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Iosif Vissarionovič Džugašvili, in georgiano Ioseb Besarionis Dze
Jughašvili (Gori, 21 dicembre 1879, 6 dicembre del calendario
giuliano – Mosca, 5 marzo 1953), è stato uno statista,
politico e dittatore sovietico bolscevico conosciuto come Stalin
("acciaio"), Segretario Generale del Partito Comunista dell'URSS e
leader di tale Paese dal 1924 al 1953.
Nativo della Georgia, di umili origini, visse una avventurosa
giovinezza come rivoluzionario socialista di professione, prima di
assumere un ruolo importante di dirigente all'interno della fazione
bolscevica del Partito Operaio Socialdemocratico Russo, guidata da
Lenin. Capace organizzatore, dotato di grande energia e di durezza
di modi e di metodi, Stalin, strettamente fedele alle direttive di
Lenin, divenne uno dei principali capi della Rivoluzione d'ottobre e
del nuovo stato socialista: l'Unione Sovietica. Il suo ruolo e il
suo potere politico crebbero durante la Guerra civile russa in cui
svolse compiti politico-militari di grande importanza, entrando
spesso in rivalità con Lev Trockij.
Nonostante le critiche mossegli nell'ultima parte della sua vita da
Lenin e il duro contrasto con Trockij, Stalin alla morte del capo
bolscevico, assunse progressivamente, grazie alla sua abilità
organizzativa e politica e al ruolo di segretario generale del
partito, il potere supremo in Unione Sovietica. Dopo aver sconfitto
politicamente prima la sinistra di Trockij e quindi la destra di
Zinovev, Kamenev e Bucharin, Stalin adottò una prudente
politica di costruzione del "socialismo in un solo paese", mentre
nel campo economico mise in atto le politiche estremistiche di
interruzione della NEP, di collettivizzazione forzata delle campagne
e di industrializzazione mediante i Piani Quinquennali, lo
stakanovismo e la crescita dell'industria pesante.
A metà degli anni trenta, in una fase di superamento delle
difficoltà economiche e di crescita industriale, Stalin
iniziò il tragico periodo delle purghe e del Grande terrore
in cui progressivamente eliminò fisicamente, con un metodico
e spietato programma di repressione, tutti i suoi reali o presunti
avversari nel partito, nell'economia, nella scienza, nelle forze
armate, nelle minoranze etniche. Per rafforzare il suo potere e lo
stato sovietico contro possibili minacce esterne o interne di
disgregazione, Stalin organizzò un vasto sistema di campi di
detenzione e lavoro (GULag) in cui furono imprigionati in condizioni
miserevoli milioni di persone.
Nel campo della politica estera, Stalin, timoroso delle minacce
tedesche e giapponesi alla sopravvivenza dell'Unione Sovietica, in
un primo momento adottò una politica di collaborazione con
l'occidente secondo la dottrina della sicurezza collettiva; dopo
l'Accordo di Monaco, il dittatore, sospettoso delle potenze
occidentali e intimorito dalla potenza tedesca, preferì
ricercare un accordo temporaneo con Adolf Hitler che favorì
l'espansionismo sovietico verso occidente e i Paesi Baltici.
Colto di sorpresa dall'attacco iniziale tedesco con il quale la
Germania nazista violava il patto di non aggressione sottoscritto
dalle due potenze solo due anni prima, nonostante alcuni errori di
strategia militare nella fase iniziale della guerra, Stalin seppe
riorganizzare il Paese e l'Armata Rossa fino a ottenere, pur a costo
di gravi perdite militari e civili, la vittoria totale nella Grande
Guerra Patriottica. Il dittatore rivestì un ruolo di grande
importanza nella lotta contro il nazismo e nella sconfitta di
Hitler; le sue truppe, dopo aver liberato l'Europa Orientale
dall'occupazione tedesca, conquistarono Berlino e Vienna,
costringendo il Führer al suicidio.
Dopo la vittoria Stalin, divenuto detentore di un enorme potere in
Unione Sovietica e nell'Europa centro-orientale e assurto al ruolo
di capo indiscusso e prestigioso del comunismo mondiale, accrebbe il
suo dispotismo violento riprendendo politiche di terrore e di
repressione. Stalin morì per una emorragia cerebrale nel
1953, quando l'Unione Sovietica era diventata una grande potenza
economica, delle due superpotenze mondiali, dotata di armi nucleari,
e guida del mondo comunista mondiale.
Dal 1956, a partire dal XX Congresso del PCUS, Stalin, che era stato
oggetto di un vero e proprio culto della personalità nella
ultima parte della sua vita da parte dei dirigenti e dei
simpatizzanti del comunismo mondiale, è stato sottoposto a
pesanti critiche da parte di politici e storici per la sua
attività politica e per i suoi spietati metodi di governo.
Rivoluzionario di professione
Nacque nel 1879 da Vissarion Džugašvili (1853-1890) e da Ekaterina
Geladze (1858-1937), in una famiglia in cui il padre faceva il
calzolaio e la madre la lavandaia. Picchiato spesso dal padre,
Stalin ebbe per tutta la sua esistenza rapporti difficili con la
propria famiglia; alcuni studiosi hanno ritenuto che tali conflitti
famigliari abbiano provocato in lui diverse turbe psicologiche;
tuttavia, queste affermazioni furono smentite dal diretto
interessato che, di fronte a una precisa domanda del biografo Emil
Ludwig, rispose: "Assolutamente no. I miei genitori non mi
maltrattavano affatto". In seguito, in un suo manuale di marxismo
scolastico, Stalin parlò del padre come un classico esempio
di proletario con una coscienza ancora "piccolo-borghese".
L'infanzia di "Soso" (diminutivo georgiano di Josif) non fu priva di
momenti critici per la sua salute fisica, dapprima per una forma
acuta di varicella e poi quando, a dieci anni, fu investito e
travolto da un cavallo nel corso di una festa di paese: rimase
gravemente ferito al braccio sinistro, perdendone parte della
capacità di articolazione. Giovanissimo poté
frequentare, grazie a una borsa di studio, il seminario teologico
ortodosso di Tbilisi.
Il contatto, però, con le idee e con l'ambiente dei deportati
politici lo avvicinò alle dottrine socialiste. Entrato,
così, nel movimento marxista clandestino di Tbilisi nel 1898,
allora rappresentato dal Partito socialdemocratico (POSDR),
lavorò per qualche tempo al locale osservatorio astronomico.
Ma soprattutto cominciò, da allora, un'intensa
attività politica di propaganda e di preparazione
insurrezionale, che lo portò ben presto a conoscere il rigore
della polizia del regime.
Arrestato nel 1900 e continuamente sorvegliato, Stalin nel 1902
lasciò la sua città per stabilirsi a Batumi, dove
però venne subito imprigionato e condannato a un anno di
carcere, seguito da un triennio di deportazione in Siberia. Fuggito
nel 1904, tornò a Tbilisi e nei mesi successivi
partecipò con energia e notevole capacità
organizzativa al movimento insurrezionale, che vide la formazione
dei primi soviet di operai e di contadini. Nel novembre del 1905,
dopo aver pubblicato il suo primo saggio, A proposito dei dissensi
nel partito, divenne direttore del periodico Notiziario dei
lavoratori caucasici e in Finlandia, alla conferenza bolscevica di
Tampere, incontrò per la prima volta Lenin, accettandone le
tesi sul ruolo di un partito marxista compatto e rigidamente
organizzato come strumento indispensabile per la rivoluzione
proletaria.
Spostatosi a Baku, dove fu in prima linea nel corso degli scioperi
del 1908, Stalin venne di nuovo arrestato e deportato in Siberia;
riuscì a fuggire ma fu ripreso e internato nel 1913 a Kurejka
sul basso Jenisej, dove rimase per quattro anni, fino al marzo del
1917. Nei brevi periodi di attività clandestina,
riuscì progressivamente ad imporre la sua personalità
pragmatica e le sue capacità organizzative (nonostante un
approccio talvolta eccessivamente "ruvido" che i compagni di partito
gli rimproveravano) e ad emergere come dirigente di livello
nazionale, tanto da essere chiamato da Lenin nel 1912 a far parte
del Comitato centrale del partito.
Protagonista nella Rivoluzione bolscevica e nella Guerra civile
Nello stesso anno contribuì a far rinascere a San Pietroburgo
la Pravda, mentre definiva, nel saggio Il marxismo e il problema
nazionale, le sue posizioni teoriche (non sempre, però, in
linea con quelle di Lenin, di cui non comprendeva la battaglia
contro i deviazionisti, né la decisione di prender parte alle
elezioni per la Duma). Tornato a San Pietroburgo (nel frattempo
ribattezzata Pietrogrado) subito dopo l'abbattimento
dell'assolutismo zarista, Stalin, insieme a Lev Kamenev e a
Murianov, assunse la direzione della Pravda, appoggiando il governo
provvisorio per la sua azione rivoluzionaria contro i residui
reazionari. Ma questa linea fu sconfessata dalle Tesi di aprile di
Lenin e dal rapido radicalizzarsi degli eventi. Nelle decisive
settimane di conquista del potere da parte dei bolscevichi Stalin,
membro del comitato militare, non apparve in primo piano e solo il 9
novembre 1917 entrò a far parte del nuovo governo provvisorio
(il Consiglio dei commissari del popolo) con l'incarico di occuparsi
degli affari delle minoranze etniche. A lui si deve l'elaborazione
della Dichiarazione dei popoli della Russia, che costituisce un
documento fondamentale del principio di autonomia delle varie
nazionalità nell'ambito dello Stato sovietico.
Membro del Comitato esecutivo centrale, Stalin fu nominato,
nell'aprile del 1918, plenipotenziario per i negoziati con
l'Ucraina. Nella lotta contro i generali "bianchi", fu incaricato di
occuparsi del vettovagliamento delle forze bolsceviche sul fronte di
Tsaritsyn (poi Stalingrado, oggi Volgograd). In questa circostanza
dimostrò grande energia e cominciò a organizzare un
suo gruppo di fedeli seguaci; spesso in contrasto con le direttive
di Trockij, Stalin venne infine richiamato a Mosca da Lenin che
tuttavia apprezzò la sua capacità di direzione e la
sua spietate decisione. Lenin si preoccupò della crescente
rivalità tra Stalin e Trockij e richiese ad entrambi di
comporre le loro divergenze e collaborare per la vittoria della
Rivoluzione bolscevica; in effetti Stalin in questa fase
elogiò ripetutamente in alcuni discorsi l'operato e
l'efficienza di Trockij e sembrò mosso dal desiderio di
riavvicinarsi al capo dell'Armata Rossa.
Considerato da Lenin e anche da Trockij il dirigente bolscevico
più duro e efficiente, Stalin venne inviato successivamente
negli Urali dove contribuì alla nomina del generale Sergeij
Kamenev al comando supremo, quindi nel maggio 1919 si recò a
Pietrogrado, dove denunciò e represse una presunta
cospirazione antibolscevica e organizzò la riconquista di
alcune piazzeforti. Infine partì il 3 ottobre 1919 per il
fronte sud, come commissario politico del Fronte meridionale, dove
riallacciò i rapporti con i suoi fedeli amici della Prima
armata a cavallo: Kliment Vorošilov, Grigorij Ordžonikidze,
Semën Budënnyj.
Durante la guerra sovietico-polacca Stalin, commissario politico del
Fronte Sud-occidentale del generale Egorov, inizialmente condivise
con Trockij le forti riserve sui progetti di offensiva verso il
cuore dell'Europa promossi da Lenin; dubbioso sulla
possibilità di una insurrezione socialista in Polonia o in
Germania, egli evidenziò invece come fosse prudente occuparsi
soprattutto della situazione in Crimea e nel Kuban dove le forze
bianche avevano ripreso la loro attività e minacciavano la
sicurezza delle retrovie del suo fronte. Alla fine però si
imposero i progetti strategici di Lenin e del generale Michail
Tuchačevskij e Stalin finì per votare disciplinatamente nel
Politburo a favore dell'offensiva su Varsavia.
Durante la battaglia, che terminò con la sconfitta
dell'Armata Rossa, sorse un nuovo violento contrasto con Trockij,
quando Stalin si rifiutò, in ragione dei reali pericoli sulle
sue comunicazioni ma anche per rivalità personale, di
distaccare una parte delle sue forze in appoggio al generale
Tuchačevskij e decise di concentrarle invece nella inutile conquista
di Lvov. Nel X Congresso del partito del 1921 la condotta e le
decisioni di Stalin vennero criticate in una sessione a porte
chiuse, nonostante le spiegazioni che egli fornì del suo
operato. Le controversie sulle responsabilità nella
sconfitta di Varsavia sarebbero continuate fino agli anni trenta e
concorsero a rovinare i rapporti tra Stalin e il generale
Tuchačevskij.
Lenin espresse anche esplicite riserve nei suoi confronti,
manifestate nel testamento politico in cui accusava Stalin di
anteporre le proprie ambizioni personali all'interesse generale del
movimento. Lenin era preoccupato che il governo perdesse sempre
più la sua matrice proletaria, e diventasse esclusivamente
un'ala dei burocrati di partito, sempre più lontani dalla
generazione vissuta tanto tempo in clandestinità prima delle
rivolte del 1917. Oltretutto intravvedeva un futuro dominio
incontrastato del Comitato Centrale, ed è per questo che
propose nei suoi ultimi scritti una riorganizzazione dei sistemi di
controllo, auspicandone una formazione prevalentemente operaia che
potesse tenere a bada la vasta e nascente nomenclatura di funzionari
di partito.
Il segretario generale
Nominato nel 1922 segretario generale del Comitato centrale, Stalin,
unitosi a Zinov'ev e Kamenev (la famosa troika), seppe trasformare
questa carica, di scarso rilievo all'origine, in un formidabile
trampolino di lancio per affermare il suo potere personale
all'interno del partito dopo la morte di Lenin (1924). Fu allora che
nel contesto di una Russia devastata dalla guerra mondiale e dalla
guerra civile, con milioni di cittadini senza tetto e letteralmente
affamati, diplomaticamente isolata in un mondo ostile,
scoppiò violento il dissidio con Lev Trockij, ostile alla
Nuova Politica Economica e sostenitore dell'internazionalizzazione
della rivoluzione. Stalin sosteneva al contrario che la "rivoluzione
permanente" fosse una pura utopia e che l'Unione Sovietica dovesse
puntare sulla mobilitazione di tutte le proprie risorse al fine di
salvaguardare la propria rivoluzione (teoria del "socialismo in un
Paese solo").
Trotsky accusava Stalin e il partito, assieme alla crescente
opposizione creatasi in seno al partito (tra cui i Decei, critici
del Centralismo Democratico), che ci volesse invece un rinnovamento
democratico all'interno degli organi dirigenti, che sempre
più venivano scelti su matrice non elettiva, dall'alto verso
il basso, contrariamente agli spiriti che accesero la rivoluzione.
Espresse queste sue posizioni al XIII congresso del partito, ma la
sua accusa venne respinta e Trotsky venne sconfitto, oltretutto
accusato da Stalin e dal "triumvirato" (Stalin, Kamenev, Zinov'ev)
di "frazionismo", tendenza contraria alla direzione "monolitica"
presa dal partito dal X congresso. Trockij venne isolato anche a
causa delle norme di emergenza (prese precedentemente dallo stesso
Lenin nel pieno della guerra civile sempre nell'ambito del X
congresso) tese a strutturare un partito compatto, eliminando le
tendenze frazionistico-scissioniste.
Le tesi di Stalin trionfarono soltanto nel 1926, quando infine il
Comitato centrale si schierò sulle posizioni staliniane,
isolando Trockij (con il quale, nel corso del dibattito, avevano
finito per associarsi anche Kamenev e Zinov'ev).
