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La Battaglia di Fornovo ebbe luogo il 6 luglio 1495 durante le
Guerre Italiane. In essa si affrontarono l'esercito di Carlo VIII di
Francia - composto da francesi, mercenari svizzeri e un nutrito
contingente di italiani - e quello della Lega Antifrancese - formato
dagli eserciti di Milano e Venezia, per la gran parte composti di
mercenari, italiani, dalmati, greci e tedeschi, ma anche da alcune
unità di leva. Lo scontro, breve (circa un'ora) ma sanguinoso
(complessivamente circa tremila morti), ebbe un risultato incerto.
Prologo
Carlo VIII sognava una sua crociata contro gli infedeli e la
riconquista di Gerusalemme. Per attuare questo piano pensò di
conquistare il Regno di Napoli, verso il quale vantava nebulosi
diritti per via della nonna paterna, Maria d'Angiò
(1404–1463), al fine di poter disporre di una base per le crociate
in terra santa.
Per avere mani libere in Italia, Carlo stipulò patti rovinosi
con i vicini: a Enrico VII venne dato del denaro, a Ferdinando II di
Aragona venne dato il Rossiglione e a Massimiliano I vennero dati
l'Artois e la Franca contea.
Gli stati italiani erano abituati ad assoldare bande di mercenari
tramite contratti detti "condotte", stipulati tra le signorie e i
cosiddetti condottieri. Le tattiche di battaglia miravano quindi a
minimizzare i rischi e a catturare facoltosi prigionieri; l'aspetto
economico era quindi dominante. Questo modo di guerreggiare si
dimostrò perdente contro le motivate truppe francesi e
spagnole che si apprestavano a sommergere la penisola.
La campagna
Carlo VIII era in buoni rapporti con le due potenze del nord Italia,
Milano e Venezia, ed entrambe lo avevano incoraggiato a far valere
le proprie pretese sul Regno di Napoli. Così ritenne di avere
il loro appoggio contro Alfonso II di Napoli e contro il pretendente
rivale che era Ferdinando II di Aragona, Re di Spagna. Alla fine di
agosto del 1494 Carlo VIII condusse un potente esercito francese con
un grosso contingente di mercenari svizzeri e la prima formazione di
artiglieria mai vista in Italia. Ottenne il libero passaggio da
Milano, ma venne osteggiato da Firenze e da Papa Alessandro VI.
Lungo la via per Napoli, Carlo distrusse ogni piccolo esercito che
il Papa ed il regno di Napoli gli mandarono contro e distrusse ogni
città che gli resisteva. Questa brutalità
scioccò gli italiani, abituati alle guerre relativamente poco
sanguinose dei condottieri di allora.
Il 22 febbraio 1495 Carlo VIII, col suo generale Louis de la
Trémoille, entrò a Napoli praticamente senza
opposizione. La velocità e la violenza della campagna
lasciarono attoniti gli italiani. Specialmente i veneziani e il
nuovo duca di Milano, Ludovico Sforza, capirono che se Carlo non
fosse stato fermato, la penisola sarebbe presto diventata un'altra
provincia della Francia.
Il 31 marzo venne proclamata a Venezia una lega santa antifrancese:
i firmatari erano la Serenissima Repubblica di Venezia, il Duca di
Milano, il Papa, il re spagnolo, il re inglese e Massimiliano I. La
lega ingaggiò un condottiero veterano, Francesco II di
Gonzaga, Duca di Mantova per raccogliere un esercito ed espellere i
francesi dalla penisola. Dal 1º maggio questo esercito
incominciò a minacciare i presidi che Carlo aveva lasciato
lungo il suo tragitto per assicurarsi i collegamenti con la Francia.
Il 20 maggio Carlo lascia Napoli lasciando un presidio e proclamando
che il suo unico desiderio era un sicuro ritorno in Francia.
Come se non bastasse, l'esercito di Carlo venne colpito da un
misterioso morbo a Napoli. Mentre non è chiaro se la malattia
provenisse dal nuovo mondo o fosse una versione più virulenta
di una già esistente, la prima epidemia conosciuta di
sifilide scoppiò nella città. Il ritorno dell'esercito
francese verso nord diffuse la malattia in tutta Italia, e alla fine
in tutta Europa. La malattia venne quindi conosciuta in quasi tutta
Europa col nome di "Mal francese".
Preparazione
Il 27 giugno i veneziani e i loro alleati stabilirono il campo
vicino a Fornovo di Taro, circa 20 km a sud ovest di Parma, alla
badia della Ghiaruola. Secondo il Guicciardini l'esercito dei
cosiddetti "collegati" era composto per tre quarti da forze
veneziane comandate da Francesco II Gonzaga, affiancato da Alessio
Beccaguto, e dai due provveditori del senato veneto Luca Pisano e
Melchiorre Trevisan. A capo delle forze milanesi c'erano Galeazzo da
Sanseverino e Francesco Bernardino Visconti. L'esercito era composto
da 2500 cavalieri, 8000 fanti e 2000 stradiotti, una forza
mercenaria greco-albanese.
