Pierre-Joseph Proudhon
     Critica della proprietà e dello Stato
     a cura di Giampietro N. Berti
     elèuthera
     © antologico 2009 elèuthera
     Questo libro è distribuito sotto licenza copyleft Creative
      Commons 2.5 (by-nc-sa)
     Progetto grafico di Riccardo Falcinelli
     
     Indice
     
     Introduzione
     Nota bio-bibliografica
     capitolo primo
     Critica della proprietà
     capitolo secondo
     Critica dello Stato
     capitolo terzo
     Critica del comunismo
     capitolo quarto
     La giustizia come equilibrio
     capitolo quinto
     Autorità e libertà
     capitolo sesto
     L’associazione degli uguali
     capitolo settimo
     Il nuovo contratto sociale
     capitolo ottavo
     Il federalismo
    
    Introduzione
    
    La chiave del pensiero proudhoniano, ciò che ne costituisce al tempo
    stesso l’originalità e l’unità, non si trova in un apriorismo
    intellettuale o in un dogma metafisico, ma scaturisce dall’analisi
    dell’esistente inteso nella sua evidenza primordiale, dalla
    constatazione sociologica del suo palese pluralismo: il mondo
    morale, come il mondo fisico, riposano su una pluralità di elementi
    irriducibili e antagonisti. E del pluralismo occorre tener conto in
    ogni costruzione economica, in ogni concezione filosofica, in ogni
    metodo pedagogico, perché questa è la dinamica incessante, di
    composizione e scomposizione, della realtà, questa è la sua tensione
    permanente e la linfa vitale della libertà. Solo riconoscendo questo
    pluralismo organico nella realtà dei fatti e della società, sarà
    possibile passare a un pluralismo organizzatore come metodo di
    pensiero e tecnica di azione, come fattore di equilibrio delle
    forze.
    
    Si delinea così in modo inequivocabile il fondamento teorico del suo
    anarchismo, ossia un relativismo pluralistico che può essere
    considerato senza alcun dubbio la chiave interpretativa di tutto il
    suo pensiero, di tutta la sua dottrina. Questo relativismo
    pluralistico poggia anch’esso sull’idea centrale che la scienza e la
    libertà sono infinite, per cui ogni pretesa di conoscenza integrale
    come ogni pretesa di risoluzione definitiva si mostrano fasulle sul
    piano scientifico e totalitarie sul piano politico. Occorre invece
    un grande realismo alimentato dalla consapevolezza della precarietà,
    della provvisorietà e della relatività di ogni conoscenza umana*.
    
    Per Proudhon il problema fondamentale della conoscenza risiede nella
    difficoltà che l’uomo ha di abbracciare e di comprendere la
    simultaneità degli innumerevoli fattori che intervengono nello
    svolgimento della realtà. Per progredire, la scienza ha bisogno di
    concettualizzazioni, di schematizzazioni, di ordine, di precisione,
    ma nello stesso tempo ogni fissità pregiudica l’avanzata stessa del
    sapere, convertendolo da una ricerca «aperta» a una forma chiusa.
    
    La scienza rappresenta di fatto una lotta contro ogni forma di
    arbitrio e, in quanto tale, non può che essere fondata
    obiettivamente; tuttavia questa razionalità, che deve essere il
    fondamento costante della ricerca, non può pretendere di essere
    esaustiva perché non esiste la possibilità di una totale
    razionalizzazione della realtà. Proudhon riconosce dei limiti alla
    conoscenza umana, nel senso che essa può spiegare il rapporto tra le
    cose, ma non può dare ragione e spiegazione della natura ultima dei
    fenomeni. Si precisa così il senso del suo problematicismo, tutto
    centrato sull’idea che il progresso scientifico si identifichi con
    la consapevolezza dell’impossibilità di pervenire a soluzioni
    integrali. L’esperienza umana non può risolversi in dati elementari
    prestabiliti. Bisogna dunque riconoscere fino in fondo la
    limitatezza dell’uomo e perciò la sua impossibilità a risolvere
    definitivamente ogni problema.
    
    Questa consapevolezza fa di Proudhon un teorico avvertito e
    disincantato del socialismo, perché lo pone lontano da ogni sogno
    utopistico di rigenerazione totale e di metamorfosi antropologica.
    
    Diventa dunque comprensibile la sua critica alla dialettica di
    Hegel. Mentre questi definisce la realtà nella forma triadica di una
    tesi e di un’antitesi, che si risolvono in una sintesi superiore,
    Proudhon afferma che proprio le opposizioni e le antinomie sono la
    struttura stessa del reale e che l’antinomia non si risolve. Il
    sistema hegeliano, secondo Proudhon, è un sistema precostituito,
    perché invece di attendere i fatti li anticipa; di conseguenza, la
    sua sintesi è del tutto fantastica e arbitraria. Insomma la sintesi,
    afferma Proudhon, non distrugge realmente ma solo formalmente la
    tesi e l’antitesi ed essa può farsi valere solo trasformandosi in
    una volontà egemonica di potere. Rispetto alla dialettica hegeliana,
    quella di Proudhon si specifica come un metodo di analisi dei
    rapporti, una ricerca estremamente sottile e sfumata delle leggi di
    composizione e combinazione dei fattori della realtà. In questo
    senso, essa tende a essere un pluralismo sociologico sempre più
    realistico; occorre non tanto inventare una logica, una idea sia
    pure rivoluzionaria e libertaria da imporre con forza alla realtà,
    ma scoprire le leggi proprie della società in modo da restituire a
    questa la sua autonomia, persa con la fissazione istituzionale della
    ripetitività autoritaria.
    
    Si tratta dunque di un metodo fortemente empirico che consente
    all’osservatore di seguire le infinite composizioni e scomposizioni
    della realtà, di aderire al movimento reale delle cose e del loro
    svolgimento. L’ostilità di Proudhon verso tutti gli a priori lo
    spinge sempre più a cercare una metodologia capace di intendere
    specificamente il movimento stesso della realtà nel suo farsi,
    «colto, per così dire, sul fatto», in una ricerca incessante,
    essendo indefinito lo sviluppo stesso della società. Ecco perché la
    ricerca proudhoniana è costituzionalmente una ricerca «aperta», per
    sua struttura rivedibile e correggibile, non dogmatica,
    intrinsecamente libertaria. Non si tratta, beninteso, di una
    filosofia eclettica, ma di una concezione sociale che si prefigge di
    essere scientifica perché tende a riflettere l’infinita complessità
    della società per liberarla da ogni soffocante sintesi unitaria;
    perché si sostanzia di un metodo che non esita a cercare e
    accogliere la diversità in tutti i suoi dettagli. In conclusione, la
    struttura antinomica della società, essendo espressione
    dell’opposizione reale delle cose concrete, dimostra di per sé
    l’impossibilità di ogni sintesi a priori e di conseguenza
    l’impotenza oggettiva di ogni regime volto alla loro forzata
    mediazione. E qui infatti sta tutto lo sforzo teorico di Proudhon:
    nel ricercare l’equilibrio dei contrari senza far scomparire la
    contraddizione, linfa vitale della società e della libertà.
    
    Si spiega quindi perché non vi è in Proudhon un’assolutizzazione del
    suo stesso metodo. In coerenza con i propri presupposti, il metodo
    di Proudhon è nei suoi principi anti-assolutistico, in quanto la
    filosofia viene concepita soltanto come metodologia, cioè come
    logica delle scienze. Secondo Proudhon è necessario vedere quale
    «struttura» sia sottesa alla legge delle antinomie, quale
    interazione reciproca le colleghi, quale totalità le comprenda.
    
    Alla base della sociologia elaborata dal pensatore francese sta il
    concetto del lavoro come azione intelligente dell’uomo sulla materia
    e come forza plastica della società. Questo concetto è formulato da
    Proudhon in modo assai preciso: il lavoro – campo di osservazione
    dell’economia politica considerato: 1. soggettivamente nei
    lavoratori; 2. obiettivamente nella produzione; 3. sinteticamente
    nella distribuzione degli impieghi e nella ripartizione dei salari;
    4. storicamente nelle sue determinazioni scientifiche – è la forza
    plastica della società, l’idea tipo che determina le diverse fasi
    della sua crescita e, di seguito, di tutto il suo organismo sia
    interno sia esterno. Così inteso, il concetto di lavoro è il
    concetto tipo della «serie», ciò che, in un certo senso, unifica
    tutte le serie perché è proprio il lavoro che si esprime nelle forme
    infinite del materialismo, dell’umanesimo, dello spiritualismo, del
    volontarismo e del personalismo, sia individuale sia collettivo. Il
    lavoro è dunque l’energia sociale per eccellenza, la forza specifica
    che crea e regge la società. Realtà né materiale né spirituale, esso
    è una forza «ideo-realista» che comprende indissolubilmente, nel suo
    processo creativo, idea e fatto, materia e spirito, uomo e società.
    
    Tutta la socio-economia proudhoniana, dunque, vuol fondarsi come
    scienza del lavoro umano, quale che sia la sua determinazione
    concreta. Il lavoro si sviluppa attraverso la duplice legge della
    comunità d’azione e della sua divisione produttiva, perché si
    esplicita da un lato come processo di integrazione sociale, dando
    così alla società la sua unità e la sua coerenza collettiva,
    dall’altro come processo di differenziazione sociale, in quanto
    implica la diversificazione dei produttori e la specificazione delle
    funzioni. Per Proudhon, quindi, l’economia politica non è che un
    sapere particolare di questa scienza del lavoro.
    
    Ma questo concetto di lavoro non può che rimandare immediatamente al
    concetto di lavoro collettivo, il quale rimanda a sua volta a quello
    di società, perché se è il lavoro ciò che produce tutti gli elementi
    della ricchezza, è la società o l’uomo collettivo che crea tale
    possibilità. Il lavoro collettivo risulta dunque non solamente una
    semplice somma di lavori individuali, ma l’espressione dell’attività
    di un essere sociale avente una sua specifica realtà con proprie
    leggi. Secondo Proudhon, per il vero economista la società è un
    essere vivente dotato di una intelligenza e di un’attività proprie,
    retta da leggi speciali che l’osservazione può scoprire, e la cui
    esistenza si manifesta non sotto una forma fisica, ma per l’insieme
    armonico dell’intima solidarietà di tutti i suoi membri. Così, nel
    seno stesso del lavoro, è la società che si evidenzia in tutte le
    azioni del lavoro umano; è questo il motivo per cui il campo di
    osservazione della scienza economica deve essere la società.
    
    La scoperta della società come un essere collettivo reale, autonomo
    e immanente a tutti i suoi membri comporta la scoperta immediata dei
    suoi due attributi fondamentali: la ragione collettiva e la forza
    collettiva. Queste due nozioni sociologiche, sebbene non siano
    sempre esplicitate in modo chiaro, esauriente e continuativo,
    rimandano però sufficientemente a un comune concetto che si può così
    riassumere: la riunione delle unità individuali genera una realtà
    originale che è qualcosa di più e d’altro rispetto alla loro somma.
    La forza collettiva è l’elemento puramente sensibile della società,
    la sua manifestazione in movimento, l’atto attraverso cui il sociale
    palesa la sua esistenza, mentre la ragione collettiva è al contempo
    una comunità di coscienza e di intelligenza, cioè una ragione
    rinnovabile nel processo storico.
    
     Alla base di entrambe queste nozioni vi è l’idea fondamentale
    che l’uguaglianza e la giustizia sociale non sono solo un dover
    essere, ma un fatto oggettivo, sia pur compresso e deformato dalla
    società gerarchica e sfruttatrice. La creazione di un ordine sociale
    positivo non deve risultare da una costruzione arbitraria imposta
    con la forza e giustificata a posteriori dai legislatori, ma deve
    essere il prodotto dell’applicazione delle leggi sociologiche che
    descrivono l’organizzazione razionale della società intesa come
    lavoratore collettivo. L’autentico ordine sociale, dunque, non può
    che essere generato dalla presa di coscienza che la società attua di
    se stessa, attraverso un rapporto spontaneo e naturale, scoperto e
    applicato. L’ordine, in altre parole, non può che prodursi
    nell’umanità per mezzo della conoscenza che l’essere collettivo
    acquista delle proprie leggi.
    
    Con la nozione di forza collettiva Proudhon precisa che gli
    individui, indipendentemente dalle loro capacità e attitudini,
    vivendo in società ricevono sempre di più di quanto danno; in altri
    termini l’uomo, nel momento in cui si inserisce nell’attività
    produttiva e partecipa a un compito comune, diventa immediatamente
    debitore verso la società di cui fa parte. Questo perché qualsiasi
    impresa produttiva e sociale, che riunisca gli sforzi individuali
    altrimenti separati, ha la capacità di generare, proprio attraverso
    la coesione dovuta al lavoro collettivo, una potenza economica e
    sociale essenzialmente diversa dalla somma, anche infinita, degli
    sforzi individuali divisi e non concomitanti.
    
    Con la nozione di ragione collettiva Proudhon aggiunge che gli
    individui non possono associarsi veramente che alla sola condizione
    che si realizzi tra loro uno scambio fondato sull’uguaglianza.
    Infatti lo scambio tra non uguali, generando disuguaglianza, provoca
    continui conflitti sociali, rendendo impossibile la piena
    realizzazione della socialità umana. La ragione collettiva si
    estrinseca dunque in questo principio dello scambio paritario
    fondato su una ragione necessaria, pena la fine della società
    stessa. Poiché risulta da un gioco complesso della combinazione
    sociale, essa si presenta di volta in volta come intelligenza,
    giudizio, coscienza e volontà. La ragione collettiva non scaturisce
    dalla somma delle ragioni individuali sfocianti in uno stesso
    assoluto trascendente, che implica la rinuncia alla propria
    autonomia primitiva, ma dai rapporti contraddittori e liberi che
    permettono di relativizzare l’assoluto delle ragioni individuali.
    Attraverso questo incontro e scontro vengono superate le
    soggettività rispettive delle ragioni individuali e nasce allora
    questa ragione obiettiva che è la ragione sociale. Così la ragione
    collettiva risulta dall’antagonismo delle ragioni particolari e
    dalla loro composizione attraverso le opposizioni, allo stesso modo
    in cui la potenza pubblica risulta dal concorso delle forze
    individuali concorrenti fra loro. Essa deve procedere per
    «equazioni», negando ogni sistema precostituito.
    
    Ora, se la forza collettiva e la ragione collettiva sono gli
    attributi della società intesa come essere collettivo, come
    lavoratore collettivo, le leggi di questa stessa società devono
    essere enucleate considerando tali attributi. Precisamente, la forza
    collettiva e la ragione collettiva rimandano al concetto di
    divisione e di composizione del lavoro. La divisione del lavoro è
    alla base della forza collettiva, la composizione del lavoro sta a
    fondamento della ragione collettiva. Da questo punto di vista, la
    divisione del lavoro si rivela nell’antagonismo competitivo, che è
    il segno della libertà del lavoratore, mentre la legge di
    composizione del lavoro si manifesta nella «serie», vale a dire
    nell’equilibrio dinamico degli elementi irriducibili, e al tempo
    stesso solidali, che la compongono. In altri termini la legge di
    divisione, o specificazione della funzione, rivela la legge di
    competizione e antagonismo che anima ogni essere individuale o
    collettivo, mentre la legge di composizione o di «serie» è la legge
    che sta alla base dell’associazione, cioè la legge della solidarietà
    che innerva ogni essere individuale e collettivo spingendolo
    all’unione e all’interdipendenza. Perciò antagonismo e solidarietà,
    divisione e composizione formano una coppia antinomica irriducibile.
    Così la divisione delle funzioni e la composizione della società si
    deducono naturalmente, implicando una immediata e irreversibile
    interpretazione ideologica libertaria. Infatti Proudhon,
    considerando contemporaneamente divisione e composizione come una
    coppia antinomica e indissolubile, si pone oltre l’individualismo
    classico del liberalismo e oltre l’universo tradizionale del
    comunismo, per arrivare a una fondazione della società che non è
    l’assoggettamento dell’individuo alla collettività, né la
    subordinazione della collettività all’individuo. Il primo, infatti,
    pretende di liberare l’uomo isolandolo e astraendolo dalla società,
    il secondo considera l’uomo come una semplice unità sottomessa a una
    collettività superiore, la quale, schiacciando la personalità,
    sfocia nel dispotismo. Contro la logica del comunismo, che è la
    logica dell’universalismo, e contro la logica del liberalismo, che è
    la logica del nominalismo, Proudhon pone la logica del pluralismo
    che contempla un ordine autonomo e immanente, al quale partecipano
    tutte le persone individualmente come elementi indispensabili e
    irriducibili di questo insieme.
    
    Si delinea così il suo tentativo sintetizzatore volto a superare
    l’astratta contrapposizione fra individuo e società. La sua analisi,
    focalizzandosi sulle connessioni oggettive che legano l’individuo
    alla società, vuol sottolineare la peculiarità dell’uno e
    dell’altra, pur nella loro indissolubile interdipendenza. Essa
    afferma da una parte che l’individuo è il criterio dell’ordine
    sociale, mentre dall’altra ribadisce la specificità del sociale
    costituito da regole molto diverse da quelle che si ha l’abitudine
    di chiamare senso comune. Questa dialettica fra individuo e società
    è perciò circolare, nel senso che per conoscere l’uomo bisogna
    studiare la società, per conoscere la società bisogna studiare
    l’uomo, vale a dire che l’uomo e la società si servono
    reciprocamente da soggetto e da oggetto. In tal modo si sfugge
    all’unicismo comunista e liberale, che tende ad assorbire l’uno
    nell’altro a seconda del proprio punto di vista.
    
    Nel riconoscimento dell’impossibilità da parte della società di
    assorbire l’individuo e da parte dell’individuo di assorbire la
    società, deve risiedere per Proudhon tutta la ricerca della libertà.
    Ecco perché la forza collettiva non deve essere considerata come una
    potenza obiettiva che si impone agli individui, né la ragione
    collettiva come una ragione definitivamente costituita, come un
    dogma. Sono le classi dominanti, invece, che utilizzano a proprio
    vantaggio l’insieme di questa energia sociale, trasformando la forza
    collettiva in forza coercitiva, e la ragione collettiva in ragione
    assolutistica. Il monopolio economico e il monopolio politico, il
    capitalismo e lo Stato, nascono appunto da questa generale
    alienazione.
    
    Questo realismo, teso a cogliere l’infinita pluralità della vita
    comunitaria, ha il compito di evidenziare la realtà obiettiva delle
    leggi socio-economiche, affinché da queste leggi il socialismo possa
    partire per realizzare i propri scopi. Perché qui sta il punto: il
    socialismo può realizzarsi solo mantenendo l’antinomia.
    
    La conservazione dell’antinomia, quale struttura unificante di tutto
    il reale, comporta il mantenimento di tutta la realtà sociale intesa
    come un insieme multiforme e insopprimibile di forze collettive. In
    altri termini, la pluralità delle forze collettive è il segno
    tangibile della conservazione antinomica. Pertanto, solo una scienza
    sociale capace di cogliere tale insieme può costituire la base
    razionalmente scientifica del socialismo. Una scienza sociale che
    faccia convergere su di sé filosofia ed economia, storia e
    sociologia, politica e morale. Solo così si può cogliere la società
    nella sua immanenza, cioè nell’insieme delle sue successive
    manifestazioni. Ne deriva, di conseguenza, che la scienza sociale è
    in realtà un insieme di conoscenze interdisciplinari che si
    prefiggono di superare ogni approccio unilaterale. Occorre dunque
    fondere in un unico metro analitico l’economia e la sociologia,
    rifiutandosi di stabilire un nesso di causalità tra la struttura
    economica e la struttura sociale, per enucleare invece l’immagine di
    un sistema economicosociale.
    
    Con questa fondamentale impostazione, volta a darsi una scienza
    integrale, Proudhon prende le distanze, ancora una volta, sia dal
    liberismo economico che dal socialismo autoritario. Il liberismo
    economico afferma infatti che gli antagonismi sono ineluttabili e
    che non vi è altra soluzione che la loro accettazione, precludendosi
    così la reale comprensione del significato delle antinomie. Il
    socialismo autoritario sostiene che in una comunità fraterna tutti i
    conflitti scompariranno. L’uno e l’altro concordano nel negare la
    formazione di una scienza sociale che abbia come proprio oggetto le
    leggi immanenti della società: anche il socialismo autoritario – che
    pure dichiara di voler combattere il liberalismo – dimostra di non
    essere capace di superare l’orizzonte dell’economia politica, e
    questo plagio perpetuo è la condanna irrevocabile di entrambi.
    Occorre invece ripensare tutte le forme dell’attività umana secondo
    un criterio di equivalenza e di interdipendenza. Ogni manifestazione
    dell’uomo risulta infatti allo stesso titolo prodotto e produttrice
    della realtà sociale in atto, perché partecipa alla totalità
    espressa in ogni forza collettiva e perché, in egual misura, è
    creatrice di questo fenomeno.
    
    Nella trasformazione sociale, e più in generale nel divenire
    incessante della realtà, tutte le forme dell’attività umana si
    presentano quindi in modo simultaneo perché nella pratica sono
    inseparabili e autonome, giacché nessuna forma deriva
    gerarchicamente da un’altra. Questa possibilità di pensare la realtà
    sociale come totalità dialettica, mai completamente risolvibile,
    come simultaneità attraversata da antinomie e contraddizioni, e non
    da schematismi gerarchici, consente quindi di stringere in un unico
    nesso coscienza e azione, idea e fatto, ragione e pratica, realtà e
    progettazione. Contro ogni gnoseologia che legga la realtà secondo
    una chiave interpretativa di tipo gerarchico, Proudhon sottolinea la
    costante mobilità dell’azione sociale che penetra l’insieme dei
    livelli materiali e intellettuali prodotti dalla società;
    restituisce intera l’immagine della realtà perché colta nella sua
    multiformità e pluridimensionalità; consente di ipotizzare, infine,
    con questa teoria che egli definisce ideo-realista, l’esistenza di
    una forma ordinata, di una idea, espressa dalla totalità delle
    relazioni intelligibili del reale, pur nella loro perenne
    contraddittorietà.
    
    Proudhon intende ripensare tutta la realtà sociale nella sua
    attualità categoriale, in ciò che rimane fisso attraverso il tempo e
    lo spazio, e questo è possibile, a suo giudizio, solo pensando
    l’azione sociale come una identità fra pratica e teoria. L’esempio
    dello scambio, rapporto fondamentale che caratterizza la natura
    stessa del sociale, definisce chiaramente tale identità. In esso,
    afferma Proudhon, non si può opporre una idea a una realtà, né si
    può ricercare un rapporto di successione fra l’una e l’altra perché
    lo scambio è al tempo stesso una pratica e un rapporto astratto, una
    realtà e una idea. Nello scambio, l’idea è identica al fatto,
    l’azione è l’idea.
    
     In questa eccessiva tendenza di Proudhon al razionalismo non
    si deve scorgere un suo inconsapevole platonismo (le idee si
    esprimono nella realtà), né un suo inconsapevole hegelismo
    (l’identità del reale e del razionale). Proudhon ha voluto al
    contrario denunciare ogni idealismo, dimostrando come tutti i
    sistemi filosofici debbano avere la loro radice e la loro ragion
    d’essere nella società stessa, mentre la teoria dell’identità del
    reale e dell’ideale non ha per lui lo scopo di giustificare il
    presente, ma di scoprirne e denunciarne le contraddizioni.
    
    L’analisi proudhoniana della forza collettiva vuol evidenziare
    l’immanenza in ogni azione sociale. In virtù di questo fattore, che
    si sprigiona spontaneamente dalla vita associata, il sociale si
    rende effettivamente autonomo rispetto a qualsiasi potere esterno:
    al di sotto dell’apparato governativo, all’ombra delle istituzioni
    politiche, esso tende a produrre lentamente il suo organismo e a
    costituire un ordine nuovo, espressione della sua vitalità e della
    sua autonomia. La società, per così dire, cammina da sola. Ogni
    potere politico, vivendo dell’approvazione di questa forza sociale,
    rispetto alla quale è tuttavia superfluo, non può perciò che
    instaurare con questa collettività un rapporto di contrapposizione,
    e in questo contrasto si ritrova, per Proudhon, lo stesso
    antagonismo che lega lo spontaneo e il meccanico, il mobile e
    l’immobile, la creazione e la conservazione. Precisamente, si ripete
    qui ciò che avviene fra capitale e lavoro perché, se nella società
    economica la forza collettiva nasce dai rapporti di cooperazione,
    nella società politica sorge dai rapporti di commutazione, di
    relazione, di scambio, moltiplicandosi in funzione di questi. Così
    come esiste un plusvalore economico, vi è pure un plusvalore
    statale, nel senso di una usurpazione permanente della potenza
    sociale espressa dall’essere collettivo della società. Si può dire
    pertanto che sfruttare e governare sono la stessa cosa. La politica
    è dunque, in rapporto alla vita sociale, ciò che il capitale è in
    relazione al lavoro: un’alienazione della forza collettiva; lo
    Stato, in quanto rappresentazione simbolica esterna della forza
    sociale, ne è anche, per ciò stesso, la negazione, una sottrazione
    di vita e di esistenza.
    
     Come si può notare, le categorie dell’alienazione e della
    trascendenza, già esplicitate da Feuerbach e Marx, tornano qui a
    innervare la critica proudhoniana. Specificamente, esse si fondono
    in una stretta analogia: se infatti per Feuerbach la trascendenza si
    dà nel rapporto esistenziale tra l’uomo e Dio, e se per Marx
    l’alienazione si estrinseca nella sola relazione tra l’essere
    produttore e la produzione stessa, per Proudhon questi due piani –
    dell’esistenza e del sociale nella forma della produzione – slittano
    l’uno sull’altro, identificandosi nella comune critica rivolta alla
    trascendenza sotto qualunque forma questa si manifesti.
    
    La contrapposizione fra politico e sociale assume senz’altro la
    forma dello scontro fra autorità e libertà; date queste radicali
    premesse, Proudhon è conseguentemente contrario a qualsiasi
    rivoluzione di tipo politico, tale cioè da interessare soltanto il
    potere. Questo genere di rivoluzione, ai fini di un vero cambiamento
    sociale, è assolutamente fasullo, apparente, proprio perché fittizia
    risulta la dimensione stessa del politico, fondata com’è su una
    esistenza presa a prestito dal sociale.
    
    Ogni rivoluzione politica non può che essere una rivoluzione
    alienante perché ripete la dinamica, sempre identica a se stessa,
    del rapporto parassitario fra la società globale e lo Stato, tra la
    forza collettiva espressa dalla società e l’appropriazione generale
    operata dallo Stato. Inoltre, poiché il politico deriva
    dall’alienazione posta in atto a tutti i livelli della vita
    collettiva, e non solo quindi dall’alienazione economica, pur se
    questa ha una grande importanza, ecco che la rivoluzione politica
    finisce per essere proprio la forma massima dell’alienazione umana.
    Comprendere la specificità del politico, senza intenderlo come
    riducibile a mero riflesso delle contraddizioni economiche,
    significa leggere contemporaneamente la logica del potere, sia nella
    sua forma generale, sia in quella particolare. Nella sua forma
    generale perché lo Stato, espressione suprema della politica,
    comprende il complesso più potente delle articolazioni autoritarie
    della società gerarchica: magistratura, polizia, finanze,
    educazione, esercito, burocrazia, informazione; nella sua forma
    particolare, perché il modello del politico si manifesta per
    definizione nell’esercizio del potere: l’autorità sta al governo
    come il pensiero alla parola, l’idea al fatto, l’anima al corpo. Se
    l’autorità è il principio del governo, il governo è l’esercizio
    dell’autorità. Abolire l’uno o l’altra, se l’abolizione è reale,
    significa distruggerli tutti e due nello stesso tempo; per lo stesso
    motivo, conservare l’uno o l’altra, se la conservazione è effettiva,
    significa mantenerli entrambi.
    
    Ciò permette a Proudhon di dimostrare che non esiste una scienza
    della politica che non sia in realtà una scienza del potere, poiché
    le leggi della politica e quelle del potere sono di eguale natura,
    sono autonome e non rispondono a volontà ideologiche. Dovunque
    vengano applicate si evidenziano come leggi rispondenti a una logica
    tutta propria, refrattaria ai contesti socio-economici, anche se ne
    assimilano la contestualità storica. Esse travolgono ogni intenzione
    positiva di riforma, nel senso che non sono gli uomini a cambiare la
    natura del potere, ma questo a cambiare quelli. E ciò perché il
    potere è una vera proprietà, un diritto di usare e di abusare, un
    mezzo di sfruttamento dell’uomo attraverso la forza. Così il
    socialismo statalista pretende di combattere il capitalismo con una
    nuova alienazione, quella dello Stato; di lottare contro l’abuso con
    un ulteriore abuso; di abbattere un assolutismo con un altro
    assolutismo. Paradossalmente, è proprio lo Stato a essere il Dio
    adorato dal socialismo autoritario, un feticcio nato con il
    dogmatismo giacobino e continuato con il governamentalismo
    democratico, radicale e socialista.
    
