulle quistioni: della lingua, del romanticismo italiano (se sia esistito), del perché la letteratura italiana non sia popolare, dell’esistenza o meno di un teatro italiano, ecc., con le note sulle varie interpretazioni che sono state date del moto del Risorgimento fino alle discussioni più recenti sulla «razionalità» e sul significato del presente regime (psicosi di guerra, ecc.).
Tutti questi argomenti sono strettamente collegati e sono da connettere come blocco alle discussioni e alle interpretazioni che della passata storia svoltasi nella penisola italiana si ebbero in tutto il secolo XIX e di cui una parte almeno è documentata nel libro del Croce sulla Storia della Storiografia italiana nel secolo XIX
Che tali polemiche e tanta varietà di interpretazione dei fatti siano state e siano ancora possibili, è fatto di per se stesso molto importante e caratteristico di una determinata situazione politico‑culturale. Non pare che una cosa simile sia avvenuta per nessun altro paese, almeno con tale assiduità, abbondanza e pertinacia.
In questo fenomeno caratteristico italiano sono da distinguere vari aspetti: 1) il fatto che gli intellettuali sono disgregati, senza gerarchia, senza un centro di unificazione e centralizzazione ideologica e intellettuale, ciò che è risultato di una scarsa omogeneità, compattezza e «nazionalità» della classe dirigente; 2) il fatto che queste discussioni sono, in realtà, la prospettiva e il fondamento storico di programmi politici impliciti, che rimangono impliciti, retorici, perché l’analisi del passato non è fatta obbiettivamente, ma secondo pregiudizi letterari o di nazionalismo letterario (anche di antinazionalismo letterario, come nel caso del Montefredini).
Alla serie di quistioni aggiungere: la quistione meridionale (nell’impostazione del Fortunato, per esempio, o del Salvemini, col relativo concetto di «unità»), la quistione siciliana (da vedere Le più belle pagine di Michele Amari raccolte da V. E. Orlando in modo da fare apparire la Sicilia come un «momento» della storia mondiale); la quistione sarda (carte di Arborea, da paragonare col simile tentativo boemo verso il 48, cioè contemporaneamente).
Altro problema tipico italiano: il papato, che anch’esso dette origini a interpretazioni dinamiche del Risorgimento che non sono state senza effetto nella coltura nazionale e lo sono anche ora: basta ricordare il giobertismo e la teoria del Primato, che entra anche oggi nel guazzetto ideologico di moda. Occorre ricordare l’atteggiamento dei cattolici in politica, il non expedit e il fatto che nel dopoguerra il Partito Popolare era un partito che ubbidiva a interessi anazionali, una forma paradossale di ultramontanismo poiché il Papato era in Italia e non poteva apparire politicamente come appariva in Francia e in ènettamente fuori dello Stato.
Tutti questi elementi contradditori si sintetizzano nella posizione internazionale del paese, estremamente debole e precaria, senza possibilità di una linea a lunga prospettiva, situazione che ebbe la sua espressione nella guerra del 14 e nel fatto che l’Italia combatté nel campo opposto a quello delle sue alleanze tradizionali.
§6 Passato e presente. Fratate. Una ottava di Luigi Pulci
§7 Passato e presente. Quando si parla di «caratteri nazionali» occorre ben fissare e definire ciò che si intende dire. Intanto occorre distinguere tra nazionale e «folcloristico». A quali criteri ricorrere per giungere a tale distinzione? Uno (e forse il più esatto) può esser questo: il folcloristico si avvicina al «provinciale» in tutti i sensi, cioè sia nel senso di «particolaristico», sia nel senso di anacronistico, sia nel senso di proprio a una classe priva di caratteri universali (almeno europei). C’è un folcloristico nella cultura, a cui non si suole badare: per esempio è folcloristico il linguaggio melodrammatico, così come è tale il complesso di sentimenti e di «pose» snobistiche ispirate dai romanzi d’appendice.
