Stalin

 

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Iosif Vissarionovič Džugašvili, in georgiano Ioseb Besarionis Dze Jughašvili (Gori, 21 dicembre 1879, 6 dicembre del calendario giuliano – Mosca, 5 marzo 1953), è stato uno statista, politico e dittatore sovietico bolscevico conosciuto come Stalin ("acciaio"), Segretario Generale del Partito Comunista dell'URSS e leader di tale Paese dal 1924 al 1953.

Nativo della Georgia, di umili origini, visse una avventurosa giovinezza come rivoluzionario socialista di professione, prima di assumere un ruolo importante di dirigente all'interno della fazione bolscevica del Partito Operaio Socialdemocratico Russo, guidata da Lenin. Capace organizzatore, dotato di grande energia e di durezza di modi e di metodi, Stalin, strettamente fedele alle direttive di Lenin, divenne uno dei principali capi della Rivoluzione d'ottobre e del nuovo stato socialista: l'Unione Sovietica. Il suo ruolo e il suo potere politico crebbero durante la Guerra civile russa in cui svolse compiti politico-militari di grande importanza, entrando spesso in rivalità con Lev Trockij.

Nonostante le critiche mossegli nell'ultima parte della sua vita da Lenin e il duro contrasto con Trockij, Stalin alla morte del capo bolscevico, assunse progressivamente, grazie alla sua abilità organizzativa e politica e al ruolo di segretario generale del partito, il potere supremo in Unione Sovietica. Dopo aver sconfitto politicamente prima la sinistra di Trockij e quindi la destra di Zinovev, Kamenev e Bucharin, Stalin adottò una prudente politica di costruzione del "socialismo in un solo paese", mentre nel campo economico mise in atto le politiche estremistiche di interruzione della NEP, di collettivizzazione forzata delle campagne e di industrializzazione mediante i Piani Quinquennali, lo stakanovismo e la crescita dell'industria pesante.

A metà degli anni trenta, in una fase di superamento delle difficoltà economiche e di crescita industriale, Stalin iniziò il tragico periodo delle purghe e del Grande terrore in cui progressivamente eliminò fisicamente, con un metodico e spietato programma di repressione, tutti i suoi reali o presunti avversari nel partito, nell'economia, nella scienza, nelle forze armate, nelle minoranze etniche. Per rafforzare il suo potere e lo stato sovietico contro possibili minacce esterne o interne di disgregazione, Stalin organizzò un vasto sistema di campi di detenzione e lavoro (GULag) in cui furono imprigionati in condizioni miserevoli milioni di persone.

Nel campo della politica estera, Stalin, timoroso delle minacce tedesche e giapponesi alla sopravvivenza dell'Unione Sovietica, in un primo momento adottò una politica di collaborazione con l'occidente secondo la dottrina della sicurezza collettiva; dopo l'Accordo di Monaco, il dittatore, sospettoso delle potenze occidentali e intimorito dalla potenza tedesca, preferì ricercare un accordo temporaneo con Adolf Hitler che favorì l'espansionismo sovietico verso occidente e i Paesi Baltici.

Colto di sorpresa dall'attacco iniziale tedesco con il quale la Germania nazista violava il patto di non aggressione sottoscritto dalle due potenze solo due anni prima, nonostante alcuni errori di strategia militare nella fase iniziale della guerra, Stalin seppe riorganizzare il Paese e l'Armata Rossa fino a ottenere, pur a costo di gravi perdite militari e civili, la vittoria totale nella Grande Guerra Patriottica. Il dittatore rivestì un ruolo di grande importanza nella lotta contro il nazismo e nella sconfitta di Hitler; le sue truppe, dopo aver liberato l'Europa Orientale dall'occupazione tedesca, conquistarono Berlino e Vienna, costringendo il Führer al suicidio.

Dopo la vittoria Stalin, divenuto detentore di un enorme potere in Unione Sovietica e nell'Europa centro-orientale e assurto al ruolo di capo indiscusso e prestigioso del comunismo mondiale, accrebbe il suo dispotismo violento riprendendo politiche di terrore e di repressione. Stalin morì per una emorragia cerebrale nel 1953, quando l'Unione Sovietica era diventata una grande potenza economica, delle due superpotenze mondiali, dotata di armi nucleari, e guida del mondo comunista mondiale.

Dal 1956, a partire dal XX Congresso del PCUS, Stalin, che era stato oggetto di un vero e proprio culto della personalità nella ultima parte della sua vita da parte dei dirigenti e dei simpatizzanti del comunismo mondiale, è stato sottoposto a pesanti critiche da parte di politici e storici per la sua attività politica e per i suoi spietati metodi di governo.

Rivoluzionario di professione

Nacque nel 1879 da Vissarion Džugašvili (1853-1890) e da Ekaterina Geladze (1858-1937), in una famiglia in cui il padre faceva il calzolaio e la madre la lavandaia. Picchiato spesso dal padre, Stalin ebbe per tutta la sua esistenza rapporti difficili con la propria famiglia; alcuni studiosi hanno ritenuto che tali conflitti famigliari abbiano provocato in lui diverse turbe psicologiche; tuttavia, queste affermazioni furono smentite dal diretto interessato che, di fronte a una precisa domanda del biografo Emil Ludwig, rispose: "Assolutamente no. I miei genitori non mi maltrattavano affatto". In seguito, in un suo manuale di marxismo scolastico, Stalin parlò del padre come un classico esempio di proletario con una coscienza ancora "piccolo-borghese".

L'infanzia di "Soso" (diminutivo georgiano di Josif) non fu priva di momenti critici per la sua salute fisica, dapprima per una forma acuta di varicella e poi quando, a dieci anni, fu investito e travolto da un cavallo nel corso di una festa di paese: rimase gravemente ferito al braccio sinistro, perdendone parte della capacità di articolazione. Giovanissimo poté frequentare, grazie a una borsa di studio, il seminario teologico ortodosso di Tbilisi.

Il contatto, però, con le idee e con l'ambiente dei deportati politici lo avvicinò alle dottrine socialiste. Entrato, così, nel movimento marxista clandestino di Tbilisi nel 1898, allora rappresentato dal Partito socialdemocratico (POSDR), lavorò per qualche tempo al locale osservatorio astronomico. Ma soprattutto cominciò, da allora, un'intensa attività politica di propaganda e di preparazione insurrezionale, che lo portò ben presto a conoscere il rigore della polizia del regime.

Arrestato nel 1900 e continuamente sorvegliato, Stalin nel 1902 lasciò la sua città per stabilirsi a Batumi, dove però venne subito imprigionato e condannato a un anno di carcere, seguito da un triennio di deportazione in Siberia. Fuggito nel 1904, tornò a Tbilisi e nei mesi successivi partecipò con energia e notevole capacità organizzativa al movimento insurrezionale, che vide la formazione dei primi soviet di operai e di contadini. Nel novembre del 1905, dopo aver pubblicato il suo primo saggio, A proposito dei dissensi nel partito, divenne direttore del periodico Notiziario dei lavoratori caucasici e in Finlandia, alla conferenza bolscevica di Tampere, incontrò per la prima volta Lenin, accettandone le tesi sul ruolo di un partito marxista compatto e rigidamente organizzato come strumento indispensabile per la rivoluzione proletaria.

Spostatosi a Baku, dove fu in prima linea nel corso degli scioperi del 1908, Stalin venne di nuovo arrestato e deportato in Siberia; riuscì a fuggire ma fu ripreso e internato nel 1913 a Kurejka sul basso Jenisej, dove rimase per quattro anni, fino al marzo del 1917. Nei brevi periodi di attività clandestina, riuscì progressivamente ad imporre la sua personalità pragmatica e le sue capacità organizzative (nonostante un approccio talvolta eccessivamente "ruvido" che i compagni di partito gli rimproveravano) e ad emergere come dirigente di livello nazionale, tanto da essere chiamato da Lenin nel 1912 a far parte del Comitato centrale del partito.

Protagonista nella Rivoluzione bolscevica e nella Guerra civile

Nello stesso anno contribuì a far rinascere a San Pietroburgo la Pravda, mentre definiva, nel saggio Il marxismo e il problema nazionale, le sue posizioni teoriche (non sempre, però, in linea con quelle di Lenin, di cui non comprendeva la battaglia contro i deviazionisti, né la decisione di prender parte alle elezioni per la Duma). Tornato a San Pietroburgo (nel frattempo ribattezzata Pietrogrado) subito dopo l'abbattimento dell'assolutismo zarista, Stalin, insieme a Lev Kamenev e a Murianov, assunse la direzione della Pravda, appoggiando il governo provvisorio per la sua azione rivoluzionaria contro i residui reazionari. Ma questa linea fu sconfessata dalle Tesi di aprile di Lenin e dal rapido radicalizzarsi degli eventi. Nelle decisive settimane di conquista del potere da parte dei bolscevichi Stalin, membro del comitato militare, non apparve in primo piano e solo il 9 novembre 1917 entrò a far parte del nuovo governo provvisorio (il Consiglio dei commissari del popolo) con l'incarico di occuparsi degli affari delle minoranze etniche. A lui si deve l'elaborazione della Dichiarazione dei popoli della Russia, che costituisce un documento fondamentale del principio di autonomia delle varie nazionalità nell'ambito dello Stato sovietico.

Membro del Comitato esecutivo centrale, Stalin fu nominato, nell'aprile del 1918, plenipotenziario per i negoziati con l'Ucraina. Nella lotta contro i generali "bianchi", fu incaricato di occuparsi del vettovagliamento delle forze bolsceviche sul fronte di Tsaritsyn (poi Stalingrado, oggi Volgograd). In questa circostanza dimostrò grande energia e cominciò a organizzare un suo gruppo di fedeli seguaci; spesso in contrasto con le direttive di Trockij, Stalin venne infine richiamato a Mosca da Lenin che tuttavia apprezzò la sua capacità di direzione e la sua spietate decisione. Lenin si preoccupò della crescente rivalità tra Stalin e Trockij e richiese ad entrambi di comporre le loro divergenze e collaborare per la vittoria della Rivoluzione bolscevica; in effetti Stalin in questa fase elogiò ripetutamente in alcuni discorsi l'operato e l'efficienza di Trockij e sembrò mosso dal desiderio di riavvicinarsi al capo dell'Armata Rossa.

Considerato da Lenin e anche da Trockij il dirigente bolscevico più duro e efficiente, Stalin venne inviato successivamente negli Urali dove contribuì alla nomina del generale Sergeij Kamenev al comando supremo, quindi nel maggio 1919 si recò a Pietrogrado, dove denunciò e represse una presunta cospirazione antibolscevica e organizzò la riconquista di alcune piazzeforti. Infine partì il 3 ottobre 1919 per il fronte sud, come commissario politico del Fronte meridionale, dove riallacciò i rapporti con i suoi fedeli amici della Prima armata a cavallo: Kliment Vorošilov, Grigorij Ordžonikidze, Semën Budënnyj.

Durante la guerra sovietico-polacca Stalin, commissario politico del Fronte Sud-occidentale del generale Egorov, inizialmente condivise con Trockij le forti riserve sui progetti di offensiva verso il cuore dell'Europa promossi da Lenin; dubbioso sulla possibilità di una insurrezione socialista in Polonia o in Germania, egli evidenziò invece come fosse prudente occuparsi soprattutto della situazione in Crimea e nel Kuban dove le forze bianche avevano ripreso la loro attività e minacciavano la sicurezza delle retrovie del suo fronte. Alla fine però si imposero i progetti strategici di Lenin e del generale Michail Tuchačevskij e Stalin finì per votare disciplinatamente nel Politburo a favore dell'offensiva su Varsavia.

Durante la battaglia, che terminò con la sconfitta dell'Armata Rossa, sorse un nuovo violento contrasto con Trockij, quando Stalin si rifiutò, in ragione dei reali pericoli sulle sue comunicazioni ma anche per rivalità personale, di distaccare una parte delle sue forze in appoggio al generale Tuchačevskij e decise di concentrarle invece nella inutile conquista di Lvov. Nel X Congresso del partito del 1921 la condotta e le decisioni di Stalin vennero criticate in una sessione a porte chiuse, nonostante le spiegazioni che egli fornì del suo operato. Le controversie sulle responsabilità nella sconfitta di Varsavia sarebbero continuate fino agli anni trenta e concorsero a rovinare i rapporti tra Stalin e il generale Tuchačevskij.

Lenin espresse anche esplicite riserve nei suoi confronti, manifestate nel testamento politico in cui accusava Stalin di anteporre le proprie ambizioni personali all'interesse generale del movimento. Lenin era preoccupato che il governo perdesse sempre più la sua matrice proletaria, e diventasse esclusivamente un'ala dei burocrati di partito, sempre più lontani dalla generazione vissuta tanto tempo in clandestinità prima delle rivolte del 1917. Oltretutto intravvedeva un futuro dominio incontrastato del Comitato Centrale, ed è per questo che propose nei suoi ultimi scritti una riorganizzazione dei sistemi di controllo, auspicandone una formazione prevalentemente operaia che potesse tenere a bada la vasta e nascente nomenclatura di funzionari di partito.

Il segretario generale

Nominato nel 1922 segretario generale del Comitato centrale, Stalin, unitosi a Zinov'ev e Kamenev (la famosa troika), seppe trasformare questa carica, di scarso rilievo all'origine, in un formidabile trampolino di lancio per affermare il suo potere personale all'interno del partito dopo la morte di Lenin (1924). Fu allora che nel contesto di una Russia devastata dalla guerra mondiale e dalla guerra civile, con milioni di cittadini senza tetto e letteralmente affamati, diplomaticamente isolata in un mondo ostile, scoppiò violento il dissidio con Lev Trockij, ostile alla Nuova Politica Economica e sostenitore dell'internazionalizzazione della rivoluzione. Stalin sosteneva al contrario che la "rivoluzione permanente" fosse una pura utopia e che l'Unione Sovietica dovesse puntare sulla mobilitazione di tutte le proprie risorse al fine di salvaguardare la propria rivoluzione (teoria del "socialismo in un Paese solo").

Trotsky accusava Stalin e il partito, assieme alla crescente opposizione creatasi in seno al partito (tra cui i Decei, critici del Centralismo Democratico), che ci volesse invece un rinnovamento democratico all'interno degli organi dirigenti, che sempre più venivano scelti su matrice non elettiva, dall'alto verso il basso, contrariamente agli spiriti che accesero la rivoluzione. Espresse queste sue posizioni al XIII congresso del partito, ma la sua accusa venne respinta e Trotsky venne sconfitto, oltretutto accusato da Stalin e dal "triumvirato" (Stalin, Kamenev, Zinov'ev) di "frazionismo", tendenza contraria alla direzione "monolitica" presa dal partito dal X congresso. Trockij venne isolato anche a causa delle norme di emergenza (prese precedentemente dallo stesso Lenin nel pieno della guerra civile sempre nell'ambito del X congresso) tese a strutturare un partito compatto, eliminando le tendenze frazionistico-scissioniste.

Le tesi di Stalin trionfarono soltanto nel 1926, quando infine il Comitato centrale si schierò sulle posizioni staliniane, isolando Trockij (con il quale, nel corso del dibattito, avevano finito per associarsi anche Kamenev e Zinov'ev).