    Proudhon, approfondendo la sua critica allo Stato, nota perciò con
    acume come la classe politica dei democratici, dei socialisti
    governativi e dei rivoluzionari si contraddistingua per una volontà
    di appropriarsi del potere politico che, pur essendo più sottile e
    meno apparente della volontà di arricchirsi, è tuttavia equivalente
    e similare al gusto del potere economico e della proprietà tipica
    dei capitalisti. Contrariamente dunque a tutte le illusioni dei
    partiti e allo spirito giacobino, Proudhon mette in luce il
    carattere essenzialmente controrivoluzionario della politica perché
    essa si esprime sempre nella logica del potere. Egli segna una
    rottura con tutte le teorie politiche del passato e con le
    concezioni falsamente rivoluzionarie dei democratici, incapaci,
    tutte, di prescindere dal pregiudizio statalistico. Una rottura che
    conduce a questa lapidaria definizione della rivoluzione: «Nessuna
    autorità, nessun governo, nemmeno popolare: la rivoluzione sta in
    questo».
    
    La contrapposizione esistente fra Stato e società, fra il politico e
    l’economico si inscrive nella più generale contrapposizione fra
    creazione e ripetizione, pluralità e unidimensionalità. Perciò solo
    nella società economica dei produttori, che si contrappongono
    frontalmente alla società politica dei dominatori, è possibile
    rintracciare e svelare quella dimensione creativa, spontanea e
    pluralista dell’agire sociale quale segno inconfondibile
    dell’emancipazione umana; solo all’interno di una teoria e di una
    pratica economica si possono correttamente trovare le ragioni e gli
    scopi di una teoria e di una pratica rivoluzionaria. La spontaneità,
    la creatività e la pluridimensionalità, proprie dell’azione sociale,
    della prassi collettiva dell’emancipazione umana, sono però solo le
    condizioni necessarie, ma non esaustive, per il raggiungimento della
    libertà. La società economica dei produttori può infatti dimostrare
    la propria capacità di autonomia da ogni tutela esterna dello Stato
    e del politico, senza per questo abolire il sistema del dominio.
    
    Radicalmente opposta alla visione giacobina del colpo di mano, che
    si è dimostrata essere solo una operazione di potere e quindi non ha
    prodotto nessun reale cambiamento sul piano antropologico, la
    rivoluzione prospettata da Proudhon vuol determinare invece una
    trasformazione organica e profonda. In questo senso si precisa il
    suo sforzo teorico rispetto al concetto di storia. Questa deve
    essere intesa come reale svolgimento progressivo dell’uomo nelle sue
    capacità di autonomia rispetto al mondo e alla natura, ma solo nella
    misura in cui tale svolgimento comporta la consapevolezza dei limiti
    stessi del cambiamento. La concezione realistica di Proudhon non
    lascia spazio a nessuna visione millenaristica e provvidenzialistica
    del cambiamento concepito come metamorfosi assoluta. La storia non
    contiene in sé alcun fine, né è determinata da alcun significato.
    Non esiste quindi una soluzione definitiva dei problemi sociali, in
    quanto essi si rinnovano sempre proprio perché sempre vi è
    incessante mutamento storico.
    
     Con queste puntualizzazioni il pensatore francese elabora il
    concetto anarchico di rivoluzione, definibile perciò come il
    riconoscimento dello svolgimento incessante e infinito della storia
    per il sovvertimento e la distruzione dell’assoluto. Ciò significa,
    in altri termini, la consapevolezza della necessità di una duplice
    azione rivoluzionaria, tesa da un lato a favorire il mutamento
    storico perché questo, nel suo divenire, porta la società a cambiare
    perpetuamente di forma e perciò a dissolvere continuamente ogni
    fissazione e ripetizione; dall’altro lato a correggere, se occorre,
    questo stesso mutamento perché può essere a sua volta portatore di
    nuovi assoluti. Il travestimento dell’assoluto è infatti
    l’espressione che Proudhon usa per indicare la continua possibilità
    che si formi, all’interno di qualsiasi moto riformatore, un nuovo e
    più agguerrito assolutismo. Ecco perché ogni dottrina che aspira
    segretamente alla prepotenza e alla immutabilità, che tende a
    eternizzarsi, che si vanta di dare l’ultima formula della libertà e
    della ragione, che nasconde nelle pieghe della sua dialettica
    l’esclusione e l’intolleranza; che si afferma come verità in sé,
    pura da ogni contaminazione, assoluta, eterna, come una religione, e
    senza tollerare considerazioni di altro tipo, nega il movimento
    dello spirito e della classificazione delle cose, è falsa e funesta
    quanto è incapace di costruire. Contro i travestimenti
    dell’assoluto, che comprendono anche le dottrine falsamente
    rivoluzionarie, Proudhon propone perciò, da una parte, l’idea di
    progresso come processus, movimento innato, essenziale, spontaneo,
    incoercibile e indistruttibile, come movimento essenzialmente
    storico, soggetto a progressioni, conversioni, evoluzioni e
    metamorfosi. Dall’altra parte, propone una idea di progresso come
    scopo, ideale, per tracciare in questa direzione la marcia della
    libertà, affinché esso diventi la giustificazione dell’umanità da se
    stessa sotto lo stimolo dell’ideale. In conclusione, la rivoluzione
    non è la deduzione necessaria di una realtà oggettiva, ma è la
    realizzazione della volontà umana, una impresa voluta dalla
    coscienza emancipatrice dell’uomo: la libertà, secondo la
    definizione rivoluzionaria, non è per niente la coscienza della
    necessità, non è neppure la necessità dello spirito che si sviluppa,
    che si conserva con la necessità della natura. È una forza
    collettiva che comprende insieme la natura e lo spirito e che si
    possiede, capace come tale di negare lo spirito, di opporsi alla
    natura, di sottometterla, di disfarla e di disfarsi essa stessa. È
    una forza che si crea, mediante l’ideale della giustizia, una
    esistenza divina, il cui movimento è perciò superiore a quello della
    natura e dello spirito e incommensurabile con l’uno e con l’altro.
    
    Una rivoluzione così intesa implica, sul piano dell’azione, una
    direttiva di fondo precisa: che vi sia la massima coerenza etica fra
    il contenuto dei fini perseguiti e la natura dei mezzi usati. I
    mezzi dell’azione devono essere dedotti dai fini che la rivoluzione
    si propone, quelli della giustizia. È su questo rapporto di
    deduzione tra fini e mezzi, dalla teoria alla prassi, che si fonda
    la certezza che la prassi sia, essa stessa, la teoria realizzata.
    
    Naturalmente, poiché i fini della rivoluzione libertaria ed
    egualitaria sono la libertà e l’uguaglianza, dovranno essere
    libertari ed egualitari anche i mezzi dell’azione. Solo così può
    inscriversi l’obiettivo dell’azione nella prassi, l’atto
    rivoluzionario annunciare la società futura. Ma qual è la classe
    sociale capace di esprimere al contempo la consapevolezza della
    propria forza, la volontà di liberazione e la propria capacità
    politica di passare dalla spontaneità dell’azione alla libertà della
    rivoluzione? Secondo Proudhon, le classi operaie (classi operaie e
    non classe operaia perché egli allude, anarchicamente, a tutte le
    masse sfruttate) sono le sole che possono effettuare la rivoluzione
    sociale. Tuttavia ciò non avviene in virtù della contrapposizione
    oggettiva fra capitale e lavoro; infatti questa contrapposizione,
    sebbene sia la caratteristica centrale del sistema capitalista, è
    pur sempre una delle tante della società gerarchica; inoltre non
    esiste una legge deterministica che opponga le masse sfruttate agli
    sfruttatori: la pluralità delle contraddizioni mostra infatti che i
    cambiamenti storici non hanno e non possono avere esiti univoci
    necessitanti, che infiniti fattori dinamici concorrono allo
    svolgimento complessivo dell’evoluzione umana.
    
    In realtà, la capacità politica delle classi operaie va cercata là
    dove l’idea di emancipazione è da queste classi prodotta e
    consapevolmente voluta. A questo proposito occorre che si
    verifichino tre condizioni: che il soggetto abbia coscienza di se
    stesso, della sua dignità, del suo valore, del posto che occupa
    nella società, della funzione che adempie, degli uffici cui ha
    diritto di aspirare, degli interessi che rappresenta o personifica;
    che, come risultato di questa coscienza di se stesso, affermi la sua
    idea, sappia cioè comprendere, esprimere con le parole, spiegare con
    il ragionamento la legge della sua esistenza, nel principio suo e
    nelle sue conseguenze; che da questa idea, infine, sappia dedurre
    sempre conclusioni pratiche secondo le variabili contingenti.
    Condizione essenziale della liberazione è dunque che le masse
    sfruttate elaborino da se stesse l’idea della società da instaurare
    e che pongano consapevolmente tale idea in rapporto alla loro azione
    sociale. Diversamente, fino a quando si mostreranno incapaci di
    esternare il loro progetto, fino a quando esse prenderanno a
    prestito le idee di emancipazione da altri movimenti sociali, la
    loro iniziativa storica non passerà mai dalla spontaneità alla
    libertà.
    
    Questa autonoma capacità di azione delle classi operaie esige la
    loro completa separazione pratica e ideologica da ogni altra classe
    sociale non oppressa e da tutto quel sistema di alienazioni che
    costituisce la totalità strutturale della società gerarchica. Solo
    con questa radicale separazione le masse sfruttate possono uscire da
    ogni tutela politica, sociale, economica, culturale, ideologica,
    psicologica, impegnandosi in un processo storico senza precedenti:
    quello che le vedrà agire spontaneamente e liberamente da se stesse
    e per se stesse, senza più niente sperare dalle altre classi sociali
    né dai partiti politici costituiti né da qualsiasi setta di
    rivoluzionari di professione.
    
    La concezione proudhoniana della coerenza tra i fini e i mezzi, tra
    gli obiettivi della libertà e dell’uguaglianza e gli strumenti
    libertari ed egualitari della lotta sociale, implica dunque la
    massima unità organica fra l’idea e l’azione rivoluzionaria da parte
    dei soli lavoratori. Dunque non deve esserci una divisione fra la
    coscienza del proletariato, rappresentato paradossalmente da un
    corpo politico non proletario e anzi estraneo al proletariato (il
    partito) e l’azione di questo stesso proletariato; tale separazione
    è invece promossa e teorizzata da tutte le altre correnti
    autoritarie che ritengono necessaria una guida politica delle masse
    popolari.
    
    Il protagonista rivoluzionario non è dunque un soggetto sociale
    specifico o una specifica classe oppressa, ma l’insieme delle classi
    sfruttate, che proprio nella contrapposizione tra politico ed
    economico, tra Stato e società, si trovano unite organicamente tanto
    sul terreno delle trasformazioni immediate, quanto, e
    imprescindibilmente, su quello del cambiamento economico-sociale
    radicale attraverso l’abolizione del potere politico. L’unica
    rivoluzione capace di realizzare la libertà e l’uguaglianza è quella
    che si pone come obiettivo primario lo sterminio del potere e della
    politica; tale rivoluzione non può che essere una rivoluzione
    economica. Ciò può avvenire solo se le masse lavoratrici,
    appropriandosi in via diretta dei mezzi di produzione attraverso le
    molteplici organizzazioni professionali, avviano e sviluppano una
    vita sociale ed economica al di fuori e indipendentemente da quella
    politica; se gestiscono e praticano rapporti liberi e diretti senza
    alcuna mediazione istituzionale; se assolvono infine, in quanto
    società economica, ai compiti precedentemente svolti dalla società
    politica, al fine di rendere quest’ultima del tutto superflua.
    
    Si tratta di concepire un sistema economico-sociale che, liberando
    le forze del lavoro da ogni sistema di monopolio e di sfruttamento,
    possa dare alle masse popolari la possibilità di appropriarsi in
    modo egualitario delle ricchezze sociali, dividendole sia
    collettivamente, sia individualmente. Così la proprietà sociale si
    configura allo stesso tempo come il segno della progressiva
    emancipazione acquisita e come il mezzo per attuarla. Perché essa
    non degeneri in dispotismo e diventi veramente universale, Proudhon
    concepisce una serie di garanzie quali sistemi regolativi e
    correttori del suo progetto di società autogestita. Un sistema di
    contrappesi, di continui e diversificati equilibri in grado di
    attenuare al massimo le tentazioni prevaricatrici, mantenendo
    nondimeno viva la forma sociale di una democrazia industriale di
    tipo conflittuale e moderno. Tutto ciò, però, sempre sotto il segno
    della libertà. L’uguaglianza si farà automaticamente, più
    rapidamente e meglio con il lavoro e con l’economia e, soprattutto,
    con l’esercizio universale della libertà.
    
    Si delinea qui in modo incontrovertibile il riformismo proudhoniano,
    un riformismo che non scade mai a un empirismo eclettico. Esso si
    caratterizza altresì in un rifiuto della rivoluzione politica di
    tipo violento e insurrezionale (da lui ritenuta assolutamente
    inutile ai fini di una vera emancipazione popolare), che non deve
    essere inteso come un ripiegamento rispetto agli obiettivi della
    trasformazione sociale; questi ultimi, invero, devono rimanere
    sempre i più profondi e i più vasti possibili. La fase di
    transizione dalla società dello sfruttamento alla società
    autogestita deve consistere nella progressiva realizzazione dei fini
    nei mezzi di azione: se i fini sono la libertà e l’uguaglianza
    allora anche i mezzi dovranno essere libertari ed egualitari.
    L’umanità, per Proudhon, procede mediante approssimazioni: 1.
    approssimazione all’uguaglianza delle fortune mediante l’educazione,
    la divisione del lavoro e il libero sviluppo delle attitudini; 2.
    approssimazione all’uguaglianza delle fortune mediante la libertà
    commerciale e industriale; 3. approssimazione all’uguaglianza delle
    imposte; 4. approssimazione all’anarchia; 5. approssimazione
    all’a-religiosità o amisticismo; 6. progresso illimitato nella
    scienza, nel diritto, nella libertà, nell’onore, nella giustizia.
    
    I lavoratori devono mirare all’universalizzazione dei privilegi
    goduti dalla borghesia; devono, cioè, universalizzare le sue
    originarie libertà di classe, sorte inizialmente quali strumento di
    dominio della borghesia stessa. Il compito dei lavoratori non è
    combattere contro le incompiutezze di classe del liberalismo, per
    far sorgere dalla classe proletaria un’altra libertà. Ciò è
    semplicemente un non senso, dal momento che il significato autentico
    della libertà sta nella sua universalità. Bisogna quindi conferire
    un significato universale alla libertà, disgiungendola da ogni
    reazionaria collocazione classista. Il socialismo è dunque il
    superamento storico del liberalismo. È così che la rivoluzione
    sociale realizza il suo compito: portare al suo termine finale
    l’evoluzione politica della società risolvendola nella libertà e
    nell’anarchia.
    
    Ora, qual è la concezione politica più approssimata dell’anarchia?
    Il federalismo, risponde Proudhon, ed è perciò qui che egli
    focalizza la sua attenzione e la sua riflessione in modo
    particolare. Il federalismo proudhoniano infatti – un federalismo
    libertario – sa risolvere in una continua tensione di libertà i
    termini, dati prima come teoricamente insopprimibili, della libertà
    e dell’autorità. Il federalismo, cioè, è la realizzazione
    storicamente possibile della libertà e dell’anarchia perché mantiene
    i due principi di libertà e di autorità, risolvendoli in una
    transazione che si dà come continua divisione e ricomposizione, come
    continuo conflitto e perciò, oggettivamente, come continua tensione
    di libertà. La libertà è la realizzazione di questa transazione, che
    tende a spostare il peso dell’autorità a favore della libertà,
    «essendo nella natura delle cose» che il principio di autorità sia
    iniziatore mentre il principio di libertà determinante.
    
    Di qui il concetto proudhoniano di autogestione che ruota attorno
    all’idea centrale della sostanziale similitudine che deve esistere
    fra società politica e società economica, non solo dal punto di
    vista di una ovvia interdipendenza, ma anche e soprattutto nel senso
    che le stesse leggi naturali che regolano la prima devono essere
    alla base della seconda. In questo senso l’autogestione proudhoniana
    si presenta come un insieme di strutture particolarmente coerenti e
    complementari. Tale similitudine dei principi organici inerenti alla
    costituzione economica e alla costituzione politica sviluppa dunque
    quell’interdipendenza e quella complementarità esistenti fra il
    mutualismo e il federalismo. Trasportato nella sfera politica,
    prende il nome di federalismo e in questa semplice sinonimia si
    riassume per intero la rivoluzione politica ed economica, perché il
    principio federativo è l’applicazione sulla più alta scala dei
    princìpi di mutualità, di divisione del lavoro, di solidarietà
    economica. Il mutualismo, edificazione dell’economia sulla
    reciprocità dei servizi, e il federalismo, edificazione
    dell’ordinamento politico sull’affratellamento dei gruppi, sono in
    effetti due applicazioni complementari di uno stesso principio,
    quello della giustizia.
    
    La realizzazione della giustizia si attua grazie a quella scienza
    del lavoro, intesa come scienza ideo-realista, che abbiamo visto
    essere alla base dell’analisi sociologica. Perciò è questo concetto
    di lavoro come serie, cioè come infinita crescita e pluralità di
    tutte le sue forme – da quelle economiche a quelle culturali, da
    quelle politiche a quelle sociali – che sostanzia l’idea del giusto.
    
    Due sono i principi che regolano la legge del lavoro: il principio
    di divisione e il principio di composizione, che qui si specificano
    come antagonismo competitivo e come equilibrio reciproco. È tra
    queste due leggi antinomiche che si sviluppa il movimento dialettico
    del lavoro umano in tutte le sue forme. La conoscenza di questa
    logica del mondo effettivo permetterà ai produttori di acquistare la
    reale padronanza della società e di costruire in tal modo un ordine
    autogestionario corrispondente alla reale natura dei rapporti
    sociali ed economici. Basato in tal modo sulla consapevolezza
    dell’impossibilità di ogni sintesi e sull’irriducibilità delle leggi
    antinomiche, l’ordine sociale pluralista della società autogestita
    si esprimerà come una tensione dinamica continua che solo la catena
    reale del lavoro, cioè la serie-tipo, saprà unificare e fornire di
    significato. In tutti i casi, la libertà e l’autonomia degli
    individui, dei gruppi e delle società particolari potrà darsi
    soltanto mantenendo la coppia antinomica della competizione e della
    cooperazione, che significa la presenza della concorrenza e della
    commutazione. La competizione o la concorrenza quale legge
    elementare della vita (legge di creazione, di produzione e di
    ripartizione); la cooperazione e la commutazione, quale legge di
    equilibrio, di partecipazione, di scambio e di associazione.
    
    La legge di competizione è basata sulla primordiale constatazione
    che il mondo, la società, lo stesso uomo sono composti di elementi
    irriducibili, di princìpi antitetici, di forze antagonistiche,
    secondo una catena continua che non ha fine. È la vita reale infatti
    a esigere pluralità, antagonismo, autonomia, perché chi dice
    organismo, dice complicazione, chi dice pluralità dice contrarietà,
    indipendenza. La condizione della vita è l’azione, e l’azione è una
    lotta, una concorrenza dell’uomo con l’uomo, dei gruppi con i
    gruppi. Voler sopprimere questo antagonismo è impossibile perché
    ogni vita esige la lotta tra le forze antinomiche, ogni movimento è
    la risultante della tensione di tali forze, ogni libertà collettiva
    e individuale non è possibile che grazie al gioco di questa
    concorrenza. Insomma l’antagonismo è un fenomeno eterno, permanente,
    esistenziale, fisico, sociale, umano.
    
    Ciò significa che il socialismo deve realizzarsi non malgrado o
    contro la concorrenza, ma grazie a essa. Solo i fanatici dell’unità
    e della pianificazione, i socialisti dogmatici e autoritari, non
    hanno capito questa realtà elementare. La concorrenza è infatti il
    modo in cui si manifesta e si esercita l’attività collettiva,
    l’espressione della spontaneità sociale, l’emblema della democrazia
    e dell’uguaglianza, lo strumento più energico della costituzione del
    valore, il supporto dell’associazione.
    
    Ma l’antagonismo, esprimendosi in tutta la sua potenza, fa emergere
    immediatamente e del tutto naturalmente una controforza che si può
    definire come equilibrio, cooperazione, mutualità. Così
    l’opposizione delle forze è la condizione obiettiva e indispensabile
    di un equilibrio reale, di una solidarietà naturale, di una
    reciprocità spontanea. Quindi solo un libero antagonismo competitivo
    può esprimere un reale equilibrio. La stessa vita che esige
    contraddizione esige infatti anche reciprocità, commutazione.
    
    Così la legge comune del pluralismo autogestionario, la legge di
    equilibrio e di mutualità, diventa allo stesso tempo legge
    organizzatrice del pluralismo sociale di cui l’antagonismo e il
    lavoro sono rispettivamente la legge motrice e la legge
    integratrice. Riconoscere l’equilibrio a ogni livello sociale è
    dunque il compito fondamentale di un socialismo che voglia essere
    veramente autogestionario. E questo sarà possibile solo se la
    riorganizzazione dell’industria e dell’agricoltura sarà effettuata
    sotto la giurisdizione di tutti quelli che la compongono.
    
    Questa proprietà federalista è, rispetto a ogni membro della società
    economica, una comproprietà in mano comune. Essa insomma non viene
    abolita, ma ripartita. Nel suo carattere di diritto assoluto, nella
    società economica essa resta dunque, sotto questo aspetto, indivisa
    in ciascuna delle persone individuali e collettive di questa
    società. Così nella federazione agricola, in quella industriale e
    nelle organizzazioni cooperative dei servizi. Ma questo stesso
    diritto assoluto è, dal punto di vista dell’insieme della società
    autogestita, un diritto relativo perché nella visione proudhoniana
    la proprietà intesa come possesso è semplicemente una
    proprietà-funzione.
    
    Questo carattere antinomico della proprietà è dato dal fatto che
    essa non è un valore e una realtà assoluta perché si specifica solo
    con il mutamento della realtà sociale e storica: la proprietà è
    mutevole, e le rivoluzioni dell’umanità non hanno mai avuto che lo
    scopo di esprimerne i mutamenti. La storicità della proprietà
    dimostra per Proudhon che essa può essere contestualizzata in un
    regime socialista e piegata alle esigenze di questo. E ciò perché la
    proprietà non è che uno dei termini dell’insieme sociale. Nel caso
    specifico la proprietà assolverebbe due funzioni: da un lato,
    infatti, essa costituirebbe un argine indispensabile per la difesa
    della libertà individuale, minacciata da una possibile invadenza
    della sfera pubblica; dall’altro, avrebbe il compito di promuovere
    la responsabilità economica e di incentivare l’iniziativa
    imprenditoriale. Ecco in quale senso si delinea il socialismo
    autogestionario e libertario di Proudhon: nella coniugazione
    dell’istanza liberale della difesa della proprietà, quale garanzia
    reale e concreta dell’esercizio della libertà individuale, con
    l’istanza socialista della responsabilità economica, quale contesto
    obiettivo per la realizzazione della generalità dei diritti,
    dell’universalità dei doveri.
    
    Il complesso sistema economico della società socialista prefigurata
    da Proudhon può essere sinteticamente riassunto nel seguente schema:
    mutualismo federativo nell’agricoltura, vale a dire costituzione di
    proprietà individuali di sfruttamento associato del suolo in un
    insieme di cooperative raggruppate in una federazione agricola;
    socialismo federativo nell’industria, vale a dire creazione di un
    insieme di proprietà collettive dei mezzi di produzione, concorrenti
    fra loro ma associate in una federazione industriale. Questa è la
    base della federazione agricolo-industriale comprendente pure le
    associazioni di consumatori e le cooperative dei servizi sociali.
    
    Ognuno nella società economica è allo stesso tempo e allo stesso
    titolo produttore e consumatore perché esiste l’equivalenza nella
    reciprocità dei servizi. Secondo Proudhon, ciò è possibile
    applicando la teoria del valore-lavoro e, conseguentemente, del
    «valore costituito». Questo si può sinteticamente definire come
    equazione tra il lavoro utile (la domanda di prodotti e di servizi)
    e il lavoro di scambio (l’offerta in prodotti realizzati e in
    servizi), in breve tra il valore d’uso, che ha per base i bisogni
    dell’insieme dei consumatori, e il valore di scambio, che ha per
    base il lavoro.
    
    Ciò perché il valore – pietra angolare della scienza economica –
    indica un rapporto essenzialmente sociale, nel senso che l’idea
    contraddittoria di valore, così bene messa in luce dall’inevitabile
    distinzione tra il valore d’uso e il valore di scambio, non viene da
    una falsa percezione dello spirito, né da una terminologia viziosa,
    né da qualsiasi aberrazione pratica, ma è insita alla natura delle
    cose e si impone alla ragione come forma generale del pensiero, cioè
    come categoria. Non è quindi assolutamente possibile sottrarsi alla
    legge generale del valore. Si tratta invece, per Proudhon, di
    esplicitarla per intero volgendola a favore dell’uguaglianza
    sociale. Di qui l’idea di arrivare a costituire il valore, a
    determinarlo equamente grazie a un circuito economico di scambio che
    possa – essendo libero da ogni monopolio – far ritornare a ogni
    produttore l’integralità del suo prodotto, al fine di realizzare in
    ogni individuo la doppia figura di produttore e consumatore.
    
    Per intendere pienamente il significato del progetto proudhoniano
    della costituzione del valore occorre tener presente che nelle
    intenzioni del suo autore esso va inteso quasi come un modello
    normativo, non come un rimedio ai mali, alle deficienze e alle
    contraddizioni del regime capitalista. Non si tratta, per Proudhon,
    di riformare il capitalismo attraverso la legge della costituzione
    egualitaria del valore, ma di costruire una società socialista
    partendo dal necessario riconoscimento dell’impossibilità oggettiva
    della sua abolizione. Occorre, cioè, cercare la legge generale del
    valore: solo così il socialismo passerà veramente dalla fase
    utopistica alla fase scientifica. Da questo punto di vista la
    polemica di Marx e del posteriore marxismo contro Proudhon appare
    infondata, giacché il socialista francese non ha mai affermato che
    la costituzione del valore potesse essere determinata lasciando
    sussistere il capitalismo.
    
     Ma se la legge generale del valore è ineliminabile, se la
    formazione del valore si costituisce in tutti i casi anche in una
    futura società socialista, se ne deve dedurre, a questo punto, la
    condizione fondamentale e naturale di tale ineliminabilità: il
    mercato. Proudhon è il primo pensatore socialista a concepire in
    modo profetico la coniugazione del socialismo con il mercato.
    Coniugazione necessaria e indissolubile, secondo lui, non solo per
    l’oggettiva impossibilità di eliminare il valore, ma anche perché il
    luogo della sua formazione – il mercato – è il presidio di ogni
    libertà economica, sociale, politica e culturale. Il valore di
    scambio – inteso proprio come uno dei due aspetti della forma
    generale del pensiero, cioè come categoria – esprime dunque
    perfettamente un lessico ideologico preciso: lo scambio crea valore,
    deve creare valore; in altri termini, non è possibile concepire il
    valore e l’idea del valore senza lo scambio. Ogni forma di valore,
    da quella economica a quella sociale, da quella politica a quella
    culturale, si costituisce solo attraverso tale atto. Esso assume la
    forma sociale suprema della libertà perché quest’ultima si
    costituisce attraverso lo scambio, e poiché il valore di scambio
    rappresenta la forma sociale e dinamica della libertà, ne consegue
    inevitabilmente che l’abolizione del mercato comporta l’eliminazione
    della libertà.
    
    Ora, secondo Proudhon, l’obiettivo della costituzione del valore è
    raggiungibile attraverso una scienza statistica che esprima
    l’insieme delle informazioni sull’organizzazione della produzione,
    sull’andamento del mercato, degli investimenti e del consumo; una
    scienza, insomma, capace di delineare un quadro del rapporto tra
    risorse e impieghi. Si potrà così arrivare a determinare la
    costituzione del valore sulla base delle previsioni di un costo del
    lavoro inteso in senso lato. A partire da questa contabilità
    economica, potrà essere costantemente stabilita una misura della
    giornata di lavoro secondo le industrie e le professioni.
    Quest’ultima sarà definita come la quantità dei servizi e della
    produzione che un uomo di forza e di intelligenza e di età media può
    fornire in un intervallo dato. In questo modo ogni forma assunta
    dalla circolazione della ricchezza avrà sempre come fonte comune il
    lavoro, inteso però non come forza-lavoro, cioè come lavoro
    produttivo, ma come processo, per cui in questa ottica anche il
    lavoro erogato nello scambio sarà capace di creare valore.
    