Nel corso di questi anni sia l'Opposizione Operaia di Aleksandra
Kollontaj, che si batteva per il ritorno alla democrazia dei Soviet
contro la burocratizzazione, sia l'Opposizione di Sinistra, guidata
da Trockij, e la sua momentanea trasformazione in Opposizione
Unificata, con Kamenev e Zinov'ev, che poi capitolarono, furono
sconfitte con i metodi più brutali di intimidazione e di
persecuzione, dalla propaganda perniciosa di falsità da parte
dell'apparato del partito dominato dagli staliniani, all'irruzione
nelle sedi di partito, che ospitavano riunioni ed assemblee, con la
devastazione delle stesse ed il pestaggio degli intervenuti.
Lo psichiatra russo Vladimir Bechterev nel 1927 visitò Stalin
e gli diagnosticò una sindrome paranoide. Poco tempo dopo
morì in circostanze non chiarite. Stalin avrebbe ordinato
l'assassinio del medico perché non d'accordo con la diagnosi.
Lo stalinismo
Stalin diede anche alcuni contributi allo sviluppo teorico del
marxismo-leninismo, in particolare sul rapporto tra socialismo e
movimenti nazionalisti. La prassi politica realizzatasi nei
trent'anni del suo governo è stata definita dai suoi
oppositori (in particolare trotskisti e anti-comunisti) "stalinismo"
al fine di mostrare una sua parziale differenza rispetto alla
formulazione classica del marxismo-leninismo. Partendo dal concetto
leninista di "dittatura del proletariato", secondo il quale dopo la
rivoluzione e prima della realizzazione di una società
comunista compiuta sarebbe necessaria una fase politica di
transizione in cui i mezzi dello stato conquistato dai lavoratori
vengano da essi impiegati contro la resistenza della minoranza
capitalista sconfitta, e dalla teoria dell'estinzione dello stato
una volta terminato il periodo della dittatura del proletariato,
Stalin seguì la teoria della violenza rivoluzionaria
crescente all'interno del periodo di transizione già
elaborata da Lenin.
La prassi politica realizzatasi nei trent'anni del suo governo
è stata definita "stalinismo". Le caratteristiche distintive
della gestione stalinista del potere in politica interna sono il
culto della personalità e l’impiego del terrore (Gianfranco
Pasquino. Dizionario di politica, Gruppo Editoriale l’Espresso.Pag
498), partendo dal concetto leninista di "dittatura del
proletariato". Lenin, in "Stato e Rivoluzione", aveva previsto che
immediatamente dopo la presa del potere rivoluzionario l'apparato di
repressione dello stato, fin dall'inizio del periodo di transizione,
avrebbe iniziato a indebolirsi fino ad estinguersi una volta
raggiunto il comunismo. Di fatto la pratica staliniana di governo
andava nella direzione opposta: una crescita abnorme dell'apparato
repressivo dello stato. Questo creava dei problemi teorici e pratici
di difficile soluzione: che socialismo poteva essere quello che si
serviva di un apparato repressivo di tal fatta? Sul punto
"dell'intensificarsi della lotta di classe man mano che si procedeva
verso il socialismo" Stalin fu chiaro. Disse nel Plenum del
febbraio-Marzo 1937:”Quanto più andremo avanti, quanti
più successi avremo, tanto più i residui delle classi
sfruttatrici distrutte diverranno feroci”. (Storia dell’Unione
Sovietica. Giuseppe Boffa. Arnaldo Mondadori Editore L’Unità.
P,252).
Con il 1928 iniziò la cosiddetta "era di Stalin". Da
quell'anno infatti la vicenda della sua persona si identificò
con la storia dell'URSS, di cui fu l'onnipotente artefice fino alla
morte. Dopo aver posto bruscamente termine alla NEP con la
collettivizzazione forzata e la meccanizzazione dell'agricoltura e
soppresso il commercio privato (i kulaki arricchiti furono
declassati a semplici contadini dei kolchoz e quelli che si
opponevano avviati a campi di lavoro), fu dato avvio al primo piano
quinquennale (1928-32) che dava la precedenza all'industria pesante.
Circa la metà del reddito nazionale fu dedicata all'opera di
trasformazione di un Paese povero e arretrato in una grande potenza
industriale. Furono fatte massicce importazioni di macchinari e
chiamate alcune decine di migliaia di tecnici stranieri. Sorsero
nuove città per ospitare gli operai (che in pochi anni
passarono dal 17 al 33% della popolazione), mentre una fittissima
rete di scuole debellava l'analfabetismo e preparava i nuovi
tecnici.
Anche il secondo piano quinquennale (1933-37) diede la precedenza
all'industria che compì un nuovo grande balzo in avanti; ma
non altrettanto brillante fu il rendimento agricolo per cui, in
concomitanza con l'entrata in vigore di una nuova Costituzione
(1936), ne fu modificata la troppo rigida struttura. A quest'opera
indubbiamente gigantesca corrisposero tuttavia un ferreo
autoritarismo e un'implacabile intransigenza: ogni dissenso
ideologico fu condannato come "complotto".
Furono le terribili "purghe" degli anni trenta (successive al
misterioso assassinio di S. Kirov) che videro la condanna a morte o
a lunghi anni di carcere di quasi tutta la vecchia guardia
bolscevica, da Kamenev a Zinov'ev a Radek a Sokolnikov a Jurij
Pjatakov; da Bucharin e Rykov a G. Jagoda e a M. Tuchačevskij (1893
- 1938), in totale 35.000 ufficiali su 144.000 che componevano
l'Armata Rossa.
Secondo le stime del KGB (1960, rese note dopo la caduta dell'URSS)
681.692 persone vennero condannate a morte nel 1937-38 (353.074 nel
1937 e 328.018 nel 1938), 1.118 nel 1936 e 2.552 nel 1939 per reati
politici. Il totale di condanne a morte politiche tra il 1930 e il
1953 è, sempre secondo queste stime, di 786.098, anche se
molti storici le considerano sottostimate per diversi motivi.
Stalin e i suoi collaboratori giustificarono il bagno di sangue che
spazzò via dal PCUS ogni residuo di opposizione alla linea
Stalinista; operazione che privò, fra l'altro, l'Armata Rossa
di oltre la metà dei suoi comandanti più prestigiosi e
il partito dei dirigenti della generazione rivoluzionaria con il
timore di complotti e di moti reazionari, nonché con la
presenza di una "quinta colonna" borghese-fascista nei vertici
dell'esercito.
Venne intrapresa una lotta senza tregua contro i reali o presunti
nemici del socialismo o antipartito. Vennero allontanati dal potere
i più famosi leader della rivoluzione, Trotskij, Kamenev,
Zinovev, Bucharin, fino a giungere al culmine, coi processi di Mosca
e con l’eliminazione fisica di tutta la vecchia guardia
bolscevica,e, infine, di Trotskij(1940), già in esilio da
più di un decennio). Per dare un’idea dell’entità
della repressione, solo considerando i componenti del Politburo
degli gli anni 20, i seguenti Vecchi Bolschevichi, in gran parte
“compagni d’armi di Lenin” perirono nelle prughe: Lev Kamenev,
Nikolay Krestinsky Leon Trotsky, Nikolai Bukharin, Grigory Zinoviev,
Alexei Rykov Jānis Rudzutaks Grigori Sokolnikov, Nikolai
Uglanov,Vlas Chubar, Valerian Kuybyshev, Stanislav Kosior, Sergei
Syrtsov. Dei 139 membri e supplenti del Comitato centrale del
partito, eletti al XVII Congresso del 1934, nei due anni successivi
98 furono arrestati e fucilati. Dei 1.966 delegati con diritto di
voto o di consulenza, 1.108, cioè chiaramente più
della maggioranza, furono arrestati sotto l'accusa di delitti
controrivoluzionari. (dati del rapporto Krusciov).
Ammessa alla Società delle Nazioni nel 1934, l'URSS
avanzò proposte di disarmo generale e cercò di
favorire una stretta collaborazione antifascista sia fra i vari
Paesi sia al loro interno (politica dei "fronti popolari"). Nel 1935
concluse patti di amicizia e reciproca assistenza con la Francia e
la Cecoslovacchia; l'anno successivo appoggiò con aiuti
militari la Spagna repubblicana contro Franco. Ma il Patto di Monaco
(1938) costituì un duro colpo per la politica
"collaborazionista" di Stalin che a Litvinov sostituì
Vjačeslav Molotov (1939) e alla linea possibilista alternò
una politica puramente realistica.
Per lunghi mesi nel 1939 l'Unione sovietica tentò di
stringere accordi con l'Inghilterra e la Francia, per giungere a un
patto che garantisse l'aiuto delle due nazioni all'Unione Sovietica
in caso di invasione tedesca, ma le due potenze occidentali
inviarono a Mosca solo delegazioni di secondo grado senza il potere
di stringere alcun accordo. Così, di fronte alle
tergiversazioni occidentali e temendo il sostegno di Francia e
Inghilterra alla Germania per costruire un unitario fronte
anticomunista, Stalin preferì la "concretezza" tedesca (Patto
Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939) che, secondo lui, se non era
più in condizione di salvare la pace europea, poteva almeno
momentaneamente assicurare la pace all'URSS e prepararlo a quella
che poi verrà chiamata la Grande Guerra Patriottica.
Una diversa interpretazione storiografica è, tuttavia, quella
che vede il Patto Molotov-Ribbentrop come un tentativo di Stalin di
far uscire l'URSS dall'isolamento internazionale in cui si trovava
da almeno un biennio, reso palese dalla Conferenza di Monaco del
29-30 settembre 1938 cui l'Unione Sovietica non era stata invitata.
Una ulteriore interpretazione storiografica (ad esempio, quella
dello storico russo marxista-leninista Roy Medvedev, che ha scritto
diverse opere su Stalin) vede uno Stalin in attesa degli eventi,
pronto a schierarsi dalla parte del vincitore appena si fosse
palesato come tale. La spartizione della Polonia (1939) e
l'annessione di Estonia, Lettonia e Lituania e la guerra alla
Finlandia (1940) rientrarono nella stessa concezione: garantire al
massimo le frontiere sovietiche "calde". In seguito al patto di non
aggressione con la Germania, il Comintern strettamente controllato
da Stalin, riesumò il vecchio slogan leniniano della guerra
tra opposti imperialismi, attribuendo le maggiori
responsabilità a Francia e Inghilterra. Tale linea
provocò non poco scompiglio e disorientamento tra le file dei
comunisti molti dei quali erano approdati alle idee del comunismo
proprio in funzione dell'anti-nazismo e dell'antifascismo.
La Grande Guerra Patriottica
« Quando volgo indietro lo sguardo, mi permetto di dire che
nessun'altra direzione politico-militare di qualsiasi paese avrebbe
retto a simili prove, né avrebbe trovato una via d'uscita
dalla situazione eccezionalmente grave che si era creata
[...]»
La successiva guerra contro i paesi dell'Asse nazifascista
(1941-1945) costituì una pagina importantissima e decisiva
della vita di Stalin. Dopo un cedimento psicologico iniziale, di
fronte alla sorpresa dell'attacco tedesco che sconvolgeva tutte le
sue previsioni e i suoi piani, seppe organizzare e guidare l'Armata
Rossa e l'Unione Sovietica nella durissima lotta contro la Germania
nazista, che metteva in pericolo la sopravvivenza stessa dello stato
bolscevico ed anche delle popolazioni sovietiche, destinate allo
sterminio, alla schiavitù e alla deportazione secondo i piani
di Hitler. Durante la seconda guerra mondiale, l'URSS subì
enormi perdite, quantificabili in circa 9.000.000 di militari e
12.000.000 di civili, in parte a causa delle disastrose sconfitte
iniziali e in parte a causa dei metodi operativi adottati di fronte
alle potenti forze tedesche e delle straordinarie dimensioni delle
battaglie e delle campagne di guerra del fronte orientale. La
Germania impiegò sempre il grosso delle sue forze armate in
Russia e subì anch'essa gravi perdite, quasi 4 milioni di
militari, cioè oltre 80% del suo totale su tutti i fronti.
Stalin, usando spesso i suoi metodi violenti e brutali, specie
contro collaborazionisti ed etnie a suo parere infide, diresse la
lotta con determinazione e grande energia, anche se non senza alcuni
momenti di pessimismo, specie a Mosca nel 1941 e a Stalingrado
nell'estate 1942. Col tempo si costruì anche una notevole
competenza militare strategica per ammissione degli stessi esperti
occidentali che lo conobbero e coordinò nel complesso con
abilità le grandi operazioni strategiche ideate e pianificate
da alcuni suoi competenti generali, a cui diede fiducia (come Žukov,
Rokossovskij, Vasilevskij, Konev e Vatutin).
Stalin e l'Armata Rossa svolsero un ruolo decisivo nella sconfitta
di Hitler e del Nazismo, prima respingendo l'attacco nazista, con la
battaglia di Mosca del dicembre 1941; poi con la decisiva vittoria
di Stalingrado dell'inverno 1942-1943 e il grande scontro di mezzi
corazzati a Kursk; infine con le grandi offensive degli anni
1943-1945 (i "dieci colpi di maglio", secondo la terminologia
staliniana dell'epoca), che distrussero la potenza della Wehrmacht,
fino alla conquista finale della capitale tedesca a seguito della
battaglia di Berlino e del suicidio di Hitler. Durante la guerra
il nome in codice di Stalin nelle direttive segrete e nelle
comunicazioni con i vari comandi era Vasilev.
Oltre al suo apporto - notevole e decisivo - alla conduzione della
guerra, fu comunque estremamente significativo anche il ruolo di
Stalin come grande diplomatico, evidenziato dalle conferenze al
vertice: un negoziatore rigoroso, logico, tenace, non privo di
ragionevolezza. Fu assai stimato da Franklin Delano Roosevelt, meno
da Winston Churchill, cui fece velo la vecchia ruggine (rinforzata
dai fatti del 1939) anticomunista.
Il dopoguerra e la morte
Si sostiene che stimasse Chiang Kai-shek più di Mao Zedong
(che tra l'altro aveva di lui un'ottima opinione, come testimonia la
visita che fece allo statista sovietico il 21 dicembre 1949, in
occasione del suo compleanno nonché gli onori che gli
tributò nei giorni successivi alla sua scomparsa) e solo con
riluttanza smise di pensare che la Cina poteva essere governata dal
Kuomintang con l'adesione dei comunisti. Ad ogni modo, durante la
guerra civile cinese l'URSS fornì al Partito Comunista Cinese
un contributo in materiale bellico e un certo numero di consiglieri;
fin dall'agosto del 1945 inoltre, dopo la sua dichiarazione di
guerra al Giappone, appoggiò i maoisti conquistando la
Manciuria e lasciando al PCC il bottino ottenuto.
Per ciò che concerneva la Germania, Stalin fu un assertore
della divisione in due Stati: Repubblica Federale Tedesca
capitalista e Repubblica Democratica Tedesca socialista. Quando le
potenze occidentali decisero unilateralmente di introdurre il Marco
Tedesco al posto della valuta di occupazione, per convincere Stalin
a lasciar riunificare la Germania, il leader georgiano rispose con
il blocco della città: il 24 giugno 1948 l'URSS impedì
gli accessi ai tre settori occupati da americani, inglesi e francesi
di Berlino, tagliando tutti i collegamenti stradali e ferroviari che
attraversavano la parte di Germania sotto controllo sovietico. Gli
americani risposero con il celebre ponte aereo che convinse l'Unione
Sovietica a togliere il blocco il 12 maggio 1949 (ma le missioni
aeree USA perdurarono fino al 30 settembre).
Il dopoguerra trovò l'URSS impegnata nuovamente su un doppio
fronte: la ricostruzione all'interno e l'ostilità verso
l'Occidente all'esterno, Nell'immediato dopoguerra l'Unione
Sovietica infranse il monopolio americano sul possesso della bomba
atomica sperimentata nel 1949. Furono gli anni degli inizi della
Guerra fredda, che videro Stalin irrigidire ancor più il
monolitismo del Partito comunista fuori e dentro i confini, ma al
contempo del rispetto dei patti post-bellici, di cui è
espressione evidente lo scioglimento del Comintern e la creazione
del Cominform e la "scomunica" della deviazionista Iugoslavia.
