www.sapere.it
Storico, orientalista e patriota (Palermo 1806-Firenze 1889). Nel 1842 pubblicò La guerra del Vespro Siciliano, sgradita al governo borbonico, che gli costò l'esilio a Parigi (dove studiò arabo e greco moderno), ed esattamente trent'anni più tardi la poderosa Storia dei Musulmani di Sicilia, cominciata nel 1854, affermandosi come autorevole orientalista.
Significative anche le opere Biblioteca arabo-sicula (1857), Le epigrafi arabiche in Sicilia (1875), ecc.
Oltre che storico fu illustre patriota e uomo politico, ministro delle Finanze (per cinque mesi nel 1848), ministro dell'Istruzione (1860), nominato da Garibaldi, poi dei Lavori Pubblici e degli Esteri.
Resasi indipendente l'Italia, fu eletto senatore del Regno e ancora ministro dell'Istruzione.
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di Rosario Romeo
Nacque a Palermo il 7 luglio 1806 da Ferdinando e Giulia Venturelli,
in casa del nonno paterno, di cui gli venne imposto il nome.
Mediocre patrocinatore legale, costui traeva discreti guadagni dalla
professione e, più, dall'ufficio di cancelliere del
protomedicato, poco occupandosi di politica e in genere di
ciò che andasse oltre i suoi privati interessi. Per contro,
il padre Ferdinando, che l'A. più tardi giudicherà
uomo "leggiero, improvvido quanto mai, incapace di grandi pensieri e
molto più della esecuzione, istruito alla superficie ed
ignorante al fondo" (v. Scritti inediti, Il mio terzo esilio), era un
modesto "libriere della Tavola", cioè contabile nel Banco di
Palermo; e, con le grosse perdite al gioco e il matrimonio,
avversato dalla famiglia, non aveva certo migliorato la sua
posizione. Verso il 1814 egli andò a vivere con la moglie per
proprio conto, lasciando l'A. in casa del nonno; ma con tinuò
a vederlo, e per suo tramite il ragazzo venne a contatto con
l'ambiente acceso dei democratici palermitani, antiaristocratici e
francofili, in odio alla co stituzione del 1812 e agli Inglesi suoi
sostenitori.
L'insegnamento elementare e poi quello
dell'università (equivalente, nei suoi primi anni, a una
scuola media superiore), benché impartito soprattutto da
ecclesiastici (dei quali taluno "rivoluzionario e ateo"), tra cui
primeggiava il fisico e storico Domenico Scinà, era
largamente ispirato al diffuso empirismo di derivazione inglese; e
il suo influsso, unito con quello del volterianesimo paterno,
avviò ben presto il giovane sulla strada di una totale
irreligiosità: "feci l'ultima comunione all'età di 12
anni. A tredici, studiando metafisica all'Università, io era
materialista dal capo alle piante: nelle dispute solenni impugnava
la spiritualità e l'immortalità dell'anima sì
fieramente, che il professore, il teatino Li Donni, cronico
[cioè costituzionale] in politica e fors'anche miscredente
per proprio conto, ma spiritualista nella cattedra, non trovando
altri argomenti, mi buttò addosso il suo cappello a tre
becchi" (v. Scritti inediti, Appunti autobiografici,p.6). Si
aggiungano poi, tra le esperienze mentali più vivamente
avvertite dal giovane nei suoi anni di scolaro, la teoria delle
facoltà dell'anima di A. L. C. Destutt de Tracy e il
liberismo di Adam Smith, "che mi persuase anche e
m'infiammò".
Nel febbraio 1820 "per amicizie" del padre l'A. veniva assunto come
alunno nel ministero dell'Interno. Nel mese successivo perdeva il
nonno avvocato, e con lui spariva la modesta agiatezza di cui il
giovane aveva fino allora goduto. Tornato nella povertà della
casa paterna assistette, fra il 15 il 17 luglio, all'insurrezione
palermitana per l'indipendenza e la costituzione. Il padre
Ferdinando, "che aveva il cuore di un pollastro" (Il mio terzo
esilio, cit.), dopo avere prudentemente atteso il trionfo della causa
insurrezionale, si diede "tutto alla rivoluzione e mormorava contro
i nobili della Giunta", schierandosi tra i fautori della
costituzione di Spagna e dell'indipendenza. Ma nel settembre
successivo le truppe napoletane rientravano nella città; e
l'impressione ne rimase vivissima nell'adolescente: "avrei voluto
mangiarmele e lacerarle coi denti. D'allora in poi il vago
sentimento imitativo e puerile divenne in me persuasione e
passione..." (ibid.).
Acceso democratismo e sicilianismo separatista si mescolavano
infatti con pari intensità nel ristretto ambiente di piccoli
borghesi socialmente spostati e istintivamente inclini
all'estremismo politico, a cui il padre Ferdinando apparteneva.
Restaurato il dominio borbonico, Ferdinando partecipò allora,
con Salvatore Meccio e altri, a una congiura carbonara volta contro
Napoli e l'occupazione austriaca, e ne divenne uno dei capi: ma
queste macchinazioni, che "i teneano con poche precauzioni anzi con
somma imprudenza, e vanità" (ibid.),vennero facilmente
scoperte, e Ferdinando fu arrestato. Tuttavia, benché
"condannato a morte con gli altri capi della congiura [il 29 genn.
1822], non fu fucilato, perché interrogato confessò
insieme con tre o quattro altri" (Appunti autobiografici,cit., p.
13): il 3 ott. 1822 la condanna gli fu commutata nell'ergastolo per
trent'anni nell'isola di Santo Stefano, donde nel maggio 1825 venne
trasferito a Napoli e, nell'ottobre 1829, a Palermo; il 5 luglio 1834
venne finalmente rilasciato (morì nel 1850). Certo, la
confessione e il contegno da lui tenuto dovettero contribuire non
poco a determinare il duro giudizio che l'A., ancora nella
vecchiaia, ne diede nei suoi ricordi.
Dopo l'arresto del padre il futuro storico si trovò a dover
mantenere, col suo modesto stipendio d'impiegato, la madre e quattro
fratelli. Difficoltà economiche e rancori familiari e
politici assorbirono allora interamente l'animo del giovane, che,
sognando guerra e insurrezione imminente contro Napoli, si educava,
a suo modo, alla guerriglia, e intanto mandava avanti l'impiego,
lasciati quasi interamente gli studi, se si toglie la lettura di
Voltaire e dei voltairiani, di Rousseau, Machiavelli, Dante,
Ariosto, Botta, Colletta, fatta per altro senza molta applicazione e
perseveranza. "Praticava de' cacciatori e de' rivoluzionari in
ritiro. Dimenticai quasi il latino. Dimenticai l'inglese che avea
cominciato ad apprendere" (Appunti autobiografici,cit., p. 15).
Così trascorsero "tre o quattro anni fino al 1827" (Il mio
terzo esilio,cit.).
Intorno ai vent'anni l'amore "innocente e infelice" per la giovane
Agatina Peranni (andata poi sposa a un inglese) lo spinse a
raggentilirsi, a riprendere gli studi, a frequentare un ambiente di
più moderato colore politico, a tendenza costituzionale e
autonomista. Dopo il 1830, per un istante, giunse finanche a
partecipare alle speranze suscitate nei liberali dall'avvento al
trono del nuovo re Ferdinando II (v. Scritti editi, Carteggio:
lettera del 26 ott. 1846, in A. D'Ancona, Carteggio di M. A.,I, p.
197). Furono, questi, gli anni decisivi per la formazione
intellettuale dello storico: "Walter Scott mi ricondusse agli studi
conie forse vi ha avviato migliaia di persone in Europa".
"Tradussi tant bien que mal il Love and Madness di Campbell. Lessi
Hume, Robertson e più tardi Gibbon e prima e poi Shakespeare,
Byron, Walter Scott e quasi tutti i poeti inglesi" (Il mio terzo
esilio,cit.). Di queste letture, importante fra tutte fu certo
quella dei grandi storici; e in genere non va sottovalutata
l'importanza di questo interesse per una letteratura intesa allora
in chiave nettamente "romantica", in un ambiente così
decisamente "classico" come quello isolano. In effetti, una
componente nuova veniva qui a inserirsi sul materialismo di stampo
razionalistico, a cui il giovane si era sentito finora
sentimentalmente e intellettualmente vicino. Nelle fantasie dello
Scott si coloriva di immagini quel sentimento e venerazione del
passato che nelle pagine di Hume e di Gibbon diventava
consapevolezza del valore e significato della storia, razionale
valutazione della forza della consuetudine e del costume. Non che
questo attenuasse menomamente il piglio antispiritualista e
anticattolico con cui l'A. guarderà sempre al passato: ma
arricchiva di più complessi motivi il secco razionalismo
della precedente generazione rivoluzionaria. E l'A. sentirà
vivamente il distacco: "la generazione passata - dirà in un
suo appunto, forse del 1846 (v. Bibl., O. Tommasini, La vita e le
opere di M. A.,p. 355n. 3) - era cruda; il popolo bestia; quei che
leggevano Voltaire o qualche Gazetta appresero pochi principii
generali magri, isolati, e ch'essi non sapevano applicare"; e
ciò riscontrava non solo nei democratici e giacobineggianti,
ma anche nei più moderati fautori della costituzione
siciliana del 1812, come un Paolo Balsamo, che a suo giudizio
riprendeva i "principi di Montesquieu e di Mably: insomma.., tutto
il crudo delle nuove dottrine del secolo passato: utopie non
moderate da alcuna saviezza. E quest'opera, che fu certo d'uno de'
gran saccenti dei tempi, mostra la misera condizione dell'istruzione
pubblica nostra" (v. Scritti inediti: Studii su la storia di Sicilia
dalla metà del XVIII secolo al 1820,I, aggiunta a p. 185).