    Nella versione proudhoniana il mutualismo non è un sistema
    precostituito e dato una volta per tutte. Esso è piuttosto concepito
    come un metodo regolativo generale capace di dare piena attuazione
    alle potenzialità latenti nelle varie dimensioni dell’economia. In
    questo senso è possibile individuare una ulteriore similitudine fra
    il mutualismofederalismo e il pluralismo. Infatti l’organizzazione
    sociale e istituzionale non segue un unico criterio per tutti i
    settori dell’economia: per l’industria Proudhon raccomanda il
    socialismo, per l’agricoltura il mutualismo, per i servizi la
    cooperazione. Questa diversità deriva dalla convinzione che la
    riorganizzazione sociale debba, in un certo senso, piegarsi alle
    caratteristiche proprie di ogni settore, pena l’uniformità
    mortificante di un piano esterno e autoritario. È possibile anche
    osservare a questo punto che le indicazioni proudhoniane riguardo
    alla riorganizzazione socialista delle industrie sono diverse dalla
    falsa immagine datane da quasi tutta la storiografia marxista e non
    marxista: Proudhon, infatti, non ha mai confuso il decentramento e
    il federalismo con il mantenimento di una struttura industriale
    arretrata e riduttiva. Egli è consapevole che il numero delle
    piccole imprese è condannato a diminuire in virtù di quella
    divisione del lavoro che è la condizione della forza collettiva.
    Infatti, come più individui, combinando i loro sforzi, producono una
    forza collettiva che è superiore per qualità e intensità alla somma
    delle loro rispettive forze, così più gruppi di lavoratori, posti
    fra loro in un rapporto di scambio, danno luogo a una potenza di
    ordine più elevato. Il problema per Proudhon è un altro. Si tratta
    di non piegarsi a un fatalismo del progresso industriale, che in
    realtà non esiste se non nella volontà politica di chi vuol
    promuoverlo. Esso infatti non può che risultare al servizio
    dell’accentramento economico e perciò dell’accentramento politico.
    Così il gigantismo industriale si rivela necessario non
    all’economia, ma alla volontà politica di potere. Ecco in quale
    senso non vi deve essere fusione fra società politica e società
    economica; essa infatti comporterebbe una «orientalizzazione» della
    vita civile che verrebbe del tutto identificata con quella politica,
    come nel caso della progettata società comunista. La similitudine
    fra dimensione politica e dimensione economica non deve perciò
    annullare le loro rispettive autonomie. Anzi, essa le deve
    maggiormente esaltare, a partire dal principio fondamentale che sta
    alla base di entrambe, il decentramento.
    
    Nella pluridimensionalità dell’autogestione proudhoniana – intreccio
    organico fra industria e agricoltura, indipendenza dei gruppi
    produttivi, coesistenza e differenza fra i gruppi produttivi e i
    gruppi professionali, unione trasversale fra consumatori e
    produttori in varie e sovrapposte associazioni – non deve essere
    ravvisata una tendenza latente e oggettiva all’integralismo sociale,
    politico, economico e culturale. Il decentramento e l’autonomia
    politica, sociale ed economica dei gruppi e degli individui sono la
    garanzia obiettiva della differenza fra piano politico e piano
    economico, perché nella concezione proudhoniana la dimensione
    territoriale non coincide con quella produttiva, né quella
    produttiva con quella politica. In altri termini, Proudhon distingue
    chiaramente i due tipi di struttura, quella economica, vale a dire
    la federazione agricolo-industriale, e quella politica, vale a dire
    il federalismo. Questo sarà basato sul decentramento e sulla
    divisione dei poteri, sulla concessione della massima autonomia ai
    comuni e alle circoscrizioni regionali, sulla più ampia sostituzione
    possibile della burocrazia con una direzione degli affari più
    flessibile e immediata derivante dal gruppo naturale. Secondo
    Proudhon questo federalismo potrebbe configurarsi e riassumersi in
    tre norme fondamentali: 1. formare gruppi di media grandezza,
    relativamente sovrani, e riunirli con un atto di federazione; 2. in
    ogni Stato federato organizzare il governo in base alla legge della
    separazione degli organi, vale a dire: nell’ambito del potere
    pubblico separare tutto ciò che si può separare, determinare tutto
    ciò che si può determinare, ripartire fra vari organi o funzionari
    tutto ciò che si è separato e determinato, non lasciare nulla
    indiviso, circondare l’amministrazione pubblica con ogni condizione
    di pubblicità e di controllo; 3. invece di far assorbire gli Stati
    federati o le autorità provinciali e municipali da un’autorità
    centrale, limitare le attribuzioni di questa al semplice compito
    dell’iniziativa generale, della garanzia e sorveglianza reciproca.
    In tutti i casi questa indicazione di massima non è fine a se
    stessa, ma è solo il mezzo più coerente e nello stesso tempo più
    concreto e immediato per configurare la tendenza verso una società
    dove il centro politico è ovunque, la circonferenza in nessun punto.
    
    L’autogestione proudhoniana, identificando in ogni nucleo economico
    e sociale la capacità di propulsione e di iniziativa, riconoscendo
    la possibilità di una libera composizione e ricomposizione dei
    nuclei sociali, economici, produttivi e professionali, intende porre
    le basi di una società libera ed egualitaria.
    
    
    
    * Diamo, in questa Introduzione e nella scelta antologica che segue,
    una lettura anarchica di Proudhon. Siamo naturalmente consapevoli
    che sono possibili (e ci sono state) altre letture interpretative,
    libertarie e non. Siamo tuttavia persuasi che questa nostra lettura
    sia non solo legittima, ma in realtà più ampiamente esplicativa del
    suo pensiero inteso in senso complessivo.
    
     
    
    Nota bio-bibliografica
    
    
    
    Pierre-Joseph Proudhon nasce a Besançon il 15 gennaio 1809, quinto
    figlio di una famiglia poverissima. Il padre, un artigiano-bottaio
    poco versato per gli affari, trascina ben presto moglie e figli in
    un tracollo economico pur di non vendere la birra a un prezzo da lui
    ritenuto ingiusto. La madre, Catherine Simonin, è invece di
    tutt’altra indole. Donna energica, influisce decisamente sulla
    formazione morale del figlio. Fino all’età di dieci anni Proudhon
    non legge che il Vangelo. Entrato grazie a una borsa di studio al
    collegio di Besançon come allievo esterno, nel 1827, ormai prossimo
    al baccalaureato, interrompe gli studi per aiutare la famiglia.
    
    Impiegatosi come tipografo nel 1829, entra in contatto con Fallot,
    che diviene suo amico e direttore spirituale. Dovendo per lavoro
    comporre libri e correggere bozze, legge molto, specialmente opere
    di carattere teologico. Nel 1838 si reca a Parigi dove resta fino al
    1841, allorché perde la borsa di Suard, vinta tre anni prima, a
    causa del successo ottenuto dal suo Qu’est-ce que la propriété? In
    seguito a questa pubblicazione viene tradotto davanti alla Corte di
    Doubs (nel 1842) dove deve rispondere di diversi capi di accusa.
    Assolto grazie a una difesa
    
    basata su argomentazioni filosofiche e scientifiche, si indebita
    però di lì a poco fino a essere costretto a lavorare presso i
    fratelli Gauthier, a Lione.
    
    Nel febbraio 1844 entra nella cerchia degli economisti che fanno
    capo all’editore Guillaumin. Nell’autunno dello stesso anno allaccia
    rapporti con Marx e Bakunin (Proudhon e Marx però non simpatizzano,
    e ciò li porterà alla rottura). Nel 1847 abbandona il suo lavoro a
    Lione per un posto come giornalista a Parigi. In quell’anno fonda il
    quotidiano «Le Représentant du Peuple».
    
    Nel 1848 difende i ribelli perseguitati, nonostante non approvi la
    Rivoluzione di Giugno. Eletto deputato all’Assemblea Nazionale tenta
    invano di propugnare riforme economiche. Dominato dall’idea del
    credito gratuito, fonda una Banca del Popolo, che però dovrà
    liquidare una volta condannato per «delitto di stampa». A causa di
    questa condanna ripara provvisoriamente in Belgio, ma al suo rientro
    clandestino viene arrestato. In carcere (dal 1849 al 1852) scrive
    molto e si sposa con l’operaia Eufrasia Pégard, da cui avrà quattro
    figlie.
    
    Del periodo subito successivo alla sua detenzione la critica ha
    sottolineato il carattere più pessimista e disilluso. Ma nel 1858 la
    vena rivoluzionaria riesplode con la sua opera De la justice dans la
    Révolution et dans l’Église, che gli procura una nuova condanna.
    Ripara nuovamente in Belgio dove resta fin oltre il condono della
    pena (1860): tornerà in Francia solo nel 1862. Gli ultimi anni sono
    segnati da una intensa attività intellettuale. Muore a Passy il 19
    gennaio 1865.
    
    
    
     PRINCIPALI OPERE DI PROUDHON
    
    
    
    Qu’est-ce que la propriété? ou recherches sur le principe du droit
    et du gouvernement (Première mémoire), Paris 1840 [trad. it.: Che
    cos’è la proprietà, Milano 2000].
    
    De la création de l’ordre dans l’humanité, ou principes
    d’organisation politique, Paris 1843.
    
    Système des contradictions économiques, ou philosophie de la misère,
    Paris 1846 [trad. it.: Sistema delle contraddizioni economiche.
    Filosofia della miseria, Catania 1975].
    
    Idée générale de la Révolution au XIXe siècle, Paris 1851 [trad. it.
    (estratti): in P. Ansart, P.-J. Proudhon, Milano 1978].
    
    La Révolution sociale démontrée par le coup d’État du 2 décembre,
    Paris 1852.
    
    De la justice dans la Révolution et dans l’Église, Paris 1858 [trad.
    it.: La giustizia nella Rivoluzione e nella Chiesa, Torino 1968].
    
    Philosophie du progrès, Bruxelles 1858.
    
    Du principe fédératif et de la nécessité de reconstituer le parti de
    la révolution, Paris 1863 [trad. it.: Del principio federativo, Roma
    1979].
    
    De la capacité politique des classes ouvrières, Paris 1865 [trad.
    it. (estratti): in P. Ansart, P.-J. Proudhon, cit.].
    
    Théorie de la propriété, Paris 1865 [trad. it.: Teoria della
    proprietà, Roma 1998].
    
    Correspondance (4 voll.), Paris 1971.
    
    OPERE DI CARATTERE GENERALE SULLA VITA DI PROUDHON
    
    P. Haubtmann, Marx et Proudhon: leurs rapports personnels
    (1844-1847), Paris-Liège 1947.
    
    C.A. Saint-Beuve, P.J. Proudhon. Sa vie et sa correspondance
    (1838-1848), Paris 1947.
    
    E. Dolleans-J.L. Puech, Proudhon et la Révolution de 1848, Paris
    1948.
    
    37
    
     G. Woodcock, Pierre-Joseph Proudhon. His Life and Work, New
    York 1972.
    
    E. Hyams, Pierre-Joseph Proudhon. His Revolutionary Life, Mind and
    Works, New York 1979.
    
    P. Haubtmann, Pierre-Joseph Proudhon. Sa vie et sa pensée 1849-1865,
    I, Les grandes années: 1849-1855, Paris 1988.
    
    G. Manganaro Favaretto, Proudhon in Italia, Trieste 2000. OPERE DI
    CARATTERE GENERALE SUL PENSIERO DI PROUDHON
    
    G. Santonastaso, Proudhon, Bari 1935.
    
    G. Guy-Grand, Pour connaître la pensée de Proudhon, Paris 1947.
    
    M. Albertini, Introduzione a P.J. Proudhon, La giustizia nella
    Rivoluzione e nella Chiesa, Torino 1968.
    
    S. Rota Ghibaudi, Proudhon e Rousseau, Milano 1965.
    
    A. Noland, Proudhon and Rousseau, «Journal of History of Ideas»,
    XXVIII (1967).
    
    P. Ansart, Marx e l’anarchismo, Bologna 1969.
    
    W. Harbold, Progressive Humanity in the Philosophy of P.J. Proudhon,
    «The Review of Politics», XXXI (1969).
    
    A. Zanfarino, Ordine sociale e libertà in Proudhon, Napoli 1969.
    
    S. Edwards, Introduction a P.J. Proudhon, Selected Writings, London
    1970.
    
    R.L. Hoffman, Revolutionary Justice. The Social and Political Theory
    of P.-J. Proudhon, Urbana-Chicago-London 1972.
    
    G. Gurvitch, Proudhon, Napoli 1974.
    
    J.A. Langlois, Attualità di Proudhon, Milano 1980.
    
    S. Condit, Proudhonist Materialism and Revolution Doctrine,
    
    Sanday 1982.
    
    G. Manganaro Favaretto, Possibilità e limiti nel «socialismo
    
    scientifico» di P.J. Proudhon, Roma 1983.
    
    R. Graham, Introduction a P.J. Proudhon, General Idea of the
    
    Revolution in the Nineteenth Century, London 1989. 38
    
     AA.VV., Lyon et l’esprit proudhonien, Actes du Colloque de
    Lyon 6 et 7 décembre 2002, Lyon-Paris 2003.
    
    AA.VV., Les lignées proudhoniennes, Actes du Colloque de la Société
    Pierre-Joseph Proudhon, Paris, 6 décembre 2003, Paris 2004.
    
    T. Menuelle, Le Charivari contre Proudhon, Paris 2006.
    
    SULLA SOCIOLOGIA
    
    C. Bouglé, La sociologie de Proudhon, Paris 1911.
    
    L. Duprat, Proudhon sociologue et moraliste, Paris 1929. G.
    Gurvitch, Dialectique et sociologie, Paris 1962.
    
    P. Ansart, La sociologia di Proudhon, Milano 1972.
    
    SULLE CONCEZIONI ECONOMICHE
    
    W. Oualid, Proudhon banquier, in Proudhon et notre temps, Paris
    1920.
    
    G. Woodcock, Introduction a P.J. Proudhon, What is Property? An
    Inquiry into the Principle of Right and of Government, New York
    1970.
    
    R. Allio, Le contraddizioni economiche di Proudhon nella critica di
    Marx, Bologna 1978.
    
    SULLA FILOSOFIA POLITICA
    
    W.O. Reichert, Natural Right in the Political Philosophy of P.J.
    Proudhon, in Law in Anarchism, a cura di Thom Holterman e Henc Van
    Marseveen, Rotterdam 1980.
    
    D. Andreatta, L’ordine nel primo Proudhon. Alle fonti dell’anarchia
    positiva, Padova 1995.
    
    F. Dagognet, Trois philosophies revisitées: Saint-Simon, Proudhon,
    Fourier, Hildesheim-Zürich-New York 1997.
    
    D. Andreatta, Dalle leggi ai contratti. Saggio sulla filosofia
    poli39
    
     tica di P.-J. Proudhon nel periodo della Seconda Repubblica,
    Padova 2002.
    
    SULLA PROBLEMATICA AUTOGESTIONARIA
    
    J. Bancal, Proudhon. Pluralisme et autogestion, I, Les fondements,
    Paris 1970.
    
    R. Massari, Le teorie dell’autogestione, Milano 1974.
    
    P. Rosanvallon, Le Peuple introuvable. Histoire de la représentation
    démocratique en France, Paris 1998 [trad. it.: Il popolo
    introvabile. Storia della rappresentanza democratica in Francia,
    Bologna 2005].
    
    SULLA PROBLEMATICA RELIGIOSA
    
    H. De Lubac, Proudhon et le christianisme, Paris 1945.
    
    P. Haubtmann, P.J. Proudhon. Genèse d’un antithéiste, Paris 1969.
    
    B. Voyenne, Proudhon et Dieu: le combat d’un anarchiste, suivi de:
    Pascal, Proudhon, Péguy, Paris 2004.
    
    SUL FEDERALISMO
    
    J.L. Puech, La tradition socialiste en France et la Société des
    Nations, Paris 1921.
    
    M. Amoudruz, Proudhon et l’Europe. Les idées de Proudhon en
    politique étrangère, Paris 1945.
    
    D. Andreatta, L’uno e i molti nel federalismo di P.-J. Proudhon,
    Padova 2007.
    
    
    
    
    
    Capitolo primo
    
    Secondo Proudhon, lo sfruttamento economico si attua attraverso
    l’appropriazione indebita della forza collettiva generata dalla
    simultaneità e dalle convergenze degli sforzi individuali uniti in
    una impresa comune. Da ciò l’appropriazione di un surplus
    collettivo, vale a dire della differenza tra la produttività del
    lavoro collettivo e la semplice somma delle forze individuali
    considerate singolarmente. Tale plusvalore aumenta e si specifica
    all’interno del mercato capitalista del lavoro. Questa analisi
    dimostra chiaramente la paternità proudhoniana, nel campo
    socialista, della teoria del valore-lavoro: è Proudhon, non Marx, a
    denunciare per primo in questi termini il sistema capitalista.
    
    Ma la critica della proprietà non si esplica solo nell’analisi
    dell’appropriazione e dello sfruttamento capitalista. Il pensatore
    francese prende infatti in esame ogni forma di proprietà, e quindi
    ogni teoria che la sottende e la giustifica. Questa analisi lo porta
    a concludere che nessuna delle teorie miranti a giustificare tale
    processo di appropriazione riesce a essere credibile. Non la teoria
    dell’occupazione, secondo la quale è legittima la proprietà di fatto
    su ciò di cui la collettività non ha ancora preso possesso; infatti
    questa teoria non può spiegare il
    
     passaggio dal fatto al diritto che ricorrendo a una
    tautologia: la proprietà è il diritto di proprietà. Dal canto suo la
    teoria della proprietà fondata sul lavoro, ossia sul principio che è
    proprietà del singolo ciò che è frutto della sua sola iniziativa,
    non solo non spiega perché il singolo abbia il diritto di
    appropriarsi, a un certo punto, del lavoro altrui, ma neppure dà
    ragione della realtà paradossale che proprio chi produce rimane
    privo della proprietà. Senza contare che questa teoria è
    internamente contraddittoria. Il lavoro, infatti, non ha di per sé
    alcun potere di appropriazione sulle cose della natura; e se,
    malgrado tutto, si riconoscesse al lavoro un tale potere, si sarebbe
    logicamente indotti ad affermare l’uguaglianza della proprietà,
    quali che siano il tipo di lavoro, la rarità del prodotto e la
    disuguaglianza delle forze collettive.
    
    Non esiste perciò teoria che riesca a dar ragione logica di questo
    furto della forza collettiva, che riesca a legittimare
    ragionevolmente l’esistenza della proprietà. E tuttavia, in merito a
    tale questione, più importante ancora della critica alla concezione
    del regime proprietario è la revisione e ridefinizione proudhoniana
    del concetto stesso di proprietà, con la distinzione fra questa e il
    possesso. Questo, infatti, è l’uso socialmente responsabile di un
    bene, al fine di trarne un frutto corrispondente al lavoro
    individualmente fornito; si tratta di un uso che non implica il
    diritto assoluto di proprietà, né la possibilità di trasformare il
    bene di cui si usufruisce in un capitale, a sua volta produttivo di
    altri ulteriori beni.
    
    La proprietà vera e propria è dunque il diritto di trarre frutto da
    un bene realizzato dal lavoro altrui; è il diritto di usare e di
    abusare, in una parola il dispotismo; è il diritto di detenere un
    bene senza farne uso, insomma un dominio senza alcuna
    giustificazione economico-sociale. Terra, strumenti, macchine hanno
    valore solo insieme al lavoro. Ma il puro e semplice proprietario è
    proprio colui che dissocia questo qualcosa dal lavoro: e per questa
    cosa inerte, che da sé non produce nulla, ottiene un compenso. È su
    questa divisione, infine, tra dominio e uso, che si fonda la
    separazione tra le classi sociali del proprietario e del lavoratore.
    
    Per converso, secondo Proudhon, l’universalizzazione della proprietà
    non è un ostacolo all’uguaglianza sociale e alla libertà, ma la via
    più immediata e praticabile dell’emancipazione popolare, la via che
    può realizzare subito, per successive approssimazioni, una sempre
    maggiore uguaglianza delle fortune. Per realizzare questa
    universalizzazione occorre pensare una proprietà che si ponga nel
    sistema sociale come «liberale, federativa, decentratrice,
    repubblicana, egualitaria, progressista, amante della giustizia».
    
    
    
     Critica della proprietà
    
    Se dovessi rispondere alla domanda «che cos’è la schiavitù?» e
    rispondessi dicendo «è un assassinio», il mio pensiero sarebbe
    subito compreso. Non avrei bisogno di un lungo discorso per
    dimostrare che il potere di privare l’uomo del pensiero, della
    volontà, della personalità, è un potere di vita e di morte, e che
    rendere schiavo un uomo significa assassinarlo. Perché dunque alla
    domanda «che cos’è la proprietà?» non posso rispondere «è un furto»,
    senza avere la certezza di non essere compreso, benché questa
    seconda proposizione non sia che una trasformazione della prima?
    [...]
    
    Nel secolo dominato dalla moralità borghese in cui ho avuto la
    ventura di nascere, il senso morale è talmente indebolito che non mi
    meraviglierei affatto di sentirmi chiedere da più di un onesto
    proprietario che cosa trovi di ingiusto e di illegale in tutto ciò.
    Anima di fango! cadavere galvanizzato! come si può sperare di
    convincerti se il furto in atto non ti sembra evidente? Un uomo, con
    dolci e insinuanti parole, trova il modo di far contribuire gli
    altri alla propria sistemazione; poi, una volta arricchito grazie
    allo sforzo comune, rifiuta di procurare, alle condizioni da lui
    stesso stabilite, il benessere di coloro ai quali deve la sua
    fortuna; e tu chiedi che cosa ci sia di fraudolento in una simile
    condotta! Con il pretesto di aver pagato i suoi operai, di non dover
    loro più nulla, di non poter trascurare le proprie occupazioni per
    mettersi al servizio altrui, egli rifiuta di aiutare gli altri nella
    loro sistemazione, come essi l’hanno aiutato nella sua; e quando,
    nell’impotenza del loro isolamento, questi lavoratori derelitti
    vengono a trovarsi nella necessità di vendere la loro parte, lui,
    questo proprietario ingrato, questo furfante arricchito, è pronto a
    consumare la loro spoliazione e la loro rovina. E tu puoi trovare
    giusto tutto ciò! Perché bada ch’io leggo nel tuo sguardo sorpreso
    ben più il rimprovero di una coscienza colpevole che non l’ingenuo
    stupore di una involontaria ignoranza.
    
    Il capitalista, si dice, ha pagato le giornate degli operai; per
    l’esattezza, bisognerebbe dire che il capitalista ha pagato tante
    volte una giornata quanti sono gli operai impiegati ogni giorno, il
    che non è affatto la stessa cosa. Infatti, quella forza immensa che
    risulta dall’unione e dall’armonia dei lavoratori, dalla convergenza
    e dalla simultaneità dei loro sforzi, egli non l’ha pagata. Duecento
    granatieri in poche ore hanno eretto l’obelisco di Luxor sulla sua
    base; si può supporre che un solo uomo, in duecento giorni, ci
    sarebbe riuscito? E tuttavia, nel conto del capitalista, la somma
    dei salari sarebbe stata la stessa. Ebbene, un deserto da mettere a
    coltura, una casa da costruire, una manifattura da mantenere in
    esercizio, è come l’obelisco da sollevare, come una montagna da
    spostare. Il più piccolo patrimonio, il più modesto stabilimento,
    l’attivazione della più mediocre industria, esige un concorso di
    lavoro e di capacità tanto diverse che un uomo da solo non ci
    riuscirebbe mai. È stupefacente che gli economisti non l’abbiano
    notato. Facciamo dunque il bilancio di quel che il capitalista ha
    ricevuto e di quel che ha pagato.
    
    Al lavoratore occorre un salario che lo faccia vivere mentre lavora,
    perché egli non produce che consumando. Chiunque dia lavoro a un
    uomo, gli deve nutrimento e mantenimento, oppure un
    
    salario equivalente. È questa la prima parte da fare nella
    ripartizione di ogni prodotto. Concedo, per il momento, che a questo
    riguardo il capitalista abbia fatto il suo dovere.
    
    Bisogna che il lavoratore, oltre alla sua sussistenza attuale, trovi
    nella produzione una garanzia della sua sussistenza futura,
    altrimenti vedrà inaridirsi la fonte del prodotto e annullarsi la
    sua capacità produttiva; in altri termini bisogna che il lavoro da
    fare rinasca continuamente dal lavoro compiuto: tale è la legge
    universale della riproduzione. È così che il coltivatore
    proprietario trova:
    
    1. nei suoi raccolti, i mezzi non solo per vivere, lui e la sua
    famiglia, ma anche per conservare e accrescere il capitale, per
    allevare del bestiame, insomma per lavorare ancora e continuare a
    produrre;
    
    2. nella proprietà di uno strumento di produzione, la garanzia
    permanente di un capitale da sfruttare e che rende possibile il
    lavoro.
    
    Quale capitale può sfruttare colui che offre in cambio di una
    retribuzione i suoi servizi? Il bisogno presunto che il proprietario
    ha di lui e la sua eventuale volontà di dargli lavoro. Come in altri
    tempi il plebeo aveva la terra dalla munificenza e dal beneplacito
    del signore, così oggi l’operaio ha il suo lavoro dal beneplacito e
    dalle necessità del padrone e del proprietario: è quello che si
    chiama possesso a titolo precario. Ma questa condizione precaria è
    una ingiustizia perché implica disuguaglianza nella transazione. Il
    salario del lavoratore non supera di molto il suo consumo corrente e
    non gli assicura il salario dell’indomani, mentre il capitalista
    trova nello strumento prodotto dal lavoratore una garanzia di
    indipendenza e di sicurezza per l’avvenire.
    
    Ora, questo fermento riproduttore, questo germe eterno di vita,
    questa preparazione di un fondo e di strumenti di produzione, è
    proprio quanto il capitalista deve al produttore e non gli rende
    mai: ed è questo diniego fraudolento che provoca l’indigenza del
    lavoratore, il lusso dell’ozioso e la disuguaglianza delle
    condizioni. È soprattutto in questo che consiste quel che è stato
    così ben definito sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo.
    
    I casi sono tre: o il lavoratore parteciperà alla spartizione della
    cosa prodotta insieme all’imprenditore, detratta la somma dei
    salari, o l’imprenditore renderà al lavoratore servizi produttivi
    equivalenti, oppure si impegnerà a farlo lavorare sempre.
    Spartizione del prodotto, reciprocità dei servizi, o garanzia di un
    lavoro perpetuo: il capitalista non può sfuggire a questa scelta. Ma
    è evidente ch’egli non può soddisfare alla seconda e alla terza di
    queste condizioni: non può né mettersi al servizio di quelle
    migliaia di operai che direttamente o indirettamente gli hanno
    procurato la sua sistemazione, né occuparli tutti e per sempre.
    Resta dunque la spartizione della proprietà. Ma, se fosse attuata,
    tutte le condizioni risulterebbero uguali; non ci sarebbero più né
    grandi capitalisti né grandi proprietari. Quando dunque Comte,
    continuando a svolgere la sua ipotesi, ci mostra come il capitalista
    acquisti successivamente la proprietà di tutte le cose che paga, non
    fa che sprofondare sempre più nel suo deplorevole paralogismo; e
    siccome la sua argomentazione non cambia, anche la nostra risposta
    resta sempre la stessa. Ovvero, altri operai sono impiegati a
    costruire edifici; gli uni estraggono la pietra dalla cava, gli
    altri la trasportano, altri ancora la tagliano, altri la mettono in
    opera. Ciascuno di loro aggiunge un certo valore alla materia che
    gli passa per le mani, e questo valore, prodotto dal suo lavoro, è
    di sua proprietà. Egli lo vende, man mano che lo crea, al
    capitalista, che gliene paga il prezzo in alimenti e salari.
    
    Divide et impera: dividi e regnerai; dividi e diventerai ricco;
    dividi e ingannerai gli uomini, abbaglierai la loro ragione, ti
    farai beffe della giustizia. Separate i lavoratori gli uni dagli
    altri e può anche darsi che il salario corrisposto a ciascuno superi
    il valore del prodotto individuale: ma non è di questo che si
    tratta. L’opera compiuta in venti giorni da una forza di mille
    uomini è stata pagata quanto lo sarebbe quella compiuta dalla forza
    di un singolo in cinquantacinque anni; ma questa forza di mille
    uomini ha fatto in venti giorni quel che la forza di uno solo non
    riuscirebbe a portare a termine in un milione di secoli: è giusto
    questo mercato? Ancora una volta, no: quando voi avete pagato tutte
    le forze individuali, non avete pagato la forza collettiva; di
    conseguenza resta sempre un diritto di proprietà collettiva che non
    avete acquistato e di cui godete ingiustamente.
    
    Ammetto che un salario di venti giorni basti a quella moltitudine
    per nutrirsi, alloggiare, vestirsi per venti giorni: ma dato che il
    lavoro cessa allo scadere di questo termine, che ne sarà di questa
    se, man mano che produce, lascia il frutto del suo lavoro a
    proprietari che ben presto l’abbandoneranno? Mentre il proprietario,
    che gode di una solida posizione grazie al concorso di tutti i
    lavoratori, vive in sicurezza e non teme più che gli manchino né
    lavoro né pane, l’operaio può sperare solo nella benevolenza di
    quello stesso proprietario al quale ha venduto e infeudato la
    propria libertà. Se dunque il proprietario, trincerandosi nella sua
    autosufficienza e nel suo diritto, si rifiuta di dar lavoro
    all’operaio, come potrà questi sopravvivere? Egli avrà preparato un
    terreno eccellente e non vi seminerà; avrà costruito una casa comoda
    e splendida e non vi abiterà; avrà prodotto di tutto e non godrà di
    nulla.
    
    Il lavoro ci conduce all’uguaglianza; ogni passo che facciamo ce ne
    avvicina sempre più, e se la forza, la diligenza, la laboriosità dei
    lavoratori fossero uguali, è evidente che lo sarebbero anche i beni.
    In effetti, se, come si pretende e come noi stessi abbiamo ammesso,
    il lavoratore è proprietario del valore da lui creato, ne consegue
    che:
    
    l. Il lavoratore acquista a spese del proprietario ozioso;
    
    2. Essendo ogni produzione necessariamente collettiva, l’operaio ha
    diritto, in proporzione al suo lavoro, alla partecipazione ai
    prodotti e agli utili;
    
    3. Essendo ogni capitale accumulato una proprietà sociale, nessuno
    può averne la proprietà esclusiva.
    
    Queste conseguenze sono irrefragabili; da sole basterebbero a
    sconvolgere tutta la nostra economia e a mutare le nostre leggi e
    istituzioni. Perché quelli stessi che hanno posto il principio
    rifiutano ora di seguirlo nelle sue conseguenze? Perché i Say, i
    Comte, gli Hennequin e gli altri, dopo aver detto che la proprietà
    deriva dal lavoro, cercano di immobilizzarla con l’occupazione e la
    prescrizione?
    