Per esempio Carolina Invernizio che ha creato di Firenze un ambiente romanzesco copiato meccanicamente dai romanzi d’appendice francesi che hanno per ambiente Parigi, ha creato determinate tendenze di folclore. Ciò che è stato detto del rapporto Dumas‑Nietzsche a proposito delle origini popolaresche del «superuomo» dà appunto luogo a motivi di folclore. Se Garibaldi rivivesse oggi, con le sue stravaganze esteriori ecc., sarebbe più folcloristico che nazionale: perciò oggi a molti la figura di Garibaldi fa sorridere ironicamente, e a torto, perché nel suo tempo Garibaldi, in Italia, non era anacronistico e provinciale, perché tutta l’Italia era anacronistica e provinciale.
Si può dunque dire che un carattere è «nazionale» quando è contemporaneo a un livello mondiale (o europeo) determinato di cultura ed ha raggiunto (s’intende) questo livello. Era nazionale in questo senso Cavour nella politica liberale, De Sanctis nella critica letteraria (e anche Carducci, ma meno del De Sanctis), Mazzini nella politica democratica; avevano caratteri di folclore spiccato Garibaldi, Vittorio Emanuele II, i Borboni di Napoli, la massa dei rivoluzionari popolari, ecc.
Nel rapporto Nietzsche‑superuomo, D’Annunzio ha caratteri folcloristici spiccati, così Gualino nel campo economico-pratico (più ancora Luca Cortese, che è la caricatura di D’Annunzio e Gualino), così Scarfoglio, sebbene meno di D’Annunzio. D’Annunzio tuttavia meno di altri, per la sua cultura superiore e non legata immediatamente alla mentalità del romanzo di appendice. Molti individualisti ‑ anarchici popolareschi sembrano proprio balzati fuori da romanzi d’appendice.
Questo provincialismo‑folcloristico ha altri caratteri in Italia; ad esso è legato ciò che agli stranieri appare essere un istrionismo italiano, una teatralità italiana, qualcosa di filodrammatico, quell’enfasi nel dire anche le cose più comuni, quella forma di chauvinismo culturale che Pascarella ritrae nella Scoperta dell’America, l’ammirazione per il linguaggio da libretto d’opera ecc. ecc.
§10 Passato e presente. Cfr le osservazioni sparse su quel carattere del popolo italiano che si può chiamare «apoliticismo». Questo carattere, naturalmente, è delle masse popolari, cioè delle classi subalterne. Negli strati superiori e dominanti vi corrisponde un modo di pensare che si può dire «corporativo», economico, di categoria, e che del resto è stato registrato nella nomenclatura politica italiana col termine di «consorteria», una variazione italiana della «cricca» francese e della camarilla spagnuola, che indicano qualcosa di diverso, di particolaristico sì, ma nel senso personale o di gruppo strettamente politico‑settario (legato all’attività politica di gruppi militari o di cortigiani), mentre in Italia più legato a interessi economici (specialmente agrari e regionali).
Una varietà di questo «apoliticismo» popolare è il «pressappoco» della fisionomia dei partiti tradizionali, il pressappoco dei programmi e delle ideologie. Perciò anche in Italia c’è stato un «settarismo» particolare, non di tipo giacobino alla francese o alla russa (cioè fanatica intransigenza per principii generali e quindi il partito politico che diventa il centro di tutti gli interessi della vita individuale); il settarismo negli elementi popolari corrisponde allo spirito di consorteria nelle classi dominanti, non si basa su principii, ma su passioni anche basse e ignobili e finisce coll’avvicinarsi al «punto di onore» della malavita e all’omertà della mafia e della camorra.
Questo apoliticismo, unito alle forme rappresentative (specialmente dei corpi elettivi locali) spiega la deteriorità dei partiti politici, che nacquero tutti sul terreno elettorale (al Congresso di Genova la quistione fondamentale fu quella elettorale); cioè i partiti non furono una frazione organica delle classi popolari (un’avanguardia, un’élite), ma un insieme di galoppini e maneggioni elettorali, un’accolta di piccoli intellettuali di provincia, che rappresentavano una selezione alla rovescia.
