Ho fatto cenno all'avversione neppure celata che Gramsci ha nei confronti della psicologia e della sociologia (per quanto riguarda la psicoanalisi se ne parlerà ulteriormente). L'avversione si spiega facilmente tenendo conto che, all'epoca, entrambe le discipline hanno una matrice positivistica.
La necessità, però, di integrare nella filosofia marxista il livello di esperienza soggettiva e psicosociale (che è quello immediatamente vissuto dagli esseri umani) è ben presente a Gramsci. Non per caso, nei Quaderni, si trovano riflessioni al riguardo di notevole interesse.
Nel Quaderno 14, per esempio, si legge:
"§61 Sincerità (o spontaneità) e disciplina. La sincerità (o
spontaneità) è sempre un pregio e un valore? È un pregio e un valore se
disciplinata. Sincerità (e spontaneità) significa massimo di
individualismo, ma anche nel senso di idiosincrasia (originalità in
questo caso è uguale a idiotismo). L’individuo è originale storicamente
quando dà il massimo di risalto e di vita alla «socialità», senza cui
egli sarebbe un «idiota» (nel senso etimologico, che però non si
allontana dal senso volgare e comune). C’è dell’originalità, della
personalità, della sincerità un significato romantico, e questo
significato è giustificato storicamente in quanto nacque in opposizione
con un certo conformismo essenzialmente «gesuitico»: cioè un
conformismo artificioso, fittizio, creato superficialmente per gli
interessi un piccolo gruppo o cricca, non di una avanguardia.
C’è conformismo «razionale» cioè rispondente alla necessità, al minimo
sforzo per ottenere un risultato utile e la disciplina di tale
conformismo è da esaltare e promuovere, è da fare diventare
«spontaneità» o «sincerità».
Conformismo significa poi niente altro che «socialità», ma piace
impiegare la parola «conformismo» appunto per urtare gli imbecilli. Ciò
non toglie la possibilità di formarsi una personalità e di essere
originali, ma rende più difficile la cosa.
È troppo facile essere originali facendo il contrario di ciò che fanno
tutti; è una cosa meccanica. È troppo facile parlare diversamente dagli
altri, essere neolalici, il difficile è distinguersi dagli altri senza
perciò fare delle acrobazie. Avviene proprio oggi che si cerca una
originalità e personalità a poco prezzo. Le carceri e i manicomi sono
pieni di uomini originali e di forte personalità.
Battere l’accento sulla disciplina, sulla socialità, e tuttavia
pretendere sincerità, spontaneità, originalità, personalità: ecco ciò
che è veramente difficile e arduo."
Poniamo tra parentesi l'infelice affermazione sui carceri e sui manicomi (tanto più infelice se si tiene conto che Gramsci è in carcere e sta attraversando una crisi che lo porterà ad intravedere la possibilità di impazzire).
Il nodo del discorso verte sul conformismo e sull'originalità. I termini, se si assume il conformismo nell'accezione comune di omologazione, sembrano antitetici.
Gramsci però ritiene che il conformismo sia una dimensione costitutiva di ogni essere umano perché definisce l'appartenenza stessa dell'individuo alla società o a un gruppo sociale: è il frutto, insomma, dell'educazione e dell'interazione sociale che lo inducono, più o meno inconsapevolemente, ad adottare modi di sentire, di pensare e di agire conformi alla cultura del gruppo stesso. Questo tributo dell'uomo all'appartenenza sociale è inevitabile perché, in difetto di esso, egli rimarrebbe un "idiota".
Il "contagio" che l'individuo ricava dal suo essere radicalmente sociale, costretto cioè ad interagire perpetuamente con gli altri e a condividere culturalmente qualcosa con essi (a partire dalla lingua), non è però una iattura, non gli impedisce, cioè, di differenziare la sua personalità quanto basta a dare ad essa un carattere di originalità, spontaneità e sincerità.