    Ma lasciamo questi sofisti alle loro contraddizioni e alla loro
    cecità; il buon senso popolare farà giustizia dei loro equivoci.
    Affrettiamoci a illuminarlo e a mostrargli il cammino. L’uguaglianza
    si avvicina; ormai ce ne separa solo un breve intervallo, e domani
    questo intervallo sarà superato.
    
    [Da Qu’est-ce que la propriété?, trad. it.: Che cos’è la proprietà,
    Zero in Condotta, Milano 2000, pp. 25, 106-109].
    
    Che cosa è la proprietà? da dove viene la proprietà? che vuole la
    proprietà? Ecco il problema che interessa al più alto grado la
    filosofia; il problema logico per eccellenza, il problema dalla cui
    soluzione dipendono l’uomo, la società, il mondo. Il problema della
    proprietà è, sotto altra forma, il problema della certezza; la
    proprietà è l’uomo; la proprietà è Dio; la proprietà è tutto.
    
    Ora, a questa questione formidabile, i giuristi rispondono
    balbettando i loro a priori: la proprietà è il diritto di usare e di
    abusare, diritto che risulta da un atto della volontà manifestata
    con l’occupazione e l’appropriazione; ed è evidente che essi non ci
    insegnano assolutamente nulla. Ammettendo che l’appropriazione sia
    necessaria al compimento del destino dell’uomo e all’esercizio della
    sua industria, tutto ciò che se ne può concludere è che, essendo
    l’appropriazione necessaria a tutti gli uomini, la possessione deve
    essere uguale ma sempre mutabile e mobile, suscettibile di aumento e
    di diminuzione, nonostante il consenso dei possessori; il che è la
    negazione stessa della proprietà. Nel sistema dei giuristi, dei
    ragionanti a priori, la proprietà, per esser d’accordo con se
    stessa, dovrebbe essere come la libertà, reciproca e inalienabile;
    in modo che ogni acquisto, cioè ogni esercizio ulteriore del diritto
    di appropriazione, si troverebbe a essere, al tempo stesso, per
    l’acquirente, il godimento di un diritto naturale e, di fronte ai
    suoi simili, una usurpazione; cosa che è contraddittoria,
    impossibile.
    
    Che gli economisti appoggiati sulle loro induzioni utilitarie
    vengano a loro volta a dirci: l’origine della proprietà è il lavoro.
    La proprietà è il diritto di vivere lavorando, di disporre
    liberamente e sovranamente dei propri risparmi, del proprio
    capitale, del frutto della propria intelligenza e della propria
    industria. Il loro sistema non è più solido. Se il lavoro,
    l’occupazione effettiva e feconda, è il principio della proprietà,
    come spiegare la proprietà presso colui che non lavora? come
    giustificare l’affitto? come dedurre dalla formazione della
    proprietà mediante il lavoro il diritto di possedere senza lavoro?
    come concepire che da un lavoro sostenuto durante trent’anni risulta
    una proprietà eterna? Se il lavoro è la sorgente della proprietà,
    questo vuol dire che la proprietà è la ricompensa del lavoro. Ora,
    qual è il valore del lavoro? qual è la misura comune dei prodotti,
    il cui scambio conduce a così mostruose disuguaglianze nella
    proprietà?
    
    Si dirà che la proprietà deve essere limitata alla durata
    dell’occupazione reale, alla durata del lavoro. Allora la proprietà
    cessa di essere personale, inviolabile e trasmissibile: non è più la
    proprietà. Non è patente che se la teoria dei giuristi è tutta
    arbitraria, quella degli economisti è dettata solo dall’abitudine?
    Del resto, essa è apparsa così dannosa per le sue conseguenze che è
    stata quasi subito abbandonata appena data alla luce. I giuristi
    d’oltre Reno, fra gli altri, sono ritornati quasi tutti al sistema
    della prima occupazione; cosa appena credibile nel Paese della
    dialettica.
    
    Che dire poi delle divagazioni dei mistici, di quella gente a cui fa
    orrore la ragione e per cui il fatto è sempre sufficientemente
    spiegato, giustificato, in quanto esiste? La proprietà, dicono, è
    una creazione della spontaneità sociale, l’effetto di una legge
    della Provvidenza, davanti alla quale dobbiamo umiliarci come
    davanti a tutto ciò che viene da Dio. E che cosa potremmo trovare di
    più rispettabile, autentico, necessario e sacro di quel che il
    genere umano ha voluto spontaneamente e ha compiuto per un permesso
    dall’alto?
    
    Così, la religione viene a sua volta a consacrare la proprietà; e da
    questo segno si può giudicare la poca solidità di tale principio. Ma
    la società, detta anche Provvidenza, non ha consentito alla
    proprietà che in vista del bene generale; è permesso, senza mancare
    al rispetto dovuto alla Provvidenza, di domandare da dove vengano
    allora le esclusioni? Perché se il bene generale non esige
    assolutamente l’uguaglianza delle proprietà, per lo meno implica una
    certa responsabilità da parte del proprietario; e quando il povero
    domanda l’elemosina, è il sovrano che reclama il suo diritto. Donde
    viene dunque che il proprietario è padrone di non rendere mai conto,
    di non mettere a parte?
    
    Sotto tutti questi punti di vista la proprietà resta
    inintelligibile: quelli che l’hanno attaccata potevano essere certi
    già prima che non si sarebbe risposto loro, come potevano ugualmente
    essere sicuri che le loro critiche non avrebbero sortito il minimo
    effetto. La proprietà esiste di fatto ma la ragione la condanna;
    come conciliare qui la realtà e l’idea, come far passare la ragione
    nel fatto? Ecco ciò che ci resta da fare e che nessuno ancora sembra
    avere chiaramente compreso. Fintanto che la proprietà sarà difesa
    con così poveri mezzi, sarà in pericolo; e fintanto che un fatto
    nuovo e più potente non sarà opposto alla proprietà, gli attacchi
    non saranno che insignificanti proteste, buone per aizzare i
    pezzenti e irritare i proprietari.
    
    Infine, è arrivato un critico che, procedendo con l’aiuto di
    un’argomentazione nuova, ha detto:
    
    La proprietà, di fatto e di diritto, è essenzialmente
    contraddittoria ed è per questa stessa ragione che essa è qualche
    cosa.
    
    Difatti:
    
    La proprietà è il diritto di occupazione, e nel tempo stesso il
    diritto di esclusione.
    
    La proprietà è il premio del lavoro, e la negazione del lavoro.
    
    La proprietà è il prodotto spontaneo della società, e la
    dissoluzione della società.
    
    La proprietà è una istituzione di giustizia, la proprietà è un
    furto. [...]
    
    Da tutto questo risulta che un giorno la proprietà trasformata sarà
    una idea positiva, completa, sociale e vera; una proprietà che
    abolirà l’antica proprietà e diventerà per tutti ugualmente
    effettiva e benefica. E ciò che lo prova è ancora una volta che la
    proprietà è una contraddizione. Da questo momento la proprietà ha
    cominciato a essere conosciuta; è stata svelata la sua natura
    intima, il suo avvenire è stato previsto. Ma la critica non ha
    compiuto che metà del suo compito, poiché, per costruire
    definitivamente la proprietà, per toglierle il suo carattere di
    esclusione e darle la sua forma sintetica, non basta averla
    analizzata in se stessa, conviene ancora ritrovare l’ordine di idee
    di cui essa non è che un momento particolare, la serie che
    l’avviluppa e fuori della quale non è possibile né comprendere, né
    intaccare la proprietà. [...]
    
    La proprietà comincia, o per meglio dire si manifesta, con una
    occupazione sovrana, effettiva, che esclude ogni idea di
    partecipazione e di comunità; questa occupazione, nella sua forma
    legittima e autentica, non è altro che il lavoro: senza questo, come
    mai la società avrebbe acconsentito a concedere e a far rispettare
    la proprietà? La società ha voluto la proprietà e tutte le
    legislazioni del mondo non sono state fatte che per essa.
    
    La proprietà si è stabilita con l’occupazione, cioè con il lavoro:
    conviene ricordarlo spesso non per la conservazione della proprietà,
    ma per l’istruzione dei lavoratori. Il lavoro conteneva in potenza,
    doveva produrre per l’evoluzione delle sue leggi, la proprietà; nel
    modo stesso che aveva generato la separazione delle industrie, poi
    la gerarchia dei lavoratori, poi la concorrenza, il monopolio, la
    politica, ecc. Tutte queste antinomie sono allo stesso titolo
    posizioni successive del lavoro, bastoni da livello piantati sulla
    sua strada eterna e destinati a formulare, nella loro riunione
    sintetica, il vero diritto delle genti. Ma il fatto non è il
    diritto; la proprietà, prodotto naturale dell’occupazione e del
    lavoro, era un principio di anticipazione e di usurpazione; essa
    aveva dunque bisogno di essere riconosciuta e legittimata dalla
    società: questi due elementi, l’occupazione del lavoro e la sanzione
    legislativa, che i giuristi hanno male a proposito separati nei loro
    commentari, si sono riuniti per costituire la proprietà. Ora, si
    tratta di conoscere i motivi provvidenziali di questa concessione,
    quale parte essa sostenga nel sistema economico: tale sarà l’oggetto
    di questo paragrafo.
    
    Proviamo dapprima che per stabilire la proprietà è stato necessario
    il consenso sociale.
    
    Fin tanto che la proprietà non è riconosciuta e legittimata dallo
    Stato, resta un fatto extra sociale; è nella stessa posizione del
    bambino, il quale non è reputato membro della famiglia, della città
    e della Chiesa che tramite il riconoscimento del padre, l’iscrizione
    al registro dello stato civile e la cerimonia del battesimo.
    Nell’essenza di queste formalità il bambino è come la prole degli
    animali: è un membro inutile, un’anima vile e serva, indegna di
    considerazione; è un bastardo. Parimenti, il riconoscimento sociale
    è stato necessario alla proprietà, e ogni proprietà ha implicato una
    comunità primitiva. Senza questo riconoscimento, la proprietà resta
    semplice occupazione e può essere contestata dal primo venuto.
    
    «Il diritto a una cosa», dice Kant, «è il diritto dell’uso privato
    di una cosa riguardo alla quale io sono in comunanza di possesso
    (primitiva o susseguente) con tutti gli altri uomini: questo
    possesso è l’unica condizione sotto la quale posso interdire a ogni
    altro possessore l’uso privato della cosa, perché senza la
    supposizione di questo possesso non sarebbe possibile concepire come
    io, che non sono attualmente possessore della cosa, possa essere
    leso da coloro che la possiedono e che se ne servono». Il mio
    arbitrio individuale o unilaterale non può obbligare altri a
    interdirsi l’uso di una cosa, se non vi era altrimenti obbligato.
    Egli non può essere dunque obbligato se non dagli arbitrii riuniti
    in un possesso comune. Se non fosse così, si sarebbe nella necessità
    di concepire un diritto in una cosa, come se essa avesse un obbligo
    verso di me, e donde deriverebbe in ultima analisi il diritto contro
    ogni possessore di questa cosa; concetto veramente assurdo.
    
    Così, secondo Kant, il diritto di proprietà, cioè la legittimità
    dell’occupazione, procede dal consenso dello Stato, il quale implica
    originariamente possesso comune. E non può, dice Kant, essere
    altrimenti. Tutte le volte dunque che il proprietario osa opporre il
    suo diritto allo Stato, questi, riconducendo il proprietario alla
    convenzione, può sempre terminare la lite con questo ultimatum: o
    riconoscete la mia sovranità, e vi sottomettete a quello che
    l’interesse pubblico reclama, o io dichiaro che la vostra proprietà
    ha cessato di essere collocata sotto la salvaguardia delle leggi e
    le tolgo la mia protezione.
    
    Da ciò segue che nello spirito del legislatore l’istituzione della
    proprietà, come quella del credito, del commercio e del monopolio, è
    stata fatta con un intento di equilibrio; il che colloca senz’altro
    la proprietà fra gli elementi dell’organizzazione, e la distingue
    come uno dei mezzi generali di costituzione dei valori. «Il diritto
    a una cosa», dice Kant, «è il diritto dell’uso privato di una cosa
    riguardo alla quale io sono in comunanza di possesso con tutti gli
    altri uomini». In virtù di questo principio, ogni uomo privo di
    proprietà può dunque e deve richiamarsi alla comunanza, custode dei
    diritti di tutti; da che ne risulta, come si è detto, che nelle
    vedute della Provvidenza le condizioni devono essere uguali.
    
    Per essenza e destinazione, la rendita è dunque uno strumento di
    giustizia distributiva, uno dei mille mezzi che il genio economico
    mette in opera per giungere all’uguaglianza. È un immenso catasto
    eseguito contraddittoriamente da proprietari e fittavoli, senza
    collisione possibile, in un interesse superiore, e il cui risultato
    definitivo deve essere di uguagliare il possesso della terra fra i
    coltivatori del suolo e gli industriali. La rendita, in una parola,
    è quella legge agraria tanto desiderata che deve rendere tutti i
    lavoratori, tutti gli uomini, possessori uguali della terra e dei
    suoi frutti. Ci bisognava questa magia della proprietà per prendere
    al colono l’eccedenza del
    
    prodotto ch’egli non può fare a meno di considerare come suo e di
    cui si crede esclusivamente l’autore.
    
    La rendita, o per meglio dire la proprietà, ha schiacciato l’egoismo
    agricolo e creato una solidarietà che nessuna potenza, nessuna
    divisione della terra mai avrebbe fatto nascere. Con la proprietà,
    l’uguaglianza fra tutti gli uomini diventa definitivamente
    possibile; operando la rendita fra gli individui come la dogana fra
    le nazioni, tutte le cause, tutti i pretesti di disuguaglianza,
    scompaiono, e la società non aspetta altro che la leva destinata a
    dare l’impulso a questo movimento. Al proprietario mitologico
    succederà il proprietario autentico? distruggendo la proprietà, gli
    uomini diventeranno tutti proprietari? Tale è d’ora in poi la
    questione da risolvere, una questione insolubile senza la rendita.
    
    Il genio sociale non procede come gli ideologi e con sterili
    astrazioni; non si dà pensiero né di interessi dinastici, né di
    ragion di Stato, né di diritti elettorali, né di teorie
    rappresentative, né di sentimenti umanitari o patriottici.
    Personifica o realizza sempre le sue idee: il suo sistema si
    sviluppa in una sequela di incarnazioni e di fatti, e per costituire
    la società si indirizza sempre all’individuo.
    
    Dopo la grande epoca del credito, conveniva riattaccare l’uomo alla
    terra; il genio sociale ha istituito la proprietà. Poi si trattava
    di eseguire il catasto del globo; invece di pubblicare a suon di
    tromba una operazione collettiva, ci si rivolge agli interessi
    individuali, e dalla guerra del colono e dell’uomo di rendita
    risulta per la società il più imparziale arbitrato. Oggi, ottenuto
    l’effetto morale della proprietà, resta da fare la distribuzione
    della rendita. Guardatevi dal convocare assemblee primarie, dal
    chiamare i vostri oratori e i vostri tribuni, dal rinforzare la
    vostra politica e, con questo apparato dittatoriale, spaventare il
    mondo. Una semplice mutualità di cambio, aiutata da qualche
    combinazione di banca, basterà... Per i grandi effetti i più
    semplici mezzi: questa è la legge suprema della società e della
    natura.
    
    La proprietà è il monopolio elevato alla seconda potenza; è, come il
    monopolio, un fatto spontaneo, necessario, universale. Ma la
    proprietà ha il favore dell’opinione pubblica, mentre il monopolio è
    guardato con disprezzo; noi possiamo inferire, da questo nuovo
    esempio, che come la società si stabilisce con la lotta, nello
    stesso modo la scienza non cammina che spinta dalla controversia. È
    così che la concorrenza è stata di volta in volta esaltata e
    maltrattata; che l’imposta, riconosciuta necessaria dagli
    economisti, è sgradita agli economisti; che la bilancia del
    commercio, le macchine, la divisione del lavoro, hanno eccitato di
    volta in volta l’approvazione e la maledizione pubblica. La
    proprietà è sacra, il monopolio è riprovevole: quando vedremo la
    fine dei nostri pregiudizi e delle nostre incongruenze?
    
    Con la proprietà, la società ha realizzato un pensiero utile, leale,
    per altro fatale: ora voglio provare che, obbedendo a una necessità
    invincibile, essa si è gettata in una ipotesi impossibile. Credo di
    non aver dimenticato nessuno dei motivi che hanno presieduto allo
    stabilirsi della proprietà; oso anzi dire che ho dato a questi
    motivi un insieme e una evidenza sino a questo momento sconosciuti.
    Che il lettore supplisca, del resto, a ciò che involontariamente
    avrò potuto omettere: accetto anticipatamente tutte le sue ragioni e
    non mi propongo in alcun modo di contraddirvi.
    
    Ma che in seguito mi dica, con la mano sulla coscienza, ciò che può
    replicare alla controprova che intendo portare.
    
    Senza dubbio la ragione collettiva, obbedendo all’ordine del destino
    che gli prescriveva, con una serie di istituzioni provvidenziali, di
    consolidare il monopolio, ha fatto il suo dovere: la sua condotta è
    irreprensibile, e io non l’accuso. È il trionfo dell’umanità saper
    riconoscere ciò che c’è in essa di fatale, come il più grande sforzo
    della sua virtù è di sapervisi sottomettere. Se dunque la ragione
    collettiva, istituendo la proprietà, ha eseguito la sua consegna,
    essa non merita biasimo; la sua responsabilità è al coperto. Ma
    questa proprietà, che la società, forzata e costretta, se così posso
    dire, ha dato alla luce, chi ci garantisce che durerà? Certo la
    società non l’ha concepita dall’alto, e non ha potuto aggiungervi,
    levare o modificare nulla. Conferendola all’uomo, ha lasciato alla
    proprietà le sue qualità e i suoi errori, non ha preso alcuna
    precauzione né contro i suoi vizi costitutivi, né contro le forze
    superiori che possono distruggerla. Se la proprietà in se stessa è
    corruttibile, la società non ne sa niente, e non vi può niente. Se
    questa proprietà è esposta ad attacchi di un principio più potente,
    la società non può nulla. Come rimedierà, in effetti, la società al
    vizio della proprietà, dato che la proprietà è figlia del destino? E
    come la proteggerà contro una idea più alta, quando essa stessa non
    sussiste che per la proprietà, né conosce niente al disopra della
    proprietà? Ecco dunque qual è la teoria proprietaria.
    
    La proprietà è, di necessità, provvidenziale; la ragione collettiva
    l’ha ricevuta da Dio e l’ha data all’uomo. E se oltretutto la
    proprietà è corruttibile per sua natura, o attaccabile da una forza
    maggiore, la società è irresponsabile; e chiunque, armato di questa
    forza, si presenterà per combattere la proprietà, la società gli
    deve sottomissione e obbedienza.
    
    Si tratta dunque di sapere, primo, se la proprietà sia in sé cosa
    corruttibile e che dia presa alla distruzione; secondo, se mai
    esiste da qualche parte, nell’arsenale economico, uno strumento che
    la possa vincere.
    
    Tratterò la prima questione in questo paragrafo; cercheremo
    ulteriormente il nemico che minaccia di inghiottire la proprietà. La
    proprietà è il diritto di usare e di abusare; in una parola, il
    dispotismo. Non che il despota abbia intenzione di distruggere la
    cosa, non è ciò che si deve intendere per diritto di usare e di
    abusare. La distruzione per la distruzione non si presuppone da
    parte del proprietario, si ammette sempre, qualunque uso faccia del
    suo bene, che vi sia un motivo di convenienza e di utilità.
    
    Parlando di abuso, il legislatore ha voluto dire che il proprietario
    ha il diritto di sbagliarsi nell’uso dei suoi beni, senza che possa
    mai essere molestato per questo cattivo uso, senza che sia
    responsabile del suo errore. Il proprietario è sempre tenuto ad
    agire nel suo maggiore interesse; e appunto allo scopo di lasciargli
    maggiore libertà nel perseguimento di questo interesse, la società
    gli ha conferito il diritto di usare e di abusare del suo monopolio.
    Sin là dunque il diritto di proprietà è irreprensibile.
    
    Ma ricordiamoci che questo diritto non è stato concesso solo
    riguardo all’individuo; nell’esposizione dei motivi della
    concessione esistono delle considerazioni tutte sociali; il
    contratto è sinallagmatico fra la società e l’uomo. Questo è
    talmente vero, talmente dichiarato anche dai proprietari, che
    ogniqualvolta si viene ad attaccare il loro privilegio è in nome, e
    solamente in nome, della società che essi lo difendono. Ora, il
    dispotismo proprietario dà soddisfazione alla società? In caso
    contrario, essendo illusoria la reciprocità, il patto sarebbe nullo
    e prima o poi la proprietà o la società perirebbero. Reitero dunque
    la mia domanda. Il dispotismo proprietario adempie al suo obbligo
    verso la società? agisce da buon padre di famiglia? è per sua
    essenza giusto, sociale, umano? Ecco le domande. Ed ecco cosa
    rispondo senza temere smentita.
    
    Se è indubitabile, dal punto di vista della libertà individuale, che
    la concessione della proprietà sia necessaria, dal punto di vista
    giuridico la concessione della proprietà è radicalmente nulla,
    perché implica dalla parte del concessionario certi obblighi che è
    in sua facoltà compiere o non compiere.
    
    Ora, in virtù del principio che ogni convenzione fondata
    sull’adempimento di una condizione non obbligatoria non obbliga, il
    contratto tacito di proprietà, passato fra il privilegiato e lo
    Stato, ai fini che abbiamo precedentemente stabiliti, è
    manifestamente illusorio; esso si annulla per la non reciprocità,
    per la lesione di una delle parti. E siccome, in fatto di proprietà,
    l’adempimento dell’obbligazione non può essere esigibile senza che
    la concessione stessa sia per ciò solo revocata, ne segue che c’è
    contraddizione nella definizione e incoerenza nel patto. Se i
    contraenti si ostinassero a mantenere il trattato, la forza delle
    cose si incaricherebbe di provare loro che fanno opera inutile:
    malgrado tutto, la fatalità del loro antagonismo riconduce fra essi
    la discordia.
    
    Tutti gli economisti segnalano gli inconvenienti che ha per la
    produzione agricola lo sminuzzamento del territorio. D’accordo in
    questo con i socialisti, essi vedrebbero con gioia una coltivazione
    in grande che, operando su larga scala, applicando i processi
    potenti dell’arte e facendo importanti economie sul materiale,
    raddoppiasse, quadruplicasse forse il prodotto. Ma il proprietario
    esclama: veto, io non voglio. E siccome è nel suo diritto, siccome
    nessuno al mondo conosce il mezzo di cambiare questo diritto
    altrimenti che con l’espropriazione, e l’espropriazione è il niente,
    il legislatore, l’economista, il proletario, retrocedono con orrore
    davanti all’ignoto e si contentano di salutare da lontano le messi
    auspicate. Il proprietario è, per carattere, invidioso del bene
    pubblico; non potrebbe purgarsi da questo vizio che perdendo la
    proprietà.
    
    La proprietà è dunque un ostacolo al lavoro e alla ricchezza, un
    ostacolo all’economia sociale; solo gli economisti e i giuristi si
    meravigliano di ciò.
    
    Ma il proprietario: sarei ben stupido, dice, se abbandonassi un
    beneficio così netto. Invece di cento giornate di lavoro non ne
    pagherò che cinquanta: non è il proletario che approfitterà, ma io.
    Allora, osservate voi, il proletario sarà ancora più disgraziato di
    prima, poiché gli mancherà il lavoro una volta di più. Questo non mi
    riguarda, soggiunge il proprietario, uso del mio diritto. Che gli
    altri accantonino dei beni, se possono, che vadano in un’altra parte
    del mondo a cercare fortuna, fossero anche migliaia o milioni! Ogni
    proprietario nutre, in fondo al cuore, questo pensiero omicida. E
    siccome per la concorrenza, il monopolio e il credito l’invasione si
    estende sempre più, i lavoratori si trovano continuamente eliminati
    dal suolo: la proprietà è lo spopolamento della terra. Così la
    rendita del proprietario, combinata con il progresso dell’industria,
    cambia in abisso la fossa scavata sotto i piedi del lavoratore dal
    monopolio; il male si aggrava coi privilegi. La rendita del
    proprietario non è più il patrimonio dei poveri, voglio dire quella
    porzione del prodotto agricolo che resta dopo che le spese della
    coltura sono state compensate, e che doveva sempre servire come
    nuova materia di usufrutto al lavoro, secondo la bella teoria che ci
    mostra il capitale accumulato come una terra senza posa offerta alla
    produzione, e che più la si lavora, più sembra estendersi. La
    rendita è diventata per il proprietario il pegno della sua
    lubricità, lo strumento delle sue solitarie gioie. E notate che il
    proprietario che abusa, colpevole davanti alla carità e alla morale,
    sta senza rimprovero davanti alla legge, è inattaccabile in economia
    politica. Consumare la propria rendita: che c’è di più bello, di più
    nobile, di più legittimo? Nell’opinione del popolo come in quella
    dei potenti il consumo improduttivo è la virtù per eccellenza del
    proprietario. Tutti gli imbarazzi della società provengono da questo
    egoismo indelebile. [...]
    
    Così la proprietà separa l’uomo dall’uomo cento volte di più del
    monopolio. Il legislatore, con un intento eminentemente sociale,
    aveva creduto di dare al possesso più forti garanzie; ed ecco si
    trova ad aver tolto al lavoratore persino la speranza, garantendo al
    monopolista, in perpetuo, il frutto quotidiano delle sue rapine.
    Quale grande proprietario non abusa della sua forza per violentare
    il piccolo? quale sapiente, costituito in dignità, non ricava un
    lucro dalla sua influenza e dal suo patronato? quale filosofo,
    accreditato nei consigli, non trova modo, sotto pretesto di
    traduzione, revisione o commentario, di trarre partito dalla
    filosofia? quale ispettore di scuola non è mercante di sillabari?
    L’economia politica è forse scevra da ogni commercio di azioni, e la
    religione da ogni simonia? Ho avuto l’onore di essere capo di
    stamperia, vendendo una dozzina di catechismi, cinque fogli in 120,
    trenta soldi. Dopo, il vescovo del luogo si è assunto il monopolio
    dei libri di religione, e il prezzo del catechismo è salito da 15
    centesimi a 40: monsignore realizza ogni anno su questo solo
    articolo un utile netto di 50.000 franchi. La tale questione è stata
    messa a concorso dall’Accademia solo per dare l’occasione di un
    trionfo al signor tale; la tale composizione ha ottenuto il premio
    perché veniva dal signor tale, che professa le buone dottrine, vale
    a dire esercita l’arte della bassa adulazione presso i signori tali,
    tali, tali. La scienza titolata sbarra il cammino alla scienza
    ignobile; la quercia obbliga la canna a farle riverenza; la
    religione e la morale si utilizzano per privilegio, come il gesso e
    il carbon fossile; il privilegio giunge sino al premio della virtù,
    e le corone decretate nel teatro Mazzarino, per l’incoraggiamento
    della gioventù e il progresso della scienza, non sono più che
    l’insegna della feudalità accademica.
    
    E tutti questi abusi di autorità, queste concussioni, queste
    brutture, provengono non dall’abuso illegale, ma dall’uso legale,
    legalissimo, della proprietà. Senza dubbio il funzionario il cui
    controllo è necessario per il libero passaggio di una mercanzia, o
    l’accettazione di una fornitura, non ha il diritto di trafficare
    questo controllo. Non è così ch’essi si comportino. Un simile atto
    ripugnerebbe alla virtù degli agenti dell’autorità, cadrebbe sotto
    la vendetta del codice penale, e non me ne occuperei. Ma colui il
    quale approva, non può niente approvare più volentieri che ciò che
    sa fare, poiché la sua approvazione è necessariamente in ragione dei
    suoi mezzi. Ora, siccome non è interdetto agli ispettori e
    controllori dell’autorità di fare da se stessi ciò che sono
    incaricati di approvare presso gli altri, e a più forte ragione di
    prendere parte e di interessarsi a ciò che deve essere sottomesso
    alla loro approvazione, e siccome in ogni specie di servizio, il
    salario e il beneficio sono legittimi, ne segue che la missione
    attribuita, per esempio, all’università e ai vescovi, di approvare o
    di disapprovare certe opere, costituisce a profitto dei vescovi e
    degli universitari un monopolio. E se la legge, contraddicendosi,
    pretende di impedirlo, la forza delle cose, più potente della legge,
    lo ripropone senza posa, e invece di un governo non abbiamo più che
    venalità e finzione. [...]
    
    L’economia politica, dice il Rossi, è in sé buona e utile, ma non è
    la morale; essa procede facendo astrazione da qualsiasi moralità;
    sta a noi non abusare delle sue teorie, approfittare dei suoi
    insegnamenti, secondo le leggi superiori della morale. È come se
    dicesse: l’economia politica, l’economia della società, non è la
    società; l’economia della società procede facendo astrazione da ogni
    società; sta a noi non abusare delle sue teorie, approfittare dei
    suoi insegnamenti, secondo le leggi superiori della società. Che
    caos!
    
