FOSCOLO, Ugo
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Nacque a Zante, isola dell'arcipelago Ionio allora sotto il dominio
di Venezia, il 6 febbr. 1778. Suo padre, Andrea, medico corcirese,
contava ventiquattro anni, sua madre, Diamantina - figlia di Narciso
Spathis, un sarto zantioto, e di Rubina Serra - trentuno, e dal 1768
era vedova del nobiluomo Giovanni Aquila Serra.
Al battesimo gli venne imposto il nome dell'avo paterno,
Nicolò, cui, nella prima giovinezza, finì per
preferire quello di Ugo. L'impulso a tale scelta dovette derivargli
dalla notizia che capostipite della sua famiglia fosse un Ugo
Foscolo, della romana gens Aurelia, console inviato nel 423-424 da
Padova a edificare Rialto. Ma queste origini non sono suffragate da
documenti sicuri.
Non certo patrizie erano, comunque, le condizioni materiali della
famiglia, anche se la sua fanciullezza non conobbe disagi. Alla sua
nascita erano seguite a breve intervallo quelle di una sorella,
Rubina (1779), di un fratello, Gian Dioniso, chiamato più
semplicemente Giovanni (1781), e più tardi (1787, a Spalato)
di un secondo fratello Costantino Angelo, cui, nel 1795, sarebbe
stato aggiunto il nome di Giulio prevalso sugli altri.
La casa natale e della prima fanciullezza, una casa povera, sorgeva
di fronte alla chiesa della Beata Vergine Odigitria. La vita vi
trascorreva calda di affetti: Diamantina esercitò il suo
matriarcato con mite fermezza, riuscendo a temperare i difetti del
marito, prodigo e irascibile di natura, e a creare una unione molto
stretta dei figli con i genitori e dei figli tra loro.
Una duplicità di ascendenza caratterizza la
personalità umana ed artistica del F., condiziona certe sue
scelte dall'apparente antinomia, infonde l'elemento vitale nelle
figurazioni del suo Olimpo, radica alla terra e alla storia la sua
metafisica poetica. Zante e Venezia, cioè la Grecia e
l'Italia, dovettero nella sua fanciullezza incarnarsi nelle figure
diverse ma non conflittuali della madre e del padre; e, forse, sin
da allora rappresentarono nella sua vita affettiva e fantastica due
presenze del pari vagheggiate, di cui l'una non escludeva l'altra.
Il F. non troncò mai o l'uno o l'altro ramo in cui avvertiva
divisa la sua radice. La sua opzione per la patria degli avi paterni
e per la lingua italiana non implicava il distacco dalla patria
materna, dalle memorie e dagli affetti che vi si legavano. Il
pensiero della Grecia affiora nella sua poesia non come momentaneo
abbandono nostalgico, ma come riflesso di quella costante affettiva
che animava le sue dichiarazioni di valenza politica e culturale, i
suoi progetti operativi, il suo desiderio di concludere la vita
nella terra delle sue origini.
Né d'altro canto la sua aspirazione alla costanza degli
affetti domestici, alla misura e all'armonia trionfanti sulle
passioni incomposte, era solo un ideale estetico o il
vagheggiamento, per contrasto, di una condizione di vita diversa da
quella realizzata: l'animava la breve ma intensa esperienza
dell'unità familiare. Così, sul piano artistico, la
sua Grecia non coincideva, o non coincideva in tutto, con la
immagine vulgata dal neoclassicismo europeo del tardo Settecento:
non solo per gioco letterario egli amò ricondurre la sua
mitopoiesi a un retaggio ancestrale e considerare la sua origine
etnica come via privilegiata all'intelligenza della Grecia.
Non regolare e sistematica fu la prima istruzione che egli ricevette
a Zante dal parroco della chiesa dell'Odigitria e dal canonico
Reinaud. Dei pochi aneddoti concernenti la sua fanciullezza uno (la
cui veridicità è confermata da un documento, che
l'assegna al 1785, ma forse potrebbe trattarsi del 1789) ce lo
presenta mentre a capo di una brigata di compagni assale le porte
del ghetto, onde liberare gli ebrei, finendo per essere arrestato.
Nell'estate 1785 la famiglia si trasferì a Spalato, ove dal
precedente autunno già risiedeva il dottor Andrea, nominato
primo medico dell'ospedale militare. Nella città dalmata il
F. frequentò la scuola del seminario arcivescovile, ma questa
esperienza di studio regolare dovette limitarsi al solo anno
scolastico 1787-88.
Concordi testimonianze lo presentano come scolaro sempre pronto,
benché si applicasse di rado, capace di improvvisare poesie
in tutti i metri, generoso e disponibile verso gli altri, ma
irascibile e violento.
La serenità della famiglia fu bruscamente sconvolta dalla
morte del padre, avvenuta a soli trentaquattro anni (24 ott. 1788).
L'avvenimento comportò l'abbandono di Spalato: Diamantina,
affidati i figli alle sorelle e alla madre, tra la fine del 1788 e
l'inizio dell'anno seguente partì alla volta di Venezia, onde
cercarvi una stabile sistemazione per i suoi.
Nel 1792 la famiglia era riunita a Venezia, in una modesta casa in
campo delle Gatte. Il F., secondo una tradizione per solito
accettata, sarebbe stato messo alle scuole di S. Cipriano, o del
seminario patriarcale, in Murano, ma più verosimilmente
frequentò quelle pubbliche, che, allogate nell'antico
collegio gesuitico, continuarono a chiamarsi dei Gesuiti anche dopo
la soppressione della Compagnia.
Per quanto avesse indole e vocazione di autodidatta, pure non fu
estraneo alla sua formazione l'insegnamento di alcuni maestri entro
e fuori l'ambito scolastico. Di greco antico ebbe a Venezia un
valoroso docente in G.B. Gallicciolli; dovette inoltre seguire il
corso di eloquenza tenuto da U. Bregolini, e forse ascoltarne, sia
pure saltuariamente, le lezioni di diritto, che dovettero esercitare
un qualche influsso su di lui (anche se la sua concezione hobbesiana
e machiavellica discordava dal razionalismo giuridico professato dal
maestro). Simpatia ed affetto lo legarono ad A. Dalmistro: dovette
certo colpirlo l'entusiasmo con cui questo discepolo di G. Gozzi
leggeva Dante; probabilmente fu lui a destargli interesse per la
letteratura inglese, in particolare per autori quali A. Pope e Th.
Gray, e certo da lui, buon traduttore e verseggiatore, gli venne
incoraggiamento al noviziato poetico: alcuni suoi componimenti,
infatti, videro luce, nel '96 e nel '97, nell'Anno poetico ossia
Raccolta annuale di poesie inedite di autori viventi, almanacco
pubblicato a Venezia dal 1793 al 1800 per opera appunto del
Dalmistro. E dovettero essere questi e il custode della Marciana J.
Morelli a introdurlo nei due più celebri salotti letterari
della città: quello di Giustina Renier, moglie di M.A.
Michiel, e quello della corcirese Isabella Teotochi che,
quindicenne, nel 1776 era venuta a Venezia sposa del nobiluomo C.A.
Marin, da cui viveva separata di fatto dal 1793 (ottenuto poi
l'annullamento del matrimonio, avrebbe sposato nel '96 il conte
Giuseppe Albrizzi).
Tra i frequentatori dei due salotti, con cui strinse rapporti
destinati a incidere sulla sua vita e sulla sua opera, v'erano A.
Bertola De Giorgi e M. Cesarotti, I. Pindemonte, P. Costa, L.
Cicognara, A. Mustoxidi, i fratelli T. e G. Olivi. Ma altri, e forse
lo stesso Pindemonte, dovevano avvertire una qualche diffidenza per
le idee rivoluzionarie che egli andava maturando; e, d'altro canto,
la rapida evoluzione intellettuale e artistica del F. ergeva un
diaframma tra le sue tensioni e un ambiente che scopriva volto al
passato. Più affini egli sentì quanti erano legati al
Cesarotti, che rappresentava il nuovo sul piano letterario, e quanti
inclinavano alle idee di rinnovamento politico provenienti dalla
Francia: A.G. Vianelli, traduttore di L. Sterne, e i bresciani G.
Fornasini, G. Labus, L. Scevola.
Al suo attivo contava già un buon numero di componimenti
poetici, tra originali e tradotti. Nel 1794, fatta una cernita delle
poesie e ordinatene una quarantina, le trascrisse in un quadernetto,
che inviò in dono a C. Naranzi, un isolano di famiglia
imparentata con la sua. Dal manoscritto fu tratta nel 1831 una
stampa di cui si ignora il curatore. Il lessico, la sintassi, i
metri, i temi sono quelli di un classicismo arcadico divenuto
maniera nell'esercizio di un epigono: pure, qua e là, si
ravvisano spunti destinati a ulteriori sviluppi.
Col 1795 la sua creatività poetica ha una svolta, sveste le
fogge arcadiche della melica anacreontica e ne abbandona il
repertorio tematico. Cambiano anche i modelli di questo
sperimentalismo lirico, che si muove in più direzioni, non
offrendo ancora un'immagine unitaria e coerente del poeta: nei versi
composti tra il '95 e il '99 traspaiono in filigrana il Varano delle
Visioni, il Monti delle terzine e degli sciolti, il Parini delle
Odi, il Cesarotti dell'Ossian, l'Alfieri dei sonetti e delle odi,
Dante attinto per via diretta o attraverso la mediazione montiana.
Dei componimenti che si collocano in questo periodo furono editi
postumi La campagna (1854), la canzone e i cinque sonetti In morte
del padre (1888), il sonetto Quando la terra è d'ombre
ricoverta, prima stesura di Così gl'interi giorni… (1862), il
poemetto La Giustizia e la Pietà (1882). Gli altri videro
luce lo stesso anno della loro composizione o quello successivo: nel
Mercurio d'Italia (A Dante e In morte di…, 1796); nella citata
miscellanea di poesia l'Anno poetico (La Verità, 1796; A
Dante, e In morte di…, ottobre 1796; Le rimembranze, il sonetto A
Venezia, gli sciolti Al sole, l'ode Ai novelli repubblicani e l'ode
Bonaparte liberatore, 1797: di queste due non fu l'unica stampa); In
morte di Amaritte in un opuscolo del '96, che riuniva i componimenti
di alcuni autori dedicati alla contessa Marietta de' Medici
scomparsa a soli ventidue anni; La Croce e Il mio tempo, composti
per la monacazione di Maria Toderini Pappafava, in un opuscolo di
cui nel '96 apparvero cinque edizioni.
Del 1796 è anche il Piano di studi, importante documento
della sua formazione culturale e artistica: nel progetto che fissa
le direttrici da seguire nei vari campi del sapere si coglie il
segno di una individualità già originalmente
delineata; nell'unito bilancio di un'attività letteraria
aperta a varie sollecitazioni si individua, più che il
prefigurato disegno di ulteriori sviluppi, una volontà
creativa che si fonda sul senso autocritico del già compiuto.
Certe caratteristiche del Piano rivelano l'impronta dell'epoca:
l'accampare in limine la filosofia, la prevalenza accordata agli
scrittori della classicità greco-latina, la visione
universalistica della letteratura per cui sotto le rubriche dei
generi si trovano indistintamente autori o libri italiani, francesi,
inglesi, tedeschi, spagnoli.
La scansione puntuale della sua vita relativa agli anni 1795-96
sfugge. Nell'estate del '95 si ammalò di risipola, in quella
del '96 appare malato nell'animo. La causa di questo "male di
malinconia", come egli ebbe a chiamarlo, dovette essere, o dovette
anche essere, il divampare più forte della passione per
Isabella Teotochi nel momento in cui la donna, passando a seconde
nozze, intese mutare in amicizia il più intimo rapporto con
lui.
