da
Gramsci
le sue idee nel nostro tempo
Editrice l'Unità, Roma 1987
«Contraddizioni» dello storicismo
Gramsci affronta questo tema riferendosi in modo particolare a
scritti di Adriano Tilgher e di Filippo Burzio, mettendo a fuoco,
simultaneamente, le espressioni letterarie di tale tipo di
«contraddizioni». Egli prende le mosse da una
citazione esplicita delle pubblicazioni di Tilgher contro lo
storicismo, le quali possono condensarsi in due affermazioni
fondamentali: 1) «Lo storicismo è radicalmente incapace
di giustificare se stesso e di fondare un'azione veramente creatrice
di storia»; 2) «Lo storicismo non può che
giustificare un'azione riformistica, che continua, ma non crea,
essa, nuova storia». Dal punto di vista immanentistico
è, però, del tutto contraddittorio — sottolinea
Tilgher — «presupporre alla Vita una legge, un piano, un
disegno che la governi e la indirizzi verso mete determinate...
Atto è ciò che è e poteva anche non essere,
è imprevedibilità, è contingenza,
spontaneità radicale».
Profondamente rielaborati e ristrutturati sono motivi che
sembrano riaffiorare nella critica di Gramsci alla dialettica
di Croce, laddove si chiede se lo storicismo crociano non sia, esso
stesso, «una forma, abilmente mascherata, di storia a disegno,
come tutte le concezioni riformistiche». Come si vede
colpiscono, su questo punto, anche le coincidenze di ordine
lessicale.
Contemporaneamente, però, Gramsci prende drasticamente le
distanze da un altro punto essenziale della critica di Tilgher allo
storicismo nella sua generalità: non è affatto vero —
osserva polemicamente — che non si possa essere, al tempo stesso,
«critici e uomini d'azione», in modo «non solo che
l'uno aspetto non indebolisca l'altro, ma anzi lo
convalidi». Ciò che per Tilgher è una
contraddizione di ordine teorico che inficia lo storicismo alle
radici, è, in effetti, solo una «contraddizione»
di ordine psicologico, che può nascere, come tale, sul
terreno di ogni storicismo. L'errore sta nel concepire in modo
meccanico i due termini, ipostatizzandoli; mentre invece occorre
vedere, volta per volta, in che relazioni si situino sul piano
storico «azione» e «criticità», nei
diversi individui, nelle diverse epoche, nei vari strati sociali.
Tale consapevolezza non toglie — anzi specifica — l'esistenza della
«contraddizione» psicologica di cui parla Burzio nel suo
lavoro sul Demiurgo, e che a Gramsci preme qui mettere a fuoco:
«essere sopra le passioni e ai sentimenti pur
provandoli» (o anche — come Burzio scrive altrove —
«accettare la contesa con animo superiore alla
contesa»). Ma essa risulta inconcepibile nel quadro di una
riduzione — come quella operata da Croce — della
«politica» a «passione». Il capo, il grande
capo politico non è passionalità; all'opposto,
è anzitutto conoscenza e comprensione — sia pure fortemente
simpatetica — delle passioni che vanno dirette e governate.
Solo la filosofia della praxis — e la concezione della politica che
ad essa si connette — è in grado di individuare ed apprezzare
tale specifica «contraddizione», esprimendola pienamente
anche sul piano linguistico, «letterario».
Su questo terreno la «contraddizione» può infatti
manifestarsi in duplice maniera: come ironia e come sarcasmo. Ma
l'ironia è forma letteraria propria di singoli intellettuali
che, chiusi nella cerchia di un distacco o dello scetticismo, non
riescono a confrontarsi, effettivamente, con un problema nel
quale si mostra un carattere essenziale della politica moderna. Di
fatto, nella «contraddizione» individuata da Burzio si
esprime il nodo complesso e intricato del rapporto fra masse moderne
e capo politico. E ciò nel quadro di un processo storico
segnato dallo «sconvolgimento» dei tradizionali schemi
«naturalistici», evidenziato, sul piano politico,
dalla sostituzione degli «organismi collettivi» —
cioè dei partiti — ai tradizionali capi politici di tipo
carismatico. Al fondo delle diverse espressioni letterarie
della «contraddizione» segnalate da Gramsci stanno, in
effetti, differenti posizioni politiche. Come sempre, nei Quaderni
politica e linguaggio si stringono in un nodo solo (nell'ambito di
una reinterpretazione del marxismo e della politica entro cui
agisce fertilmente il vocabolario delle «scienze dello
spirito»).