In occasione della Guerra di Corea Stalin offrì all'alleato
Kim Il Sung l'appoggio di 26.000 soldati sovietici (un apporto molto
moderato, se confrontato con quello concesso invece da Mao pari a
780.000 militi) e regalò delle forniture alimentari e di
mezzi corazzati ai nordcoreani, ma fu sempre restio a intervenire
direttamente nel conflitto. Durante la guerra civile greca
rispettò i patti firmati con le potenze alleate e non
supportò i comunisti ellenici, lasciando che Gran Bretagna e
Stati Uniti, sempre nel rispetto dei patti che dividevano l'Europa
in aree d'influenza, a rotazione dessero aiuti determinanti al
governo di Atene nella repressione dell'insurrezione comunista. In
sostanza Stalin lasciava mano libera agli occidentali in Grecia ed
in Italia, ma pretendeva i medesimi diritti su tutta l'Europa
orientale.
Stalin, ormai in età avanzata, subì un colpo
apoplettico nella sua villa suburbana di Kuntsevo la notte tra il
1º e 2 marzo 1953, ma le guardie di ronda davanti alla sua
camera da letto non osarono forzarne la porta blindata fino alla
mattina dopo, quando Stalin era già in condizioni disperate:
metà del corpo era paralizzata e aveva perso l'uso della
parola. Morì all'alba del 5 marzo, dopo aver dato per diverse
volte segnali di miglioramento. Drammatico è il racconto
dell'ultimo istante di vita del dittatore fatto dalla figlia
Svetlana: convinto di essere vittima di una congiura, Stalin
maledisse i leaders comunisti riuniti attorno al divano sul quale
giaceva. Alcuni storici hanno accettato l'ipotesi dell'assassinio,
ipotesi categoricamente smentita dal grande storico Roy Medvedev.
Il suo funerale fu imponente, con una partecipazione stimata in un
milione di persone: il corpo, dopo essere stato imbalsamato e
vestito in uniforme, fu solennemente esposto al pubblico nella Sala
delle Colonne del Cremlino (dove era già stato esposto
Lenin). Almeno 500 persone morirono schiacciate nel tentativo di
rendergli omaggio. Fu sepolto accanto a Lenin nel mausoleo sulla
Piazza Rossa.
Quando Stalin morì, la sua popolarità come capo del
movimento di emancipazione delle masse oppresse di tutto il mondo
era ancora intatta presso tutti i partiti comunisti al mondo. Alla
fine del decennio, con la pubblicazione del discorso tenuto da
Nikita Chruščёv durante il XX Congresso del PCUS, l'Unione Sovietica
rinnegò ufficialmente gran parte delle scelte politiche e
ideologiche di Stalin, ridimensionò il suo ruolo durante la
Grande Guerra Patriottica, rimosse i riferimenti a lui in campo
culturale e politico (con un processo definito "destalinizzazione"
in Occidente), riabilitò alcuni degli esponenti politici
condannati a morte durante le purghe, mise in pratica un radicale
programma di riforme economiche e intraprese rapporti più
distesi con l'Occidente capitalista. Il programma di riforme non fu
accettato all'unanimità dai numerosi partiti comunisti sparsi
nel mondo: tra le reazioni più clamorose vanno ricordate
quelle dell'Albania (allora parte del Patto di Varsavia) e
soprattutto della Cina, che ruppero i rapporti di collaborazione con
l'URSS definendo "revisionista" l'operazione Chruščёv. Uno dei primi
provvedimenti della politica di destalinizzazione fu la rimozione
della salma di Stalin dal Mausoleo di Lenin, accanto al quale era
stato deposto subito dopo la morte. Da allora è sepolto in
una tomba poco distante, sotto le mura del Cremlino.
Tra le opere di Stalin hanno notevole importanza ideologica e
politica: La questione nazionale (1912), Materialismo dialettico e
materialismo storico (1938), Questioni del leninismo (1941), Il
marxismo e la linguistica (1950), Problemi del socialismo in URSS
(1952).
***
http://www.homolaicus.com/teorici/stalin/stalin.htm
STALIN E LO STALINISMO
Oggi più nessuno crede nel mito di Stalin, se non qualche
irriducibile vetero-comunista. Ma la critica dello stalinismo non
è mai stata facile, come invece in Occidente si è
sempre voluto far credere. Da noi lo stalinismo è stato
liquidato senza un'analisi politica e ideologica seria: da un lato
perché gli intellettuali di sinistra, fino a ieri, non
volevano rinnegare l'esperienza del "socialismo reale", dall'altra
perché gli intellettuali borghesi non volevano confrontarsi
seriamente col marxismo. E così ci si è limitati a
evidenziare dello stalinismo gli aspetti che più suscitano
riprovazione e sdegno, come ad es. i gulag, la collettivizzazione
forzata dei contadini, la burocratizzazione del sistema, ecc.
In realtà, nelle opere e negli slogans di Stalin è
difficile, di primo acchito, trovare una discordanza con i concetti
abituali del marxismo. Lo è soprattutto se ci si limita a
considerare in maniera isolata certe sue affermazioni, evitando di
collocarle in un quadro d'insieme ove risultino interdipendenti. La
verità non è mai la somma di affermazioni giuste e
separate. Ancora oggi, purtroppo, molti sono dell'avviso che le
deviazioni staliniane dal marxismo riguarderebbero tre soli
elementi, considerati peraltro di secondaria importanza:
la riduzione dell'uomo comune a mero ingranaggio
del sistema,
l'idea del partito come casta di privilegiati,
la concezione secondo cui l'edificazione del
socialismo comporta l'acuirsi della lotta di classe (di qui l'uso
della violenza come metodo di regolazione dei problemi
socio-politici).
L'economia del nostro discorso però ha un'unica
finalità: quella d'indicare alcuni fondamentali aspetti dello
stalinismo che la coscienza politica del periodo in cui esso
s'è formato, non è stata capace di cogliere nella loro
pericolosità. Vediamo anzitutto la pretesa concordanza che si
vuole vedere in Marx, Lenin e Stalin circa il rifiuto del valore
mercantile e del mercato nel contesto del socialismo, che è
l'affermazione dell'idea di uno scambio diretto dei prodotti in
virtù di una pianificazione autoritaria dall'alto.
Ora, nessuno è in grado di dimostrare in quali opere Marx
raccomanda di misconoscere i meccanismi del mercato e della
formazione dei prezzi, nonché d'introdurre lo scambio diretto
dei prodotti e la pianificazione statale in condizioni analoghe a
quelle che si verificarono in Russia dopo il 1917. Non è
forse vero che Marx, Engels e Lenin riferivano la possibilità
di superare i rapporti merce-valore a un regime sociale in grado di
sorgere sulla base del capitalismo altamente evoluto? Il socialismo
non doveva forse costituire un'alternativa a quel capitalismo capace
di socializzare il processo produttivo, di creare un lavoratore
altamente qualificato, ecc.? Solo in questa tappa lo scambio diretto
dei prodotti e la realizzazione di piani orientati verso i bisogni
degli uomini diventano possibili e cominciano a giocare un ruolo
progressista.
Nella situazione successiva all'Ottobre 1917, il problema principale
era quello di trovare un'alternativa a un'economia caratterizzata da
una pluralità enorme di strutture economiche, soprattutto
quelle di tipo piccolo-borghese (senza dimenticare la presenza dei
rapporti semi-feudali). Lenin non aveva dubbi nell'affermare che in
quelle condizioni il socialismo non poteva essere costruito in modo
"immediato". Al massimo si poteva parlare di "transizione" verso il
socialismo. Lenin anzi si rendeva conto che il capitalismo privato
della piccola borghesia era ostile non solo al socialismo ma anche
al capitalismo di stato. Ecco perché pensava che i socialisti
russi dovessero prendere lezioni dai tedeschi su come costruire il
capitalismo statale.
Viceversa, per Stalin e il suo entourage il primato spettava alla
volontà politica, alla violenza politica (di qui l'uso di
metodi terroristici), con cui essi cercavano di regolare tutti i
problemi dello sviluppo economico e culturale, senza pensare se le
condizioni per la realizzazione di questi o quegli obiettivi fossero
effettivamente mature.
Ovviamente ciò non va imputato a una presunta "perfidia
politica" o ad una "malattia mentale" di Stalin. La questione
è molto più complessa e riguarda, se vogliamo, le
tendenze storiche oggettive, le quali non possono essere
interpretate ricorrendo alle concezioni filosofiche tradizionali. La
storia della filosofia non ci è di nessun aiuto per
comprendere a fondo l'ideologia stalinista. Che senso avrebbe,
infatti, applicare -come alcuni fanno- il concetto di "idealismo
soggettivo estremo" a una figura come Stalin, quando lo stesso
concetto lo si applica a filosofi come Fichte, Berkeley, Bogdanov?
Lo stalinismo, in realtà, non ha precedenti storici. Esso
è l'ideologia e la dittatura dell'élite burocratica,
capeggiata da un despota ritenuto onnipotente: un'ideologia
volontarista e antiumanista, che usa la violenza in tutte le sue
forme. Ancora oggi gli stalinisti si considerano come veri demiurghi
della storia: "I quadri decidono tutto", diceva Stalin. Ai loro
occhi, la realtà sociale non è un sistema organico di
rapporti interumani, che si sviluppa in virtù di leggi
proprie, attraverso gradi successivi di maturità, ma è
una materia prima come l'argilla, che si può manipolare a
proprio piacimento, usando la volontà politica, una buona
organizzazione, una disciplina di ferro e potenti mezzi di violenza.
In questo senso lo stalinismo è un sistema fondato sulla
menzogna più sfacciata, sul cinismo ideologico e sulla doppia
morale.
Quali radici poteva avere un fenomeno così mostruoso? La
formazione delle premesse dello stalinismo vanno ricercate negli
anni 1924-29. Le sue fonti ideologiche risiedono in un marxismo
semplificato, mentre quelle socio-politiche in una
strumentalizzazione della Rivoluzione d'Ottobre. A dir il vero la
volgarizzazione del marxismo era peculiare a tutto la direzione
bolscevica: Zinoviev, Trotski, Kamenev, Bucharin, Piatakov..., salvo
Lenin. L'atmosfera di lotta, prima durante e dopo l'Ottobre, li
aveva portati ad attribuire un grande ruolo all'iniziativa storica,
all'attività umana, all'esigenza di "trasformare" il mondo
più che di "interpretarlo". I fatti sembravano dar loro
ragione: la rivoluzione procedeva sconfiggendo, uno dopo l'altro, i
suoi nemici, superando, uno dopo l'altro, i suoi problemi.
Le radici dello stalinismo stanno proprio in questo orientamento
gauchiste, soggettivistico sul piano ideologico e volontaristico su
quello politico: atteggiamento che trovò subito appoggi molti
vasti nella mentalità primitiva di una parte assai
considerevole di masse rivoluzionarie.
Naturalmente esiste una certa differenza fra gli errori in buona
fede di Bucharin, che tendeva a esagerare le possibilità del
popolo rivoluzionario (e dei suoi capi) nella storia, e la politica
deliberatamente impopolare degli stalinisti, almeno così come
essa appare alla fine degli anni '20. A dir il vero, la differenza
principale, all'interno del bolscevismo, tra stalinisti e
antistalinisti, non stava tanto negli obiettivi da perseguire:
nessuno era favorevole allo zarismo, né alla dittatura
militare di Kornilov, né alla guerra, al parassitismo e
all'arbitrio del capitale. I problemi tuttavia sorgevano quando si
doveva stabilire il modo di liquidare la vecchia società e di
edificare quella nuova.
Nella storia del movimento rivoluzionario russo si erano già
viste all'opera due diversi approcci della realtà: quello
autoritario dei gruppi cospirativi, che avrebbe poi portato al
comunismo da caserma, di Zainchevsky, Nechaev e Tkachov; e quello
democratico di Radishev, Herzen, Lavrov, Dobroljubov e
Chernyshevsky, che valorizzava l'attività creativa e storica
del popolo.
L'orientamento autoritario dello stalinismo è stato
appoggiato dagli strati sociali meno evoluti, più marginali,
il cui odio per il regime sociale oppressivo, antecedente alla
rivoluzione, aveva assunto un carattere totalmente distruttivo.
Questi strati sociali possono combattere l'oppressore con grande
eroismo, sono capaci di enormi sacrifici, ma possono anche
trasformare in una legge generale della nuova società le loro
istanze non sviluppate, la loro inferiorità culturale, i loro
rozzi principi morali, frutto di un'esistenza subumana, condotta nel
passato regime. I successi straordinari dell'Ottobre e il basso
livello culturale d'una parte considerevole della popolazione
provocarono l'euforia generale dell'onnipotenza.
Lenin fu uno dei pochi ad andare contro corrente. Sono noti i suoi
appelli ad apprendere le tecniche del commercio presso gli
specialisti, a servirsi di tutta la cultura del passato, a
sviluppare l'industria in modo scientifico, a promuovere i principi
cooperativistici nelle campagne, sulla base del libero consenso,
della persuasione, usando esempi concreti di successo: in una
parola, a unire in modo dialettico la direzione centralizzata con la
democrazia operaia. L'entusiasmo andava combinato -a suo avviso- con
l'interesse materiale dei lavoratori, altrimenti si sarebbe caduti
nella retorica e nella demagogia.
Stalin la pensava diversamente. A suo parere, era necessario creare
in pochissimi anni e con una terapia d'urto i necessari rapporti
socialisti nelle campagne, trasformando i contadini in colcosiani
(ed eliminando i recalcitranti). Nell'arco di due-tre piani
quinquennali l'URSS avrebbe dovuto superare i paesi più
progrediti del mondo, altrimenti sarebbe stata la fine della
rivoluzione. La religione doveva essere estirpata con la forza.
Questi e altri principi furono appoggiati da quella parte di popolo
meno evoluta, meno istruita, e, almeno in un primo momento, la loro
applicazione conseguì notevoli risultati, anche se a prezzo
di enormi sacrifici e soprattutto di spaventosi soprusi.
Il meccanismo generale che permette ai regimi "bonapartisti" (ivi
incluso lo staliniano) di formarsi una propria base sociale,
è descritto perfettamente da Marx ne Il 18 Brumaio di Luigi
Bonaparte. Il bonapartismo -come noto- trova la sua linfa vitale
negli strati sociali più oppressi: negli anni '40 del secolo
scorso si trattava soprattutto dei contadini. Una volta poi
realizzati i principi della burocrazia, del militarismo e
dell'apparato repressivo statale, il bonapartismo non ebbe bisogno
neppure dell'appoggio dei contadini, i quali anzi furono soggetti a
feroci persecuzioni. Questo perché la base sociale più
adeguata dei regimi bonapartisti maturi (incluso quindi lo
stalinismo) è la burocrazia, non la classe contadina.
Lo stalinismo s'è trasformato da sistema volontarista, legato
a una certa base popolare, il cui entusiasmo post-rivoluzionario era
ancora molto vivo, a sistema burocratico e impopolare verso la
metà degli anni '30, cioè nel momento in cui lo
sviluppo dell'economia nazionale, alzando il livello culturale del
Paese, aveva portato i lavoratori ad un'opposizione sempre
più consapevole ai metodi dittatoriali del regime. Ciò
tuttavia non impedì il rafforzamento della burocrazia. Le
ragioni sono più di una.
Anzitutto bisogna ricordare che all'inizio degli
anni '20 il sistema economico era caratterizzato da "isole
produttive" poco legate tra loro. I funzionari statali realizzavano
sul piano politico-amministrativo quei collegamenti che mancavano
sul piano economico.
In secondo luogo va considerato il fatto che
l'ignoranza dei lavoratori ostacolava fortemente una partecipazione
reale alla gestione economica, ovvero un controllo effettivo degli
organi statali e amministrativi.