Che avesse iniziato il diciottenne F., ella che contava trentacinque
anni, ai misteri d'amore e, amante per pochi giorni ma amica per
tutta la vita, gli avesse dato il consiglio di non innamorarsi mai;
che Laura, il nome da cui si intitolava il romanzo annunciato nel
Piano di studi, fosse il senhal di lei, non diversamente da Temira
del Sesto tomo dell'io; e, ancora, che non una fanciulla a noi
sconosciuta ma lei, la bella greca, fosse la Laura di cui è
cenno in lettere al Cesarotti e all'Olivi; tutto ciò
può essere accolto come probabile, o anche molto probabile.
Non va tuttavia dimenticato che in questo e in altri casi si
è spesso attribuito valore documentario ad opere o a tratti
di opere di carattere o di presunto carattere autobiografico, senza
la cautela richiesta dall'ovvio fatto che l'arte è immagine
trasfigurata e mediata della vita, mai speculare riflesso della sua
pratica contingenza.
Certo il mutamento intervenuto nel suo rapporto con la Teotochi si
accompagnò con un crescente disagio nei confronti della
società letteraria e mondana di Venezia, di cui il salotto di
lei era uno dei centri d'incontro. Il F. non poteva che suscitare
diffidenza negli ambienti conservatori, mentre nel contempo cresceva
in lui l'intolleranza e l'avversione per quegli ambienti.
Sempre nel '96 progettò di trasferirsi a Padova per seguire
un regolare corso universitario: ma fu costretto a rinunciarvi per
motivi economici. Verso la fine di luglio si recò a Ceriole
di Teolo sugli Euganei, ove trascorse il resto dell'estate, sia per
rimettersi nel fisico e nel morale, sia per tenersi un qualche tempo
alla larga da Venezia, dove si era acquistato dei nemici ed era
caduto in sospetto delle autorità di polizia.
Nell'autunno di quell'anno, precisamente il 29 ottobre,
visitò per la prima volta S. Bettinelli: l'attacco di cui lo
aveva fatto segno nell'ode A Dante non fu ostacolo all'instaurarsi
di una reciproca stima, pur nella diversità di gusti dovuta a
ragioni individuali e storiche.
L'anno seguente, il 1797, si aprì con il successo del Tieste,
andato in scena al teatro veneziano di S. Angelo la sera del 4
gennaio e replicato per altre nove volte consecutive. Al memorabile
esito della rappresentazione contribuì il talento della
giovane attrice Anna Fiorilli Pellandi, che impersonava Erope. Ma
l'accoglienza favorevole fu anche determinata da quel che di
originale il pubblico avvertì nel lavoro.
Pur senza riuscire nell'insieme un carattere artistico veramente
nuovo, Tieste ha tratti che ne fanno un eroe preromantico:
l'evocazione delle sue sventure si muove tra l'autocompianto e la
ribellione disperata; alla fredda logica del potere e al cupo
desiderio di vendetta del tiranno Atreo si contrappone, pur nel
fiero spirito di rivalsa, la sua coscienza di una giustizia violata
e il suo parteggiare per gli oppressi. Alfieriana nello spirito
libertario, nella struttura, nello stile (e tale fino al vero e
proprio calco), questa tragedia rappresentava una sfida ai modi del
coevo teatro veneto. Stampata che fu la tragedia, il F. ne
inviò copia all'Alfieri con una lettera di accompagnamento:
ma una risposta non dovette giungergli mai.
Coeva, se non anche precedente, al Tieste fu l'altra tragedia,
l'Edippo. Nelle carte del F. esistono due autografi concernenti una
tragedia su questo tema: il primo, una sola pagina di appunti
provvisori; il secondo, un fascicoletto che presenta uno schematico
abbozzo dei primi tre atti. Gli elementi interni ed esterni
permettono di assegnarli alla maturità del poeta. Ma se il
progetto della nuova tragedia naufragò quasi in sul nascere,
di quella giovanile, sempre che il F. non avesse dato per compiuta
un'opera solo ideata, s'era persa ogni traccia. Tuttavia in un
fascicolo di suoi manoscritti, conservato fra le carte Pellico, fu
rinvenuto (e pubblicato nel 1979) un Edippo che può
ritenersi, con buona probabilità, la giovanile tragedia
perduta.
Con la primavera del '97 inizia per il F. un breve ed intenso
periodo, in cui la sua passione politica passa dal piano delle
battaglie ideologiche a quello dell'azione. Nel settembre il
ministro francese J.-B. Lallement aveva proposto al governo veneto
un'alleanza, rifiutata in nome di una neutralità che non
aveva, né avrebbe reso inviolabile il territorio della
Repubblica di S. Marco. In questa occasione il F. compose il sonetto
A Venezia, in cui bollava la pace, comprata a prezzo di
viltà, e prediceva il giorno, affrettato dall'esempio
francese, in cui il popolo avrebbe fatto vendetta dei suoi tiranni.
Nell'ultima decade di aprile, abbandonata Venezia, cercò
rifugio nella Repubblica Cispadana. A Bologna si arruolò,
volontario, nel corpo dei cacciatori a cavallo come brigadiere:
pochi giorni dopo fu congedato su sua richiesta per motivi di
salute.
Il 12 maggio, nella sua ultima assemblea, il Maggior Consiglio
proclamava l'autoscioglimento; il 16 le truppe francesi entrarono a
Venezia. Lo stesso giorno veniva spedito dalla Giunta di difesa
generale della Cispadana alla Municipalità di Reggio Emilia
un pacco di copie dell'ode Bonaparte liberatore.
L'ode, composta a Bologna nei primi giorni del maggio '97, esaltava,
attraverso una prosopopea della Libertà, l'impresa
napoleonica in Italia: in Napoleone era celebrato l'eroe della
guerra repubblicana, l'affrancatore dei popoli da servitù
inveterate, il garante di un nuovo e libero assetto degli Stati. Le
ampie strofe, improntate ai moduli della lirica eroica e pindarica
sei-settecentesca, si dipanano faticose e artificiose in una
tessitura espressiva che, nel suo classicismo di maniera, affianca
moduli eterogenei. Non diversa negli spiriti e nelle forme l'altra
ode politica, Ai novelli repubblicani, composta nell'estate del '97.
Anche qui il motivo contemporaneo si affaccia solo alla fine, dopo
la preponderante evocazione di personaggi e vicende del mondo
classico: la battaglia egalitaria e la tragica fine di Tiberio e
Gaio Gracco.
Giunto a Venezia verso il 20 maggio, il F. scrisse immediatamente
alla Giunta di difesa, chiedendo di essere di nuovo arruolato come
ufficiale; la richiesta venne accolta e gli fu conferito il grado di
tenente onorario. Fino a metà giugno una seria malattia lo
tenne lontano da ogni impegno pubblico ma il 18 di quel mese fece
istanza di ammissione alla Società di istruzione pubblica di
Venezia dove, il giorno successivo, fu accolto socio per
acclamazione. Dal 12 luglio fu anche uno dei quattro segretari della
Municipalità: il suo compito si riduceva alla redazione e
alla lettura dei verbali.
In seno alla Società d'istruzione pubblica, il cui compito
era solo di formulare proposte, i suoi interventi rivelano una
concretezza di senso politico. Risalta da essi il richiamo brusco
alla realtà come scontro di forze, la coscienza che l'ordine
democratico non possa stabilirsi con le armi pacifiche della
ragione, l'invito a costituire una milizia cittadina. Contro
l'arbitrio e gli eccessi rivoluzionari, contro il culto
dell'autorità personale egli invoca il freno delle leggi che,
con le armi, sono il fondamento dello Stato democratico.
Alla stipula del trattato di Campoformido (17 ott. 1797), che
segnava la caduta del governo democratico e la fine
dell'indipendenza di Venezia, il F., secondo il Carrer, si sarebbe
schierato con quegli estremisti che avrebbero voluto dare a fuoco la
città e perire sotto le sue rovine piuttosto che cedere. Egli
aveva sentito le clausole del trattato come un tradimento di
Napoleone: pure decise di passare nella Cisalpina e, verso la
metà di novembre, abbandonò Venezia e prese la via di
Milano. Giuntovi fece istanza perché gli fosse dato un posto
o fra gli scrittori nazionali o fra i conservatori della pubblica
biblioteca: ma la richiesta restò senza esito. Fu invece
accolto fra i redattori del Monitore italiano, giornale politico che
iniziò a pubblicarsi il 20 genn. 1798 e dall'11 marzo fu
compilato esclusivamente da lui, M. Gioia e P. Custodi. A Milano
frequentò gli incontri promossi dal Circolo costituzionale,
ove si declamava e discuteva su temi politici, e vi prese varie
volte la parola.
Del '98 sono anche l'articolo Difesa del "Quadro politico" di
Melchiorre Gioia, apparso sul modenese Giornale repubblicano del 25
luglio, che rintuzzava a stretto giro le pesanti accuse rivolte a
quel libro e al suo autore, e l'opuscolo Esame delle accuse contro
Vincenzo Monti, in cui sosteneva non potersi attaccare la
Basvilliana per il solo fatto di avervi il poeta dipinto a fosche
tinte il Terrore.
Le sue prese di posizione nei confronti degli abusi e delle
deficienze da cui non gli apparivano immuni i nuovi uomini di
governo gli resero difficile l'ottenimento di un impiego; per dar
corso a tale ricerca, nella seconda metà di giugno
partì alla volta di Bologna. Il motivo del viaggio era anche
un altro: il desiderio di allontanarsi da Teresa Pikler, la moglie
del Monti, per la quale aveva concepito una passione non
corrisposta. Ma nella prima decade di luglio era di nuovo, per breve
tempo, a Milano. Tra la fine di agosto e i primi di settembre 1798
tornò a Bologna ove, con il libraio e stampatore F. Canetoli,
dette vita al trisettimanale Il Genio democratico, di cui redigeva
le rubriche Notizie bibliografiche e Istruzioni popolari
politico-morali, ma l'impresa ebbe vita assai breve, dal 23
settembre al 13 ottobre. Il Canetoli aveva intanto rilevato un altro
giornale, Il Monitore bolognese, nel quale fece confluire Il Genio
democratico: il F. vi collaborò per cinque numeri.
All'inizio di novembre era stato assunto presso la sezione criminale
del Dipartimento del Reno come aiutante del cancelliere e segretario
per le lettere del tribunale, ufficio che abbandonò quando,
il 21 apr. 1799, alla notizia che gli Austro-Russi avanzavano verso
il Ferrarese e il Bolognese, rientrò volontario nel ranghi
dell'esercito come luogotenente nella guardia nazionale di Bologna.
Intanto, tra il settembre e il dicembre del '98 era stata avviata e
nei primi mesi dell'anno nuovo proseguita la stampa delle Ultime
lettere di Jacopo Ortis.
Il 24 aprile partecipò alla riconquista di Cento, occupata
dagli Austriaci e dagli insorti, rimanendo ferito nell'assalto. Per
curarsi e per evitare di cadere in mano austriaca, riparò
prima a Calcara e poi nel monastero di Monteveglio, ove rimase fin
verso la fine di maggio, allorché fu arrestato dalla guardia
nazionale perché sospettato di essere un agente austriaco.
Trasferito a Vignola e poi a Modena, all'arrivo del generale
francese J.-É. Macdonald fu rimesso in libertà (12
giugno). Aggregato al reggimento degli ussari cisalpini,
partecipò alla battaglia della Trebbia; ritornò a
Bologna il 19 di quel mese e denunziò alla cancelleria della
Commissione criminale quelli che lo avevano fatto arrestare a
Monteveglio; poi partì con i resti della divisione del
Macdonald alla volta di Genova.
