Quaderno 10b

1932-1935

 

Nota di lettura (vedi Quaderno 10)

 

Griglia tematica

 

Storia

Politica

Filosofia

Materialismo storico e filosofia della prassi

Religione

Storia

Storiografia

§6 Croce e la tradizione storiografica italiana. Si può dire che la storiografia del Croce è una rinascita della storiografia della Restaurazione adattata alle necessità e agli interessi del periodo attuale. Il Croce continua la storiografia della corrente neoguelfa di prima del 48 come fu irrobustita attraverso l’hegelismo dai moderati che dopo il 48 continuarono la corrente neoguelfa. Questa storiografia è un hegelismo degenerato e mutilato, perché la sua preoccupazione fondamentale è un timor panico dei movimenti giacobini, di ogni intervento attivo delle grandi masse popolari come fattore di progresso storico.

È da vedere come la formula critica di Vincenzo Cuoco sulle «rivoluzioni passive», che quando fu emessa (dopo il tragico esperimento della Repubblica Partenopea del 1799) aveva un valore di avvertimento e avrebbe dovuto creare una morale nazionale di maggiore energia e di iniziativa rivoluzionaria popolare, si convertì, attraverso il cervello e il panico sociale dei neoguelfi‑moderati, in una concezione positiva, in un programma politico e in una morale che dietro i rutilanti orpelli retorici e nazionalistici di «primato», di «iniziativa italiana», di «l’Italia farà da sé», nascondeva l’inquietezza dell’«apprendista negromante» e l’intenzione di abdicare e capitolare alla prima minaccia seria di una rivoluzione italiana profondamente popolare, cioè radicalmente nazionale.

Un fenomeno culturale paragonabile a quello dei neoguelfi‑moderati, sebbene in una posizione storico‑politica più avanzata, è il sistema di ideologia del Proudhon in Francia. Sebbene l’affermazione possa apparire paradossale, mi pare si possa dire che il Proudhon è il Gioberti della situazione francese poiché Proudhon ha verso il movimento operaio francese la stessa posizione del Gioberti di fronte al movimento liberale‑nazionale italiano. Si ha nel Proudhon una stessa mutilazione dell’hegelismo e della dialettica che nei moderati italiani e pertanto la critica a questa concezione politico‑storiografica è la stessa, sempre viva e attuale, contenuta nella Miseria della filosofia.

Questa concezione fu definita da Edgar Quinet di «rivoluzione‑restaurazione» che non è se non la traduzione francese del concetto di «rivoluzione passiva» interpretato «positivamente» dai moderati italiani. L’errore filosofico (di origine pratica!) di tale concezione consiste in ciò che nel processo dialettico si presuppone «meccanicamente» che la tesi debba essere «conservata» dall’antitesi per non distruggere il processo stesso, che pertanto viene «preveduto», come una ripetizione all’infinito, meccanica, arbitrariamente prefissata. In realtà si tratta di uno dei tanti modi di «mettere le brache al mondo», di una delle tante forme di razionalismo antistoricistico.

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La concezione hegeliana, pur nella sua forma speculativa, non consente tali addomesticamenti e costrizioni mutilatrici, pur non dando luogo con ciò a forme di irrazionalismo e arbitrarietà, come quelle contenute nella concezione bergsoniana. Nella storia reale l’antitesi tende a distruggere la tesi, la sintesi sarà un superamento, ma senza che si possa a priori stabilire ciò che della tesi sarà «conservato» nella sintesi, senza che si possa a priori «misurare» i colpi come in un «ring» convenzionalmente regolato.

Che questo poi avvenga di fatto è quistione di «politica» immediata, perché nella storia reale il processo dialettico si sminuzza in momenti parziali innumerevoli; l’errore è di elevare a momento metodico ciò che è pura immediatezza, elevando appunto l’ideologia a filosofia (sarebbe come se si ritenesse elemento «matematico» ciò che risulta da questo apologo: si domanda a un bambino: – tu hai una mela, ne dai la metà a tuo fratello; quanta mela mangerai tu? – Il bambino risponde: – una mela. – Ma come; non hai dato mezza mela a tuo fratello? – Ma io non gliela ho data, ecc. Nel sistema logico si introduce l’elemento passionale immediato e poi si pretende che rimanga valido il valore strumentale del sistema).

Che un tal modo di concepire la dialettica fosse errato e «politicamente» pericoloso, si accorsero gli stessi moderati hegeliani del Risorgimento come lo Spaventa: basta ricordare le sue osservazioni su quelli che vorrebbero, con la scusa che il momento dell’autorità è imprescindibile e necessario, conservare l’uomo sempre in «culla» e in schiavitù. Ma non potevano reagire oltre certi limiti, oltre i limiti del loro gruppo sociale che si trattava «concretamente» di far uscire di «culla»: la composizione fu trovata nella concezione «rivoluzione‑restaurazione» ossia in un conservatorismo riformistico temperato.

Si può osservare che un tal modo di concepire la dialettica è proprio degli intellettuali, i quali concepiscono se stessi come gli arbitri e i mediatori delle lotte politiche reali, quelli che impersonano la «catarsi» dal momento economico al momento etico‑politico, cioè la sintesi del processo dialettico stesso, sintesi che essi «manipolano» speculativamente nel loro cervello dosandone gli elementi «arbitrariamente» (cioè passionalmente).

Questa posizione giustifica il loro non «impegnarsi» interamente nell’atto storico reale ed è indubbiamente comoda: è la posizione di Erasmo nei confronti della Riforma.

Txt.: V. Cuoco - Saggio storico sulla rivoluzione napoletana

Txt.: Proudhon - La proprietà

Txt.: Proudhon - Critica della proprietà e dello Stato

Politica

Politologia

§1 Atteggiamento del Croce durante la guerra mondiale.

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Scritti di Croce in proposito raccolti nelle Pagine sulla guerra (Laterza, 2a ed. accresciuta, L. 25); sarebbe interessante però rivederli nella prima stesura, a mano a mano che furono pubblicati nella «Critica» o in altri periodici1 e tener conto delle altre quistioni di carattere culturale e morale che contemporaneamente interessavano il Croce e mostrano a quali altri svolgimenti connessi più o meno direttamente alla situazione bellica egli credeva necessario reagire.

L’atteggiamento del Croce durante la neutralità e la guerra indica quali interessi intellettuali e morali (e quindi sociali) predominano anche oggi nella sua attività letteraria e filosofica. Il Croce reagisce contro l’impostazione popolare (con la conseguente propaganda) della guerra come guerra di civiltà e quindi a carattere religioso, ciò che teoricamente dovrebbe portare all’annientamento del nemico.

Il Croce vede nel momento della pace quello della guerra e nel momento della guerra quello della pace e lotta perché non siano mai distrutte le possibilità di mediazione tra i due momenti. La pace dovrà succedere alla guerra e la pace può costringere ad aggruppamenti ben diversi da quelli della guerra: ma come sarebbe possibile una collaborazione tra Stati dopo lo scatenamento di fanatismi religiosi della guerra? Ne risulta che nessuna necessità immediata di politica può e deve essere innalzata a criterio universale. Ma questi termini non comprendono esattamente l’atteggiamento del Croce. Non si può dire, infatti, che egli sia contro l’impostazione «religiosa» della guerra in quanto ciò è necessario politicamente perché le grandi masse popolari mobilitate siano disposte a sacrificarsi in trincea e a morire: è questo un problema di tecnica politica che spetta di risolvere ai tecnici della politica.

Ciò che importa al Croce è che gli intellettuali non si abbassino al livello della massa, ma capiscano che altro è l’ideologia, strumento pratico per governare, e altro la filosofia e la religione che non deve essere prostituita nella coscienza degli stessi sacerdoti. Gli intellettuali devono essere governanti e non governati, costruttori di ideologie per governare gli altri e non ciarlatani che si lasciano mordere e avvelenare dalle proprie vipere.

Il Croce quindi rappresenta la grande politica contro la piccola politica, il machiavellismo di Machiavelli contro il machiavellismo di Stenterello. Egli pone se stesso molto in alto e certamente pensa che anche le critiche furibonde e gli attacchi personali i più selvaggi sono «politicamente» necessari e utili perché questa sua alta posizione sia possibile da mantenere.