    Io sostengo non solo con gli economisti che la proprietà non è né la
    morale, né la società, ma anche che essa è per suo principio
    direttamente contraria alla morale e alla società, come l’economia
    politica è antisociale perché le sue teorie sono diametralmente
    opposte all’interesse sociale.
    
    Stando alla definizione, la proprietà è il diritto di usare e di
    abusare, cioè il dominio assoluto, irresponsabile, dell’uomo sulla
    sua persona e sui suoi beni. Se la proprietà cessasse di essere il
    diritto di abusare, essa cesserebbe di essere la proprietà. Io ho
    preso i miei esempi nella categoria degli atti abusivi permessi al
    proprietario. Che mai vi si opera che non sia di una legalità, di
    una proprietà irreprensibile? il proprietario non ha forse il
    diritto di dare il suo bene a chi gli pare e piace, di lasciar
    bruciare il suo vicino senza gridare al fuoco, di fare opposizione
    al bene pubblico, di scialacquare il suo patrimonio, di usufruire
    dell’operaio e di vessarlo, di mal produrre e di mal vendere? il
    proprietario può essere giuridicamente costretto a ben usare della
    sua proprietà? può essere disturbato nell’abuso? Che dico: la
    proprietà, precisamente perché è abusiva, non è forse per il
    legislatore tutto ciò che c’è di più sacro? si conosce una proprietà
    di cui la polizia determinerebbe l’uso, reprimerebbe l’abuso? e non
    è evidente, infine, che se si volesse introdurre la giustizia nella
    proprietà si distruggerebbe la proprietà stessa, come la legge,
    introducendo l’onestà nel concubinaggio, ha distrutto il
    concubinaggio?
    
    La proprietà, per principio e per essenza, è dunque immorale: questa
    proposizione è d’ora innanzi indubitabile per la critica. Di
    conseguenza, il codice che, determinando i diritti del proprietario,
    non ha riservato quelli della morale, è un codice di immoralità; la
    giurisprudenza, questa pretesa scienza del diritto, la quale non è
    altro che la collezione di rubriche proprietarie, è immorale. E la
    giustizia, istituita per proteggere il libero e pacifico abuso della
    proprietà, la giustizia, che ordina di prestare manforte contro
    coloro che vorrebbero opporsi a questo abuso, che affligge e marchia
    di infamia chiunque abbia osato pretendere di riparare gli oltraggi
    della proprietà, la giustizia è infame. Se un figlio, soppiantato
    nell’affezione paterna da una indegna concubina, distrugge l’atto
    che lo diseredita e lo disonora, ne risponderà davanti la giustizia.
    Accusato, arrestato, condannato, andrà al Bagno a fare ammenda
    onorevole verso la proprietà, mentre la prostituta sarà entrata in
    possesso. Dov’è dunque qui l’immoralità? dov’è l’infamia? non è
    dalla parte della giustizia? Continuiamo a svolgere questa matassa e
    sapremo ben presto tutta la verità che cerchiamo. Non solo la
    giustizia, istituita per proteggere la proprietà, anche abusiva,
    anche immorale, è infame, ma la sanzione penale è infame, la polizia
    è infame, il boia e il patibolo sono infami. E la proprietà che
    abbraccia tutta questa serie, la proprietà da cui è uscita questa
    odiosa razza, la proprietà è infame.
    
    Giudici armati per difenderla, magistrati il cui zelo è una minaccia
    permanente a quelli che l’accusano, vi interrogo. Che cosa avete
    visto nella proprietà che abbia potuto in tal modo soggiogare la
    vostra coscienza e corrompere il vostro giudizio? quale principio,
    superiore senza dubbio alla proprietà, più degno del vostro
    rispetto, ve la rende sì preziosa? allorché le sue opere la
    dichiarano infame, come mai la proclamate santa e sacra? quale
    considerazione, quale pregiudizio vi spinge? è forse l’ordine
    maestoso delle società umane, che non conoscete ma di cui supponete
    la proprietà esserne il saldissimo fondamento?
    
    No, perché la proprietà, così com’è, è per voi l’ordine stesso,
    mentre d’altra parte è provato che la proprietà è di sua natura
    abusiva, cioè disordinata, antisociale.
    
    [Da Système des contradictions économiques, trad. it.: Sistema delle
    contraddizioni economiche, Anarchismo, Catania 1975, pp. 40-41,
    414438, 441-442, 452-453].
    
    
    
    capitolo secondo
    
    La concezione proudhoniana del politico definisce lo Stato come
    forma dell’alienazione della forza collettiva esplicitata a tutti i
    livelli, da quello sociale a quello economico, da quello culturale a
    quello psicologico. Per mantenere la propria esistenza, che è
    fittizia, esso non può che perpetuare l’espropriazione della società
    e quindi conservare la disuguaglianza: solo a condizione che la
    società sia e rimanga gerarchica, l’organizzazione statale può
    sostituirsi a quella sociale, il politico rispondere alle esigenze
    dell’economico e assolvere con autorità ciò che la società dovrebbe
    svolgere con autonomia. Per Proudhon il principio dell’antagonismo e
    del fatalismo politico porta alla metafisica governativa di una
    gerarchia eterna. Questo dogma fondato sulla teologia della forza è
    stato ripreso in pieno dalla democrazia giacobina e dal socialismo
    autoritario, che lo hanno mutuato dall’aristocrazia e dalla
    regalità. Si constata così, attraverso questa analogia simbolica,
    una sorta di religione della forza, di mistica della ragione di
    Stato, di fascino che ammanta il potere sociale, spingendolo come un
    archetipo sacrale fino nel profondo dell’inconscio sociale. In
    conclusione, l’idea dello Stato, secondo il pensatore francese, non
    può prescindere da una dimensione teistica, neppure nelle sue
    articolazioni formali (tanto da assumere perfino una qualche forma
    trinitaria di potenza, assistenza e sicurezza). Ne fa esempio la
    trasposizione dal piano teistico a quello fideistico operata dal
    pensiero giacobino: in esso l’immagine indeterminata e collettiva
    del popolo viene vissuta in chiave trascendente e sacrale, a estrema
    riconferma del fatto che ogni Stato tende per sua natura a fondare
    la propria legittimazione su di una dimensione mitica e mistica.
    
    È proprio dunque della natura dello Stato, di ogni Stato, tendere a
    un proprio rafforzamento attraverso un movimento di assorbimento
    delle forze collettive e delle forze sociali. E non solo lo Stato è
    spinto dalla sua logica intrinseca ad appropriarsi dell’azione
    sociale, ma anche a centralizzare e unificare in una sola direzione
    la pluralità della vita collettiva. Questo movimento, che comporta
    l’aumento continuo delle funzioni statali a spese dell’iniziativa
    individuale, corporativa, comunale e sociale, una volta iniziato
    tende incessantemente a crescere, a invadere tutta la società,
    perché la centralizzazione è per sua natura espansiva, invadente.
    
    La società disegualitaria è dunque la condizione obiettiva
    dell’esistenza dello Stato, allo stesso modo in cui l’esistenza di
    questo è la condizione del mantenimento della disuguaglianza
    sociale. La tendenza irreversibile dello Stato alla concentrazione e
    all’appropriazione della forza sociale dipende quindi dal conflitto
    delle classi, e più precisamente da ogni forma di gerarchia sociale
    che, a sua volta, è la premessa fondamentale per l’estorsione della
    forza collettiva.
    
    
    
    Critica dello Stato
    
    La stessa cosa non si può dire – anzi, è proprio il contrario – del
    problema politico, cioè del significato preciso da assegnare, per
    l’avvenire, al governo e allo Stato. Su tale punto la domanda non
    viene neppure posta: nella coscienza pubblica, nell’intelligenza
    delle masse non esiste. Una volta portata a compimento, nelle forme
    che abbiamo appena detto, la rivoluzione economica, può, deve,
    sussistere ancora il governo, lo Stato? Ecco ciò che nessuno, né
    dentro la democrazia, né fuori della democrazia, osa mettere in
    dubbio, e tuttavia si tratta di prendere in esame proprio questo
    problema, se si vogliono evitare nuove catastrofi.
    
    Noi dunque affermiamo, e finora siamo i soli a farlo, che con la
    rivoluzione economica, da nessuno ormai messa in discussione, lo
    Stato deve sparire completamente; che tale scomparsa dello Stato è
    la conseguenza necessaria dell’organizzazione del credito e della
    riforma dell’imposta; che, in seguito a questa doppia innovazione,
    il governo diventa del tutto inutile e impossibile; che, a tal
    proposito, il governo è destinato a fare la stessa fine della
    proprietà feudale, del prestito a interesse, della monarchia
    assoluta o costituzionale, delle istituzioni giudiziarie, ecc.,
    tutte cose che sono sì servite all’educazione della libertà, ma che
    cadono e svaniscono allorquando la libertà ha raggiunto la sua
    pienezza.
    
    Altri, invece, e tra questi Louis Blanc e Pierre Leroux in prima
    fila, sostengono che dopo la rivoluzione economica, bisogna
    mantenere lo Stato, di cui però fino a questo momento non hanno
    fornito né il principio né il piano. Per essi la questione politica,
    invece di annullarsi o identificarsi con la questione economica,
    continua a sussistere: essi mantengono e allargano ulteriormente lo
    Stato, il potere, l’autorità, il governo. In effetti, si divertono a
    cambiare i nomi; al posto di Stato-padrone, per esempio, dicono
    Stato-servitore, come se bastasse cambiare le parole per trasformare
    le cose! Al di sopra di questo sistema di governo, del tutto
    misterioso, aleggia un sistema religioso, del quale ogni cosa, il
    dogma, il rito, lo scopo, sulla terra e in cielo, rimangono
    altrettanto misteriosi.
    
    In un momento come questo, dunque, un momento d’accordo, o quasi,
    sul resto delle questioni, la domanda su cui si trova divisa la
    democrazia socialista è la seguente: dovrà lo Stato continuare a
    esistere una volta risolto il problema del lavoro e del capitale? In
    altri termini, continueremo ad avere, così come l’abbiamo avuta fino
    a ora, una costituzione politica al di fuori della costituzione
    sociale?
    
    Noi rispondiamo di no. Sosteniamo che, una volta identificati il
    capitale e il lavoro, la società sussiste da sola e non ha più
    bisogno del governo. Noi siamo, di conseguenza, e l’abbiamo
    proclamato più di una volta, anarchici. L’anarchia è la condizione
    di esistenza delle società adulte, così come la gerarchia è la
    condizione di esistenza delle società primitive: nelle società umane
    esiste un incessante progresso dalla gerarchia all’anarchia.
    
    Louis Blanc e Pierre Leroux affermano il contrario: oltre alla loro
    qualità di socialisti, essi conservano quella di politici; sono
    uomini di governo e di autorità, uomini di Stato.
    
    Per risolvere una volta per tutte questo contrasto di opinioni, ci
    sembra allora necessario considerare lo Stato non più dal punto di
    vista della vecchia società, che lo ha naturalmente e
    necessariamente prodotto e che sta per finire, bensì dal punto di
    vista della società nuova, così come la fanno o devono farla le due
    riforme fondamentali e complementari del credito e dell’imposta.
    
    Ora, se proviamo che da quest’ultimo punto di vista, lo Stato,
    considerato nella sua natura, riposa su una ipotesi completamente
    falsa; che, in secondo luogo, considerato nel suo oggetto, lo Stato
    giustifica la propria esistenza con una seconda ipotesi, ugualmente
    falsa; che, infine, considerato nell’ottica di una sua ulteriore
    prosecuzione, lo Stato può contare ancora e soltanto su una terza
    ipotesi, falsa come le prime due: una volta chiariti questi tre
    punti, il nodo della questione sarà sciolto, lo Stato verrà
    riconosciuto cosa superflua, quindi nociva e impossibile, il governo
    diverrà una contraddizione. Passiamo subito all’analisi.
    
    «Che cos’è lo Stato?» si domanda Louis Blanc. E risponde:
    
    Lo Stato, in un regime monarchico, è il potere di un uomo, la
    tirannia di uno solo.
    
    Lo Stato, in un regime oligarchico, è il potere di un numero
    ristretto di uomini, la tirannia di pochi.
    
    Lo Stato, in un regime aristocratico, è il potere di una classe, la
    tirannia di molti.
    
    Lo Stato, in un regime anarchico, è il potere del primo venuto che è
    per caso il più intelligente e il più forte; è la tirannia del caos.
    
    Lo Stato, in un regime democratico, è il potere di tutto il popolo,
    servito dai suoi eletti; è il regno della libertà.
    
    Tra i 25.000 o 30.000 lettori di Louis Blanc, forse non ce ne sono
    neppure una decina cui questa definizione dello Stato non sia
    sembrata dimostrativa, e che non ripetano, seguendo il maestro: lo
    Stato è il potere di uno, di pochi, di molti, di tutti o del primo
    venuto, a seconda che si aggiunga alla parola Stato uno degli
    aggettivi seguenti: monarchico, oligarchico, aristocratico,
    democratico o anarchico. I delegati del Luxembourg – che, a quanto
    pare, si sentono defraudati se qualcuno si permette di avere una
    opinione diversa dalla loro sul significato e le tendenze della
    Rivoluzione di Febbraio – in una lettera resa pubblica mi hanno
    fatto l’onore di informarmi del fatto che essi giudicavano la
    risposta di Louis Blanc decisamente vittoriosa e che io non avevo
    altro da ribattere. A quanto pare, tra i cittadini delegati nessuno
    ha studiato il greco. Perché altrimenti si sarebbero accorti che il
    loro maestro e amico Louis Blanc, al posto di dire che cosa è lo
    Stato, non ha fatto altro che tradurre in francese le parole greche
    monos, uno; oligoi, alcuni; aristoi, i grandi; demos, il popolo, e a
    privativo, che indica la negazione. Servendosi esattamente di questi
    termini qualificativi, Aristotele ha potuto distinguere le
    differenti forme dello Stato, che si esprime a sua volta con arché,
    autorità, governo, Stato. Chiediamo scusa ai nostri lettori, ma non
    è affatto colpa nostra se la scienza politica del presidente del
    Luxembourg non va più in là dell’etimologia.
    
    E si noti l’artificio! Nella sua traduzione è bastato a Louis Blanc
    introdurre prima quattro volte la parola tirannia – tirannia di uno
    solo, tirannia di molti, ecc. – e poi sopprimerla una volta – potere
    del popolo, servito dai suoi eletti – per riscuotere a primo colpo
    gli applausi. È tirannia qualunque tipo di Stato che non sia quello
    democratico, nel senso in cui l’intende Louis Blanc. Soprattutto
    l’anarchia è trattata in un modo particolare: è il potere del primo
    venuto che è per caso il più intelligente e il più forte; è la
    tirannia del caos. Che mostro questo primo venuto che, benché sia il
    primo venuto, è per caso anche il più intelligente e il più forte ed
    esercita la sua tirannia del caos. Se così stanno le cose, chi
    potrebbe preferire l’anarchia a questo affabile governo di tutto il
    popolo, servito così bene, come si sa, dai suoi eletti? Che grande
    vittoria! E noi per terra, fin dal primo colpo. Ah! retore,
    ringraziate il cielo di aver creato apposta per voi, nel XIX secolo,
    una idiozia come quella dei vostri cosiddetti delegati delle classi
    operaie, senza di che sareste morto sotto i fischi la prima volta
    che avete preso in mano una penna.
    
    Che cos’è lo Stato? A questa domanda bisogna dare una risposta:
    l’enumerazione delle varie specie di Stati che, sulle orme di
    Aristotele, ha fatto il cittadino Louis Blanc, non ci ha insegnato
    nulla. Quanto a Pierre Leroux, non vale la pena interrogarlo. Ci
    risponderebbe che la domanda è indiscreta, che lo Stato è sempre
    esistito, che esisterà sempre: è la ragione ultima dei conservatori
    e delle bonnes femmes.
    
    Lo Stato è la costituzione esterna della potenza sociale.
    
    A causa di questa costituzione esterna della sua potenza e
    sovranità, il popolo non si governa da sé: c’è sempre qualcuno, a
    volte un solo individuo, a volte molti, a titolo elettivo o
    ereditario, incaricato di governarlo, amministrare i suoi affari,
    trattare e fare compromessi in suo nome, fungere insomma da
    capofamiglia, tutore gerente o mandatario, munito di procura
    generale, assoluta e irrevocabile.
    
    Questa costituzione esterna della potenza collettiva, che i Greci
    chiamarono arché, principato, autorità, governo, riposa dunque
    sull’ipotesi secondo cui un popolo, quell’essere collettivo che
    chiamiamo società, non può governarsi, pensare, agire, esprimersi in
    modo autonomo, proprio come fanno gli esseri dotati di personalità
    individuale; e perciò ha bisogno di farsi rappresentare da uno o più
    individui, i quali, con qualsiasi titolo, sono ritenuti depositari
    della volontà del popolo e suoi agenti. Secondo tale ipotesi, è
    impossibile che la potenza collettiva, che appartiene essenzialmente
    alla massa, si esprima e agisca direttamente, senza la mediazione di
    organi fatti apposta e per così dire disposti ad hoc. A quanto pare
    – il che spiega la formazione di tutte le varietà e specie dello
    Stato – l’essere collettivo, la società, proprio perché è un essere
    razionale, non può rendersi sensibile, esteriorizzarsi, se non
    tramite l’incarnazione monarchica, l’usurpazione aristocratica o il
    mandato democratico; di conseguenza, gli è impedita ogni
    manifestazione propria e personale.
    
    Ora, è precisamente questa nozione astratta dell’essere collettivo,
    della sua vita, della sua azione, della sua unità, della sua
    individualità, della sua personalità – perché, capite, la società è
    una
    
    persona come è una persona l’umanità tutt’intera – è questa nozione
    dell’essere umano collettivo, come ente di ragione, che noi neghiamo
    oggi; e perciò neghiamo anche lo Stato, neghiamo il governo,
    respingiamo dalla società trasformata dalla rivoluzione economica
    qualsiasi costituzione della potenza popolare che si ponga al di
    fuori e al di sopra della massa, assuma essa sembianze di monarchia
    ereditaria, istituzione feudale o delegazione democratica.
    
    Affermiamo, invece, che il popolo, la società, la massa, può e deve
    governarsi autonomamente, pensare, agire, muoversi e arrestarsi come
    un uomo, manifestarsi insomma nella sua individualità fisica,
    intellettuale e morale, senza l’aiuto di quella specie di sostituti
    che in passato furono i despoti, adesso sono gli aristocratici,
    qualche altra volta sono stati i pretesi delegati, devoti o
    servitori della folla, che noi chiamiamo puramente e semplicemente
    agitatori del popolo, demagoghi.
    
    In due parole, neghiamo il governo e lo Stato perché affermiamo – e
    questo i fondatori di Stati non l’hanno mai creduto – la personalità
    e l’autonomia delle masse.
    
    Inoltre affermiamo che ogni costituzione di Stato ha il solo scopo
    di condurre la società a questo stato di autonomia; che le varie
    forme di Stato, dalla monarchia assoluta fino alla democrazia
    rappresentativa, sono tutte mezzi termini, posizioni illogiche e
    instabili, che hanno di volta in volta una funzione transitoria o di
    tappe verso la libertà, nel senso che formano i gradi della scala
    politica attraverso cui le società si elevano alla coscienza e al
    possesso di se stesse.
    
    Affermiamo, infine, che questa anarchia, che è l’espressione, come
    si vede, del più alto grado di libertà e ordine cui possa giungere
    l’umanità, è la vera formula della repubblica, lo scopo verso il
    quale ci spinge la Rivoluzione di Febbraio; sicché c’è
    contraddizione tra repubblica e governo, tra suffragio universale e
    Stato.
    
    Noi fondiamo queste affermazioni sistematiche su due procedimenti:
    dimostrando in primo luogo, con il metodo storico e negativo, che
    qualsiasi costituzione di potere, qualsiasi organizzazione della
    forza collettiva che si basi su un processo di esteriorizzazione,
    per noi è diventata impossibile. È quanto abbiamo incominciato a
    fare nelle Confessioni di un rivoluzionario, con il raccontare la
    caduta di tutti i governi che si sono succeduti in Francia da
    sessant’anni a questa parte, mettendo in evidenza la causa della
    loro abolizione, e insistendo infine sull’esaurimento e la morte del
    potere sotto il regno corrotto di Luigi Filippo, durante la
    dittatura inerte del governo provvisorio e la presidenza
    insignificante del generale Cavaignac e di Luigi Bonaparte.
    
    In secondo luogo, proviamo la nostra tesi spiegando in quale modo,
    con la riforma economica, la solidarietà industriale e
    l’organizzazione del suffragio universale, il popolo passi dalla
    spontaneità alla riflessione e alla coscienza; agisca, non più per
    impulso e fanatismo, ma con intenzione; si muova senza padroni e
    servi, senza delegati e aristocratici, proprio come farebbe un
    individuo. In questo modo, la nozione di persona, l’idea dell’io, si
    estende e generalizza: c’è la persona o l’io individuale, e c’è pure
    la persona o l’io collettivo; in tutti e due i casi, la volontà,
    l’azione, l’anima, lo spirito, la vita – cose del tutto misteriose e
    inafferrabili per chi ne rincorra il principio o ne ricerchi
    l’essenza – sono inseparabili dalla loro esistenza animale e vitale,
    dall’organizzazione. La psicologia delle nazioni e dell’umanità
    diventa, come la psicologia dell’uomo, una scienza possibile. Noi
    abbiamo annunciato questo tipo di dimostrazione positiva sia nelle
    nostre pubblicazioni sulla circolazione e il credito, sia nel
    capitolo XIV del manifesto de «La Voix du Peuple» riguardante la
    costituzione.
    
    Sicché, quando Louis Blanc e Pierre Leroux si erigono a difensori
    dello Stato, cioè di una costituzione esterna della potenza
    pubblica, non fanno che riprodurre, a modo loro e in forme che non
    ci hanno ancora fatto conoscere, la vecchia finzione del governo
    rappresentativo, la cui formula integrale, l’espressione più
    completa, è ancora quella della monarchia costituzionale. Perché
    abbiamo fatto la Rivoluzione di Febbraio, forse per arrivare a
    questa contraddizione retrograda?
    
    A noi sembra – voi che ne dite, lettori? – che la questione si stia
    un po’ chiarendo; dopo quello che abbiamo appena detto, i poveri di
    spirito saranno in grado di farsi una idea dello Stato, di capire
    perché mai dei repubblicani si chiedono se sia davvero
    indispensabile, dopo una rivoluzione economica che modifica tutti i
    rapporti sociali, mantenere quell’organo parassitario chiamato
    governo solo per soddisfare la vanità di pretesi uomini di Stato e
    al prezzo di 2 miliardi all’anno. E gli onorevoli delegati del
    Luxembourg che, solo perché occupano qualche poltrona, si credono
    uomini politici e si aggiudicano risolutamente la comprensione
    esclusiva della Rivoluzione, senza dubbio cesseranno di temere che
    noi, a titolo di più intelligenti e di più forti, dopo aver
    soppresso, perché inutile e troppo costoso, il governo, instaureremo
    la tirannia del caos. Noi neghiamo lo Stato e il governo; noi
    affermiamo l’autonomia del popolo e sosteniamo al tempo stesso la
    sua maggioranza. Potremmo mai essere fautori della tirannia,
    aspiranti al ministero, competitori di Louis Blanc e Pierre Leroux?
    
    In verità, non riusciamo a capire la logica dei nostri avversari.
    Essi accettano un principio senza preoccuparsi delle conseguenze; si
    dichiarano d’accordo, per esempio, sull’uguaglianza dell’imposta che
    l’imposta sul capitale realizza; adottano il principio del credito
    popolare, reciproco e gratuito, perché tutti questi termini sono
    sinonimi; approvano la decadenza del capitale e l’emancipazione del
    lavoro. Quando poi arriva il momento di dedurre da tali premesse le
    conseguenze antigovernative, protestano, continuano a parlare di
    politica e di governo, senza domandarsi se il governo è compatibile
    con la libertà e l’uguaglianza industriale; se è possibile una
    scienza politica, quando è necessaria una scienza economica! Senza
    scrupoli attaccano la proprietà, nonostante la sua antichità
    venerabile; ma si inchinano davanti al potere come i sagrestani
    davanti al Santo Sacramento. Per loro il governo è l’a priori
    necessario e immutabile, il principio dei principi, l’arché eterna.
    
    Certo, non scambiamo per prove le nostre affermazioni, sappiamo,
    come chiunque altro, a quali condizioni si dimostra una
    proposizione. Diremo soltanto che, prima di passare a una nuova
    
     costituzione dello Stato, bisognerebbe chiedersi se, proprio
    per le riforme economiche che la rivoluzione ci impone, non debba
    essere abolito lo Stato in quanto tale; se cioè la fine delle
    istituzioni politiche non sia implicita già nel senso e nella
    portata della riforma economica. Chiediamo se, in realtà, dopo
    l’esplosione di febbraio, l’instaurazione del suffragio universale,
    la dichiarazione del potere alla volontà popolare, sia ancora
    possibile un qualunque tipo di governo; se questo governo non si
    ritroverebbe poi di fronte all’eterna alternativa o di obbedire
    docilmente alle ingiunzioni cieche e contraddittorie della folla, o
    di ingannarla deliberatamente, come ha fatto il governo provvisorio,
    come hanno fatto sempre i demagoghi. Per lo meno, vorremmo sapere
    quali delle diverse attribuzioni dello Stato debbano essere
    conservate e allargate, e quali soppresse. Perché, se per caso, cosa
    del tutto prevedibile, neppure una delle attuali attribuzioni dello
    Stato sopravvivesse alla riforma economica, si dovrebbe allora
    ammettere, in base a tale dimostrazione negativa, che nella nuova
    condizione sociale lo Stato non è nulla, non può essere nulla; in
    due parole, che il solo modo per organizzare il governo democratico
    è la soppressione del governo.
    
    Invece di tentare un’analisi positiva, pratica, realistica, del
    movimento rivoluzionario, che fanno i nostri pretesi promotori?
    Vanno a consultare Licurgo, Platone, Orfeo e tutta la saggezza
    mitologica; interrogano le vecchie leggende; si aspettano dai
    classici antichi la soluzione di problemi assolutamente moderni, e
    poi per risposta ci propinano le illuminazioni vertiginose del loro
    cervello.
    
    E, di nuovo, sarebbe questa la scienza della società e della
    rivoluzione che doveva, a prima vista, risolvere tutti i problemi,
    la scienza essenzialmente pratica e immediata, senza dubbio una
    scienza eminentemente tradizionale, ma sopra ogni cosa progressiva,
    e nella quale il progresso si realizza attraverso la negazione
    sistematica della tradizione stessa? [...]
    
    Abbiamo appena constatato che la nozione di Stato, visto nella sua
    natura, si basa per intero su una ipotesi almeno equivoca, quella
    dell’impersonalità e dell’inerzia fisica, intellettuale e morale
    delle masse. Ora proveremo che questa stessa nozione di Stato, dal
    punto di vista del suo oggetto, riposa su un’altra ipotesi, ancora
    più dubbia della prima, quella della permanenza dell’antagonismo in
    seno all’umanità, ipotesi che a sua volta è una prosecuzione del
    dogma primitivo della caduta e del peccato originale. Citiamo ancora
    «Le Nouveau Monde»:
    
    Che cosa succede se si consente al più intelligente o al più forte
    di ostacolare lo sviluppo delle facoltà di chi è meno forte o meno
    intelligente? Succederà che la libertà andrà distrutta.
    
    Come impedire questo delitto? Intromettendo tra l’oppressore e
    l’oppresso tutto il potere del popolo.
    
    Se Jacques opprime Pierre, i 34 milioni di uomini che compongono la
    società francese accorreranno tutti in una volta per proteggere
    Pierre, per salvaguardare la libertà? Sarebbe ridicolo pretendere
    una cosa del genere.
    
    Come dovrebbe intervenire allora la società? Per mezzo di chi essa
    avrà scelto a questo fine come suoi rappresentanti.
    
    Ma chi sono questi rappresentanti della società, questi servitori
    del popolo? Lo Stato.
    
    Dunque lo Stato non è altro che la società stessa, che agisce come
    società, per impedire... cosa? l’oppressione; per mantenere... cosa?
    la libertà.
    
    Adesso è chiaro. Lo Stato è una rappresentazione della società,
    organizzata esteriormente per proteggere il debole contro il forte;
    in altri termini, per mettere pace tra i contendenti e fare ordine!
    Come si vede, Louis Blanc non è andato lontano a cercare lo scopo
    dello Stato. Esso perdura in tutti gli autori che si sono occupati
    di diritto pubblico, fin da Grotius, Giustiniano, Cicerone, ecc. È
    la tradizione orfica riportata da Orazio:
    
    Il divino Orfeo, interprete degli dèi, richiamò gli uomini dal fondo
    delle foreste e inculcò loro l’orrore degli assassini e della carne
    umana. Di lui si dice anche che rese più docili i leoni e le tigri,
    come dopo si racconta di Anfione, il fondatore di Tebe, che riusciva
    a smuovere le pietre con il suono della sua lira e con l’incantesimo
    della sua preghiera le portava dove voleva.
    