Giustamente Gramsci rileva che l'originalità non ha nulla a che vedere con l'anticonformismo di maniera, con il voler essere anticonformisti a tutti i costi, come nei primi decenni del secolo accadeva ai futuristi, ai nietzschiani d'accatto, a D'Annunzio e ai dannunziani e a tutti coloro che denunciavano il modo di essere borghese come mediocre.
Egli intende per originalità autentica il dotarsi di una visione del mondo e il praticare uno stile di vita che trascende l'orizzonte ideologico del proprio tempo in nome di un modello di socialità più elevato, affrancato dal perbenismo, dal moralismo, dall'individualismo, dall'anticonformismo di maniera, ecc.
E' evidente che, nel fare riferimento ad un'originalità autentica, Gramsci ha presente il concetto marxiano dell'individuo universale, vale a dire pienamente realizzato nelle sue potenzialità individuali e, al tempo stesso, dotato di una coscienza universale che gli consente di vivere come un impegno attivo la sua appartenenza alla storia e a un determinato contesto sociale; l'individuo che, nel coltivare se stesso, si sente sempre più sociale e partecipe del mondo.
Attribuendo implicitamente all'uomo due bisogni - che oggi possono essere definiti di appartenenza sociale e di individuazione (che non ha nulla a che vedere con l'individualismo) -, Gramsci raggiunge un livello di verità molto profondo.
Una società fatta a misura d'uomo dovrebbe partire da questa verità e concedere ad ogni individuo di realizzare al massimo grado entrambi i bisogni. L'appartenenza, infatti, non significa solo interiorizzazione del senso comune, ma anche partecipazione a tutto il patrimonio culturale che l'umanità ha prodotto nel corso della sua vicenda storica. L'individuazione è, in questa ottica, null'altro che l'uso che il soggetto fa di tale patrimonio per migliorare se stesso e porsi nel mondo come un valore aggiunto.
Che questo sia possibile Gramsci lo afferma con estrema chiarezza, anche se l'affermazione è preceduta dal riferimento agli impulsi e agli istinti animaleschi:
"§ 21 In realtà ognuno tende, a suo modo, sia pure, a crearsi un
carattere, a dominare certi impulsi e istinti, ad acquistare certe
forme «sociali» che vanno dallo snobismo, alle convenienze, alla
correttezza, ecc. Ora cosa significa: «ciò che si è realmente» e da cui
si cerca di apparire «diversi?»
«Ciò che si è realmente» sarebbe l’insieme degli impulsi e istinti
animaleschi e ciò che si cerca di apparire è il «modello»
sociale‑culturale, di una certa epoca storica, che si cerca di
diventare; mi pare che ciò «che si è realmente» è dato dalla lotta per
diventare ciò che si vuol diventare."
In difetto di questa lotta, che implica impegno e autodisciplina, gli esseri umani cadono nella trappola della dissociazione tra teoria e pratica, che genera irrequietezza:
"§58 Perché gli uomini sono irrequieti? Da che viene l’irrequietezza? Perché l’azione è «cieca», perché si fa per fare. Intanto non è vero che irrequieti siano solo gli «attivi» ciecamente: avviene che l’irrequietezza porta all’immobilità: quando gli stimoli all’azione sono molti e contrastanti, l’irrequietezza appunto si fa «immobilità». Si può dire che l’irrequietezza è dovuta al fatto che non c’è identità tra teoria e pratica, ciò che ancora vuol dire che c’è una doppia ipocrisia: cioè si opera mentre nell’operare c’è una teoria o giustificazione implicita che non si vuole confessare, e si «confessa» ossia si afferma una teoria che non ha una corrispondenza nella pratica. Questo contrasto tra ciò che si fa e ciò che si dice produce irrequietezza, cioè scontentezza, insoddisfazione."
C'è indubbiamente del vero in queste affermazioni. La loro apoditticità però cela un problema. Gramsci rifiuta il confronto con il nichilismo filosofico che caratterizza il suo tempo perché lo interpreta come un riflesso della decadenza della civiltà borghese. Il nichilismo è anche questo, ma non solo questo: è l'approdo dell'umanità ad un disincanto irreversibile, anche se non irrimediabile.