L’atteggiamento di Croce durante la guerra può essere paragonato solo a quello del Papa, che era il capo dei vescovi che benedicevano le armi dei tedeschi e degli austriaci e di quelli che benedicevano le armi degli italiani e dei francesi, senza che in ciò ci fosse contraddizione. Cfr Etica e Politica, p. 343: «Uomini di Chiesa, che qui bisogna intendere, come la Chiesa stessa ecc.». 1

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Questo stesso atteggiamento, che non è privo di inconvenienti, lo si trova in Croce verso il modernismo. Di fatto, poiché non è possibile pensare un passaggio delle masse popolari dallo stadio religioso a quello «filosofico», e il modernismo praticamente erodeva la massiccia struttura pratico‑ideologica della Chiesa, l’atteggiamento del Croce servì a rinsaldare le posizioni della Chiesa. Così il suo atteggiamento «revisionistico» servì a rinsaldare le correnti reazionarie (al Labriola che glielo faceva notare il Croce rispondeva: «quanto alla politica e ai conati reazionari, caveant consules»). Così il suo avvicinarsi a «Politica» nel 1920 e i suoi veri e propri atteggiamenti pratici a Napoli (discorsi ecc., partecipazione al governo Giolitti ecc.). La posizione di «puro intellettuale» diventa o un vero e proprio «giacobinismo» deteriore (e in tal senso, mutate le stature intellettuali, Amadeo [Bordiga ndc] può essere avvicinato al Croce, come forse non pensava Jacques Mesnil) o un «ponziopilatismo» spregevole, o successivamente l’uno e l’altro o anche simultaneamente l’uno e l’altro.

Per la guerra si può riferite al Croce l’osservazione di Lyautey: in realtà il sentimento nazionale dei sedicenti nazionalisti è «temperato» da un cosmopolitismo talmente accentuato, di casta, di cultura ecc., che può essere ritenuto un vero e proprio strumento di governo e le sue «passioni» essere ritenute non immediate, ma subordinate al possesso del potere.

Note

Filosofia

Benedetto Croce

PUNTI DI RIFERIMENTO PER UN SAGGIO SU B. CROCE

Introduzione. Note generali: 1) Appunti metodici (cfr 1a nota); 2) L’uomo di partito: il partito come risoluzione pratica di problemi particolari, come programma organico politico (collaborazione a «Giornale d’Italia» conservatore, «Stampa» ecc., «Politica»); il partito come tendenza generale ideologica, come forma culturale (p. 37 bis); 3) Croce e G. Fortunato come «fermenti» (più che guide) dei movimenti italiani culturali dal 900 al 914 («Voce», «Unità» ecc. fino a «Rivoluzione Liberale»).

1°. L’atteggiamento del Croce durante la guerra mondiale come punto di orientamento per comprendere i motivi della sua attività posteriore di filosofo e di leader della cultura europea.

2°. Croce come leader intellettuale delle tendenze revisionistiche degli anni 90: Bernstein in Germania, Sorel in Francia, la scuola economico‑giuridica in Italia.

3°. Croce dal 1912 al 1932 (elaborazione della teoria della storia etico‑politica) tende a rimanere il leader delle tendenze revisioniste per condurle fino a una critica radicale ed alla liquidazione (politico‑ideologica) anche del materialismo storico attenuato e della teoria economico‑giuridica cfr nota in margine nella pagina seguente.

4°. Elementi della relativa popolarità del Croce: a) elemento stilistico‑letterario mancanza di pedanteria e di astruseria, b) elemento filosofico‑metodico (unità di filosofia e senso comune), c) elemento etico (serenità olimpica).

5°. Croce e la religione: a) il concetto crociano di religione lo spunto per il saggio Religione e serenità è preso dal saggio del De Sanctis La Nerina del Leopardi del 1877 («Nuova Antologia», gennaio 1877), b) Croce e il cristianesimo, c) fortune e sfortune del crocismo tra i cattolici italiani (neoscolastici italiani e vari stadi delle loro manifestazioni filosofiche, filopositiviste, filoidealiste, e ora per un ritorno al tomismo «puro»; carattere eminentemente «pratico» dell’attività del padre Gemelli e suo agnosticismo filosofico), d) articoli del Papini e del Ferrabino nella «Nuova Antologia», come manifestazioni eminenti del pensiero del laicismo cattolico quattro articoli della «Civiltà Cattolica» (del 1932 e 1933), tutti dedicati solo all’introduzione della Storia d’Europa; dopo il 3° articolo il libro è posto all’Indice, e) è Croce un riformatore «religioso»? cfr alcuni brevi saggi pubblicati nella «Critica» in cui si traducono in linguaggio «speculativo» alcuni punti della teologia cattolica (la grazia ecc.) e nel saggio sul «Caracciolo» della teologia calvinista ecc. «Traduzioni» e interpretazioni simili sono contenute incidentalmente in numerosi scritti del Croce.

6°. Croce e la tradizione italiana o una corrente determinata della tradizione italiana: teorie storiche della Restaurazione; scuola dei moderati; la rivoluzione passiva del Cuoco divenuta formula d’«azione» da «avvertimento» di energetica etico‑nazionale; dialettica «speculativa» della storia, meccanicismo arbitrario di essa (cfr la posizione del Proudhon criticata nella Miseria della filosofia); dialettica degli «intellettuali» che concepiscono se stessi come impersonanti la tesi e l’antitesi e quindi elaboranti la sintesi; questo non «impegnarsi» interamente nell’atto storico non è poi una forma di scetticismo? o di poltroneria? almeno non è esso stesso un «atto» politico?

7°. Significato reale della formula «storia etico‑politica». È una ipostasi arbitraria e meccanica del momento dell’«egemonia». La filosofia della praxis non esclude la storia etico‑politica. L’opposizione tra le dottrine storiche crociane e la filosofia della praxis è nel carattere speculativo della concezione del Croce. Concezione dello Stato in Croce.

8°. Trascendenza‑teologia‑speculazione. Storicismo speculativo e storicismo realistico. Soggettivismo idealistico e concezione delle superstrutture nella filosofia della praxis. Gherminella polemica del Croce che «oggi» dà un significato metafisico, trascendente speculativo ai termini della filosofia della praxis, quindi l’«identificazione» della «struttura» con un «dio ascoso». Dalle diverse edizioni dei libri e saggi del Croce estrarre i giudizi successivi, sempre mutati, senza una giustificazione specifica, sull’importanza e la statura filosofica dei fondatori della filosofia della prassi.

9°. La storia d’Europa vista come «rivoluzione passiva». Può farsi una storia d’Europa del secolo XIX senza trattare organicamente della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche? E può farsi una storia d’Italia nel tempo moderno senza le lotte del Risorgimento? In un caso e nell’altro il Croce, per ragioni estrinseche e tendenziose, prescinde dal momento della lotta, in cui la struttura viene elaborata e modificata, e placidamente assume come storia il momento dell’espansione culturale o etico‑politico. Ha un significato «attuale» la concezione della «rivoluzione passiva»? Siamo in un periodo di «restaurazione‑rivoluzione» da assestare permanentemente, da organizzare ideologicamente, da esaltare liricamente? L’Italia avrebbe nei confronti con l’URSS la stessa relazione che la Germania e l’Europa di KantHegel con la Francia di RobespierreNapoleone?

10°. La «libertà» come identità di storia e di spirito e la «libertà» come ideologia immediatamente circostanziata, come «superstizione», come strumento pratico di governo. Se si dice che la «natura dell’uomo è lo spirito» si dice che essa è la «storia», cioè l’insieme dei rapporti sociali in processo di sviluppo, cioè ancora l’insieme della natura e della storia, delle forze materiali e di quelle spirituali o culturali ecc..

11°. Tuttavia, si può dire che nella concezione del Croce, anche dopo l’elaborazione subita in questi ultimi anni, non ci sia traccia di filosofia della praxis? Il suo storicismo non risente di nessun influsso della sua esperienza intellettuale degli anni dal 90 al 900? La posizione del Croce a questo proposito risulta dalla prefazione del 1917 alla nuova edizione del Materialismo storico: il Croce vorrebbe far credere che il valore di questa esperienza sia stato essenzialmente negativo, nel senso che avrebbe contribuito a distruggere pregiudizi ecc. Ma lo stesso accanimento del Croce in questi ultimi tempi contro ogni elemento di filosofia della praxis è sospetto (specialmente la presentazione del libro del De Man, mediocrissimo): impressione che Croce combatta troppo per non avere una richiesta di conti. Le tracce di una filosofia della praxis si trovano nella soluzione di problemi particolari [è da vedere se l’insieme di questi problemi particolari non contenga implicitamente una elaborazione totale della filosofia della prassi, cioè tutta la metodologia o filosofia del Croce, cioè se i problemi non direttamente collegabili con quelli corrispondenti della filosofia della prassi, non lo siano però con gli altri direttamente collegabili:] la dottrina dell’errore mi pare la più tipica.