Carlo stava ritornando in Francia con un ricco bottino raccolto tra
Firenze, Roma e Napoli. Dopo una sosta a Pontremoli che venne
incendiata dai mercenari svizzeri i quali, contravvenendo ai patti,
si erano dati al saccheggio della città (si dice che il re
soggiornasse nel vicino abitato di Mignegno e che, per punizione,
abbia fatto trainare a braccia l'artiglieria sul passo della Cisa
dai mercenari fedifraghi), finalmente il 4 luglio i francesi
raggiunsero il villaggio di Fornovo discendendo lungo la valle del
Taro, trovando il passaggio bloccato dall'esercito della lega
accampato a nord del villaggio.
Il 4 luglio, Ercole d'Este, Duca di Ferrara, l'alleato più
forte di Carlo in Italia, gli comunicò che il senato
veneziano non aveva ancora autorizzato il provveditore di entrare in
battaglia. I francesi erano ansiosi vedendo il numero dei nemici
crescere di giorno in giorno senza avere la possibilità di
ricevere rinforzi. Carlo allora chiese libero passaggio. Come
riferisce il Guicciardini, la risposta dei collegati si fece
attendere; venne mandata una richiesta su come procedere a Milano,
dove risiedeva il duca Ludovico il Moro e un rappresentante per ogni
componente della lega[5]: Ludovico ed il rappresentante veneto erano
più propensi per lasciar passare il re francese[6] mentre il
rappresentante spagnolo invece era per l'attacco; per questo decise
di scrivere a Venezia.
Nel frattempo Melchiorre Trevisan, sapendo che la risposta non
sarebbe arrivata in tempo, decise che appena l'esercito francese si
fosse mosso sarebbe stato attaccato.
Carlo, dopo aver sentito i suoi consiglieri italiani, Gian Giacomo
Trivulzio e Francesco Secco, assieme ai nobili decise di combattere,
e mandò quaranta soldati per fare una ricognizione in campo
nemico. Questi vennero intercettati dagli Stradiotti.
L'esercito della lega era sul lato destro del fiume Taro a difesa di
Parma mentre i francesi decisero di stare sul lato sinistro. La
posizione francese era considerata buona per la difesa perché
i veneziani non avevano pulito il campo, e la pioggia aveva reso
impraticabile le rive del fiume per la cavalleria.
La battaglia
All'alba del 6 luglio, Carlo decise di muoversi perché le
provviste dei francesi stavano scarseggiando. Carlo divise
l'esercito in tre gruppi. Mise Gian Giacomo Trivulzio al comando
dell'avanguardia, che consisteva in trecento cavalieri, duecento
fanti leggeri, duecento soldati tedeschi dotati di picche circondati
da uomini con archibugi e asce. Poco dopo, il secondo gruppo,
comandato dal re. Questo gruppo consisteva in seicento cavalieri,
arcieri a cavallo e fanti tedeschi, la parte migliore dell'esercito
francese. Infine la retroguardia, comandata dal conte di Fois, con
quattrocento cavalieri e un centinaio di soldati. Il resto delle
picche componevano una falange non molto distante dalla linea dei
cavalieri. L'artiglieria proteggeva la prima linea sul davanti e la
seconda verso il fiume Taro.
Melchiorre Trevisan promise ai soldati della lega che il bottino
sottratto al regno di Napoli e trasportato dai francesi sarebbe
stato loro in caso di vittoria. Francesco Gonzaga divise le forze in
9 linee. Il suo piano di battaglia era di distrarre i primi due
gruppi francesi, attaccare in forze il gruppo di coda, generare
confusione tra i francesi e attaccare infine con le tre linee di
riserva il rimanente dell'esercito francese.
L'attacco frontale della cavalleria leggera fu intralciato dalle
condizioni del terreno, come previsto dai francesi, ed il risultato
fu incerto. Nel momento più delicato della battaglia, gli
Stradiotti videro che la guardia francese al bottino era impegnata
dalla cavalleria italiana e si gettarono alla ricerca di un facile
guadagno lasciando le posizioni loro assegnate. Quella che era una
battaglia che stava evolvendo lentamente verso il successo veneziano
si trasformò in uno scontro sanguinoso. L'artiglieria
francese era fuori gioco a causa del terreno. La riserva veneziana
entrò in battaglia. I francesi erano demoralizzati dal numero
dei nemici, ma i veneziani subirono molte diserzioni; molti
mercenari cercarono solo il guadagno personale scappando appena
raggiuntolo[8]. I provveditori veneziani e il conte Niccolò
di Pitigliano, che approfittò dell'occasione per liberarsi
dai francesi, cercarono di convincere molti fuggitivi a tornare
dicendo che la battaglia era quasi vinta[9].