Data la miseria generale del paese e la disoccupazione cronica di questi strati, le possibilità economiche che i partiti offrivano erano tutt’altro che disprezzabili. Si è saputo che in qualche posto, circa un decimo degli iscritti ai partiti di sinistra racimolavano una parte dei mezzi per vivere dalle questure, che davano pochi soldi agli informatori data l’abbondanza di essi o li pagavano con permessi per attività marginali da mezzi vagabondi o con l’impunità per guadagni equivoci.
In realtà per essere di un partito bastavano poche idee vaghe, imprecise, indeterminate, sfumate: ogni selezione era impossibile, ogni meccanismo di selezione mancava e le masse dovevano seguire questi partiti perché altri non ne esistevano.
§25 Passato e presente. La logica di don Ferrante. Si può avvicinare la forma mentale di don Ferrante a quella che è contenuta nelle così dette «tesi» di Roma (ricordare la discussione sul «colpo di Stato» ecc.)1. Era proprio come il negare la «peste» e il «contagio» da parte di don Ferrante e così morirne «stoicamente» (se pure non è da usare un altro avverbio più appropriato). Ma in don Ferrante in realtà c’era più ragion «formale» almeno, cioè egli rifletteva il modo di pensare dell’epoca sua (e questo il Manzoni mette in satira, personificandolo in don Ferrante), mentre nel caso più moderno si trattava di anacronismo, come se don Ferrante fosse risuscitato con tutta la sua mentalità in pieno secolo XX.
§40 Passato e presente. Ricordare il saggio pubblicato da Gino Doria (nella «Nuova Italia» del 1930 o 1931)
§48 Passato e presente. Centralismo organico e centralismo democratico. Disciplina. Come deve essere intesa la disciplina, se si intende con questa parola un rapporto continuato e permanente tra governanti e governati che realizza una volontà collettiva? Non certo come passivo e supino accoglimento di ordini, come meccanica esecuzione di una consegna (ciò che però sarà pure necessario in determinate occasioni, come per esempio nel mezzo di un’azione già decisa e iniziata) ma come una consapevole e lucida assimilazione della direttiva da realizzare. La disciplina pertanto non annulla la personalità in senso organico, ma solo limita l’arbitrio e l’impulsività irresponsabile, per non parlare della fatua vanità di emergere.
Se si pensa, anche il concetto di «predestinazione» proprio di alcune correnti del cristianesimo non annulla il così detto «libero arbitrio» nel concetto cattolico, poiché l’individuo accetta «volente» il volere divino (così pone la quistione il Manzoni nella Pentecoste) al quale, è vero, non potrebbe contrastare, ma a cui collabora o meno con tutte le sue forze morali.
La disciplina pertanto non annulla la personalità e la libertà: la quistione della «personalità e libertà» si pone non per il fatto della disciplina, ma per l’«origine del potere che ordina la disciplina». Se questa origine è «democratica», se cioè l’autorità è una funzione tecnica specializzata e non un «arbitrio» o una imposizione estrinseca ed esteriore, la disciplina è un elemento necessario di ordine democratico, di libertà. Funzione tecnica specializzata sarà da dire quando l’autorità si esercita in un gruppo omogeneo socialmente (o nazionalmente); quando si esercita da un gruppo su un altro gruppo, la disciplina sarà autonoma e libera per il primo, ma non per il secondo.
In caso di azione iniziata o anche già decisa (senza che ci sia il tempo di rimettere utilmente in discussione la decisione) la disciplina può anche apparire estrinseca e autoritaria. Ma altri elementi allora la giustificano. È osservazione di senso comune che una decisione (indirizzo) parzialmente sbagliata può produrre meno danno di una disubbidienza anche giustificata con ragioni generali, poiché ai danni parziali dell’indirizzo parzialmente sbagliato si cumulano gli altri danni della disubbidienza e del duplicarsi degli indirizzi (ciò si è verificato spesso nelle guerre, quando dei generali non hanno ubbidito a ordini parzialmente erronei e pericolosi, provocando catastrofi
§50 Passato e Presente. Il proverbio: «fratelli, coltelli». È poi così strano e irrazionale che le lotte e gli odi diventino tanto più accanite e grandi quanto più due elementi «sembrano» vicini e portati dalla «forza delle cose» a intendersi e a collaborare? Non pare. Almeno «psicologicamente» il fatto si spiega. Infatti uno non si può attendere nulla di buono da un nemico o da un avversario; invece ha il diritto di attendersi e di fatto si attende unità e collaborazione da chi gli sta vicino, da chi è legato con lui da vincoli di solidarietà o di qualsiasi genere. Infatti, non solo il proverbio «fratelli, coltelli», si applica ai legami di affetto, ma anche ai legami costituiti da obblighi legali.