In generale si può dire che la polemica contro la filosofia dell’atto puro ha costretto il Croce a un maggior realismo e a sentire un certo fastidio almeno per le esagerazioni nel linguaggio speculativo degli attualisti.

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Sui «residui» o sopravvivenze (ma in realtà sono elaborazioni che hanno una loro peculiare organicità) nella filosofia del Croce della dottrina della filosofia della prassi si sta costituendo una certa letteratura: cfr per esempio il saggio di Enzo Tagliacozzo In memoria di Antonio Labriola («Nuova Italia», 20 dicembre 1934 ‑ 20 gennaio 1935, specialmente nella seconda puntata), e il saggio di Edmondo Cione La logica dello storicismo, Napoli 1933 (forse estratto dagli atti dell’Accademia Reale di scienze morali e politiche). (Da una recensione che di questo saggio pubblica la «Nuova Rivista Storica» gennaio‑febbraio 1935, pp. 132-134, pare che per il Cione solo con la Storia d’Europa il Croce si liberi completamente delle sopravvivenze della filosofia della praxis. Questo e altri saggi del Cione sono da vedere).

Nota: In una recensione di alcune pubblicazioni di Guido Calogero («Critica», maggio 1935) il Croce accenna al fatto che il Calogero chiama «filosofia della praxis» una propria interpretazione dell’attualismo gentiliano. Quistioni di terminologia (ma forse non solo di terminologia) che occorre chiarire.

12°. La concezione della storia come storia etico‑politica sarebbe dunque una futilità? Occorre fissare che il pensiero storiografico del Croce, anche nella sua fase più recente, deve essere studiato e meditato con attenzione. Esso rappresenta essenzialmente una reazione all’«economismo» e al meccanicismo fatalistico, sebbene si presenti come superamento della filosofia della praxis. Anche per il Croce vale il criterio che il suo pensiero deve essere criticato e valutato non per quello che pretende di essere, ma per ciò che è realmente e che si manifesta nelle opere storiche concrete. Per la filosofia della praxis lo stesso metodo speculativo non è futilità ma è stato fecondo di valori «strumentali» del pensiero, che la filosofia della praxis si è incorporata (la dialettica, per es.).

Il pensiero del Croce deve essere dunque apprezzato come valore strumentale e così si può dire che esso ha energicamente attirato l’attenzione allo studio dei fatti di cultura e di pensiero come elementi di dominio politico, alla funzione dei grandi intellettuali nella vita degli Stati, al momento dell’egemonia e del consenso come forma necessaria del blocco storico concreto. La storia etico‑politica è dunque uno dei canoni di interpretazione storica da tener sempre presente nell’esame e nell’approfondimento dello svolgimento storico, se si vuol fare storia integrale e non storie parziali od estrinseche.

§3 Elaborazione della teoria della storia etico‑politica. Croce «approfondisce» sistematicamente i suoi studi di teoria della storia e questa nuova fase è rappresentata dal volume Teoria e storia della Storiografia. Ma il più significativo della biografia scientifica del Croce è che egli continua a considerarsi il leader intellettuale dei revisionisti e la sua ulteriore elaborazione della teoria storiografica è condotta con questa preoccupazione: egli vuole giungere alla liquidazione del materialismo storico ma vuole che questo svolgimento avvenga in modo da identificarsi con un movimento culturale europeo. L’affermazione, fatta durante la guerra, che la guerra stessa può dirsi la «guerra del materialismo storico»; gli sviluppi storici e culturali nell’Europa orientale dal 1917 in poi: questi due elementi determinano il Croce a svolgere con maggior precisione la sua teoria storiografica che dovrebbe liquidare ogni forma, anche attenuata, di filosofia della praxis (già prima della guerra teorie «attivistiche», fondate su concezioni irrazionalistiche – sviluppo di esse nel dopoguerra – reazione del Croce: cfr Storia d’Italia e poi discorsi e scritti su «Storia e Antistoria»).

Che le teorie storiografiche siano rivolte contro la filosofia della praxis dice il Croce esplicitamente in una breve polemica con Corrado Barbagallo pubblicata nella «Nuova Rivista Storica» del 1928‑29. (È da notare l’atteggiamento del prof. Luigi Einaudi verso alcune pubblicazioni del Croce che esprimono questa fase «liquidazionista». Secondo Einaudi, il Croce fa ancora troppe concessioni alla filosofia della praxis, col riconoscere a questo movimento di cultura determinate benemerenze scientifiche).

La documentazione del fatto che il Croce sente con forza di essere il leader di una corrente intellettuale europea, e giudica di grande momento la sua posizione con gli obblighi che ne derivano si può vedere specialmente nella Storia d’Italia, ma risulta anche da tutta una serie di scritti occasionali e recensioni pubblicati nella «Critica». Occorre ricordare anche certi riconoscimenti che di tale funzione dirigente sono documentati: il più curioso è quello del Bonomi nel suo libro sul Bissolati (sarebbe interessante vedere se il Bonomi si riferiva al Croce nelle sue Vie Nuove). Prefazione dello Schiavi al libro del De Man. Per il periodo 90-900 è interessante la lettera di Orazio Raimondo stampata dal prof. Castellano nel suo volume sulla fortuna delle idee crociane (Introduzione allo studio delle opere di B. Croce, Laterza, Bari).

§7 Definizione del concetto di storia etico‑politica. Si osserva che la storia etico‑politica è una ipostasi arbitraria e meccanica del momento dell’egemonia, della direzione politica, del consenso, nella vita e nello svolgimento dell’attività dello Stato e della società civile. Questa impostazione che il Croce ha fatto del problema storiografico riproduce la sua impostazione del problema estetico; il momento etico‑politico è nella storia ciò che il momento della «forma» è nell’arte; è la «liricità» della storia, la «catarsi» della storia. Ma le cose non sono così semplici nella storia come nell’arte.

Nell’arte la produzione di «liricità» è individuata perfettamente in un mondo culturale personalizzato, nel quale si può ammettere l’identificazione di contenuto e forma e la così detta dialettica dei distinti nell’unità dello spirito (si tratta solo di tradurre in linguaggio storicistico il linguaggio speculativo, nel trovare cioè se questo linguaggio speculativo ha un valore strumentale concreto che sia superiore ai precedenti valori strumentali). Ma nella storia e nella produzione della storia la rappresentazione «individualizzata» degli Stati e delle Nazioni è una mera metafora.

Le «distinzioni» che in tali rappresentazioni occorre fare non sono e non possono essere presentate «speculativamente» sotto pena di cadere in una nuova forma di rettorica e in una nuova specie di «sociologia», che per essere «speculativa» non sarebbe meno un’astratta e meccanica sociologia: esse esistono come distinzioni di gruppi «verticali» e come stratificazioni «orizzontali», cioè come una coesistenza e giustapposizione di civiltà e culture diverse, connesse dalla coercizione statale e organizzate culturalmente in una «coscienza morale», contradditoria e nello stesso tempo «sincretistica».

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A questo punto occorre una critica della concezione crociana del momento politico come momento della «passione» (inconcepibilità di una «passione» permanente e sistematica), la sua negazione dei «partiti politici» (che sono appunto la manifestazione concreta della inconcepibile permanenza passionale, la prova della contraddizione intima del concetto «politica‑passione») e quindi l’inesplicabilità degli eserciti permanenti e dell’esistenza organizzata della burocrazia militare e civile, e la necessità per il Croce e per la filosofia crociana di essere la matrice dell’«attualismo» gentiliano. Infatti solo in una filosofia ultra speculativa come quella attualistica, queste contraddizioni e insufficienze della filosofia crociana trovano una composizione formale e verbale, ma nello stesso tempo l’attualismo mostra in modo più evidente il carattere poco concreto della filosofia, del Croce, così come il «solipsismo» documenta l’intima debolezza della concezione soggettiva‑speculativa della realtà.

Che la storia etico‑politica sia la storia del momento dell’egemonia si può vedere da tutta una serie di scritti teorici del Croce (e non solo da quelli contenuti nel volume Etica e politica); di questi scritti occorrerà fare un’analisi concreta.