Dopo più di un'ora di combattimento i francesi cercarono
rifugio su una collina. I veneziani disposti ad inseguirli erano
troppo pochi ed entrambi i contendenti si accamparono. I francesi
persero più di un migliaio di uomini, mentre i veneziani
più di duemila uomini, ma i nobili di entrambe le parti erano
isolati o morti. Re Carlo perse tutto il suo bottino, valutato in
più di 300.000 ducati. Venne dichiarata una tregua di un
giorno per seppellire i morti. I morti e anche i feriti vennero
spogliati dalla fanteria italiana e dagli abitanti locali.
La sera seguente, il Doge Agostin Barbarigo ed il Senato ricevettero
un rapporto nel quale veniva detto loro che l'esercito veneziano non
aveva perso, ma che il risultato della battaglia era incerto
perché c'erano state molte perdite e molti disertori e non
erano conosciute le perdite del nemico. L'intera città
pensò al peggio, ma il giorno successivo un ulteriore
rapporto descrisse l'estensione del saccheggio e la paura dei
francesi che supplicavano ora la tregua ora la pace. Comunque fu
concesso a Carlo di lasciare l'Italia indisturbato.
Vittoria o sconfitta?
L'esercito della Lega Antifrancese non ottenne l'annientamento
tattico del nemico nonostante fosse in superiorità numerica
ed ebbe circa il doppio delle perdite rispetto all'esercito regio -
ciò dovuto anche all'abitudine francese di uccidere i
cavalieri disarcionati contrariamente al codice bellico italiano che
prevedeva salva la vita, dietro riscatto, per il cavaliere caduto
dal destriero -. Questo impedisce di parlare di una chiara vittoria
tattica dei Collegati. Tuttavia nemmeno Carlo VIII poté
rivendicare un successo. Infatti l'esercito regio perse tra il dieci
e l'undici per cento dei suoi effettivi (mille morti su
nove/diecimila uomini) oltre che tutte le salmerie ed il tesoro
reale. Nel bottino dei Collegati figuravano anche l'elmo del re, la
sua raccolta personale di disegni erotici e due bandiere reali.
Il sovrano, dopo aver chiesto una tregua di tre giorni ai Collegati,
scappò dal campo di battaglia nella notte tra il sette e
l'otto luglio, allontanandosi dall'esercito avversario, il quale era
ancora perfettamente in grado di combattere e padrone del terreno;
questo, per la mentalità militare rinascimentale, era
sinonimo di vittoria. Le perdite di uomini e soprattutto di denaro
per pagare i mercenari, diedero un colpo definitivo all'efficienza
bellica dell'esercito francese.
La ritirata di Carlo VIII non fu verso la Francia, come comunemente
raccontato, ma verso Asti. Qui arrivò, il 15 luglio, dopo
aver percorso duecento chilometri in sette giorni, con la truppa
alla fame, a causa della perdita delle salmerie. Il re si chiuse in
città e rimase sordo alle richieste di aiuto del Duca
d'Orléans, asserragliato a Novara ed assediato dalla Lega
Antifrancese. Questo atteggiamento fu dovuto soprattutto al fatto
che non disponeva più né delle forze né del
denaro per affrontare una nuova battaglia campale ed infatti il suo
esercito non combatté più.
Infine il re di Francia si spostò a Torino dove
negoziò con Ludovico il Moro il ritorno in patria, prima che
i passi alpini divenissero impraticabili. Il 22 ottobre 1495 Carlo
lasciò Torino ed il 27 era a Grenoble. Si è molto
discusso su quale fosse l'obiettivo di Carlo VIII allo sbocco della
Cisa, alcuni sostengono Parma, altri il Piemonte, da usare come base
d'operazioni contro la Lombardia. È, però, innegabile
che la battaglia di Fornovo, riducendo drasticamente l'efficienza
bellica del suo esercito, rese al re impossibile qualsiasi ulteriore
azione offensiva nel Nord Italia.
Le conseguenze
Carlo lasciò l'Italia senza alcun guadagno. Morì due
anni e mezzo dopo lasciando alla Francia un grosso debito e perdendo
province che ritornarono francesi solo dopo secoli. La spedizione
promosse però contatti culturali tra Francia e Italia dando
energia alle arti e lettere francesi. Conseguenza importante fu
l'aver dimostrato come l'artiglieria potesse essere usata in modo
vincente anche in campo aperto e non solo come arma statica.
Per l'Italia le conseguenze furono catastrofiche. Ora l'Europa
intera sapeva, tramite i soldati francesi e tedeschi, che l'Italia
era una terra incredibilmente ricca e facilmente conquistabile
perché divisa e difesa soltanto da mercenari. L'Italia si
trasformò in un campo di battaglia per decenni e, ad
esclusione di Venezia, perse la propria indipendenza.