Che ti faccia del male chi ti è nemico o anche solo indifferente, non ti colpisce, ti rimane «indifferente», non suscita reazioni sentimentali di esasperazione. Ma se chi ti fa del male aveva il dovere morale di aiutarti (nelle associazioni volontarie) o l’obbligo legale di fare diversamente (nelle associazioni di tipo statale) ciò ti esaspera e aumenta il male, poiché ti rende difficile prevedere l’avvenire, ti impedisce di fare progetti e piani, di fissarti una linea di condotta.
È certo che ogni uomo cerca di fissare quanti più elementi è possibile di riferimenti certi nella sua condotta, di limitare il «casuale» e la «forza maggiore»; nello sforzo di questa limitazione entra in calcolo la solidarietà, la parola data, le promesse fatte da altri, che dovrebbero portare a certi fatti certi. Se essi vengono a mancare per incuria, per negligenza, per imperizia, per slealtà, al male che ne risulta si aggiunge l’esasperazione morale che è tipica di questo ordine di relazioni. Se un nemico ti arreca un danno e te ne lamenti, sei uno stupido, perché è proprio dei nemici di arrecare danni. Ma se un amico ti arreca danno, è giustificato il tuo risentimento.
Così se un rappresentante della legge commette un’illegalità la reazione è diversa che se l’illegalità la commette un bandito. Perciò mi pare che non sia da maravigliarsi dell’accanimento nelle lotte e negli odi tra vicini (per esempio tra due partiti così detti affini); il contrario sarebbe sorprendente cioè l’indifferenza e l’insensibilità morale, come avviene negli urti tra nemici aperti e dichiarati.
§54 Passato e Presente. Oltre al gettito delle imposte (i redditi patrimoniali sono trascurabili) i governi hanno a loro disposizione le grandi somme rappresentate dal movimento delle assicurazioni, che spesso sono imponenti. È da vedere se attraverso le assicurazioni non si riesca a imporre nuove tasse. Vedere quanto costa l’assicurazione e se essa è «pagata» con maggior o minore facilità e subito o con ritardo. Se, rendendola più a buon prezzo, potrebbe diffondersi maggiormente, quali classi sono assicurate e quali escluse; l’assicurazione è una forma di risparmio, anzi la più tipica e popolare.
§57 Passato e presente. Elementi della crisi economica. Nella pubblicità della «Riforma sociale» le cause «più caratteristiche e gravi» della crisi sono elencate come segue: 1) alte imposte; 2) consorzi industriali; 3) sindacati operai; 4) salvataggi; 5) vincoli; 6) battaglie per il prodotto nazionale; 7) contingentamento; 8) debiti interalleati; 9) armamenti; 10) protezionismo.
Appare che alcuni elementi sono simili, sebbene siano elencati partitamente, come cause specifiche. Altri non sono elencati, esempio le proibizioni all’emigrazione. Mi pare che facendo un’analisi si dovrebbe incominciare dall’elencare gli impedimenti posti dalle politiche nazionali (o nazionalistiche) alla circolazione: 1) delle merci; 2) dei capitali; 3) degli uomini (lavoratori e fondatori di nuove industrie e nuove aziende commerciali).
Che non si parli da parte dei liberali degli ostacoli posti alla circolazione degli uomini è sintomatico, poiché nel regime liberale tutto si tiene e un ostacolo ne crea una serie di altri. Se si ritiene che gli ostacoli alla circolazione degli uomini sono «normali», ossia giustificabili, ossia dovuti a «forza maggiore», significa che tutta la crisi è «dovuta a forza maggiore», è «strutturale» e non di congiuntura e non può essere superata che costruendo una nuova struttura, che tenga conto delle tendenze insite nella vecchia struttura e le domini con nuove premesse.