Si può vedere anche e specialmente da alcuni accenni sparsi sul concetto di Stato. Per esempio in qualche luogo il Croce ha affermato che non sempre occorre ricercare lo «Stato» là dove lo indicherebbero le istituzioni ufficiali, perché talvolta esso potrebbe trovarsi invece nei partiti rivoluzionari: l’affermazione non è paradossale secondo la concezione Stato ‑ egemonia ‑ coscienza morale, perché può infatti accadere che la direzione politica e morale del paese in un determinato frangente non sia esercitata dal governo legale ma da una organizzazione «privata» e anche da un partito rivoluzionario. Ma non è difficile mostrare quanto sia arbitraria la generalizzazione che fa il Croce di questa osservazione di senso comune.

Il problema più importante da discutere in questo paragrafo è questo: se la filosofia della praxis escluda la storia etico‑politica, cioè non riconosca la realtà di un momento dell’egemonia, non dia importanza alla direzione culturale e morale e giudichi realmente come «apparenze» i fatti di superstruttura. Si può dire che non solo la filosofia della praxis non esclude la storia etico‑politica, ma che anzi la fase più recente di sviluppo di essa consiste appunto nella rivendicazione del momento dell’egemonia come essenziale nella sua concezione statale e nella «valorizzazione» del fatto culturale, dell’attività culturale, di un fronte culturale come necessario accanto a quelli meramente economici e meramente politici.

Il Croce ha il torto grave di non applicare alla critica della filosofia della praxis i criteri metodologici che applica allo studio di correnti filosofiche molto meno importanti e significative. Se questi criteri impiegasse potrebbe trovare che il giudizio contenuto nel termine «apparenze» per le superstrutture è niente altro che il giudizio della «storicità» di esse espresso in polemica con concezioni dogmatiche popolari e quindi con un linguaggio «metaforico» adatto al pubblico cui è destinato. La filosofia della praxis criticherà quindi come indebita e arbitraria la riduzione della storia a sola storia etico‑politica, ma non escluderà questa. L’opposizione tra il crocismo e la filosofia della praxis è da ricercare nel carattere speculativo del crocismo.

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Rapporti delle teorie crociane sulla storia etico‑politica o storia «religiosa» con le teorie storiografiche di Fustel de Coulanges quali sono contenute nel libro sulla Città Antica. È da notare che la Città Antica è stata pubblicata dal Laterza proprio negli anni scorsi (forse nel 1928) più di 40 anni dopo che fu scritta (Fustel de Coulanges è morto nel 1889), e subito dopo che una traduzione ne era stata offerta dall’editore Vallecchi. È da pensare che l’attenzione del Croce sia stata attirata dal libro francese mentre elaborava le sue teorie e preparava i suoi libri. È da ricordare che nel Contributo alla critica di me stesso, nelle ultime righe (1915), il Croce annunzia di voler scrivere la Storia d’Europa. Sono le riflessioni sulla guerra che l’hanno orientato verso questi problemi storiografici e di scienza politica.

§9 Paradigmi di storia etico‑politica. La Storia dell’Europa nel secolo XIX pare sia il saggio di storia etico‑politica che deve diventare il paradigma della storiografia crociana offerto alla cultura europea. Ma occorre tener conto degli altri saggi: Storia del regno di Napoli, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, e anche La rivoluzione napoletana del 1799 e Storia dell’età barocca in Italia. I più tendenziosi e dimostrativi sono però la Storia d’Europa e la Storia d’Italia.

Per questi due saggi si pongono subito le domande: è possibile scrivere (concepire) una storia d’Europa nel secolo XIX senza trattare organicamente della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche? e può farsi una storia d’Italia nell’età moderna senza trattare delle lotte del Risorgimento?

Ossia: è a caso o per una ragione tendenziosa che il Croce inizia le sue narrazioni dal 1815 e dal 1871? cioè prescinde dal momento della lotta, dal momento in cui si elaborano e radunano e schierano le forze in contrasto? dal momento in cui un sistema etico‑politico si dissolve e un altro si elabora nel fuoco e col ferro? in cui un sistema di rapporti sociali si sconnette e decade e un altro sistema sorge e si afferma? e invece assume placidamente come storia il momento dell’espansione culturale o etico‑politico?

Si può dire pertanto che il libro sulla Storia d’Europa non è altro che un frammento di storia, l’aspetto «passivo» della grande rivoluzione che si iniziò in Francia nel 1789, traboccò nel resto d’Europa con le armate repubblicane e napoleoniche, dando una potente spallata ai vecchi regimi, e determinandone non il crollo immediato come in Francia, ma la corrosione «riformistica» che durò fino al 1870.

Si pone il problema se questa elaborazione crociana, nella sua tendenziosità non abbia un riferimento attuale e immediato, non abbia il fine di creare un movimento ideologico corrispondente a quello del tempo trattato dal Croce, di restaurazione‑rivoluzione, in cui le esigenze che trovarono in Francia una espressione giacobino‑napoleonica furono soddisfatte a piccole dosi, legalmente, riformisticamente, e si riuscì così a salvare la posizione politica ed economica delle vecchie classi feudali, a evitare la riforma agraria e specialmente a evitare che le masse popolari attraversassero un periodo di esperienze politiche come quelle verificatesi in Francia negli anni del giacobinismo, nel 1831, nel 1848. Ma nelle condizioni attuali il movimento corrispondente a quello del liberalismo moderato e conservatore non sarebbe più precisamente il movimento fascista?

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Forse non è senza significato che nei primi anni del suo sviluppo il fascismo affermasse di riannodarsi alla tradizione della vecchia destra o destra storica.

Potrebbe essere una delle tante manifestazioni paradossali della storia (un’astuzia della natura, per dirla vichianamente) questa per cui il Croce, mosso da preoccupazioni determinate, giungesse a contribuire a un rafforzamento del fascismo, fornendogli indirettamente una giustificazione mentale dopo aver contribuito a depurarlo di alcune caratteristiche secondare, di ordine superficialmente romantico ma non perciò meno irritanti per la compostezza classica del Goethe.

L’ipotesi ideologica potrebbe essere presentata in questi termini: si avrebbe una rivoluzione passiva nel fatto che per l’intervento legislativo dello Stato e attraverso l’organizzazione corporativa, nella struttura economica del paese verrebbero introdotte modificazioni più o meno profonde per accentuare l’elemento «piano di produzione», verrebbe accentuata cioè la socializzazione e cooperazione della produzione senza per ciò toccare (o limitandosi solo a regolare e controllare) l’appropriazione individuale e di gruppo del profitto. Nel quadro concreto dei rapporti sociali italiani questa potrebbe essere l’unica soluzione per sviluppare le forze produttive dell’industria sotto la direzione delle classi dirigenti tradizionali, in concorrenza con le più avanzate formazioni industriali di paesi che monopolizzano le materie prime e hanno accumulato capitali imponenti.

Che tale schema possa tradursi in pratica e in quale misura e in quali forme, ha un valore relativo: ciò che importa politicamente e ideologicamente è che esso può avere ed ha realmente la virtù di prestarsi a creare un periodo di attesa e di speranze, specialmente in certi gruppi sociali italiani, come la grande massa dei piccoli borghesi urbani e rurali, e quindi a mantenere il sistema egemonico e le forze di coercizione militare e civile a disposizione delle classi dirigenti tradizionali. Questa ideologia servirebbe come elemento di una «guerra di posizione» nel campo economico (la libera concorrenza e il libero scambio corrisponderebbero alla guerra di movimento) internazionale, così come la «rivoluzione passiva» lo è nel campo politico.

Nell’Europa dal 1789 al 1870 si è avuta una guerra di movimento (politica) nella rivoluzione francese e una lunga guerra di posizione dal 1815 al 1870; nell’epoca attuale, la guerra di movimento si è avuta politicamente dal marzo 1917 al marzo 1921 ed è seguita una guerra di posizione il cui rappresentante, oltre che pratico (per l’Italia), ideologico, per l’Europa, è il fascismo.

§12 Da tutto ciò che è detto precedentemente risulta che la concezione storiografica del Croce della storia come storia etico‑politica non deve essere giudicata una futilità da respingere senz’altro. Occorre invece fissare con grande energia che il pensiero storiografico del Croce, anche nella sua fase più recente, deve essere studiato e meditato con la massima attenzione. Esso rappresenta essenzialmente una reazione all’«economismo» e al meccanicismo fatalista, sebbene si presenti come superamento distruttivo della filosofia della praxis.

Anche nel giudizio del pensiero crociano vale il criterio che una corrente filosofica deve essere criticata e valutata non per quello che pretende di essere, ma per quello che è realmente e si manifesta nelle opere storiche concrete. Per la filosofia della praxis lo stesso metodo speculativo non è futilità, ma è stato fecondo di valori «strumentali» del pensiero nello svolgimento della cultura, valori strumentali che la filosofia della praxis si è incorporata (la dialettica, per esempio).