Se dunque l'ironia è la forma letteraria in cui si
manifestano distacco e scetticismo, «nel caso dell'azione
storico-politica l'elemento stilistico adeguato,
l'atteggiamento caratteristico del distacco- comprensione, è
il sarcasmo», «appassionatamente positivo»,
«creatore», «progressivo»: quel
sarcasmo che intende positivamente innovare — senza
distruggerlo — il nucleo vitale delle «illusioni» o
delle «credenze» popolari. In questo senso esso svolge
una duplice funzione: 1) è forma letteraria delle
«contraddizioni» in un periodo di transizione, quando le
nuove concezioni non si sono ancora interamente dispiegate
diventando senso comune, credenze; 2) è forma specifica del
nuovo linguaggio storicistico, che non può avere carattere
«utopistico», «predicatorio»,
«apodittico» (lo storicismo — osserva Gramsci,
sviluppando un motivo avviato già nel primo Quaderno —
«deve creare un gusto stilistico nuovo, persino un linguaggio
nuovo come mezzi di lotta intellettuale»). In tal modo, il
sarcasmo — forma letteraria fortemente «passionale» —
esprime esigenze di ordine teorico e pratico che solo
«superficialmente possono apparire come insanabilmente
contraddittorie».
Michele Ciliberto
docente di storia della filosofia contemporanea
all'Università di Trieste
*
da
Dominique Grisoni, Robert Maggiori
Guida a Gramsci
BUR, Milano 1975
STORICISMO
La posizione «storicista» di Gramsci si colloca prima di
tutto nell'ambito della lotta contro le deformazioni meccanicistiche
e fatalistiche della II Internazionale nel periodo successivo alla
rivoluzione russa, all'interno del fronte che vi si oppose, da Rosa
Luxemburg a Mehring, da Korsch a Lukàcs. In questo senso la
sua posizione si collega alla contemporanea valorizzazione della
soggettività e della prassi, del passaggio all'azione:
bisogna fare la rivoluzione che la storia ha posto all'ordine del
giorno e non irrigidirsi nella lettura «contemplativa»
del Capitale. Ma è evidente che lo storicismo gramsciano va
al di là di tale rivendicazione polemica perché
Gramsci presenta lo «storicismo assoluto» come la
filosofia del marxismo. Tenteremo di rendere esplicito il senso di
questa formula, senza addentrarci nei particolari del dibattito che
attualmente è in corso intorno allo
«storicismo»1.
Per Gramsci, la filosofia è prima di tutto una
«concezione del mondo» che però, per realizzarsi,
deve produrre una «norma di vita» in grado di promuovere
un'attività pratica e una volontà di
«trasformare il mondo». Ciò significa che questa
filosofia non è la «filosofia» di questo o quel
filosofo, ma la coerente espressione della concezione del mondo
diffusa nel corpo sociale e capace di diventare norma d'azione
collettiva che investa la realtà per modificarla, cioè
di diventare «storia»; in altri termini, una filosofia
è «razionale» nella misura in cui corrisponde a
necessità storiche obbiettive e diventa dunque reale, causa
reale di mutamenti reali, come indica l'XI tesi su Feuerbach.
Secondo Gramsci: «si può dire che il valore storico di
una filosofia può essere "calcolato" dall'efficacia "pratica"
che essa ha conquistato» (MS, EI p. 23, ER p. 27). La
filosofia che diventa «forza materiale» deve dunque
«reagire» sulla società che esprime ed è
questa reazione che permette di valutarne la «portata
storica», la «forza» che non è mai quella
di una «elucubrazione» individuale, ma quella di un
«fatto storico» (MS, EI pp. 23-24, ER p. 28).
Quando si realizza praticamente in una norma di vita quindi in una
politica, la filosofia si confonde dunque con la storia che si sta
formando: «la filosofia di un'epoca storica non è
dunque altro che la "storia" di quella stessa epoca... storia e
filosofia sono inscindibili, in questo senso, formano
"blocco"» (MS, EI p. 22, ER p. 25). Questa concezione della
filosofia, come «massa di variazioni che il gruppo dirigente
è riuscito a determinare nella realtà
precedente» (MS, EI p. 22, ER p. 25), della filosofia come
storia, rivendica l'intervento della volontà umana, dell'uomo
come protagonista della storia, dell'uomo che, a livello
sovrastrutturale, prende coscienza della forza estranea ed esterna
che l'opprime (la struttura) e mette in opera gli strumenti
teorico-pratici della sua trasformazione da
«necessità» in «libertà».