In terzo luogo va detto che il sistema
burocratico non ha mai smesso di servirsi, coscientemente, del
volontarismo e del soggettivismo per autolegittimarsi (lo attesta
p.es. l'ideologia del culto della personalità).
Queste ragioni però, se fanno pensare che la burocrazia era
inevitabile, non devono far pensare che il rafforzamento della
burocrazia doveva necessariamente portare allo stalinismo,
cioè al dominio totale e incondizionato della burocrazia. Le
alternative allo stalinismo sono state ben visibili sin dall'inizio
degli anni '20, alla vigilia della NEP, nonché nel 1927,
durante il XV Congresso del partito, ed anche nel 1956, col XX
Congresso. Lo stesso Lenin aveva chiaramente detto che la burocrazia
era il pericolo maggiore della rivoluzione, la fonte di una
possibile "reazione termidoriana". Se le sue indicazioni fossero
state seguite con coerenza e decisione, probabilmente i destini
dell'URSS sarebbero stati diversi.
Il programma di Lenin per indebolire la burocrazia era basato sulla
Nuova Politica Economica, sull'estensione delle cooperative, sulle
forme di produzione capitalistico-statali, sulle concessioni al
capitale estero d'investire in URSS, sugli incentivi economici per i
lavoratori (onde eliminare la costrizione extra-economica), sulla
partecipazione degli operai e dei contadini all'attività
degli organi superiori del potere statale, sul controllo
dell'attività dei quadri dirigenti del partito, sullo
sviluppo della cultura generale del popolo.
Morto Lenin, i tentativi di Trotski e Preobrazhensky di creare un
sistema burocratico sulla base dell'accumulazione socialista
primitiva fallirono grazie soprattutto al ruolo teorico giocato da
Bucharin nel corso del XV Congresso del partito bolscevico (1927).
Giustamente venne rifiutata l'idea di sviluppare l'economia
nazionale contro gli interessi dei contadini, drenando risorse e
mezzi dalla campagna alla città, trasformando officine e
fabbriche in caserme di operai, stimolando l'intensificazione del
lavoro con la violenza gius-politica. Tuttavia, già verso la
fine degli anni '20 le forze della "guardia leninista" avevano perso
la loro influenza. Le Note di un economista (1928) di Bucharin e la
piattaforma di Ryutin (1932) furono forse gli ultimi importanti
tentativi di proseguire sulla via leninista.
Il leninismo uscì sconfitto dallo scontro con lo stalinismo
semplicemente perché esso cercò di frenare
l'evoluzione verso il comunismo da caserma con dei metodi non meno
burocratici e autoritari. Si pensava cioè di poter conseguire
un obiettivo diverso usando gli stessi mezzi.
In seguito, il XX e XXII Congresso del Pcus, nonché gli
sviluppi seguenti all'aprile 1985, hanno dimostrato che
un'alternativa allo stalinismo è sempre possibile. Il corso
della storia non presenta mai degli avvenimenti inevitabili o
irreversibili, ma sempre delle alternative soggette a determinate
scelte e destinate a ricomparire ogniqualvolta le decisioni prese si
rivelano fallimentari. Ovviamente resta falsa la tesi secondo cui
nella storia "tutto è possibile" o che "tutto dipende
dall'uomo". Qui si vuole soltanto affermare che non esiste mai
un'unica via da seguire, né si può sapere in anticipo
quale soluzione avrà la meglio. I risultati, generalmente,
dipendono da numerosi fatti concreti.
Nell'epoca di Brezhnev la tendenza antiburocratica si esprimeva
nelle forme dello stalinismo "popolare", quello della fine degli
anni '20. Il sogno era di veder improvvisamente apparire
all'orizzonte un uomo forte come Stalin, capace di difendere il
popolo dal potere totalizzante della burocrazia. Questa forma di
stalinismo non è così pericolosa come quella
burocratica, in quanto può essere superata da un'opera di
paziente istruzione, dall'estensione della glasnost e dei principi
democratici, in virtù dei quali gli uomini si rendono conto
di quanto la loro forza sia sufficiente per liquidare non solo la
burocrazia, ma anche l'esigenza di contare sulla potenza mitica di
una personalità carismatica.
Trent'anni fa anche Kruschev cercò di finirla con lo
stalinismo e la burocrazia usando metodi burocratici. Ben lungi dal
promuovere lo sviluppo dei meccanismi sociali della democrazia, egli
considerò la sua personalità come garanzia ultima
contro il ritorno dello stalinismo. In tal modo non comprese che
né il XX Congresso né la crescita della democrazia tra
il 1956 e il 1961 potevano essere il risultato della sua azione
personale (anche se bisogna riconoscergli un certo coraggio
politico). Sopravvalutando se stesso, Kruschev non fece che
ostacolare, in definitiva, il processo di smantellamento dello
stalinismo. Basta qui ricordare il modo con cui egli trattava gli
intellettuali (scrittori, artisti, giornalisti) o con cui
distribuiva i posti di presidente, di segretario del C.C. ecc. Non a
caso, sotto il suo potere, Lysenko e soci tornarono in auge, mentre
i neo-stalinisti Suslov e Brezhnev iniziarono la loro carriera
politica.
Senza saperlo, fu proprio il krusciovismo a porre le basi del
sistema amministrativo di comando neo-stalinista. In sostanza si
può parlare di "socialismo democratico sovietico" solo per
alcuni momenti storici veramente significativi: gli anni 1917-29, il
periodo bellico 1941-45 (qui, in effetti, lo slancio patriottico e
il sentimento di responsabilità personale per i destini della
Nazione diedero luogo ad alcuni processi di destalinizzazione),
relativamente gli anni 1953-65 e infine dal 1985 ad oggi.
MITI E REALTA' DELLO STALINISMO
Dopo la rivoluzione d'Ottobre si era convinti che in Russia
l'edificazione di una nuova società sarebbe dipesa, sic et
simpliciter, dalla socializzazione dei mezzi produttivi. A tale
scopo furono subito confiscate e nazionalizzate quasi tutte le
imprese industriali e commerciali, la quasi totalità delle
banche e dei trasporti. Dal censimento del 1920 risulta che fra le
imprese nazionalizzate si trovavano, oltre alle grandi unità
produttive, più di 1/7 di imprese aventi un solo operaio!
In fondo l'Antidühring di Engels, per i bolscevichi, parlava
chiaro: "Con la presa di possesso, da parte della società,
dei mezzi produttivi, la produzione mercantile è eliminata e,
di conseguenza, il dominio del prodotto sul produttore". E qualunque
lavoro -prosegue Engels- diventa immediatamente "lavoro sociale".
Non pochi rivoluzionari e teorici del partito bolscevico credettero
che le condizioni venutesi a creare con la rivoluzione d'Ottobre
corrispondevano perfettamente a quelle descritte nei lavori teorici
di Marx ed Engels, e che, pertanto, la realizzazione pratica andava
considerata come un compito inderogabile.
Ben presto il commercio si trasformò -in questa concezione
bolscevica- in uno scambio "volgare" di merci, e non solo il
commercio, ma anche il valore del denaro, dell'oro, dei prezzi,
delle banche...: tutto quanto aveva sapore di "capitalismo" o di
"commercio" perse ogni credibilità. L'uso della forza, per
realizzare questi mutamenti di mentalità, fu inevitabile.
A dir il vero Lenin ha sempre nutrito seri dubbi sulla
automaticità di questi processi. Egli si rifaceva a quei
passi di Marx ed Engels in cui si affermava che la socializzazione
dei mezzi produttivi poteva avvenire in due modi: giuridico
(cioè amministrativo, volontarista) ed economico.
Quest'ultimo dai classici era considerato il migliore, poiché
si riteneva che l'altro causasse dei conflitti tra le forze e i
rapporti produttivi. In particolare, Engels sosteneva -sempre
nell'Antidühring- che la socializzazione economica diventa
inevitabile quando la società si accorge di non poter
più gestire in maniera privata i grandi complessi produttivi.
Dunque non ogni statizzazione dell'economia è un segno della
presenza del socialismo. Se così fosse -diceva Engels-
Bismarck, Napoleone e Metternich andrebbero annoverati tra i
fondatori del socialismo.
Il fatto è purtroppo che queste sottili ma importanti
differenze non venivano colte dalla maggioranza dei bolscevichi
rivoluzionari. Socializzazione "forzata" o "economica" venivano
continuamente confuse, identificate. E su questo equivoco si
costruì il socialismo nel periodo del "comunismo di guerra".
Negli anni 1918-21 l'impresa statale perse ogni autonomia
socio-economica; ogni altra forma di proprietà venne ridotta
al minimo; lo scopo della produzione era diventato quello di
produrre dei valori tout-court e non dei valori d'uso, per cui ci si
orientava verso gli indici lordi; il denaro si era trasformato in
una unità di conto del tutto formale, assolutamente incapace
di svolgere la funzione di equivalente universale; il mercato era
stato totalmente escluso dal sistema dell'economia nazionale e
considerato come l'antitesi principale del socialismo. Ecco in che
modo si era convinti di realizzare le idee del socialismo
scientifico.
Lenin si accorse subito delle difficoltà insorte nel campo
economico e commerciale, cioè in pratica s'accorse che
nessuna risoluzione politico-amministrativa avrebbe mai potuto
assicurare il passaggio dalla nazionalizzazione, cioè dalla
mera espropriazione dei produttori privati, alla socializzazione,
poiché quest'ultima, nei fatti, era un processo molto
più lento, complesso e difficile (anche se più
sicuro). Ecco perché, ad un certo punto, gli sembrò
del tutto naturale lasciar coesistere nella società
molteplici strutture eterogenee, esprimenti un grado diverso di
maturità economica e sociale.
A tale scopo Lenin propose di socializzare la produzione già
"socializzata": il che appariva un'assurdità a coloro che si
erano limitati a leggere in modo schematico le opere dei classici.
Di qui la dura lotta contro la "malattia infantile del comunismo":
il gauchisme, che accusava Lenin di revisionismo, di voler rimandare
alle calende greche la realizzazione del vero socialismo.
Tuttavia Lenin ebbe la meglio e si poté così dar vita
all'esperimento della NEP. Di questa nuova politica economica ancora
oggi si ha un giudizio limitato, in quanto si pretende di ridurla al
solo settore agricolo. In realtà essa costituì una
revisione radicale di tutte le idee relative alla costruzione del
socialismo. Si pensi ad es. alla trasformazione dell'impresa statale
da oggetto passivo di una direzione dall'alto a soggetto attivo
della politica economica, o alla comparsa delle cooperative, delle
società per azioni, delle attività professionali
individuali. La ripartizione centralizzata dei mezzi materiali e
tecnici nell'economia nazionale venne sostituita, in virtù
della NEP, dal commercio all'ingrosso. La riforma monetaria del
1922-24, resasi necessaria dal fatto che l'eccesso di moneta
svalutata invadeva il mercato, rimpiazzò gli "assegnati"
sovietici con una moneta classica: il cervontsy d'oro, cioè
in pratica la Banca di Stato, creata nel 1921, aveva il diritto di
emissione di banconote convertibili in oro.
Il criterio dell'efficienza di un'impresa divenne il profitto e non
la percentuale con cui essa realizzava i piani previsti dallo Stato.
La legge del valore e del mercato vennero riconosciuti quali
maggiori regolatori-guida dello sviluppo dell'economia socialista.
Queste modifiche non vennero considerate da Lenin in maniera
antitetica alla teoria marxista, in quanto che egli riteneva
"specifiche" le condizioni della Russia.
I risultati non si fecero attendere. Dopo la fame che aveva ucciso
migliaia di persone, l'agricoltura si riprese rapidamente, le aree
coltivate raggiunsero i livelli pre-bellici, mentre i bovini, gli
ovini, i caprini e i suini li superarono. Nel 1923 l'URSS divenne
per la prima volta dall'Ottobre esportatrice di grano (come
già lo era al tempo degli zar). Dopo quattro anni di NEP il
reddito nazionale (diminuito di tre volte durante la guerra civile)
raggiunse il suo valore anteriore al 1914. Fra il 1921 e il '24 il
prodotto lordo della grande industria statale aumentò
più di due volte.
Lenin, finché rimase in vita, seppe ostacolare la tendenza
dogmatica, sempre latente nel partito, che andava imponendosi, ma
con la sua morte la situazione peggiorò bruscamente. Lo
stalinismo rappresentò appunto una variante di questa
tendenza, forse la più coerente o la meglio organizzata.
Tanto che quando Krusciov, al XX congresso del Pcus, denunciò
le repressioni di massa e le enormi violazioni della legalità
socialista, condannando altresì il culto della
personalità, non mise in dubbio l'appartenenza ideologica di
Stalin al marxismo. Ancora oggi, d'altra parte, per molti è
così. Stalin -questo vuole il mito- preservò la
purezza del marxismo, minacciato da destra e da sinistra, poi per
eccesso di zelo versò sangue più o meno innocente. Non
va tuttavia dimenticato che lo stalinismo, come forma di pensiero e
di azione, va ben al di là del personaggio individuale che lo
incarnò.
In realtà Stalin snaturò Marx in una serie di
questioni di fondamentale importanza. Anzitutto nell'interpretazione
dei problemi della proprietà, secondariamente in quella del
ruolo della violenza nell'edificazione del socialismo, infine in
quella della valutazione del ruolo della legge del valore per la
società socialista. Vediamo ora questi punti nel dettaglio.
Da tempo l'umanità è convinta che la proprietà
privata dei mezzi produttivi è fonte di molte ingiustizie.
È in effetti su questa forma di proprietà che nascono
le contraddizioni fra miseria e opulenza, fra sovralimentazione e
fame, con l'oppressione politica, giuridica e militare che ne
consegue. Molti filosofi e rivoluzionari del passato ne chiesero
l'abolizione.
Come noto, il marxismo riconosce l'iniquità morale della
proprietà privata. Tuttavia la via verso l'eliminazione
dell'ingiustizia sociale passa, secondo questa ideologia, non
attraverso la sua soppressione politica ma attraverso il suo
superamento economico. Una formazione economica -diceva Marx- deve
prima esaurire tutte le sue potenzialità.
Può dunque il socialismo svilupparsi in presenza della
proprietà privata? No, non può, ma questo non
significa -ed è l'esperienza che lo ha dimostrato- che la
costruzione del socialismo debba necessariamente coincidere con la
fine immediata della proprietà privata. Il superamento di
questa forma di proprietà deve avvenire gradualmente e il
socialismo, in questo senso, dovrebbe offrire la garanzia che la
transizione avvenga in maniera indolore. Di per sé la
proprietà privata non è una maledizione: anzi,
storicamente, rispetto al latifondo feudale, essa costituì un
progresso notevole.
L'abolizione radicale della proprietà privata in URSS, subito
dopo la rivoluzione, avvenne a dispetto delle idee di Lenin, in
maniera del tutto spontanea e istintiva. Nel primo abbozzo delle
Tesi d'aprile Lenin aveva intenzione di confiscare soltanto le terre
dei grossi proprietari fondiari. Egli non voleva la realizzazione
immediata del socialismo, ma piuttosto un passaggio sistematico,
graduale, progressivo del controllo della produzione sociale e della
divisione dei prodotti dalle mani dei privati a quelle dei soviet
dei deputati operai e contadini. In pratica egli si rendeva conto
della inadeguatezza della struttura economica russa per
l'introduzione del socialismo. Al massimo prevedeva la confisca di
quelle proprietà private la cui grandezza rendeva
indispensabile un controllo e una gestione collettiva, sociale (ad
es. le banche, le ferrovie, i zuccherifici, ecc.).