Documenti di questa fase della vita intellettuale dell'A. sono le
traduzioni che allora egli pubblicò della Elegia sulle ruine
di Siracusa di Thomas Stewart (Palermo 1832) e del Marmion di Walter
Scott (Palermo 1832, voll. 2), l'Elogio inserito nei Componimenti in
morte di Francesco Peranni generale d'artiglieria (Palermo 1833) e
altri scritti e traduzioni rimasti poi inediti.
Quest'attività letteraria e le congiunte esperienze culturali
si innestavano per altro su un sentimento politico siciliano rimasto
fermissimo, anche se era venuto prendendo colori più
moderati, che fecero rimanere l'A. estraneo al tentativo
insurrezionale compiuto, nel 1831, dai congiurati condotti da
Domenico Di Marco. "Non è che non mi sentissi italiano -
scriverà assai più tardi -, ma la vita nazionale
italiana mi parea un bel sogno e nulla più. La via possibile
a libertà parea a me, come a moltissimi siciliani, la
rivoluzione contro i Borboni di Napoli e le menti e le armi delle
province napoletane che li sosteneano"(nota agli Studii su la storia
di Sicilia...,cit., del 9 genn.1888: edita in A. D'Ancona, Carteggio
di M. A.,cit., II, p. 371). Che questa coscienza culturale italiana
fosse una realtà ben viva già allora lo mostra la
partecipazione vivissima alla battaglia per la lingua, che vide l'A.
schierato dalla parte del più intransigente purismo, sino a
collaborare, con Gaetano Daita e Francesco Paolo Perez, alla
ristampa di un Elenco di alcune parole oggidì frequentemente
in uso le quali non sono nei vocabolarj italiani, colla
corrispondenza di quelle che vi sono ammesse (Palermo
1835),già uscito a Milano nel 1812.
Sul piano politico, però, l'animo dell'A. era ancora tutto
siciliano. Così, nella polemica che, specie dopo il 1835, si
accese sulla libertà del "cabotaggio" fra Napoli e Sicilia,
egli parteggiava risolutamente per i "sicilianisti" Ferdinando
Malvica e Vincenzo Mortillaro, contro i liberisti Francesco Ferrara,
Emerico Amari e Raffaele Busacca, sostenitori della libertà
di commercio col Mezzogiorno continentale e sordi alle richieste di
protezioni interne per lo sviluppo dell'industria regionale; e con
questo spirito accettò il suggerimento che amici
autorevolissimi come Domenico Scinà e Salvatore Vigo gli
diedero di replicare alla tesi, sostenuta qualche anno prima (1830)
da Giuseppe Del Re, che nel 1130 Ruggero II avesse preso il titolo
di re di Puglia di Calabria e di Sicilia, implicando con ciò
una originaria unione della Sicilia col Regno continentale. Le
Osservazioni di M. A. intorno una opinione del signor Del Re
uscirono a Palermo nel 1835,e con la precisa dimostrazione erudita e
la risoluta negazione che di rottura di un tutto originario in
seguito alla guerra del Vespro potesse parlarsi (e tanto meno dunque
di riunificazione sotto Alfonso I d'Aragona), documentarono insieme
la perizia dello scrittore di storia e l'intento politico e
ideologico del siciliano.
In tal modo l'A. vedeva aperta davanti a sé la via di quegli
studi che allora intraprese risolutamente. Già dopo il 1820
aveva raccolto gli atti della Giunta provvisoria, che in quell'anno
era stata alla testa della rivoluzione palermitana, vagheggiando una
storia di quelle vicende: e adesso, intorno all'aprile 1834, riprese
su più larghe linee l'antico disegno. Nel giro di due anni
compose una narrazione delle vicende siciliane dalla metà del
'700 al 1820, valendosi principalmente di memorie lasciate da uomini
dell'aristocrazia liberale del '12 che, anche manoscritte,
circolavano numerose a Palermo, e di testimonianze di autorevoli
superstiti.
Lo scritto, per gran parte redatto in forma provvisoria, è
piuttosto una prima stesura della grossa tela dei fatti principali:
ma la critica sagace delle diverse relazioni già mostra la
forza e l'acume del ricercatore, e in alcune impostazioni di
più ampio respiro si rivela fin d'ora il piglio vigoroso
dello storico. Così per esempio, studiando i nessi fra la
rivoluzione francese e gli avvenimenti siciliani, l'A. notava che
"se in Francia vi fu una rivoluzione contro i nobili e il Re, in
Sicilia ve ne furon due: una dei nobili contro il Re e l'altra dei
popolani contro i nobili che avean già il potere: la quale
momentaneamente fece respirare il Re ma non era per certo alla sua
sorgente diretta a favor di quello. La quale diversità si
può attribuire alla diversa antica costituzione,
perché in Francia nobili e Re facean due corpi legati
intimamente; ed in Sicilia il parlamento ch'era tutto aristocratico
era un'istituzione separata dal Re e dal popolo". Il che non toglie,
per altro, che il processo storico realizzatosi nei due paesi avesse
un fondo sostanzialmente comune, benché in Sicilia lo
sviluppo sociale seguisse "con qualche secolo di ritardo per la
mancanza del commercio e della istruzion pubblica" (Studii su la
storia di Sicilia...,cit., I, n. p.15).
Analizzando la condotta dei baroni alla vigilia del conflitto con la Corona, lo storico ne ricostruiva acutamente le varie e contrastanti motivazioni, osservando ch'essi "guardavano i favoriti napoletani con quel livore che ne' tempi feudali avea l'aristocrazia contro i favoriti; e tanto più erano offesi dalla Corte quanto più si credeano i soli nobili della nazione e quelli che la Corte avessero raccolto e difeso. Ma dall'altro canto il timore di perdere le proprietà e il grado che la rivoluzione di Francia aveva abbattuto sul continente assodavali nel proposito di difendersi quanto potessero dai francesi; nè meno li spaventava una sollevazione del popolo. Così restavano sospesi, sogguardando biechi la Corte e gli emigrati; e procurando di non far prorompere il popolo" (ibid.,I, pp. 75-76).
Il siciliano A. partecipava pienamente agli ideali d'indipendenza degli uomini del '12; e anch'egli condannava l'avventatezza di cui aveva dato tante prove l'opposizione democratica del 1813, e "i pazzi bollori di repubblica" in Francia (ibid.,p. 43); ma trovava alla condotta dei democratici siciliani una giustificazione che la storiografia aristocratica negava, perché, "pigliando il caso della aristocrazia, che di tutti gli umani privilegi è il più odioso, massime oggidì che la distanza tra le due classi è brevissima, che non vi è giurisdizione, e che i beni sono spartiti, pigliando questo caso io dico, dev'esser una gran rabbia, per chi segga in un'adunanza ristretta per riformar la costituzione o pensi nel suo paese intorno alla riforma, il vedere una classe di nobili che, senz'altro titolo che l'usanza né altra distinzione che l'ignoranza e il libertinaggio, voglian davvero ordinar lo stato a beneficio ed onor loro e vogliano passare da più che qualunque altro cittadino" (ibid.,I, n. p.15).
Con questi criteri
anche la versione della "spontanea" rinuncia dei baroni ai diritti
feudali gli pareva accettabile solo a titolo provvisorio, e "se non
mi riuscirà di scoprire come per la fondiaria del 1810 la
ragione interessata di questo" (ibid.,I, pp. 188 s.). Già
allora, per altro, l'A. sentiva l'insufficienza della vecchia
storiografia limitata alle vicende meramente politiche: e ilprofitto
ricavato dalle letture di Voltaire e degli storici inglesi si scorge
nel suo proposito di allargare il quadro alle istituzioni, alle
leggi civili, alle condizioni economiche, sulle quali raccolse ampi
materiali, elaborandoli anche in memorie particolari (ibid.,II).
Ma quanto più egli la guardava da vicino, tanto più
grandi gli apparivano le manchevolezze della fallita rivoluzione
costituzionale siciliana, la modesta statura dei capi, la fiacchezza
delle passioni politiche. Altro e più alto tema sembrò
all'A. necessario a raggiungere il fine di "gridare la rivoluzione
senza che il vietasse la censura". Gli sia o no venuto lo stimolo
diretto dal Giovanni da Procida del Niccolini, certo la memoria del
Vespro stava lì presente alla sua immaginazione con tutto il
peso che sempre aveva avuto nella mitologia dell'indipendentismo
siciliano: "Né altro soggetto più acconcio allo scopo
mio; cinque secoli e mezzo d'antichità da opporre alla
censura; una rivoluzione preparata (così credeva io allora),
terribile, vittoriosa, nella quale si erano dileguati gli odi
municipali che lacerarono la Sicilia innanzi il 1282 e tacquero
allora; ma poi s'erano scatenati di nuovo fin oltre il 1820.
La
coscienza e la vanità mi disse che il libro poteva giovare
alla cosa pubblica, e persuaso di ciò affrontai il pericolo
che pure vedea chiaramente" (v. Scritti editi, Opere: Pref. alla
4ediz. [Firenze 1851]de La Guerra del Vespro siciliano,I, p. XXVI).