Nel corso di questi anni sia l'Opposizione Operaia di Aleksandra Kollontaj, che si batteva per il ritorno alla democrazia dei Soviet contro la burocratizzazione, sia l'Opposizione di Sinistra, guidata da Trockij, e la sua momentanea trasformazione in Opposizione Unificata, con Kamenev e Zinov'ev, che poi capitolarono, furono sconfitte con i metodi più brutali di intimidazione e di persecuzione, dalla propaganda perniciosa di falsità da parte dell'apparato del partito dominato dagli staliniani, all'irruzione nelle sedi di partito, che ospitavano riunioni ed assemblee, con la devastazione delle stesse ed il pestaggio degli intervenuti.

Lo psichiatra russo Vladimir Bechterev nel 1927 visitò Stalin e gli diagnosticò una sindrome paranoide. Poco tempo dopo morì in circostanze non chiarite. Stalin avrebbe ordinato l'assassinio del medico perché non d'accordo con la diagnosi.

Lo stalinismo

Stalin diede anche alcuni contributi allo sviluppo teorico del marxismo-leninismo, in particolare sul rapporto tra socialismo e movimenti nazionalisti. La prassi politica realizzatasi nei trent'anni del suo governo è stata definita dai suoi oppositori (in particolare trotskisti e anti-comunisti) "stalinismo" al fine di mostrare una sua parziale differenza rispetto alla formulazione classica del marxismo-leninismo. Partendo dal concetto leninista di "dittatura del proletariato", secondo il quale dopo la rivoluzione e prima della realizzazione di una società comunista compiuta sarebbe necessaria una fase politica di transizione in cui i mezzi dello stato conquistato dai lavoratori vengano da essi impiegati contro la resistenza della minoranza capitalista sconfitta, e dalla teoria dell'estinzione dello stato una volta terminato il periodo della dittatura del proletariato, Stalin seguì la teoria della violenza rivoluzionaria crescente all'interno del periodo di transizione già elaborata da Lenin.

La prassi politica realizzatasi nei trent'anni del suo governo è stata definita "stalinismo". Le caratteristiche distintive della gestione stalinista del potere in politica interna sono il culto della personalità e l’impiego del terrore (Gianfranco Pasquino. Dizionario di politica, Gruppo Editoriale l’Espresso.Pag 498), partendo dal concetto leninista di "dittatura del proletariato". Lenin, in "Stato e Rivoluzione", aveva previsto che immediatamente dopo la presa del potere rivoluzionario l'apparato di repressione dello stato, fin dall'inizio del periodo di transizione, avrebbe iniziato a indebolirsi fino ad estinguersi una volta raggiunto il comunismo. Di fatto la pratica staliniana di governo andava nella direzione opposta: una crescita abnorme dell'apparato repressivo dello stato. Questo creava dei problemi teorici e pratici di difficile soluzione: che socialismo poteva essere quello che si serviva di un apparato repressivo di tal fatta? Sul punto "dell'intensificarsi della lotta di classe man mano che si procedeva verso il socialismo" Stalin fu chiaro. Disse nel Plenum del febbraio-Marzo 1937:”Quanto più andremo avanti, quanti più successi avremo, tanto più i residui delle classi sfruttatrici distrutte diverranno feroci”. (Storia dell’Unione Sovietica. Giuseppe Boffa. Arnaldo Mondadori Editore L’Unità. P,252).

Con il 1928 iniziò la cosiddetta "era di Stalin". Da quell'anno infatti la vicenda della sua persona si identificò con la storia dell'URSS, di cui fu l'onnipotente artefice fino alla morte. Dopo aver posto bruscamente termine alla NEP con la collettivizzazione forzata e la meccanizzazione dell'agricoltura e soppresso il commercio privato (i kulaki arricchiti furono declassati a semplici contadini dei kolchoz e quelli che si opponevano avviati a campi di lavoro), fu dato avvio al primo piano quinquennale (1928-32) che dava la precedenza all'industria pesante. Circa la metà del reddito nazionale fu dedicata all'opera di trasformazione di un Paese povero e arretrato in una grande potenza industriale. Furono fatte massicce importazioni di macchinari e chiamate alcune decine di migliaia di tecnici stranieri. Sorsero nuove città per ospitare gli operai (che in pochi anni passarono dal 17 al 33% della popolazione), mentre una fittissima rete di scuole debellava l'analfabetismo e preparava i nuovi tecnici.

Anche il secondo piano quinquennale (1933-37) diede la precedenza all'industria che compì un nuovo grande balzo in avanti; ma non altrettanto brillante fu il rendimento agricolo per cui, in concomitanza con l'entrata in vigore di una nuova Costituzione (1936), ne fu modificata la troppo rigida struttura. A quest'opera indubbiamente gigantesca corrisposero tuttavia un ferreo autoritarismo e un'implacabile intransigenza: ogni dissenso ideologico fu condannato come "complotto".

Furono le terribili "purghe" degli anni trenta (successive al misterioso assassinio di S. Kirov) che videro la condanna a morte o a lunghi anni di carcere di quasi tutta la vecchia guardia bolscevica, da Kamenev a Zinov'ev a Radek a Sokolnikov a Jurij Pjatakov; da Bucharin e Rykov a G. Jagoda e a M. Tuchačevskij (1893 - 1938), in totale 35.000 ufficiali su 144.000 che componevano l'Armata Rossa.

Secondo le stime del KGB (1960, rese note dopo la caduta dell'URSS) 681.692 persone vennero condannate a morte nel 1937-38 (353.074 nel 1937 e 328.018 nel 1938), 1.118 nel 1936 e 2.552 nel 1939 per reati politici. Il totale di condanne a morte politiche tra il 1930 e il 1953 è, sempre secondo queste stime, di 786.098, anche se molti storici le considerano sottostimate per diversi motivi.

Stalin e i suoi collaboratori giustificarono il bagno di sangue che spazzò via dal PCUS ogni residuo di opposizione alla linea Stalinista; operazione che privò, fra l'altro, l'Armata Rossa di oltre la metà dei suoi comandanti più prestigiosi e il partito dei dirigenti della generazione rivoluzionaria con il timore di complotti e di moti reazionari, nonché con la presenza di una "quinta colonna" borghese-fascista nei vertici dell'esercito.

Venne intrapresa una lotta senza tregua contro i reali o presunti nemici del socialismo o antipartito. Vennero allontanati dal potere i più famosi leader della rivoluzione, Trotskij, Kamenev, Zinovev, Bucharin, fino a giungere al culmine, coi processi di Mosca e con l’eliminazione fisica di tutta la vecchia guardia bolscevica,e, infine, di Trotskij(1940), già in esilio da più di un decennio). Per dare un’idea dell’entità della repressione, solo considerando i componenti del Politburo degli gli anni 20, i seguenti Vecchi Bolschevichi, in gran parte “compagni d’armi di Lenin” perirono nelle prughe: Lev Kamenev, Nikolay Krestinsky Leon Trotsky, Nikolai Bukharin, Grigory Zinoviev, Alexei Rykov Jānis Rudzutaks Grigori Sokolnikov, Nikolai Uglanov,Vlas Chubar, Valerian Kuybyshev, Stanislav Kosior, Sergei Syrtsov. Dei 139 membri e supplenti del Comitato centrale del partito, eletti al XVII Congresso del 1934, nei due anni successivi 98 furono arrestati e fucilati. Dei 1.966 delegati con diritto di voto o di consulenza, 1.108, cioè chiaramente più della maggioranza, furono arrestati sotto l'accusa di delitti controrivoluzionari. (dati del rapporto Krusciov).

Ammessa alla Società delle Nazioni nel 1934, l'URSS avanzò proposte di disarmo generale e cercò di favorire una stretta collaborazione antifascista sia fra i vari Paesi sia al loro interno (politica dei "fronti popolari"). Nel 1935 concluse patti di amicizia e reciproca assistenza con la Francia e la Cecoslovacchia; l'anno successivo appoggiò con aiuti militari la Spagna repubblicana contro Franco. Ma il Patto di Monaco (1938) costituì un duro colpo per la politica "collaborazionista" di Stalin che a Litvinov sostituì Vjačeslav Molotov (1939) e alla linea possibilista alternò una politica puramente realistica.

Per lunghi mesi nel 1939 l'Unione sovietica tentò di stringere accordi con l'Inghilterra e la Francia, per giungere a un patto che garantisse l'aiuto delle due nazioni all'Unione Sovietica in caso di invasione tedesca, ma le due potenze occidentali inviarono a Mosca solo delegazioni di secondo grado senza il potere di stringere alcun accordo. Così, di fronte alle tergiversazioni occidentali e temendo il sostegno di Francia e Inghilterra alla Germania per costruire un unitario fronte anticomunista, Stalin preferì la "concretezza" tedesca (Patto Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939) che, secondo lui, se non era più in condizione di salvare la pace europea, poteva almeno momentaneamente assicurare la pace all'URSS e prepararlo a quella che poi verrà chiamata la Grande Guerra Patriottica.

Una diversa interpretazione storiografica è, tuttavia, quella che vede il Patto Molotov-Ribbentrop come un tentativo di Stalin di far uscire l'URSS dall'isolamento internazionale in cui si trovava da almeno un biennio, reso palese dalla Conferenza di Monaco del 29-30 settembre 1938 cui l'Unione Sovietica non era stata invitata.

Una ulteriore interpretazione storiografica (ad esempio, quella dello storico russo marxista-leninista Roy Medvedev, che ha scritto diverse opere su Stalin) vede uno Stalin in attesa degli eventi, pronto a schierarsi dalla parte del vincitore appena si fosse palesato come tale. La spartizione della Polonia (1939) e l'annessione di Estonia, Lettonia e Lituania e la guerra alla Finlandia (1940) rientrarono nella stessa concezione: garantire al massimo le frontiere sovietiche "calde". In seguito al patto di non aggressione con la Germania, il Comintern strettamente controllato da Stalin, riesumò il vecchio slogan leniniano della guerra tra opposti imperialismi, attribuendo le maggiori responsabilità a Francia e Inghilterra. Tale linea provocò non poco scompiglio e disorientamento tra le file dei comunisti molti dei quali erano approdati alle idee del comunismo proprio in funzione dell'anti-nazismo e dell'antifascismo.

La Grande Guerra Patriottica

« Quando volgo indietro lo sguardo, mi permetto di dire che nessun'altra direzione politico-militare di qualsiasi paese avrebbe retto a simili prove, né avrebbe trovato una via d'uscita dalla situazione eccezionalmente grave che si era creata [...]»

La successiva guerra contro i paesi dell'Asse nazifascista (1941-1945) costituì una pagina importantissima e decisiva della vita di Stalin. Dopo un cedimento psicologico iniziale, di fronte alla sorpresa dell'attacco tedesco che sconvolgeva tutte le sue previsioni e i suoi piani, seppe organizzare e guidare l'Armata Rossa e l'Unione Sovietica nella durissima lotta contro la Germania nazista, che metteva in pericolo la sopravvivenza stessa dello stato bolscevico ed anche delle popolazioni sovietiche, destinate allo sterminio, alla schiavitù e alla deportazione secondo i piani di Hitler. Durante la seconda guerra mondiale, l'URSS subì enormi perdite, quantificabili in circa 9.000.000 di militari e 12.000.000 di civili, in parte a causa delle disastrose sconfitte iniziali e in parte a causa dei metodi operativi adottati di fronte alle potenti forze tedesche e delle straordinarie dimensioni delle battaglie e delle campagne di guerra del fronte orientale. La Germania impiegò sempre il grosso delle sue forze armate in Russia e subì anch'essa gravi perdite, quasi 4 milioni di militari, cioè oltre 80% del suo totale su tutti i fronti.

Stalin, usando spesso i suoi metodi violenti e brutali, specie contro collaborazionisti ed etnie a suo parere infide, diresse la lotta con determinazione e grande energia, anche se non senza alcuni momenti di pessimismo, specie a Mosca nel 1941 e a Stalingrado nell'estate 1942. Col tempo si costruì anche una notevole competenza militare strategica per ammissione degli stessi esperti occidentali che lo conobbero e coordinò nel complesso con abilità le grandi operazioni strategiche ideate e pianificate da alcuni suoi competenti generali, a cui diede fiducia (come Žukov, Rokossovskij, Vasilevskij, Konev e Vatutin).

Stalin e l'Armata Rossa svolsero un ruolo decisivo nella sconfitta di Hitler e del Nazismo, prima respingendo l'attacco nazista, con la battaglia di Mosca del dicembre 1941; poi con la decisiva vittoria di Stalingrado dell'inverno 1942-1943 e il grande scontro di mezzi corazzati a Kursk; infine con le grandi offensive degli anni 1943-1945 (i "dieci colpi di maglio", secondo la terminologia staliniana dell'epoca), che distrussero la potenza della Wehrmacht, fino alla conquista finale della capitale tedesca a seguito della battaglia di Berlino e del suicidio di Hitler. Durante la guerra il nome in codice di Stalin nelle direttive segrete e nelle comunicazioni con i vari comandi era Vasilev.

Oltre al suo apporto - notevole e decisivo - alla conduzione della guerra, fu comunque estremamente significativo anche il ruolo di Stalin come grande diplomatico, evidenziato dalle conferenze al vertice: un negoziatore rigoroso, logico, tenace, non privo di ragionevolezza. Fu assai stimato da Franklin Delano Roosevelt, meno da Winston Churchill, cui fece velo la vecchia ruggine (rinforzata dai fatti del 1939) anticomunista.

Il dopoguerra e la morte

Si sostiene che stimasse Chiang Kai-shek più di Mao Zedong (che tra l'altro aveva di lui un'ottima opinione, come testimonia la visita che fece allo statista sovietico il 21 dicembre 1949, in occasione del suo compleanno nonché gli onori che gli tributò nei giorni successivi alla sua scomparsa) e solo con riluttanza smise di pensare che la Cina poteva essere governata dal Kuomintang con l'adesione dei comunisti. Ad ogni modo, durante la guerra civile cinese l'URSS fornì al Partito Comunista Cinese un contributo in materiale bellico e un certo numero di consiglieri; fin dall'agosto del 1945 inoltre, dopo la sua dichiarazione di guerra al Giappone, appoggiò i maoisti conquistando la Manciuria e lasciando al PCC il bottino ottenuto.

Per ciò che concerneva la Germania, Stalin fu un assertore della divisione in due Stati: Repubblica Federale Tedesca capitalista e Repubblica Democratica Tedesca socialista. Quando le potenze occidentali decisero unilateralmente di introdurre il Marco Tedesco al posto della valuta di occupazione, per convincere Stalin a lasciar riunificare la Germania, il leader georgiano rispose con il blocco della città: il 24 giugno 1948 l'URSS impedì gli accessi ai tre settori occupati da americani, inglesi e francesi di Berlino, tagliando tutti i collegamenti stradali e ferroviari che attraversavano la parte di Germania sotto controllo sovietico. Gli americani risposero con il celebre ponte aereo che convinse l'Unione Sovietica a togliere il blocco il 12 maggio 1949 (ma le missioni aeree USA perdurarono fino al 30 settembre).

Il dopoguerra trovò l'URSS impegnata nuovamente su un doppio fronte: la ricostruzione all'interno e l'ostilità verso l'Occidente all'esterno, Nell'immediato dopoguerra l'Unione Sovietica infranse il monopolio americano sul possesso della bomba atomica sperimentata nel 1949. Furono gli anni degli inizi della Guerra fredda, che videro Stalin irrigidire ancor più il monolitismo del Partito comunista fuori e dentro i confini, ma al contempo del rispetto dei patti post-bellici, di cui è espressione evidente lo scioglimento del Comintern e la creazione del Cominform e la "scomunica" della deviazionista Iugoslavia.