Durante la sua assenza da Bologna l'editore Marsigli, trovandosi con
la stampa avviata delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, pensò
di ricorrere per il loro compimento ad A. Sassoli, un dottore in
legge che si dilettava di filosofia e di poesia. Questi si mosse
ponendo attenzione ai procedimenti stilistici e strutturali del F.,
che, del resto, nella redazione del 1802, ne accolse alcune
soluzioni e moduli espressivi. L'editio princeps dell'Ortis reca sul
frontespizio la data 1798, ma in effetti questa doveva riferirsi
all'inizio della stampa. L'anno successivo l'opera vide luce sotto
il titolo di Vera storia di due amanti infelici ossia Ultime lettere
di Jacopo Ortis, sempre per i tipi del Marsigli.
Il F. solo molto più tardi venne a sapere di questa edizione
abusiva e il 3 genn. 1800 pubblicò una nota di sconfessione.
Rimessa mano all'opera, la ripubblicò nel 1802 e,
ulteriormente rimaneggiatola, nel 1817. Le tre diverse redazioni non
solo rivelano una mai intermessa ricerca di stile, ma anche il
significato autobiografico di questo vario ritorno sulle pagine di
un tempo. Jacopo e la sua vicenda, infatti, hanno sì una
propria configurazione che li colloca nell'alveo della narrativa
sentimentale - fortunato genere settecentesco cui sono da ascriversi
celebri modelli quali la Nouvelle Heloïse di J.-J. Rousseau e
il Werther di W. Goethe - ma sono anche la proiezione romanzata
della vita dell'autore.
Se l'accento predominante del romanzo è quello di un dolore
senza speranza, non mancano nella sua compagine toni lievi e
sorridenti, come fra i suoi quadri a tinte forti non mancano
incisioni di una grazia lieve e sorridente: presenze non certo
centrali nell'economia dell'opera, che tuttavia mostrano come il F.
già allora venisse delineando un'altra immagine di sé,
quella che avrebbe trovato forma in Didimo Chierico. Questa si
affaccia qui negli interstizi, ma già campeggia nei coevi
frammenti del Sesto tomo dell'io, che ci conducono appunto all'altro
registro di sensibilità e di stile.
Nella seconda decade di luglio del 1799 il F. era a Genova con le
truppe del Macdonald. Nella città assediata dall'esercito
austro-russo pubblicò il Discorso su la Italia, la sesta
edizione dell'ode a Bonaparte, cui premise una celebre dedica
(pagina nobile ed alta con cui richiama Napoleone al dovere di
soccorrere l'Italia, onde sgombrare da sé l'onta del trattato
di Campoformido), e l'ode A Luigia Pallavicini caduta dacavallo,
stampata dal Frugoni di Genova - in un opuscolo, insieme con i
componimenti poetici di tre suoi amici e commilitoni - come offerta
augurale alla nobildonna ligure che, nel luglio 1799, disarcionata,
si era ferita gravemente, tanto da correre pericolo di vita.
Il carattere innovativo dell'ode si venne configurando attraverso un
progressivo lavorio di affinamento, il cui risultato definitivo
è costituito dalla edizione 1803 delle Poesie. Archetipi di
qualche immagine o di qualche particolare di lingua o stile sono in
precedenti versi dello stesso F., da quelli più lontani della
Raccolta Naranzi ad altri più vicini, quali gli sciolti
Alsole. Fitto l'indice delle derivazioni dalla poesia settecentesca
e dalle fonti classiche direttamente o indirettamente attinte. Pure
l'esito non è un gioco galante articolato in
preziosità classicistiche, anche se ne ha l'apparenza.
Nel dicembre del '99 il F., con parte delle truppe stanziate a
Genova, si trasferì a Nizza. Tra il 10 e il 15 marzo 1800 era
di nuovo a Genova, ove prestò servizio come ufficiale di
corrispondenza. Il 2 maggio, con le truppe del generale A.
Masséna, partecipò all'assalto del forte dei Due
Fratelli, segnalandosi per un'azione di coraggio: nella giornata, in
cui morì l'amico G. Fantuzzi, egli fu ferito ma in maniera
non grave. Il 4 giugno la città di Genova si arrese e le
truppe del presidio franco-cisalpino, imbarcate su navi inglesi,
furono trasferite ad Antibes. Ma la vittoria napoleonica di Marengo
(14 giugno) capovolse la situazione e il F. poté rientrare in
Italia, ottenendo il permesso di andare a Milano, ove fu aggregato,
come capitano aggiunto, allo stato maggiore del generale F. Pino.
Nel Monitore bolognese del 7 ott. 1800 appariva la sua Difesa del
generale Pino, accusato di avere imposto arbitrari gravami alle
popolazioni di Romagna. Probabilmente in questo torno di tempo pose
mano ai Commentarii alla storia di Napoli, di cui resta una parte
relativa al libro secondo, e avviò, o più
probabilmente solo progettò, i Commentarii cisalpini.
In uno degli spostamenti di quell'anno conobbe Isabella Roncioni,
una diciottenne di nobile famiglia pisana, e se ne innamorò.
Questa vicenda non dovette essere estranea al rifacimento dell'Ortis
del 1802: sembra mostrarlo la diversa configurazione del personaggio
di Teresa (da vedova innamorata di Odoardo, nella stesura del '98, a
fanciulla che accetta un matrimonio senza amore). Nella situazione
di Jacopo pare ora riflettersi quella del suo autore: nell'agosto
del 1801, infatti, la Roncioni, ottemperando alla volontà
paterna, avrebbe sposato il marchese Bartolommei.
Verso la metà del marzo 1801 il F. lasciò Firenze; il
16 era a Bologna, e di lì, ottenuta una licenza, partì
alla volta di Milano: il 25 luglio ottenne la nomina a capo della
seconda sezione dell'ufficio di compilazione del codice militare
cisalpino; il 3 agosto, con l'incarico di attendere alla redazione
delle norme disciplinari e penali, passò alla quarta sezione
per cui redasse l'Idea generale del lavoro della quarta sezione
dell'Ufficio di compilazione (Ed. naz. delle opere, VI, pp.
199-205). Purtroppo G. Murat, cui dal 19 agosto era stato affidato
il comando delle forze armate, soppresse nell'autunno la commissione
che attendeva al codice. Forse da questa decisione trasse origine
l'antipatia, del resto ricambiata, del F. per lui.
L'ambiente elegante milanese che prese a frequentare stimolava certa
sua tendenza al grandioso e al raffinato; di qui la necessità
di denaro, che, unita al gusto del rischio, lo portarono a tentare
la fortuna al gioco d'azzardo. Nell'estate del 1801 una nuova
passione d'amore accende il F.; ad ispirarla è la sua quasi
coetanea Antonietta Fagnani, moglie del conte M. Arese Lucini. Il
rapporto durerà circa due anni, fino al marzo 1803, ora
esaltante ora esasperato dalla gelosia.
Un grave lutto intanto lo aveva colpito: a Venezia, l'8 dic. 1801,
in circostanze non del tutto chiare - si parlò di suicidio
per debiti di gioco e un ammanco alla cassa militare -, era morto il
fratello Giovanni ventenne, che militava nell'esercito cisalpino.
Dalla primavera del 1801 alla fine del 1803 circa la sua
attività di scrittore raggiunse i primi risultati originali.
Appartengono a questo periodo: il rifacimento dell'Ortis, le Poesie,
l'Orazione a Bonaparte pel Congresso di Lione e La chioma di
Berenice. A questi lavori, dati alle stampe, sono da aggiungere
quelli per allora inediti: i frammenti Della poesia, dei tempi e
della religione di Lucrezio, le annotazioni in margine al poemetto
Haiti di V. Lancetti, lo scritto Sul "Saggio di novelle" di L.
Sanvitale.
Le Poesie apparvero dapprima nel fascicolo dell'ottobre 1802 del
Nuovo Giornale dei letterati di Pisa e, invariate, in un opuscolo
stampato dalla stessa tipografia del Giornale: erano allora
costituite da otto sonetti e dall'ode alla Pallavicini (i sonetti
erano: Perché taccia il rumor di mia catena; Così
gl'interigiorni in lungo incerto; E tu ne' carmi avrai perenne vita;
Meritamente, però ch'io potei; Non son chi fui, perì
di noi gran parte; Che stai? già il secol l'orma ultima
lascia; Te nudrice alle Muse, ospite e dea; Solcata ho fronte, occhi
incavati, intenti). Nell'aprile 1803 un volume stampato a Milano dal
tipografo Destefanis ripresentò la raccolta pisana, ma
arricchita dell'ode All'amica risanata e di tre nuovi sonetti (Forse
perché della fatal quiete; Né più mai
toccherò le sacre sponde; Pur tu copia versavi alma di
canto). Nell'estate dello stesso anno le Poesie uscivano dalla
tipografia milanese di Agnello Nobile in una edizione dichiarata nel
frontespizio "seconda", nella quale alle due odi seguivano, in un
ordine variato rispetto alle stampe precedenti, i sonetti, qui in
numero di dodici per l'aggiunta di quello dedicato al fratello
Giovanni (Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo). Ma
non solo gli spostamenti nell'ordine seriale dei sonetti,
ottemperanti a un calcolato disegno d'insieme, differenziano
l'edizione Nobile dalle precedenti: nella sua compagine, infatti,
viene a fissarsi il risultato di un vigile lavorio di affinamento
stilistico, di cui, in mancanza di autografi, solo le precedenti
edizioni a stampa offrono il termine di paragone.
La composizione dell'ode All'amica risanata si colloca in un
periodo, di cui i termini estremi sono l'aprile del 1802, quando la
Fagnani si ristabilì dalla malattia che l'aveva afflitta
durante l'inverno e l'aprile del 1803, quando l'ode fu pubblicata.
Con quest'ode costituiscono il risultato più alto delle
Poesie del 1803 i quattro sonetti che, anepigrafi come i dodici
tutti della raccolta, vanno sotto il titolo vulgato di Alla sera, A
Zacinto, In morte del fratello Giovanni, Alla Musa. Nella loro
tessitura, di cui sempre più si è venuta scoprendo la
maestria stilistica e strutturale anche in relazione all'uso
sapiente e personale delle fonti, trovano espressione i motivi
fondamentali della lirica foscoliana: il fluire del tempo in una
indeterminata eternità cosmica, la malinconia di una perduta
identità etnica, la morte che, troncando gli affetti, insieme
ne rivela a pieno il significato, il valore catartico della bellezza
e della poesia. Che questo mondo di pensieri e di sentimenti si
componesse in una forma metrica di antica e larga tradizione non
significa che la sua originalità poetica vada considerata
indipendentemente da quella forma. La stessa esiguità
dell'uso fattone dal F. non è senza significato a riscontro
dell'inflazione di tal genere metrico. Ma questo dato acquista
rilievo alla luce della originale struttura musicale e sintattica,
ora dalle simmetriche corrispondenze, ora franta nel contrappunto
delle inarcature, ora slargantesi in mobili volute che aprono spazi
concatenati (si pensi, ad esempio, alla serie ipotattica del sonetto
A Zacinto).
Nel novembre 1803 vedeva luce a Milano La chioma di Berenice poema
di Callimaco tradotto da Valerio Catullo volgarizzato e illustrato
da Ugo Foscolo. Con l'incompiuto saggio su Lucrezio costituiva il
risultato del lavoro critico-erudito coevo a quello artistico.
L'edizione si apriva con quattro discorsi (Editori, interpreti e
traduttori; Di Berenice; Di Conone e della costellazione berenicea;
Della ragion poetica di Callimaco). Seguivano l'originale latino
dell'Epistola ad Ortalo; il testo della Chioma, annotato con molta
dottrina pur se non sempre di prima mano; il volgarizzamento in
endecasillabi sciolti dell'epistola e del poemetto; tredici
Considerazioni volte a illustrare riferimenti storico-culturali
presenti nei versi o da essi presupposti, e una quattordicesima
dedicata ai codici Ambrosiani utilizzati per l'apparato. Chiudeva il
tutto un Commiato.