Questo approccio flessibile di Lenin subì una prima battuta
d'arresto con lo scatenarsi della guerra civile, coll'interventismo
straniero, col sabotaggio della borghesia (che, politicamente
immatura, non seppe collaborare col nuovo regime). Per punire il
sabotaggio si usarono appunto gli strumenti della confisca e della
nazionalizzazione (queste disposizioni repressive durarono almeno
sino al 1921). Peraltro, molte imprese vennero abbandonate dagli
stessi capitalisti. Ancora lo Stato non aveva intenzione di
estendere il settore pubblico, poiché non era in grado di
gestirlo. "Noi abbiamo la ridicola pretesa di voler istruire i
managers dei trusts borghesi del nostro Paese" -diceva Lenin, il
quale cercava, frenando la fretta di espropriarle, di costruire un
rapporto di fiducia con le forze economiche disposte a collaborare.
In particolar modo egli escludeva l'uso della coercizione nei
confronti del mondo contadino. L'unica "forza" da usare -diceva-
doveva essere quella dell'"esempio", cioè della persuasione
ragionata basata sulla prassi.
Anche nei confronti della piccola borghesia l'atteggiamento di Lenin
era favorevole alle concessioni: non per "limitare" i compiti della
rivoluzione -come credevano gli estremisti-, ma "come forma di
transizione al socialismo per i diversi settori della piccola
borghesia". Già nella primavera del 1918 Lenin aveva
elaborato una nuova posizione verso la borghesia, considerata
complessivamente. Egli infatti aveva chiesto e ottenuto che alla
borghesia s'imponessero soltanto delle tasse periodiche e regolari
sul reddito e sugli immobili, senza costringerla a esazioni
supplementari.
Appena ristabilita la pace, Lenin volle tornare a cooperare con la
borghesia proponendo la svolta della NEP. Egli affermò
chiaramente che tale politica economica era in realtà la
vecchia politica che i bolscevichi avevano cercato di realizzare
subito dopo la rivoluzione e che venne impedita da cause di forza
maggiore. Con ciò Lenin non voleva idealizzare l'importanza
della proprietà privata, ma solo impedire che la si abolisse
con metodi amministrativi, cioè con la forza. Essa piuttosto
andava integrata nel processo naturale di transizione al socialismo.
Nel maggio 1918 Lenin arrivò persino a dire che il
capitalismo di stato, dal punto di vista economico, era superiore
all'economia sovietica di quel tempo. Più tardi egli sostenne
che lo sviluppo delle cooperative avrebbe potuto accelerare la
socializzazione economica della proprietà privata. Da questo
alla parziale denazionalizzazione e alla richiesta di prestiti
stranieri il passo fu breve. L'idea di Lenin in sostanza era quella
di permettere alle due forme di proprietà di coesistere e di
competere pacificamente, lasciando alla storia il compito di
decidere quale delle due avrebbe meritato di sopravvivere e quale
forma avrebbe assunto il futuro socialismo.
La differenza fra Lenin e gli altri bolscevichi, in questo senso,
era considerevole e la ragione, probabilmente, è ancora lungi
dall'essere compresa. Infatti la stragrande maggioranza dei leaders
di punta del partito era convinta che la rivoluzione avrebbe
permesso di edificare il socialismo senza perdere tempo. Viceversa,
per Lenin la rivoluzione aveva soltanto inaugurato il lungo e
graduale cammino verso il socialismo, nel senso cioè che la
socializzazione dei mezzi produttivi non coincideva, stricto sensu,
con la loro nazionalizzazione o statalizzazione, sebbene Lenin sia
sempre stato convinto che il "vero socialismo" sarebbe nato passando
soprattutto attraverso le organizzazioni statali.
Stalin non fece che portare alle estreme conseguenze le convinzioni
di questi bolscevichi. A suo giudizio, infatti, la proprietà
privata andava eliminata completamente, e non solo nell'industria,
nel commercio e nell'edilizia, ma anche nell'agricoltura, ove la
maturità socialista delle forze produttive era praticamente
inesistente. Qualunque forma di proprietà pubblica veniva
considerata, di per sé, migliore di qualunque forma di
proprietà privata. Sulla base di questo assioma egli era
convinto di poter fare dell'URSS uno dei principali granai del
mondo.
Questa svalutazione unilaterale della proprietà privata,
Stalin la desunse non dal marxismo, ma da quell'ideologia
pseudo-socialista alla Dühring, il cui assoluto disprezzo della
proprietà privata dipendeva dalla convinzione ch'essa di per
sé fosse il frutto di una violenza dell'uomo sull'uomo,
cioè una sorta di "peccato d'origine" che aveva contaminato
l'intera umanità. Dühring era convinto che l'abolizione
tout-court di questa ingiustizia avrebbe portato la felicità
agli uomini.
Le obiezioni di Engels non vennero neppure prese in considerazione
da Stalin. Come noto, Engels aveva sottolineato che le ingiustizie
della proprietà privata risaltano soprattutto quando il
sistema produttivo è in fase discendente, e che le masse
sfruttate si sentono tanto più decise a realizzare la
transizione al socialismo, non quanto più avvertono il senso
di queste ingiustizie, ma piuttosto quanto più le collegano
alla fine irreversibile del capitalismo, cioè alla fine delle
illusioni sulla riformabilità di questo sistema. Le
ingiustizie inerenti alla proprietà privata, in altre parole,
non portano di per sé a concludere che sia necessario abolire
quest'ultima, in quanto resta sempre da dimostrare ch'essa abbia
smesso d'essere un fenomeno "socialmente normale" o che la
produzione organizzata sulla base della proprietà sociale sia
capace d'assicurare un rendimento superiore.
Viceversa, Stalin fece di tutto per eliminare anche la
proprietà privata frutto del lavoro umano, la quale -a suo
giudizio- avrebbe potuto generare il capitalismo quotidiano, in modo
spontaneo e su vasta scala. La sola supposizione del pericolo era
considerata sufficiente per impedire il formarsi di tale
proprietà. Stalin, in sostanza, aveva una specie di
concezione "a-temporale" della proprietà privata, in quanto
applicava le conclusioni giuste di Lenin a condizioni del tutto
diverse da quelle cui Lenin si riferiva.
Il realismo di Lenin era così maturo che prevedeva la
transizione al socialismo anche attraverso ciò che in
apparenza sembrava negarlo, per quanto -è bene sottolinearlo-
egli intendesse soprattutto riferirsi a quella proprietà
privata organizzata in forma cooperativistica. Il dogmatismo di
Stalin invece era così forte ch'egli non solo eliminò
ogni forma di cooperazione, ma guardò anche con sospetto gli
stessi colcos, pur creati in conformità alle sue concezioni
collettivistiche: egli infatti riteneva che i colcos fossero una
forma di proprietà non "sociale" ma di "gruppo", e quindi una
forma assai transitoria di produzione. Nell'opera Problemi economici
del socialismo in URSS, l'esistenza dei colcos viene addirittura
vista come un ostacolo al passaggio del Paese verso il comunismo.
La storia s'è poi fatta carico di dimostrare che è
impossibile creare una proprietà sociale in forza di un atto
amministrativo di socializzazione. Stalin quindi non solo
abolì la proprietà "privata" ma anche quella
"sociale", che può essere solo il frutto di un'organizzazione
consapevolmente accettata dai lavoratori. Egli piuttosto aveva
permesso la creazione della proprietà burocratica e statale,
facendo così regredire notevolmente sia lo sviluppo economico
del Paese, sia lo sviluppo teorico del marxismo.
La crisi (speriamo irreversibile) delle idee e della prassi
staliniana è dipesa anche da questa regressione, cioè
dalla forte crisi economica che ha colpito tutto il cosiddetto
"socialismo reale", a partire dai primi anni '80, inoltre dalla
generale insofferenza per i metodi dirigisti e amministrativi, per
l'insensatezza di una proprietà statale che è insieme
di "tutti" e di "nessuno", per il rigido dogmatismo ideologico,
infine dalla costatazione che il capitalismo è un sistema
capace di evolversi, di svilupparsi sotto la spinta delle pressioni
esterne, grazie soprattutto alla rivoluzione tecnologica e a nuove
modalità di sfruttamento neo-coloniale. Non solo quindi i
fautori del socialismo devono abituarsi all'idea di dover convivere
col capitalismo per un tempo indefinito, ma possono anche
interiorizzare l'idea che una cooperazione economica e commerciale
col capitalismo può tornare a vantaggio dello stesso
socialismo.
Vediamo ora l'interpretazione del ruolo della violenza. Senza dubbio
Lenin si appellò alla violenza nella sua politica. Dopo aver
confiscato le terre ai grossi proprietari fondiari e ai monasteri,
le diede ai contadini. I comitati dei contadini poveri,
organizzatisi nell'estate del 1918, usarono la coercizione per
espropriare ai kulaki 50 milioni di ettari (su 75-80 milioni di cui
disponevano), ivi compresa l'attrezzatura tecnica e il bestiame.
Moltissimi kulaki vennero addirittura eliminati nel corso della
guerra civile. Ma in tutti questi casi si trattò di una
violenza necessaria, inevitabile, una violenza "minore" per
impedirne una "maggiore": i kulaki non avrebbero mai rinunciato
spontaneamente allo sfruttamento di milioni di contadini.
Stalin invece, ispirandosi all'idea che una qualunque
socializzazione è una forma di socialismo, iniziò
verso la fine degli anni '20 una campagna senza precedenti di
concentrazione dei contadini nei colcos, non esitando a sterminare
fisicamente, civilmente e moralmente quanti si mostravano poco
entusiasti verso questi provvedimenti. Naturalmente egli
giustificava l'inasprimento della lotta di classe asserendo che
nella società vi erano ancora degli elementi borghesi ostili
al socialismo. Stalin fece suo il principio trotskista secondo cui
quanto più si sviluppa il socialismo, tanto più
aumenta la lotta di classe.
Come un rullo compressore egli distrusse almeno 3 milioni di nuclei
familiari contadini (l'11-12% del totale), determinando un crollo
incredibile della produzione: ad es. nel 1933 i bovini erano passati
dai 58,9 milioni del 1916 ai 38,6 milioni; gli equini erano passati
da 35,1 milioni a 16,6 milioni; gli ovini e i caprini da 115,2
milioni a 50,6 milioni; i suini da 20,3 milioni a 12,2 milioni. Una
terribile fame cominciò immediatamente a decimare milioni di
persone. Ufficialmente si disse che questo fu un prezzo necessario
al progresso della società (dati e statistiche erano
ovviamente manipolati).
Non che, in effetti, mancassero dei successi qualitativi e
quantitativi nel campo industriale, ma, molto probabilmente, essi si
sarebbero verificati anche senza lo stalinismo: anzi c'è da
credere che lo sarebbero stati in misura assai maggiore e comunque
senza un prezzo così alto da pagare. Peraltro è da
poco che si sono cominciati a confrontare i risultati
dell'industrializzazione sovietica sotto Stalin con quelli dei Paesi
che in quegli stessi anni registravano importanti successi
economici: prima ci si limitava a confrontare i risultati sotto lo
stalinismo con il livello di sviluppo della Russia del 1913. Ebbene,
se si guardano anche soltanto i valori della produzione pro-capite
del ferro, dell'acciaio e dell'elettricità di Paesi come USA,
Gran Bretagna e Germania, nell'arco di tempo che va dal 1913 al
1937, si noterà che gli indici corrispettivi dell'URSS
registravano un incremento del tutto irrisorio.
In tutti i Paesi del mondo, l'acciaio, il ferro, il petrolio, il
cemento non vengono prodotti, normalmente, per un fine in sé,
ma per incrementare la ricchezza generale del Paese, fissata dal
valore del reddito nazionale (il che ovviamente non impedisce la
speculazione capitalistica). Stalin invece non amava questo indice
sintetico dell'attività economica. Di "crescita del reddito
nazionale" o non ne parlava affatto, oppure ne parlava usando
formule assai vaghe, in virtù delle quali era impossibile
mettere in discussione gli incredibili incrementi sostenuti in sede
ufficiale. Facciamo un esempio: secondo calcoli scientifici, il
reddito nazionale in URSS è aumentato di 6-7 volte dal 1928
al 1985; secondo i calcoli staliniani il reddito era incrementato
del 50% dal 1929 al 1941! I dati ufficiali, peraltro, non
prevedevano alcun indice per verificare l'effettiva qualità
dei progressi.
Guardato più da vicino, il modello staliniano non solo era
poco efficiente ma anche molto dispendioso. Esso si è retto
in piedi sia con l'uso smisurato della violenza, sia con la grande
quantità di risorse naturali dell'URSS. Praticamente la
miseria veniva giustificata con le enormi spese per la difesa e
l'industrializzazione. Quest'ultima, in definitiva, non aveva altro
scopo che se stessa, non la ricchezza del Paese. In che modo infatti
può arricchire una nazione se ad es. la produzione di legumi
non marcia di pari passo con la loro trasformazione
agro-industriale? L'assillo fondamentale dello stalinismo era lo
stoccaggio, cioè le riserve alimentari degli ammassi, ove
metà circa della produzione finiva col deteriorarsi, e una
parte dell'altra metà veniva esportata per ottenere valuta
pregiata con cui finanziare l'industrializzazione. Questo era il
modo di vincere la fame!
Nell'interpretazione del ruolo della violenza -per tornare
all'argomento in oggetto- Stalin era debitore di Dühring, per
il quale "le condizioni politiche sono la causa decisiva della
situazione economica", mentre l'opposto ha un valore secondario.
L'elemento primario sta nella "forza politica immediata", diretta, e
non tanto nel "potere economico indiretto".
Non a caso per Stalin la coerenza di un'idea politica meritava
d'essere applicata anche con la forza, se necessario. Egli non
riuscì mai a comprendere i diversi gradi di maturità
della proprietà privata e ne distrusse tutte le forme senza
preoccuparsi di sapere se esse avevano fatto il loro tempo. Proprio
come Dühring, Stalin aveva una visione feticistica del
socialismo, utile per realizzare una giustizia astratta,
extratemporale.
Engels era sicuramente più realista. Per dimostrare che lo
stato economico di una nazione non può dipendere anzitutto
dalla violenza politica, scelse come esempi quello di Federico
Guglielmo IV, il quale, dopo il 1848, non riuscì, malgrado il
suo potente esercito, a eliminare le corporazioni medievali nel suo
Paese e altre sopravvivenze romantiche a vantaggio delle ferrovie,
delle macchine a vapore e della grande industria; nonché
quello dello zar di Russia, coevo dell'imperatore tedesco, che, pur
essendo ancora più potente, non era capace di pagare i debiti
del suo Paese, ed anzi aveva bisogno dell'appoggio finanziario
dell'Europa occidentale per poter continuare a usare la propria
violenza. A giudizio di Engels, questi esempi dovevano essere
sufficienti per dimostrare che la politica economica fondata sulla
violenza conduce solo al fallimento.
Stalin era così ignorante in materia economica che, a suo
giudizio, l'indice principale dello sviluppo del socialismo non era
la produttività del lavoro, il benessere sociale o il grado
di democrazia raggiunto dalla società, bensì il
livello di socializzazione amministrativa della produzione, per la
quale contavano assai poco le qualità professionali. Nel 1936
egli dichiarò apertamente al congresso straordinario dei
soviet, che era stata realizzata la prima fase (quella inferiore)
del comunismo, ovvero il socialismo, nei suoi aspetti essenziali. In
pratica egli aveva decretato il "socialismo" giuridicamente,
consacrandone la sua riuscita nella Costituzione dello stesso anno.
La proprietà socialista (statale, colcosiana e
cooperativistica) costituiva il 98-99% di tutta l'economia
nazionale. Non era neppure il caso di parlare -come faceva Lenin- di
transizione al socialismo con il concorso indispensabile del
proletariato internazionale. Un socialismo come quello staliniano,
rozzo e primitivo, poteva benissimo essere edificato in un solo
Paese.
Il mercato e la legge del valore smisero immediatamente d'essere i
regolatori della produzione. Il passaggio dal regno della
necessità a quello della libertà in pratica si era
già realizzato contro la tesi di Marx, secondo cui "il regno
della libertà comincia soltanto là dove si smette di
lavorare per necessità e condizioni imposte dall'esterno; e,
come tale, esso si pone, per natura, al di là della sfera di
produzione materiale propriamente detta".