Dapprima, però, i larghi elementi letterari della sua
formazione, e l'esempio di Manzoni, D'Azeglio, Guerrazzi, gli fecero
vagheggiare l'idea di un romanzo storico, che avrebbe avuto al suo
centro la figura di Giovanni da Procida: ma, provatosi, si accorse
"subito" che "la natura non lo aveva destinato alle opere di
immaginazione" (v. Scritti editi, Opere: Su la origine della
denominazione Vespro Siciliano. Conferenza al Circolo filologico di
Palermo il giorno 31 marzo 1882,p. 10).
Si è sostenuto (v. Bibl., G. La Mantia, I prodromi e i casi
di una penetrazione quasi clandestina della tragedia "Giovanni da
Procida'" di O. B. Niccolini in Sicilia nel 1831,pp. 235-286) che
all'idea del romanzo sul Procida egli rimase fedele fino al giugno
1841, e che solo allora, per sfuggire alle persecuzioni della
polizia contro i romanzi storici, adottò la forma della
narrazione storica, e tolse al Procida e alla sua congiura la parte
dominante che gli aveva attribuito finora. Ma già il breve
spazio di tempo - un anno appena - in cui sarebbe avvenuta non solo
la rielaborazione dell'intera opera ma anche la stampa, basta a
toglier credito a questa tesi, che trova ostacolo anche nella
documentazione epistolare degli anni della preparazione, dal 1835-36
in poi, nella quale si trova menzione di ampie ricerche, quali
appunto poteva richiederle una opera di storia e non certo un
romanzo (v. specialmente Scritti editi, Carteggio: C. Trasselli,
Lettere di M. A. ad A. Gallo,pp. 5 ss.); senza contare le esplicite
dichiarazioni in proposito dello stesso A., che solo fuggevolmente
accennò talora all'idea del romanzo, e non credette neppure
di doverne fare ricordo nei suoi scritti autobiografici.
Già nel 1837 gran parte dell'opera era redatta: ma allora la
interruppe l'epidemia di colera che, nella quasi intera dissoluzione
della pubblica autorità, gettò sull'A. la principale
responsabilità dell'amministrazione sanitaria in quei mesi
drammatici, fra l'incrociarsi di sospetti di veneficio, tumulti, e
miserie inenarrabili. In parecchie città, specie della
Sicilia orientale, scoppiarono disordini gravissimi: ma solo a
Catania assunsero carattere politico, e l'A., che aveva avuto parte
in pratiche cospirative allacciate dai liberali palermitani con i
patrioti di quella città, visse qualche giorno di vivissima
ansia: ma presto fu chiaro che il dovere primo era dovunque la
salvezza dell'ordine civile minacciato dalle masse percorse da
superstizioso terrore del colera; e a quest'opera l'A. si
dedicò con zelo e sprezzo del pericolo (queste vicende
narrò, fra il dicembre 1837 e il giugno 1838, in una inedita
Descrizione del colera in Sicilia,v. Scritti inediti).
Senonché, in luogo di ricevere l'atteso riconoscimento dei
servizi prestati, anch'egli fu colpito dalla nuova legge del 30 ott.
1837, con la quale il governo napoletano, sotto la spinta provocata
da quegli avvenimenti, inaugurava una politica di più
rigoroso accentramento, cominciando con le disposizioni sulla
"promiscuità", che autorizzavano il trasferimento di
impiegati siciliani nella parte continentale del Regno: in forza di
esse l'A. veniva inviato a Napoli con decreto del 9 marzo 1838, e
destinato il 9 luglio successivo al ministero di Grazia e Giustizia.
Durissima esperienza, questa, per l'uomo cresciuto nel culto
esclusivo della propria sicilianità: "la forza
dell'iniquità mi scerpava da Palermo mia.., da quanto di
più caro e di più sacro abbiasi al mondo, e frettoloso
e straziato mi apparecchiava a mutare in altro soggiorno il sorriso
della mia patria, la infelice fecondità della terra ove
nacqui, le tombe de' miei, le memorie delle glorie del paese, la
vivacità de' volti de' miei cittadini, il grato suono
dell'idioma" (lettera del 12 giugno 1838, in A. D'Ancona, Carteggio
di M. A.,cit., I, p. 29); sì da dichiarare più tardi
ch'egli preferiva piuttosto lasciare l'Italia che non essere "esule"
a Napoli, considerata, nonostante ogni esortazione anche di
autorevoli Siciliani, patria di nemici e oppressori.
Pure quel
soggiorno giovò alla preparazione dell'opera che l'A. aveva
intrapreso, consentendogli di mettere a profitto molti importanti
documenti conservati nell'Archivio di Napoli, e ritemprando anche
quella sorta di pessimismo eroico che doveva poi risplendere nelle
pagine del Vespro:"Vorrebbe - scriveva a un'amica -che oggi io
ascoltassi il precetto del presentar l'altra guancia dopo la prima
ceffata, piuttosto che sperare nel Dio delle battaglie, aiutatore
de' forti? Serbinsi i più miti dettami del Vangelo, serbinsi
a tempi migliori, ché or di Mosè n'è d'uopo e
de' Maccabei, e conviene studiare come a' tempi di Cromwell il
Vecchio Testamento.., e vuol ella che un uomo, e giovane, e
siciliano, vaneggi con la carità, il perdono, e lo sperar
senza oprare?" (lettera del 10 nov. 1839, ibid.,I, pp. 36 s.). E
all'"oprare" egli si dedicava fin d'allora, compilando, insieme col
marchese Giuseppe Ruffo, un Catechismo politico siciliano (che fu
per qualche tempo attribuito a Niccolò Palmieri, e che,
diffuso in Sicilia da Giovanni Raffaele, condusse poi all'arresto
dello stampatore Brisolese) nel quale, pur accettandosi l'idea di
una federazione italiana, si esprimevano i convincimenti del
più deciso separatismo antinapoletano.
Il ritorno in Sicilia gli venne finalmente concesso nel settembre
1840. Allora poté completare l'opera del Vespro,che ben
sapeva quanti rischi comportasse per l'autore, anche dopo che la
compiacente sonnolenza della censura palermitana ne aveva
autorizzato la pubblicazione, sia pure sotto il titolo anodino di Un
periodo delle istorie siciliane del secolo XIII (v. Scritti editi,
Opere). Il successo della prima edizione di mille copie, uscita il
31 maggio, e quasi interamente esaurita in una settimana (lettera
del 5giugno 1842, in A. D'Ancona, Carteggio di M. A.,cit., I, p.
45),fu immediato, superiore a ogni aspettativa: e non solo in
Sicilia, dove aiutava la "simpatia politica", ma nel giudizio
unanime che presto ne diedero gli uomini più eminenti
d'Italia, e non solo d'Italia.
La trattazione, prendendo le mosse dalle vicende del Regno dopo la
morte di Federico II, si allargava poi a particolareggiare la "mala
signoria" angioina, il crescere veemente del sentimento siciliano
contro l'oppressore, l'esplosione della rivolta popolare, la
fondazione della "Communitas Siciliae" e il suo mutarsi poi in
quella nuova monarchia che per quasi vent'anni sostenne una guerra
vittoriosa contro Roma e Angiò, in un intreccio di rapporti
di potenza che ebbe riflessi profondi sul sistema politico della
cristianità. Novità più grossa e appariscente,
la negazione della congiura di Giovanni da Procida, ridotta al rango
di tardiva leggenda, come veniva dimostrato col silenzio delle fonti
coeve e la tendenziosità delle posteriori, con il margine non
piccolo di tempo trascorso tra la rivolta palermitana e l'intervento
effettivo di Pietro d'Aragona, col carattere popolare e non
aristocratico del regime seguito inimediatamente all'insurrezione.
Argomenti, questi, più tardi largamente discussi e talora
revocati in dubbio, ma che inducono gli studiosi ad ammettere
tuttora che un largo margine d'incertezza circonda fatti fino all'A.
ammessi come provati, e a sottolineare che anche se la parte di
Giovanni da Procida fu più rilevante di quanto lo storico
siciliano non riconoscesse, tuttavia la scarsa connessione tra la
rivolta e l'intervento aragonese e la piena autonomia del regime
politico datosi dai Siciliani subito dopo il Vespro rimangono
risultati saldamente acquisiti: ciò che conserva alla tesi
dell'A. una larga misura di validità storica.
All'A. venne
più volte contestato di avere sminuito il ruolo della
congiura nobiliare di Giovanni da Procida in obbedienza a
pregiudiziali ideologiche di tipo democratico: ma, in realtà,
non v'è ragione di dubitare della replicata affermazione
dello storico che a quel risultato egli era invece pervenuto sulla
base di una spassionata analisi critica delle fonti. E, tuttavia, la
partecipazione dell'A. all'atmosfera culturale del suo tempo si
scorge con chiarezza nella visione che egli ebbe del Vespro,
prodotto dell'"indole del sicilian popolo... della quale ognun
può vedere i lineamenti nella generazione che vive. E forse
perché son nato in Sicilia e in Palermo, io ho potuto meglio
comprendere la sollevazione del 1282, sì com'essa nacque,
repentina, uniforme, irresistibile, desiderata ma non tramata,
decisa e fatta al girar d'uno sguardo" (Pref. alla " ediz. [Parigi
1843] de La Guerra del Vespro,cit., I, p. XXII).