Giudicare quest'opera sotto l'esclusivo profilo della filologia
significherebbe non coglierne l'autentico significato. Il valore che
il F. vi annetteva era nella urgenza morale e politica, che ispirava
il nuovo colloquio con i classici. Così il discorso
sull'elegante consacrazione poetica della regalità divina di
Tolomeo poteva farsi condanna del dispotismo e della cortigianeria
letteraria recenti. Ma, oltre questo impegno, la stessa ragione
della scelta ci conduce ad una costante della sensibilità
estetica del poeta, cui il Catullo-Callimaco si presentava come
simbolo di un'arte raffinata, cui contrapponeva l'immagine-mito del
poeta primitivo, identificato in Omero e nei profeti d'Israele.
Dalle note e dai discorsi può trarsi una summa della poetica
foscoliana: dalle considerazioni sulla natura della lirica, a quelle
sul mirabile e passionato, il valore delle favole e delle fantasie
soprannaturali di contro alla poesia ragionatrice, i rapporti tra
religione e poesia, il carattere della religione greca, i poeti
primitivi "teologi e storici delle proprie nazioni" vissuti "in
età ferocemente magnanime".
Non pochi o marginali tratti di queste riflessioni rivelano una
chiara impronta vichiana: il pensiero del filosofo meridionale
veniva diffondendosi in Lombardia in quei primi anni del secolo,
tramite gli esuli della Repubblica napoletana. Con uno di essi, F.
Lomonaco, il F. fu legato da amicizia e consuetudine di vita (ne
adombrò la figura e il carattere nel personaggio di Diogene
del Sesto tomo dell'io).
Frattanto la sua carriera militare incontrava difficoltà e i
suoi rapporti con i pubblici poteri restavano non facili. Non
vantaggi ma avversioni e sospetto gli procurò l'Orazione a
Bonaparte pel Congresso di Lione, di cui fu ufficialmente incaricato
a metà dicembre 1801. Il F. avrebbe, infatti, trasformato
l'elogio di Napoleone in un fiero atto di accusa contro gli uomini
del governo provvisorio, i proconsoli ladri, da cui era stato
tradito l'atteso rinnovamento politico e civile.
Fallito il proposito di intraprendere la carriera diplomatica,
nemmeno gli riuscì di rientrare in servizio attivo
nell'esercito; solo quando il comando supremo dell'esercito in
Milano passò dal Murat al generale J.-B. Jourdan, egli fu
reintegrato nei ranghi operativi. Il 26 maggio 1804 gli fu
comunicata la nomina a capitano di fanteria, con l'ordine di
presentarsi a Valenciennes al comando della divisione italiana in
Francia.
Mortificante dovette riuscirgli l'essere destinato ai magazzini
della sussistenza; le condizioni di vita migliorarono con il
passaggio, nel marzo 1805, a Calais, ove gli fu assegnata
"l'ispezione superiore dei soldati imbarcati", e poi, nel settembre
di quello stesso anno, a Boulogne-sur-Mer.
Forse nel novembre 1804, a Valenciennes, entrò in rapporto
con una delle famiglie inglesi che vi erano trattenute in stato di
prigionia: ne faceva parte una giovane con cui strinse una relazione
dalla quale sarebbe nata una bambina. Di questa vicenda non si trova
parola nel suo epistolario prima del 1826 e il silenzio degli anni
precedenti suscita perplessità. Stando alle notizie che
finora abbiamo, solo dal 1821 una fanciulla viveva presso di lui a
Londra: la "little Mary", nominata in alcune lettere di quell'anno
con espressioni che fanno pensare a un rapporto di paternità.
Questa fanciulla dovrebbe essere la stessa che successivi documenti
indicheranno con il nome di Floriana; la madre fu probabilmente
Sophia Saint John Hamilton, che ai tempi della fugace relazione con
il F. contava tra i diciannove e i venti anni.
Nei pochi mesi trascorsi a Valenciennes tra il 1804 e il 1805 il F.
fu in rapporti con altre donne: tra queste Amélie Bagien,
colta e spregiudicata, conosciuta nell'autunno del 1804 a Calais La
corrispondenza con lei testimonia anche la ripresa del suo impegno
letterario: più volte, infatti, vi si accenna alla traduzione
dello Sterne, cui egli venne dedicandosi appena avvertì di
avere una qualche padronanza dell'inglese. Ancora al periodo della
permanenza in Francia appartiene la breve epistola in sciolti al
Monti, che ci è pervenuta in una stesura irta di correzioni e
rifacimenti, non approdata a un esito ne varietur. Dell'inizio del
1805 è la Difesa del sergente Armani, un'arringa pronunciata
a Valenciennes dinanzi al Consiglio di guerra: all'ufficio di
difensore dei soldati dinanzi alle corti marziali egli era e sarebbe
stato chiamato più volte.
Trascorse l'ultimo semestre francese, dal settembre 1805 al febbraio
successivo, a Boulogne. Ottenuto dal 1° marzo un congedo di
quattro mesi, onde sistemare faccende familiari in Italia, il 4 era
già a Parigi: dovette verosimilmente incontrarvi la Bagien;
chiese udienza all'ambasciatore del Regno d'Italia A. Aldini, cui si
raccomandò per ottenere due decorazioni (richiesta trasmessa
al viceré, ma senza risultato); fece visita al giovane A.
Manzoni, che lo trattò con freddo distacco (e ne fu ferito
profondamente). In questo soggiorno, se non nel precedente della
fine di giugno 1804, ebbe modo di rivedere la statua della Venere
dei Medici, sottratta nel 1799 alla Galleria degli Uffizi e
collocata al Louvre.
Tra il 18 e il 19 marzo 1806 era a Milano, donde, a metà
aprile, raggiunse Venezia e poté riabbracciare la madre,
quasi sessantenne, e la sorella Rubina. Tornò anche a
frequentare Isabella Teotochi Albrizzi e si riaccese dell'antica
passione. Isabella ne accettò la corte, ma ne frenò
gli slanci in modo che l'amore restasse, insieme con le comuni
radici etniche, il sotteso filo di una confidenza profonda.
Il 21 giugno da Milano fece istanza onde ottenere la proroga del
soggiorno in Italia per altri due mesi: il che gli venne concesso.
Ricevette l'incarico di tradurre in italiano l'opuscolo Relation de
la bataille de Marengo…rédigée par le
général A. Berthier ministre de la Guerre; la
traduzione, approntata fin dal 1806, fu messa in circolazione solo
nel 1811. Di ulteriori incarichi si sa poco: il 22 luglio era a
Mantova per una non precisata commissione, ad agosto in Valtellina e
nel Bergamasco, onde visitare, a scopo militare, le miniere di
ferro; nel novembre difese dinanzi alla Corte militare un capitano
imputato di omicidio.
Ma, nonostante l'incombenza di scritture del genere e quella dei
viaggi d'ufficio, l'estate e l'autunno del 1806 furono per il F. un
periodo di creatività intensa, i cui risultati più
alti - I sepolcri e l'Esperimento di traduzione dell'Iliade - videro
la luce delle stampe, per opera dell'editore bresciano N. Bettoni,
nell'aprile 1807; rimasero invece fra le sue carte, destinati a
pubblicazione postuma, il sermone "Pur minacciavi all'imminente
danno", la cui divulgazione sconsigliavano ragioni politiche, e
l'Inno alla nave delle Muse, unico episodio realizzato del carme
Alceo. Forse a questo stesso arco cronologico va assegnata la
composizione di alcuni frammenti di poesia lirica e satirica, la cui
datazione resta incerta. Nulla, se pure qualcosa prese forma, ci
è pervenuto di un poemetto sui cavalli, di cui c'è
traccia in lettere dell'estate 1806 e del dicembre 1808.
La prima notizia concernente la composizione dei Sepolcri è
in una breve lettera che il F. indirizzava da Milano alla Teotochi
Albrizzi il 6 sett. 1806, accennando a un suo dissenso con lei e con
il Pindemonte sul tema della nuova opera poetica. Del carme tornava
a parlare ancora ad Isabella il 24 novembre.
È opinione vulgata, o quanto meno prevalente, che alla genesi
del carme offrisse impulso l'editto Della polizia medica, promulgato
da Napoleone a Saint-Cloud il 5 sett. 1806, cui si è
obiettato che i Sepolcri fossero stati composti prima della
pubblicazione dell'editto, che apparve a puntate, fra il 23
settembre e il 3 ottobre, sul Giornale italiano. Ma, compiuta una
prima stesura, il poeta continuò a lavorarvi intorno durante
l'autunno 1806 e oltre: il che ben permetteva di inserirvi il
riferimento all'editto napoleonico, tuttavia non da considerarsi
come la causa occasionale della loro genesi.
Certo il riferimento al Pindemonte non è marginale: la
discussione sul problema delle tombe dovette insorgere proprio
traendo spunto dal suo avviato poemetto I cimiteri. Tale discussione
avrebbe condotto il F. non ad abbandonare la tesi già da lui
sostenuta per quella dei suoi interlocutori, ma a dialettizzarla,
accogliendo e superando del pari i due diversi punti di vista.
I termini di tale dialettica sono non la concezione materialistica
del reale e lo spiritualismo trascendente, bensì la
inutilità e il valore della tomba, il cui contrasto si media
nel riconoscimento della sua inutilità per i morti e del suo
valore per i vivi. Si trattava di affermare il significato positivo
del culto dei morti - sia sul piano individuale sia su quello
sociale, nell'ambito delle famiglie come delle nazioni - alla luce
di una consapevolezza razionale che, a rigore, dovrebbe negarlo come
fondato su una illusione, riducendo la sepoltura esclusivamente a un
problema di igiene collettiva. Da questa consapevolezza il carme
approda a riconoscere le illusioni come valori: valori il cui
fondamento non è più ontologico e metafisico ma
psicologico e storico. L'idea della sopravvivenza alla morte
è il fondamento delle sepoltura. Negata come vita della
sostanza spirituale separata dal corpo, questa idea viene accolta su
un piano affettivo come sentimento che spoglia la morte della sua
disperazione. La tomba è, dunque, la condizione e, nello
stesso tempo, la conseguenza dello scambio d'amore tra i vivi e i
morti.
La struttura concettuale potrà dar conto della
complessità di questo carme: ma il suo fascino è
nell'incalzare delle immagini sotto l'onda di una dominata
commozione, nell'alternarsi sapiente dei toni, nella felice
varietà del ritmo. L'endecasillabo sciolto ora si snoda in un
isodinamismo incalzante, ora si inarca in giochi di echi e di
contrappunti, ora si allarga in una durata musicale che sembra
travalicare il suo limite, ora si snoda nella pacatezza
dell'andamento colloquiale.
L'opera, sin dall'apparire, suscitò diverse e vivaci
reazioni. A due mesi dalla pubblicazione apparve l'attacco
dell'abate Aimé Guillon, memorabile per l'immediata replica
del F. (Lettera a monsieur Guill… su la sua incompetenza a giudicare
i poeti italiani, Brescia 1807). Se alcune delle accuse caddero,
altre furono variamente riprese e articolate: in primo luogo quella
di una certa oscurità nella struttura concettuale e nei
trapassi; poi quella dell'insistenza in alcuni momenti su scene cupe
e orrorose; infine quella di una certa magniloquenza oratoria e
gnomica. Alla prima accusa il poeta oppose che la sua poesia
intendeva parlare alla fantasia ed al cuore e non all'intelletto,
secondo la lezione dei Greci, e che una certa oscurità non
è separabile dal sublime, secondo quanto avevano già
visto gli antichi. Ma giustamente la critica avrebbe poi ricondotto
questa oscurità non tanto al carattere alogico e fantastico
dei trapassi, quanto al coesistere, nella tessitura dei Sepolcri, di
un doppio linguaggio - l'uno della fantasia l'altro della ragione -
e quasi di un doppio genere, l'epistola didascalica di tipo
settecentesco e il carme lirico d'ascendenza pindarica. La
suggestione dell'onda emotiva e del rapido trascorrere di immagini,
nitide e potenti, cela o attenua il rilievo di certe movenze e di
certi nessi conformi più a un procedimento dimostrativo che
lirico.