L'atteggiamento negativo di Stalin verso la legge del valore e il
mercato è chiaramente riscontrabile nella sua opera,
già citata, Problemi economici del socialismo in URSS,
apparsa nel 1952, ma anche nel Manuale d'economia politica, edito
nel 1954, da lui ispirato, al pari del Breve corso di storia del Pc
(b) del 1939. Nel testo sui Problemi economici, Stalin
attaccò gli economisti Venger e Sanina, accusandoli di non
comprendere il significato della circolazione delle merci sotto il
socialismo, che va considerata incompatibile con la transizione al
comunismo.
Quanto al manuale d'economia, esso afferma categoricamente che il
lavoro già riveste nel socialismo un carattere immediatamente
sociale, per cui la legge del valore non si applica all'economia
socialista allo stesso modo dell'economia capitalista. La nozione di
"valore" -secondo tale manuale- è troppo "immateriale" per
essere utilizzabile. Infatti il calcolo del valore d'una merce
socialista è una semplice operazione tecnica. È
sufficiente calcolare -dice il manuale- le spese materiali di un
determinato prodotto, dividere poi la somma ottenuta per il numero
dei prodotti e il gioco è fatto. Il problema dell'equilibrio
dell'offerta e della domanda non sussiste, poiché nel
socialismo si ha una certezza a-priori che tutto quanto viene
prodotto viene anche consumato nei tempi previsti, a prescindere
dalle esigenze del consumatore.
Il risultato fu -come ben noto- una situazione d'impasse quanto alla
formazione dei prezzi (troppo bassi, ad es., per quelli alimentari,
per cui il mercato ufficiale era caratterizzato da cronica penuria e
da file interminabili davanti ai negozi, mentre naturalmente
prosperava quello in nero, a prezzi altissimi); enormi quantitativi
di merci non acquistate perché ritenute di scarso valore
qualitativo; ridottissime possibilità di scelta dei prodotti
per il consumatore, ecc.
Oggi la perestrojka ha dimostrato che nel determinare il valore di
una merce, il principio di sommare l'insieme delle spese individuali
non ha senso laddove esiste un mercato. I prezzi non possono
riflettere solo le singole spese, ma anche quelle "socialmente
necessarie", altrimenti i prezzi finiranno col coprire spese
superflue e coll'incoraggiare l'incuria, divenendo parte organica
del meccanismo dello spreco. In fondo il socialismo amministrato
è servito anche a dimostrare sul piano pratico
l'impossibilità teorica verificata da Marx di dedurre il
prezzo di una merce dal suo costo di produzione.
Le contraddizioni inerenti alla merce: tra valore d'uso e valore di
scambio, tra lavoro astratto e lavoro concreto, tra lavoro
individuale e sociale... non possono essere risolte semplicemente
perché vengono ufficialmente abolite. Certo è che,
perché il prezzo sia equilibrato al valore, cioè non
troppo alto (altrimenti si rischia la sovrapproduzione), né
troppo basso (altrimenti si rischia la recessione), occorre un
rapporto paritetico tra fornitore e acquirente, un rapporto che non
può essere gestito per via amministrativa o imposto dall'alto
(non a caso fino ad oggi nel socialismo di stato il produttore ha
sempre dominato il consumatore, anche se nei limiti stabiliti dal
partito-Stato). Occorre in sostanza che i "collettivi", cui
produttore e consumatore fanno parte, perseguano finalità
analoghe e non contrapposte, come ad es. nel capitalismo, ove
l'interesse del produttore è quello di indurre falsi bisogni
nell'utenza per realizzare superprofitti con prezzi da monopolio.
Non solo, ma l'errata visione stalinista del carattere del lavoro
condusse anche a un generale livellamento dei salari e degli
stipendi. La valutazione del lavoro non era assolutamente legata al
volume del prodotto finito, alla sua qualità e
fruibilità. Si preferiva invece affermare che la settimana
lavorativa di ogni rappresentante di una qualunque professione
andava considerata più o meno uguale quanto al "valore",
mentre ai mestieri più difficili si applicavano dei
coefficienti particolari.
In sostanza, come la negazione della contraddizione esistente tra
valore d'uso e valore tout-court della merce, rendeva teoricamente
inutile la sua commercializzazione, così l'identificazione di
lavoro concreto e astratto rendeva inutile la moneta, o comunque la
sua caratteristica di equivalente universale. L'intero management
dell'economia veniva basato su questa concezione non-mercantile.
Stalin era categoricamente avverso a quell'uso dei rapporti
mercantili-monetari che andasse al di là di una mera funzione
di contabilità (salvo poi contraddirsi, in teoria, come
quando al XVII congresso del partito criticò coloro che
profetizzavano la fine graduale del commercio e la trasformazione
del denaro a semplice unità di conto).
È sintomatico, in questo senso, il fatto che le sezioni del
Capitale dedicati alla merce caddero subito in discredito. La tesi
marxiana del doppio carattere del lavoro fu appunto sostituita da
quella del carattere immediatamente sociale del lavoro nell'ambito
del socialismo. Idea, questa, che ancora una volta trovava in
Dühring la sua paternità. Fu lui infatti che per primo
pensò di combinare la produzione immediatamente sociale con
l'uso della legge del valore e delle relazioni merce-moneta,
stabilendo il valore "giusto" o "reale". Una tesi che poi Engels
giudicherà assurda.
Dühring in sostanza chiedeva di fissare un prezzo unico per
ogni tipo di merce che corrispondesse alle spese medie di
produzione, e prevedeva che, per la determinazione del valore e del
prezzo, i cosiddetti "costi di produzione" avrebbero giocato il
ruolo di stima della quantità necessaria di lavoro.
Stalin ereditò sia queste idee, formulate intorno agli anni
'70 del secolo scorso, sia quelle egualitaristiche che Dühring
elaborò relativamente alla distribuzione secondo il lavoro.
Dühring diceva che in un contesto di socializzazione i salari
dovevano essere più o meno equivalenti, a prescindere
dall'effettiva produttività del lavoratore.
Al massimo Dühring prevedeva una "moderata dotazione
supplementare" per il consumo a quei lavoratori che si distinguevano
particolarmente per le loro capacità. Anche le sue idee
riguardanti il denaro -quale mezzo di mera contabilizzazione di uno
scambio naturale- vennero bene assimilate da Stalin. Persino l'idea
di poter costruire il socialismo in un unico Paese era già
stata formulata da Dühring.
Relativamente al denaro, già Engels avevano messo in guardia
dai tentativi di realizzare l'idea folle di Dühring secondo cui
il denaro si poteva trasformare in un mezzo per assicurare
unicamente un consumo più o meno uguale, dopo aver abolito la
sua funzione di equivalente universale. Engels aveva previsto che il
denaro, considerato soltanto come un certificato per confermare il
numero di ore che un individuo ha lavorato e che gli assicura il
diritto di acquistare quella quantità di prodotti in cui
s'è materializzata una quantità uguale di lavoro, non
sarebbe stato un denaro destinato a durare nel tempo. "Il celibe che
vive come un lord -dice Engels con un esempio
nell'Antidühring-, felice e contento con i suoi 8 o 12 scellini
al giorno, mentre il vedono, con 8 figli a carico, trova molto
difficile campare con quella stessa somma... Ecco dunque l'occasione
e il motivo di risparmiare da una parte e d'indebitarsi
dall'altra... E siccome colui che risparmia è nella posizione
di estorcere ai bisognosi un interesse, ecco... l'usura è
ripristinata proprio con la moneta metallica funzionante come
denaro". Engels spiegò inoltre che il risparmiatore
"socialista" pretenderebbe, prima o poi, di veder trasformato il
proprio denaro in una moneta convertibile.
Engels diceva che leggendo Dühring aveva l'impressione che del
capitalismo andasse cambiato solo il modo di distribuzione e non
anche quello di produzione. I criteri di "distribuzione", infatti
-diceva Engels- si prestano di più alla fantasia dei teorici,
danno di più l'impressione che la volontà politica
possa fare qualunque cosa.
Per concludere, lo stalinismo ha insegnato, senza volerlo,
all'umanità che, anche in presenza di una proprietà
"sociale" vi possono essere diversi tipi di socialismo. Non è
assolutamente sufficiente, per garantire la presenza del socialismo
democratico, limitarsi alla nazionalizzazione dei beni di produzione
e di distribuzione. Proprietà "statale" non vuole affatto
dire proprietà "sociale", cioè di tutti e di ciascuno
in particolare. Vi era la proprietà "statale" dei mezzi
produttivi anche nei regimi di Pol Pot e di Ieng Sary, eppure chi si
sentirebbe di dire che in Cambogia si cercò di realizzare il
socialismo democratico? Si può forse imporre la
"verità" del socialismo negando agli uomini ogni forma di
libertà? E di quale "verità" si può parlare se
proprio mentre la si applica la si nega?
TRIONFO E TRAGEDIA DI STALIN
Nel 1988 le edizioni sovietiche dell'APN pubblicarono il libro su
Stalin del filosofo e direttore dell'Istituto di storia militare, D.
Volkogonov, Trionfo e tragedia (Ritratto politico di Stalin).
L'opera suscitò subito un grande interesse in Occidente,
prima ancora che apparisse in URSS. Grandi case editrici hanno
deciso di pubblicarla: Mondadori in Italia, Weidenfeld e Nicolson in
Inghilterra, Flammarion in Francia, Econ in Germania ecc.
Presentando la sua opera in un'intervista concessa a un settimanale
del suo Paese, Volkogonov ha affermato che gli storici devono
imparare a ragionare con i "se" e non soltanto su ciò che
è veramente accaduto. Ovverosia devono chiedersi sempre quali
alternative ci possono essere nei confronti di determinati fenomeni
(in questo caso lo stalinismo). Per evitare d'identificare la storia
con la fatalità, lo storico ha non solo il diritto ma anche
il dovere di avanzare delle "ipotesi" su come i fatti avrebbero
potuto svolgersi se si fosse scelta un'altra strada. Nella vita
infatti vi sono sempre delle scelte fra due o più
alternative. La logica del fatalismo serve soltanto a giustificare
che la decisione presa era la migliore: il che però impedisce
di analizzare la storia in maniera scientifica. (Da notare che
questa problematica delle "alternative storiche" sta interessando
notevolmente, in questi ultimi tempi, a partire dalla perestrojka,
gli storici sovietici).
Volkogonov crede di ravvisare in tre cause fondamentali l'emergere
dello stalinismo (la figura di Stalin gli interessa relativamente):
i tre secoli delle tradizioni monarchiche della
dinastia dei Romanov, che hanno indotto nel popolo una grande
passività;
la povertà delle tradizioni democratiche
(di cui s'è dovuta far carico la stessa rivoluzione
socialista);
la sottovalutazione, da parte dell'entourage di
Lenin, del pericolo di una dittatura personale nell'ambito del
partito.
L'autore si sente d'affermare che i maggiori leaders del Pc (b)
tradirono praticamente subito gli ideali di Lenin, poiché si
lasciarono dominare dalle logiche degli schieramenti e dalle lotte
accanite per il potere politico dopo la sua morte. Particolarmente
duro, in tal senso, è il giudizio di Volkogonov su Trotski,
"preoccupato più di se stesso che della rivoluzione. Trotski
era imbevuto della propria personalità, si credeva un genio e
considerava tutti i suoi oppositori (soprattutto Stalin) come dei
"mediocri". Era un partigiano convinto del socialismo da caserma.
Proponeva di dividere il Paese in circoscrizioni militari. Parlava
d'instaurare la disciplina militare nell'ambito del lavoro e amava
le forme di gestione dirigista. Dopo la guerra civile
trasformò diverse unità militari in "brigate del
lavoro". Tutta la popolazione -secondo lui- andava organizzata
militarmente". Viste tali premesse, Trotski -secondo Volkogonov-,
nonostante le capacità che tutti gli riconoscevano, non aveva
alcuna possibilità di sostituire Lenin.
Né d'altro canto l'avevano gli altri leaders citati dallo
stesso Lenin nella sua "Lettera al congresso" (il "testamento
politico"). Stalin, Trotski, Zinoviev, Kamenev, Bucharin e Piatakov
vennero ricordati da Lenin -secondo Volkogonov- in un modo tale che
ognuno di loro, singolarmente preso, non sarebbe stato in grado di
sostituirlo. L'unico che avrebbe potuto farlo, sarebbe stato -dice
Volkogonov- un "leader collettivo", cioè una gestione
collegiale dell'intero partito.
Disgraziatamente questa idea di Lenin non venne capita: sia
perché spesso il suo pensiero superava a tal punto quello dei
suoi contemporanei da risultare addirittura incomprensibile (il
"testamento" cominciò ad essere apprezzato solo al XX
congresso!); sia perché il suo entourage non sapeva
valorizzare adeguatamente le sue capacità: Lenin infatti era
costretto ad occupare il 40% del suo tempo nel cercare di risolvere
gli affari correnti, prosaici, fin nei minimi dettagli,
dall'organizzazione del rifornimento alimentare all'elettrificazione
di un villaggio, ecc.
Relativamente al fenomeno dello stalinismo, Volkogonov afferma
ch'esso è "l'alternativa negativa al socialismo scientifico",
basata prevalentemente sull'uso della forza e sul culto della
personalità. In tal senso lo stalinismo è esistito,
p.es., anche in Cina durante "il grande balzo" degli anni 1958-60 e
durante la "rivoluzione culturale" del decennio 1966-76, oppure in
Cambogia sotto il regime di Pol Pot (1975-79). Di questo fenomeno
non può essere colpevolizzato solo Stalin e il suo staff,
altrimenti si ricade nel "culto della personalità" che pur a
parole si biasima. La responsabilità invece è sempre
di tutta la società che, almeno in URSS, non fece abbastanza
per contrastare un fenomeno così negativo. "Gli interventi
isolati -dice Volkogonov- fanno onore a chi li mette in pratica, ma
essi sono votati al fallimento, anzi, a quel tempo furono utilizzati
da Stalin per rafforzare le proprie posizioni. Egli infatti negli
anni '20, '30 e '40 entrò nella storia come il trionfatore
principale nella lotta per gli ideali di Lenin. Tutti coloro che si
opponevano a Stalin erano accusati d'essere antileninisti". Non si
può dunque vincere un fenomeno come questo partendo da
posizioni isolate.
Un'altra acuta osservazione di Volkogonov riguarda il fatto che non
si devono considerare le purghe staliniane degli anni '37-'39 come
più gravi di quelle degli anni '29-'33, solo perché
erano in gioco i migliori intellettuali comunisti del Paese.
Volkogonov ci tiene a sottolineare che la tragedia più grande
è stata quella dei primi anni '30, non solo perché
senza di essa non vi sarebbe stata l'altra (gli intellettuali senza
"base sociale" sono debolissimi), ma anche perché in essa
morirono milioni di contadini anonimi, sacrificati sull'altare della
collettivizzazione forzata e dell'industrializzazione pesante.
L'ultimo aspetto di cui parla Volkogonov, nell'intervista, è
non meno tragico: la logica di Stalin, secondo cui è bene
sbarazzarsi fisicamente non solo dei nemici reali ma anche di quelli
potenziali, si radicò così bene nell'URSS che molti
delitti vennero compiuti senza che nemmeno Stalin lo sapesse o
l'avesse voluto. L'inerzia della violenza era tale che le sue onde
si propagavano automaticamente per tutto il Paese. I "figli
legittimi" dello stalinismo sono stati coloro che presero i posti
lasciati vacanti dalla "vecchia guardia" leninista, sterminata da
Stalin: i vari Suslov, Breznev, ecc.