La premessa maggiore in questo caso è il nazionalismo, che non consiste solo nel tentativo di produrre nel proprio territorio tutto ciò che vi si consuma (il che significa che tutte le forze sono indirizzate nella previsione dello stato di guerra), ciò che si esprime nel protezionismo tradizionale, ma nel tentativo di fissare le principali correnti di commercio con determinati paesi, o perché alleati (perché quindi li si vuol sostenere e li si vuol foggiare in un modo più acconcio allo stato di guerra) o perché li si vuole stroncare già prima della guerra militare (e questo nuovo tipo di politica economica è quello dei «contingentamenti» che parte dall’assurdo che tra due paesi vi debba essere «bilancia pari» negli scambi, e non che ogni paese può bilanciare alla pari solo commerciando con tutti gli altri paesi indistintamente).
§58 Passato e presente. Perché gli uomini sono irrequieti? Da che viene l’irrequietezza? Perché l’azione è «cieca», perché si fa per fare. Intanto non è vero che irrequieti siano solo gli «attivi» ciecamente: avviene che l’irrequietezza porta all’immobilità: quando gli stimoli all’azione sono molti e contrastanti, l’irrequietezza appunto si fa «immobilità». Si può dire che l’irrequietezza è dovuta al fatto che non c’è identità tra teoria e pratica, ciò che ancora vuol dire che c’è una doppia ipocrisia: cioè si opera mentre nell’operare c’è una teoria o giustificazione implicita che non si vuole confessare, e si «confessa» ossia si afferma una teoria che non ha una corrispondenza nella pratica. Questo contrasto tra ciò che si fa e ciò che si dice produce irrequietezza, cioè scontentezza, insoddisfazione. Ma c’è una terza ipocrisia: all’irrequietezza si cerca una causa fittizia, che non giustificando e non spiegando, non permette di vedere quando l’irrequietezza stessa finirà. Ma la quistione così posta è semplificata.
Nella realtà le cose sono più complesse. Intanto occorre tener conto che nella realtà gli uomini d’azione non coincidono con gli intellettuali e inoltre che esistono i rapporti tra generazioni anziane e giovani. Le responsabilità maggiori in questa situazione sono degli intellettuali e degli intellettuali più anziani. L’ipocrisia maggiore è degli intellettuali e degli intellettuali anziani. Nella lotta dei giovani contro gli anziani, sia pure nelle forme caotiche del caso, c’è il riflesso di questo giudizio di condanna, che è ingiusto solo nella forma.
In realtà gli anziani «dirigono» la vita, ma fingono di non dirigere, di lasciare ai giovani la direzione, ma anche la «finzione» ha importanza in queste cose. I giovani vedono che i risultati delle loro azioni sono contrari alle loro aspettative, credono di «dirigere» (o fingono di credere) e diventano tanto più irrequieti e scontenti.
Ciò che aggrava la situazione è che si tratta di una crisi di cui si impedisce che gli elementi di risoluzione si sviluppino con la celerità necessaria; chi domina non può risolvere la crisi, ma ha il potere di impedire che altri la risolva, cioè ha solo il potere di prolungare la crisi stessa. Candido forse potrebbe dire che ciò è appunto necessario perché gli elementi reali della soluzione si preparino e si sviluppino, dato che la crisi è talmente grave e domanda mezzi così eccezionali, che solo chi ha visto l’inferno può decidersi ad impiegarli senza tremare ed esitare.
§74 Passato e presente. L’autocritica e l’ipocrisia dell’autocritica. È certo che l’autocritica è diventata una parola di moda. Si vuole, a parole, far credere che alla critica rappresentata dalla «libera» lotta politica nel regime rappresentativo, si è trovato un equivalente, che di fatto, se applicato sul serio, è più efficace e produttivo di conseguenze dell’originale. Ma tutto sta lì: che il surrogato sia applicato sul serio, che l’autocritica sia operante e «spietata», perché in ciò è la sua maggiore efficacia: che deve essere spietata. Si è trovato invece che l’autocritica può dar luogo a bellissimi discorsi, a declamazioni senza fine e nulla più: l’autocritica è stata «parlamentarizzata». Poiché non è stato osservato finora che distruggere il parlamentarismo non è così facile come pare.