Quasi contemporanea a quella dei Sepolcri la stampa dell'Esperimento
di traduzione della Iliade di Omero. L'editio princeps (Brescia
1807) offriva il primo libro del poema nella versione foscoliana in
sciolti con a fronte quella del Cesarotti in prosa; seguiva quella
del Monti anch'essa in sciolti. Il volume si apriva con un indirizzo
al Monti, in cui il F. indicava la ragione affettiva onde aveva
pubblicato, con la sua, la traduzione dell'amico; all'indirizzo
seguiva una premessa, Intendimento del traduttore, in cui era
tracciata una essenziale poetica del tradurre; ai testi poi
seguivano tre considerazioni, di cui la terza del F., Su la
traduzione del cenno di Giove.
Un puntiglioso lavoro di revisione e di affinamento
accompagnò la pubblicazione e proseguì dopo di essa,
stimolato anche dalle censure e dai suggerimenti sollecitati, onde
il risultato del 1807 venne liberandosi da certo affettato grecismo
lessicale e sintattico, da certi modi che, per sfuggire "il pedestre
e monotono" delle traduzioni ritenute fedeli, riuscivano "avventati
e cantanti", cioè i più alieni dallo stile omerico. Le
edizioni postume, quella di F. Caleffi (1835) e quella di M. Carrer
(1842), riprodotta questa nel 1856 da F.S. Orlandini, contaminarono
variamente il testo, procedendo per scelte e montaggi, sicché
il processo elaborativo restò sconosciuto, nella sua
compiutezza e nella sua scansione, fino all'edizione critica del
Barbarisi, che ricostruiva l'itinerario di questo strenuo impegno
artistico del F. dai primi agli ultimi esiti, riprodotti nelle varie
fasi e nei vari momenti della loro inquieta e complessa vicenda.
A metà gennaio 1807, durante un breve soggiorno a Brescia, il
F. ebbe occasione di conoscere una giovane gentildonna e di
innamorarsene. Era Marzia Maria Cipriana Provaglia, di nobile
casato, moglie del conte L. Martinengo Cesaresco. Di questo
rapporto, che ebbe la sua stagione felice nell'estate del 1807,
restano un centinaio di lettere del Foscolo.
All'inizio del 1808, nel Giornale della Società
d'incoraggiamento delle scienze delle lettere e delle arti,
apparvero due articoli del F.: il primo relativo all'orazione
pronunciata da G. Marocco ai funerali del generale P. Teulié,
il secondo dedicato alla traduzione fatta da G. Berchet in versi
italiani dell'ode Il bardo di Th. Gray. Nel maggio di quello stesso
anno vedeva luce, in un elegante in folio, il primo tomo delle Opere
di Raimondo Montecuccoli illustrate da Ugo Foscolo; il secondo, alla
cui preparazione il F. fu coadiuvato da altri (fra cui P. Borsieri e
U. Brunetti), avrebbe visto la luce nel luglio dell'anno successivo.
Filologicamente il lavoro è quanto meno discutibile: ma esso
va valutato per il corredo erudito e per la rivendicazione del
valore etico-politico delle opere italiane di cose militari.
Non gli mancarono frattanto pubblici riconoscimenti, il più
importante dei quali fu la nomina a professore di eloquenza presso
l'università di Pavia (decreto vicereale 24 marzo 1808) che
gli fece sperare in un cambiamento radicale di vita.
A creargli nuove inquietudini e preoccupazioni venne il successivo
decreto del 15 novembre, che comportava la soppressione di "tutte le
Cattedre… esistenti nelle Università per l'insegnamento de'
corsi del primo anno". Fu per solito ritenuto che la soppressione
della cattedra pavese di eloquenza avesse in mira di colpire ad
personam il F., il cui non piegarsi all'adulazione avrebbe irritato
Napoleone; in realtà la soppressione non concerneva una sola
disciplina o una sola università. Per l'anno accademico
1808-1809 si lasciava la facoltà di fare o non fare lezioni:
il F. optò per la prima scelta.
Pronunciò la prolusione, ove non erano tributati gli omaggi
d'uso all'imperatore, il 22 genn. 1809: numeroso il pubblico e
grande il successo (l'Orazioneinaugurale fu pubblicata a Milano nel
marzo 1809). L'articolato sviluppo assomma i principî
letterari ed etico-politici maturati dal F. nella riflessione che
aveva accompagnato la genesi dei Sepolcri. Tenne altre cinque
lezioni tra il 2 febbraio e il 6 giugno. Poco dopo pronunciò
il discorso Sull'origine e i limiti della giustizia, che svolgeva
una tesi già propugnata nell'Orazione: fondamento dei diritto
non sono norme universali e naturali, ma rapporti di forza che
trovano espressione nelle leggi positive.
Il soggiorno pavese non riuscì piacevole al F.: centro della
sua vita continuò ad essere Milano.
Sul finire del luglio 1808 fu a Como ospite del conte G. Giovio, e
Como e il suo lago furono, tra l'estate del 1808 e quella del 1809,
lo sfondo dell'amore infelice per la diciannovenne figlia del conte,
Francesca.
Più vivo nelle immagini delle Grazie che nelle testimonianze
epistolari - in questo caso lacunose e oscure - l'altro amore di
questo periodo, quello per la milanese Maddalena Marliani, moglie di
P. Bignami. Nel giugno 1809 il F. passò lunghe ore ogni
mattina accanto a una donna - senza dubbio la Bignami - gravemente
malata e di cui disperava la guarigione.
A partire dal 1810 fu oggetto di un sistematico attacco alla sua
persona e alla sua opera. In questo clima si colloca la rottura
dell'amicizia con il Monti. Nello scontro fu coinvolto il tipografo
Bettoni, che, risentito, rispose con l'opuscolo Alcune verità
ad U. F., in cui rinfacciava al poeta la ripetuta inadempienza degli
impegni economici. Gli si schierarono contro G. Lattanzi, L.
Lamberti, U. Lampredi. Intorno gli si stringevano vecchi e nuovi
amici, dei quali spesso ispirava il lavoro: Borsieri, S. e L.
Pellico, M. Leoni.
Dal febbraio agli inizi di ottobre 1812 attese alla composizione
dell'Ajace; un paio di settimane del marzo dedicò alla
preparazione della Difesa del comandante dei dragoni reali dinanzi
al consiglio generale d'amministrazione della guardia reale, in cui
confutava l'accusa di malversazione mossa al vecchio generale P.
Viani; il 7 aprile pubblicò sul Giornale italiano l'articolo
Per la nascita del re di Roma e, tra il maggio e il luglio, sugli
Annali di scienze, lettere ed arti, gli articoli Della poesia
lirica, Memoria intorno ai druidi ed ai bardi britanni, Degli
effetti della fame e della disperazione sull'uomo, Dello scopo di
Gregorio VII. Intanto ai primi di settembre del 1811 era stato
nominato revisore sotto il profilo stilistico delle opere teatrali
proposte, per la messa in scena, alla Compagnia reale. Ma di
lì a poco la rappresentazione dell'Ajace lo avrebbe messo in
difficoltà con le autorità governative, essendo stata
questa sua tragedia generalmente intesa come un più o meno
velato attacco al regime napoleonico.
L'Ajace, pur se ne traeva spunto, non era un calco della omonima
tragedia di Sofocle. La diversità nell'intreccio e nella
connotazione dei personaggi non nasceva da una semplice ricerca di
autonomia creativa, ma era il riflesso di un nuovo motivo di fondo:
lo scontro fra uno spirito libero e un signore assoluto, che
riproponeva ancora l'antinomia eroe-tiranno del teatro alfieriano.
Certamente la vicenda e i personaggi riflettono la reazione del
poeta alle vicende storiche a lui contemporanee, anche se solo la
malevolenza dei suoi avversari poteva giungere a vedervi un gioco
criptico, spinto fino a celare nelle antiche dramatis personae i
viventi protagonisti della politica europea. In realtà egli
non aveva rivestito di forme antiche uno squarcio di storia in
fieri, ma aveva evocato un'antica storia di ingiustizia e di morte
con l'animo turbato dai suoi tempi - erano avviati i grandi
preparativi per la campagna di Russia - e, naturalmente, nella
prospettiva di quelle convinzioni cui già la sua poesia aveva
dato voce.
L'Ajace fu messo in scena al teatro alla Scala il 9 dic. 1811; nella
replica della sera successiva vennero apportate alcune modifiche e
alcuni tagli, ma ciò non valse a far cadere le riserve: il
copione fu sequestrato e furono proibite ulteriori rappresentazioni.
Pochi giorni dopo il F. scrisse al viceré, dichiarando di non
avere avuto "la stolta intenzione di turbare un popolo che venera il
fondatore del regno d'Italia"; si addossava, comunque, ogni
responsabilità e ne scagionava i censori. Nella Lettera
apologetica si sarebbe soffermato sulle conseguenze derivategli
dalla recita dell'Ajace: per non esporre a pericoli il ministro
Vaccari e altri amici, raggiunse l'accomodamento di starsi "fuori
dal regno, ma non fuori d'Italia".
Dal Natale 1811 al 19 marzo 1812 fu a Venezia, quindi rientrò
a Milano, ove si ammalò; tra giugno e luglio trascorse un
periodo di vacanza a Belgioioso, ospite del vecchio principe
Alberico di Barbiano, e vi tornò nell'agosto successivo, ma
per pochi giorni.
"La salute e più il desiderio di quiete" lo spinsero a
lasciare la Lombardia: partì da Milano l'11 o il 12 ag. 1812,
diretto a Firenze, dove giunse il 17. Qui non gli mancarono amicizie
vecchie e nuove: i coniugi Orozco e i Cicognara, G.B. Niccolini,
l'avvocato L. Collini, Luisa Stolberg contessa d'Albany, che, dopo
una iniziale perplessità, lo ammise tra i frequentatori
abituali del suo salotto. Se il piglio autoritario di lei
colpì negativamente il F. sin dai primi incontri, pure ella
lo attraeva per la forte personalità, la cultura, il brio
della conversazione; e non gli era discaro l'amante di lei, il
pittore F.X. Fabre, né certo dispregiava la cerchia femminile
che allietava quel salotto: Isabella Roncioni, Eleonora Nencini,
Massimina Fantastici Rosellini, Quirina Mocenni Magiotti.
Senese, Quirina contava trentuno anni quando incontrò il F.:
se non bella, possedeva molta femminilità e delicatezza
d'animo; "donna gentile", così il F. usava rivolgersi a lei o
parlare di lei, e divenne antonomasia nella cerchia dei suoi amici e
presso i posteri. Ma di là dal rapporto che si circoscriveva
nell'intimità personale, va ricordata l'autentica stima
ch'ella nutrì per l'uomo e il poeta, da lei aiutato nei
momenti di difficoltà. E non fu solo attenta conservatrice
delle sue carte - quelle che egli le aveva affidato e quelle che
aveva recuperato -, ma anche procurò che venissero conosciute
e studiate: le mise, infatti, a disposizione di quanti si proposero
di scrivere la biografia del poeta o di curare la pubblicazione dei
suoi scritti - G. Mazzini, L. Carrer, E. De Tipaldo, E. Mayer, F.S.
Orlandini -, ella stessa poi si impegnò a ordinare e
trascrivere i frammenti delle Grazie, nel tentativo di predisporne
l'edizione.
Nella seconda metà di ottobre il F. si trasferì in una
casa presso al parco delle Cascine e all'Arno. Le sue condizioni di
salute non erano buone: nondimeno attendeva tutti i giorni al lavoro
letterario almeno per qualche ora. Aveva revisionato la traduzione
del Viaggiosentimentale dello Sterne ed era pronto a stamparla: ma
poi tornò a sottoporla ancora per tutto l'inverno a
correzioni e rifacimenti; accantonate le Grazie, cui aveva
cominciato ad attendere appena giunto a Firenze, era tutto preso
dalla tragedia Ricciarda, di cui al trasferirsi nel nuovo alloggio
aveva già steso il primo atto.