Il testamento politico di Lenin
IL TESTAMENTO POLITICO DI LENIN
Le note che Lenin dettò tra la fine del 1922 e l'inizio del
1923, un anno prima di morire, sono conosciute sotto il nome di
“Lettera al congresso” (del partito bolscevico-russo). La famiglia
di Lenin e i suoi più intimi collaboratori diedero ad esse il
nome di “Testamento”. Come noto, ancora oggi l'interpretazione di
questo documento da parte della storiografia sovietica e occidentale
è piuttosto controversa. Avvolto da ogni sorta di miti e di
leggende, esso venne rivelato solo al XX Congresso del Pcus, da
Krusciov, e pubblicato integralmente nel 1956. Questa è la
breve cronistoria della formazione di tale documento: ad essa
faranno seguito alcune riflessioni di merito.
Agli inizi del 1921 cominciarono ad apparire i primi sintomi
dell'arteriosclerosi di Lenin, che i medici attribuivano
all'eccessivo lavoro e alle conseguenze dell'attentato della
socialista-rivoluzionaria Fanni Kaplan, di cui era stato vittima
nell'agosto 1918. Verso la fine dell'anno egli era già
gravemente debilitato e costretto a lasciare l'attività
pubblica per molte settimane. Nell'aprile 1922 gli venne estratta
una delle due pallottole con cui era stato colpito dalla Kaplan. Il
25 maggio la mano e la gamba destre si erano paralizzate ed aveva
difficoltà a parlare. Cedendo malvolentieri alle
sollecitazioni dei medici, si era trasferito a Gorki. Nel giugno il
suo stato di salute era migliorato, sicché all'inizio di
ottobre poté tornare a Mosca per riprendere il lavoro. Ma il
13 dicembre fu colpito da nuovi attacchi cerebrali.
Decide finalmente di curarsi. Nei tre giorni seguenti, pur
immobilizzato nel letto, ha diverse conversazioni telefoniche,
riceve i suoi più stretti collaboratori, prepara l'intervento
per il X congresso dei soviet, scrive diverse lettere e alcune note
relative al monopolio del commercio estero, alla distribuzione dei
compiti fra i sostituti del presidente del consiglio dei commissari
del popolo, del consiglio del lavoro e della difesa, chiede
d'indagare sul modo come s'effettuava lo stoccaggio della raccolta
del grano nel 1922, s'informa di ciò che viene fatto in
materia di sicurezza sociale, del censimento della popolazione e di
altre questioni.
Sulla questione del commercio estero, Lenin, che pur aveva
contribuito alla nomina di Stalin alla carica di segretario generale
del partito, si scontra duramente, in quanto Stalin patrocinava le
tesi di Bucharin, Sokolnikov, Frumkin e altri relative alla
attenuazione se non abolizione del regime di monopolio. Trotski
invece parteggiava per Lenin.
Nella notte dal 15 al 16 dicembre il suo stato di salute s'aggrava
seriamente. Il mattino del 16 Lenin detta una lettera alla moglie,
Nadejda Krupskaia. I medici gli propongono di trasferirsi di nuovo a
Gorki, ma lui decide di restare a Mosca. Chiede a Nadejda di far
sapere a Stalin che la malattia gli impediva d'intervenire al X
congresso.
Il 18 dicembre si riunisce il plenum del C.C. Viene deciso di
comunicare a Lenin, con l'assenso dei medici, il testo delle
risoluzioni adottate al plenum. Per decisione speciale dello stesso,
Stalin viene investito della responsabilità personale
relativa al controllo della terapia prescritta dai medici. A partire
da questo momento le visite gli vengono vietate. Alle persone che
assistono: la moglie, la sorella, alcune segretarie e il personale
medico, viene proibito di trasmettergli qualsiasi lettera o di
informarlo dei correnti affari di Stato, al fine -questa la
giustificazione - di "non preoccuparlo".
Il 21 dicembre Lenin detta a Nadejda una lettera indirizzata a
Trotski, in cui si dichiara soddisfatto della decisione del plenum
circa la conferma dell'intangibilità del monopolio del
commercio estero e suggerisce che venga posta al congresso del
partito la questione del consolidamento di tale commercio e delle
misure da prendere per migliorarne l'efficienza.
Avendo saputo di questa lettera, Stalin, al telefono, rimprovera
duramente Nadejda d'aver trasgredito l'ordine di riposo assoluto
impartito dai medici. Nadejda reagisce inviando il 23 dicembre una
lettera a Kamenev, allora vice-presidente del consiglio dei
ministri: “Stalin s'è permesso ieri un attacco assai rozzo
nei miei riguardi, sotto il pretesto che avevo autorizzato Ilich a
dettarmi una breve lettera - ciò che io ho fatto col consenso
dei medici. Non è da oggi che sono membra del partito, ma in
30 anni non avevo mai sentito nulla di simile. Gli interessi del
partito e dello stesso Ilich mi stanno a cuore tanto quanto a
Stalin. So bene ciò di cui si può o non si può
parlare con Ilich, poiché so che cosa lo preoccupa, lo so
meglio di qualunque medico, in tutti i casi meglio di Stalin... Non
sono di marmo e i miei nervi sono al limite”.
La Krupskaia non disse niente a Lenin dell'incidente, per cui
è da escludere ch'essa l'abbia influenzato nel ritratto che
di Stalin egli fece in una nota del 4 gennaio 1923. Solo il 5 marzo
egli viene a conoscenza dell'incidente, per il quale dettò
subito una lettera indirizzata a Stalin: “Compagno Stalin, voi avete
avuto l'impudenza di chiamare mia moglie al telefono per insultarla.
Benché essa vi abbia promesso di dimenticare l'incidente, il
fatto tuttavia, per mezzo di lei, è venuto a conoscenza di
Zinoviev e Kamenev. Io non ho intenzione di dimenticare così
facilmente ciò che è stato fatto contro di me: va da
sé infatti che quanto viene fatto contro mia moglie è
come se fosse fatto contro di me. Ecco perché vi chiedo di
farmi sapere se siete disposto a ritirare ciò che avete detto
e a scusarvi, o se invece preferite interrompere le relazioni tra
noi. Con i miei rispetti, Lenin”. Stando a una lettera della sorella
di Lenin, Maria Ulianova, Stalin presentò le sue scuse.
Nella notte del 22 dicembre il braccio e la gamba destri erano
paralizzati. Lenin non poteva più scrivere. Il giorno dopo
chiede ai medici il permesso di dettare alla stenografa per cinque
minuti, poiché una questione assai importante gli impediva di
dormire. Fu così che Lenin cominciò a dettare la prima
parte della sua cosiddetta “Lettera al congresso”. In questa parte
egli avanzava la necessità di aumentare l'effettivo del CC
facendovi entrare degli operai e dei contadini (50-100 membri).
Il 24 dicembre, davanti alle insistenze dei medici che imponevano di
cessare ogni incontro con la stenografa, Lenin pone un ultimatum: o
lo si autorizza a dettare il suo “diario” per qualche minuto al
giorno, oppure rifiuterà categoricamente ogni cura. Lenin in
pratica supponeva che la parola innocente “diario” gli avrebbe
permesso più facilmente d'ottenere l'assenso dei medici.
Lo stesso giorno, dopo essersi consigliati coi medici, Stalin,
Kamenev e Bucharin, prendono la seguente decisione: “1) Lenin
è autorizzato a dettare per 5-10 minuti al giorno, ma non
deve dettare delle lettere e non deve aspettarsi una replica alle
sue note. Le visite sono proibite. 2) Né i suoi amici,
né le persone del suo più vicino entourage debbono
dargli informazioni sulla vita politica, per non dargli modo di
inquietarsi”.
Lenin può comunque dettare la seconda parte della “Lettera”
in cui delinea i ritratti dei maggiori leaders del partito. La
stenografa, Maria Volodicheva, annota nel suo diario che Lenin le ha
più volte ribadito il carattere assolutamente confidenziale
di quanto le aveva dettato i giorni 23 e 24 dicembre e che le note
dovevano essere preparate in cinque esemplari: uno per gli archivi
segreti, uno per lui e tre per la Krupskaja, e poste in buste
sigillate. La stenografa racconterà, nel 1929, d'aver
bruciato la minuta e che sulla busta sigillata con la cera avrebbe
dovuto scrivere che solo Lenin poteva aprirla e, dopo la sua morte,
solo N. Krupskaia, ma che le parole “dopo la sua morte” le aveva
tralasciate.
Il segreto dunque verteva esclusivamente sulla seconda parte della
“Lettera”, poiché la prima (riguardante l'ampliamento del CC)
era già stata consegnata il 23 dicembre al CC. Nel maggio
1924 la Krupskaia consegnò alla commissione del CC tutte le
carte di Lenin, ma non se ne fece niente. I membri dell'ufficio
politico e una parte dei membri del CC erano già al corrente
dei giudizi che Lenin aveva di taluni responsabili di partito, per
cui ritennero opportuno non rendere pubblico il documento. La
volontà di Lenin non venne rispettata.
La malattia aveva colto Lenin in un momento cruciale della storia
del partito comunista e dello Stato sovietico. La guerra civile
(1918-20) non si era ancora conclusa, le truppe d'intervento
straniere continuavano ad occupare l'Estremo Oriente della nazione,
la controrivoluzione interna non s'era ancora rassegnata a deporre
le armi, i kulaki manifestavano nella Russia centrale, in Ucraina e
in Siberia, il movimento dei Basmaci manifestava in Asia centrale,
vi erano sollevazioni in diverse città. La fame e il disastro
dell'economia venivano a peggiorare la situazione. E, ciononostante,
le norme e le regole del “comunismo di guerra” (tutte le forze e le
risorse messe al servizio della difesa, grazie alla
nazionalizzazione della grossa e media industria, alla
centralizzazione della produzione e della distribuzione, al divieto
del commercio privato, al lavoro obbligatorio, all'uguaglianza dei
salari, ecc.) facevano sempre più posto alla Nuova Politica
Economica, elaborata da Lenin (che prevedeva un certo sviluppo del
capitalismo e la sostituzione della requisizione dei prodotti
agricoli con un'imposta in natura. Misure, queste della NEP, che
neppure alcuni membri dell'ufficio politico e del CC riuscivano ad
accettare. Ecco perché Lenin, nella sua prima parte della
“Lettera”, raccomandava di procedere a una serie di importanti
cambiamenti politici e organizzativi).
Lenin prevedeva che se il CC del partito non fosse stato ben saldo e
compatto, l'accerchiamento della Russia sovietica da parte degli
Stati imperialisti avrebbe potuto determinare il fallimento della
rivoluzione. Temeva infatti che i conflitti interni al partito, fino
a quel momento insignificanti, avrebbero potuto, di fronte alle
pressioni del nemico esterno, diventare molto gravi. Di qui la
richiesta di aumentare il CC fino a 50-100 unità, reclutando
“operai e contadini medi” che non avessero un “lungo funzionariato
sovietico” e che non appartenessero, né direttamente
né indirettamente, alla casta degli sfruttatori.
Probabilmente Lenin s'era accorto che in sua assenza, a causa della
malattia, lo stato maggiore del partito non riusciva a superare le
divergenze di opinioni per organizzare un lavoro intelligente,
proficuo. Egli temeva soprattutto la minaccia d'una scissione nel
momento più critico del Paese.
Lenin, in sostanza, auspicava la creazione di uno staff in grado di
garantire il partito contro l'influenza dei tratti negativi di certi
suoi dirigenti, in grado cioè di diminuire l'impatto sia dei
fattori puramente soggettivi, che delle circostanze accidentali
nella soluzione delle questioni più importanti, ma anche in
grado di creare le condizioni in cui il contenuto del lavoro di
gruppo, rigorosamente centralizzato, del CC, non superasse il
quadro, non meno rigorosamente definito, delle sue competenze.
Sintomatico è il fatto che la frase di Lenin: "né il
segretario generale, né alcun altro membro del CC" dovevano
essere in grado d'impedire un controllo sulla loro attività,
fu soppressa dalla "Pravda" del 25 gennaio 1923 e mai pubblicata in
nessuna delle successive raccolte di scritti di Lenin, fino a quando
è stata ripristinata, secondo il manoscritto originale, nel
45° volume della V edizione delle sue opere, apparso a Mosca nel
1970.
Relativamente ai tratti soggettivi dei leaders del partito, Lenin,
nell'ultima nota del 4 gennaio, rilevava che il difetto principale
di Stalin: la "grossolanità", “tollerabile” nei rapporti fra
comunisti, era “inammissibile” per un segretario generale, per cui
proponeva la sua sostituzione, anche per evitare che il dissidio fra
Stalin e Trotski rischiasse di danneggiare l'intero partito.
Quanto, su questa decisione, avesse influito il pericoloso
atteggiamento assunto da Stalin (ma anche da Ordzonikidze e
Dzerzinskij) nella questione delle nazionalità, era facile
intuirlo. Le note del 30-31 dicembre su tale questione e sul
progetto di autonomizzazione sono tra le più importanti del
Testamento. Lenin temeva che il regime sovietico si sarebbe
comportato in maniera imperialistica nei confronti delle nazioni
più piccole o più arretrate. Stalin, in tal senso,
s'era mostrato "fatalmente precipitoso", "nefastamente collerico"
verso il preteso "social-nazionalismo"; Dzerzinskij aveva dato prova
di preconcetti imperdonabili; per Ordzonikidze, che aveva
addirittura malmenato pubblicamente un compagno di partito, Lenin
chiedeva una "punizione esemplare".
Stalin, come noto, era stato eletto segretario generale del CC del
partito nella primavera del 1922. Prima d'accedere a questo posto,
egli dirigeva, quale membro dell'ufficio politico a partire dal
marzo 1919, il commissariato per gli affari delle nazionalità
e l'Ispezione operaia e contadina. Durante la guerra civile e fino a
qualche anno dopo, Stalin si era mostrato un leader energico,
volitivo, un grande organizzatore. A motivo di queste
qualità, l'ufficio politico, nella seconda metà del
1921, gli aveva affidato il lavoro organizzativo in seno al CC. Lo
si era incaricato di preparare i plenum del CC, le sessioni del
comitato esecutivo centrale e di fare altre cose ancora:
sicché, in pratica, egli veniva ad assumere le funzioni del
segretario del CC.
Lenin, dal canto suo, era il capo del governo sovietico. Non
occupava ufficialmente alcun ruolo nel partito, nel CC, ma dirigeva
le sedute dei plenum del CC e dell'ufficio politico. Di fatto egli
era a capo non soltanto del consiglio dei commissari del popolo, ma
anche del CC del partito. In queste attività egli aveva come
assistente il segretario del CC. Questa funzione non era ufficiale
(non esisteva prima di Stalin un segretario “generale” del partito),
ma, in pratica, uno dei segretari era stato scelto per dirigere il
lavoro della segreteria.
Quando la salute di Lenin peggiorò in modo irreversibile, si
prese la decisione di rafforzare la segreteria del partito. Il
plenum del CC nominò Stalin, perché sembrava fosse il
più idoneo a proseguire i lavori del partito in assenza di
Lenin. Fu allora che si decise di dare il nome di “segretario
generale” al titolare del nuovo posto, per accrescerne il prestigio
e per distinguerlo dagli altri segretari. Col passare del tempo
Lenin s'accorse che Stalin aveva concentrato nelle sue mani “un
potere illimitato”, sia nell'ambito del partito che dello Stato. Per
questo propose, senza fare nomi, di sostituirlo.
Difficilmente però avrebbero potuto sostituirlo Zinoviev o
Kamenev, che nel Testamento vengono ricordati da Lenin per il loro
comportamento tenuto nel 1917, allorché si opposero alla
sollevazione armata, divulgando presso un giornale non comunista la
decisione segreta del partito. Tuttavia, nonostante questa
defezione, sia l'uno che l'altro erano rimasti membri del CC e
dell'ufficio politico. Kamenev era addirittura vicepresidente del
consiglio dei commissari del popolo, del consiglio del lavoro e
della difesa, mentre Zinoviev era presidente del comitato esecutivo
del Komintern. Era stato proprio Lenin ad appoggiare la candidatura
di Kamenev, in seno al CC, nell'aprile del 1917, a motivo
dell'ascendente su certi strati sociali popolari che unanimemente si
riconosceva a Kamenev. Lenin non ha mai accettato di considerare il
tradimento dei due come un “crimine personale”. Peraltro nel
Testamento egli dice a chiare lettere che non si poteva rimproverare
loro tale comportamento “più di quanto si possa rimproverare
a Trotski il suo non-bolscevismo” (Zinoviev e Kamenev furono fatti
fucilare da Stalin nel 1936).