Il parlamentarismo «implicito» e «tacito» è molto più pericoloso che non quello esplicito, perché ne ha tutte le deficienze senza averne i valori positivi. Esiste spesso un regime di partito «tacito», cioè un parlamentarismo «tacito» e «implicito» dove meno si crederebbe. È evidente che non si può abolire una «pura» forma, come è il parlamentarismo, senza abolire radicalmente il suo contenuto, l’individualismo, e questo nel suo preciso significato di «appropriazione individuale» del profitto e di iniziativa economica per il profitto capitalistico individuale. L’autocritica ipocrita è appunto di tali situazioni. Del resto la statistica dà l’indizio dell’effettualità della posizione. A meno che non si voglia sostenere che è sparita la criminalità, ciò che del resto altre statistiche smentiscono e come!
Tutto l’argomento è da rivedere, specialmente quello riguardante il regime dei partiti e il parlamentarismo «implicito», cioè funzionante come le «borse nere» e il «lotto clandestino» dove e quando la borsa ufficiale e il lotto di Stato sono per qualche ragione tenuti chiusi.
Teoricamente l’importante è di mostrare che tra il vecchio assolutismo rovesciato dai regimi costituzionali e il nuovo assolutismo c’è differenza essenziale, per cui non si può parlare di un regresso; non solo, ma di dimostrare che tale «parlamentarismo nero» è in funzione di necessità storiche attuali, è «un progresso», nel suo genere; che il ritorno al «parlamentarismo» tradizionale sarebbe un regresso antistorico, poiché anche dove questo «funziona» pubblicamente, il parlamentarismo effettivo è quello «nero».
Teoricamente mi pare si possa spiegare il fenomeno nel concetto di «egemonia», con un ritorno al «corporativismo», ma non nel senso «antico regime», nel senso moderno della parola, quando la «corporazione» non può avere limiti chiusi ed esclusivisti, come era nel passato; oggi è corporativismo di «funzione sociale», senza restrizione ereditaria o d’altro (vedi sotto).
[La frase, interrotta a questo punto, continua nel § 76 ndc]
§76 Passato e presente (continua il penultimo §) … genere (che del resto era relativa anche nel passato, in cui il carattere più evidente era quello del «privilegio legale»).
Il parlamentarismo «nero» pare un argomento da svolgere con certa ampiezza, anche perché porge l’occasione di precisare i concetti politici che costituiscono la concezione «parlamentare». I raffronti con altri paesi, a questo riguardo, sono interessanti: per esempio, la liquidazione di Leone Davidovi non è un episodio della liquidazione «anche» del parlamento «nero» che sussisteva dopo l’abolizione del parlamento «legale»?
Fatto reale e fatto legale. Sistema di forze in equilibrio instabile che nel terreno parlamentare trovano il terreno «legale» del loro equilibrio «più economico» e abolizione di questo terreno legale, perché diventa fonte di organizzazione e di risveglio di forze sociali latenti e sonnecchianti; quindi questa abolizione è sintomo (o previsione) di intensificarsi delle lotte e non viceversa. Quando una lotta può comporsi legalmente, essa non è certo pericolosa: diventa tale appunto quando l’equilibrio legale è riconosciuto impossibile. (Ciò che non significa che abolendo il barometro si abolisca il cattivo tempo).
§75 Passato e presente. Convinzione ogni giorno più radicata che non meno delle iniziative conta il controllo che l’iniziativa sia attuata, che mezzi e fini coincidano perfettamente (sebbene non sia ciò da intendere materialmente) e che si può parlare di volere un fine solo quando si sanno predisporre con esattezza, cura, meticolosità, i mezzi adeguati, sufficienti e necessari (né più né meno, né di qua né di là dalla mira).