Il pensiero del Croce deve dunque, per lo meno, essere apprezzato come valore strumentale, e così si può dire che esso ha energicamente attirato l’attenzione sull’importanza dei fatti di cultura e di pensiero nello sviluppo della storia, sulla funzione dei grandi intellettuali nella vita organica della società civile e dello Stato, sul momento dell’egemonia e del consenso come forma necessaria del blocco storico concreto.

Che ciò non sia «futile» è dimostrato dal fatto che contemporaneamente al Croce, il più grande teorico moderno della filosofia della praxis, nel terreno della lotta e dell’organizzazione politica, con terminologia politica, ha in opposizione alle diverse tendenze «economistiche» rivalutato il fronte di lotta culturale e costruito la dottrina dell’egemonia come complemento della teoria dello Stato‑forza e come forma attuale della dottrina quarantottesca della «rivoluzione permanente»1.

Per la filosofia della praxis, la concezione della storia etico‑politica, in quanto indipendente da ogni concezione realistica, può essere assunta come un «canone empirico» di ricerca storica da tener sempre presente nell’esame e nell’approfondimento dello sviluppo storico, se si vuol fare storia integrale e non storia parziale ed estrinseca (storia delle forze economiche come tali ecc.).

Note

§2 Croce come leader intellettuale delle correnti revisionistiche della fine del secolo XIX. Nella lettera di Giorgio Sorel al Croce in data 9 settembre 1899 è scritto: «Bernstein vient de m’écrire qu’il a indiqué dans la “Neue Zeit” n. 46 qu’il avait été inspiré, en une certaine mesure, par vos travaux. Cela est intéressant, parce que les Allemands ne sont pas faits pour indiquer des sources étrangères à leurs idées». Dei rapporti intellettuali tra il Sorel e il Croce esiste oggi una documentazione molto importante nell’epistolario del Sorel al Croce pubblicato dalla «Critica» (1927 sgg.): appare che la dipendenza intellettuale del Sorel dal Croce è stata più grande di ciò che prima potesse pensarsi.

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I saggi del Croce revisionista sono pubblicati nel volume sul Materialismo storico, ma ad essi occorre aggiungere il cap. XI del primo volume delle Conversazioni critiche. Nel revisionismo crociano occorre fissare dei limiti, e di questa prima fase mi pare il limite sia da trovare nella intervista col prof. Castellano pubblicata nella «Voce» e riprodotta nel volume Cultura e Vita Morale. La riduzione del Croce del materialismo storico a canone di interpretazione della storia irrobustisce criticamente l’indirizzo «economico‑giuridico» nella scuola italiana.

§4 Elementi della relativa popolarità del pensiero del Croce, tanto più notevole in quanto nel Croce non c’è niente che possa colpire la fantasia e suscitare forti passioni o dar luogo a movimenti di carattere romantico (non si tien conto, in questo punto, della popolarità delle idee estetiche del Croce che hanno alimentato una letteratura giornalistica da dilettanti). Un elemento è quello stilistico‑letterario. Beniamin Crémieux ha scritto che Croce è il più grande prosatore italiano dopo il Manzoni, ma forse questo riferimento può suscitare preconcetti errati; mi pare più esatto collocare gli scritti del Croce nella linea della prosa scientifica italiana che ha avuto scrittori come il Galileo.

Altro elemento è quello etico e cioè risiede nella fermezza di carattere di cui il Croce ha dato prova in parecchi momenti della vita nazionale ed europea, come l’atteggiamento mantenuto durante la guerra e in seguito, atteggiamento che si può chiamare goethiano; mentre tanti intellettuali perdevano la testa, e non sapevano orientarsi nel caos generale, rinnegavano il proprio passato, ondeggiavano lamentosamente nel dubbio di chi fosse per essere il più forte, il Croce è rimasto imperturbabile nella sua serenità e nell’affermazione della sua fede che «metafisicamente il male non può prevalere e che la storia è razionalità».

Ma occorre dire che l’elemento più importante della popolarità del Croce è intrinseco al suo stesso pensiero e al metodo del suo pensare ed è da ricercare nella maggiore adesione alla vita della filosofia del Croce che di qualsiasi altra filosofia speculativa.

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Da questo punto di vista è interessante lo scritto di Croce intitolato «Il filosofo» (ristampato in Eternità e storicità della filosofia, Rieti, 1930; e tutti gli scritti raccolti in questo volumetto) in cui, in forma brillante, sono fissate le principali caratteristiche che distinguono l’attività del Croce da quella dei «filosofi» tradizionali.

Dissoluzione del concetto di «sistema» chiuso e definito e quindi pedantesco e astruso in filosofia: affermazione che la filosofia deve risolvere i problemi che il processo storico nel suo svolgimento presenta volta a volta.

La sistematicità è ricercata non in una esterna struttura architettonica ma nell’intima coerenza e feconda comprensività di ogni soluzione particolare.

Il pensiero filosofico non è concepito quindi come uno svolgimento – da pensiero altro pensiero – ma pensiero dalla realtà storica.

Questa impostazione spiega la popolarità del Croce nei paesi anglosassoni, superiore a quella dei paesi germanici; gli anglosassoni hanno sempre preferito le concezioni del mondo che non si presentavano come grandi e farraginosi sistemi ma come espressione del senso comune, integrato dalla critica e dalla riflessione, come soluzione di problemi morali e pratici.

Il Croce ha scritto centinaia e centinaia di brevi saggi (recensioni, postille) nei quali il suo pensiero idealistico circola intimamente, senza pedanterie scolastiche; ogni soluzione sembra a sé stante, accettabile indipendentemente dalle altre soluzioni, in quanto è appunto presentata come espressione del comune buon senso. Ancora: l’attività del Croce si presenta essenzialmente come critica, incomincia col distruggere una serie di pregiudizi tradizionali, col mostrare falsi e inconcludenti una serie di problemi che erano il comico «dada» dei filosofi precedenti, ecc., identificandosi in ciò con l’atteggiamento che verso questo vecchiume aveva sempre mostrato il senso comune.

Concetti

§10 La libertà come identità di storia e di spirito e la libertà come religione-superstizione, come ideologia immediatamente circostanziata, come strumento pratico di governo. Se la storia è storia della libertà – secondo la proposizione di Hegel – la formula è valida per la storia di tutto il genere umano di ogni tempo e di ogni luogo, è libertà anche la storia delle satrapie orientali. Libertà allora significa solo «movimento», svolgimento, dialettica.

Anche la storia delle satrapie orientali è stata libertà, perché è stata movimento e svolgimento, tanto è vero che quelle satrapie sono crollate.

Ancora: la storia è libertà in quanto è lotta tra libertà e autorità, tra rivoluzione e conservazione, lotta in cui la libertà e la rivoluzione continuamente prevalgono sull’autorità e la conservazione. Ma ogni corrente e ogni partito non sono in tal caso espressioni della libertà, momenti dialettici del processo di libertà? Qual è dunque la caratteristica del secolo XIX in Europa? Non di essere storia della libertà consapevole di esser tale; nel secolo XIX in Europa esiste una coscienza critica prima non esistente, si fa la storia sapendo quello che si fa, sapendo che la storia è storia della libertà, ecc. L’accezione del termine «liberale», in Italia per esempio, è stata in questo periodo molto estesa e comprensiva.

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Negli Annali d’Italia di Pietro Vigo liberali sono tutti i non clericali, tutti gli avversari del partito del Sillabo e quindi il liberalismo comprende anche gli Internazionalisti. Ma si è costituita una corrente e un partito che si è specificatamente chiamata liberale, che della posizione speculativa e contemplativa della filosofia hegeliana ha fatto una ideologia politica immediata, uno strumento pratico di dominio e di egemonia sociale, un mezzo di conservazione di particolari istituti politici ed economici fondati nel corso della Rivoluzione francese, e del riflusso che la Rivoluzione francese ebbe in Europa. Un nuovo partito conservatore era nato, una nuova posizione d’autorità si era costituita, e questo nuovo partito tendeva precisamente a fondersi col partito del Sillabo. E questa coalizione sarebbe ancora stata chiamata partito della libertà.