Nel fondo agiva qui
una nuova idea del popolo e dell'iniziativa rivoluzionaria a
carattere popolare, che si rifaceva da un lato alle esperienze della
grande Rivoluzione, con la quale il "popolo" aveva fatto
storicamente il suo ingresso sulla scena politica; e dall'altro al
nuovo concetto e sentimento romantico della nazione e del popolo,
quasi personificato nella sua coscienza e volontà, con la
quale lo storico si sente legato da una comunanza spirituale
profonda: ed è soprattutto in questo accoglimento delle
fondamentali esperienze culturali e politiche che stanno alla base
della storia ottocentesca che l'A. si mostra autentico figlio del
suo tempo, e non tardo erede della cultura del secolo precedente,
come più volte si è ripetuto. Il Vespro "fu tumulto al
quale diè occasione l'insolenza de' dominatori, e diè
origine e forza la condizione sociale e politica d'un popolo
né avvezzo né disposto a sopportare una dominazione
tirannica e straniera"(ibid.,pp. XIX s.); e questo concetto di
un'unitaria coscienza siciliana vivifica tutta la narrazione, e
diventa strumento storiografico di fondamentale importanza per la
ricostruzione dell'animo dei protagonisti e del significato storico
della rivoluzione.
Il rinnovamento delle energie più profonde
dell'anima popolare nella grande rivolta è alla radice della
rinascita morale di tutta la nazione; perché "non v'ha parte
alcuna degli esercizii degli uomini, che non prenda vita dalle
bollenti passioni d'un mutamento politico". "E chi guardi i
siciliani in questo periodo, entro il medesimo anno ottantadue che
li aveva veduto imputridire nella non curanza della servitù,
li troverà franchi al combattere, pronti ed accorti al
deliberare, devoti alla patria, affratellati tra loro, pieni di
costanza, né spogli di generosità tra lo stesso
disuman costume de' tempi: e dopo breve tratto, li scorgerà
fatti provati guerrieri e marinai, pratichi negoziatori nelle
faccende di stato, fermi oppositori alla corte di Roma, e pur tenaci
nella religion del vangelo: e legislatori sorger tra loro.., e
nascer forti scrittori; e lo stile d'ogni dettato, vivace e biblico,
ritrarre il sollevamento dei pensieri..." (Un periodo delle istorie
siciliane...,cit., p. 283).
Alla rivolta del Vespro la Sicilia deve
"una gran tradizione, e uno statuto politico che molto ristrinse
l'autorità regia"; e in particolare alle forze popolari, che
in un primo tempo si organizzarono nella federazione dei municipi
siciliani, e ottennero poi un ampliamento delle loro franchigie
nello stato monarchico, che, se pure sminuite, dovevano durare fino
alla fraudolenta soppressione della secolare costituzione dell'isola
nel 1816. Lo storico non mancava di avvertire che la rivolta del
Vespro "per tristissimo compenso, aprì in Italia la strada
alla dominazione spagnuola" (Pref. alla 2 ediz., cit., de La Guerra
del Vespro,cit., I, p. XX); ma il soggetto ideale del racconto era
quella virtù di popolo che animò la rivoluzione e la
successiva guerra; e da questa impostazione - e non solo dalla forza
letteraria dello stile, che, specie nella prima edizione, appariva
allo stesso autore "disuguale, febbrile, spezzato, come la parola di
chi è tra i tormenti" (ibid.,p. XV) - l'opera trae la sua
irresistibile eloquenza. Il "viver di violenza in sedici anni avea
potentemente operato sull'indole niente morbida del sicilian popolo,
e tramutatene le sembianze. Di festevole si fe' tetro: increbbero i
conviti, i canti, le danze...; quel poetico brio degli animi a cupa
meditazione dié luogo, a tristezza, a vergogna, a
nimistà profonda, a brama ardentissima di vendetta. Feroci
passioni, che propagaronsi da chi soffria le ingiurie in sé,
a chi le vedea solo in altrui; dalli svegliati a' tardi;
dagl'iracondi ai miti; dagli animosi a' dappoco; e ogni età,
ogni sesso, ogni ordine d'uomini invasarono. La foga delle passioni
private, l'abbaco de' privati interessi, tacquero un istante, o
anch'essi drizzaronsi a quel fitto universal pensiero; più
possente di ogni macchina di congiura, perché spregia il
vegliar sospettoso de' governanti, e li soperchia a cento doppi di
forze" (Un periodo delle istorie siciliane...,cit., pp. 54s.).
E, tuttavia, la passione politica non condizionava interamente il
giudizio dello storico. Al di là del dramma degli oppressi si
profilava il più vasto e umano dramma della storia
universale, vista pessimisticamente quale corso governato da una
dura e fatale necessità, rotto solo di rado da grandi ed
eccezionali prove della contrapposta virtù degli uomini.
Oggetto, questa drammatica lotta di virtù e destino, quasi
unico che meriti la considerazione dello storico: ché, "del
rimanente, che portan gli annali de' popoli, se non disuguaglianze
di leggi, o inefficacia e avarizia, atroci guerre, paci bugiarde,
sedizioni, tirannidi, e sempre pochi che vogliono e fanno,
moltissimi che si lagnan solo, e immolato il ben comune da contraria
tendenza delle cupidigie private?" (ibid.,p.1).La tragedia del
Vespro trovava dunque una più larga e umana giustificazione:
perché "vasto è il volume" della terrena violenza e
crudeltà, "e tutte le nazioni scrisservi orribilità
della medesima stampa e peggiori... Ond'io non vergogno, no di mia
gente alla rimembranza del Vespro, ma la dura necessità
piango che avea spinto la Sicilia agli estremi; insanguinata coi
supplizî, consunta dalla fame, calpestata e ingiurata nelle
cose più care; e sì piango la natura di quest'uom
ragionante plasmato a somiglianza di Dio, che di ogni altrui comodo
ha sete ardentissima, che d'ogni altrui passione è tiranno,
pronto ai torti, rabido alla vendetta, sciolto in ciò d'ogni
freno quando trova alcuna sembianza di virtù che lo
scolpì"(ibid.,p. 58).
Ma ciò che colpiva il più dei lettori era l'immediato
richiamo al sentimento siciliano, l'appello, che prorompeva da ogni
pagina, alla rivolta: ed esso non tardò a essere rilevato dal
governo napoletano e personalmente dal marchese Del Carretto, che
giudicava l'opera "dannabile per ogni verso, come quella che
contiene massime antipolitiche ed erronee, oltraggiando spesso
spesso la Santa Sede, fomentando la discordia tra gli abitanti dei
domini di V. M., cercando di sciogliere i vincoli coi quali la M. V.
si occupa di stringere i suoi popoli in uno" (v. A. D'Ancona,
Carteggio di M. A.,cit., I, pp. 57 s.). A Palermo l'A. ebbe prima un
aspro colloquio col luogotenente generale dell'isola L. N. De Majo;
e successivamente venne sospeso dall'ufficio e invitato a Napoli a
giustificarsi. A queste misure, e ad altre più gravi che si
temevano, egli si sottrasse cercando scampo all'estero. Dopo un
primo tentativo nella notte tra il 25 e il 26 ott. 1842, fallito a
causa del maltempo, che costrinse al ritorno la tartana su cui si
era imbarcato, l'A. rimase per oltre quindici giorni nascosto in un
remoto granaio finché, il 14 novembre successivo, poté
ritentare la partenza, e stavolta con miglior fortuna, giungendo,
per Tolone e Marsiglia, a Parigi.
Qui la celebrità scientifica e politica già conseguita
gli aprì le porte degli ambienti culturali più elevati
della capitale, dove entrò via via in relazione col Dumas, il
Villemain, il Buchon, il Thiers, il Thierry, il Michelet, e prese
contatto col meglio dell'emigrazione italiana: sì che dopo un
periodo di iniziale disagio, in cui giunse a meditare il ritorno a
Palermo, qualora il governo gliene avesse rivolto l'invito (ibid.,I,
pp. 84 ss.; III, pp. 18 ss.), l'atmosfera di Parigi divenne alimento
indispensabile alla nuova vita sociale e intellettuale dello
storico.
Nel nuovo mondo più largo vennero precisandosi le
sue posizioni di fronte alle maggiori correnti di pensiero
storiografico del tempo, che del resto non gli erano rimaste ignote
a Napoli e a Palermo. La formazione letteraria classicheggiante e il
forte influsso dell'empirismo storiografico degli Inglesi lo
salvaguardavano per altro da eccessivi entusiasmi per le filosofie
della storia; e già poco dopo l'arrivo a Parigi giudicava
"illusorio e imperfetto" il corso di "ragione istorica" tenuto al
Collège de France dal Michelet (a cui peraltro si legò
più tardi di stretta amicizia), e condannava i "delirî
suoi sul sistema tedesco" (v. Scritti inediti: Diario del mio
esilio,dicembre 1842).