Convinzione anche radicata che poiché le idee camminano e si attuano storicamente con gli uomini di buona volontà, lo studio degli uomini, la scelta di essi, il controllo delle loro azioni è altrettanto necessario che lo studio delle idee, ecc. Perciò ogni distinzione tra il dirigere e l’organizzare (e nell’organizzare è compreso il «verificare» o controllare) indica una deviazione e spesso un tradimento.
§77 Passato e presente. Viene spesso osservato come un’incongruenza e un sintomo di ciò che la politica di per sé pervertisce gli animi, il fatto che dopo una rottura «si scopre» contro il transfuga o il traditore un mucchio di malefatte che prima pareva si ignorassero. Ma la quistione non è così semplice.
In primo luogo la rottura è di solito un lungo processo, del quale solo l’ultimo atto si rivela al pubblico: in questa «istruttoria» si raccolgono tutti i fatti negativi ed è naturale che si cerchi di mettere il «transfuga» in condizioni di torto anche immediato, cioè si finge di essere «longanimi» per mostrare che la rottura era proprio necessaria e inevitabile. Pare che ciò sia abbastanza comprensibile politicamente. Anzi mostra come l’appartenenza a un partito sia ritenuta essere importante e si decida l’atto risolutivo solo quando la misura è colma. Che l’enumerazione dei «fatti» sia facile «dopo» è dunque chiaro: essa non è che il rendere pubblico un processo che privatamente durava già da un pezzo.
In secondo luogo, è anche chiaro che tutta una serie di fatti passati può essere illuminata da un ultimo fatto in modo incontrovertibile. Tizio frequenta quotidianamente una casa: niente di notevole, finché non si viene a sapere, per esempio, che quella tal casa è un covo di spionaggio e Tizio è una spia. Evidentemente chi avesse segnato tutte le volte che Tizio si è recato in questa casa, può enumerare quante volte Tizio si è incontrato con delle spie consapevolmente, senza poter recar sorpresa in nessuno.
§78 Passato e presente. Molti spunti raccolti in questa rubrica di «Passato e presente», in quanto non hanno una portata «storica» concreta, con riferimenti cioè a fatti particolari, possono essere raccolti insieme sul modello dei Ricordi politici e civili del Guicciardini. L’importante è di dar loro la stessa essenzialità e pedagogica universalità e chiarezza, ciò che a dire il vero non è poco, anzi è il tutto, sia stilisticamente, sia teoricamente, cioè come ricerca di verità.
§79 Passato e presente. È stato osservato che è preferibile il briccone allo sciocco, perché col briccone si può venire a patti e fargli fare il galantuomo per tornaconto, ma dallo sciocco… sequitur quodlibet. È anche vero che il briccone è preferibile al semibriccone. In realtà nella vita non si incontrano mai bricconi dichiarati, tutti d’un pezzo, di carattere, per così dire, ma solo semibricconi, ti vedo e non ti vedo, dalle azioni ambigue, che riuscirebbero sempre a giustificare facendosi applaudire. È da pensare che il briccone sia un’invenzione romantica, oppure sia tale solo quando si incontra con la stupidaggine (ma allora è poco pericoloso perché si scopre da sé).
È da osservare che il briccone vero è superiore al galantuomo; infatti: il briccone può anche essere «galantuomo» (cioè può «fare» il galantuomo), mentre il galantuomo non fa bricconerie in nessun caso e per questo appunto è «galantuomo». Stupido davvero chi si aspetta di aver che fare con bricconi dichiarati, patenti, indiscutibili: invece si ha anche troppo spesso a che fare coi semibricconi, che pertanto sono essi i… veri ed unici bricconi, quelli della realtà quotidiana.
Per il rapporto «sciocco-briccone» è da ricordare il rapporto «sciocco‑intelligente», nel senso che l’intelligente può fingersi sciocco e riuscire a farsi credere tale, ma lo sciocco non può fingersi intelligente e farsi credere tale, a meno che non trovi gente più sciocca di lui, ciò che non è difficile.