Con la primavera 1813 si trasferì a Bellosguardo. Seguirono
mesi di serenità spirituale e di felice attività
poetica. Pure le vicende politiche e militari di quello che sarebbe
stato il tramonto dell'età napoleonica non gli restavano
indifferenti ed estranee. Riferimenti continui alla campagna di
Russia si incontrano sin dai primi frammenti delle Grazie. Le
notizie dal fronte giungevano con ritardo, ma infine si vennero
precisando le dimensioni del disastro. Degli amici del F. perirono
durante la ritirata il colonnello G. Battaglia (per la sua vedova,
Lucietta Frapolli, il poeta sarebbe stato preso da una forte
passione), C.D. Del Fante, B. Giovio.
Da aprile a luglio il F. continuò ad attendere alle Grazie,
mentre in contemporanea lavorava alla Ricciarda, gettava giù
l'abbozzo di un nuovo Edipo, meditava un'altra tragedia, Bibli e
Cauno - ispirata a un episodio delle Metamorfosi ovidiane -,
componeva i capitoli A Pietro Rottigni, A Leopoldo Cicognara, Al
signor Zanetti. A giugno per i tipi dello stampatore Didot di Pisa
vide luce la traduzione del Viaggio sentimentale di Yorick lungo la
Francia e l'Italia. Alla traduzione seguiva la Notizia intorno a
Didimo Chierico, personaggio immaginario sotto cui il F. nascondeva
la propria identità, come lo Sterne aveva fatto con il
personaggio shakespeariano. Il nome Didimo era probabilmente quello
del grammatico alessandrino del primo secolo.
Il ricordo del disappunto del viceré per l'Ajace e della
promessa fattagli di sottoporgli una nuova tragedia lo incalzava a
concludere la Ricciarda, che terminò il 5 giugno; il 29
luglio era a Milano. Da Firenze aveva inviato al ministro degli
Interni, L. Vaccari, onde ottenerne il beneplacito per la stampa, un
frammento di 115 versi intitolato Il rito delle Grazie, che avrebbe
dovuto figurare, secondo il progetto ancor fluido, nell'inno terzo
del carme. Si trattava di un collage di passi diversi, volto ad
elogiare la coppia vicereale. Con rescritto del giorno 27, il
principe Eugenio autorizzò il F. a comprenderli nel suo
poema; il 19 agosto ottenne il permesso per la rappresentazione
della Ricciarda.
Solo nell'ultima decade di agosto gli fu possibile lasciare Milano.
Fece un giro per rivedere luoghi e amici in terra lariana e, a
Milano, fece visita a Lucietta Frapolli (e fu per i due un incontro
fatale); poi, tornato a Firenze, scrisse alla madre rammaricandosi
per la promessa non mantenuta di riabbracciarla, che giustificava
con la mancanza del denaro per il viaggio.
Il 12 settembre era a Bologna per seguire l'allestimento della
Ricciarda, che andò in scena la sera del 17 al teatro del
Corso, con lui stesso costretto a improvvisarsi capocomico.
Rientrato nella villa di Bellosguardo, riprese il lavoro delle
Grazie: probabilmente già nell'ultima decade di settembre
cominciò a redigerne la bella copia in un fascicolo che per
l'ampio formato sarà denominato "Quadernone". In questa fase,
il F. si concentrò fondamentalmente nell'impegno della
revisione e nei tentativi di colmare le lacune che interrompevano la
continuità poematica. Intanto, nei meno di due mesi in cui
restò ancora a Firenze, nuovi episodi prendevano forma e
altri nel successivo soggiorno a Milano.
Scandita nei vari suoi momenti, la genesi delle Grazie viene a
restringersi ad un ambito cronologico, i cui termini estremi vanno
dall'ultima decade di agosto del 1812 all'incipiente primavera del
1815, con una serie di intervalli che in realtà riducono
l'effettivo lavoro ad alcuni mesi, ai quali poco aggiunge il periodo
in cui, nel 1822, furono ritoccati alcuni frammenti per complessivi
184 versi e fu stesa, anche utilizzando e fondendo sparsi appunti di
circa un decennio prima, quella ragion poetica che, nella traduzione
inglese di Ph. Hunt e sotto il titolo di Dissertation on an ancient
hymn to the Graces, fu inclusa, insieme con i versi, nell'in folio
destinato ad illustrare la raccolta di sculture di John Russell
sesto duca di Bedford (Outline engravings and descriptions of the
Woburn Abbey Marbles, [London] 1822).
Schematicamente può così epitomarsi la più
ampia redazione continua del carme, quella del "Quadernone": sul
colle di Bellosguardo il poeta elegge il luogo del suo culto
domestico, consacrando un'ara alle tre dee; al rito in loro onore
è invitato A. Canova, che attende a raffigurarle in un gruppo
marmoreo.
Alle Grazie preesisteva, col Fato, l'imperioso dominio di Giove,
Nettuno, Amore; Venere, inizialmente identificata con la Natura,
semplice forza fecondatrice del mondo, fu poi, sotto vari nomi e con
riti diversi, celebrata dagli uomini, che ella, pietosa per il loro
infelice destino, affidò alla tutela delle Grazie. Si apre
quindi lo scenario dello Ionio, ove Venere appare con le Grazie:
è lo spunto per il saluto a Zacinto.
Segue la scena delle Oceanine emergenti dalle profondità
marine a far festa alle Grazie. Sul lido di Citera alcuni prodigi
simbolici, da cui trarranno origine certi riti, accompagnano il
passaggio di Venere e delle sue figlie. L'apparizione delle Grazie
segna l'abbandono dei costumi selvaggi nell'isola dei feroci
cacciatori, cui erano ignoti il culto degli dei, i matrimoni,
l'agricoltura.
A questo punto lo svolgimento continuo, che avrebbe dovuto
rappresentare il viaggio delle Grazie attraverso la Grecia, si
frattura di interruzioni; l'esigenza narrativa dovette scontrarsi
con quella lirica, evocatrice di suggestioni fantastico-emotive
esaurite in un loro concluso giro. Ai versi evocanti, sulla scia
omerica, località e paesaggi greci, avrebbero dovuto seguirne
altri, concernenti il primo altare consacrato alle Grazie ad
Orcomeno, l'inno che vi cantò un coro di fanciulle e di
giovinetti (inno che mai prese forma), la loro metamorfosi in
divinità agresti. La stesura riprende con l'episodio del
Silvano che si apre con una scena mitico-pastorale in una campagna
meridiana sullo sfondo di Firenze e prosegue con una serie di
disegni evocanti il mondo boccaccesco: Fiammetta al bagno,
l'impudico Dioneo, la genesi del Decameron, dettato da
divinità antagoniste delle Grazie, da cui la condanna del
poeta. Ma l'insorgere di un nuovo disegno strutturale destinava
l'episodio a un tratto del secondo inno, ove l'arte del Boccaccio
sarebbe stata celebrata con quella di Dante e Petrarca. Del viaggio
in Grecia segue il tratto conclusivo dedicato al congedo di Venere
dalle Grazie.
Con l'inno secondo ha inizio il rito di Bellosguardo: nell'invito ai
giovani si insinua l'ombra della guerra presente e della tristizia
dei tempi che inaridiscono le scienze separandole dalle lettere.
Segue l'evocazione di Galilei. All'ara di Bellosguardo verranno
ministre tre sacerdotesse, simboleggianti la musica, la poesia, la
danza. A dare inizio al rito è la suonatrice d'arpa: dal
seducente disegno della donna i versi trascorrono al senso espresso
dall'armonia, che esalta gli affetti temperati - gioia e
pietà, diletto e affanno - fra cui si muove il mondo umano
improntato dalle Grazie. Il suono dell'arpa che va smorzandosi in
lontananza suscita per analogia l'evocazione dell'alba sul Lario.
L'offerta rituale sposta l'inquadratura sui giardini di Pitti e dai
giardini di Pitti ai teatri fiorentini e poi ad un fuggente profilo
femminile, la ninfa di Pratolino. Lo svolgimento procede con
l'elogio dei fiori, nella cui tessitura sono stati individuati
spunti del Poliziano. Tormentato il trapasso che collega questo
episodio a quello della seconda sacerdotessa, recante all'ara di
Bellosguardo un favo, a ricordo del miele di cui le api di Vesta
fanno tesoro alle Grazie. Inutilmente l'Imetto le richiama da quando
esse seguirono le Muse che abbandonarono la Grecia caduta sotto il
dominio turco. Qui è collocato un frammento sull'origine
della rima, ricondotta alla lacrimevole storia di Eco consunta
dall'amore per Narciso. Chiude l'inno l'episodio dedicato alla
danzatrice, terza sacerdotessa, che si interrompe nella parte
finale, intesa a delinearne l'immagine nel moto del ballo (parte che
si trova compiuta fra le stesure non accolte nel "Quadernone"): fra
l'apertura e l'interrotta chiusa si articola un ampio svolgimento
dedicato all'offerta votiva del cigno e alla preghiera della
viceregina Amalia per il marito in guerra.
Del terzo inno, nel "Quadernone" figurano solo 24 versi: siano tre
gli inni, quale il numero delle Grazie, ed armonizzino le favelle
greca, latina, italiana. Dopo un cenno ad Anfione, segue la
raffigurazione della poesia pindarica e di quella catulliana.
La bella copia autografa del "Quadernone" fu preceduta da stesure i
cui esiti confluirono, variamente elaborati e strutturati, nella sua
compagine e da stesure i cui esiti ne restarono, o tutti o in parte,
fuori; ed è seguita da stesure concepite per integrare e
condurre a compimento il testo in essa accolto. Alcuni dei frammenti
restati fuori dal concatenato sviluppo non solo raggiungono
un'autenticità poetica in sé compiuta, ma anche della
poesia delle Grazie, nel suo particolare afflato, costituiscono
autentica espressione: tali il breve squarcio evocante Saffo; la
Fiamma di Vesta; la Vergine romita; i Versi di saluto alla Bignami,
che il poeta pensò, forse con una scelta momentanea poi
abbandonata, di collocare a chiusura di tutto il carme; l'Erinne,
quadro a tinte fosche dell'aurora boreale.
Due ampi episodi, non solo precedono e seguono, ma anche
attraversano il "Quadernone", nel senso che, parzialmente accoltivi
da preesistenti stesure, furono in seguito rielaborati ed ampliati:
il Viaggio in Ellade e i Silvani. Presero invece forma prima e dopo,
ma non vi figurano, i Versi del velo, destinati a costituire la
parte più ampia e centrale dell'inno terzo. Questi versi
ricevettero l'ultima finissima revisione nel 1822, quando furono
destinati a figurare, nel già ricordato in folio del duca di
Bedford, a fronte delle due incisioni del gruppo canoviano delle
Grazie eseguite da H. Corbould. Li precedeva, nel disegno
complessivo dell'inno, l'evocazione dell'Atlantide, terra felice da
cui gli uomini furono scacciati perché divenuti oziosi e
lascivi e ingrati agli dei. L'estenuarsi della ricerca poetica in
tentativi inquieti di rifacimento predomina nel Viaggio delle api,
che vuol rappresentare, riprendendo il disegno dell'Alceo, il
passaggio della civiltà letteraria e artistica dalla Grecia
in Italia.