    Il socialismo, lo sapevamo, per certuni non richiede grandi sforzi
    di immaginazione. Basta imitare piattamente i vecchi mitologi;
    copiare il cattolicesimo pur inveendo contro di esso; scimmiottare
    il potere che si brama; gridare poi con tutte le proprie forze:
    Libertà, Uguaglianza, Fratellanza! e il gioco è fatto. Si diventa
    rivelatori, riformatori, riportatori democratici e sociali; si
    diventa candidati designati al ministero del progresso, e perfino
    alla dittatura della repubblica!
    
    Così, secondo il parere di Louis Blanc, il potere è nato dalla
    barbarie; la sua organizzazione attesta l’esistenza di uno stato
    primitivo di ferocia e violenza, effetto della totale assenza di
    commerci e industria. Lo Stato ha dovuto mettere fine a questa
    barbarie, contrapponendo alla forza di ogni individuo una forza
    superiore, capace, in mancanza di altri argomenti, di costringere la
    sua volontà. La costituzione dello Stato presuppone quindi, lo
    dicevamo prima, un antagonismo sociale profondo, homo homini lupus:
    è quanto afferma lo stesso Louis Blanc quando, dopo aver distinto
    gli uomini in forti e deboli, impegnati come bestie feroci a
    contendersi il cibo, fa intervenire tra di essi, in qualità di
    mediatore, lo Stato.
    
    Dunque lo Stato sarebbe inutile, lo Stato non avrebbe né scopo né
    motivo di esistere, lo Stato dovrebbe abrogarsi da solo se arrivasse
    un momento in cui, per una causa qualunque, non ci fossero più nella
    società né forti né deboli, in cui cioè la disuguaglianza delle
    forze fisiche e intellettuali non potesse essere causa di
    spoliazioni e oppressione, indipendentemente dalla protezione, più
    fittizia che reale del resto, dello Stato.
    
    Ora, è esattamente questa la tesi che sosteniamo noi oggi.
    
    Ciò che ingentilisce i costumi e che a poco a poco fa regnare il
    diritto al posto della forza, ciò che fonda la sicurezza, che crea
    progressivamente la libertà e l’uguaglianza, è, più che la religione
    e lo Stato, il lavoro; è, in primo luogo, l’industria e il
    commercio; poi la scienza, che lo spiritualizza; e infine l’arte,
    suo fiore immortale. La religione, con le sue promesse e i suoi
    terrori, lo Stato, con i suoi tribunali e i suoi eserciti, hanno
    dato al sentimento del diritto, troppo debole nei primi uomini,
    l’unica sanzione possibile e comprensibile per degli spiriti
    selvaggi. Per noi, corrotti, come diceva Jean-Jacques,
    dall’industria, le scienze, le lettere, le arti, questa sanzione
    risiede altrove: essa è nella divisione delle proprietà,
    nell’ingranaggio delle industrie, nello sviluppo del lusso, nel
    bisogno imperioso di benessere, bisogno che rende per tutti
    necessario il lavoro. Dopo la rudezza delle prime ere, dopo la
    superbia delle caste e la costituzione delle prime società feudali,
    rimaneva ancora in piedi un ultimo elemento di servitù: ed era il
    capitale. Se il capitale perde il suo predominio, il lavoratore,
    cioè il commerciante, l’industriale, l’agricoltore, lo scienziato,
    l’artista, non ha più bisogno di protezione; bastano a proteggerlo
    il suo talento, la sua scienza, la sua industria. Dopo la decadenza
    del capitale, la conservazione dello Stato, invece di proteggere la
    libertà, non può che comprometterla.
    
    L’idea della specie umana, della sua essenza, della sua
    perfettibilità, della sua sorte, sarebbe veramente triste se venisse
    concepita come un’agglomerazione di individui esposti
    necessariamente, a causa della disuguaglianza delle forze fisiche e
    intellettuali, al pericolo costante di una spoliazione reciproca o
    della tirannia di alcuni. Una idea del genere rispecchia la
    filosofia più retriva; appartiene a quei tempi di barbarie nei quali
    l’assenza dei veri elementi dell’ordine sociale non consentiva al
    genio del legislatore l’uso di strumenti diversi dal puro e semplice
    ricorso alla forza; nei quali la supremazia di un potere
    pacificatore e vendicatore appariva a tutti come la giusta
    conseguenza di una degradazione anteriore e di una macchia
    originale. Per essere più espliciti, le istituzioni politiche e
    giudiziarie per noi rappresentano la formula esoterica e concreta
    del mito della caduta, del mistero della redenzione e del sacramento
    della penitenza. Ed è curioso vedere dei socialisti, che si dicono
    nemici o rivali della Chiesa e dello Stato, recuperare poi tutto
    quello che oltraggiano: il sistema rappresentativo in politica, il
    dogma della caduta in religione.
    
    Giacché si parla tanto di dottrina, dichiariamo francamente che la
    nostra è completamente diversa.
    
    Per noi, lo stato morale della società si modifica e diventa
    migliore insieme al suo stato economico. Una cosa è la moralità di
    un popolo selvaggio, ignorante e senza industria; altra cosa quella
    di un popolo lavoratore e creatore; di conseguenza, nell’uno e
    nell’altro caso sono diverse anche le garanzie sociali. In una
    società trasformata, quasi a sua insaputa, dallo sviluppo
    dell’economia, non ci sono più né forti né deboli; ci sono soltanto
    lavoratori, le cui facoltà e mezzi tendono incessantemente a
    eguagliarsi con la solidarietà industriale e la garanzia della
    circolazione. Per assicurare il diritto e il dovere di ciascuno
    risulta vano il ricorso dell’immaginazione all’idea di autorità e di
    governo, che se mai è indice della disperazione profonda di anime
    per lungo tempo spaventate dalla polizia e dal sacerdozio; basta
    l’esame più semplice delle funzioni dello Stato per dimostrare che,
    se la disuguaglianza delle fortune, l’oppressione, le spoliazioni e
    la miseria non sono affatto l’eterno appannaggio della nostra
    natura, il primo cancro da estirpare, dopo lo sfruttamento
    capitalistico, la prima piaga da guarire, è proprio lo Stato.
    
    Vediamo concretamente, bilanci alla mano, che cos’è lo Stato.
    
    Lo Stato è l’esercito. Riformatori, avete bisogno di un esercito per
    difendervi? In tal caso, voi intendete la sicurezza pubblica alla
    maniera di Cesare e Napoleone... Non siete repubblicani, siete dei
    despoti.
    
    Lo Stato è la polizia; polizia urbana, polizia rurale, polizia delle
    acque e foreste. Riformatori, avete bisogno della polizia? Allora
    voi intendete l’ordine come Fouché, Gisquet, Caussidière e Carlier.
    Non siete democratici, siete delatori.
    
    Lo Stato è tutto il sistema giudiziario: giudici di pace, preture,
    corti d’appello, corte di cassazione, alta corte, tribunali di
    probiviri, tribunali di commercio, consigli di prefettura, consiglio
    di Stato, consigli di guerra. Riformatori, avete proprio bisogno di
    tutti questi apparati? Allora intendete la giustizia come Baroche,
    Dupin e Perrin Dandin. Non siete affatto socialisti, siete delle
    vecchie volpi. Lo Stato è il fisco, il bilancio. Riformatori, non
    volete l’abolizione delle imposte? Allora voi intendete la ricchezza
    pubblica come Thiers, secondo il quale i bilanci più grossi sono
    quelli migliori. Non siete affatto organizzatori del lavoro, siete
    dei gabellieri. Lo Stato è la dogana. Riformatori, avete bisogno di
    dazi differenziali e barriere doganali per proteggere il lavoro
    nazionale? Allora vi intendete di commercio e di circolazione come
    Fould e Rothschild. Non siete affatto apostoli della fratellanza,
    siete degli ebrei.
    
    Lo Stato è il debito pubblico, la moneta, l’ammortamento, le casse
    di risparmio, ecc. Riformatori, è questa la vostra scienza
    fondamentale? Allora voi intendete l’economia sociale alla maniera
    di Humann, Lacave-Laplagne, Garnier-Pagès, Passy, Duclerc e
    dell’Uomo dei quaranta scudi. Siete come Turcaret.
    
    Lo Stato... ma conviene fermarsi. Non c’è nulla, assolutamente nulla
    nello Stato, dalla testa ai piedi della gerarchia, che non sia abuso
    da sanare, parassitismo da sopprimere, strumento di tirannia da
    distruggere. Voi ci venite a dire che bisogna conservare lo Stato,
    moltiplicare le funzioni dello Stato, rendere sempre più forte il
    potere dello Stato! Via, non siete per niente rivoluzionari; perché
    i veri rivoluzionari sono essenzialmente semplificatori e liberali.
    Voi siete mistificatori, illusionisti; siete dei confusionari.
    
    Qui spunta, a favore dello Stato, un’ultima ipotesi. Pur se lo
    Stato, affermano gli pseudodemocratici, fino a questo momento ha
    svolto solo un ruolo parassitario e tirannico, non per questo
    bisogna negargli una destinazione più nobile e umana. Lo Stato è
    destinato a diventare il principale organo della produzione, del
    consumo e della circolazione; il promotore della libertà e
    dell’uguaglianza.
    
    Perché la libertà e l’uguaglianza sono lo Stato.
    
    Il credito è lo Stato.
    
    Il commercio, l’agricoltura e l’industria sono lo Stato.
    
    I canali, le ferrovie, le miniere, le assicurazioni, come pure i ta-
    
    bacchi e le poste, sono lo Stato.
    
    L’istruzione pubblica è lo Stato.
    
    In definitiva, lo Stato, messe da parte le sue funzioni negative,
    
    dovrebbe assumerne altre, positive; da oppressore, improduttivo e
    retrivo, qual è stato, dovrebbe diventare organizzatore, produttore
    e servitore. Sarebbe, questa, la feudalità rigenerata, la gerarchia
    delle associazioni operaie, organizzate e scaglionate secondo una
    potente formula di cui Pierre Leroux si riserva di rivelarci il
    segreto.
    
    Così, gli organizzatori dello Stato suppongono – giacché, in realtà,
    questi non fanno che andar di supposizione in supposizione – che lo
    Stato possa cambiar natura e, per così dire, trasformarsi da sé,
    tramutarsi da Satana in Arcangelo e, dopo aver vissuto per secoli di
    sangue e carneficine come una bestia feroce, brucare il citiso con
    le caprette e allattare gli agnelli. Questo ci insegnano Louis Blanc
    e Pierre Leroux; ed è tutto qui, noi lo dicevamo da molto tempo, il
    segreto del socialismo.
    
    Noi amiamo il potere tutelare, generoso, devoto, che assume come
    massima queste profonde parole del Vangelo: «Il primo tra di voi sia
    il servitore di tutti gli altri», e odiamo invece il potere
    depravato, corruttore, oppressivo, che fa del popolo la sua preda.
    Lo ammiriamo quando rappresenta la parte generosa e vivente
    dell’umanità; lo aborriamo quando ne rappresenta la parte
    cadaverica. Ci ribelliamo contro tutta l’insolenza, l’usurpazione,
    il brigantaggio presenti nella nozione di STATO-PADRONE, mentre
    applaudiamo a quel che di commovente, fecondo e nobile c’è nella
    nozione di STATO-SERVITORE.
    
    Diciamo meglio: c’è una fede alla quale noi teniamo mille volte di
    più della vita, e questa è la nostra fede nella prossima e
    definitiva TRASFORMAZIONE del potere. Sta qui il passaggio trionfale
    dal vecchio al nuovo mondo. Tutti i governi dell’Europa di oggi si
    basano sulla nozione di STATO-PADRONE; ma eccoli ormai danzare,
    sconvolti, il girotondo dei morti... («Le Nouveau Monde», 15
    novembre 1849).
    
    Pierre Leroux è immerso completamente in queste teorie. Ciò che
    vuole, insegna, invoca, è una rigenerazione dello Stato – ma non ha
    ancora detto come e con chi deve realizzarsi questa rigenerazione –
    come pure vuole e invoca una rigenerazione del cristianesimo, senza
    aver potuto, finora, formulare il suo dogma e dare il suo credo.
    
    Contrariamente a Pierre Leroux e Louis Blanc, noi pensiamo che la
    teoria dello Stato tutelare, generoso, devoto, produttore,
    promotore, organizzatore, liberale e progressivo, sia una utopia,
    una pura illusione della loro ottica intellettualistica. Pierre
    Leroux e Louis Blanc assomigliano, secondo noi, a un uomo che,
    stando in piedi su uno specchio e vedendo la sua immagine
    rovesciata, è sicuro che tale immagine diventerà una realtà e
    sostituirà un giorno, ci sia concessa l’espressione, la sua persona
    naturale.
    
    Ecco cosa ci separa da questi due uomini; e checché ne dicano, non
    ci siamo mai sognati di negare i loro talenti e servizi, bensì
    deploriamo la loro ostinata allucinazione. Noi non crediamo allo
    Stato-servitore: per noi esso è semplicemente una contraddizione.
    
    Servitore e padrone, quando si riferiscono allo Stato, sono
    sinonimi; come più o meno sono termini identici quando si
    riferiscono all’uguaglianza. Il proprietario, con l’interesse del
    capitale, chiede più dell’uguaglianza; il comunismo, con la formula:
    A ciascuno secondo i suoi bisogni concede meno dell’uguaglianza: si
    tratta sempre di disuguaglianza; ed è questa la ragione per la quale
    noi non siamo né comunisti né proprietari. Similmente, chi dice
    Stato-padrone, dice usurpazione della potenza pubblica; chi dice
    Stato-servitore, dice delega della potenza pubblica; è sempre
    un’alienazione di questa potenza, sempre una potenza, un’autorità
    esterna, arbitraria, al posto dell’autorità immanente, inalienabile,
    non trasferibile, dei cittadini: sempre più o meno della libertà.
    Per questa ragione noi non vogliamo lo Stato.
    
     D’altronde, tanto per uscire dalla metafisica e rientrare nel
    dominio dell’esperienza, abbiamo qualcosa da dire a Louis Blanc e a
    Pierre Leroux.
    
    Voi pretendete e affermate che lo Stato, il governo, possa e debba
    essere trasformato integralmente nel suo principio, nella sua
    essenza, nella sua azione, nei suoi rapporti con i cittadini, nelle
    sue realizzazioni concrete; e così, che lo Stato, bancarottiere e
    falsario, debba essere la fonte di ogni credito; che a esso, per
    tanti secoli avversario dei lumi e ancora oggi ostile
    all’insegnamento primario e alla libertà di stampa, proprio a esso
    spetti provvedere, d’ufficio, all’istruzione dei cittadini; che,
    dopo aver lasciato che il commercio, l’industria, l’agricoltura e
    tutti gli strumenti della ricchezza si sviluppassero senza il suo
    intervento e, spesso, anche malgrado la sua resistenza, spetti allo
    Stato farsi promotore assoluto del lavoro e delle innovazioni; che,
    infine, questo eterno avversario della libertà debba, ancora, non
    già lasciare in pace la libertà, bensì creare, dirigere la libertà.
    In questa meravigliosa trasformazione dello Stato consisterebbe,
    secondo voi, la rivoluzione attuale.
    
    Voi dovete, allora, esibire le prove della vostra ipotesi, dedurre
    la sua legittimità, i suoi titoli storici, esporne la filosofia; e
    al tempo stesso metterla in pratica.
    
    Ora, già è evidente che nella vostra ipotesi teoria e pratica, tutto
    insomma, è in contraddizione formale sia con l’idea stessa, sia con
    la storia, sia infine con le tendenze più autentiche dell’umanità.
    
    Secondo noi, la vostra teoria è in contraddizione con se stessa,
    poiché pretende di fare della libertà una creazione dello Stato,
    mentre invece è lo Stato che deve essere una creazione della
    libertà. Difatti, se lo Stato si impone alla mia volontà, lo Stato è
    padrone; io non sono libero; la teoria cade.
    
    Essa è in contraddizione con i fatti storici, giacché siete voi i
    primi a riconoscere che quanto di positivo, di bello e di buono si
    sia prodotto nella sfera dell’attività umana, è stato frutto
    esclusivo della libertà, la quale ha agito indipendentemente dallo
    Stato e quasi sempre in opposizione con lo Stato; il che conduce
    direttamente alla conclusione che manda in rovina il vostro sistema:
    la libertà basta a se stessa e non ha alcun bisogno dello Stato.
    
    La vostra teoria, infine, è in contraddizione con le tendenze
    manifeste della civiltà poiché, anziché arricchire senza posa la
    libertà e la dignità individuale, facendo, secondo il precetto di
    Kant, di ogni anima umana un esemplare dell’umanità intera, una
    delle facce dell’anima collettiva, voi subordinate la persona
    privata alla persona pubblica, sottomettete l’individuo al gruppo,
    assorbite il cittadino nello Stato.
    
    Tocca a voi superare, con un principio superiore alla libertà e allo
    Stato, tutte queste contraddizioni. Quanto a noi, che neghiamo
    semplicemente lo Stato, che seguiamo con decisione la linea della
    libertà e restiamo fedeli alla pratica rivoluzionaria, non è compito
    nostro dimostrare la falsità della vostra ipotesi; le prove le
    aspettiamo da voi. Lo Stato-padrone è finito, su questo siete
    d’accordo con noi. Quanto allo Stato-servitore, non abbiamo l’idea
    di cosa possa essere; ma sospettiamo che si tratti di una grandiosa
    ipocrisia. Anzi, a dire il vero, questo Stato-servitore ci fa
    pensare a una serva padrona; a noi non piace; preferiamo, fino a
    prova contraria, prendere come legittima sposa la libertà.
    Spiegateci insomma, se vi è possibile, per quale ragione, dopo che
    abbiamo demolito lo Stato per amore di questa adorata libertà,
    dovremmo adesso, per effetto dello stesso amore, ripristinare lo
    Stato. Fino a quando non avrete risolto questo problema, noi
    continueremo a protestare contro qualsiasi governo, qualsiasi
    autorità, qualsiasi potere; sosterremo verso e contro tutti la
    prerogativa della libertà. Vi diremo: per noi, la libertà è cosa
    acquisita; ebbene, voi conoscete la regola giuridica: melior est
    conditio possidentis. Presentate i vostri diritti alla
    riorganizzazione del governo; altrimenti, niente governo!
    
    Riassumiamo.
    
    Lo Stato è la costituzione esterna della potenza sociale.
    
    Tale costituzione presuppone, per principio, che la società sia
    
    un ente privo di spontaneità, governo, unità, e che, per agire,
    abbia bisogno di essere fittiziamente rappresentata da uno o più
    mandatari, a titolo elettivo o ereditario: ma lo sviluppo economico
    delle società e insieme l’organizzazione del suffragio universale
    dimostrano che questo presupposto è falso.
    
    La costituzione dello Stato suppone inoltre, quanto al suo oggetto,
    che l’antagonismo o lo stato di guerra sia la condizione essenziale
    e indelebile dell’umanità, condizione che rende necessario, tra i
    deboli e i forti, l’intervento di una forza coercitiva che,
    opprimendo tutti, faccia cessare gli antagonismi. Noi sosteniamo
    che, così intesa, la missione dello Stato non ha più ragione di
    esistere; che ormai, con la divisione del lavoro, la solidarietà
    industriale, il gusto del benessere, l’uguale ripartizione del
    capitale e dell’imposta, offrono alla libertà e alla giustizia
    garanzie di gran lunga più sicure di quelle che offrivano loro un
    tempo la religione e lo Stato.
    
    Per quel che riguarda la trasformazione utilitaria dello Stato, noi
    la consideriamo una utopia, contraddetta al tempo stesso e dalla
    storia dei governi, e dalla tendenza rivoluzionaria, e dallo spirito
    delle riforme economiche ormai accettate. In ogni caso, noi diciamo
    che solo alla libertà spetterebbe riorganizzare il potere, il che
    oggi vuol dire eliminare del tutto il potere. In conclusione, o
    niente rivoluzione sociale, o niente governo; questa è, sul problema
    politico, la nostra soluzione.
    
    [Da Les confessions d’un révolutionnaire, trad. it. (estratti): in
    P. Ansart, P.-J. Proudhon, La Pietra, Milano 1978, pp. 71-84].
    
    
    
    capitolo terzo
    
    Proudhon svolge una doppia analisi critica rispetto al comunismo. Da
    un lato vuol dimostrare l’assoluta inconsistenza del suo progetto
    positivo, tutto fondato sull’irreale idea di eliminare la proprietà
    tout court, dall’altro vuol mettere in luce i suoi esiti dispotici
    perché questo ricostituirà, sotto il modo della «proprietà
    collettiva», una nuova e più potente forma di proprietà. In altri
    termini, Proudhon intende svelare la natura proprietaria dello
    stesso comunismo. Infatti, la proprietà è in tutti i casi
    ineliminabile e pertanto essa esisterà anche in una società dove è
    stata eliminata la proprietà privata. Anzi, in una tale società, gli
    effetti negativi della proprietà saranno maggiori perché il
    privilegio reale verrà occultato dall’ideologia collettivista; il
    fatto concreto, assolutamente ineliminabile, che i mezzi di
    produzione sono sotto il controllo di qualcuno (classe, individuo,
    ente) verrà mascherato dall’illusione della collettivizzazione.
    Credere di cancellare lo sfruttamento e la proprietà attraverso la
    semplice abolizione della proprietà privata diventa, appunto, solo
    una illusione, perché non abolisce ma semplicemente trasferisce da
    un soggetto all’altro, dal dominio privato a quello pubblico, la
    proprietà stessa. Tale progetto non può che portare a quella che è
    la massima espressione negativa della proprietà: l’essere
    connaturata al monopolio di Stato dei mezzi di produzione.
    
    Il comunismo, infatti, abolisce solo il modo di produzione generato
    dal capitale, vale a dire lo sfruttamento del lavoro umano come
    lavoro astratto generale, come merce, ma non distrugge per nulla la
    causa della proprietà, perché questa si ricostituisce sotto le
    spoglie di un diverso controllo e sfruttamento della forza
    collettiva. Non esplicitando il fatto reale che la proprietà, intesa
    come inevitabile attribuzione a qualcuno dei mezzi di produzione, è
    in tutti i casi ineliminabile, esso permette che nei fatti questo
    qualcuno, mimetizzato dietro il mito della «proprietà collettiva»,
    possa veramente controllare e sfruttare il lavoro monopolizzato
    dallo Stato. In tal caso la proprietà si ricostituisce non come
    proprietà giuridico-privata dei mezzi di produzione, come
    riconoscimento ufficiale, ma come reale possesso da parte di chi
    detiene e controlla in qualche modo il monopolio del lavoro.
    
    Il comunismo può dunque realizzarsi soltanto violentando le leggi
    immanenti e obiettive della società, coartando la struttura
    antinomica del sociale, che invece richiede una equazione superiore
    intesa come equilibrio degli opposti, piuttosto che come loro
    liquidazione in una soffocante sintesi autoritaria. In altri
    termini, il comunismo non può che darsi a prezzo della dittatura e
    della sua trasformazione in regime poliziesco.
    
    
    
     Critica del comunismo
    
    La prima cosa che mi ha messo in guardia contro l’utopia comunista,
    ma di cui i partigiani più o meno accusati di questa utopia non si
    danno per intesi, è che la comunanza è una delle categorie
    dell’economia politica, di questa pretesa scienza che il socialismo
    ha per missione di combattere, e che definisco la descrizione delle
    consuetudini proprietarie. Come la proprietà è il monopolio elevato
    alla sua seconda potenza, così la comunanza non è altra cosa che
    l’esaltazione dello Stato, la glorificazione della polizia. E come
    lo Stato si è volto, nella quinta epoca, a reazione o monopolio,
    così pure, nella fase in cui siamo pervenuti, il comunismo appare
    per dare scaccomatto alla proprietà.
    
    Il comunismo riproduce, dunque, ma su un piano inverso, tutte le
    contraddizioni dell’economia politica. Il suo segreto consiste nel
    sostituire l’uomo collettivo all’individuo in ciascuna delle
    funzioni sociali: produzione, scambio, consumo, educazione,
    famiglia. E siccome questa nuova evoluzione non concilia e non
    risolve niente, essa termina fatalmente, al pari delle precedenti,
    con l’iniquità e con la miseria.
    
     Così il destino del socialismo è affatto negativo: l’utopia
    comunista, sortita dal lato economico dello Stato, è la controprova
    del costume egoistico e proprietario! Da questo punto di vista essa
    non manca, è vero, di una certa utilità: serve alla scienza sociale,
    come serve alla filologia l’opposizione di niente a qualche cosa.
    
    Il socialismo è una logomachia: sono sorpreso che gli economisti non
    se ne siano accorti. La comunione, come la concorrenza, l’imposta,
    la dogana, la banca, è di competenza dell’economia politica; la
    comunanza è al fondo della teoria della divisione del lavoro, della
    forza collettiva, delle spese generali, delle società anonime e in
    accomandita, delle casse di risparmio e di assicurazione, delle
    banche di circolazione e di credito, ecc.; la comunione, in una
    parola, è dappertutto, come lo spazio, ed è nulla.
    
    Tutte le utopie socialiste, dall’Atlantide di Platone sino
    all’Icaria di Cabet, nel loro più stretto significato si riducono a
    questa sostituzione di un’antinomia con un’altra. Il merito, in
    tutte, quanto a invenzione, è zero; l’abbellimento non è che un
    insignificante accessorio; e per ciò che riguarda la decadenza della
    facoltà utopica segnalata presso gli autori, essa viene unicamente
    dalle correzioni che l’esperienza loro impone e che sono altrettante
    apostasie da parte loro. Del resto, questi scrittori, di cui non ho
    riguardo di disconoscere le intenzioni, sono tutti insipidi plagiari
    degli economisti, proprietari travestiti che, mentre l’umanità sale
    penosamente la montagna in cui deve trasfigurarsi, si danno
    l’originalità di ridiscenderla.
    
    Ed è per questo che diventerei comunista? Ma ciò sarebbe gettarmi
    nel chimerico per sfuggire l’impossibile, e per paura di Loyola,
    abbracciare Cagliostro. [...]
    
    Il sole, l’aria e il mare sono comuni: il godimento di questi
    oggetti presenta il più alto grado di comunismo possibile! Nessuno
    può piantarvi confini, dividerli e delimitarli. Si è notato, non
    senza ragione, che l’immensità della distanza, la profondità
    impenetrabile, l’instabilità perpetua, avevano potuto sottrarli
    all’appropriazione. Tale e così grande è la forza di questo istinto
    che ci spinge alla divisione e alla guerra! Il risultato dunque di
    questa prima osservazione, cosa preziosa per la scienza, è che la
    proprietà è tutto ciò che si definisce, la comunanza tutto ciò che
    non si definisce! Quale può essere, dopo questo, il punto di
    partenza del comunismo?
    
    I grandi lavori dell’umanità partecipano a questo carattere
    economico delle potenze della natura. L’uso delle strade, delle
    piazze pubbliche, delle chiese, musei, biblioteche, ecc., è comune.
    Le spese per la loro costruzione sono fatte in comune, benché la
    ripartizione di queste spese sia lungi dall’essere uguale, ciascuno
    contribuendovi in ragione precisamente inversa della sua fortuna.
    Donde si vede, cosa preziosa a notare, che uguaglianza e comunanza
    non sono la stessa cosa! Certi economisti pretendono pure che i
    lavori di utilità pubblica dovrebbero essere eseguiti dall’industria
    privata, più attiva, secondo loro, più diligente e meno cara;
    tuttavia non si è d’accordo su questo punto. Quanto all’uso degli
    oggetti, resta invariabilmente comune; non è mai venuta a nessuno
    l’idea che questa sorta di cose dovessero essere appropriate. [...]
    
    L’uomo che abbiamo visto nel periodo della sua educazione, nel
    compimento dei suoi doveri civili e religiosi e nell’esercizio delle
    funzioni pubbliche, semi-comunista, l’uomo diventa nell’industria,
    nel commercio, nell’agricoltura, affatto proprietario. Produce,
    cambia e consuma in una maniera esclusivamente privata, e non
    conserva che rare relazioni con la comunanza. Per effetto di un
    istinto irresistibile e di un pregiudizio affascinatore che risale
    ai tempi più lontani della storia, ogni operaio aspira a divenire
    imprenditore, ogni compagno vuol diventare padrone, ogni giornaliero
    sogna di fare fortuna, come un tempo ogni plebeo sognava di
    diventare nobile. E notate una cosa che deve eccitare la vostra
    impazienza tanto quanto mi stupisce: non c’è alcuno che ignori lo
    svantaggio dello smembramento, le gravezze della vita domestica,
    l’imperfezione della piccola industria, i danni dell’isolamento. La
    personalità è più forte di tutte le considerazioni; l’egoismo
    preferisce i rischi della lotteria all’assoggettamento della
    comunanza, se la ride dei teoremi dell’economia politica.
    
     Insomma, la comunione ci coglie all’origine e ci si impone
    fatalmente di fronte alle grandi potenze della natura.
    
    Quanto alla sua essenza, la comunione ripugna alla definizione; non
    è la stessa cosa che l’uguaglianza; non è vincolata in alcun modo
    alla materia e dipende tutta dal libero arbitrio; si distingue
    dall’associazione e si avvicina all’egoismo. Appena l’industria
    comincia a nascere e il lavoro produce i suoi primi abbozzi, la
    personalità entra in lotta con la comunione, che ci appare allora,
    sulla soglia domestica e persino nel letto coniugale, di già
    imperfetta e vacillante. Più tardi la troveremo incompatibile con
    una educazione liberale e vigorosa; infine, essa declina rapidamente
    nelle funzioni salariate e sparisce tutt’affatto nel lavoro libero.
    Tutto questo risulta dalla necessità delle cose tanto quanto dalla
    spontaneità della nostra natura: gli economisti lo avevano
    riconosciuto da lungo tempo. [...]
    