§38 Note di cultura italiana. 1) La scienza e la cultura. Le correnti filosofiche idealistiche (Croce e Gentile) hanno determinato un primo processo di isolamento degli scienziati (scienze naturali o esatte) dal mondo della cultura. La filosofia e la scienza si sono staccate e gli scienziati hanno perduto molto del loro prestigio. Un altro processo di isolamento si è avuto per il nuovo prestigio dato al cattolicesimo e per il formarsi del centro neoscolastico. Così gli scienziati «laici» hanno contro la religione e la filosofia più diffusa: non può non avvenire un loro imbozzolamento e una «denutrizione» dell’attività scientifica che non può svilupparsi isolata dal mondo della cultura generale.
D’altronde: poiché l’attività scientifica è in Italia strettamente legata al bilancio dello Stato, che non è lauto, all’atrofizzarsi di uno sviluppo del «pensiero» scientifico, della teoria, non può per compenso neanche aversi uno sviluppo della «tecnica» strumentale e sperimentale, che domanda larghezza di mezzi e di dotazioni.
Questo disgregarsi dell’unità scientifica, del pensiero generale, è sentito: si è cercato di rimediare elaborando, anche in questo campo, un «nazionalismo» scientifico, cioè sostenendo la tesi della «nazionalità» della scienza. Ma è evidente che si tratta di costruzioni esteriori estrinseche, buone per i Congressi e le celebrazioni oratorie, ma senza efficacia pratica. E tuttavia gli scienziati italiani sono valorosi e fanno, con pochi mezzi, sacrifici inauditi e ottengono risultati mirabili.
§43 Nozioni enciclopediche. Riscossa. Deve essere d’origine militare e francese. Il grido di battaglia dell’esercito di Carlo VIII a Fornovo era appunto: «Montoison à la recousse!» Nel linguaggio militare francese «recousse o rescousse» indicava un nuovo attacco e «A la rescousse!» si gridava in battaglia per domandare soccorsi.
§12 Argomenti di coltura.Spesso, in queste note, è stato fatto riferimento alla Scoperta dell’America del Pascarella come documento di una determinata corrente di coltura folcloristico‑popolare.
§29 Argomenti di coltura. L’ossicino di Cuvier. Il principio di Cuvier, della correlazione tra le singole parti organiche di un corpo, per cui da una particella di esso (purché integra in sé) si può ricostruire l’intero corpo (tuttavia è da rivedere bene la dottrina di Cuvier, per esporre con esattezza il suo pensiero), è certo da inserire nella tradizione del pensiero francese, nella «logica» francese ed è da connettere col principio dell’animale‑macchina. Non importa vedere se nella biologia il principio possa dirsi ancora valido in tutto; ciò non pare possibile (per esempio è da ricordare l’ornitorinco, nella cui struttura non c’è «logica» ecc.); è da esaminare se il principio della correlazione sia utile, esatto e fecondo nella sociologia, oltre la metafora. Pare da rispondere nettamente di sì.
Ma occorre intendersi: per la storia passata, il principio della correlazione (come quello dell’analogia) non può sostituire il documento, cioè non può dare altro che storia ipotetica, verosimile ma ipotetica. Ma diverso è il caso dell’azione politica e del principio di correlazione (come quello d’analogia) applicato al prevedibile, alla costruzione di ipotesi possibili e di prospettive. Si è appunto nel campo dell’ipotesi e si tratta di vedere quale ipotesi sia più verosimile e più feconda di convinzioni e di educazione.
È certo che quando si applica il principio di correlazione agli atti di un individuo o anche di un gruppo, c’è sempre il rischio di cadere nell’arbitrio: gli individui e anche i gruppi non operano sempre «logicamente», «coerentemente», consequenziariamente ecc.; ma è sempre utile partire dalla premessa che così operino.
Posta la premessa dell’«irrazionalità» dei motivi d’azione, essa non serve a nulla; può solo avere una portata polemica per poter dire come gli scolastici: «ex absurdo sequitur quodlibet». Invece la premessa della razionalità e quindi della «correlazione» o dell’analogia ha una portata educativa, in quanto può servire ad «aprir gli occhi agli ingenui» e anche a persuadere il «preopinante» se è in buona fede e sbaglia per «ignoranza» ecc.