In occasione della Guerra di Corea Stalin offrì all'alleato Kim Il Sung l'appoggio di 26.000 soldati sovietici (un apporto molto moderato, se confrontato con quello concesso invece da Mao pari a 780.000 militi) e regalò delle forniture alimentari e di mezzi corazzati ai nordcoreani, ma fu sempre restio a intervenire direttamente nel conflitto. Durante la guerra civile greca rispettò i patti firmati con le potenze alleate e non supportò i comunisti ellenici, lasciando che Gran Bretagna e Stati Uniti, sempre nel rispetto dei patti che dividevano l'Europa in aree d'influenza, a rotazione dessero aiuti determinanti al governo di Atene nella repressione dell'insurrezione comunista. In sostanza Stalin lasciava mano libera agli occidentali in Grecia ed in Italia, ma pretendeva i medesimi diritti su tutta l'Europa orientale.

Stalin, ormai in età avanzata, subì un colpo apoplettico nella sua villa suburbana di Kuntsevo la notte tra il 1º e 2 marzo 1953, ma le guardie di ronda davanti alla sua camera da letto non osarono forzarne la porta blindata fino alla mattina dopo, quando Stalin era già in condizioni disperate: metà del corpo era paralizzata e aveva perso l'uso della parola. Morì all'alba del 5 marzo, dopo aver dato per diverse volte segnali di miglioramento. Drammatico è il racconto dell'ultimo istante di vita del dittatore fatto dalla figlia Svetlana: convinto di essere vittima di una congiura, Stalin maledisse i leaders comunisti riuniti attorno al divano sul quale giaceva. Alcuni storici hanno accettato l'ipotesi dell'assassinio, ipotesi categoricamente smentita dal grande storico Roy Medvedev.

Il suo funerale fu imponente, con una partecipazione stimata in un milione di persone: il corpo, dopo essere stato imbalsamato e vestito in uniforme, fu solennemente esposto al pubblico nella Sala delle Colonne del Cremlino (dove era già stato esposto Lenin). Almeno 500 persone morirono schiacciate nel tentativo di rendergli omaggio. Fu sepolto accanto a Lenin nel mausoleo sulla Piazza Rossa.

Quando Stalin morì, la sua popolarità come capo del movimento di emancipazione delle masse oppresse di tutto il mondo era ancora intatta presso tutti i partiti comunisti al mondo. Alla fine del decennio, con la pubblicazione del discorso tenuto da Nikita Chruščёv durante il XX Congresso del PCUS, l'Unione Sovietica rinnegò ufficialmente gran parte delle scelte politiche e ideologiche di Stalin, ridimensionò il suo ruolo durante la Grande Guerra Patriottica, rimosse i riferimenti a lui in campo culturale e politico (con un processo definito "destalinizzazione" in Occidente), riabilitò alcuni degli esponenti politici condannati a morte durante le purghe, mise in pratica un radicale programma di riforme economiche e intraprese rapporti più distesi con l'Occidente capitalista. Il programma di riforme non fu accettato all'unanimità dai numerosi partiti comunisti sparsi nel mondo: tra le reazioni più clamorose vanno ricordate quelle dell'Albania (allora parte del Patto di Varsavia) e soprattutto della Cina, che ruppero i rapporti di collaborazione con l'URSS definendo "revisionista" l'operazione Chruščёv. Uno dei primi provvedimenti della politica di destalinizzazione fu la rimozione della salma di Stalin dal Mausoleo di Lenin, accanto al quale era stato deposto subito dopo la morte. Da allora è sepolto in una tomba poco distante, sotto le mura del Cremlino.

Tra le opere di Stalin hanno notevole importanza ideologica e politica: La questione nazionale (1912), Materialismo dialettico e materialismo storico (1938), Questioni del leninismo (1941), Il marxismo e la linguistica (1950), Problemi del socialismo in URSS (1952).

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STALIN E LO STALINISMO

Oggi più nessuno crede nel mito di Stalin, se non qualche irriducibile vetero-comunista. Ma la critica dello stalinismo non è mai stata facile, come invece in Occidente si è sempre voluto far credere. Da noi lo stalinismo è stato liquidato senza un'analisi politica e ideologica seria: da un lato perché gli intellettuali di sinistra, fino a ieri, non volevano rinnegare l'esperienza del "socialismo reale", dall'altra perché gli intellettuali borghesi non volevano confrontarsi seriamente col marxismo. E così ci si è limitati a evidenziare dello stalinismo gli aspetti che più suscitano riprovazione e sdegno, come ad es. i gulag, la collettivizzazione forzata dei contadini, la burocratizzazione del sistema, ecc.

In realtà, nelle opere e negli slogans di Stalin è difficile, di primo acchito, trovare una discordanza con i concetti abituali del marxismo. Lo è soprattutto se ci si limita a considerare in maniera isolata certe sue affermazioni, evitando di collocarle in un quadro d'insieme ove risultino interdipendenti. La verità non è mai la somma di affermazioni giuste e separate. Ancora oggi, purtroppo, molti sono dell'avviso che le deviazioni staliniane dal marxismo riguarderebbero tre soli elementi, considerati peraltro di secondaria importanza:

    la riduzione dell'uomo comune a mero ingranaggio del sistema,
    l'idea del partito come casta di privilegiati,
    la concezione secondo cui l'edificazione del socialismo comporta l'acuirsi della lotta di classe (di qui l'uso della violenza come metodo di regolazione dei problemi socio-politici).

L'economia del nostro discorso però ha un'unica finalità: quella d'indicare alcuni fondamentali aspetti dello stalinismo che la coscienza politica del periodo in cui esso s'è formato, non è stata capace di cogliere nella loro pericolosità. Vediamo anzitutto la pretesa concordanza che si vuole vedere in Marx, Lenin e Stalin circa il rifiuto del valore mercantile e del mercato nel contesto del socialismo, che è l'affermazione dell'idea di uno scambio diretto dei prodotti in virtù di una pianificazione autoritaria dall'alto.

Ora, nessuno è in grado di dimostrare in quali opere Marx raccomanda di misconoscere i meccanismi del mercato e della formazione dei prezzi, nonché d'introdurre lo scambio diretto dei prodotti e la pianificazione statale in condizioni analoghe a quelle che si verificarono in Russia dopo il 1917. Non è forse vero che Marx, Engels e Lenin riferivano la possibilità di superare i rapporti merce-valore a un regime sociale in grado di sorgere sulla base del capitalismo altamente evoluto? Il socialismo non doveva forse costituire un'alternativa a quel capitalismo capace di socializzare il processo produttivo, di creare un lavoratore altamente qualificato, ecc.? Solo in questa tappa lo scambio diretto dei prodotti e la realizzazione di piani orientati verso i bisogni degli uomini diventano possibili e cominciano a giocare un ruolo progressista.

Nella situazione successiva all'Ottobre 1917, il problema principale era quello di trovare un'alternativa a un'economia caratterizzata da una pluralità enorme di strutture economiche, soprattutto quelle di tipo piccolo-borghese (senza dimenticare la presenza dei rapporti semi-feudali). Lenin non aveva dubbi nell'affermare che in quelle condizioni il socialismo non poteva essere costruito in modo "immediato". Al massimo si poteva parlare di "transizione" verso il socialismo. Lenin anzi si rendeva conto che il capitalismo privato della piccola borghesia era ostile non solo al socialismo ma anche al capitalismo di stato. Ecco perché pensava che i socialisti russi dovessero prendere lezioni dai tedeschi su come costruire il capitalismo statale.

Viceversa, per Stalin e il suo entourage il primato spettava alla volontà politica, alla violenza politica (di qui l'uso di metodi terroristici), con cui essi cercavano di regolare tutti i problemi dello sviluppo economico e culturale, senza pensare se le condizioni per la realizzazione di questi o quegli obiettivi fossero effettivamente mature.

Ovviamente ciò non va imputato a una presunta "perfidia politica" o ad una "malattia mentale" di Stalin. La questione è molto più complessa e riguarda, se vogliamo, le tendenze storiche oggettive, le quali non possono essere interpretate ricorrendo alle concezioni filosofiche tradizionali. La storia della filosofia non ci è di nessun aiuto per comprendere a fondo l'ideologia stalinista. Che senso avrebbe, infatti, applicare -come alcuni fanno- il concetto di "idealismo soggettivo estremo" a una figura come Stalin, quando lo stesso concetto lo si applica a filosofi come Fichte, Berkeley, Bogdanov?

Lo stalinismo, in realtà, non ha precedenti storici. Esso è l'ideologia e la dittatura dell'élite burocratica, capeggiata da un despota ritenuto onnipotente: un'ideologia volontarista e antiumanista, che usa la violenza in tutte le sue forme. Ancora oggi gli stalinisti si considerano come veri demiurghi della storia: "I quadri decidono tutto", diceva Stalin. Ai loro occhi, la realtà sociale non è un sistema organico di rapporti interumani, che si sviluppa in virtù di leggi proprie, attraverso gradi successivi di maturità, ma è una materia prima come l'argilla, che si può manipolare a proprio piacimento, usando la volontà politica, una buona organizzazione, una disciplina di ferro e potenti mezzi di violenza. In questo senso lo stalinismo è un sistema fondato sulla menzogna più sfacciata, sul cinismo ideologico e sulla doppia morale.

Quali radici poteva avere un fenomeno così mostruoso? La formazione delle premesse dello stalinismo vanno ricercate negli anni 1924-29. Le sue fonti ideologiche risiedono in un marxismo semplificato, mentre quelle socio-politiche in una strumentalizzazione della Rivoluzione d'Ottobre. A dir il vero la volgarizzazione del marxismo era peculiare a tutto la direzione bolscevica: Zinoviev, Trotski, Kamenev, Bucharin, Piatakov..., salvo Lenin. L'atmosfera di lotta, prima durante e dopo l'Ottobre, li aveva portati ad attribuire un grande ruolo all'iniziativa storica, all'attività umana, all'esigenza di "trasformare" il mondo più che di "interpretarlo". I fatti sembravano dar loro ragione: la rivoluzione procedeva sconfiggendo, uno dopo l'altro, i suoi nemici, superando, uno dopo l'altro, i suoi problemi.

Le radici dello stalinismo stanno proprio in questo orientamento gauchiste, soggettivistico sul piano ideologico e volontaristico su quello politico: atteggiamento che trovò subito appoggi molti vasti nella mentalità primitiva di una parte assai considerevole di masse rivoluzionarie.

Naturalmente esiste una certa differenza fra gli errori in buona fede di Bucharin, che tendeva a esagerare le possibilità del popolo rivoluzionario (e dei suoi capi) nella storia, e la politica deliberatamente impopolare degli stalinisti, almeno così come essa appare alla fine degli anni '20. A dir il vero, la differenza principale, all'interno del bolscevismo, tra stalinisti e antistalinisti, non stava tanto negli obiettivi da perseguire: nessuno era favorevole allo zarismo, né alla dittatura militare di Kornilov, né alla guerra, al parassitismo e all'arbitrio del capitale. I problemi tuttavia sorgevano quando si doveva stabilire il modo di liquidare la vecchia società e di edificare quella nuova.

Nella storia del movimento rivoluzionario russo si erano già viste all'opera due diversi approcci della realtà: quello autoritario dei gruppi cospirativi, che avrebbe poi portato al comunismo da caserma, di Zainchevsky, Nechaev e Tkachov; e quello democratico di Radishev, Herzen, Lavrov, Dobroljubov e Chernyshevsky, che valorizzava l'attività creativa e storica del popolo.

L'orientamento autoritario dello stalinismo è stato appoggiato dagli strati sociali meno evoluti, più marginali, il cui odio per il regime sociale oppressivo, antecedente alla rivoluzione, aveva assunto un carattere totalmente distruttivo. Questi strati sociali possono combattere l'oppressore con grande eroismo, sono capaci di enormi sacrifici, ma possono anche trasformare in una legge generale della nuova società le loro istanze non sviluppate, la loro inferiorità culturale, i loro rozzi principi morali, frutto di un'esistenza subumana, condotta nel passato regime. I successi straordinari dell'Ottobre e il basso livello culturale d'una parte considerevole della popolazione provocarono l'euforia generale dell'onnipotenza.

Lenin fu uno dei pochi ad andare contro corrente. Sono noti i suoi appelli ad apprendere le tecniche del commercio presso gli specialisti, a servirsi di tutta la cultura del passato, a sviluppare l'industria in modo scientifico, a promuovere i principi cooperativistici nelle campagne, sulla base del libero consenso, della persuasione, usando esempi concreti di successo: in una parola, a unire in modo dialettico la direzione centralizzata con la democrazia operaia. L'entusiasmo andava combinato -a suo avviso- con l'interesse materiale dei lavoratori, altrimenti si sarebbe caduti nella retorica e nella demagogia.

Stalin la pensava diversamente. A suo parere, era necessario creare in pochissimi anni e con una terapia d'urto i necessari rapporti socialisti nelle campagne, trasformando i contadini in colcosiani (ed eliminando i recalcitranti). Nell'arco di due-tre piani quinquennali l'URSS avrebbe dovuto superare i paesi più progrediti del mondo, altrimenti sarebbe stata la fine della rivoluzione. La religione doveva essere estirpata con la forza. Questi e altri principi furono appoggiati da quella parte di popolo meno evoluta, meno istruita, e, almeno in un primo momento, la loro applicazione conseguì notevoli risultati, anche se a prezzo di enormi sacrifici e soprattutto di spaventosi soprusi.

Il meccanismo generale che permette ai regimi "bonapartisti" (ivi incluso lo staliniano) di formarsi una propria base sociale, è descritto perfettamente da Marx ne Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte. Il bonapartismo -come noto- trova la sua linfa vitale negli strati sociali più oppressi: negli anni '40 del secolo scorso si trattava soprattutto dei contadini. Una volta poi realizzati i principi della burocrazia, del militarismo e dell'apparato repressivo statale, il bonapartismo non ebbe bisogno neppure dell'appoggio dei contadini, i quali anzi furono soggetti a feroci persecuzioni. Questo perché la base sociale più adeguata dei regimi bonapartisti maturi (incluso quindi lo stalinismo) è la burocrazia, non la classe contadina.

Lo stalinismo s'è trasformato da sistema volontarista, legato a una certa base popolare, il cui entusiasmo post-rivoluzionario era ancora molto vivo, a sistema burocratico e impopolare verso la metà degli anni '30, cioè nel momento in cui lo sviluppo dell'economia nazionale, alzando il livello culturale del Paese, aveva portato i lavoratori ad un'opposizione sempre più consapevole ai metodi dittatoriali del regime. Ciò tuttavia non impedì il rafforzamento della burocrazia. Le ragioni sono più di una.

    Anzitutto bisogna ricordare che all'inizio degli anni '20 il sistema economico era caratterizzato da "isole produttive" poco legate tra loro. I funzionari statali realizzavano sul piano politico-amministrativo quei collegamenti che mancavano sul piano economico.
    In secondo luogo va considerato il fatto che l'ignoranza dei lavoratori ostacolava fortemente una partecipazione reale alla gestione economica, ovvero un controllo effettivo degli organi statali e amministrativi.
    In terzo luogo va detto che il sistema burocratico non ha mai smesso di servirsi, coscientemente, del volontarismo e del soggettivismo per autolegittimarsi (lo attesta p.es. l'ideologia del culto della personalità).