    La fratellanza! Ecco dunque, secondo Cabet, il fondo, la forma e la
    sostanza dell’insegnamento comunista. È giusto riconoscerlo, Cabet,
    come Saint-Simon e Fourier, è caposcuola. San Paolo, rispondendo ai
    giudici increduli che lo interrogavano sulla sua dottrina, diceva
    loro con superba ironia: «Io non so che una cosa, Gesù crocifisso».
    Cabet parla come san Paolo e dice ai suoi neofiti: «Io non so che
    una cosa, la fratellanza». [...]
    
    Ora, a questa parola fratellanza, che contiene tante cose,
    sostituite, con Platone, la repubblica, che non dice meno, oppure
    con Fourier l’attrazione, che dice ancora più; oppure con Michelet
    l’amore e l’istinto, che comprendono tutto; oppure con altri la
    solidarietà, che riunisce tutto; o infine, con Louis Blanc, la
    grande forza di iniziativa dello Stato, sinonimo dell’onnipotenza di
    Dio. E allora vedrete che tutte queste espressioni sono
    perfettamente equivalenti, di modo che Cabet, rispondendo dall’alto
    del suo «Populaire» alla domanda che gli era stata fatta, «la mia
    scienza è la fratellanza», ha parlato per tutto il socialismo. Noi
    proveremo, infatti, che tutte le utopie socialiste, senza eccezione,
    si riducono all’enunciato così corto, così categorico, così
    esplicito di Cabet: la mia scienza è la fratellanza; sicché chiunque
    osasse aggiungervi una sola parola di commento, cadrebbe tosto
    nell’apostasia e nell’eresia. Il che vuol dire che né Platone, né
    gli Gnostici, né i primi Padri, né i Valdesi, né Moro, né
    Campanella, né Babeuf, né Owen, né SaintSimon, né Fourier, né il
    loro continuatore Cabet, sono in grado, con l’aiuto del loro
    principio, di spiegare la società e ancor meno di imporle delle
    leggi.
    
    Ma come mai fra tutte queste espressioni – fratellanza, amore,
    attrazione, ecc. – che pretendiamo essere di uguale forza Cabet ha
    preferito la prima? Questo merita una spiegazione.
    
    La prima cosa a cui deve lavorare la comunione, come pure la
    religione, è di soffocare lo spirito di controversia con il quale
    nessuna istituzione è sicura e definitiva. Io consiglio dunque
    Cabet, allorché avrà ricevuto dalle mani del popolo le redini dello
    Stato, e tutti i partiti si saranno fusi sotto la sua dittatura
    paterna, di cambiare il sistema di educazione universitaria, questo
    sistema abominevole, dove i giovani apprendono a diventare dotti,
    inquisitivi, argomentatori senza pietà e senza misericordia.
    
    Se interrogo i diversi riformatori sui mezzi che si propongono di
    usare per la realizzazione delle loro utopie, tutti mi rispondono in
    una sintesi unanime: per rigenerare la società e organizzare il
    lavoro bisogna rimettere agli uomini che possiedono la scienza di
    questa organizzazione la fortuna e l’autorità pubblica. Sopra questo
    dogma essenziale sono tutti quanti d’accordo: c’è universalità di
    opinioni. Gli interminabili appelli delle sette socialiste alla
    borsa dei loro avventori partono da questa idea. Ma perché i
    riformatori, divenuti padroni degli affari, usino con efficacia del
    potere, conviene dare a questo potere una grande forza di
    iniziativa: il sistema di Blanc. Ora, a quale condizione il potere
    acquista la sua maggior forza? Alla condizione di essere costituito
    democraticamente o in repubblica: sistema di Platone, di Rousseau,
    del «National», ecc. La riforma politica è il preliminare obbligato
    della riforma sociale. Ma perché la democrazia piuttosto che la
    monarchia costituzionale, piuttosto che un senato di aristocratici?
    Perché, essendo gli uomini solidali, conviene renderli politicamente
    e giuridicamente uguali: il sistema dei solidali-uniti istituito,
    credo, da Cherbuliez. Donde viene che gli uomini sono solidali? Dal
    fatto che vivono sotto l’impero di una legge comune che avvince l’un
    l’altro tutti i loro movimenti: l’attrazione, il sistema di Fourier.
    Che cos’è questa attrazione che conosciamo solo da ieri? È
    precisamente l’amore, è la carità che conosciamo da lungo tempo: il
    sistema di Michelet. Come avviene che gli uomini si amino e si
    odino, si attirino e si respingano vicendevolmente come i poli di
    una calamita? È che tutti gli uomini sono fratelli: il sistema di
    Cabet.
    
    Tale è dunque la fratellanza, il fatto primordiale, il grande fatto
    naturale e cosmico, fisiologico e patologico, politico ed economico,
    al quale si riattacca, come l’effetto alla sua causa, la comunione.
    L’analogia delle parole, ecco il metodo, la teoria, la dialettica
    del socialismo. [...]
    
    Come mai dunque, con questa intelligenza meravigliosa delle cause
    prime, seconde e finali; come mai, con questa abilità senza pari a
    infilare delle frasi, il socialismo non è mai riuscito ad altro che
    a inquietare il mondo, senza poter rendere gli uomini né migliori né
    più fortunati? Se l’economia politica ha potuto essere giudicata
    dalle sue opere, il socialismo corre oggi il grande pericolo di
    essere valutato in ragione della sua impotenza; è importante dunque
    renderci conto della sterilità dell’utopia, così come abbiamo fatto
    per le anomalie della pratica.
    
    Per chiunque abbia riflettuto sul progresso della socialità umana,
    la fratellanza effettiva, quella fratellanza del cuore e della
    ragione che sola merita le cure del legislatore e l’attenzione del
    materialista – e di cui la fratellanza di razza è la semplice
    espressioni carnale – questa fratellanza, dico, non è affatto, come
    credono i socialisti, il principio dei perfezionamenti della
    società, la regola delle sue evoluzioni: essa ne è lo scopo e il
    frutto. La questione non è sapere come, essendo fratelli di spirito
    e di cuore, riusciremo a vivere senza farci la guerra e divorarci
    scambievolmente; non è questa la questione, ma è come, essendo
    fratelli per natura, diventeremo tali anche per sentimenti; come mai
    i nostri interessi, invece di dividerci, ci uniranno. Ecco ciò che
    il semplice buon senso rivela a ogni uomo che l’utopia non ha reso
    miope. Come già abbiamo dimostrato con il quadro delle
    contraddizioni economiche, avendo lo sviluppo delle istituzioni
    civilizzatrici per risultato inevitabile di gettare la discordia
    nelle passioni, di infiammare negli uomini l’appetito concupiscente
    e l’appetito irascibile, e di fare di questi angeli di Dio tante
    bestie feroci, accade che povere creature destinate al piacere,
    all’amore, si lacerano in furiosi combattimenti, si infliggono
    orribili ferite; e non è cosa facile porre fra loro le basi di un
    trattato di pace. Come dunque sarà distribuito il lavoro? qual è la
    legge dello scambio? qual è la sanzione della giustizia? dove
    comincia il possesso esclusivo, dove finisce? sin dove si stende la
    comunione, dove finisce? in quale proporzione questo elemento fa
    parte dell’organismo collettivo, sotto quale forma e secondo quale
    legge? come mai, in una parola, diventeremo fratelli? Tale è, a un
    tempo, la questione prima e lo scopo finale della comunione.
    
    Così la fratellanza, la solidarietà, l’amore, l’uguaglianza, ecc.,
    non possono risultare che da una conciliazione degli interessi, cioè
    da una organizzazione del lavoro e da una teoria dello scambio. La
    fratellanza è il fine, non il principio della comunione, come lo è
    di tutte le forme di associazione e di governo; e Platone, Cabet e
    quelli che in seguito a queste due sommità del socialismo, invece di
    insegnarci le leggi della produzione e dello scambio, ci chiedono
    potere e danaro, entrando nell’utopia con la fratellanza, la
    solidarietà e l’amore, tutta questa gente, dico, prende l’effetto
    per la causa, la conclusione per il principio; essi cominciano, come
    dice il proverbio, la loro casa dagli abbaini. Ancora una volta, chi
    impedisce ai socialisti di associarsi fra essi se la fratellanza
    basta? c’è bisogno per questo di un permesso del ministro, di una
    legge delle Camere? Un sì commovente spettacolo edificherebbe il
    mondo e non comprometterebbe che l’utopia: questa devozione sarebbe
    forse al disopra del coraggio dei comunisti?
    
    Ecco, senza che essi fossero in grado di rendersene conto, ciò che
    sentivano in fondo al cuore i cittadini che osarono interrogare
    Cabet. Ma fu con una grande superiorità di tattica che il maestro
    rispose loro: Il mio principio è la fratellanza; perché senza questo
    rovesciamento, non vi era più comunismo. Cabet era sicuro che, dopo
    questo colpo decisivo, non gli si sarebbe domandato quale fosse il
    principio della fratellanza, poiché sarebbe stato gettarsi in un
    seguito infinito di questioni, e ormai conveniva farla finita. [...]
    
    Eccoci dunque giunti ai conti correnti, alle necessità di una regola
    di ripartizione e di valutazione dei prodotti, cioè alla
    dissoluzione della comunione. Infatti, ogni conto corrente si
    bilancia con il dare e avere, in altri termini con il tuo e mio;
    ogni ripartizione è sinonimo di individualismo. [...]
    
    Il socialismo non conta, si rifiuta di contare. Né più né meno che
    l’economia politica esso afferma l’incommensurabilità del valore.
    Senza questo, comprenderebbe che ciò che rintraccia attraverso le
    sue utopie è dato dalla legge dello scambio; cercherebbe la formula
    di questa legge; e come la teologia dopo che ha scoperto il senso
    dei suoi miti, come la filosofia dopo che ha costruito la sua
    logica, il socialismo, avendo trovato la legge del valore,
    conoscerebbe se stesso e cesserebbe di esistere. Il problema della
    ripartizione non è stato, sino a ora, attaccato frontalmente da
    alcun scrittore socialista: la prova è che tutti hanno concluso,
    come gli economisti, contro la possibilità di una regola di
    ripartizione. Gli uni hanno adottato per divisa: a ciascuno secondo
    la sua attitudine, a ogni attitudine secondo le sue opere, ma si
    sono ben guardati dal dire né quale fosse, secondo loro, la misura
    dell’attitudine né quale fosse la misura del lavoro. Gli altri hanno
    aggiunto al lavoro e all’attitudine un nuovo elemento di
    valutazione: il capitale, altrimenti detto monopolio; e hanno così
    provato una volta di più che non erano altro che vili plagiari della
    civiltà, benché tanto si facciano notare per le loro aperture
    all’imprevisto. Infine, si è formata una terza opinione che, per
    sfuggire a queste transazioni arbitrarie, sostituisce alla
    ripartizione la razione e prende per epigrafe: a ciascuno secondo i
    suoi bisogni nella misura delle risorse sociali. Con ciò il lavoro,
    il capitale e il talento si trovano eliminati dalla scienza; nello
    stesso tempo, la gerarchia industriale e la concorrenza sono
    soppresse; inoltre la distinzione dei lavoratori in produttivi e
    improduttivi, essendo tutti pubblici funzionari, si dilegua; la
    moneta è definitivamente proscritta, e con essa ogni segno
    rappresentativo del valore; il credito, la circolazione, la bilancia
    commerciale non sono più che parole prive di senso in questo regno
    della fratellanza universale! [...]
    
    Niente di più facile da fare che un piano di comunismo. La
    repubblica è padrona di tutto: distribuisce i suoi uomini, dissoda,
    lavora, costruisce magazzini, case, laboratori; fabbrica palazzi,
    officine, scuole; produce tutte le cose necessarie al vestirsi, al
    nutrimento, all’abitazione; dà istruzione e svago del tutto gratis,
    a quanto si crede, e nella misura delle sue risorse. Ciascuno è
    operaio nazionale e lavora per conto dello Stato che non paga
    nessuno, ma che si prende cura di tutti quanti, come un padre di
    famiglia fa dei suoi figli. Tale è, più o meno, l’utopia di questo
    eccellente Cabet, utopia ripresa, con leggere modifiche, dai
    pensatori greci, egizi, siriani, indiani, latini, inglesi, francesi,
    americani, riprodotta con alcune varianti da Pecqueur, e verso la
    quale gravita, suo malgrado ma nient’affatto contro voglia, il
    rappresentante della nostra giovane democrazia, Louis Blanc.
    Semplice e perentorio com’è, non si può negare che questo meccanismo
    ha per lo meno il vantaggio di essere alla portata di tutti. Da cui
    si evince, leggendo gli autori, che essi non si aspettano
    opposizione che sulle ore di lavoro, la scelta dei costumi e altri
    dettagli di fantasia, che non intaccano, aggiungono, il sistema.
    
    Ma questo sistema, così semplice a dire degli utopisti, diventa
    tutto a un tratto di una inestricabile complicazione se si riflette
    che l’uomo è un essere libero, refrattario alla polizia e alla
    comunanza, e che ogni organizzazione che violi la libertà
    individuale perirà per opera della libertà individuale. Così si
    vede, nelle utopie socialiste, l’appropriazione ritornare sempre, e,
    senza rispetto per la fratellanza, turbare l’ordine comunitario.
    [...]
    
    Il primo e più potente espediente dell’organizzazione industriale è
    la separazione delle industrie, altrimenti detta divisione del
    lavoro. La natura, con la differenza dei climi, ha preceduto questa
    divisione e ne ha determinato a priori tutte le conseguenze; il
    genio umano ha fatto il resto. L’umanità soddisfa i propri bisogni
    applicando questa grande legge di divisione, dalla quale nascono la
    circolazione e lo scambio. Di più, è da questa divisione primordiale
    che i differenti popoli ricevono la loro originalità e il loro
    carattere. La fisionomia delle razze non è, come si potrebbe
    credere, un tratto indelebile conservato dalla generazione, è una
    impronta della natura, capace solo di sparire per effetto
    dell’emigrazione e del cambiamento di abitudini. La divisione del
    lavoro non agisce dunque semplicemente come organo di produzione, ma
    esercita una influenza essenziale sullo spirito e il corpo; è la
    forma della nostra educazione come del nostro lavoro. Per tutti
    questi aspetti si può dire che è creatrice dell’uomo come pure della
    ricchezza, che è necessaria all’individuo tanto quanto alla società,
    e che, a riguardo del primo come della seconda, la divisione del
    lavoro deve essere applicata con tutta la potenza e l’intensità di
    cui è suscettibile.
    
    Ma applicare la legge di divisione è fomentare l’individualismo,
    provocare la dissoluzione della comunità; è impossibile sfuggire a
    questa conseguenza. In effetti, poiché in una comunanza ben gestita
    la quantità di lavoro da fornire per ogni industria è conosciuta, e
    il numero dei lavoratori è parimenti conosciuto, e poiché il lavoro
    non si esige da ciascuno se non come condizione di salario e
    garanzia per tutti, quale ragione avrebbe la comunanza di resistere
    a una legge di natura, di restringerne l’azione, di impedirne
    l’effetto? [...]
    
    Si dirà che non si può accordare la libertà del lavoro perché
    implica l’appropriazione e, con l’appropriazione, il monopolio,
    l’usura, la proprietà, lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo?
    Replico che, se la libertà genera questi abusi, è per mancanza di
    una legge di scambio, di una costituzione del valore e di una teoria
    di ripartizione che mantenga fra i consumatori l’uguaglianza, fra le
    funzioni l’equilibrio. Ora, chi è che si oppone alla ripartizione? e
    chi è che respinge con tutte le sue forze la teoria del valore e la
    legge dello scambio? Il comunismo. Così il comunismo respinge la
    libertà del lavoro perché gli occorrerebbe una legge di
    ripartizione, e rigetta poi la ripartizione al fine di conservare la
    comunanza del
    
    lavoro: che discorso sconclusionato! [...]
    
    Ho provato sempre che il lavoro non può essere diviso senza che
    
    il consumo lo sia; in altri termini, che la legge di divisione
    implica una legge di ripartizione, e che questa ripartizione,
    procedendo per dare e avere, sinonimo di tuo e di mio, distrugge la
    comunanza. Così l’individualismo esiste fatalmente in seno alla
    comunanza, nella distribuzione dei prodotti e nella divisione del
    lavoro: qualsiasi cosa faccia, la comunanza è condannata a perire;
    non ha altra scelta che di abdicare nelle mani della giustizia,
    risolvendo il problema del valore, oppure di istituire, sotto il
    manto della fratellanza, il dispotismo del numero invece del
    dispotismo della forza.
    
    Tutto ciò che il socialismo ha esternato, dalla morte di Caino sino
    alle fucilate di Rive-de-Gier, su questo grande problema
    dell’organizzazione, non è altro che un grido di disperazione e di
    impotenza, per non dire una declamazione da ciarlatano. Nessuno,
    oggi più di ieri, né nel socialismo, né nella parte proprietaria, ha
    risolto le contraddizioni dell’economia sociale; e tutti questi
    apostoli dell’organizzazione e della riforma – non faccio che
    riferire qui quello su cui abbiamo mille volte convenuto, mio caro
    Villegardelle – si approfittano della credulità pubblica, scontando,
    a nome della scienza avvenire, il beneficio di una verità vecchia
    come il mondo, e di cui non sanno nemmeno articolare il nome.
    
    Il produttore sarà libero o no dal suo lavoro? A questa domanda così
    semplice, il socialismo non osa rispondere: da qualunque parte si
    volga è perduto. La divisione del lavoro è avvinta con un legame
    indissolubile alla ripartizione matematica dei prodotti, la libertà
    del produttore all’indipendenza del consumatore. Togliete la
    divisione del lavoro, la proporzionalità dei valori, l’uguaglianza
    delle fortune, e il globo, capace di nutrire 10 miliardi di uomini
    ricchi e forti, basta appena a qualche milione di selvaggi; togliete
    la libertà, e l’uomo non è che un miserabile forzato, che trascina
    sino alla tomba la catena delle sue speranze deluse; togliete
    l’individualismo delle esistenze, e fate dell’umanità un gran
    polipaio. Ma affermate la divisione del lavoro, e la comunanza
    sparisce con l’uniformità; affermate la libertà, e i misteri della
    politica cadono con la religione dello Stato; affermate
    l’organizzazione, e la comunanza delle persone non è più che uno
    spaventevole incubo.
    
    La comunanza con la divisione del lavoro, la comunanza con la
    libertà, la comunanza con l’organizzazione – perbacco! – è il caos
    con gli attributi della luce, della vita e dell’intelligenza. E
    domandate perché non sono comunista! Consultate, di grazia, il
    dizionario degli antinomi, e saprete perché non sono comunista.
    
    Il non-io, diceva un filosofo, è l’io che si obbietta, che si oppone
    a se stesso e si prende per un altro; il soggetto e l’oggetto sono
    identici: A uguale ad A. Questo principio, che serve di base a tutto
    un sistema di filosofia e che nella speculazione si può ancora
    considerare come vero, è anche il punto di partenza della scienza
    economica, il primo assioma della giustizia distributiva. In questo
    ordine di idee A è uguale ad A, cioè il lavoro realizzato è
    matematicamente uguale al lavoro pensato; di conseguenza, il salario
    dell’operaio è uguale al suo prodotto, il consumo uguale alla
    produzione. Ciò è vero tanto dell’individuo che scambia con altri
    produttori, come del lavoro collettivo che non scambia che con se
    stesso, come dell’uomo sequestrato dai suoi simili e che diventa
    allora egli solo tutta l’umanità. Il salario nel lavoratore
    collettivo è uguale al prodotto; conseguentemente i prodotti di
    tutti i lavoratori sono uguali fra essi, e i loro salari ancora
    uguali: là è il principio dell’uguaglianza delle condizioni e delle
    fortune.
    
     Così l’uguaglianza, nell’uomo collettivo, non è altro che
    l’uguaglianza del tutto alla somma delle parti; si stabilisce in
    seguito, a mezzo della libertà, fra le corporazioni industriali e le
    classi dei cittadini; si costituisce infine, lentamente e con
    oscillazioni infinite, fra gli individui. Ma l’uguaglianza deve
    essere alla fine universale, perché ogni individuo rappresenta
    l’umanità, ed essendo ogni uomo uguale all’altro, il prodotto deve
    diventare, per tutti, uguale al prodotto.
    
    Tale non è il punto di vista della comunanza. La comunanza ha orrore
    delle cifre, l’aritmetica le è mortale. Essa non ammette che la
    legge dell’universo, omnia in pondere et numero, et mensura, sia
    pure la legge della società; la comunanza, in una parola, non
    accetta l’uguaglianza e nega la giustizia.
    
    Qual è, dunque, il principio a cui dà la preferenza? Secondo Cabet,
    la fratellanza. Bisogna che io confessi: questa scempiaggine conta
    fra i suoi apologeti uomini di ben minore innocenza dell’onorevole
    Cabet.
    
    L’uguaglianza e la giustizia, a quel che assicurano questi profondi
    teorici, non sono che rapporti di proprietà e di antagonismo che
    devono sparire sotto la legge dell’amore e della devozione. In
    questo nuovo stato, dare è sinonimo di ricevere; la fortuna consiste
    nel prodigarsi; all’emulazione degli egoismi succede l’emulazione
    delle abnegazioni. Tale è l’idea superiore del socialismo, idea che
    è nostro dovere approfondire in quanto, grazie a questa idea
    superiore, perdiamo tutte le idee inferiori di giusto e ingiusto, di
    diritto e di dovere, di obbligazione e di danno, ecc. Di idea
    superiore in idea superiore finiremo per non avere più idee. [...]
    
    Il comunismo impone dei limiti alla varietà della natura. E dice,
    come l’Eterno all’Oceano: tu arriverai sin qui, non andrai più
    lontano. L’uomo della comunanza, una volta creato, è creato per
    sempre... Non è proprio così che il fourierismo ha preteso
    immobilizzare la scienza? Ciò che Cabet fa per il costume, Fourier
    l’aveva fatto per il progresso: quale dei due merita di più la
    riconoscenza dell’umanità? Per arrivare a questi fini con maggior
    certezza, l’icariano regola lo spirito pubblico, prende le sue
    misure contro le idee nuove. In Icaria c’è un giornale comunale, uno
    provinciale e uno nazionale; c’è, come nella Chiesa, un catechismo,
    un vangelo, una liturgia. La libertà di pensiero è il diritto di
    fare proposte all’assemblea.
    
    L’opinione della maggioranza è reputata opinione pubblica, nello
    stesso modo che nelle nostre Camere la ragione si conta, ma non si
    discute. Il giornale, stampato a spese dello Stato, è distribuito
    gratis, rende conto delle deliberazioni, fa conoscere la cifra della
    minoranza, analizza le sue ragioni dopo che tutto è detto. I libri
    di scienza e di letteratura sono fatti e pubblicati in base a una
    delibera; la pubblicità non è ammessa per niente altro. In effetti,
    appartenendo tutto alla comunanza, e non avendo nessuno alcunché di
    proprio, la stampa di un libro non autorizzato è impossibile.
    D’allora in poi, che si avrebbe a dire? Ogni idea faziosa si trova
    dunque arrestata sul nascere, e non avremo più dei reati di stampa:
    è l’ideale della politica preventiva. Così il comunismo è condotto
    dalla logica all’intolleranza delle idee. Ma, misericordia!
    L’intolleranza delle idee come l’intolleranza delle persone, è
    l’esclusione, è la proprietà! La comunanza è la proprietà! Non ci si
    capisce più niente, ma come vedrete è proprio così.
    
    Di tutti i pregiudizi inintelligenti e retrogradi, quello che i
    comunisti accarezzano di più è la dittatura. Dittatura
    dell’industria, dittatura del commercio, dittatura del pensiero,
    dittatura nella vita sociale e nella vita privata, dittatura
    dappertutto, tale è il dogma che si libra, come la nuvola sul Sinai,
    sull’utopia icariana. La rivoluzione sociale Cabet non la concepisce
    come effetto possibile dello sviluppo delle istituzioni e del
    concorso delle intelligenze; questa idea è troppo metafisica per il
    suo gran cuore. D’accordo con Platone e tutti i rivelatori,
    d’accordo con Robespierre e Napoleone, d’accordo con Fourier –
    questo dittatore della scienza sociale, che nulla ha lasciato da
    scoprire – e d’accordo infine con Blanc e la democrazia di Luglio,
    che vuol procurare la felicità del popolo suo malgrado e dare al
    potere la più grande forza di iniziativa possibile, Cabet deriva la
    riforma dal consiglio, dalla volontà, dall’alta missione di un
    personaggio, eroe, messia e rappresentante degli icariani. Cabet si
    guarda bene dal far nascere la legge nuova dalle discussioni di
    un’assemblea regolarmente uscita dall’elezione popolare, mezzo
    troppo lento e che comprometterebbe tutto. Gli serve un uomo. Dopo
    aver soppresso tutte le volontà individuali, le concentra in una
    individualità suprema che esprime il pensiero collettivo, e come il
    motore immobile di Aristotele dà impulso a tutte le attività
    subalterne. Così, dal semplice sviluppo dell’idea si è
    invincibilmente condotti a concludere che l’ideale della comunanza è
    l’assolutismo. E invano si dirà che questo assolutismo sarà
    transitorio, poiché se una cosa è necessaria un solo istante, lo
    diventa per sempre: la transizione è eterna.
    
    [Da Système des contradictions économiques, trad. it.: Sistema delle
    contraddizioni economiche, Anarchismo, Catania 1975, pp. 468-498].
    
    
    
    capitolo quarto
    
    Il grado di giustizia realizzato nella storia è ciò che determina e
    specifica il livello qualitativo del progresso umano. La giustizia è
    intimamente connessa alla libertà perché la sua realizzazione è
    opera del libero arbitrio dell’uomo, della libera volontà, in quanto
    è il risultato di una consapevolezza etica, di una cosciente azione
    rivoluzionaria. L’ideale proudhoniano della giustizia non è, come
    potrebbe apparire superficialmente, l’esito di una visione
    idealistica e utopistica della storia, ma, al contrario, il frutto
    di una riflessione profondamente rivoluzionaria e realistica.
    Proudhon, identificando il socialismo con la sua dimensione etica,
    vale a dire con la giustizia, non intende concepire quest’ultima, né
    ritiene sia possibile farlo, come una realtà esterna all’uomo,
    trascendente rispetto all’empiricità antropologica dell’individuo.
    La giustizia, cioè, non è qualcosa di idealistico, ma un attributo
    intrinseco dell’uomo, nel senso che essa è intima e omogenea alla
    sua costituzione antropologica. Solo da questa intrinseca e
    immanente autocoscienza dell’umano può svilupparsi una potenzialità
    sovversiva ben maggiore di ogni effetto causato da contingenze
    storiche, può farsi concreto il progetto rivoluzionario
    dell’uguaglianza. E questo soprattutto dopo la svolta epocale della
    secolarizzazione, così ben riassunta dal pensatore francese: lo
    scetticismo, dopo aver devastato religione e politica, si è
    abbattuto sulla morale, e in ciò consiste la dissoluzione moderna.
    Sotto l’azione essiccante del dubbio la virtù più rara è distrutta.
    Non c’è più nulla che tenga, la rotta è completa. È sulla base di
    questa convinzione che Proudhon critica e respinge ogni idea di
    determinismo storico, a suo giudizio falsa sul piano scientifico e
    reazionaria sul piano ideologico. Falsa sul piano scientifico perché
    tutta l’esperienza storica passata sta a testimoniare la
    discontinuità e l’imprevedibilità del processo storico; reazionaria
    sul piano ideologico perché il determinismo, anche se risultato di
    una prassi immanente alla collettività umana, è nondimeno, rispetto
    all’individuo, un puro trascendentalismo, e perciò un’altra ed
    ennesima alienazione.
    
    Ma che cos’è la giustizia? È la traduzione sociale e istituzionale
    del rapporto di reciprocità e commutazione. La società perde
    qualunque senso se non ha questa coscienza. Questa logica di
    equilibrio sta alla base del pluralismo, volto a costituirsi come
    sistema «aperto» capace di far convivere più tendenze di per sé
    contraddittorie, a porsi come estrinsecazione della libertà nel suo
    infinito movimento. Con tale metodo si può giungere alla
    consapevolezza ideologica dell’uguaglianza sociale perché, scoprendo
    l’intima connessione dei fenomeni entro il contesto di una dinamica
    complessa di relazioni e di situazioni, si arriva a capire che
    questa stessa dialettica esprime la necessità di un principio di
    coordinazione, il quale esclude di per sé la gerarchia. Essa,
    indicando un rapporto di uguaglianza, annuncia in pari tempo la
    legge della reciprocità e dell’equivalenza che è alla base del
    mutualismo economico-sociale. La giustizia come equilibrio, come
    reciprocità, come equivalenza configura un ordine nel quale tutti i
    rapporti sono rapporti di uguaglianza; dove non esiste né primato,
    né obbedienza, né centro di gravità, né direzione, dove la sola
    legge è che tutto si sottometta alla giustizia, cioè all’equilibrio.
    Nello stesso tempo, a partire da questa valenza ideologica
    dell’uguaglianza, è possibile arrivare anche a quella della libertà
    intesa come pluralismo. Infatti, il concetto di uguaglianza non si
    specifica in Proudhon come mero appiattimento e uniformità, ma al
    contrario come esaltazione del particolare e dell’individuale.
    L’uguaglianza, egli afferma, non è affatto una condizione fissa, ma
    la media algebrica di una situazione sempre mobile.
    