Quanto a Trotski, Lenin conosceva bene la lunga, complessa e
tortuosa lotta ch'egli aveva condotto contro il bolscevismo, ma
sapeva anche che ciò non dipendeva tanto dai tratti negativi
della personalità egocentrica di Trotski, quanto dal fatto
ch'egli rifletteva l'umore di certi militanti del partito e di vasti
strati sociali. Grazie al suo talento d'oratore, egli conosceva i
modi di galvanizzare quelle masse (specie i più giovani)
sensibili alla fraseologia di sinistra. Trotski era senza dubbio una
personalità di rilievo: era stato, nel 1922, membro
dell'ufficio politico, commissario del popolo alla difesa e alla
marina militare, presidente del consiglio militare rivoluzionario
della Repubblica. Il partito lo aveva anche incaricato di svolgere
diverse funzioni nell'ambito dell'economia nazionale, anche se -come
dice Lenin nel Testamento- “la sua eccessiva sicurezza e
infatuazione per l'aspetto puramente amministrativo degli affari”
rischiava di condurlo “troppo lontano”. Lenin sapeva bene che a
Trotski mancavano alcune qualità politiche fondamentali,
quali p.es. la duttilità con gli uomini, il gusto della
tattica, la capacità di manovra ecc. (Trotski morirà
assassinato in Messico nel 1940, da un sicario di Stalin, Ramon
Mercader).
Probabilmente Lenin si rendeva conto che nessun leader, da solo, era
in grado di sostituirlo e, forse proprio per questo, sperava che,
allargando la partecipazione agli organi di direzione politica,
l'esigenza di avere un leader con altissime capacità sarebbe
venuta meno. Sottoponendo tutti i leaders a un maggiore controllo e
facendo ruotare le cariche, il problema della successione sarebbe
stato meno gravoso.
Non a caso nelle note del 27-28-29 dicembre, riferendosi alla
lettera del 28 dicembre sul carattere legislativo delle decisioni
del Gosplan, Lenin disse ch'era difficile trovare in una sola
persona la combinazione di queste qualità: solida
preparazione scientifica in uno dei rami dell'economia e della
tecnologia, visione d'insieme della realtà, forte ascendente
sulle persone, capacità organizzative e amministrative. Ma
forse -diceva ancora Lenin- se si fossero rispettate le sue
condizioni, non ci sarebbe stato bisogno di cercare una persona del
genere. D'altra parte egli si rifiutò di designare un proprio
successore alla guida del partito.
Nel Testamento Lenin cita altri due leaders: Bucharin e Piatakov.
Del primo esprime due giudizi apparentemente contraddittori. Da un
lato infatti afferma che “non è soltanto il maggiore e il
più prezioso teorico del partito, è anche, a ragione,
il compagno più benvoluto”; dall'altro però sostiene
ch'egli non ha mai ben compreso la “dialettica” e che le sue
concezioni del marxismo sono un po' “scolastiche”. In effetti, la
posizione assunta da Bucharin durante la conclusione della pace di
Brest-Litovsk con la Germania (egli, insistendo sul rifiuto delle
condizioni di pace tedesche, rischiò di portare la repubblica
allo sfascio), era una testimonianza esplicita della sua carente
dialettica: ciò che riconobbe, d'altra parte, lo stesso
Bucharin. Non solo, ma Lenin aveva giudicato “scolastica ed
eclettica” l'analisi dei fenomeni sociali che Bucharin aveva
condotto in alcuni capitoli del suo libero L'economia del periodo di
transizione (Bucharin morirà nelle purghe staliniane nel
1938).
Quanto a Piatakov, Lenin gli riconosceva “volontà e
capacità notevoli”, ma anche la stessa tendenza di Trotski ad
accentuare l'aspetto amministrativo (autoritario) delle cose, per
cui non si poteva "contare su di lui su una seria questione
politica". Tuttavia, sia per questo caso che per quello precedente,
Lenin sperava che i difetti avrebbero potuto, col tempo, essere
superati: in fondo Bucharin aveva solo 34 anni e Piatakov 32; si
può quindi pensare che i due, col tempo, avrebbero potuto
costituire un tandem vincente, benché al momento i leader
più importanti fossero Trotski e Stalin (Piatakov sarà
fucilato nel 1936).
La sorte del testamento
Che cosa accadde dopo che la Krupskaia presentò alla
commissione del CC il Testamento di Lenin? La commissione era
composta da Stalin, Kamenev, Zinoviev e altri ancora. Il plenum del
CC del 21 maggio 1924 adottò la risoluzione, dopo aver
ascoltato il rapporto di Kamenev, di divulgare il contenuto della
“Lettera” non alla seduta dello stesso congresso, ma separatamente,
alle riunioni delle varie delegazioni. Si precisò anche che i
documenti di Lenin non sarebbero stati riprodotti, e per questa
ragione non vennero pubblicati.
I rapporti sulla “Lettera” vennero fatti alle delegazioni da
Kamenev, Zinoviev e Stalin. Stando alla loro interpretazione, Lenin,
riferendosi alla rimozione di Stalin dalla funzione di segretario
generale, la considerava come un'ipotesi di cui tener conto, non
come una necessità. In fondo Lenin non aveva trovato niente
di preciso, di oggettivo, da rimproverare a Stalin: la sua riserva
verteva su questioni di carattere soggettivo (anche se, ma questo
non fu mai sottolineato, egli le riteneva particolarmente gravi,
avendo intuito che si stavano trasformando in un problema politico).
Kamenev comunque espose il contenuto della “Lettera” in modo da far
credere che soltanto i tratti personali del carattere di Stalin
erano stati messi in discussione e non anche il fatto ch'egli aveva
concentrato su di sé un enorme potere. Dal canto suo, Stalin
giurò di tener conto delle osservazioni critiche mossegli da
Lenin.
Alcuni storici hanno sostenuto che non si provvide a sostituire
Stalin perché si temeva che il suo posto l'avrebbe preso
Trotski, il quale, non meno di Stalin, aspirava a una leadership
maggiore in seno al partito e in più era di tendenza
“menscevica”. Ma questa versione dei fatti contrasta proprio con
l'affermazione di Lenin secondo cui Trotski era caratterizzato dal
suo “non-bolscevismo”: il che doveva escludere a priori la proposta
di una sua candidatura a un posto così importante.
Questo Testamento avrebbe sicuramente meritato una più
attenta discussione, ma non essendo stato riprodotto, nessun
delegato ebbe mai modo di leggerlo personalmente. In sostanza, il
dibattito venne indirizzato unicamente sulle proposte di Lenin
riguardanti la struttura organizzativa degli organi dirigenti del
partito. Trotski s'era allora risolutamente opposto all'idea di
ampliare il CC agli operai. Formalmente però, la proposta di
Lenin venne accettata. Il XII congresso del partito (1923) fece
passare il numero dei membri del CC da 27 a 40; il XIII congresso
(1924) li portò a 53. Tuttavia, il progetto di Lenin di
associare gli operai e i contadini alla direzione del partito non si
realizzò.
Nel 1927, il XV congresso adottò la risoluzione di pubblicare
la “Lettera” di Lenin in una Raccolta delle sue opere, ma poi il
testo venne pubblicato solo in un “bollettino segreto”. Nell'ottobre
dello stesso anno, al plenum del CC, Stalin parzialmente citò
e commentò nel suo discorso la “Lettera” di Lenin. Il
discorso venne poi inserito nelle Opere di Stalin in maniera
sintetica: totalmente esclusi furono i passaggi relativi alla
proposta della sua rimozione. Durante il periodo della dittatura
staliniana il Testamento fu addirittura considerato inesistente,
benché nel 1927 fosse apparso all'estero per opera di alcuni
simpatizzanti trotzchisti. Sarà solo nel 1956 che la rivista
Kommunist pubblicherà integralmente questo testamento
politico, che ora si trova anche nella V edizione delle Opere
complete di Lenin (in lingua russa). Nel 1957 e nel 1963 apparvero
altre due importanti testimonianze a favore dell'autenticità
del documento, di una delle segretarie di Lenin, L. A. Fotieva: Dai
ricordi su Lenin e Diario delle segretarie di turno di Lenin.
CONSIDERAZIONI SULLO STALINISMO
La semplificazione che lo stalinismo fece del leninismo
contribuì a creare una sorta di monismo ideologico di Stato,
che servì da supporto per la dittatura del partito unico
sulla società (che fu poi la dittatura degli intellettuali,
dei funzionari di partito e dei burocrati dell'amministrazione
statale, formatisi in ambienti urbani).
Questa semplificazione fu un atto non solo d'imperio, reso possibile
dall'arretratezza di un paese con una percentuale altissima di
analfabeti e di cittadini abituati da secoli all'obbedienza passiva.
Fu anche un atto ingenuo, in quanto si credeva di poter contribuire,
con gli strumenti dell'ideologia, a tenere la società
più unita.
Il capitalismo non crede in queste forme di idealismo, se non in
misura molto limitata, in quanto basa la propria sopravvivenza su
fattori più prosaici, come il profitto, la rendita,
l'evasione fiscale, un salario per acquistare beni superflui o
comunque per consumare quelle forme utili a far dimenticare i
problemi sociali o almeno a nascondere la causa che li genera. Anzi,
ogni richiamo agli ideali che non siano religiosi o di derivazione
religiosa, viene definito, sprezzantemente, come una forma di
ideologia.
L'occidente non ama mettere in discussione la propria ideologia
(formale) con altre ideologie (sostanziali), non ama gente che pensa
e che non compra.
Ma c'è un altro aspetto da considerare. Lo stalinismo fu
anche l'incapacità di capire che le esigenze del mondo
contadino dovevano prevalere su quelle industriali, non solo
perché il paese era basato su un'economia prevalentemente
rurale, ma anche perché un'applicazione forzata di quella
stessa rivoluzione industriale compiuta in Europa occidentale e
negli Stati Uniti, non avrebbe fatto altro che portare alla rovina
un paese privo di colonie, le quali appunto erano servite ai paesi
capitalisti per scaricare il peso dei guasti causati da quella
rivoluzione.
La Russia europea trasformò quella asiatica in una gigantesca
colonia interna, come in Italia la parte del centro-nord fece con
quella meridionale. Quanto più la classe contadina opponeva
resistenza alle priorità assolute dell'industria e della
città, che il partito voleva imporre a tutti i costi, temendo
di perdere il confronto con l'occidente, tanto più la
politica tendeva ad assumere forme di spiccato autoritarismo,
giustificato col pretesto che nel mondo rurale s'andavano
diffondendo tentativi di ripristinare il capitalismo (vedi la
questione dei kulaki).
In sostanza non ci si rendeva conto che proprio
l'industrializzazione forzata, fatta pagare soprattutto alla classe
rurale, costituiva l'elemento principale di una penetrazione delle
campagne e in tutto il paese di una sorta di capitalismo di stato,
gestito da un unico imprenditore nazionale, burocratico e
poliziesco, una sorta di manager amministrativo preposto a far
funzionare un'economia di cui il partito politico, in forza
dell'Ottobre, si sentiva unico legittimo proprietario.
Tutto ciò per dire che nel 1991 è fallito in Urss non
tanto il leninismo, quanto piuttosto il sistema
amministrativo-dirigista inaugurato da Stalin e proseguito dai suoi
successori nel periodo della stagnazione.
A differenza di Lenin, Stalin non riuscì mai a tollerare il
pluralismo degli orientamenti ideali, nonché una loro
organizzazione autonoma, né mai riuscì ad accettare
l'idea che lo Stato dovesse progressivamente estinguersi in rapporto
alla crescita del socialismo. Anzi, egli teorizzò proprio il
contrario, e cioè che lo sviluppo del socialismo avrebbe
comportato un aumento del burocratismo e del militarismo, proprio
per difendersi dalla inevitabile accresciuta ostilità delle
potenze capitalistiche. I poteri forti delle organizzazioni statali
andavano difesi ad oltranza per tutelare le conquiste della
rivoluzione.
La società civile, sotto lo stalinismo, era stata come
inghiottita dallo Stato, il cui compito principale era quello di
organizzare e di indottrinare le masse. Dopo aver abolito ogni forma
di proprietà privata, lo Stato pretendeva di coincidere col
popolo tout-court. E mentre sotto lo stalinismo gli oppositori
venivano eliminati fisicamente, sotto la fase della stagnazione
l'eliminazione era politica, morale, psicologica (con l'internamento
nei manicomi).
La maggiore illusione è stata proprio quella di credere
d'aver costruito il socialismo dal punto di vista della
proprietà statalizzata, in cui la dittatura politica del
partito unico si serviva degli organi statali per imporsi sulla
società.
La stragrande maggioranza dei cittadini era salariata statale. Il
che aveva portato all'indifferenza per le sorti del "bene pubblico",
all'apatia, alla rassegnazione per i destini del paese, in quanto
non può esservi interesse là dove la cosa "pubblica"
non viene avvertita come "propria".
Solo nell'ambito della società civile, in un processo
spontaneo, autocosciente, di appropriazione collettiva del bene
pubblico, in modo che tutti abbiano da riconoscersi come persone
"libere", è possibile parlare di "socialismo reale".
Qualunque "socialismo di stato" è un "socialismo da caserma".
Il problema è, purtroppo, che in Russia non si è
sviluppato un socialismo dal punto di vista della società
civile, in opposizione a quello "statalista", ma si sono sviluppate
correnti borghesi che stanno utilizzando lo Stato per potersi meglio
affermare.
E' d'altra parte inevitabile veder sorgere una reazione borghese,
istintiva, individualistica alla massificazione obbligata di 70 anni
di dittatura.
Si è approfittato del fallimento del socialismo burocratico
per sostenere uno sviluppo che prima o poi porterà a
contraddizioni così acute da riproporre il tema di un loro
superamento anticapitalistico.
Non si può cancellare il leninismo con un colpo di spugna.
Non si può cancellarlo col pretesto che la prosecuzione del
leninismo è stata, storicamente, lo stalinismo.
Lo stalinismo, come d'altra parte il trotskismo, nella loro versione
codificata, consegnata alla storia, non hanno nulla a che fare col
leninismo. Lenin fu ostile sia a Stalin che a Trotsky in più
occasioni, non apprezzava i loro metodi "amministrativi",
cioè autoritari, anche se questo non gli impedì di
lavorare con loro. La stessa ideologia "leninista" non ha nulla a
che vedere col metodo dialettico di Lenin, che mal sopportava gli
"ismi" di qualsivoglia genere.
Lo stesso Marx - come noto - rifiutava di definirsi "marxista". Ogni
forma di fossilizzazione, di cristallizzazione di una teoria,
è una forma di tradimento nei confronti degli autori che
l'hanno elaborata. Non c'è un solo libro di Lenin che non
abbia rettificato delle tesi espresse in un libro precedente.
P.es. dopo il fallimento della prima rivoluzione russa, Lenin
dovette rendersi conto che lo sviluppo del capitalismo nelle
campagne era stato sopravvalutato. La stessa realizzazione della Nep
era in sostanza l'ammissione che il socialismo non poteva essere
imposto dall'alto. Nelle opere del 1922-23 egli offre una visione
del socialismo come società di cooperatori civilizzati, in
cui il ruolo delle cooperative (fino ad allora criticato) sarebbe
stato fondamentale. Lui stesso più volte aveva detto ch'era
impossibile non commettere errori e che il problema vero stava nel
saperli correggere in tempo, senza aspettare che si correggessero da
soli. Il marxismo dell'ultimo Lenin era molto più pragmatico
e realista di quello del periodo precedente.