Queste ragioni però, se fanno pensare che la burocrazia era inevitabile, non devono far pensare che il rafforzamento della burocrazia doveva necessariamente portare allo stalinismo, cioè al dominio totale e incondizionato della burocrazia. Le alternative allo stalinismo sono state ben visibili sin dall'inizio degli anni '20, alla vigilia della NEP, nonché nel 1927, durante il XV Congresso del partito, ed anche nel 1956, col XX Congresso. Lo stesso Lenin aveva chiaramente detto che la burocrazia era il pericolo maggiore della rivoluzione, la fonte di una possibile "reazione termidoriana". Se le sue indicazioni fossero state seguite con coerenza e decisione, probabilmente i destini dell'URSS sarebbero stati diversi.

Il programma di Lenin per indebolire la burocrazia era basato sulla Nuova Politica Economica, sull'estensione delle cooperative, sulle forme di produzione capitalistico-statali, sulle concessioni al capitale estero d'investire in URSS, sugli incentivi economici per i lavoratori (onde eliminare la costrizione extra-economica), sulla partecipazione degli operai e dei contadini all'attività degli organi superiori del potere statale, sul controllo dell'attività dei quadri dirigenti del partito, sullo sviluppo della cultura generale del popolo.

Morto Lenin, i tentativi di Trotski e Preobrazhensky di creare un sistema burocratico sulla base dell'accumulazione socialista primitiva fallirono grazie soprattutto al ruolo teorico giocato da Bucharin nel corso del XV Congresso del partito bolscevico (1927). Giustamente venne rifiutata l'idea di sviluppare l'economia nazionale contro gli interessi dei contadini, drenando risorse e mezzi dalla campagna alla città, trasformando officine e fabbriche in caserme di operai, stimolando l'intensificazione del lavoro con la violenza gius-politica. Tuttavia, già verso la fine degli anni '20 le forze della "guardia leninista" avevano perso la loro influenza. Le Note di un economista (1928) di Bucharin e la piattaforma di Ryutin (1932) furono forse gli ultimi importanti tentativi di proseguire sulla via leninista.

Il leninismo uscì sconfitto dallo scontro con lo stalinismo semplicemente perché esso cercò di frenare l'evoluzione verso il comunismo da caserma con dei metodi non meno burocratici e autoritari. Si pensava cioè di poter conseguire un obiettivo diverso usando gli stessi mezzi.

In seguito, il XX e XXII Congresso del Pcus, nonché gli sviluppi seguenti all'aprile 1985, hanno dimostrato che un'alternativa allo stalinismo è sempre possibile. Il corso della storia non presenta mai degli avvenimenti inevitabili o irreversibili, ma sempre delle alternative soggette a determinate scelte e destinate a ricomparire ogniqualvolta le decisioni prese si rivelano fallimentari. Ovviamente resta falsa la tesi secondo cui nella storia "tutto è possibile" o che "tutto dipende dall'uomo". Qui si vuole soltanto affermare che non esiste mai un'unica via da seguire, né si può sapere in anticipo quale soluzione avrà la meglio. I risultati, generalmente, dipendono da numerosi fatti concreti.

Nell'epoca di Brezhnev la tendenza antiburocratica si esprimeva nelle forme dello stalinismo "popolare", quello della fine degli anni '20. Il sogno era di veder improvvisamente apparire all'orizzonte un uomo forte come Stalin, capace di difendere il popolo dal potere totalizzante della burocrazia. Questa forma di stalinismo non è così pericolosa come quella burocratica, in quanto può essere superata da un'opera di paziente istruzione, dall'estensione della glasnost e dei principi democratici, in virtù dei quali gli uomini si rendono conto di quanto la loro forza sia sufficiente per liquidare non solo la burocrazia, ma anche l'esigenza di contare sulla potenza mitica di una personalità carismatica.

Trent'anni fa anche Kruschev cercò di finirla con lo stalinismo e la burocrazia usando metodi burocratici. Ben lungi dal promuovere lo sviluppo dei meccanismi sociali della democrazia, egli considerò la sua personalità come garanzia ultima contro il ritorno dello stalinismo. In tal modo non comprese che né il XX Congresso né la crescita della democrazia tra il 1956 e il 1961 potevano essere il risultato della sua azione personale (anche se bisogna riconoscergli un certo coraggio politico). Sopravvalutando se stesso, Kruschev non fece che ostacolare, in definitiva, il processo di smantellamento dello stalinismo. Basta qui ricordare il modo con cui egli trattava gli intellettuali (scrittori, artisti, giornalisti) o con cui distribuiva i posti di presidente, di segretario del C.C. ecc. Non a caso, sotto il suo potere, Lysenko e soci tornarono in auge, mentre i neo-stalinisti Suslov e Brezhnev iniziarono la loro carriera politica.

Senza saperlo, fu proprio il krusciovismo a porre le basi del sistema amministrativo di comando neo-stalinista. In sostanza si può parlare di "socialismo democratico sovietico" solo per alcuni momenti storici veramente significativi: gli anni 1917-29, il periodo bellico 1941-45 (qui, in effetti, lo slancio patriottico e il sentimento di responsabilità personale per i destini della Nazione diedero luogo ad alcuni processi di destalinizzazione), relativamente gli anni 1953-65 e infine dal 1985 ad oggi.

MITI E REALTA' DELLO STALINISMO

Dopo la rivoluzione d'Ottobre si era convinti che in Russia l'edificazione di una nuova società sarebbe dipesa, sic et simpliciter, dalla socializzazione dei mezzi produttivi. A tale scopo furono subito confiscate e nazionalizzate quasi tutte le imprese industriali e commerciali, la quasi totalità delle banche e dei trasporti. Dal censimento del 1920 risulta che fra le imprese nazionalizzate si trovavano, oltre alle grandi unità produttive, più di 1/7 di imprese aventi un solo operaio!

In fondo l'Antidühring di Engels, per i bolscevichi, parlava chiaro: "Con la presa di possesso, da parte della società, dei mezzi produttivi, la produzione mercantile è eliminata e, di conseguenza, il dominio del prodotto sul produttore". E qualunque lavoro -prosegue Engels- diventa immediatamente "lavoro sociale". Non pochi rivoluzionari e teorici del partito bolscevico credettero che le condizioni venutesi a creare con la rivoluzione d'Ottobre corrispondevano perfettamente a quelle descritte nei lavori teorici di Marx ed Engels, e che, pertanto, la realizzazione pratica andava considerata come un compito inderogabile.

Ben presto il commercio si trasformò -in questa concezione bolscevica- in uno scambio "volgare" di merci, e non solo il commercio, ma anche il valore del denaro, dell'oro, dei prezzi, delle banche...: tutto quanto aveva sapore di "capitalismo" o di "commercio" perse ogni credibilità. L'uso della forza, per realizzare questi mutamenti di mentalità, fu inevitabile.

A dir il vero Lenin ha sempre nutrito seri dubbi sulla automaticità di questi processi. Egli si rifaceva a quei passi di Marx ed Engels in cui si affermava che la socializzazione dei mezzi produttivi poteva avvenire in due modi: giuridico (cioè amministrativo, volontarista) ed economico. Quest'ultimo dai classici era considerato il migliore, poiché si riteneva che l'altro causasse dei conflitti tra le forze e i rapporti produttivi. In particolare, Engels sosteneva -sempre nell'Antidühring- che la socializzazione economica diventa inevitabile quando la società si accorge di non poter più gestire in maniera privata i grandi complessi produttivi. Dunque non ogni statizzazione dell'economia è un segno della presenza del socialismo. Se così fosse -diceva Engels- Bismarck, Napoleone e Metternich andrebbero annoverati tra i fondatori del socialismo.

Il fatto è purtroppo che queste sottili ma importanti differenze non venivano colte dalla maggioranza dei bolscevichi rivoluzionari. Socializzazione "forzata" o "economica" venivano continuamente confuse, identificate. E su questo equivoco si costruì il socialismo nel periodo del "comunismo di guerra". Negli anni 1918-21 l'impresa statale perse ogni autonomia socio-economica; ogni altra forma di proprietà venne ridotta al minimo; lo scopo della produzione era diventato quello di produrre dei valori tout-court e non dei valori d'uso, per cui ci si orientava verso gli indici lordi; il denaro si era trasformato in una unità di conto del tutto formale, assolutamente incapace di svolgere la funzione di equivalente universale; il mercato era stato totalmente escluso dal sistema dell'economia nazionale e considerato come l'antitesi principale del socialismo. Ecco in che modo si era convinti di realizzare le idee del socialismo scientifico.

Lenin si accorse subito delle difficoltà insorte nel campo economico e commerciale, cioè in pratica s'accorse che nessuna risoluzione politico-amministrativa avrebbe mai potuto assicurare il passaggio dalla nazionalizzazione, cioè dalla mera espropriazione dei produttori privati, alla socializzazione, poiché quest'ultima, nei fatti, era un processo molto più lento, complesso e difficile (anche se più sicuro). Ecco perché, ad un certo punto, gli sembrò del tutto naturale lasciar coesistere nella società molteplici strutture eterogenee, esprimenti un grado diverso di maturità economica e sociale.

A tale scopo Lenin propose di socializzare la produzione già "socializzata": il che appariva un'assurdità a coloro che si erano limitati a leggere in modo schematico le opere dei classici. Di qui la dura lotta contro la "malattia infantile del comunismo": il gauchisme, che accusava Lenin di revisionismo, di voler rimandare alle calende greche la realizzazione del vero socialismo.

Tuttavia Lenin ebbe la meglio e si poté così dar vita all'esperimento della NEP. Di questa nuova politica economica ancora oggi si ha un giudizio limitato, in quanto si pretende di ridurla al solo settore agricolo. In realtà essa costituì una revisione radicale di tutte le idee relative alla costruzione del socialismo. Si pensi ad es. alla trasformazione dell'impresa statale da oggetto passivo di una direzione dall'alto a soggetto attivo della politica economica, o alla comparsa delle cooperative, delle società per azioni, delle attività professionali individuali. La ripartizione centralizzata dei mezzi materiali e tecnici nell'economia nazionale venne sostituita, in virtù della NEP, dal commercio all'ingrosso. La riforma monetaria del 1922-24, resasi necessaria dal fatto che l'eccesso di moneta svalutata invadeva il mercato, rimpiazzò gli "assegnati" sovietici con una moneta classica: il cervontsy d'oro, cioè in pratica la Banca di Stato, creata nel 1921, aveva il diritto di emissione di banconote convertibili in oro.

Il criterio dell'efficienza di un'impresa divenne il profitto e non la percentuale con cui essa realizzava i piani previsti dallo Stato. La legge del valore e del mercato vennero riconosciuti quali maggiori regolatori-guida dello sviluppo dell'economia socialista. Queste modifiche non vennero considerate da Lenin in maniera antitetica alla teoria marxista, in quanto che egli riteneva "specifiche" le condizioni della Russia.

I risultati non si fecero attendere. Dopo la fame che aveva ucciso migliaia di persone, l'agricoltura si riprese rapidamente, le aree coltivate raggiunsero i livelli pre-bellici, mentre i bovini, gli ovini, i caprini e i suini li superarono. Nel 1923 l'URSS divenne per la prima volta dall'Ottobre esportatrice di grano (come già lo era al tempo degli zar). Dopo quattro anni di NEP il reddito nazionale (diminuito di tre volte durante la guerra civile) raggiunse il suo valore anteriore al 1914. Fra il 1921 e il '24 il prodotto lordo della grande industria statale aumentò più di due volte.

Lenin, finché rimase in vita, seppe ostacolare la tendenza dogmatica, sempre latente nel partito, che andava imponendosi, ma con la sua morte la situazione peggiorò bruscamente. Lo stalinismo rappresentò appunto una variante di questa tendenza, forse la più coerente o la meglio organizzata. Tanto che quando Krusciov, al XX congresso del Pcus, denunciò le repressioni di massa e le enormi violazioni della legalità socialista, condannando altresì il culto della personalità, non mise in dubbio l'appartenenza ideologica di Stalin al marxismo. Ancora oggi, d'altra parte, per molti è così. Stalin -questo vuole il mito- preservò la purezza del marxismo, minacciato da destra e da sinistra, poi per eccesso di zelo versò sangue più o meno innocente. Non va tuttavia dimenticato che lo stalinismo, come forma di pensiero e di azione, va ben al di là del personaggio individuale che lo incarnò.

In realtà Stalin snaturò Marx in una serie di questioni di fondamentale importanza. Anzitutto nell'interpretazione dei problemi della proprietà, secondariamente in quella del ruolo della violenza nell'edificazione del socialismo, infine in quella della valutazione del ruolo della legge del valore per la società socialista. Vediamo ora questi punti nel dettaglio.

Da tempo l'umanità è convinta che la proprietà privata dei mezzi produttivi è fonte di molte ingiustizie. È in effetti su questa forma di proprietà che nascono le contraddizioni fra miseria e opulenza, fra sovralimentazione e fame, con l'oppressione politica, giuridica e militare che ne consegue. Molti filosofi e rivoluzionari del passato ne chiesero l'abolizione.

Come noto, il marxismo riconosce l'iniquità morale della proprietà privata. Tuttavia la via verso l'eliminazione dell'ingiustizia sociale passa, secondo questa ideologia, non attraverso la sua soppressione politica ma attraverso il suo superamento economico. Una formazione economica -diceva Marx- deve prima esaurire tutte le sue potenzialità.

Può dunque il socialismo svilupparsi in presenza della proprietà privata? No, non può, ma questo non significa -ed è l'esperienza che lo ha dimostrato- che la costruzione del socialismo debba necessariamente coincidere con la fine immediata della proprietà privata. Il superamento di questa forma di proprietà deve avvenire gradualmente e il socialismo, in questo senso, dovrebbe offrire la garanzia che la transizione avvenga in maniera indolore. Di per sé la proprietà privata non è una maledizione: anzi, storicamente, rispetto al latifondo feudale, essa costituì un progresso notevole.

L'abolizione radicale della proprietà privata in URSS, subito dopo la rivoluzione, avvenne a dispetto delle idee di Lenin, in maniera del tutto spontanea e istintiva. Nel primo abbozzo delle Tesi d'aprile Lenin aveva intenzione di confiscare soltanto le terre dei grossi proprietari fondiari. Egli non voleva la realizzazione immediata del socialismo, ma piuttosto un passaggio sistematico, graduale, progressivo del controllo della produzione sociale e della divisione dei prodotti dalle mani dei privati a quelle dei soviet dei deputati operai e contadini. In pratica egli si rendeva conto della inadeguatezza della struttura economica russa per l'introduzione del socialismo. Al massimo prevedeva la confisca di quelle proprietà private la cui grandezza rendeva indispensabile un controllo e una gestione collettiva, sociale (ad es. le banche, le ferrovie, i zuccherifici, ecc.).