Queste idee egli ebbe modo di sviluppare
nella collaborazione che tra l'ottobre e il novembre 1844 intraprese
all'Archivio storico italiano del Vieusseux, fornendo, accanto ad
alcuni testi arabici che documentavano il nuovo indirizzo dei suoi
studi, anche importanti rassegne della letteratura storica
contemporanea. Non si può negare, egli osservava con
esplicito riferimento a Hegel e Guizot, che le "scuole storiche
d'oltremonti" "abbiano dato una spinta alla scienza. La storia di
Tito Livio, quella stessa del Machiavelli non basta più al
secol nostro, ma i sani intelletti italiani non consentiranno
giammai a far della storia un'arte da interpretar sogni" (v. Scritti
edili, Opere: Dei lavori di storia italiana,in Arch. stor. ital.,
Appendice I [1845], pp. 517 ss.). E aggiungeva che il metodo storico
moderno richiede una più precisa indagine "che abbracci tutte
le classi e tutti gli esercizi intellettuali e materiali degli
uomini, le condizioni economiche, i rapporti delle nazioni tra loro,
e tante particolarità che sembrano oziose a prima vista, e
pur danno nesso e colorito, cioè a dir verità, alla
rappresentazione"; riuscendo ormai insoddisfacente il vecchio
criterio di rifarsi, "direi quasi, all'alfa e all'omega, le cause
immediate e le somme generalità dell'umana natura" (v.
Scritti editi, Opere: Pref. a C. Botta, Storia della guerra
dell'Indipendenza degli Stati Uniti d'America,pp. II s.).
Ma soprattutto l'orizzonte intellettuale dello storico doveva
conoscere un radicale allargamento con lo studio che adesso l'A.
intraprese dell'arabo, nell'intento di meglio precisare le linee
incerte e assai confuse della storia siciliana nell'età
precedente alla conquista normanna. Di tali studi sarà detto
più particolarmente qui appresso: ma va ricordato fin d'ora
che negli studi arabi come in quelli di storia del Medioevo l'A.
portava la medesima ispirazione che già lo aveva fatto
rivolgere al Vespro, e che neanche in quel "mare della lingua ed
erudizione arabica" l'interesse erudito andò mai diviso per
lui da un più largo mondo di pensiero. In effetti progresso
negli studi e nell'erudizione, anche negli aspetti più
tecnici, significò sempre per l'A., quanto meno, una forma di
contributo all'incremento della civiltà moderna e al trionfo
della ragione contro il pregiudizio clericale, e anche
all'innalzamento dell'Italia fra le nazioni civili del mondo
contemporaneo.
Che ormai l'Italia veniva prendendo sempre più il posto
dominante fin qui occupato dalla Sicilia. Non che tra i due termini,
per l'A., ci fosse mai stato constrasto: e già nella Guerra
del Vespro lunghe pagine egli aveva dedicato al formarsi del comune
sentimento di "nazione latina".Ma l'ideale italiano, fin qui creduto
privo di attualità politica, viene ora assumendo forma
più concreta: l'A. entra in contatto col Mazzini, "non
ostante che non cammini per la stessa via", allarga le sue relazioni
ad altre regioni, viene prospettando una impostazione politica del
problema siciliano che si inserisce nel quadro di un generale
rivolgimento nella penisola. A questa evoluzione, che nello stesso
periodo veniva realizzandosi anche nei settori più avanzati
del liberalismo siciliano, l'A. diede un contributo fondamentale con
la Introduzione all'edizione da lui curata dell'ancora inedito
Saggio storico e politico sulla Costituzione del Regno di Sicilia di
Niccolò Palmieri (Losanna 1847), per "dare un'altra spinta al
movimento, che deve ormai avvicinare la Sicilia all'Italia, a
profitto di tutta la nostra nazione italiana" (lettera del 7 ag.
1846, in A. D'Ancona, Carteggio di M. A.,cit., I, p. 194).
Nella Introduzione, ilcui significato politico e la cui efficacia
finirono presto per soverchiare quelli del pur notevole scritto del
Palmieri, la questione siciliana era mostrata inseparabile dal moto
italiano, e portata "dinanzi quel... Parlamento, senza tetto
sì, senza nome, senza statuti, che dalle Alpi alla punta del
Lilibeo comincia ormai a deliberar sulle proprie faccende"
(Introduzione,cit., p. VIII). L'inserimento dell'isola nella
federazione italiana era indicato come interesse comune italiano,
perché essa era elemento di debolezza e non di forza nel
Regno di Napoli: benché si ammettesse la possibilità
di un'unione con Napoli "in istretta federazione, anche sotto un sol
principe",come la Svezia e la Norvegia (ibid.,p. XLIX). L'A.
esortava per altro i Siciliani a far valere le loro ragioni "senza
cospirazioni, senza sette... in tutti i modi non proibiti
espressamente dal codice penale" (ibid.,p.LVII); partecipando
così anch'egli all'indirizzo moderato dell'agitazione
patriottica di quegli anni, benché guardasse con molto
scetticismo alle speranze che gli ambienti liberali riponevano
allora nel papato, verso il quale egli si rifiutava di smettere
l'antica e radicata diffidenza (lettera del 26 ott. 1846, in A.
D'Ancona, Carteggio di M. A.,cit., I, p. 197).
Intorno alla fine del 1845 cercò anche di ottenere una
cattedra di arabo a Pisa, che gli consentisse di tornare in patria:
ma le pratiche iniziate con amici toscani non ebbero effetto.
Quando poi i Palermitani con l'insurrezione del 12 genn. 1848
aggiunsero all'agitazione della stampa e dell'opinione l'"argomento
delle fucilate", l'A. salutò con entusiasmo l'avvenimento,
parendogli quasi di veder rinnovata in quel giorno la gesta del
Vespro (Pref. alla 4 ediz. de La Guerra del Vespro,cit., I, p.
XXVIII).
Dopo aver frettolosamente redatto e pubblicato Quelques observations
sur le droit public de la Sicile (Paris s.d. [ma 9 febbr. 1848]), in
cui ribadiva il diritto storico dell'isola alla costituzione e a
fissare i termini della sua unione con Napoli, partiva per Palermo,
dove giungeva il 3 marzo, acquistando subito, col prestigio che
circondava l'autore del Vespro e con le sue relazioni con i maggiori
esponenti della rivoluzione, una posizione politica di primo piano.
Alla vigilia dell'arrivo, il 2 marzo, era stato nominato alla
cattedra di diritto pubblico siciliano dell'università di
Palermo, rimasta scoperta dal tempo di Rosario Gregorio; il 3
diventava membro del Comitato di guerra e marina, e l'8 ne assumeva
la vicepresidenza. Nelle elezioni del 16 marzo riusciva deputato di
Palermo con larghissimo suffragio, di appena due voti inferiore a
quello ottenuto da Ruggero Settimo; e successivamente, il 27 marzo,
accettava, dietro le vive insistenze dell'amicissimo Mariano
Stabile, la carica di ministro delle Finanze. Ufficio, questo, che
"più mi costava quanto meno me ne intendeva" (Il mio terzo
esilio,cit.), e accettato con consapevole sacrificio in una
situazione in cui le difficoltà erano enormi, concorrendovi
il disordine amministrativo dilagante, la riluttanza del governo
provvisorio a servirsi di mezzi coattivi, la fiducia eccessiva che
lo Stabile riponeva nell'aiuto anglo-francese, non meno pericolosa
sul piano finanziario che su quello diplomatico e militare.
Fu per
l'A. una assai dura esperienza, nella quale egli stesso temette che
il ministro avesse sciupato parte della universale popolarità
conquistata dallo storico, senza riuscire peraltro a realizzare
nessun provvedimento atto a sanare la rovinosa situazione
finanziaria del governo rivoluzionario (ibid.).Caduto poi il governo
Stabile (13 ag. 1848), il nuovo ministro degli Esteri V. Fardella di
Torrearsa inviò l'A. a Parigi e a Londra (31 agosto) per
caldeggiare, da parte delle potenze occidentali, il riconoscimento
del governo siciliano e l'appoggio alla elezione del duca di Genova,
o di altro principe, a re di Sicilia. Missione che l'A., insieme con
F. Maccagnone principe di Granatelli e Luigi Scalia, adempì
con abilità ed energia, ma che urtava contro ostacoli
insuperabili, dopo che la caduta di Messina, ai primi di settembre,
aveva mostrato l'estrema debolezza del governo rivoluzionario.
Tuttavia, l'A. perseverò nei suoi sforzi, appoggiandoli anche
con nuovi opuscoli e articoli su giornali francesi e inglesi, e
adoperandosi nel tempo stesso per l'acquisto di armi e di naviglio
da inviare alle forze siciliane; e quando, nell'aprile 1849, la
ripresa dell'offensiva napoletana apparve imminente, egli accorse di
nuovo nell'isola, sperando di partecipare alla lotta. Ma, battuto
l'esercito siciliano a Catania, e avvicinandosi il nemico alla
capitale, prevaleva ormai anche a Palermo la volontà di
cessare la lotta. L'A. e gli altri sostenitori della resistenza fino
all'ultimo si scontrarono con i benpensanti e reazionari mascherati
che, con l'appoggio della Guardia nazionale, erano risoluti a
imporre la resa: ma in quei giorni decisivi non ebbero animo di far
appello allo spirito combattivo ancor desto del popolo palermitano,
temendo i rischi di una guerra civile. "Il popolo - spiegherà
poi l'A. - ci avrebbe seguito; ma chi potea rispondere della
moderazione di un popolo, che avesse gustato le prime gocce del
sangue civile...? La parte di capo di una moltitudine, alla quale non
so quanti brutti nomi non si sarebbero dati, mi fé paura
quand'io non vedea la probabilità di un esito felice"
(lettera del 6 ag. 1849, in A. D'Ancona, Carteggio di M. A., cit., I,
p. 582;e cfr. anche Il mio terzo esilio,cit., al 30 giugno 1849).