Con l'avanzare dell'ottobre 1813, per l'invasione del Trentino da
parte dell'esercito austriaco, il F. temette di rimanere diviso
dalla famiglia: questo rischio e il suo senso dell'onore lo
spinsero, il 15 novembre, a partire per Milano. Destinato a
riprendere le funzioni di capitano aggiunto presso lo stato
maggiore, rimase a Milano per una infermità. Corsero voci
maligne sulla sua condotta: si insinuò che egli fosse a parte
dei segreti del re di Napoli, e che addirittura lo avesse incontrato
a Firenze. Verso la metà di aprile era a Mantova, ove
partecipò a una riunione di ufficiali che si proponevano di
salvare il Regno italico dal crollo napoleonico. Nei tumulti
scoppiati a Milano il 20 di quel mese, e culminati nell'eccidio del
ministro L. Prina, si trovò in mezzo ai rivoltosi, che
cercò di ricondurre alla ragione correndo pericolo di vita:
per questo atto di coraggio il 26 ricevette la nomina a
capobattaglione. Il 22 stese un Ordine del giorno alla guardia
civica, in cui esortava i soldati del Regno Italico a porsi agli
ordini del generale D. Pino; il 27 partì per Genova onde
avere un colloquio con il tenente generale R. Mac Farlane, cui
intendeva chiedere l'appoggio inglese alla causa dell'indipendenza
del Regno Italico. Nell'incontro, che poté aver luogo solo
pochi giorni dopo a Milano, venne sconsigliato dall'intraprendere
qualsiasi azione.
Inviato come portaordini presso le truppe di stanza a Cremona,
Bozzolo e Bergamo, poi a Bologna, da dove avrebbe voluto proseguire
per Firenze fu, invece, costretto a rientrare a Milano, ove
avvertì di correre reali pericoli, avendo contro non i nuovi
dominatori, gli Austriaci, ma i suoi stessi concittadini (gli uomini
che avevano ordito il tumulto del 20 aprile). Per difendersi dalle
insinuazioni e dalle accuse, scrisse, il 20 maggio, al presidente
della Reggenza, C. Verri, e al direttore generale di polizia. Lo
stesso giorno ebbe un colloquio con il comandante delle truppe
austriache H. de Bellegarde, che gli assicurò la sua
protezione. Con un dispaccio del 25 il generale G.B. Bianchi d'Adda
lo destinò a Montichiari agli ordini del colonnello F.
Bonfante, ma il giorno successivo un contrordine lo assegnava allo
stato maggiore generale.
I mesi seguenti gli concessero qualche possibilità di
raccoglimento e di studio, anche se lo tormentava l'incertezza del
futuro. Dall'ultima decade di luglio a tutto agosto attese di nuovo
al lavoro delle Grazie, continuato, fra intervalli e disagi che gli
inaridivano la vena creativa, fino all'autunno.
Intanto cominciava a circolare per la città, nonostante il
sequestro, un libello anonimo, datato Parigi 1814, che affrontava un
tema di immediato interesse: Sulla rivoluzione di Milano seguita nel
giorno 20 aprile 1814. L'anonimo autore (il senatore L. Armaroli)
tracciava la storia della fine del Regno Italico, non senza acume ma
anche non senza acrimonia, spinta sino a giudizi oltraggiosi verso i
generali L. Mazzucchelli, G. Dembowski, D. Pino, F. Confalonieri e
lo stesso Foscolo. Il quale, non diversamente dagli altri, decise di
rispondere e pose mano ai Discorsi della servitù dell'Italia,
che né allora né nell'esilio svizzero sarebbe riuscito
a completare.
Non opportunismo ma incertezza sul ruolo da giocare nelle mutate
condizioni politiche lo indusse ad avvicinarsi agli Austriaci e ad
accogliere la proposta di redigere un progetto di giornale
letterario, di cui egli avrebbe avuto la direzione. All'inizio di
aprile 1815 il progetto ricevette il placet viennese: ma non se ne
fece nulla, perché già nella notte fra il 30 e il 31
marzo il F. aveva lasciato Milano, dirigendosi verso la Svizzera.
Sul punto di partire aveva comunicato alla famiglia la propria
decisione - su cui ebbe comunque peso la coscienza dell'errore di
venirsi legando agli Austriaci - e il motivo che ve lo aveva spinto:
il non volere prestare il giuramento di obbedienza all'Austria al
quale era tenuto come ufficiale.
La sera del 1° aprile giunse a Lugano, il 4 passò a
Roveredo nei Grigioni. Tra l'inizio di maggio e la fine di agosto si
spostò continuamente (ma talora le località che
figurano nelle intestazioni delle lettere sono fittizie); verso la
metà di ottobre era a Hottingen.
Tra l'agosto e la fine dell'inverno si colloca il rapporto che lo
legò a Veronica Römer Pestalozza. La vicenda di questo
amore è burrascosa: il musicista G. Sorelli accese la gelosia
del F. e, prima fu da lui diffidato, con minacce, di non mettere
piede in casa della donna, poi denunziato al marito di esserne
l'amante.
I primi tempi del soggiorno svizzero furono duri e drammatici per il
F.: gli amici d'Italia, tranne pochissimi, diradarono la
corrispondenza o tacquero del tutto; scrivendo era costretto a
servirsi di date false, di pseudonimi, di una specie di oscuro gergo
mercantile; dovette spostarsi continuamente per sfuggire agli agenti
messi sulle sue tracce dagli Austriaci. Poi intervennero a suo
favore il governatore C.A. Marca e il conte G.A. Capodistria, al
servizio dello zar di Russia, che aveva molto credito nella
Confederazione Elvetica.
In questo clima più disteso riprese, non senza le dovute
cautele, a stampare qualche suo lavoro. Nel novembre attese a
raccogliere e postillare una serie di sonetti italiani: risulteranno
alla fine ventisei di altrettanti autori, da Guittone a se stesso
(In morte del fratello Giovanni), che pubblicò a Zurigo, con
il titolo di Vestigi della storia del sonetto italianodall'anno MCCC
all'anno MDCCC, in tre soli esemplari destinati a Quirina Magiotti,
Susetta Füssli e Matilde Viscontini Dembowski. Tra aprile e
giugno del 1816 stampò, sempre a Zurigo (ma Pisis, in Aedibus
Sapientiae, 1815), una satira, l'Hypercalypseos liber singularis, in
104 esemplari, dei quali dodici hanno il titolo preceduto da Didymi
Clerici, e solo questi hanno la Clavis Hypercapseos che rivela
l'identità dei personaggi satireggiati (i
letterati-cortigiani del Regno Italico).
Il terzo libro pubblicato in Svizzera è l'Ortis (Zurigo 1816,
ma Londra 1814): non si tratta di una semplice ristampa, qua e
là riveduta, del testo 1802, bensì il processo
elaborativo viene a riflettere l'esperienza degli anni trascorsi. In
questa edizione il romanzo è corredato da una Notizia
bibliografica che si estende per oltre un centinaio di pagine: per
la stesura di questa e per la messa a punto della stampa poté
avvalersi della cooperazione di A. Calbo, il giovane poeta greco
già suo collaboratore a Firenze, che, sollecitato da Quirina
Magiotti, lo aveva raggiunto a Hottingen il 9 giugno. Una decina di
giorni dopo l'arrivo del Calbo si trasferì con lui a Zurigo.
Il 17 agosto 1816 era a Basilea; alla fine del mese a Francoforte
sul Meno e il 7 settembre si fermò a Ostenda, in attesa
dell'imbarco per l'Inghilterra.
Giunse a Londra il 12 sett. 1816 e prese alloggio al
Sablonière Hotel a Leicester e poi, per un intero anno, in un
appartamento a Soho. Le prime sensazioni del nuovo paese furono
piacevoli: gli accresceva la tensione vitale la consapevolezza di
essere a un bivio ("io in questa terra troverò presto o il
cataletto, o il carro trionfale": Ed. naz.…, Epistolario, VII, p.
48) e lo scoprire di non esservi sconosciuto.
Tra i primi ad aiutarlo nell'impatto con il nuovo paese fu W.S.
Rose, conosciuto a Milano due anni prima, il quale, nelle sue
Letters from the North of Italy, presenterà il F. come il
più grande degli Italiani viventi.
Il 22 settembre era stato introdotto dal lucchese G. Binda, che vi
svolgeva mansioni di segretario, a Holland House, presso lord H.R.
Fox, terzo barone Holland. Holland House era uno dei più
famosi cenacoli politico-culturali londinesi; nel F. i padroni di
casa e i loro amici, la élite del partito whig, ammiravano la
celebrità letteraria ma onoravano anzitutto il patriota e
l'uomo libero, che non si era piegato né agli Austriaci
né, prima, a Napoleone.
Qui il F. ebbe modo di stringere rapporti con uomini di primo piano
nella vita culturale e politica inglese, fra gli altri vi conobbe
anche lo storico e letterato H. Hallam, la cui opera, A view of the
state of Europe during the Middle Ages (1818), non restò
estranea ai suoi studi danteschi; J. Mackintosh, poligrafo dai
prevalenti interessi storici e filosofici, che si sobbarcò
alla traduzione del primo articolo del F. su Dante; il poeta S.
Rogers. A lui il F. si rivolse, pregandolo di intervenire presso
l'editore J. Murray, per accertare se fosse disponibile a stampare,
e a quali patti economici, un'opera cui stava attendendo, le Lettere
scritte d'Inghilterra, destinata a restare incompiuta e
frammentaria. Ancora attraverso la mediazione dei coniugi Holland,
entrò in rapporto di amicizia con un innamorato del mondo
classico, R. Payne Knight, che il F. ricorderà con commosse
parole, dopo la sua scomparsa, nel Discorso sul testo della Commedia
di Dante.
Tra il 1817 e il '21 il F. cambiò varie volte dimora,
alloggiando per lo più in case confortevoli. Si infittivano i
suoi rapporti con personaggi ragguardevoli della vita politica e
culturale inglese, con uomini e donne del bel mondo, con famiglie
ospitali: se in alcuni momenti progettava di lasciare l'Inghilterra,
o per un ritorno a Firenze o per una sistemazione nelle isole Jonie,
poi sentiva il rammarico di dover abbandonare un ambiente che sotto
vari profili lo coinvolgeva. Tra il maggio e il giugno 1817 il
proposito di trasferirsi nelle Isole sembrò farsi più
concreto, anzitutto come una via di uscita dalle necessità
economiche. Ad accrescere la tristezza di questi mesi incerti fu la
morte della madre, avvenuta a Venezia il 28 aprile: ma la notizia
gli pervenne un mese più tardi. Il fratello Giulio gli
comunicò di essere in procinto di partire per l'Ungheria (ma
la partenza avverrà solo nel 1822) e la sorella gli chiese
aiuto finanziario.
Ma ben presto l'idea di lasciare l'Inghilterra venne abbandonata,
ufficialmente per un'infermità causatagli da una caduta da
cavallo. Di fatto ragioni più profonde lo trattenevano: gli
amici, nobili e colti, dai quali era apprezzato e aiutato; lo
spirito indipendente e liberale - tanto a lui congeniale - che
improntava il loro impegno politico; la speranza di trarre profitti
economici scrivendo per le riviste, anche se un lavoro del genere di
carattere continuativo gli creava due fondamentali disagi: il dovere
fornire testi in francese, in quel suo francese irregolare e
barocco, ai traduttori inglesi che per lo più non intendevano
l'italiano; e il dovere ricorrere a copisti, il più delle
volte poco puntuali e inaffidabili.
Tra le persone cui più si legò fu il vecchio R.
Wilbraham, un raffinato epicureo e bibliofilo di molta erudizione,
le cui tre nipoti - Anna, Eliza, Emma - e la loro cognata Julia
Montolieu non disdegnavano far compagnia al poeta famoso e
accettarne la corte. Dal Wilbraham venne presentato, il 23 marzo
1818, a J.C. Hobhouse, intimo amico di Byron, di cui veniva
annotando il quarto canto del ChildeHarold. Per una nota di tale
lavoro, ormai prossimo alla pubblicazione, questi chiese la
collaborazione del F.: si trattava di dare notizia dello stato
presente della letteratura italiana, compito che gli appariva, come
allo stesso Byron, insidioso per uno straniero.
