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Liolà è una commedia di Luigi Pirandello scritta nel
1916 durante la prima guerra mondiale, in un momento molto doloroso
per la vita dell'autore: il figlio era detenuto in un campo di
prigionieri di guerra e la moglie cadeva in sempre più
frequenti crisi della sua malattia mentale. L'opera invece,
nonostante questa angosciosa condizione della vita dell'autore,
è molto giocosa ed allegra, quasi spensierata, al punto che
l'autore stesso dirà «è così gioconda che
non pare opera mia».
La commedia fu messa in scena per la prima volta il 4 novembre 1916
al Teatro Argentina di Roma con la Compagnia di Angelo Musco.
Poiché era scritta totalmente in lingua siciliana, all'inizio
pubblico e critica avevano molte difficoltà nel comprendere i
dialoghi. Questo inconveniente convinse l'autore ad inserire nel
testo una traduzione in italiano della commedia.
La vicenda di Liolà è ispirata ad un episodio del
capitolo IV del romanzo di Pirandello Il fu Mattia Pascal.
Ha per protagonista Neli Schillaci, detto Liolà. Nome e
soprannome erano già stati attribuiti ad un altro
personaggio: Neli Tortorici, nella novella La mosca.
Liolà è un personaggio spensierato e vagabondo,
appassionato per il canto e la poesia, sempre in sintonia con il
mondo e la natura.
Trama
Atto I
L'azione è ambientata nella campagna agrigentina, a
settembre. Nella prima scena si vedono delle contadine intente a
schiacciare mandorle nel podere della zia del protagonista,
sorvegliate dal cugino di quest'ultima, il ricco zio Simone Palumbo.
Quest'ultimo è in pena perché, nonostante quattro anni
di matrimonio in seconde nozze con la giovane Mita, non ha ancora un
figlio a cui lasciare la "roba", cioè tutti i suoi averi. Su
di lui e su questa sua ossessione convergono le trame dei giovani
Liolà, Tuzza e Mita. Tuzza è la figlia di zia Croce,
la proprietaria del podere, mentre Liolà è uno
spensierato bracciante. È un grande seduttore, un
dongiovanni, tanto che ha reso madri tre ragazze, tenendosi poi i
figli ed affidandoli alla madre, zia Ninfa. Mita è un'orfana
che zio Simone aveva preso in moglie sperando così di
coronare il sogno di un erede: la speranza delusa causa ora il
disprezzo per la moglie accusata di una sua presunta
sterilità.
Tuzza, per far dispetto a Mita, che prima delle nozze aveva una
tresca con Liolà, si lascia sedurre da quest'ultimo e ne
rimane incinta. Liolà allora si sente in dovere di riparare
al torto fatto e chiede la mano a Tuzza, la quale tuttavia rifiuta.
Essa, infatti, non vuole un marito che "sarebbe di tutte". Con la
complicità della madre, invece, tenta di far riconoscere il
figlio dallo zio, vecchio ma ricco.
Atto II
Nel secondo atto lo zio Simone, ormai raggirato da Tuzza che lo ha
convinto della sua paternità, con fierezza grida alla moglie
che il figlio di Tuzza è suo e che al suo erede
lascerà tutte le sue proprietà.
Per fuggire dalle ire del marito, Mita si rifugia nella casa di zia
Gesa, vicina di casa di Liolà. Quest'ultimo è legato a
Mita dal rancore nei confronti di Tuzza: lui perché offeso
dal rifiuto delle nozze riparatrici, lei perché con l'inganno
Tuzza le sta portando via il marito e i suoi averi.
Liolà allora offre alla ragazza le sue risorse di amante
prolifico per dare allo zio Simone l'erede tanto voluto; lei
dapprima rifiuta ma la sera, gli apre la porta di casa.
Atto III
Nel terzo atto, che si svolge un mese dopo gli avvenimenti
precedenti, nel periodo della vendemmia, zio Simone annuncia
pubblicamente che la moglie gli ha dato finalmente un figlio
legittimo che si va ad aggiungere a quello illegittimo di Tuzza: in
realtà nessuno dei due gli appartiene veramente come padre.
A questo punto il vecchio vorrebbe che Liolà prendesse in
moglie Tuzza, ma lui rifiuta, perché sposandola avrebbe perso
tutta la sua spensieratezza ed affidando quindi anche questo
ennesimo figlio alla madre.
Tuzza, furibonda, si scaglia addosso a Liolà con un coltello,
riuscendo però solo a ferirlo leggermente.
L'opera nella critica
Antonio Gramsci fece notare nell'Avanti! che l'opera non ebbe molto
successo perché il pubblico, nel finale, voleva "il sangue o
il matrimonio". Aggiunse anche, però, che quest'opera
« è il prodotto migliore dell'energia letteraria di
Luigi Pirandello, è una farsa che si riattacca ai drammi
satireschi della Grecia antica, Mattia Pascal, il melanconico essere
moderno, vi diventa Liolà, l'uomo della vita pagana, pieno di
robustezza morale e fisica »
(Antonio Gramsci)
Temi trattati e significato dell'opera
La società contadina descritta da Pirandello nella commedia,
richiama, per certi versi le tematiche verghiane, quelle
caratterizzate dalla brama di possesso per le ricchezze materiali,
per la terra, per la roba.
In questo mondo rurale, piccolo nel suo egoismo e ipocrisia,
grandeggia e agisce da elemento sovvertitore la figura panica di
Liolà, un semplice bracciante che, senza alcun interesse per
il benessere materiale, vive senza remore la sua sessualità,
sconvolgendo allegramente e senza neppure accorgersene, le regole
grette e meschine della morigerata società in cui vive.
Come in altre opere di Pirandello, proprio colui che appare il
colpevole trasgressore delle norme sociali è invece il giusto
e generoso riparatore dei torti subiti da chi è stato
ingannato: aiutando Mita ad essere riammessa in casa del marito,
mettendola incinta quasi per burla, Liolà, seguendo
spensieratamente la sua natura, ristabilisce la giustizia.
Versioni successive
Nel 1935 venne portata in scena una riduzione di Liolà in
dialetto napoletano, adattata da Peppino De Filippo con la
partecipazione di Luigi Pirandello, che assistette anche alle prove.
La prima avvenne al Teatro Odeon di Milano il 21 maggio, con Peppino
nel ruolo di Liolà, Eduardo in quello di Don Emilio
(trasposizione dello Zio Simone) mentre Titina De Filippo nel
corrispettivo di Tuzza. La scena venne spostata dalla campagna
agrigentina a quella amalfitana.