Questo approccio flessibile di Lenin subì una prima battuta d'arresto con lo scatenarsi della guerra civile, coll'interventismo straniero, col sabotaggio della borghesia (che, politicamente immatura, non seppe collaborare col nuovo regime). Per punire il sabotaggio si usarono appunto gli strumenti della confisca e della nazionalizzazione (queste disposizioni repressive durarono almeno sino al 1921). Peraltro, molte imprese vennero abbandonate dagli stessi capitalisti. Ancora lo Stato non aveva intenzione di estendere il settore pubblico, poiché non era in grado di gestirlo. "Noi abbiamo la ridicola pretesa di voler istruire i managers dei trusts borghesi del nostro Paese" -diceva Lenin, il quale cercava, frenando la fretta di espropriarle, di costruire un rapporto di fiducia con le forze economiche disposte a collaborare. In particolar modo egli escludeva l'uso della coercizione nei confronti del mondo contadino. L'unica "forza" da usare -diceva- doveva essere quella dell'"esempio", cioè della persuasione ragionata basata sulla prassi.

Anche nei confronti della piccola borghesia l'atteggiamento di Lenin era favorevole alle concessioni: non per "limitare" i compiti della rivoluzione -come credevano gli estremisti-, ma "come forma di transizione al socialismo per i diversi settori della piccola borghesia". Già nella primavera del 1918 Lenin aveva elaborato una nuova posizione verso la borghesia, considerata complessivamente. Egli infatti aveva chiesto e ottenuto che alla borghesia s'imponessero soltanto delle tasse periodiche e regolari sul reddito e sugli immobili, senza costringerla a esazioni supplementari.

Appena ristabilita la pace, Lenin volle tornare a cooperare con la borghesia proponendo la svolta della NEP. Egli affermò chiaramente che tale politica economica era in realtà la vecchia politica che i bolscevichi avevano cercato di realizzare subito dopo la rivoluzione e che venne impedita da cause di forza maggiore. Con ciò Lenin non voleva idealizzare l'importanza della proprietà privata, ma solo impedire che la si abolisse con metodi amministrativi, cioè con la forza. Essa piuttosto andava integrata nel processo naturale di transizione al socialismo.

Nel maggio 1918 Lenin arrivò persino a dire che il capitalismo di stato, dal punto di vista economico, era superiore all'economia sovietica di quel tempo. Più tardi egli sostenne che lo sviluppo delle cooperative avrebbe potuto accelerare la socializzazione economica della proprietà privata. Da questo alla parziale denazionalizzazione e alla richiesta di prestiti stranieri il passo fu breve. L'idea di Lenin in sostanza era quella di permettere alle due forme di proprietà di coesistere e di competere pacificamente, lasciando alla storia il compito di decidere quale delle due avrebbe meritato di sopravvivere e quale forma avrebbe assunto il futuro socialismo.

La differenza fra Lenin e gli altri bolscevichi, in questo senso, era considerevole e la ragione, probabilmente, è ancora lungi dall'essere compresa. Infatti la stragrande maggioranza dei leaders di punta del partito era convinta che la rivoluzione avrebbe permesso di edificare il socialismo senza perdere tempo. Viceversa, per Lenin la rivoluzione aveva soltanto inaugurato il lungo e graduale cammino verso il socialismo, nel senso cioè che la socializzazione dei mezzi produttivi non coincideva, stricto sensu, con la loro nazionalizzazione o statalizzazione, sebbene Lenin sia sempre stato convinto che il "vero socialismo" sarebbe nato passando soprattutto attraverso le organizzazioni statali.

Stalin non fece che portare alle estreme conseguenze le convinzioni di questi bolscevichi. A suo giudizio, infatti, la proprietà privata andava eliminata completamente, e non solo nell'industria, nel commercio e nell'edilizia, ma anche nell'agricoltura, ove la maturità socialista delle forze produttive era praticamente inesistente. Qualunque forma di proprietà pubblica veniva considerata, di per sé, migliore di qualunque forma di proprietà privata. Sulla base di questo assioma egli era convinto di poter fare dell'URSS uno dei principali granai del mondo.

Questa svalutazione unilaterale della proprietà privata, Stalin la desunse non dal marxismo, ma da quell'ideologia pseudo-socialista alla Dühring, il cui assoluto disprezzo della proprietà privata dipendeva dalla convinzione ch'essa di per sé fosse il frutto di una violenza dell'uomo sull'uomo, cioè una sorta di "peccato d'origine" che aveva contaminato l'intera umanità. Dühring era convinto che l'abolizione tout-court di questa ingiustizia avrebbe portato la felicità agli uomini.

Le obiezioni di Engels non vennero neppure prese in considerazione da Stalin. Come noto, Engels aveva sottolineato che le ingiustizie della proprietà privata risaltano soprattutto quando il sistema produttivo è in fase discendente, e che le masse sfruttate si sentono tanto più decise a realizzare la transizione al socialismo, non quanto più avvertono il senso di queste ingiustizie, ma piuttosto quanto più le collegano alla fine irreversibile del capitalismo, cioè alla fine delle illusioni sulla riformabilità di questo sistema. Le ingiustizie inerenti alla proprietà privata, in altre parole, non portano di per sé a concludere che sia necessario abolire quest'ultima, in quanto resta sempre da dimostrare ch'essa abbia smesso d'essere un fenomeno "socialmente normale" o che la produzione organizzata sulla base della proprietà sociale sia capace d'assicurare un rendimento superiore.

Viceversa, Stalin fece di tutto per eliminare anche la proprietà privata frutto del lavoro umano, la quale -a suo giudizio- avrebbe potuto generare il capitalismo quotidiano, in modo spontaneo e su vasta scala. La sola supposizione del pericolo era considerata sufficiente per impedire il formarsi di tale proprietà. Stalin, in sostanza, aveva una specie di concezione "a-temporale" della proprietà privata, in quanto applicava le conclusioni giuste di Lenin a condizioni del tutto diverse da quelle cui Lenin si riferiva.

Il realismo di Lenin era così maturo che prevedeva la transizione al socialismo anche attraverso ciò che in apparenza sembrava negarlo, per quanto -è bene sottolinearlo- egli intendesse soprattutto riferirsi a quella proprietà privata organizzata in forma cooperativistica. Il dogmatismo di Stalin invece era così forte ch'egli non solo eliminò ogni forma di cooperazione, ma guardò anche con sospetto gli stessi colcos, pur creati in conformità alle sue concezioni collettivistiche: egli infatti riteneva che i colcos fossero una forma di proprietà non "sociale" ma di "gruppo", e quindi una forma assai transitoria di produzione. Nell'opera Problemi economici del socialismo in URSS, l'esistenza dei colcos viene addirittura vista come un ostacolo al passaggio del Paese verso il comunismo.

La storia s'è poi fatta carico di dimostrare che è impossibile creare una proprietà sociale in forza di un atto amministrativo di socializzazione. Stalin quindi non solo abolì la proprietà "privata" ma anche quella "sociale", che può essere solo il frutto di un'organizzazione consapevolmente accettata dai lavoratori. Egli piuttosto aveva permesso la creazione della proprietà burocratica e statale, facendo così regredire notevolmente sia lo sviluppo economico del Paese, sia lo sviluppo teorico del marxismo.

La crisi (speriamo irreversibile) delle idee e della prassi staliniana è dipesa anche da questa regressione, cioè dalla forte crisi economica che ha colpito tutto il cosiddetto "socialismo reale", a partire dai primi anni '80, inoltre dalla generale insofferenza per i metodi dirigisti e amministrativi, per l'insensatezza di una proprietà statale che è insieme di "tutti" e di "nessuno", per il rigido dogmatismo ideologico, infine dalla costatazione che il capitalismo è un sistema capace di evolversi, di svilupparsi sotto la spinta delle pressioni esterne, grazie soprattutto alla rivoluzione tecnologica e a nuove modalità di sfruttamento neo-coloniale. Non solo quindi i fautori del socialismo devono abituarsi all'idea di dover convivere col capitalismo per un tempo indefinito, ma possono anche interiorizzare l'idea che una cooperazione economica e commerciale col capitalismo può tornare a vantaggio dello stesso socialismo.

Vediamo ora l'interpretazione del ruolo della violenza. Senza dubbio Lenin si appellò alla violenza nella sua politica. Dopo aver confiscato le terre ai grossi proprietari fondiari e ai monasteri, le diede ai contadini. I comitati dei contadini poveri, organizzatisi nell'estate del 1918, usarono la coercizione per espropriare ai kulaki 50 milioni di ettari (su 75-80 milioni di cui disponevano), ivi compresa l'attrezzatura tecnica e il bestiame. Moltissimi kulaki vennero addirittura eliminati nel corso della guerra civile. Ma in tutti questi casi si trattò di una violenza necessaria, inevitabile, una violenza "minore" per impedirne una "maggiore": i kulaki non avrebbero mai rinunciato spontaneamente allo sfruttamento di milioni di contadini.

Stalin invece, ispirandosi all'idea che una qualunque socializzazione è una forma di socialismo, iniziò verso la fine degli anni '20 una campagna senza precedenti di concentrazione dei contadini nei colcos, non esitando a sterminare fisicamente, civilmente e moralmente quanti si mostravano poco entusiasti verso questi provvedimenti. Naturalmente egli giustificava l'inasprimento della lotta di classe asserendo che nella società vi erano ancora degli elementi borghesi ostili al socialismo. Stalin fece suo il principio trotskista secondo cui quanto più si sviluppa il socialismo, tanto più aumenta la lotta di classe.

Come un rullo compressore egli distrusse almeno 3 milioni di nuclei familiari contadini (l'11-12% del totale), determinando un crollo incredibile della produzione: ad es. nel 1933 i bovini erano passati dai 58,9 milioni del 1916 ai 38,6 milioni; gli equini erano passati da 35,1 milioni a 16,6 milioni; gli ovini e i caprini da 115,2 milioni a 50,6 milioni; i suini da 20,3 milioni a 12,2 milioni. Una terribile fame cominciò immediatamente a decimare milioni di persone. Ufficialmente si disse che questo fu un prezzo necessario al progresso della società (dati e statistiche erano ovviamente manipolati).

Non che, in effetti, mancassero dei successi qualitativi e quantitativi nel campo industriale, ma, molto probabilmente, essi si sarebbero verificati anche senza lo stalinismo: anzi c'è da credere che lo sarebbero stati in misura assai maggiore e comunque senza un prezzo così alto da pagare. Peraltro è da poco che si sono cominciati a confrontare i risultati dell'industrializzazione sovietica sotto Stalin con quelli dei Paesi che in quegli stessi anni registravano importanti successi economici: prima ci si limitava a confrontare i risultati sotto lo stalinismo con il livello di sviluppo della Russia del 1913. Ebbene, se si guardano anche soltanto i valori della produzione pro-capite del ferro, dell'acciaio e dell'elettricità di Paesi come USA, Gran Bretagna e Germania, nell'arco di tempo che va dal 1913 al 1937, si noterà che gli indici corrispettivi dell'URSS registravano un incremento del tutto irrisorio.

In tutti i Paesi del mondo, l'acciaio, il ferro, il petrolio, il cemento non vengono prodotti, normalmente, per un fine in sé, ma per incrementare la ricchezza generale del Paese, fissata dal valore del reddito nazionale (il che ovviamente non impedisce la speculazione capitalistica). Stalin invece non amava questo indice sintetico dell'attività economica. Di "crescita del reddito nazionale" o non ne parlava affatto, oppure ne parlava usando formule assai vaghe, in virtù delle quali era impossibile mettere in discussione gli incredibili incrementi sostenuti in sede ufficiale. Facciamo un esempio: secondo calcoli scientifici, il reddito nazionale in URSS è aumentato di 6-7 volte dal 1928 al 1985; secondo i calcoli staliniani il reddito era incrementato del 50% dal 1929 al 1941! I dati ufficiali, peraltro, non prevedevano alcun indice per verificare l'effettiva qualità dei progressi.

Guardato più da vicino, il modello staliniano non solo era poco efficiente ma anche molto dispendioso. Esso si è retto in piedi sia con l'uso smisurato della violenza, sia con la grande quantità di risorse naturali dell'URSS. Praticamente la miseria veniva giustificata con le enormi spese per la difesa e l'industrializzazione. Quest'ultima, in definitiva, non aveva altro scopo che se stessa, non la ricchezza del Paese. In che modo infatti può arricchire una nazione se ad es. la produzione di legumi non marcia di pari passo con la loro trasformazione agro-industriale? L'assillo fondamentale dello stalinismo era lo stoccaggio, cioè le riserve alimentari degli ammassi, ove metà circa della produzione finiva col deteriorarsi, e una parte dell'altra metà veniva esportata per ottenere valuta pregiata con cui finanziare l'industrializzazione. Questo era il modo di vincere la fame!

Nell'interpretazione del ruolo della violenza -per tornare all'argomento in oggetto- Stalin era debitore di Dühring, per il quale "le condizioni politiche sono la causa decisiva della situazione economica", mentre l'opposto ha un valore secondario. L'elemento primario sta nella "forza politica immediata", diretta, e non tanto nel "potere economico indiretto".

Non a caso per Stalin la coerenza di un'idea politica meritava d'essere applicata anche con la forza, se necessario. Egli non riuscì mai a comprendere i diversi gradi di maturità della proprietà privata e ne distrusse tutte le forme senza preoccuparsi di sapere se esse avevano fatto il loro tempo. Proprio come Dühring, Stalin aveva una visione feticistica del socialismo, utile per realizzare una giustizia astratta, extratemporale.

Engels era sicuramente più realista. Per dimostrare che lo stato economico di una nazione non può dipendere anzitutto dalla violenza politica, scelse come esempi quello di Federico Guglielmo IV, il quale, dopo il 1848, non riuscì, malgrado il suo potente esercito, a eliminare le corporazioni medievali nel suo Paese e altre sopravvivenze romantiche a vantaggio delle ferrovie, delle macchine a vapore e della grande industria; nonché quello dello zar di Russia, coevo dell'imperatore tedesco, che, pur essendo ancora più potente, non era capace di pagare i debiti del suo Paese, ed anzi aveva bisogno dell'appoggio finanziario dell'Europa occidentale per poter continuare a usare la propria violenza. A giudizio di Engels, questi esempi dovevano essere sufficienti per dimostrare che la politica economica fondata sulla violenza conduce solo al fallimento.

Stalin era così ignorante in materia economica che, a suo giudizio, l'indice principale dello sviluppo del socialismo non era la produttività del lavoro, il benessere sociale o il grado di democrazia raggiunto dalla società, bensì il livello di socializzazione amministrativa della produzione, per la quale contavano assai poco le qualità professionali. Nel 1936 egli dichiarò apertamente al congresso straordinario dei soviet, che era stata realizzata la prima fase (quella inferiore) del comunismo, ovvero il socialismo, nei suoi aspetti essenziali. In pratica egli aveva decretato il "socialismo" giuridicamente, consacrandone la sua riuscita nella Costituzione dello stesso anno. La proprietà socialista (statale, colcosiana e cooperativistica) costituiva il 98-99% di tutta l'economia nazionale. Non era neppure il caso di parlare -come faceva Lenin- di transizione al socialismo con il concorso indispensabile del proletariato internazionale. Un socialismo come quello staliniano, rozzo e primitivo, poteva benissimo essere edificato in un solo Paese.

Il mercato e la legge del valore smisero immediatamente d'essere i regolatori della produzione. Il passaggio dal regno della necessità a quello della libertà in pratica si era già realizzato contro la tesi di Marx, secondo cui "il regno della libertà comincia soltanto là dove si smette di lavorare per necessità e condizioni imposte dall'esterno; e, come tale, esso si pone, per natura, al di là della sfera di produzione materiale propriamente detta".