Si
decise così a ripartire, il 24 aprile; e, dopo l'avventuroso
naufragio del vapore francese "Rhamsès" su cui era imbarcato,
tornò a Parigi. Terribile fu però il suo dolore quando
apprese che il 29 aprile il popolo palermitano aveva ripreso le armi
senza capi, in un ultimo tentativo di resistenza: temette d'essere
stato, sia pure senza colpa, "disertore": parola che "mi suona come
la tromba del giudizio agli orecchi d'un credente" (lettera del 14
maggio 1849, in A. D'Ancona, Carteggio di M. A.,cit., I, p. 571; Il
mio terzo esilio,cit., al 30 giugno 1849). Veniva qui alla luce la
contraddizione profonda e, in certo modo, permanente, di tutta la
visione politica dell'A.: legato per molti fili alla ideologia
democratica e rivoluzionaria, e idoleggiante il popolo e le masse da
un lato; e dall'altro, coscienza civile troppo elevata per indulgere
a quelle forme di rozzo estremismo, che, tuttavia, erano le sole che
potessero ottenere il controllo politico delle masse popolari;
specie laddove, come in Sicilia, l'arretratezza di quelle masse
minacciava a ogni tratto di far degenerare l'azione popolare in
anarchia sovvertitrice, priva di qualunque finalità politica.
Tuttavia, la dura esperienza quarantottesca, e il monito ideale
lanciato dagli ultimi difensori della democrazia a Roma e Venezia,
contribuirono a far schierare l'A. tra i molti che, considerando
imminente la ripresa dell'ondata rivoluzionaria in Europa, erano
persuasi che ormai essa si sarebbe svolta senza più
compromessi col passato, del tipo di quelli tentati con gli
esperimenti costituzionali, su una linea chiaramente democratica e
repubblicana, che per l'Italia significava anche unitarismo
democratico al di là dei particolarismi regionali, e
anzitutto di quello siciliano. Insegnamento fondamentale del '48
sembrava all'A. che "le province italiane non potranno mai
conquistare la libertà se non si uniranno le forze morali e
materiali di tutta la nazione.
Non meno evidente mi sembra l'altra
verità, che dopo il 1848 in Europa non si tratti più
di accordi tra la libertà e l'autorità, o, in
linguaggio più esatto, tra la libertà e la forza che
sostiene l'autorità, spogliata oramai d'ogni prestigio. L'una
dee vincere l'altra, e bandirla dalla civiltà europea:
battaglia d'esito non incerto tra due campioni, l'uno immortale, e
l'altro decrepito sì, che perde forza ogni dì, anche
vincendo. Posti così fatti principii, cade al tutto il
congegno della monarchia costituzionale siciliana; primo
perché sarebbe monarchia, e secondo perché sarebbe
siciliana" (Pref. alla 4 ediz. de La Guerra del Vespro,cit., pp.
XXVIII s.). Furono, questi, anche gli anni della nuova e più
intensa collaborazione dell'A. col Mazzini, alla cui opera di
propaganda lo storico contribuì redigendo vari scritti, in
parte destinati a circolare clandestinamente, e stampati e diffusi a
cura dell'organizzazione mazziniana.
Sopraggiunse, invece, il colpo di stato del 2 dicembre: e l'A. a
Parigi ne seguì la vicenda con drammatica ansietà (Il
mio terzo esilio,cit., 6 dic. 1851-16 genn. 1852); ma neanche allora
gli parve di dover disperare della causa liberale: "bisogna
continuare la guerra ai preti, la guerra al dispotismo, la
propaganda repubblicana, la istruzione pubblica e aspettare gli
eventi" (ibid.).Ma gli eventi portarono la graduale ascesa del
Piemonte costituzionale, il dilagare dell'impotente settarismo
democratico (lettere del 18 giugno 1852 e 11 ott. 1853,in A.
D'Ancona, Carteggio di M. A.,cit., II, pp. 19 s., 23 s.),
l'iniziativa nazionale del Cavour in Oriente. Ancora nel 1856,
tuttavia, l'A. riluttava alla conversione alla monarchia piemontese
(cfr. la lettera del La Farina a lui diretta, 13 maggio 1856,
ibid.,II, pp. 41 s.) ma troppo radicato era in lui il senso delle
realtà politiche perché alla lunga l'utopismo
dottrinario non dovesse cedere alla nuova piega che gli eventi
italiani prendevano sotto la guida del Cavour.
Senonché, questi anni furono quelli soprattutto in cui
l'opera dell'arabista e orientalista, attraverso un lavoro tenace
che risaliva al 1843, cominciava a dare i suoi frutti maggiori.
Già a partire dal 1845 il nome dell'A. aveva cominciato a
prender posto nel mondo dell'orientalistica, con le traduzioni e
commenti di testi arabi che era venuto pubblicando, e con altri
scritti e memorie particolari; mentre nel 1851 la sua competenza
ebbe riconoscimento e agio di ampliarsi e approfondirsi con il nuovo
ufficio che gli venne affidato di conservatore dei manoscritti arabi
della Biblioteca imperiale [nazionale] di Parigi, incaricato di
redigerne il catalogo. Ricordando più tardi la sua decisione
di volgersi a questo settore di studi, l'A. si chiederà se
"la stessa quantità di forze impiegate in altro studio
qualunque avrebbe giovato più al paese e a se stesso"
(Appunti autobiografici,cit., p. 25): ma la risposta inequivocabile
era già stata data dalle grandi opere che comparvero appunto
in questi anni: nel 1857 la Biblioteca arabo-sicula (v. Scritti
editi, Edizioni e traduzioni) e soprattutto, tra il 1854 e il 1872
la grande Storia dei Musulmani di Sicilia (v. Scritti editi, Opere),
vagheggiata ancora prima della fuga da Palermo, intrapresa subito
dopo l'arrivo a Parigi con i primi studi di arabo, proseguita con
tenacia ammirabile per trent'anni, e rielaborata e arricchita, in
vista della seconda edizione, fino alla vigilia della morte.
Assai più largo ambito, quello di questa opera, rispetto alla
limitata vicenda del Vespro.Non solo i due secoli e mezzo di dominio
arabo nell'isola cadevano sotto la considerazione dello storico, ma
l'intero processo attraverso cui l'Islam si era tra-piantato dai
deserti d'Arabia e dall'Africa del nord alle sponde di Sicilia; e
poi la partecipazione musulmana al grande scontro delle
civiltà arabo-bizantina e romano-germanica nel mondo
mediterraneo; la sopravvivenza della cultura araba e il suo operare
nella vita del Regno normanno-svevo, fino al forzato trasferimento
dei Saraceni di Sicilia a Lucera; la indiretta partecipazione di
quella cultura, attraverso la personalità di Federico II, al
primo grande conflitto tra mondo moderno e teocrazia papale. L'opera
ha dunque, nella ricostruzione del Medioevo mediterraneo, un peso
assai maggiore di quel che non abbia la modesta storia dell'arabismo
siciliano, in sé poco più che appendice culturale
della Spagna musulmana (v. Bibl., F. Gabrieli, Arabi di Sicilia e
arabi di Spagna,in Dal mondo dell'Islàm,pp. 92 s.).
Per questa nuova impresa lo storico era armato di nuove e assai
più perfette armi di erudizione e di critica, nei domini
dell'orientalistica e bizantinistica, archeologia, filologia,
numismatica, ecc., di vastità e varietà pari alla
grandiosità del compito. Ma le idee e i criteri ispiratori
erano pur sempre quelli dell'autore del Vespro.Ancora qualche anno
avanti l'uscita del primo volume dei Musulmani,sotto l'impressione
del colpo di stato di Luigi Napoleone, la riflessione dell'A.
tornava al fatalismo e pessimismo storico di sempre, davanti allo
spettacolo dei "molti calpestati e spogliati dai pochi, e quel che
è peggio la ragione oppressa dalla forza... fatto tanto
costante nella società quanto lo è la circolazione del
sangue nel corpo umano!" (Il mio terzo esilio,cit.).
E anche adesso,
nella secolare vicenda dei Musulmani, troppo sovente la storia
dovrà registrare la spinta dell'"interesse proprio, sotto la
solita specie di ben pubblico, morale, giustizia, religione" (v.
Scritti editi, Opere: Storia dei Musulmani di Sicilia,2 ediz., III,
p. 43). "I destini dell'umanità corrono per uno sviluppo
necessario e successivo come i fiumi dai monti al mare ";e se "gli
episodi che spesso durano intere generazioni dipendono dal caso
delle circostanze accessorie", lo storico è persuaso tuttavia
che anche gli accadimenti che appaiono casuali hanno un loro posto
nella ferrea catena di un determinismo storico a base
materialistica. In effetti, ciò che chiamiamo "caso"
abbraccia "le conseguenze delle quali non sappiamo trovare le
cagioni, e queste non appartengono all'ordine morale" (Il mio terzo
esilio,cit.). Davanti ai grandi fatti storici, siano essi collettivi
come l'origine dell'islamismo, o individuali come la
personalità di Federico II, lo storico preciserà
circostanze e occasioni, ma confesserà che, nella sostanza,
"la storia.., non può trovar cagioni che appieno le
soddisfacciano, e se ne sbriga con parole: ora il moderno gergo di
avvenimenti provvidenziali, e uomini provvidenziali, or la metafora
della vita umana applicata bene o male allo sviluppo dei popoli"
(ibid.,I, p. 143; e cfr. III, pp. 632 s.).