Si pongono alcuni problemi: 1) cosa significa concretamente «libertà» per ognuna delle tendenze europee del secolo XIX? 2) Queste tendenze si muovevano per il concetto di libertà o non piuttosto per il contenuto particolare con cui riempivano il formale concetto di libertà? E il non aver nessun partito centralizzato le aspirazioni delle grandi masse contadine per una riforma agraria non ha appunto impedito a queste masse di diventare fedeli della religione della libertà, ma libertà ha significato per esse solo la libertà e il diritto di conservare le loro superstizioni barbariche, il loro primitivismo e le ha perciò costituite in esercito di riserva del partito del Sillabo?

Un concetto come quello di libertà che si presta ad essere impiegato dagli stessi gesuiti, contro i liberali, che diventano libertini di contro ai «veri» partigiani della giusta libertà, non è appunto solo un involucro concettuale che vale solo per il nocciolo reale che ogni gruppo sociale vi pone? E si può quindi parlare di «religione della libertà»? E intanto cosa significa in questo caso «religione»?

Per il Croce è religione ogni concezione del mondo che si presenti come una morale. Ma è avvenuto questo per la «libertà»? Essa è stata religione per un piccolo numero di intellettuali; nelle masse si è presentata come elemento costitutivo di una combinazione o lega ideologica, di cui era parte costitutiva prevalente la vecchia religione cattolica e di cui altro elemento importante, se non decisivo dal punto di vista laico, fu quello di «patria».

Né si dica che il concetto di «patria» era un sinonimo di «libertà»; era certo un sinonimo, ma di Stato, cioè d’autorità e non di «libertà», era un elemento di «conservazione» e una sorgente di persecuzioni e di un nuovo Santo Uffizio.

Mi pare che il Croce non riesca, neppure dal suo punto di vista, a mantenere la distinzione tra «filosofia» e «ideologia», tra «religione» e «superstizione» che nel suo modo di pensare e nella sua polemica con la filosofia della praxis è essenziale.

Crede di trattare di una filosofia e tratta di una ideologia, crede di trattare di una religione e tratta di una superstizione, crede di scrivere una storia in cui l’elemento di classe sia esorcizzato e invece descrive con grande accuratezza e merito il capolavoro politico per cui una determinata classe riesce a presentare e far accettare le condizioni della sua esistenza e del suo sviluppo di classe come principio universale, come concezione del mondo, come religione, cioè descrive in atto lo sviluppo di un mezzo pratico di governo e di dominio.

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L’errore di origine pratica non è stato commesso in tal caso dai liberali del secolo XIX, che anzi praticamente hanno trionfato, hanno raggiunto i fini propostisi; l’errore di origine pratica è commesso dal loro storico Croce che dopo aver distinto filosofia da ideologia finisce col confondere una ideologia politica con una concezione del mondo, dimostrando praticamente che la distinzione è impossibile, che non si tratta di due categorie, ma di una stessa categoria storica e che la distinzione è solo di grado; è filosofia la concezione del mondo che rappresenta la vita intellettuale e morale (catarsi di una determinata vita pratica) di un intero gruppo sociale concepito in movimento e visto quindi non solo nei suoi interessi attuali e immediati, ma anche in quelli futuri e mediati; è ideologia ogni particolare concezione dei gruppi interni della classe che si propongono di aiutare la risoluzione di problemi immediati e circoscritti.

Ma per le grandi masse della popolazione governata e diretta, la filosofia o religione del gruppo dirigente e dei suoi intellettuali si presenta sempre come fanatismo e superstizione, come motivo ideologico proprio di una massa servile. E il gruppo dirigente non si propone forse di perpetuare questo stato di cose? Il Croce dovrebbe spiegare come mai la concezione del mondo della libertà non possa diventare elemento pedagogico nell’insegnamento delle scuole elementari e come egli stesso, da ministro, abbia introdotto nelle scuole elementari l’insegnamento della religione confessionale. Questa assenza di «espansività» nelle grandi masse è la testimonianza del carattere ristretto, pratico immediatamente, della filosofia della libertà.

Nota I. A proposito del concetto di autorità e libertà è da meditare specialmente il capitolo «Stato e Chiesa in senso ideale e loro perpetua lotta nella storia» del libro Etica e Politica (pp. 339 e sgg.). Questo capitolo è di estremo interesse perché in esso sono attenuate implicitamente la critica e l’opposizione alla filosofia della praxis e l’elemento «economico» e pratico trova una considerazione nella dialettica storica.

Materialismo storico e filosofia della prassi

Croce e la filosofia della prassi

§11 Si può dire, tuttavia, che nella concezione del Croce, pur dopo l’elaborazione subita in questi ultimi anni, non ci sia più traccia di filosofia della praxis? Lo storicismo del Croce non risente proprio più nessun influsso della sua esperienza intellettuale degli anni dal 90 al 900?

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La posizione del Croce per questo riguardo risulta da vari scritti; interessanti specialmente la prefazione del 1917 alla nuova edizione del Materialismo storico, la sezione dedicata al materialismo storico nella Storia della Storiografia italiana nel secolo XIX e il Contributo alla critica di me stesso. Ma se interessa ciò che il Croce pensa di se stesso, esso non è sufficiente e non esaurisce la quistione.

Secondo il Croce, la sua posizione verso la filosofia della praxis non è quella di un ulteriore sviluppo (di un superamento) per cui la filosofia della praxis sia diventata un momento di una concezione più elaborata, ma il valore dell’esperienza sarebbe stato solo negativo, nel senso che avrebbe contribuito a distruggere pregiudizi, residui passionali, ecc.

Per impiegare una metafora presa dal linguaggio della fisica, la filosofia della praxis avrebbe operato nella mentalità del Croce come un corpo catalitico, che è necessario per ottenere il nuovo prodotto, ma di cui non rimane traccia nel prodotto stesso. Ma è poi ciò vero? A me pare che sotto la forma e il linguaggio speculativo sia possibile rintracciare più di un elemento della filosofia della praxis nella concezione del Croce.

Si potrebbe forse dire di più e questa ricerca sarebbe di immenso significato storico e intellettuale nell’epoca presente e cioè: che come la filosofia della praxis è stata la traduzione dell’hegelismo in linguaggio storicistico, così la filosofia del Croce è in una misura notevolissima una ritraduzione in linguaggio speculativo dello storicismo realistico della filosofia della praxis.

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Nel febbraio 1917 in un breve corsivo che precedeva la riproduzione dello scritto del Croce Religione e serenità (cfr Etica e Politica, pp. 23‑25) allora uscito di recente nella «Critica» io scrissi che come l’hegelismo era stato la premessa della filosofia della praxis nel secolo XIX, alle origini della civiltà contemporanea, così la filosofia crociana poteva essere la premessa di una ripresa della filosofia della praxis nei giorni nostri, per le nostre generazioni. La quistione era appena accennata, in una forma certo primitiva e certissimamente inadeguata, poiché in quel tempo il concetto di unità di teoria e pratica, di filosofia e politica non era chiaro in me ed io ero tendenzialmente piuttosto crociano1.

Ma ora, sia pure non colla maturità e la capacità che all’assunto sarebbero necessarie, mi pare che la posizione sia da riprendere, e da presentare in forma criticamente più elaborata. E cioè: occorre rifare per la concezione filosofica del Croce la stessa riduzione che i primi teorici della filosofia della praxis hanno fatto per la concezione hegeliana.

È questo il solo modo storicamente fecondo di determinare una ripresa adeguata della filosofia della praxis, di sollevare questa concezione che si è venuta, per la necessità della vita pratica immediata, «volgarizzando», all’altezza che deve raggiungere per la soluzione dei compiti più complessi che lo svolgimento attuale della lotta propone, cioè alla creazione di una nuova cultura integrale, che abbia i caratteri di massa della Riforma protestante e dell’illuminismo francese e abbia i caratteri di classicità della cultura greca e del Rinascimento italiano, una cultura che riprendendo le parole del Carducci sintetizzi Massimiliano Robespierre ed Emanuele Kant, la politica e la filosofia in una unità dialettica intrinseca ad un gruppo sociale non solo francese o tedesco, ma europeo e mondiale. Bisogna che l’eredità della filosofia classica tedesca sia non solo inventariata, ma fatta ridiventare vita operante, e per ciò fare occorre fare i conti con la filosofia di Croce, cioè per noi italiani essere eredi della filosofia classica tedesca significa essere eredi della filosofia crociana, che rappresenta il momento mondiale odierno della filosofia classica tedesca.