L'atteggiamento negativo di Stalin verso la legge del valore e il mercato è chiaramente riscontrabile nella sua opera, già citata, Problemi economici del socialismo in URSS, apparsa nel 1952, ma anche nel Manuale d'economia politica, edito nel 1954, da lui ispirato, al pari del Breve corso di storia del Pc (b) del 1939. Nel testo sui Problemi economici, Stalin attaccò gli economisti Venger e Sanina, accusandoli di non comprendere il significato della circolazione delle merci sotto il socialismo, che va considerata incompatibile con la transizione al comunismo.

Quanto al manuale d'economia, esso afferma categoricamente che il lavoro già riveste nel socialismo un carattere immediatamente sociale, per cui la legge del valore non si applica all'economia socialista allo stesso modo dell'economia capitalista. La nozione di "valore" -secondo tale manuale- è troppo "immateriale" per essere utilizzabile. Infatti il calcolo del valore d'una merce socialista è una semplice operazione tecnica. È sufficiente calcolare -dice il manuale- le spese materiali di un determinato prodotto, dividere poi la somma ottenuta per il numero dei prodotti e il gioco è fatto. Il problema dell'equilibrio dell'offerta e della domanda non sussiste, poiché nel socialismo si ha una certezza a-priori che tutto quanto viene prodotto viene anche consumato nei tempi previsti, a prescindere dalle esigenze del consumatore.

Il risultato fu -come ben noto- una situazione d'impasse quanto alla formazione dei prezzi (troppo bassi, ad es., per quelli alimentari, per cui il mercato ufficiale era caratterizzato da cronica penuria e da file interminabili davanti ai negozi, mentre naturalmente prosperava quello in nero, a prezzi altissimi); enormi quantitativi di merci non acquistate perché ritenute di scarso valore qualitativo; ridottissime possibilità di scelta dei prodotti per il consumatore, ecc.

Oggi la perestrojka ha dimostrato che nel determinare il valore di una merce, il principio di sommare l'insieme delle spese individuali non ha senso laddove esiste un mercato. I prezzi non possono riflettere solo le singole spese, ma anche quelle "socialmente necessarie", altrimenti i prezzi finiranno col coprire spese superflue e coll'incoraggiare l'incuria, divenendo parte organica del meccanismo dello spreco. In fondo il socialismo amministrato è servito anche a dimostrare sul piano pratico l'impossibilità teorica verificata da Marx di dedurre il prezzo di una merce dal suo costo di produzione.

Le contraddizioni inerenti alla merce: tra valore d'uso e valore di scambio, tra lavoro astratto e lavoro concreto, tra lavoro individuale e sociale... non possono essere risolte semplicemente perché vengono ufficialmente abolite. Certo è che, perché il prezzo sia equilibrato al valore, cioè non troppo alto (altrimenti si rischia la sovrapproduzione), né troppo basso (altrimenti si rischia la recessione), occorre un rapporto paritetico tra fornitore e acquirente, un rapporto che non può essere gestito per via amministrativa o imposto dall'alto (non a caso fino ad oggi nel socialismo di stato il produttore ha sempre dominato il consumatore, anche se nei limiti stabiliti dal partito-Stato). Occorre in sostanza che i "collettivi", cui produttore e consumatore fanno parte, perseguano finalità analoghe e non contrapposte, come ad es. nel capitalismo, ove l'interesse del produttore è quello di indurre falsi bisogni nell'utenza per realizzare superprofitti con prezzi da monopolio.

Non solo, ma l'errata visione stalinista del carattere del lavoro condusse anche a un generale livellamento dei salari e degli stipendi. La valutazione del lavoro non era assolutamente legata al volume del prodotto finito, alla sua qualità e fruibilità. Si preferiva invece affermare che la settimana lavorativa di ogni rappresentante di una qualunque professione andava considerata più o meno uguale quanto al "valore", mentre ai mestieri più difficili si applicavano dei coefficienti particolari.

In sostanza, come la negazione della contraddizione esistente tra valore d'uso e valore tout-court della merce, rendeva teoricamente inutile la sua commercializzazione, così l'identificazione di lavoro concreto e astratto rendeva inutile la moneta, o comunque la sua caratteristica di equivalente universale. L'intero management dell'economia veniva basato su questa concezione non-mercantile. Stalin era categoricamente avverso a quell'uso dei rapporti mercantili-monetari che andasse al di là di una mera funzione di contabilità (salvo poi contraddirsi, in teoria, come quando al XVII congresso del partito criticò coloro che profetizzavano la fine graduale del commercio e la trasformazione del denaro a semplice unità di conto).

È sintomatico, in questo senso, il fatto che le sezioni del Capitale dedicati alla merce caddero subito in discredito. La tesi marxiana del doppio carattere del lavoro fu appunto sostituita da quella del carattere immediatamente sociale del lavoro nell'ambito del socialismo. Idea, questa, che ancora una volta trovava in Dühring la sua paternità. Fu lui infatti che per primo pensò di combinare la produzione immediatamente sociale con l'uso della legge del valore e delle relazioni merce-moneta, stabilendo il valore "giusto" o "reale". Una tesi che poi Engels giudicherà assurda.

Dühring in sostanza chiedeva di fissare un prezzo unico per ogni tipo di merce che corrispondesse alle spese medie di produzione, e prevedeva che, per la determinazione del valore e del prezzo, i cosiddetti "costi di produzione" avrebbero giocato il ruolo di stima della quantità necessaria di lavoro.

Stalin ereditò sia queste idee, formulate intorno agli anni '70 del secolo scorso, sia quelle egualitaristiche che Dühring elaborò relativamente alla distribuzione secondo il lavoro. Dühring diceva che in un contesto di socializzazione i salari dovevano essere più o meno equivalenti, a prescindere dall'effettiva produttività del lavoratore.

Al massimo Dühring prevedeva una "moderata dotazione supplementare" per il consumo a quei lavoratori che si distinguevano particolarmente per le loro capacità. Anche le sue idee riguardanti il denaro -quale mezzo di mera contabilizzazione di uno scambio naturale- vennero bene assimilate da Stalin. Persino l'idea di poter costruire il socialismo in un unico Paese era già stata formulata da Dühring.

Relativamente al denaro, già Engels avevano messo in guardia dai tentativi di realizzare l'idea folle di Dühring secondo cui il denaro si poteva trasformare in un mezzo per assicurare unicamente un consumo più o meno uguale, dopo aver abolito la sua funzione di equivalente universale. Engels aveva previsto che il denaro, considerato soltanto come un certificato per confermare il numero di ore che un individuo ha lavorato e che gli assicura il diritto di acquistare quella quantità di prodotti in cui s'è materializzata una quantità uguale di lavoro, non sarebbe stato un denaro destinato a durare nel tempo. "Il celibe che vive come un lord -dice Engels con un esempio nell'Antidühring-, felice e contento con i suoi 8 o 12 scellini al giorno, mentre il vedono, con 8 figli a carico, trova molto difficile campare con quella stessa somma... Ecco dunque l'occasione e il motivo di risparmiare da una parte e d'indebitarsi dall'altra... E siccome colui che risparmia è nella posizione di estorcere ai bisognosi un interesse, ecco... l'usura è ripristinata proprio con la moneta metallica funzionante come denaro". Engels spiegò inoltre che il risparmiatore "socialista" pretenderebbe, prima o poi, di veder trasformato il proprio denaro in una moneta convertibile.

Engels diceva che leggendo Dühring aveva l'impressione che del capitalismo andasse cambiato solo il modo di distribuzione e non anche quello di produzione. I criteri di "distribuzione", infatti -diceva Engels- si prestano di più alla fantasia dei teorici, danno di più l'impressione che la volontà politica possa fare qualunque cosa.

Per concludere, lo stalinismo ha insegnato, senza volerlo, all'umanità che, anche in presenza di una proprietà "sociale" vi possono essere diversi tipi di socialismo. Non è assolutamente sufficiente, per garantire la presenza del socialismo democratico, limitarsi alla nazionalizzazione dei beni di produzione e di distribuzione. Proprietà "statale" non vuole affatto dire proprietà "sociale", cioè di tutti e di ciascuno in particolare. Vi era la proprietà "statale" dei mezzi produttivi anche nei regimi di Pol Pot e di Ieng Sary, eppure chi si sentirebbe di dire che in Cambogia si cercò di realizzare il socialismo democratico? Si può forse imporre la "verità" del socialismo negando agli uomini ogni forma di libertà? E di quale "verità" si può parlare se proprio mentre la si applica la si nega?

TRIONFO E TRAGEDIA DI STALIN

Nel 1988 le edizioni sovietiche dell'APN pubblicarono il libro su Stalin del filosofo e direttore dell'Istituto di storia militare, D. Volkogonov, Trionfo e tragedia (Ritratto politico di Stalin). L'opera suscitò subito un grande interesse in Occidente, prima ancora che apparisse in URSS. Grandi case editrici hanno deciso di pubblicarla: Mondadori in Italia, Weidenfeld e Nicolson in Inghilterra, Flammarion in Francia, Econ in Germania ecc.

Presentando la sua opera in un'intervista concessa a un settimanale del suo Paese, Volkogonov ha affermato che gli storici devono imparare a ragionare con i "se" e non soltanto su ciò che è veramente accaduto. Ovverosia devono chiedersi sempre quali alternative ci possono essere nei confronti di determinati fenomeni (in questo caso lo stalinismo). Per evitare d'identificare la storia con la fatalità, lo storico ha non solo il diritto ma anche il dovere di avanzare delle "ipotesi" su come i fatti avrebbero potuto svolgersi se si fosse scelta un'altra strada. Nella vita infatti vi sono sempre delle scelte fra due o più alternative. La logica del fatalismo serve soltanto a giustificare che la decisione presa era la migliore: il che però impedisce di analizzare la storia in maniera scientifica. (Da notare che questa problematica delle "alternative storiche" sta interessando notevolmente, in questi ultimi tempi, a partire dalla perestrojka, gli storici sovietici).

Volkogonov crede di ravvisare in tre cause fondamentali l'emergere dello stalinismo (la figura di Stalin gli interessa relativamente):

    i tre secoli delle tradizioni monarchiche della dinastia dei Romanov, che hanno indotto nel popolo una grande passività;
    la povertà delle tradizioni democratiche (di cui s'è dovuta far carico la stessa rivoluzione socialista);
    la sottovalutazione, da parte dell'entourage di Lenin, del pericolo di una dittatura personale nell'ambito del partito.

L'autore si sente d'affermare che i maggiori leaders del Pc (b) tradirono praticamente subito gli ideali di Lenin, poiché si lasciarono dominare dalle logiche degli schieramenti e dalle lotte accanite per il potere politico dopo la sua morte. Particolarmente duro, in tal senso, è il giudizio di Volkogonov su Trotski, "preoccupato più di se stesso che della rivoluzione. Trotski era imbevuto della propria personalità, si credeva un genio e considerava tutti i suoi oppositori (soprattutto Stalin) come dei "mediocri". Era un partigiano convinto del socialismo da caserma. Proponeva di dividere il Paese in circoscrizioni militari. Parlava d'instaurare la disciplina militare nell'ambito del lavoro e amava le forme di gestione dirigista. Dopo la guerra civile trasformò diverse unità militari in "brigate del lavoro". Tutta la popolazione -secondo lui- andava organizzata militarmente". Viste tali premesse, Trotski -secondo Volkogonov-, nonostante le capacità che tutti gli riconoscevano, non aveva alcuna possibilità di sostituire Lenin.

Né d'altro canto l'avevano gli altri leaders citati dallo stesso Lenin nella sua "Lettera al congresso" (il "testamento politico"). Stalin, Trotski, Zinoviev, Kamenev, Bucharin e Piatakov vennero ricordati da Lenin -secondo Volkogonov- in un modo tale che ognuno di loro, singolarmente preso, non sarebbe stato in grado di sostituirlo. L'unico che avrebbe potuto farlo, sarebbe stato -dice Volkogonov- un "leader collettivo", cioè una gestione collegiale dell'intero partito.

Disgraziatamente questa idea di Lenin non venne capita: sia perché spesso il suo pensiero superava a tal punto quello dei suoi contemporanei da risultare addirittura incomprensibile (il "testamento" cominciò ad essere apprezzato solo al XX congresso!); sia perché il suo entourage non sapeva valorizzare adeguatamente le sue capacità: Lenin infatti era costretto ad occupare il 40% del suo tempo nel cercare di risolvere gli affari correnti, prosaici, fin nei minimi dettagli, dall'organizzazione del rifornimento alimentare all'elettrificazione di un villaggio, ecc.

Relativamente al fenomeno dello stalinismo, Volkogonov afferma ch'esso è "l'alternativa negativa al socialismo scientifico", basata prevalentemente sull'uso della forza e sul culto della personalità. In tal senso lo stalinismo è esistito, p.es., anche in Cina durante "il grande balzo" degli anni 1958-60 e durante la "rivoluzione culturale" del decennio 1966-76, oppure in Cambogia sotto il regime di Pol Pot (1975-79). Di questo fenomeno non può essere colpevolizzato solo Stalin e il suo staff, altrimenti si ricade nel "culto della personalità" che pur a parole si biasima. La responsabilità invece è sempre di tutta la società che, almeno in URSS, non fece abbastanza per contrastare un fenomeno così negativo. "Gli interventi isolati -dice Volkogonov- fanno onore a chi li mette in pratica, ma essi sono votati al fallimento, anzi, a quel tempo furono utilizzati da Stalin per rafforzare le proprie posizioni. Egli infatti negli anni '20, '30 e '40 entrò nella storia come il trionfatore principale nella lotta per gli ideali di Lenin. Tutti coloro che si opponevano a Stalin erano accusati d'essere antileninisti". Non si può dunque vincere un fenomeno come questo partendo da posizioni isolate.

Un'altra acuta osservazione di Volkogonov riguarda il fatto che non si devono considerare le purghe staliniane degli anni '37-'39 come più gravi di quelle degli anni '29-'33, solo perché erano in gioco i migliori intellettuali comunisti del Paese. Volkogonov ci tiene a sottolineare che la tragedia più grande è stata quella dei primi anni '30, non solo perché senza di essa non vi sarebbe stata l'altra (gli intellettuali senza "base sociale" sono debolissimi), ma anche perché in essa morirono milioni di contadini anonimi, sacrificati sull'altare della collettivizzazione forzata e dell'industrializzazione pesante.

L'ultimo aspetto di cui parla Volkogonov, nell'intervista, è non meno tragico: la logica di Stalin, secondo cui è bene sbarazzarsi fisicamente non solo dei nemici reali ma anche di quelli potenziali, si radicò così bene nell'URSS che molti delitti vennero compiuti senza che nemmeno Stalin lo sapesse o l'avesse voluto. L'inerzia della violenza era tale che le sue onde si propagavano automaticamente per tutto il Paese. I "figli legittimi" dello stalinismo sono stati coloro che presero i posti lasciati vacanti dalla "vecchia guardia" leninista, sterminata da Stalin: i vari Suslov, Breznev, ecc.