L'innato senso storico
suggeriva qui all'A. il rigetto delle ambigue soluzioni proposte da
un lato dalle idealistiche filosofie della storia, e dall'altro
dall'organicismo storiografico: ma per sostituirvi non già la
razionale coscienza della libera creatività della storia, ma
piuttosto il duro agnosticismo materialistico di cui si diceva.
Certo, il pessimismo storico peserà negativamente sull'opera
dell'A., che in più luoghi prenderà il tono della
recriminazione e condanna moralistica, davanti alla violenza del
dominio romano, alla corruzione bizantina, alla stessa Chiesa
dell'alto Medioevo: mondi questi e valori che le convinzioni
liberali e anticlericali dello storico respingevano e condannavano,
senza che la sua dottrina della storia gli fornisse strumenti
adeguati per superare, nel ripensamento, le posizioni ideologiche e
di parte.
Ciò non vuol dire che per la Storia dei Musulmani si possa
parlare senz'altro, come pure autorevolmente si è fatto (v.
Bibl., G. Falco, A proposito della nuova edizione della "Storia dei
Musulmani di Sicilia" di M. Amari),di invecchiata storiografia
illuministica, incapace di tenere il passo con il pensiero
dell'Ottocento storicista. Già nei suoi criteri ispiratori
questo giudizio va soggetto a una radicale revisione, come tutto
ciò che si riporta a una troppo schematica contrapposizione
fra illuminismo e senso della storia; e, in particolare, del
presunto illuminismo dell'A. va esaminato il reale contenuto, e la
funzione che assolve nell'indagine storica. Del fatto religioso lo
storico siciliano certamente non avvertì uno specifico e
autonomo valore, indipendente dalla sua efficacia sulla restante
vita morale: ché anzi, proprio nel rafforzamento del "legame
morale" vide il "massimo scopo della religione come pensavano i
nostri padri latini" (v. Scritti editi, Opere: Storia dei Musulmani
di Sicilia,2 ediz., I, p. 663).
Ma questa efficacia sociale della religione intuì con
straordinario vigore e sensibilità, riuscendo grazie ad essa
a cogliere e a rivivere momenti fondamentali del Medioevo, come per
es. il rinnovamento della società araba dovuto all'islamismo,
in cui si esprime il rinnovato vigore dell'anima nazionale,
anticipato dalla grande poesia dell'età "barbara ed eroica",
e dai più attivi commerci e contatti con culture più
avanzate. E non solo dell'islamismo, che era un vecchio mito
polemico della storiografia irreligiosa dell'illuminismo, l'A.
storico dell'alto Medioevo ci ha lasciato un quadro altamente
positivo: ma anche di momenti capitali della storia della Chiesa,
come l'epoca di san Gregorio Magno, e l'"mpulso di civiltà"
dato dal grande papa alla vita siciliana, i cui effetti durarono
nell'isola per un secolo e mezzo (ibid.,I, p. 133). Certo, lo
storico siciliano non fu mai tenero per il "triregno, fabbricato di
teocrazia giudaica, dispotismo romano, e barbarie settentrionale"
(ibid.,III, p. 633): ma accanto all'avidità di beni temporali
e allo zelo dei fanatici seppe scorgere anche l'elevatezza morale e
l'importanza storica dei Pietro l'Eremita e dei Savonarola (ibid.,I,
p. 664).
Indubbiamente, la visione storica dell'A. è rigorosamente
laica e umana, e ha al suo centro non "polizze su l'altro mondo" ma
"la moneta sonante delle virtù umane" (ibid.,I, p. 265),che
sono tutt'insieme virtù civili e morali, forze davvero
creatrici della grande storia. Ma appunto questo concetto gli
permise di superare in molti casi le strettoie del gretto moralismo
democratico, e di cogliere invece la positività dell'opera
politica dei grandi despoti costruttori di stato. In fondo, l'A.
guardava sempre all'azione di "due motivi d'indole diversa; la
coscienza, cioè, e l'interesse: i quali.., s'aiutarono
scambievolmente, sì come par che avvenga ad ogni novello
passo della civiltà" (ibid.,I, p. 325); e nella ricerca di
questo legame la sua storiografia raggiungerà i livelli
più alti.
Da esso traggono vigore le grandi pagine
sull'espansione araba, alla quale diedero "alimento a volta a volta
il sentimento religioso, quel dell'eguaglianza sociale e quel della
nazione, poi tutti e tre uniti insieme" (ibid.,I, p. 159); e per
questa via si giunge dalla primitiva virtù politica dei
condottieri normanni allo splendore civile della Palermo di Ruggero
II. Nei principî della loro fortuna, infatti, i "Normanni
d'Italia, in lor vita da masnadieri mostrarono splendidamente le
virtù che fondano gli stati" (ibid.,III, p. 56);e in forza di
queste virtù riuscirono a convertire quella
molteplicità di schiatte, di culture e di religioni che
avevano tratto a rovina il dominio arabo in Sicilia, "quando i
corpuscoli sociali non stavano insieme per amor di patria né
forza di comando ma ciascun faceva per sé" (ibid.,II, p.
613), in elementi di forza della nuova monarchia, che seppe
sottoporre quelle sparse molecole alla potenza ordinatrice di uno
stato forte nella pace e nella guerra, e insieme tollerante delle
differenze di religione e di stirpe. In tal modo la nascente nazione
italiana, assorbiti gli scarsi Normanni ed ereditati i frutti della
loro capacità politica, poté mandare ad effetto
"l'opera cominciata dagli Arabi quattrocento anni avanti: la Sicilia
tornata a potenza e splendore primeggiò per tutto il
duodecimo secolo tra le provincie italiane; s'insignorì delle
parti meridionali della Penisola; occupò temporaneamente
qualche città dell'Affrica propria e sparse in terraferma
molti semi di quel mirabile incivilimento della comune patria nostra
il quale entro pochi secoli dileguava in Europa le tenebre del medio
evo" (ibid.,I, p. 107).
In tal modo, il sentimento nazionale dell'uomo del Risorgimento
veniva a sostegno della visione storica dello studioso. Intanto, le
crescenti fortune della politica cavouriana riaprivano all'esule le
porte della patria. Già il 4 maggio 1859egli veniva chiamato
dal governo provvisorio toscano a insegnare lingua e storia araba
all'università di Pisa, e, il 20 dicembre successivo,
all'Istituto di studi superiori di Firenze, dove nel gennaio 1860
iniziava le sue lezioni. Ma dopo il moto della Gancia a Palermo (4
apr. 186o) l'A. entrava a far parte, come segretario e cassiere, di
un comitato di soccorso alla rivoluzione siciliana formatosi a
Firenze; e successivamente, sbarcato Garibaldi a Marsala, tornava
nell'isola. Fermissimo nel suo unitarismo, nel giugno egli
sconsigliava al Cavour la convocazione del parlamento siciliano
secondo la costituzione del 1812; e divenuto ministro
dell'Istruzione e dei Lavori Pubblici (e poi, ad interim, degli
Esteri) con Garibaldi (10 luglio), collaborò con il governo
dittatoriale fino allo sbarco dei volontari in Calabria; ma chiese
allora l'annessione immediata al Piemonte per plebiscito,
dimettendosi con tutto il ministero davanti al rifiuto di Garibaldi
(14 settembre). Ai programmi democratici miranti all'immediata
conquista di Roma e Venezia, l'A. preferì insomma la
più prudente politica del Cavour.
Se però era
anch'egli contrario alla convocazione di un'assemblea nella quale
mazziniani e autonomisti avrebbero avuto troppo libero campo, era
tuttavia persuaso che all'Italia convenisse un sistema di largo
decentramento nell'amministrazione; e a tal fine propose la riunione
di quel Consiglio straordinario di stato che venne convocato a
Palermo con decreto del 19 ottobre, e che nel suo rapporto (redatto
dall'A. nella prima parte: lettera del 2 ag. 1861, in A. D'Ancona,
Carteggio di M. A.,cit., II, p. 154)consacrò le aspirazioni
della parte migliore del moderatismo siciliano in fatto di
autonomie: aspirazioni destinate, per altro, a restare
insoddisfatte, davanti all'urgere dei problemi che spingevano il
nuovo stato verso un rigido accentramento.
L'A. restò, tuttavia, persuaso del dovere, "nelle circostanze
attuali, di sostenere l'abile e audace politica che ci ha condotti
fin qui" (lettera del 19 dic. 1860, ibid.,II, p. 144).
Accettò dunque la nomina a senatore del Regno (20 genn.
1861); e anche nell'alta assemblea si mostrò zelante
soprattutto a "contraddire certi umori clericali" (lettera del 10
genn. 1862, ibid.,III, p. 231). Il 7 dic. 1862 entrò come
ministro dell'Istruzione nel gabinetto presieduto prima dal Farini e
poi dal Minghetti, in un momento difficile della vita scolastica
italiana, fra l'irritazione e le resistenze suscitate, specie nel
settore universitario, dalla politica di rigido accentramento del
precedente ministro, Carlo Matteucci: sì che l'opera dell'A.
dovette per gran parte limitarsi a cercar di placare quelle
reazioni, abrogando talune disposizioni più controverse del
regolamento universitario del 14 sett. 1862, e procurando di mandare
avanti l'amministrazione senza troppe scosse. Il vivo malcontento
dell'opinione pubblica in questa materia portò alla nomina,
da parte della Camera, di una giunta d'inchiesta (marzo 1863), che
per altro non arrivò mai a concludere i propri lavori (v.