Il Croce combatte con troppo accanimento la filosofia della praxis e nella sua lotta ricorre ad alleati paradossali, come il mediocrissimo De Man. Questo accanimento è sospetto, può rivelarsi un alibi per negare una resa dei conti. Occorre invece venire a questa resa di conti, nel modo più ampio e approfondito possibile. Un lavoro di tal genere, un Anti‑Croce che nell’atmosfera culturale moderna potesse avere il significato e l’importanza che ha avuto l’Anti-Dühring per la generazione precedente la guerra mondiale, varrebbe la pena che un intero gruppo di uomini ci dedicasse dieci anni di attività.

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Nota I. Le tracce della filosofia della praxis possono trovarsi specialmente nella soluzione che il Croce ha dato di problemi particolari. Un esempio tipico mi pare la dottrina dell’origine pratica dell’errore. In generale si può dire che la polemica contro la filosofia dell’atto puro di Giovanni Gentile ha costretto il Croce a un maggior realismo e a provare un certo fastidio e insofferenza almeno per le esagerazioni del linguaggio speculativo, divenuto gergo e «apriti, sesamo» dei minori fraticelli attualisti.

Nota II. Ma la filosofia del Croce non può essere tuttavia esaminata indipendentemente da quella del Gentile. Un Anti‑Croce deve essere anche un Anti‑Gentile; l’attualismo gentiliano darà gli effetti di chiaroscuro nel quadro che sono necessari per un maggior rilievo.

§13 Note. 1) Elementi di storia etico‑politica nella filosofia della praxis: concetto di egemonia, rivalutazione del fronte filosofico, studio sistematico della funzione degli intellettuali nella vita statale e storica, dottrina del partito politico come avanguardia di ogni movimento storico progressivo.

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2) Croce‑Loria. Si può mostrare che tra il Croce e il Loria la differenza non è poi molto grande nel modo di interpretare la filosofia della praxis. Il Croce, riducendo la filosofia della praxis a un canone pratico di interpretazione storica, col quale si attira l’attenzione degli storici sull’importanza dei fatti economici, non ha fatto che ridurla ad una forma di «economismo». Se si spoglia il Loria di tutte le sue bizzarrie stilistiche e sfrenatezze fantasmagoriche (e certo molto di ciò che è caratteristico del Loria si viene così a perdere) si vede che egli si avvicina al Croce nel nucleo più serio della sua interpretazione (cfr a questo proposito Conversazioni Critiche, I, pp. 291 sgg.).

3) Storia speculativa e necessità di una più grassa Minerva. Leon Battista Alberti ha scritto dei matematici: «Quelli col solo ingegno, separata ogni materia, misurano le forme delle cose. Noi perché vogliamo le cose essere poste da vedere, per questo useremo più grassa Minerva».

4) Se fosse vero, in modo così generico che la storia dell’Europa del secolo XIX è stata storia della libertà, tutta la storia precedente sarebbe stata altrettanto genericamente storia dell’autorità; tutti i secoli precedenti sarebbero stati di uno stesso color bigio e indistinto, senza svolgimento, senza lotta. Inoltre: un principio egemonico (etico‑politico) trionfa dopo aver vinto un altro principio (e averlo assunto come suo momento, direbbe appunto il Croce). Ma perché lo vincerà? Per sue doti intrinseche di carattere «logico» e razionale astratto? Non ricercare le ragioni di questa vittoria significa fare storia esteriormente descrittiva, senza rilievo di nessi necessari e causali. Anche il Borbone rappresentava un principio etico‑politico, impersonava una «religione» che aveva i suoi fedeli nei contadini e nei lazzari.

C’è dunque sempre stata lotta tra due principii egemonici, tra due «religioni», e occorrerà non solo descrivere l’espansione trionfale di una di esse, ma giustificarla storicamente. Bisognerà spiegare perché nel 1848 i contadini croati combatterono contro i liberali milanesi e i contadini lombardo-veneti combatterono contro i liberali viennesi. Allora il nesso reale etico‑politico tra governanti e governati era la persona dell’imperatore o del re («abbiamo scritto ’n bronte, evviva Francische seconde!»), come più tardi il nesso sarà non quello del concetto di libertà, ma il concetto di patria e di nazione. La «religione» popolare sostituita al cattolicismo (o meglio in combinazione con esso) è stata quella del «patriottismo» e del nazionalismo.

Ho letto che durante l’affare Dreyfus uno scienziato francese massone e ministro esplicitamente disse che il suo partito voleva annientare l’influsso della Chiesa in Francia, e poiché la folla aveva bisogno di un fanatismo (i francesi usano in politica il termine «mystique») sarebbe stata organizzata l’esaltazione del sentimento patriottico.

Bisogna ricordare, del resto, il significato che assunse il termine «patriotta» durante la Rivoluzione francese (significò certo «liberale» ma con un significato concreto nazionale) e come esso, attraverso le lotte del secolo XIX sia stato sostituito da quello di «repubblicano» per il nuovo significato assunto dal termine patriotta che è diventato monopolio dei nazionalisti e dei destri in generale.

Che il contenuto concreto del liberalismo popolare sia stato il concetto di patria e di nazione si può vedere dal suo stesso svolgimento in nazionalismo, e nella lotta contro il nazionalismo da parte sia del Croce, rappresentante della religione della libertà, come del papa, rappresentante del cattolicismo. (In forma popolaresca una documentazione di questa religione popolare della patria si può ricavare dai sonetti sulla Scoperta dell’America di Pascarella).

5) La storia speculativa può essere considerata come un ritorno, in forme letterarie rese più scaltre o meno ingenue dallo sviluppo della capacità critica, a modi di storia già caduti in discredito come vuoti e retorici e registrati in diversi libri dallo stesso Croce.

La storia etico‑politica, in quanto prescinde dal concetto di blocco storico in cui contenuto economico sociale e forma etico‑politica si identificano concretamente nella ricostruzione dei vari periodi storici, è niente altro che una presentazione polemica di filosofemi più o meno interessanti, ma non è storia.

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Nelle scienze naturali ciò equivarrebbe a un ritorno alle classificazioni secondo il colore della pelle, delle piume, del pelo degli animali, e non secondo la struttura anatomica. Il riferimento alle scienze naturali nel materialismo storico e il parlare di «anatomia» della società era solo una metafora e un impulso ad approfondire le ricerche metodologiche e filosofiche.

Nella storia degli uomini, che non ha il compito di classificare naturalisticamente i fatti, il «colore della pelle» fa «blocco» con la struttura anatomica e con tutte le funzioni fisiologiche; non si può pensare un individuo «scuoiato» come il vero «individuo», ma neanche l’individuo «disossato» e senza scheletro. Uno scultore, Rodin, ha detto (cfr Maurice Barrès, Mes Cahiers, IV serie): «Si nous n’étions pas prévenus contre le squelette, nous verrions comme il est beau». In un quadro o in una statua di Michelangelo si «vede» lo scheletro delle figure ritratte, si sente la sodezza della struttura sotto i colori o il rilievo del marmo. La storia del Croce rappresenta «figure» disossate, senza scheletro, dalle carni flaccide e cascanti anche sotto il belletto delle veneri letterarie dello scrittore.

6) Il trasformismo come una forma della rivoluzione passiva nel periodo dal 1870 in poi.

7) Per valutare la funzione del Croce nella vita italiana ricordare che tanto le Memorie di Giolitti che quelle di Salandra si concludono con una lettera del Croce.

8) Con linguaggio crociano si può dire che la religione della libertà si oppone alla religione del Sillabo, che nega in tronco la civiltà moderna; la filosofia della praxis è un’«eresia» della religione della libertà, perché è nata nello stesso terreno della civiltà moderna.

Cattolicesimo e altre Religioni

Croce e la Religione

§5 Croce e la religione. La posizione del Croce verso la religione è uno dei punti più importanti da analizzare per comprendere il significato storico del crocismo nella storia della cultura italiana.

Per il Croce la religione è una concezione della realtà con una morale conforme a questa concezione, presentata in forma mitologica. Pertanto è religione ogni filosofia, cioè ogni concezione del mondo, in quanto è diventata «fede», cioè considerata non come attività teoretica (di creazione di nuovo pensiero) ma come stimolo all’azione (attività etico‑politica concreta, di creazione di nuova storia).

Il Croce tuttavia è molto cauto nei suoi rapporti con la religione tradizionale: lo scritto più «avanzato», è il capitolo IV dei «Frammenti di Etica» (p. 23 del volume Etica e politica), Religione e serenità, che fu pubblicato la prima volta durante la guerra, verso la fine del 1916 o ai primi del 1917.