Il testamento politico di Lenin

IL TESTAMENTO POLITICO DI LENIN

Le note che Lenin dettò tra la fine del 1922 e l'inizio del 1923, un anno prima di morire, sono conosciute sotto il nome di “Lettera al congresso” (del partito bolscevico-russo). La famiglia di Lenin e i suoi più intimi collaboratori diedero ad esse il nome di “Testamento”. Come noto, ancora oggi l'interpretazione di questo documento da parte della storiografia sovietica e occidentale è piuttosto controversa. Avvolto da ogni sorta di miti e di leggende, esso venne rivelato solo al XX Congresso del Pcus, da Krusciov, e pubblicato integralmente nel 1956. Questa è la breve cronistoria della formazione di tale documento: ad essa faranno seguito alcune riflessioni di merito.

Agli inizi del 1921 cominciarono ad apparire i primi sintomi dell'arteriosclerosi di Lenin, che i medici attribuivano all'eccessivo lavoro e alle conseguenze dell'attentato della socialista-rivoluzionaria Fanni Kaplan, di cui era stato vittima nell'agosto 1918. Verso la fine dell'anno egli era già gravemente debilitato e costretto a lasciare l'attività pubblica per molte settimane. Nell'aprile 1922 gli venne estratta una delle due pallottole con cui era stato colpito dalla Kaplan. Il 25 maggio la mano e la gamba destre si erano paralizzate ed aveva difficoltà a parlare. Cedendo malvolentieri alle sollecitazioni dei medici, si era trasferito a Gorki. Nel giugno il suo stato di salute era migliorato, sicché all'inizio di ottobre poté tornare a Mosca per riprendere il lavoro. Ma il 13 dicembre fu colpito da nuovi attacchi cerebrali.

Decide finalmente di curarsi. Nei tre giorni seguenti, pur immobilizzato nel letto, ha diverse conversazioni telefoniche, riceve i suoi più stretti collaboratori, prepara l'intervento per il X congresso dei soviet, scrive diverse lettere e alcune note relative al monopolio del commercio estero, alla distribuzione dei compiti fra i sostituti del presidente del consiglio dei commissari del popolo, del consiglio del lavoro e della difesa, chiede d'indagare sul modo come s'effettuava lo stoccaggio della raccolta del grano nel 1922, s'informa di ciò che viene fatto in materia di sicurezza sociale, del censimento della popolazione e di altre questioni.

Sulla questione del commercio estero, Lenin, che pur aveva contribuito alla nomina di Stalin alla carica di segretario generale del partito, si scontra duramente, in quanto Stalin patrocinava le tesi di Bucharin, Sokolnikov, Frumkin e altri relative alla attenuazione se non abolizione del regime di monopolio. Trotski invece parteggiava per Lenin.

Nella notte dal 15 al 16 dicembre il suo stato di salute s'aggrava seriamente. Il mattino del 16 Lenin detta una lettera alla moglie, Nadejda Krupskaia. I medici gli propongono di trasferirsi di nuovo a Gorki, ma lui decide di restare a Mosca. Chiede a Nadejda di far sapere a Stalin che la malattia gli impediva d'intervenire al X congresso.

Il 18 dicembre si riunisce il plenum del C.C. Viene deciso di comunicare a Lenin, con l'assenso dei medici, il testo delle risoluzioni adottate al plenum. Per decisione speciale dello stesso, Stalin viene investito della responsabilità personale relativa al controllo della terapia prescritta dai medici. A partire da questo momento le visite gli vengono vietate. Alle persone che assistono: la moglie, la sorella, alcune segretarie e il personale medico, viene proibito di trasmettergli qualsiasi lettera o di informarlo dei correnti affari di Stato, al fine -questa la giustificazione - di "non preoccuparlo".

Il 21 dicembre Lenin detta a Nadejda una lettera indirizzata a Trotski, in cui si dichiara soddisfatto della decisione del plenum circa la conferma dell'intangibilità del monopolio del commercio estero e suggerisce che venga posta al congresso del partito la questione del consolidamento di tale commercio e delle misure da prendere per migliorarne l'efficienza.

Avendo saputo di questa lettera, Stalin, al telefono, rimprovera duramente Nadejda d'aver trasgredito l'ordine di riposo assoluto impartito dai medici. Nadejda reagisce inviando il 23 dicembre una lettera a Kamenev, allora vice-presidente del consiglio dei ministri: “Stalin s'è permesso ieri un attacco assai rozzo nei miei riguardi, sotto il pretesto che avevo autorizzato Ilich a dettarmi una breve lettera - ciò che io ho fatto col consenso dei medici. Non è da oggi che sono membra del partito, ma in 30 anni non avevo mai sentito nulla di simile. Gli interessi del partito e dello stesso Ilich mi stanno a cuore tanto quanto a Stalin. So bene ciò di cui si può o non si può parlare con Ilich, poiché so che cosa lo preoccupa, lo so meglio di qualunque medico, in tutti i casi meglio di Stalin... Non sono di marmo e i miei nervi sono al limite”.

La Krupskaia non disse niente a Lenin dell'incidente, per cui è da escludere ch'essa l'abbia influenzato nel ritratto che di Stalin egli fece in una nota del 4 gennaio 1923. Solo il 5 marzo egli viene a conoscenza dell'incidente, per il quale dettò subito una lettera indirizzata a Stalin: “Compagno Stalin, voi avete avuto l'impudenza di chiamare mia moglie al telefono per insultarla. Benché essa vi abbia promesso di dimenticare l'incidente, il fatto tuttavia, per mezzo di lei, è venuto a conoscenza di Zinoviev e Kamenev. Io non ho intenzione di dimenticare così facilmente ciò che è stato fatto contro di me: va da sé infatti che quanto viene fatto contro mia moglie è come se fosse fatto contro di me. Ecco perché vi chiedo di farmi sapere se siete disposto a ritirare ciò che avete detto e a scusarvi, o se invece preferite interrompere le relazioni tra noi. Con i miei rispetti, Lenin”. Stando a una lettera della sorella di Lenin, Maria Ulianova, Stalin presentò le sue scuse.

Nella notte del 22 dicembre il braccio e la gamba destri erano paralizzati. Lenin non poteva più scrivere. Il giorno dopo chiede ai medici il permesso di dettare alla stenografa per cinque minuti, poiché una questione assai importante gli impediva di dormire. Fu così che Lenin cominciò a dettare la prima parte della sua cosiddetta “Lettera al congresso”. In questa parte egli avanzava la necessità di aumentare l'effettivo del CC facendovi entrare degli operai e dei contadini (50-100 membri).

Il 24 dicembre, davanti alle insistenze dei medici che imponevano di cessare ogni incontro con la stenografa, Lenin pone un ultimatum: o lo si autorizza a dettare il suo “diario” per qualche minuto al giorno, oppure rifiuterà categoricamente ogni cura. Lenin in pratica supponeva che la parola innocente “diario” gli avrebbe permesso più facilmente d'ottenere l'assenso dei medici.

Lo stesso giorno, dopo essersi consigliati coi medici, Stalin, Kamenev e Bucharin, prendono la seguente decisione: “1) Lenin è autorizzato a dettare per 5-10 minuti al giorno, ma non deve dettare delle lettere e non deve aspettarsi una replica alle sue note. Le visite sono proibite. 2) Né i suoi amici, né le persone del suo più vicino entourage debbono dargli informazioni sulla vita politica, per non dargli modo di inquietarsi”.

Lenin può comunque dettare la seconda parte della “Lettera” in cui delinea i ritratti dei maggiori leaders del partito. La stenografa, Maria Volodicheva, annota nel suo diario che Lenin le ha più volte ribadito il carattere assolutamente confidenziale di quanto le aveva dettato i giorni 23 e 24 dicembre e che le note dovevano essere preparate in cinque esemplari: uno per gli archivi segreti, uno per lui e tre per la Krupskaja, e poste in buste sigillate. La stenografa racconterà, nel 1929, d'aver bruciato la minuta e che sulla busta sigillata con la cera avrebbe dovuto scrivere che solo Lenin poteva aprirla e, dopo la sua morte, solo N. Krupskaia, ma che le parole “dopo la sua morte” le aveva tralasciate.

Il segreto dunque verteva esclusivamente sulla seconda parte della “Lettera”, poiché la prima (riguardante l'ampliamento del CC) era già stata consegnata il 23 dicembre al CC. Nel maggio 1924 la Krupskaia consegnò alla commissione del CC tutte le carte di Lenin, ma non se ne fece niente. I membri dell'ufficio politico e una parte dei membri del CC erano già al corrente dei giudizi che Lenin aveva di taluni responsabili di partito, per cui ritennero opportuno non rendere pubblico il documento. La volontà di Lenin non venne rispettata.

La malattia aveva colto Lenin in un momento cruciale della storia del partito comunista e dello Stato sovietico. La guerra civile (1918-20) non si era ancora conclusa, le truppe d'intervento straniere continuavano ad occupare l'Estremo Oriente della nazione, la controrivoluzione interna non s'era ancora rassegnata a deporre le armi, i kulaki manifestavano nella Russia centrale, in Ucraina e in Siberia, il movimento dei Basmaci manifestava in Asia centrale, vi erano sollevazioni in diverse città. La fame e il disastro dell'economia venivano a peggiorare la situazione. E, ciononostante, le norme e le regole del “comunismo di guerra” (tutte le forze e le risorse messe al servizio della difesa, grazie alla nazionalizzazione della grossa e media industria, alla centralizzazione della produzione e della distribuzione, al divieto del commercio privato, al lavoro obbligatorio, all'uguaglianza dei salari, ecc.) facevano sempre più posto alla Nuova Politica Economica, elaborata da Lenin (che prevedeva un certo sviluppo del capitalismo e la sostituzione della requisizione dei prodotti agricoli con un'imposta in natura. Misure, queste della NEP, che neppure alcuni membri dell'ufficio politico e del CC riuscivano ad accettare. Ecco perché Lenin, nella sua prima parte della “Lettera”, raccomandava di procedere a una serie di importanti cambiamenti politici e organizzativi).

Lenin prevedeva che se il CC del partito non fosse stato ben saldo e compatto, l'accerchiamento della Russia sovietica da parte degli Stati imperialisti avrebbe potuto determinare il fallimento della rivoluzione. Temeva infatti che i conflitti interni al partito, fino a quel momento insignificanti, avrebbero potuto, di fronte alle pressioni del nemico esterno, diventare molto gravi. Di qui la richiesta di aumentare il CC fino a 50-100 unità, reclutando “operai e contadini medi” che non avessero un “lungo funzionariato sovietico” e che non appartenessero, né direttamente né indirettamente, alla casta degli sfruttatori. Probabilmente Lenin s'era accorto che in sua assenza, a causa della malattia, lo stato maggiore del partito non riusciva a superare le divergenze di opinioni per organizzare un lavoro intelligente, proficuo. Egli temeva soprattutto la minaccia d'una scissione nel momento più critico del Paese.

Lenin, in sostanza, auspicava la creazione di uno staff in grado di garantire il partito contro l'influenza dei tratti negativi di certi suoi dirigenti, in grado cioè di diminuire l'impatto sia dei fattori puramente soggettivi, che delle circostanze accidentali nella soluzione delle questioni più importanti, ma anche in grado di creare le condizioni in cui il contenuto del lavoro di gruppo, rigorosamente centralizzato, del CC, non superasse il quadro, non meno rigorosamente definito, delle sue competenze.

Sintomatico è il fatto che la frase di Lenin: "né il segretario generale, né alcun altro membro del CC" dovevano essere in grado d'impedire un controllo sulla loro attività, fu soppressa dalla "Pravda" del 25 gennaio 1923 e mai pubblicata in nessuna delle successive raccolte di scritti di Lenin, fino a quando è stata ripristinata, secondo il manoscritto originale, nel 45° volume della V edizione delle sue opere, apparso a Mosca nel 1970.

Relativamente ai tratti soggettivi dei leaders del partito, Lenin, nell'ultima nota del 4 gennaio, rilevava che il difetto principale di Stalin: la "grossolanità", “tollerabile” nei rapporti fra comunisti, era “inammissibile” per un segretario generale, per cui proponeva la sua sostituzione, anche per evitare che il dissidio fra Stalin e Trotski rischiasse di danneggiare l'intero partito.

Quanto, su questa decisione, avesse influito il pericoloso atteggiamento assunto da Stalin (ma anche da Ordzonikidze e Dzerzinskij) nella questione delle nazionalità, era facile intuirlo. Le note del 30-31 dicembre su tale questione e sul progetto di autonomizzazione sono tra le più importanti del Testamento. Lenin temeva che il regime sovietico si sarebbe comportato in maniera imperialistica nei confronti delle nazioni più piccole o più arretrate. Stalin, in tal senso, s'era mostrato "fatalmente precipitoso", "nefastamente collerico" verso il preteso "social-nazionalismo"; Dzerzinskij aveva dato prova di preconcetti imperdonabili; per Ordzonikidze, che aveva addirittura malmenato pubblicamente un compagno di partito, Lenin chiedeva una "punizione esemplare".

Stalin, come noto, era stato eletto segretario generale del CC del partito nella primavera del 1922. Prima d'accedere a questo posto, egli dirigeva, quale membro dell'ufficio politico a partire dal marzo 1919, il commissariato per gli affari delle nazionalità e l'Ispezione operaia e contadina. Durante la guerra civile e fino a qualche anno dopo, Stalin si era mostrato un leader energico, volitivo, un grande organizzatore. A motivo di queste qualità, l'ufficio politico, nella seconda metà del 1921, gli aveva affidato il lavoro organizzativo in seno al CC. Lo si era incaricato di preparare i plenum del CC, le sessioni del comitato esecutivo centrale e di fare altre cose ancora: sicché, in pratica, egli veniva ad assumere le funzioni del segretario del CC.

Lenin, dal canto suo, era il capo del governo sovietico. Non occupava ufficialmente alcun ruolo nel partito, nel CC, ma dirigeva le sedute dei plenum del CC e dell'ufficio politico. Di fatto egli era a capo non soltanto del consiglio dei commissari del popolo, ma anche del CC del partito. In queste attività egli aveva come assistente il segretario del CC. Questa funzione non era ufficiale (non esisteva prima di Stalin un segretario “generale” del partito), ma, in pratica, uno dei segretari era stato scelto per dirigere il lavoro della segreteria.

Quando la salute di Lenin peggiorò in modo irreversibile, si prese la decisione di rafforzare la segreteria del partito. Il plenum del CC nominò Stalin, perché sembrava fosse il più idoneo a proseguire i lavori del partito in assenza di Lenin. Fu allora che si decise di dare il nome di “segretario generale” al titolare del nuovo posto, per accrescerne il prestigio e per distinguerlo dagli altri segretari. Col passare del tempo Lenin s'accorse che Stalin aveva concentrato nelle sue mani “un potere illimitato”, sia nell'ambito del partito che dello Stato. Per questo propose, senza fare nomi, di sostituirlo.

Difficilmente però avrebbero potuto sostituirlo Zinoviev o Kamenev, che nel Testamento vengono ricordati da Lenin per il loro comportamento tenuto nel 1917, allorché si opposero alla sollevazione armata, divulgando presso un giornale non comunista la decisione segreta del partito. Tuttavia, nonostante questa defezione, sia l'uno che l'altro erano rimasti membri del CC e dell'ufficio politico. Kamenev era addirittura vicepresidente del consiglio dei commissari del popolo, del consiglio del lavoro e della difesa, mentre Zinoviev era presidente del comitato esecutivo del Komintern. Era stato proprio Lenin ad appoggiare la candidatura di Kamenev, in seno al CC, nell'aprile del 1917, a motivo dell'ascendente su certi strati sociali popolari che unanimemente si riconosceva a Kamenev. Lenin non ha mai accettato di considerare il tradimento dei due come un “crimine personale”. Peraltro nel Testamento egli dice a chiare lettere che non si poteva rimproverare loro tale comportamento “più di quanto si possa rimproverare a Trotski il suo non-bolscevismo” (Zinoviev e Kamenev furono fatti fucilare da Stalin nel 1936).