Bibl.: G. Talamo, La Scuola dalla legge Casati alla inchiesta del
1864,p. 58).
Caduto il ministero (23 sett. 1864) in seguito alla Convenzione di
Settembre, dall'A. sostenuta senza riserve (lettere del 6 ott 1864 e
22 maggio 1865, in A. D'Ancona, Carteggio di M. A.,cit., III, pp.
254-56),egli tornò a dedicarsi interamente agli studi e
all'insegnamento fiorentino (ripreso il 5 ott. 1864), anche dopo
aver ottenuto il collocamento a riposo (1866). Il 29 ott. 1865 si
era sposato con Louise Boucher, e nel 1873 si trasferì con la
famiglia da Firenze a Roma; di lì passato a Pisa,
ritornò poi con i suoi nella capitale nell'ottobre 1888.
La sua attività scientifica non ebbe sosta, specie nel campo
degli studi orientali, che venne arricchendo di sempre nuovi
contributi, mentre portava a termine i Musulmani,e veniva curando e
ampliando le sempre nuove edizioni del Vespro,allo scopo di
aggiornare l'opera con le nuove scoperte di fonti, e di riconfermare
la propria tesi sulla inesistenza della congiura del Procida. La
fama del dotto era ormai affermata nel mondo della cultura europea:
e di essa ebbe riconoscimento anche nella copia di onori che gli
vennero da società scientifiche italiane, francesi, inglesi,
tedesche, austriache, russe, danesi, ecc., e da numerose
università, tra le quali quelle di Leida, di Tubinga e di
Strasburgo gli conferirono il dottorato honoris causa
(rispettivamente nel 1876, 1877, 1886). Quando a Palermo nel 1882 si
volle celebrare solennemente il centenario del Vespro, l'A. fu al
centro di quelle commemorazioni, circondato dall'affetto
riconoscente dei suoi conterranei; e allora, a richiesta del
municipio della città, egli stese quel Racconto popolare del
Vespro siciliano (Roma 1882), che rivela immutato l'antico fervore
nell'animo del vecchio studioso.
Accanto all'attività scientifica l'A. continuò ad
esercitare numerosi ed alti uffici pubblici, quale membro, oltre che
del Senato, del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione, del
Consiglio superiore degli Archivi, dell'Istituto storico italiano, e
di varie commissioni: sempre portando nel suo operato il rigido
sentimento di giustizia, il calore di convinzioni, la rettitudine e
lealtà di principî che erigono così alto la sua
figura morale tra quella élite intellettuale e politica che
fece il Risorgimento. Negli ultimi anni si diede a preparare la
seconda edizione dei suoi Musulmani (che doveva essere completata,
utilizzando il lavoro da lui lasciato, solo quarant'anni dopo la
morte), attendendo, in piena serenità dello spirito e
lucidità di mente, che la fine, non temuta, giungesse: ed
essa lo raggiunse il 16 luglio 1889, dopo una mattina di lavoro alla
Biblioteca nazionale di Firenze, mentre si recava a un'adunanza per
il monumento all'amicissimo suo e partecipe delle vecchie
idealità risorgimentali Atto Vannucci. Un mese prima, aveva
inviato a una pubblica riunione un messaggio che riassume, nei suoi
echi giacobini e nella ferma moderazione dei principî,
l'ideale non retorico ma vivo e vero, che aveva animato tutta
l'esistenza dello storico e del patriota: augurando "all'Italia,
libera, una, indivisibile, che cresca di territorio, di forza, di
prosperità, e non perda mai il giudizio" (11 giugno 1889, in
A. D'Ancona, Carteggio di M. A.,cit., II, p. 311).
L'A. cominciò a studiare l'arabo a Parigi nel 1843, quando
già si avvicinava ai quarant'anni: e per l'innato ingegno, e
il valore dei suoi maestri, il Reinaud, per es., si mise rapidamente
in grado d'intendere anche non facili testi storici e geografici, di
studiare e pubblicare manoscritti. Scopo preciso del suo studio fu
sin dagli inizi quello d'illuminare la storia della sua patria
siciliana nel periodo islamico, e poi quella di tutta Italia e del
Mediterraneo nei loro rapporti col mondo arabo medievale. Primo
saggio arabistico dell'A. fu l'edizione e versione della descrizione
di Palermo estratta dall'opera del geografo del sec. X Ibn Ḥawkal,
che egli pubblicò nel 1845(v. Scritti Edili, Edizioni e
traduzioni); seguì la versione di un'operetta
didattico-narrativa dello scrittore arabo siciliano Ibn Zafer, che
il traduttore intitolò Conforti politici (v. Scritti edili,
Edizioni e traduzioni); e subito dopo s'iniziò la
pubblicazione delle due massime opere arabistiche dell'A.,
integrantisi a vicenda, la Storia dei Musulmani di Sicilia (v.
Scritti Editi, Opere) e la Biblioteca arabo-sicula,con due appendici
(v. Scritti editi, Edizioni e traduzioni).
Quest'ultima è la
raccolta, per quell'epoca esauriente, dei materiali
storico-geografici e anche letterari utilizzabili in funzione
storica, che la letteratura araba ci ha lasciato sulla Sicilia
musulmana; la Storia dei Musulmani di Sicilia,fondandosi su queste
fonti orientali, e insieme su quelle greche e latine accessibili in
quel tempo all'autore, dà la completa ricostruzione critica
di quell'oscuro periodo di storia siciliana e italiana (sono infatti
trattati anche gli insediamenti e le scorrerie musulmane nell'Italia
meridionale per tutto il Medioevo). L'una e l'altra opera danno la
massima misura delle qualità filologiche e storiche dell'A.
nel campo arabistico.
Nella edizione e nelle versioni della Biblioteca si rivelano invero
alcune deficienze della preparazione linguistica e filologica
dell'editore, specie là dove si tratta di opere letterarie o
poetiche dall'astruso e artificioso stile, la cui retta intelligenza
richiede una lunga specifica iniziazione. Ma accanto a queste
comprensibili lacune (in parte colmate dalle dotte emendazioni ai
testi di H. Fleischer) rifulge la vasta e sicura conoscenza dell'A.
nel campo più propriamente storico e geografico, che per
tutto il Mediterraneo egli dominò veramente da padrone; la
sua familiarità con testi ancor per gran parte inediti; la
sua scrupolosa diligenza di raccoglitore, che gli fece sino agli
ultimi anni adunar sempre nuovi materiali, riuniti nelle due
appendici. Lo sviluppo degli studi e il dischiudersi di nuovi testi
nei settant'anni dalla sua morte renderebbero oggi matura una nuova
edizione della pregevolissima silloge, per alcune parti alquanto
invecchiata.
La Storia dei Musulmani di Sicilia, l'opera massima dell'A., apparve sin dal suo primo venire in luce, e resta tuttora, un classico della storiografia del secondo Ottocento. Fondata sui vastissimi materiali della Biblioteca integrati dalle fonti occidentali, disegnata con larga e sagace prospettiva che pone le vicende della Sicilia musulmana in rapporto con tutto lo sviluppo storico nell'Italia meridionale, nell'Africa del Nord e in generale nel Mediterraneo, animata da calda simpatia umana e schietto amor patrio, essa porta il suggello della piena maturità dell'A., per quanto, come coerenza e fecondità di pensiero storiografico, sia apparsa a taluni inferiore alla Guerra del Vespro.
Rinviando per questo alla valutazione complessiva dell'A.
come storico, si deve però dire qui che la Storia dei
Musulmani si è rivelata di una solidità non intaccata
dal tempo per quanto riguarda il lato arabistico, la scelta e l'uso
delle fonti, l'impostazione delle grandi linee e la soluzione e
talora l'intuizione geniale dei singoli problemi. Ciò
è risultato alla revisione compiuta da C. A. Nallino per la
seconda edizione dell'opera (v. Scritti editi, Opere), in parte su
materiali approntati dall'A, stesso, ma soprattutto alla luce di
oltre mezzo secolo di progrediti studi arabistici, che non hanno
modificato della costruzione amariana se non pochi punti
particolari.
L'opera arabistica dell'A. continuò indefessa anche dopo il
'6o, quando l'attività politica, di governo e poi
d'insegnamento, assorbì buona parte delle sue eccezionali
energie. Ricordiamo la edizione, versione e illustrazione dei
Diplomi arabi del R. Archivio fiorentino (v. Scritti editi, Edizioni
e traduzioni), i Nuovi ricordi arabici su la storia di Genova (v.
Scritti editi, Edizioni e traduzioni), gli Altri frammenti arabi
relativi alla storia d'Italia,negli Atti della R. Accademia dei
Lincei, s. 4, VI (1889), pp. 5-31: lavori tutti che con molti altri
minori lumeggiano i rapporti fra gli stati italiani e il mondo arabo
mediterraneo. In particolare, alla sua prediletta isola patria
è ancor consacrata la raccolta Le epigrafi arabiche di
Sicilia trascritte, tradotte e illustrate (v. Scritti editi,
Edizioni e traduzioni), un corpus completo per il suo tempo, poi
integrato dalle ulteriori pubblicazioni epigrafiche di B. Lagumina.
All'A., oltre alla mirabile produzione scientifica personale, gli
studi arabistici e in generale orientali debbono la prima loro
organizzazione nell'insegnamento superiore italiano, con una
larghezza di quadri non più in seguito superata.