Il marxismo è uno storicismo nella misura in cui la sua
filosofia è razionale, cioè agita una volontà
collettiva che lavora per la trasformazione dei rapporti sociali nei
limiti posti dalle possibilità obbiettive. È la storia
dell'uomo che costruisce se stesso e la storia. Tale posizione
sarebbe attaccabile come «volontaristica» se non
presupponesse la determinazione teorica preliminare delle
possibilità di cambiamento della struttura secondo il
principio marxiano ripreso da Gramsci, secondo cui nuovi rapporti di
produzione non si possono imporre prima che si siano formate, nel
seno stesso della vecchia società, le condizioni materiali
per i nuovi rapporti. È la filosofia, nel suo momento
«teorico» distinto ma non separato dal momento
dell'attuazione pratica, che riconosce e identifica le
contraddizioni che, nella loro esasperazione, potrebbero mettere in
crisi i rapporti di produzione dominanti; è la filosofia che
mostra il carattere storico, quindi transitorio, caduco, superabile,
delle categorie dell'economia politica borghese individuando il
momento della realizzazione della volontà collettiva in
quanto «corrisponde a necessità obbiettive
storiche» (MS, EI p. 23, ER p. 26).
Depositaria di questo compito, la filosofia del marxismo come
attività teoretica pura non potrà che essere la
conoscenza dello sviluppo storico, l'identificazione dei fatti
ripetibili che costituiscono il processo socio-economico e la loro
traduzione in categorie logiche che ne rivelino le connessioni e
spieghino i meccanismi empirici che li fondano; in questo senso la
filosofia sarà la scienza della storia, concepita questa
volta, non come storia che l'uomo fa (questo era il primo
significato dello storicismo gramsciano) ma come conoscenza del
divenire storico in cui si è sviluppata la prassi umana, come
storiografia. Lo storicismo gramsciano risponde all'esigenza del
filosofo italiano di porre il luogo della prassi umana nel mondo
terreno, nel «factum» vicinano, in ciò che
è «fatto» da noi, cioè nella storia. In
questo senso, la filosofia realizzata, fatta politica, si identifica
con la storia che noi costruiamo: è uno «storicismo
assoluto, la mondanizzazione e terrestrità assoluta del
pensiero, un umanesimo assoluto della storia» (MS, EI p. 159,
ER p. 188). Ma la filosofia, concepita come attività teorica,
sarà anche conoscenza delle condizioni di attuazione della
volontà nel processo obbiettivo del reale: in questo senso,
sarà scienza dello sviluppo storico. Sarà, secondo
l'espressione di Croce (per il quale però la storia è
unicamente «etico-politica», cioè intellettuale e
speculativa, senza legami con le realtà strutturali),
espressione ripresa da Gramsci, una «metodologia generale
della storiografia».
Gramsci non sviluppa le conseguenze di questa posizione secondo la
quale lo storicismo assoluto (assoluto perché il marxismo
viene concepito anch'esso come storicità) diventa la
filosofia del marxismo. Egli sottolinea che l'identità fra
filosofia e storia è «immanente al materialismo»
ma, aggiunge, come «previsione storica di una fase a
venire» (MS, EI p. 217, ER p. 259). Nella stessa pagina,
rileva ancora che: «la proposizione che il proletariato
tedesco è l'erede della filosofia classica tedesca contiene
appunto l'identità tra storia e filosofia», come
già indicava la tesi XI su Feuerbach. Quindi nell'espressione
«materialismo storico» è il secondo termine che
va accentuato. Ma, sulla base di queste premesse, Gramsci non
costruisce un sistema filosofico: indica solo la via verso la quale
indirizzarsi per costituire la filosofia del marxismo che non esiste
se non in germe.
«Purtroppo in Francia, chi ha ripreso e continuato lo sforzo
di Gramsci?» si chiedeva Althusser in Pour Marx (p. 114, trad.
it.: Per Marx, Editori Riuniti, Roma, 1967, p. 94). È una
domanda che dal 1962 a oggi non ha ancora trovato una risposta
adeguata.
1 Per la confutazione dello storicismo (che nel primo caso quindi
è anche confutazione del marxismo) si possono vedere K.
Popper The poverty of historicism, London, 1960 (trad. it.: Miseria
dello storicismo, Feltrinelli, Milano, 1974) e soprattutto la
critica ben più rigorosa di Louis Althusser: Lire le Capital,
Maspero, 1965, pp. 150 e succ. (trad. it. Leggere il Capitale,
Feltrinelli, Milano, 1971, pp. 126 e succ.) che si appunta, oltre
che su Gramsci, su Della Volpe, Colletti, Sartre. Per la risposta ad
Althusser e la difesa dello storicismo, si possono vedere N.
Badaloni: Gramsci storicista di fronte al marxismo contemporaneo in
Prassi rivoluzionaria e storicismo in Gramsci, Quaderni di
«Critica marxista», 1967 e vari articoli apparsi in
«Rinascita»: R. Dal Sasso (n. 1 delPl-12-1967), L.
Lombardo Radice (15-4-1967), Badaloni, Dal Sasso, Della Volpe,
Gruppi (15-4-1968); sull'argomento si è pronunciato,
criticamente, anche G. Marramao, in «Quaderni
piacentini», XI, n. 46, marzo 1972.