Quanto a Trotski, Lenin conosceva bene la lunga, complessa e tortuosa lotta ch'egli aveva condotto contro il bolscevismo, ma sapeva anche che ciò non dipendeva tanto dai tratti negativi della personalità egocentrica di Trotski, quanto dal fatto ch'egli rifletteva l'umore di certi militanti del partito e di vasti strati sociali. Grazie al suo talento d'oratore, egli conosceva i modi di galvanizzare quelle masse (specie i più giovani) sensibili alla fraseologia di sinistra. Trotski era senza dubbio una personalità di rilievo: era stato, nel 1922, membro dell'ufficio politico, commissario del popolo alla difesa e alla marina militare, presidente del consiglio militare rivoluzionario della Repubblica. Il partito lo aveva anche incaricato di svolgere diverse funzioni nell'ambito dell'economia nazionale, anche se -come dice Lenin nel Testamento- “la sua eccessiva sicurezza e infatuazione per l'aspetto puramente amministrativo degli affari” rischiava di condurlo “troppo lontano”. Lenin sapeva bene che a Trotski mancavano alcune qualità politiche fondamentali, quali p.es. la duttilità con gli uomini, il gusto della tattica, la capacità di manovra ecc. (Trotski morirà assassinato in Messico nel 1940, da un sicario di Stalin, Ramon Mercader).

Probabilmente Lenin si rendeva conto che nessun leader, da solo, era in grado di sostituirlo e, forse proprio per questo, sperava che, allargando la partecipazione agli organi di direzione politica, l'esigenza di avere un leader con altissime capacità sarebbe venuta meno. Sottoponendo tutti i leaders a un maggiore controllo e facendo ruotare le cariche, il problema della successione sarebbe stato meno gravoso.

Non a caso nelle note del 27-28-29 dicembre, riferendosi alla lettera del 28 dicembre sul carattere legislativo delle decisioni del Gosplan, Lenin disse ch'era difficile trovare in una sola persona la combinazione di queste qualità: solida preparazione scientifica in uno dei rami dell'economia e della tecnologia, visione d'insieme della realtà, forte ascendente sulle persone, capacità organizzative e amministrative. Ma forse -diceva ancora Lenin- se si fossero rispettate le sue condizioni, non ci sarebbe stato bisogno di cercare una persona del genere. D'altra parte egli si rifiutò di designare un proprio successore alla guida del partito.

Nel Testamento Lenin cita altri due leaders: Bucharin e Piatakov. Del primo esprime due giudizi apparentemente contraddittori. Da un lato infatti afferma che “non è soltanto il maggiore e il più prezioso teorico del partito, è anche, a ragione, il compagno più benvoluto”; dall'altro però sostiene ch'egli non ha mai ben compreso la “dialettica” e che le sue concezioni del marxismo sono un po' “scolastiche”. In effetti, la posizione assunta da Bucharin durante la conclusione della pace di Brest-Litovsk con la Germania (egli, insistendo sul rifiuto delle condizioni di pace tedesche, rischiò di portare la repubblica allo sfascio), era una testimonianza esplicita della sua carente dialettica: ciò che riconobbe, d'altra parte, lo stesso Bucharin. Non solo, ma Lenin aveva giudicato “scolastica ed eclettica” l'analisi dei fenomeni sociali che Bucharin aveva condotto in alcuni capitoli del suo libero L'economia del periodo di transizione (Bucharin morirà nelle purghe staliniane nel 1938).

Quanto a Piatakov, Lenin gli riconosceva “volontà e capacità notevoli”, ma anche la stessa tendenza di Trotski ad accentuare l'aspetto amministrativo (autoritario) delle cose, per cui non si poteva "contare su di lui su una seria questione politica". Tuttavia, sia per questo caso che per quello precedente, Lenin sperava che i difetti avrebbero potuto, col tempo, essere superati: in fondo Bucharin aveva solo 34 anni e Piatakov 32; si può quindi pensare che i due, col tempo, avrebbero potuto costituire un tandem vincente, benché al momento i leader più importanti fossero Trotski e Stalin (Piatakov sarà fucilato nel 1936).

La sorte del testamento

Che cosa accadde dopo che la Krupskaia presentò alla commissione del CC il Testamento di Lenin? La commissione era composta da Stalin, Kamenev, Zinoviev e altri ancora. Il plenum del CC del 21 maggio 1924 adottò la risoluzione, dopo aver ascoltato il rapporto di Kamenev, di divulgare il contenuto della “Lettera” non alla seduta dello stesso congresso, ma separatamente, alle riunioni delle varie delegazioni. Si precisò anche che i documenti di Lenin non sarebbero stati riprodotti, e per questa ragione non vennero pubblicati.

I rapporti sulla “Lettera” vennero fatti alle delegazioni da Kamenev, Zinoviev e Stalin. Stando alla loro interpretazione, Lenin, riferendosi alla rimozione di Stalin dalla funzione di segretario generale, la considerava come un'ipotesi di cui tener conto, non come una necessità. In fondo Lenin non aveva trovato niente di preciso, di oggettivo, da rimproverare a Stalin: la sua riserva verteva su questioni di carattere soggettivo (anche se, ma questo non fu mai sottolineato, egli le riteneva particolarmente gravi, avendo intuito che si stavano trasformando in un problema politico).

Kamenev comunque espose il contenuto della “Lettera” in modo da far credere che soltanto i tratti personali del carattere di Stalin erano stati messi in discussione e non anche il fatto ch'egli aveva concentrato su di sé un enorme potere. Dal canto suo, Stalin giurò di tener conto delle osservazioni critiche mossegli da Lenin.

Alcuni storici hanno sostenuto che non si provvide a sostituire Stalin perché si temeva che il suo posto l'avrebbe preso Trotski, il quale, non meno di Stalin, aspirava a una leadership maggiore in seno al partito e in più era di tendenza “menscevica”. Ma questa versione dei fatti contrasta proprio con l'affermazione di Lenin secondo cui Trotski era caratterizzato dal suo “non-bolscevismo”: il che doveva escludere a priori la proposta di una sua candidatura a un posto così importante.

Questo Testamento avrebbe sicuramente meritato una più attenta discussione, ma non essendo stato riprodotto, nessun delegato ebbe mai modo di leggerlo personalmente. In sostanza, il dibattito venne indirizzato unicamente sulle proposte di Lenin riguardanti la struttura organizzativa degli organi dirigenti del partito. Trotski s'era allora risolutamente opposto all'idea di ampliare il CC agli operai. Formalmente però, la proposta di Lenin venne accettata. Il XII congresso del partito (1923) fece passare il numero dei membri del CC da 27 a 40; il XIII congresso (1924) li portò a 53. Tuttavia, il progetto di Lenin di associare gli operai e i contadini alla direzione del partito non si realizzò.

Nel 1927, il XV congresso adottò la risoluzione di pubblicare la “Lettera” di Lenin in una Raccolta delle sue opere, ma poi il testo venne pubblicato solo in un “bollettino segreto”. Nell'ottobre dello stesso anno, al plenum del CC, Stalin parzialmente citò e commentò nel suo discorso la “Lettera” di Lenin. Il discorso venne poi inserito nelle Opere di Stalin in maniera sintetica: totalmente esclusi furono i passaggi relativi alla proposta della sua rimozione. Durante il periodo della dittatura staliniana il Testamento fu addirittura considerato inesistente, benché nel 1927 fosse apparso all'estero per opera di alcuni simpatizzanti trotzchisti. Sarà solo nel 1956 che la rivista Kommunist pubblicherà integralmente questo testamento politico, che ora si trova anche nella V edizione delle Opere complete di Lenin (in lingua russa). Nel 1957 e nel 1963 apparvero altre due importanti testimonianze a favore dell'autenticità del documento, di una delle segretarie di Lenin, L. A. Fotieva: Dai ricordi su Lenin e Diario delle segretarie di turno di Lenin.

CONSIDERAZIONI SULLO STALINISMO

La semplificazione che lo stalinismo fece del leninismo contribuì a creare una sorta di monismo ideologico di Stato, che servì da supporto per la dittatura del partito unico sulla società (che fu poi la dittatura degli intellettuali, dei funzionari di partito e dei burocrati dell'amministrazione statale, formatisi in ambienti urbani).

Questa semplificazione fu un atto non solo d'imperio, reso possibile dall'arretratezza di un paese con una percentuale altissima di analfabeti e di cittadini abituati da secoli all'obbedienza passiva. Fu anche un atto ingenuo, in quanto si credeva di poter contribuire, con gli strumenti dell'ideologia, a tenere la società più unita.

Il capitalismo non crede in queste forme di idealismo, se non in misura molto limitata, in quanto basa la propria sopravvivenza su fattori più prosaici, come il profitto, la rendita, l'evasione fiscale, un salario per acquistare beni superflui o comunque per consumare quelle forme utili a far dimenticare i problemi sociali o almeno a nascondere la causa che li genera. Anzi, ogni richiamo agli ideali che non siano religiosi o di derivazione religiosa, viene definito, sprezzantemente, come una forma di ideologia.

L'occidente non ama mettere in discussione la propria ideologia (formale) con altre ideologie (sostanziali), non ama gente che pensa e che non compra.

Ma c'è un altro aspetto da considerare. Lo stalinismo fu anche l'incapacità di capire che le esigenze del mondo contadino dovevano prevalere su quelle industriali, non solo perché il paese era basato su un'economia prevalentemente rurale, ma anche perché un'applicazione forzata di quella stessa rivoluzione industriale compiuta in Europa occidentale e negli Stati Uniti, non avrebbe fatto altro che portare alla rovina un paese privo di colonie, le quali appunto erano servite ai paesi capitalisti per scaricare il peso dei guasti causati da quella rivoluzione.

La Russia europea trasformò quella asiatica in una gigantesca colonia interna, come in Italia la parte del centro-nord fece con quella meridionale. Quanto più la classe contadina opponeva resistenza alle priorità assolute dell'industria e della città, che il partito voleva imporre a tutti i costi, temendo di perdere il confronto con l'occidente, tanto più la politica tendeva ad assumere forme di spiccato autoritarismo, giustificato col pretesto che nel mondo rurale s'andavano diffondendo tentativi di ripristinare il capitalismo (vedi la questione dei kulaki).

In sostanza non ci si rendeva conto che proprio l'industrializzazione forzata, fatta pagare soprattutto alla classe rurale, costituiva l'elemento principale di una penetrazione delle campagne e in tutto il paese di una sorta di capitalismo di stato, gestito da un unico imprenditore nazionale, burocratico e poliziesco, una sorta di manager amministrativo preposto a far funzionare un'economia di cui il partito politico, in forza dell'Ottobre, si sentiva unico legittimo proprietario.

Tutto ciò per dire che nel 1991 è fallito in Urss non tanto il leninismo, quanto piuttosto il sistema amministrativo-dirigista inaugurato da Stalin e proseguito dai suoi successori nel periodo della stagnazione.

A differenza di Lenin, Stalin non riuscì mai a tollerare il pluralismo degli orientamenti ideali, nonché una loro organizzazione autonoma, né mai riuscì ad accettare l'idea che lo Stato dovesse progressivamente estinguersi in rapporto alla crescita del socialismo. Anzi, egli teorizzò proprio il contrario, e cioè che lo sviluppo del socialismo avrebbe comportato un aumento del burocratismo e del militarismo, proprio per difendersi dalla inevitabile accresciuta ostilità delle potenze capitalistiche. I poteri forti delle organizzazioni statali andavano difesi ad oltranza per tutelare le conquiste della rivoluzione.

La società civile, sotto lo stalinismo, era stata come inghiottita dallo Stato, il cui compito principale era quello di organizzare e di indottrinare le masse. Dopo aver abolito ogni forma di proprietà privata, lo Stato pretendeva di coincidere col popolo tout-court. E mentre sotto lo stalinismo gli oppositori venivano eliminati fisicamente, sotto la fase della stagnazione l'eliminazione era politica, morale, psicologica (con l'internamento nei manicomi).

La maggiore illusione è stata proprio quella di credere d'aver costruito il socialismo dal punto di vista della proprietà statalizzata, in cui la dittatura politica del partito unico si serviva degli organi statali per imporsi sulla società.

La stragrande maggioranza dei cittadini era salariata statale. Il che aveva portato all'indifferenza per le sorti del "bene pubblico", all'apatia, alla rassegnazione per i destini del paese, in quanto non può esservi interesse là dove la cosa "pubblica" non viene avvertita come "propria".

Solo nell'ambito della società civile, in un processo spontaneo, autocosciente, di appropriazione collettiva del bene pubblico, in modo che tutti abbiano da riconoscersi come persone "libere", è possibile parlare di "socialismo reale". Qualunque "socialismo di stato" è un "socialismo da caserma".

Il problema è, purtroppo, che in Russia non si è sviluppato un socialismo dal punto di vista della società civile, in opposizione a quello "statalista", ma si sono sviluppate correnti borghesi che stanno utilizzando lo Stato per potersi meglio affermare.

E' d'altra parte inevitabile veder sorgere una reazione borghese, istintiva, individualistica alla massificazione obbligata di 70 anni di dittatura.

Si è approfittato del fallimento del socialismo burocratico per sostenere uno sviluppo che prima o poi porterà a contraddizioni così acute da riproporre il tema di un loro superamento anticapitalistico.

Non si può cancellare il leninismo con un colpo di spugna. Non si può cancellarlo col pretesto che la prosecuzione del leninismo è stata, storicamente, lo stalinismo.

Lo stalinismo, come d'altra parte il trotskismo, nella loro versione codificata, consegnata alla storia, non hanno nulla a che fare col leninismo. Lenin fu ostile sia a Stalin che a Trotsky in più occasioni, non apprezzava i loro metodi "amministrativi", cioè autoritari, anche se questo non gli impedì di lavorare con loro. La stessa ideologia "leninista" non ha nulla a che vedere col metodo dialettico di Lenin, che mal sopportava gli "ismi" di qualsivoglia genere.

Lo stesso Marx - come noto - rifiutava di definirsi "marxista". Ogni forma di fossilizzazione, di cristallizzazione di una teoria, è una forma di tradimento nei confronti degli autori che l'hanno elaborata. Non c'è un solo libro di Lenin che non abbia rettificato delle tesi espresse in un libro precedente.

P.es. dopo il fallimento della prima rivoluzione russa, Lenin dovette rendersi conto che lo sviluppo del capitalismo nelle campagne era stato sopravvalutato. La stessa realizzazione della Nep era in sostanza l'ammissione che il socialismo non poteva essere imposto dall'alto. Nelle opere del 1922-23 egli offre una visione del socialismo come società di cooperatori civilizzati, in cui il ruolo delle cooperative (fino ad allora criticato) sarebbe stato fondamentale. Lui stesso più volte aveva detto ch'era impossibile non commettere errori e che il problema vero stava nel saperli correggere in tempo, senza aspettare che si correggessero da soli. Il marxismo dell'ultimo Lenin era molto più pragmatico e realista di quello del periodo precedente.