Sebbene il Croce non pare voglia fare nessuna concessione intellettuale alla religione (neppure del genere molto equivoco di quelle che fa il Gentile) e a ogni forma di misticismo, tuttavia il suo atteggiamento è tutt’altro che combattivo e militante. Questa posizione è anzi molto significativa e da mettere in rilievo. Una concezione del mondo non può rivelarsi valida a permeare tutta una società e a diventare «fede» se non quando dimostra di essere capace di sostituire le concezioni e fedi precedenti in tutti i gradi della vita statale.

Ricorrere alla teoria hegeliana della religione mitologica come filosofia delle società primitive [l’infanzia dell’umanità] per giustificare l’insegnamento confessionale sia pure nelle sole scuole elementari, non significa altro se non ripresentare sofisticata la formula della «religione buona per il popolo» e in realtà abdicare e capitolare dinanzi all’organizzazione clericale.

Non può non essere rilevato inoltre che una fede che non si riesce a tradurre in termini «popolari» mostra per ciò stesso di essere caratteristica di un determinato gruppo sociale.

Nonostante questa posizione verso la religione, la filosofia del Croce è stata molto studiata dai cattolici del gruppo neo‑scolastico e soluzioni di problemi particolari sono state accolte dall’Olgiati e dal Chiocchetti (il libro dell’Olgiati su Marx è costruito con materiali critici crociani; il Chiocchetti nel suo volume sulla Filosofia di B. Croce difende l’accoglimento di alcune dottrine crociane, come quella dell’origine pratica dell’errore).

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C’è stato un periodo in cui i neo-scolastici, che avevano rappresentato il tentativo di incorporare nel tomismo le moderne dottrine scientifiche e il positivismo del secolo XIX, di fronte al discredito che il positivismo godeva fra gli intellettuali e alle fortune del neoidealismo, tentarono di trovare un terreno d’accordo tra il tomismo e l’idealismo e quindi una certa fortuna, tra loro, delle filosofie del Croce e del Gentile. Da qualche tempo i neoscolastici stanno concentrandosi su un terreno più ristretto e più proprio, e combattono contro ogni infiltrazione idealistica nelle loro dottrine: certo essi credono di poter ereditare tutto ciò che può essere salvato del positivismo e di appropriarselo, diventando i soli oppositori teorici dell’idealismo.

Oggi l’opposizione dei cattolici al Croce si va intensificando, per ragioni specialmente pratiche (è molto diverso l’atteggiamento critico della «Civiltà Cattolica» verso il Croce e verso il Gentile); i cattolici capiscono molto bene che il significato e la funzione intellettuale del Croce non sono paragonabili a quelli dei filosofi tradizionali, ma sono quelli di un vero riformatore religioso, che per lo meno riesce a mantenere il distacco tra intellettuali e cattolicismo e quindi a rendere, in una certa misura, difficile anche una forte ripresa clericale nelle masse popolari.

Per il Croce, «dopo Cristo siamo diventati tutti cristiani», cioè la parte vitale del cristianesimo è stata assorbita dalla civiltà moderna e si può vivere senza «religione mitologica».

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La polemica anticrociana da parte di cattolici laici non è di molto momento: sono da ricordare l’articolo di Giovanni Papini Il Croce e la Croce nella «Nuova Antologia» del 1° marzo 1932 e quello di Aldo Ferrabino L’Europa in Utopia nella «Nuova Antologia» del 1° aprile 1932.

Nota 1a. L’osservazione di maggior rilievo fatta dal Papini alla Storia d’Europa, e che sia congruente, è quella riguardante gli ordini religiosi. Ma l’osservazione non è valida, poiché è verissimo che dopo il Concilio di Trento e la fondazione della Compagnia di Gesù, non sorse più nessun grande ordine religiosamente attivo e fecondo di nuove o rinnovate correnti di sentimento cristiano; sorsero nuovi ordini, è vero, ma essi ebbero un carattere, per così dire, prevalentemente amministrativo e corporativo. Il giansenismo e il modernismo, che furono i due grandi movimenti religiosi e rinnovatori che sorsero nel seno della Chiesa in questo periodo, non hanno suscitato ordini nuovi o rinnovato i vecchi.

Nota 2a. L’articolo del Ferrabino è più notevole per una certa rivendicazione di realismo storico contro le astrazioni speculative. Ma è astratto anch’esso e presenta un’improvvisazione interpretativa della storia del secolo XIX molto sconnessa e di carattere cattolico‑rettorico, con prevalenza della rettorica. Il rilievo a p. 348 riguardante Marx è anacronistico, poiché le teorie marxiste sullo Stato erano tutte elaborate prima della fondazione dell’Impero tedesco e anzi furono abbandonate dalla socialdemocrazia proprio nel periodo di espansione del principio imperiale, ciò che mostra, al contrario di quanto scrive il Ferrabino, come l’Impero ebbe la capacità di influenzare e assimilare tutte le forze sociali della Germania1.

Note

§8 Trascendenza – teologia – speculazione. Il Croce coglie ogni occasione per mettere in rilievo come egli, nella sua attività di pensatore, abbia studiosamente cercato di espungere dalla sua filosofia ogni traccia e residuo di trascendenza e di teologia e quindi di metafisica, intesa nel senso tradizionale. Così egli, in confronto del concetto di «sistema» ha messo in valore il concetto di problema filosofico, così egli ha negato che il pensiero produca altro pensiero, astrattamente, ed ha affermato che i problemi che il filosofo deve risolvere, non sono una filiazione astratta del precedente pensiero filosofico, ma sono proposti dallo svolgimento storico attuale, ecc.

Il Croce è giunto fino ad affermare che la sua ulteriore e recente critica della filosofia della praxis è appunto connessa a questa sua preoccupazione antimetafisica e antiteologica, in quanto la filosofia della praxis sarebbe teologizzante e il concetto di «struttura» non sarebbe che la ripresentazione ingenua del concetto di un «dio ascoso»1.

Bisogna riconoscere gli sforzi del Croce per fare aderire alla vita la filosofia idealistica, e tra i suoi contributi positivi allo sviluppo della scienza sarà da annoverare la sua lotta contro la trascendenza e la teologia nelle loro forme peculiari al pensiero religioso‑confessionale. Ma che il Croce sia riuscito nel suo intento in modo conseguente non è possibile ammettere: la filosofia del Croce rimane una filosofia «speculativa» e in ciò non è solo una traccia di trascendenza e di teologia, ma è tutta la trascendenza e la teologia, appena liberate dalla più grossolana scorza mitologica.

La stessa impossibilità in cui pare si trovi il Croce di comprendere l’assunto della filosofia della praxis (tanto da lasciare l’impressione che si tratti non di una grossolana ignorantia elenchi ma di una gherminella polemica meschina e avvocatesca) mostra come il pregiudizio speculativo lo acciechi e lo devii.

La filosofia della praxis deriva certamente dalla concezione immanentistica della realtà, ma da essa in quanto depurata da ogni aroma speculativo e ridotta a pura storia o storicità o a puro umanesimo. Se il concetto di struttura viene concepito «speculativamente», certo esso diventa un «dio ascoso»; ma appunto esso non deve essere concepito speculativamente, ma storicamente, come l’insieme dei rapporti sociali in cui gli uomini reali si muovono e operano, come un insieme di condizioni oggettive che possono e debbono essere studiate coi metodi della «filologia» e non della «speculazione». Come un «certo» che sarà anche «vero», ma che deve essere studiato prima di tutto nella sua «certezza» per essere studiato come «verità».

Non solo la filosofia della praxis è connessa all’immanentismo, ma anche alla concezione soggettiva della realtà, in quanto appunto la capovolge, spiegandola come fatto storico, come «soggettività storica di un gruppo sociale», come fatto reale, che si presenta come fenomeno di «speculazione» filosofica ed è semplicemente un atto pratico, la forma di un contenuto concreto sociale e il modo di condurre l’insieme della società a foggiarsi una unità morale. L’affermazione che si tratti di «apparenza», non ha nessun significato trascendente e metafisico, ma è la semplice affermazione della sua «storicità», del suo essere «morte‑vita», del suo rendersi caduca perché una nuova coscienza sociale e morale si sta sviluppando, più comprensiva, superiore, che si pone come sola «vita», come sola «realtà» in confronto del passato morto e duro a morire nello stesso tempo.

La filosofia della praxis è la concezione storicistica della realtà, che si è liberata da ogni residuo di trascendenza e di teologia anche nella loro ultima incarnazione speculativa; lo storicismo idealistico crociano rimane ancora nella fase teologico‑speculativa.

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