Ne venne fuori sotto il nome dello Hobhouse il foscoliano Essay
onthe present literature of Italy, che dovette essere
originariamente steso in italiano. Per l'ampiezza andava ben oltre
la richiesta e si presentava così suddiviso: a una premessa
si accompagnavano i profili di sei scrittori (Cesarotti, Parini,
Alfieri, Pindemonte, Monti e il F.) seguiva poi una breve
conclusione, in cui la polemica classico-romantica veniva definita
"idle enquiry". Tale giudizio, di cui lo Hobhouse si addossò
la paternità, spiacque in Italia, specie a L. di Breme, che
fiutò il vero autore del saggio. Al certo la divulgazione del
falso avrebbe nociuto allo Hobhouse ma più al F., sia
perché in alcune biografíe (quelle del Pindemonte e
del Monti) vi erano apprezzamenti che sarebbero potuti apparire
rancorosi, sia perché - ed era il peggio - egli gabbava per
biografia scritta da altri una sua autobiografia in terza persona.
Tra i due insorsero reciproci sospetti, che contribuirono a far
naufragare un altro progetto di lavoro comune concernente la storia
degli avvenimenti d'Italia a partire dal 1795.
Anche negli anni inglesi la vita del F. fu accompagnata da molte
presenze femminili che intrecciarono con lui rapporti di amicizia e
di galanteria mondana; fra le tante, la moglie del futuro lord
Melbourne e amante del Byron, lady Caroline Lamb, con cui ebbe un
intrigo passionale e burrascoso, documentato dai biglietti
indirizzatigli fino al 1823. Un affetto protettivo nei confronti del
F. ebbero due donne di non comune ingegno: lady Maria Graham, nota
per i suoi libri di viaggio - che avrebbe dovuto tradurre i saggi
foscoliani sul Petrarca, ma la sua partenza per il Sudamerica fece
cadere il progetto -, e lady Barbarina Oyle Wilmot che in seconde
nozze sposò Th. Brand Dacre, fra le donne più colte
del suo tempo, la quale accoppiava alle doti della mente una rara
finezza di sentimenti, come può vedersi dalle lettere scritte
al F., di cui avvertì la grandezza ma insieme quei difetti
del carattere che ne dissipavano spesso la vita.
Intanto, a parte la ristampa dell'Ortis (1817) e della Ricciarda
(1820), videro la luce i suoi articoli storico-critici, che gli
fruttarono buoni compensi (sui quali fece calcoli avventati, fidando
in una continuità che né lui né gli editori
potevano assicurare): sulla Edinburgh Review nel 1818 apparvero i
due articoli su Dante; nel 1819 quelli su Pio VI e sulla cessione di
Parga al pascià di Giannina (quest'ultimo ebbe particolare
eco); nello stesso anno la Quarterly Review pubblicò il
saggio Narrative, and romantic poems of the Italians.
All'inizio del 1821 vide la luce, nella stessa rivista, l'articolo
Petrarch and Laura, cui seguì nell'incipiente primavera
l'elegante edizione non venale degli Essays on Petrarch, la cui
composizione s'intrecciò con la passione amorosa, non
corrisposta, per Caroline Russell, figlia di sir Henry. L'esemplare
donato a Caroline recava stampati in apertura i versi To Callirhoe,
sotto il cui nome era celata l'identità di lei (sono i soli
versi inglesi che si hanno del F. e alla loro elaborazione
offrì alcuni suggerimenti il poeta J.H. Meriuvale). Gli
Essays on Petrarch videro poi luce in edizione venale nel 1823 (nel
'24 sarebbero apparsi a Lugano nella traduzione italiana di C.
Ugoni).
Nel corso del 1821 apparvero nel New Monthly Magazine tre articoli
(Learned ladies; Hamlet; An account of the Revolution of Naples
during the years 1798, 1799); nell'ottobre sulla Antologia di
Firenze apparve, per interessamento e cura di Gino Capponi, la
traduzione del terzo libro dell'Iliade.
Frattanto la morte di lady Mary Hamilton, presso cui viveva la
bambina nata dalla relazione della di lei figlia Sophia con il F.,
offrì al poeta la possibilità di liberarsi dalle
preoccupazioni economiche. Ora egli accettava di prendere con
sé la ragazza (la "little Mary", da lui ribattezzata
Floriana), che gli recava un legato di 3.000 sterline. Questa
improvvisa ricchezza, male amministrata, gli sarebbe stata causa di
rovina. Infatti egli investì il denaro in un contratto che lo
faceva temporaneo proprietario di tre villini, il Green, il Kappa e
il Digamma cottage: avrebbe subaffittato i primi due a scopo di
lucro, tenuto il terzo per sé come confortevole dimora di
vita e di studio. Vi si trasferì nell'ottobre 1822.
Intanto il fallimento dei moti del '21 aveva portato a Londra molti
esuli italiani: il F. ebbe così modo di rivedere e
frequentare antichi conoscenti (L. Porro Lambertenghi, G. Berchet,
S. De Rossi conte di Santarosa, G. Scalvini, C. e F. Ugoni, G.
Pecchio, F. Dal Pozzo: alcuni saranno subaffittuari delle sue
villette).
Se con alcuni di loro i rapporti restarono improntati a una
confidente amicizia, con altri non furono sempre idilliaci e non
solo per la sua nota impulsività di carattere: diverso era,
da parte del F., il modo di giudicare, in un'ottica di disincantato
realismo politico, le cospirazioni e i tentativi rivoluzionari nel
Lombardo-Veneto. Del resto la conoscenza ravvicinata del sistema
parlamentare inglese, l'attenzione alle lotte politico-sociali di
quel popolo, la consapevolezza che moti senza possibilità di
successo solo inasprissero il governo dei dominatori, lo rendevano
ora critico verso le cospirazioni: di qui il giudizio risentito del
Confalonieri sul ruolo che egli svolgeva a Londra, dannoso per la
causa italiana.
Fecondo di operosità fu il periodo che trascorse tra il 1822
e il '23 nella bella casa nel pressi del Regent's Park, cui aveva
dato il nome di Digamma - la lettera sparita dall'alfabeto greco
alla quale aveva dedicato una defatigante ricerca apparsa nella
Quarterly Review (aprile '22) - : pubblicò sul New Monthly
Magazine gli articoli su Michelangelo, Federico II e Pier delle
Vigne, Guido Cavalcanti, la poesia lirica del Tasso;
collaborò al già ricordato volume che illustrava la
raccolta di marmi del duca di Bedford. Purtroppo il lavoro per gli
editori si rivelava più difficoltoso e meno remunerativo del
previsto e il suo spirito indipendente vi si adattava a fatica;
d'altro canto il farsi insegnante di lingua italiana gli sembrava,
per un suo strano pregiudizio, servitù che lo avrebbe escluso
dalla cerchia aristocratica da cui si sentiva accolto in quanto
ritenuto gentiluomo.
Tra il 6 maggio e il 24 giugno 1823 tenne pubbliche letture, il cui
ricavato economico gli offrì un qualche respiro: quattro di
esse - dedicate rispettivamente alla critica della poesia, allo
sviluppo della lingua italiana, alla prima (1180-1230) e alla
seconda epoca (1230-1280) della letteratura italiana -, rielaborate,
apparvero dal luglio all'ottobre dell'anno successivo nella European
Review; restarono fra i suoi manoscritti la stesura concernente
altre tre epoche, fino alla quinta dedicata al Cinquecento, e schemi
ed appunti che portavano il discorso fino alla letteratura
settecentesca.
Ma all'ostinato impegno di lavoro si accompagnavano vicissitudini
che rendevano triste il suo declino: i debiti contratti per
l'arredamento della casa non erano certo arginati da un misurato
tenore di vita. Incalzato dai creditori, fu costretto, all'inizio
del 1824, a lasciare il Digamma cottage; l'anticipo ricevuto
dall'editore W. Pickering per una collana di classici italiani, di
cui si era impegnato a fornire dai quattro ai sei volumi l'anno, gli
permise una transazione, onde in agosto poté uscire dalla
clandestinità (aveva cambiato dimora, nascondendosi sotto
falsi nomi) e ritornare nella sua villetta, che lasciò
definitivamente nel novembre di quell'anno.
Riprese la peregrinazione e l'anonimato, che non gli impedirono di
attendere all'edizione del Decamerone (apparve nel 1825 in tre
volumi e vi era premesso il Discorso storico sul testo del
Decamerone) e a quella del poema dantesco (sempre nel '25
uscì il primo volume, che comprendeva il Discorso sul testo
della Commedia di Dante): nel marzo del 1827 consegnò
all'editore il testo dell'Inferno con le sue chiose di carattere
filologico (sarebbe stato pubblicato solo nel 1842 dal Rolandi, per
interessamento di G. Mazzini, che ne aveva riscattato il manoscritto
e si era sobbarcato al commento delle altre due cantiche,
attribuendo il suo lavoro al Foscolo).
Nel Discorso non solo si assommano e approfondiscono le precedenti
intuizioni critiche foscoliane su Dante (dagli articoli del 1818, al
quarto degli Essays on Petrarch, alle Epoche della lingua italiana),
ma anche compare un pensiero nuovo e originale: che la Commedia sia
il bando di un rinnovamento religioso, di una rinascita cristiana
del mondo. Profeta e apostolo di questa reviviscenza evangelica
è il poeta stesso, che vi si consacra "con rito sacerdotale
nell'altissimo de' Cieli". Del cattolicesimo egli accetta i dogmi, i
riti e anche la gerarchia, purché ristretta nei confini dello
spirituale. Il viaggio nell'oltremondo non è una finzione
poetica, ma una visione vera, come quelle di s. Paolo e
dell'Apocalisse. Nella predominante passione religiosa il F. vede la
forza che unifica tutte le altre passioni di una personalità
straordinaria e dei tempi che la esprimono. E siccome egli,
vichianamente, pensa che l'originalità di un ingegno poetico
risulti in gran parte dalla originalità dei suoi tempi,
illustrare i tempi di Dante significava in definitiva illustrarne la
poesia. Di qui il disegno - lucidamente concepito, ma cui si
opposero le sventure e la morte - di far precedere a ciascuna
cantica del poema un saggio dedicato, rispettivamente, alla vita
politica, alle condizioni artistiche, allo stato della Chiesa tra la
fine del XIII e l'inizio del XIV secolo.
Agli inizi del 1825 pose mano a quella appassionata autodifesa della
sua condotta politica e morale, che è la Lettera apologetica;
nel corso del 1826 e nella prima metà del 1827
intensificò il suo lavoro per i periodici culturali (London
Magazine, Retrospective, Westminster, Edinburgh Review); vi videro
luce gli articoli sull'encausto, sulle donne italiane, su
Michelangelo, su antiquari e critici, sul poema del Tasso, sul
Casanova, sulla costituzione di Venezia. Intanto mutava
frequentemente alloggio tra la città e i sobborghi, accettava
di insegnare l'italiano in una scuola quacchera a Stoke Newington e
di dare lezioni private. Il successo nei circoli aristocratici e
colti di Londra, la vita agiata e il lavoro redditizio, i piacevoli
incontri con uomini e donne variamente interessanti, erano ormai
solo un ricordo. Egli sperimentò anche il disonore del
carcere per debiti, sia pure per qualche giorno soltanto. Non gli
mancavano la solidarietà e l'aiuto di alcuni amici: era
partecipe dei suoi studi A. Panizzi; lo aiutava economicamente il
banchiere H. Gurney, gli erano vicini F. Mami e G. Bossi, gli
diventò familiare il canonico M. Riego, cui lascerà le
sue carte.
Con l'estate del 1827 si aggravò l'idropisia che lo aveva
colpito. Operato inutilmente due volte, si spense la sera del 10
settembre. La salma fu tumulata nel cimitero di Chiswick, il
sobborgo londinese, ove da ultimo aveva preso dimora. Nel 1871 i
suoi resti vennero portati in Italia e sepolti nella chiesa
fiorentina di S. Croce.