    
    
     La giustizia come equilibrio
    
    Per stabilire l’equilibrio si fa ricorso a diverse ipotesi. Gli uni,
    considerando che l’uomo non ha valore che per la società e che al di
    fuori della società esso ricade allo stato bruto, tendono con tutte
    le loro forze, in nome degli interessi particolari e sociali, ad
    assorbire l’individuo nella collettività. Cioè non riconoscono altri
    interessi legittimi che quelli del gruppo sociale, e di conseguenza
    non riconoscono altra dignità, altra inviolabilità, che nel gruppo,
    da cui gli individui traggono in seguito quelli che vengono
    chiamati, ma molto impropriamente, i loro diritti. In questo
    sistema, l’individuo non ha esistenza giuridica; non è niente di per
    se stesso; non può invocare diritti, non ha che doveri. La società
    lo produce come sua espressione, gli conferisce una peculiarità, gli
    assegna una funzione, gli accorda la sua parte di felicità e di
    gloria: egli le deve tutto, essa non gli deve nulla.
    
    Tale è, in poche parole, il sistema comunista, preconizzato da
    Licurgo, Platone, dai fondatori di ordini religiosi e dalla maggior
    parte dei socialisti contemporanei. Questo sistema, che si potrebbe
    definire la decadenza della personalità in nome della società, si
    ri-
    
    105
    
     trova, leggermente modificato, nel dispotismo orientale,
    nell’autocrazia dei Cesari, e nell’assolutismo di diritto divino. È
    il fondo di tutte le religioni. La sua teoria si riduce a questa
    proposizione contraddittoria: asservire l’individuo al fine di
    rendere libera la massa. Evidentemente la difficoltà non è risolta:
    è aggirata. Si tratta di tirannia, di tirannia mistica e anonima;
    non di associazione. Così il risultato è stato quello che si poteva
    prevedere: avendo privato la persona umana delle sue prerogative, la
    società si è trovata sprovvista del suo principio vitale; non c’è un
    esempio di comunità che, fondata sull’entusiasmo, non sia finita
    nella imbecillità.
    
    Lo spirito va da un estremo all’altro. Resi accorti dall’insuccesso
    del comunismo, si è ricaduti nell’ipotesi di una libertà illimitata.
    I partigiani di questa opinione sostengono che non c’è, in fondo,
    opposizione tra gli interessi; che essendo gli uomini tutti della
    stessa natura, avendo tutti bisogno gli uni degli altri, i loro
    interessi sono identici, e pertanto facilmente accordabili; che solo
    l’ignoranza delle leggi economiche ha causato questo antagonismo,
    che sparirà il giorno in cui, più illuminati sui nostri rapporti,
    ritorneremo alla libertà e alla natura. In breve, si conclude che se
    vi è disarmonia tra gli uomini, ciò deriva soprattutto
    dall’ingerenza dell’autorità in cose che non sono di sua competenza,
    dalla mania di regolamentare e legiferare; che non resta che lasciar
    agire la libertà, illuminata dalla scienza, e tutto rientrerà
    infallibilmente nell’ordine. Tale è la teoria dei moderni
    economisti, partigiani del libero scambio, del lasciar fare, lasciar
    passare, del ciascuno da sé, ciascuno per sé, ecc.
    
    Come si vede, è sempre non risolvere la difficoltà; è negare che
    essa esista. Noi non sappiamo che farcene della vostra giustizia,
    dicono i liberali, dal momento che non ammettiamo la realtà
    dell’antagonismo. Giustizia e utilità sono per noi sinonimi. È
    sufficiente che gli interessi, sedicenti opposti, si comprendano
    perché essi si rispettino: la virtù, nell’uomo sociale, come
    nell’uomo solitario, non è che egoismo beninteso.
    
    Questa teoria, che fa consistere l’organizzazione sociale unicamente
    nello sviluppo della libertà individuale, sarebbe forse vera – e si
    potrebbe dire che la scienza dei diritti e la scienza degli
    interessi sono una sola e identica scienza – se, una volta fatta la
    scienza degli interessi, o scienza economica, la sua applicazione
    non incontrasse alcuna difficoltà. Questa teoria, dicevo, sarebbe
    vera se gli interessi potessero essere fissati una volta per tutte e
    rigorosamente definiti; se, essendo stati sin dall’inizio uguali e,
    più tardi, nel loro sviluppo, avendo camminato di pari passo,
    avessero obbedito a una legge costante; se non fosse necessario,
    nella loro disuguaglianza crescente, attribuire una così larga parte
    al caso e all’arbitrio; se malgrado tanto numerose e stupefacenti
    anomalie, il minimo progetto di regolarizzazione non sollevasse da
    parte degli individui interessati proteste così vive; se si potesse
    prevedere sin da ora la fine della disuguaglianza, e proprio a causa
    dell’antagonismo; se per la loro natura essenzialmente mobile ed
    evolutiva, gli interessi non giungessero continuamente a
    ostacolarsi, a scavare tra di loro delle disuguaglianze nuove; se
    non tendessero malgrado tutto a interferire, a soppiantarsi; se la
    missione del legislatore non fosse precisamente, infine, quella di
    consacrare per mezzo delle sue leggi, a mano a mano che essa si
    sviluppa, questa scienza degli interessi, dei loro rapporti, del
    loro equilibrio, della loro solidarietà: scienza che sarebbe la più
    alta espressione del diritto se la si potesse credere definitiva, ma
    scienza che, venendo sempre dopo il fatto, non prevenendo mai le
    difficoltà, essendo costretta a imporre le sue decisioni per mezzo
    dell’autorità pubblica, può ben servire da strumento e da ausilio
    all’ordine, ma non può affatto essere presa per il principio stesso
    dell’ordine.
    
    A causa di queste considerazioni, la teoria liberale, o dell’egoismo
    beninteso, inconfutabile se la scienza economica fosse costituita e
    fosse dimostrata l’identità degli interessi, si riduce a una
    petizione di principio. Essa suppone come realizzate delle cose che
    non possono mai esserlo; delle cose la cui realizzazione incessante,
    approssimativa, parziale, variabile, costituisce l’opera
    interminabile del genere umano. Così, mentre l’utopia comunista ha
    ancora i suoi praticanti, l’utopia dei liberali non ha potuto
    ricevere il minimo inizio di esecuzione.
    
    Scartate l’ipotesi comunista e l’ipotesi individualistica, la prima
    in quanto distruttrice della personalità, la seconda in quanto
    chimerica, non resta da prenderne in esame che un’ultima sulla quale
    del resto la moltitudine dei popoli e la maggioranza dei legislatori
    sono d’accordo: quella della giustizia.
    
    La dignità, nell’uomo, è una qualità altera, assoluta, insofferente
    di qualsiasi dipendenza e di qualsiasi legge che tenda alla
    dominazione degli altri e all’assorbimento del mondo.
    
    Si ammette a priori che, davanti alla società di cui fanno parte,
    tutti gli individui, considerati semplicemente come persone morali,
    e fatta astrazione dalle capacità, dai servizi resi, dalle mancanze
    commesse, sono di ugual dignità; di conseguenza, essi devono
    ottenere per le loro persone la stessa considerazione, partecipare
    allo stesso titolo al governo della società, alla elaborazione delle
    leggi, all’esercizio delle cariche. [...]
    
    Abbiamo visto che il comunismo parte dall’idea che l’uomo è un
    essere fondamentalmente non socievole e cattivo, homo homini lupus;
    che non ha nessun diritto da esercitare, nessun dovere da compiere
    verso i suoi simili; che la società sola fa tutto in lui, essa sola
    gli dà la dignità e fa di lui un essere morale. Non è altro che la
    decadenza umana posta come principio: cosa che ripugna alla nozione
    dell’essere e implica contraddizione.
    
    Nel sistema della libertà pura, la dignità del soggetto, che si
    credeva di salvaguardare con una esagerazione in senso contrario,
    non è meno sacrificata. Qui l’uomo non ha più né virtù, né
    giustizia, né moralità, né socialità, poiché l’interesse solo fa
    tutto in lui, cosa che ripugna alla coscienza che non si lascia
    ridurre al puro egoismo.
    
    L’idea giuridica sembra dunque, da quest’ultimo punto di vista,
    soddisfare le più nobili aspirazioni della nostra natura: essa ci
    proclama degni, socievoli, morali; capaci di amore, di sacrificio,
    di virtù; incapaci di conoscere l’odio se non attraverso l’amore,
    l’avarizia se non attraverso la devozione, la fellonia se non
    attraverso l’eroismo; e ciò perché essa si aspetta solo dalla nostra
    coscienza ciò che le altre concezioni impongono alla nostra
    sottomissione o sollecitano dal nostro interesse.
    
    Per ciò che riguarda la società, metteremo in evidenza delle
    differenze analoghe.
    
    Nel comunismo, la società, lo Stato, esterno e superiore
    all’individuo, gode da solo dell’iniziativa; al di fuori di lui
    nessuna libertà d’azione; tutto si assorbe in un’autorità anonima,
    autocratica, indiscutibile, la cui provvidenza benevola o
    vendicativa distribuisce dall’alto, sulle teste prostrate, le
    punizioni e le ricompense. Non è una cité, una società; è un gregge
    presieduto da un gerarca, al quale solo, per legge, appartengono la
    ragione, la libertà e la dignità dell’uomo.
    
    Nel sistema della libertà pura, se fosse possibile ammetterne per un
    istante la realizzazione, ci sarebbe ancor meno società che nel
    comunismo. Poiché, da un lato, non si riconosce l’esistenza
    collettiva e, dall’altro, si pretende che per mantenere la pace non
    siano necessarie concessioni reciproche, e che tutto si riduca a un
    calcolo di interesse, l’azione politica o sociale diviene superflua:
    non vi è realmente società. È un’agglomerazione di individualità
    giustapposte, che marciano parallelamente ma senza nulla di
    organico, senza forza di collettività, dove la cité non ha nulla da
    fare, dove l’associazione, ridotta a una verifica di conti, è non
    dico nulla, ma quanto meno illecita.
    
    Perché ci sia società tra creature ragionevoli bisogna che vi sia un
    ingranaggio delle libertà, una transazione volontaria, un impegno
    reciproco: cosa che non può farsi senza l’aiuto di un altro
    principio, il principio mutualista del diritto. La giustizia è
    commutativa per sua natura e forma; così la società, ben lungi dal
    poter essere concepita come esistente al di sopra e al di fuori
    degli individui, come accade nella comunità, deriva solo da essi,
    risulta dalla loro azione reciproca e dalla loro comune energia:
    essa ne è l’espressione e la sintesi. Grazie a questo organismo, gli
    individui, simili per la loro indigenza originale, si specializzano
    per i loro talenti, per le loro industriosità, per le loro funzioni;
    sviluppano e moltiplicano, a un grado sconosciuto, la loro azione e
    la loro libertà. In modo che arriviamo a questo risultato decisivo:
    volendo far tutto per mezzo della sola libertà, la si diminuisce;
    obbligandola a transigere, la si raddoppia.
    
    Per ciò che riguarda il progresso.
    
    La comunità, una volta costituita, lo è per sempre. Dunque niente
    rivoluzioni, niente trasformazioni: l’assoluto è immutabile. Il
    cambiamento le ripugna. Perché dovrebbe cambiare? Non consiste
    proprio nell’assorbire sempre più nell’autorità anonima ogni vita,
    ogni pensiero, ogni azione, nel chiudere gli sbocchi, nell’impedire
    il lavoro libero, il commercio libero e il libero esame? Il
    progresso qui è un nonsenso.
    
    Con la libertà illimitata è naturale, ovviamente, che il progresso
    possa manifestarsi nell’industria, ma esso sarà nullo nella vita
    pubblica, nullo nelle istituzioni, perché secondo l’ipotesi, essendo
    identici il giusto e l’utile, confondendosi la morale e gli
    interessi, non vi è solidarietà sociale, non vi sono interessi
    comuni, né istituzioni.
    
    Solo la giustizia, dunque, può essere detta progressista, poiché
    essa suppone un emendamento continuo della legislazione, secondo
    l’esperienza della vita di tutti i giorni, e pertanto un sistema
    sempre più fecondo di garanzie.
    
    Del resto, ciò che costituisce il trionfo dell’idea giuridica sulle
    due forme ipotetiche del comunismo e dell’individualismo è che,
    mentre il diritto è sufficiente a se stesso, il comunismo e
    l’individualismo, incapaci di realizzarsi per la sola virtù del loro
    principio, non possono fare a meno delle prescrizioni del diritto.
    Entrambi sono costretti a chiamare la giustizia in loro soccorso, e
    si condannano così da soli per la loro incongruenza e la loro
    contraddizione. Il comunismo, obbligato dalla rivolta delle
    individualità oppresse a fare concessioni e ad allontanarsi dal
    rigore delle sue massime, perisce presto o tardi, innanzi tutto per
    il fermento della libertà che esso introduce nel suo seno, poi per
    l’istituzione di una magistratura arbitra delle transazioni.
    L’individualismo, incapace di risolvere a priori il suo famoso
    problema dell’accordo degli interessi e costretto a stabilire delle
    leggi almeno provvisorie, abdica a sua volta davanti a questa forza
    nuova, che esclude l’esercizio puro della libertà.
    
    Delle tre ipotesi che abbiamo visto prodursi allo scopo di trionfare
    dell’opposizione degli interessi, di creare un ordine nell’umanità e
    di convertire la moltitudine delle individualità in associazione,
    non ne sussiste dunque realmente che una sola, quella della
    giustizia. La giustizia, per il suo principio mutualista e
    commutativo, assicura la libertà e ne aumenta la potenza, crea la
    società e le dà, con una forza irresistibile, una vita immortale. E
    come nello stato giuridico la libertà, elevandosi a un più alto
    potere, ha cambiato carattere, così lo Stato, acquistando una forza
    straordinaria, non è più lo stesso che nella ipotesi comunista: è la
    risultante, non la dominante, degli interessi.
    
    Da ciò ne consegue, cosa che distingue radicalmente la Rivoluzione
    dall’Ancien Régime, che sebbene lo Stato, considerato come unità
    superiore e persona collettiva, possa anche avere una propria
    dignità, propri interessi, proprie azioni, propri diritti, non ha
    più, tuttavia, compito maggiore di quello di vegliare a che ciascuno
    rispetti la persona, la proprietà e gli interessi di ognuno, in una
    parola a che tutti siano fedeli al patto sociale. In ciò consiste la
    prerogativa essenziale dello Stato; tutte le sue attribuzioni ne
    derivano; cosa che significa che, lungi dal dominare gli interessi,
    esso non esiste che per servirli.
    
    L’individuo, essendo tenuto a rispettare il patto se non vuol
    perdere l’appoggio della cité e incorrere nel suo biasimo, sembra
    subordinato allo Stato, ma avendo il diritto di richiamare gli altri
    al rispetto del patto, di richiedere la protezione della comunità, è
    superiore allo Stato ed è lui stesso sovrano. Nell’ordine giuridico,
    o democratico, l’autorità, di cui oggi si ama tanto abusare, non ha
    altro significato.
    
     Se si esaminano le cose dal punto di vista puramente
    speculativo, e prima di qualsiasi tentativo di applicazione, è certo
    che la giustizia – cioè l’ordine sociale stabilito su di un sistema
    di transazioni libere e di garanzie reciproche, che hanno per
    interprete l’arbitrato della cité per sanzione il suo potere – è
    certo, dico, che questa ipotesi è infinitamente più razionale, più
    pratica, più feconda delle due altre, le sole del resto che possano
    esserle opposte.
    
    Ma il fatto di aver dimostrato la superiorità di una teoria non è
    tutto: bisogna assicurarsi che questa teoria basti al suo oggetto;
    che, davanti alle difficoltà di applicazione, alla cattiva volontà
    degli uomini, non sia destinata a fallire miseramente e a
    trasformare le speranze del legislatore in delusioni.
    
    Qui si sollevano le questioni più scabrose.
    
    L’uomo è libero, egoista per natura, diciamo persino legittimamente
    egoista, capace di sacrificarsi per amore e per amicizia, ma ribelle
    a ogni costrizione, come conviene a ogni essere ragionevole e degno.
    Se ricerca la società, è tuttavia pieno di diffidenza verso i suoi
    simili, che giudica meglio quanto più conosce se stesso; ed è pronto
    a tornare sui propri impegni, a romperli, a eluderli, appena ne
    suppone l’imprudenza, la sincerità o l’utilità.
    
    Si tratta dunque di sapere se l’uomo darà il suo consenso a questo
    sistema di transazioni che si vanta del nome di contratto sociale e
    di diritti, perché è evidente che, senza consenso, non vi può essere
    giustizia; se egli sarà libero di non consentire perché, di fronte
    alla necessità di un ordine sociale e all’impraticabilità dei due
    sistemi, di cui l’uno gli toglie la libertà e l’altro lo abbandona
    all’antagonismo, sembra impossibile che lo possa rifiutare, almeno
    in maniera formale; se, quindi, la sua accettazione non sarà
    accompagnata da riserve segrete, da reticenze che annullerebbero,
    virtualmente, il patto; se, scarsamente soddisfatto della legge, lo
    sarà maggiormente dei suoi interpreti; se, di conseguenza, questo
    stato giuridico, da cui si attendevano effetti così meravigliosi,
    non si risolverà in un sistema di ipocrisia, dal quale ogni uomo
    astuto prenderà quello che stimerà a lui conveniente e lascerà il
    resto.
    
    Chi formulerà la legge? chi dirà il diritto e il dovere? in nome di
    chi e di che cosa si presenterà questa giustizia, sempre cieca,
    sempre tardiva, mai interamente riparatrice? chi garantirà la
    saggezza dei suoi precetti? Supponiamo una legge giusta: chi
    garantirà a ciascuno la fedeltà del vicino, la probità del giudice,
    il disinteresse del ministro, la prudenza e l’onestà del
    funzionario? In questo sistema specioso, dove si pensa che tutto
    derivi dall’iniziativa dell’uomo e del cittadino, dove la legge è
    reputata l’espressione della sua volontà, quanta violenza e
    arbitrio! Quante truffe!
    
    E se ora, dopo aver visto brillare per un istante questa idea
    sublime del diritto, si dovesse ammettere, con la teologia, che la
    giustizia integrale non è di questo mondo, che non si può possederne
    pienamente la nozione ma soltanto coglierne l’ombra, come proporre
    allora alla ragione diffidente dei mortali una legislazione
    approssimativa? come incatenare le coscienze? chi si arrogherà il
    diritto di accusare coloro che la infrangono? come punire delle
    persone che, per non restarne vittime, si saranno decise a
    transigere con la legge? che cosa diverrebbero allora il vizio e la
    virtù? che cosa la morale?... Non sarebbe meglio, per i poveri
    umani, la guerra aperta, accanita, senza tregua, piuttosto che una
    pace vergognosa, piena di miseria, di perfidia, di tradimenti, di
    assassini, sotto questo preteso regime del diritto? Eh! Bisognava
    sfuggire alla tirannide e all’anarchia attraverso la giustizia, ed
    ecco che, con il pretesto della giustizia, abbiamo l’assolutismo
    dello Stato, l’antagonismo degli interessi, e per sovrappiù il
    tradimento!
    
    Da quando l’uomo si è unito all’uomo per la comune difesa e la
    ricerca della sussistenza, questo problema formidabile è stato
    posto, e la soluzione non sembra più vicina del primo giorno. Le
    rivoluzioni si succedono; le religioni, i governi, le leggi
    cambiano, e la giustizia è sempre altrettanto equivoca, sempre
    altrettanto impotente. Che dico? È questo venir meno della giustizia
    che fa l’infelicità generale. Come al tempo della prima iniziazione,
    gli spiriti sognano il diritto, l’uguaglianza, la libertà e la pace.
    Ma non è mai altro che un sogno: la fede si è spenta e la virtù non
    si è mostrata; la massima del proprio interesse, appena addolcita
    dal timore degli dèi e dal terrore dei supplizi, governa da sola il
    mondo; e se i costumi dell’umanità si sono distinti fino a ora da
    quelli delle bestie, è per questa commedia giuridica di cui esse non
    sono capaci a causa della loro bestialità. [...]
    
    Una situazione simile è contraria tanto alla ragione delle cose
    quanto a quella dell’uomo, ed è soprattutto perché contrasta con la
    ragione delle cose che noi non potremo rassegnarvici. È una legge di
    natura che l’essere intelligente e libero faccia da sé i suoi
    costumi; che li raggruppi secondo una legge di ragione e di libertà;
    che, infine, in qualsiasi situazione si trovi, solo o in società,
    arrivi alla felicità attraverso la sua moralità.
    
    Ecco ciò che dice la ragione e che esige la natura; ciò che attesta,
    in una certa misura, l’esempio degli animali; ciò che cerca l’uomo,
    sotto la doppia e irresistibile spinta della sua sensibilità e della
    sua coscienza. Restare in questo stato di semi-giustizia è
    impossibile: bisogna andare avanti, tanto più che non potremmo
    cambiare sistema. Noi siamo legati alla giustizia dagli sforzi
    stessi che abbiamo fatto per realizzarla. Qualche riflessione finirà
    per convincerci.
    
    Dico innanzi tutto che, meno che mai, possiamo riprendere il giogo
    comunista.
    
    La subordinazione dell’individuo al gruppo, che costituisce il
    fondamento di questo sistema, si osserva in tutti gli animali
    associati; essa appare come una conseguenza del principio
    fisiologico che, in qualunque organismo, subordina ogni facoltà alla
    finalità generale. Così, nelle api, la comunità risulta
    dall’organizzazione degli individui o, per meglio dire, è questa
    organizzazione che è determinata dalle esigenze della vita comune.
    Poiché la pluralità delle femmine implica la pluralità delle
    famiglie, e ciò provoca la dissoluzione della comunità, non vi è,
    per tutta la comunità, che una sola femmina, la regina,
    rappresentante dell’unità sociale e la cui fecondità è sufficiente a
    mantenere la popolazione. Questa regina è servita da sette o otto
    re, che sono uccisi subito dopo che la deposizione delle uova li ha
    resi inutili. Le operaie non hanno sesso, cioè nulla che le porti
    verso lo scisma e la divisione. Tutto il loro amore, tutta la loro
    anima, tutta la loro felicità è nell’arnia, nel benessere della
    comunità, al di fuori della quale esse periscono come creature senza
    ragione di esistenza, come membri dai quali lo stesso centro della
    vita si è ritirato.
    
    Ecco la comunità, come è richiesta dalla logica e come è realizzata
    dalla natura.
    
    Orbene, facendo gli uomini simili, e se non completamente uguali
    almeno pressappoco equivalenti; dando loro un sentimento esaltato
    della propria dignità; ponendo nella formazione delle coppie la
    distinzione delle famiglie, la natura non sembra aver voluto per
    l’uomo una subordinazione altrettanto micidiale. Essa lascia
    all’uomo la sua personalità. Essa vuole che, pur associandosi, resti
    libero. Quale sarà dunque la forma della società umana, se non è
    comunista? Per mezzo di quale virtù, di quale legge, l’uomo,
    moltiplicando la sua potenza per mezzo dell’associazione, potrà
    conservare cionondimeno la sua azione personale e il suo libero
    arbitrio? Ecco ciò che da secoli il genere umano cerca con ardore; è
    per questo che ha rovesciato uno dopo l’altro tanti governi diversi,
    la cui tendenza assolutista e la cui tirannia lo riportavano al
    comunismo animale; è per questo che oggi, affermando più che mai la
    sua sociabilità, le mette sempre come prima condizione la libertà.
    
    Ma se la comunità ci è organicamente ripugnante, la libertà, a sua
    volta, anche se stimolata dall’interesse, non è sufficiente tuttavia
    alla costituzione dell’ordine. La nozione dell’utile, che gioca un
    ruolo così importante nella società, è incapace di produrla; ci
    vuole anche qualcos’altro; ci vuole quello che tutti intendono
    perfettamente con le parole di diritto e di dovere.
    
    Un paragone vi farà capire.
    
    Se il fisiologo deduce dalla considerazione della vita e delle sue
    leggi delle regole di condotta per la sussistenza, il vestire,
    l’abitazione, il lavoro, il rapporto tra i sessi, l’educazione dei
    bambini,
    
     ecc., avrà fatto un codice di igiene; nessuno dirà che ha
    fatto un trattato dei doveri e gettato i fondamenti di un ordine
    sociale.
    
    Le leggi dell’igiene possono fornire il motivo e l’occasione di un
    diritto da citare, di un dovere da adempiere; di per se stesse, non
    obbligano nessuno, e invano si pretenderebbe di risolvere in questo
    modo il problema dell’associazione. L’insalubrità di un mestiere è
    una cosa, l’interesse dell’imprenditore è un’altra. Se questo trova
    vantaggio nel sacrificare centinaia di operai per fare più
    rapidamente fortuna; se questi ultimi, allettati dal salario,
    trovano utile, in cambio di un godimento presente, sacrificare la
    loro salute ventura, non è con dei consigli di igiene che si potrà
    fermarli. Ma, si dice, lo Stato ha interesse a che la vita dei
    cittadini sia rispettata, e questo interesse prevale su tutti gli
    altri. A questo io rispondo che se l’interesse dello Stato supera
    l’interesse, bene o male inteso, dell’imprenditore e degli operai,
    ciò non fa assolutamente sì che questi interessi siano gli stessi,
    come dovrebbe invece essere in un sistema dove l’utile è considerato
    come l’espressione del giusto, la libertà la stessa cosa della
    giustizia. Inoltre, non è possibile invocare l’utilità generale
    quando si ragiona nel sistema di una libertà assoluta. Solo il
    comunismo, e la giustizia, possono parlare di interessi generali.
    
    Orbene, ciò che abbiamo appena detto in particolare dell’igiene si
    applica, in maniera generale, all’economia.
    
    Che l’utilitarista, sull’esempio di Bentham, cerchi anche nei
    rapporti naturali che il lavoro, la proprietà, lo scambio e il
    credito stabiliscano tra gli uomini delle regole e delle garanzie
    per la condotta delle operazioni, la previsione dei rischi, la
    sicurezza e il benessere dell’esistenza; che egli giunga fino a
    dimostrare che, in parecchi casi, il singolo che comprende il suo
    vero interesse trovi vantaggio a sacrificare qualcosa del suo
    piuttosto che competere con i suoi simili e con la società: questo
    filosofo di nuova specie potrà forse essere un grande economista, ma
    non avrà nulla in comune con colui che insegna la giustizia, il
    diritto.
    
    L’economia politica e domestica, scienza eminente che non cede in
    dignità che alla scienza stessa del diritto, può fornire, come
    l’igiene pubblica e privata, ampia materia alle prescrizioni del
    legislatore e alle affermazioni della morale. Tuttavia essa non è la
    giustizia: non è solamente il senso comune che lo dichiara ma è,
    come ho detto, la natura stessa delle cose.
    
    In tutti questi casi, la legge igienica o economica è proposta al
    soggetto, ma sotto forma di consiglio, senza ingiunzione della
    coscienza, con la probabilità di un beneficio se si impegna a
    sottomettervisi, o di una disgrazia se si rifiuta. La giustizia, al
    contrario, in virtù della reciprocità che la fonda e del giuramento
    che ci lega, si impone, imperativa, sovente onerosa, senza
    preoccupazioni di interesse, tenendo conto unicamente del diritto e
    del dovere, per quanto poco utile le circostanze possano aver fatto
    il primo, per quanto disastroso esse abbiano reso il secondo.
    
    Dunque, niente comunità: abbiamo troppe abitudini di indipendenza,
    di personalità, di responsabilità, di senso della famiglia, di
    critica, di rivolta.
    
    Dunque, niente libertà illimitata: abbiamo troppi interessi
    solidali, troppe cose comuni, troppo bisogno gli uni contro gli
    altri del ricorso allo Stato.
    
    La giustizia sola, sempre più esplicita, saggia, severa: ecco ciò
    che richiede la situazione, ciò che richiedono tutte le voci
    dell’umanità.
    
    Bisognerebbe concludere che la società umana, nel suo dato rigoroso,
    è una creazione impossibile; che la nostra specie ambigua non è né
    solitaria né socievole; che essa non può sussistere per mezzo del
    diritto più di quanto lo possa attraverso la comunanza o l’egoismo,
    e che tutta la morale dell’uomo consiste nel salvaguardare il suo
    interesse privato contro le incursioni dei suoi simili, pagando un
    tributo a una finzione che, sebbene non soddisfi interamente le sue
    attese, diminuisce almeno i suoi rischi, dicendo al brigantaggio:
    arriverai fino a questo punto, non andrai oltre?
    
    La cosa merita di essere esaminata. Se si trovasse infatti, come
    alcuni pretendono, che la nostra giustizia, con le sue formule, non
    è che una maschera del nostro antagonismo, sarebbe il caso, bisogna
    confessarlo, di ridurre singolarmente la nostra gloria, e la scienza
    dovrebbe dire che siamo degli animali ben strani. Andiamo oltre:
    l’uomo non osando confessare la sua legge di natura, che è
    l’egoismo; non potendo seguire la sua ragione sociale, che esige il
    sacrificio; sballottato tra la pace e la guerra, speculando tanto
    sull’ipotesi del diritto che sulla realtà del brigantaggio, l’uomo,
    dico non avrebbe dei veri costumi: sarebbe una creatura, per essenza
    e destino, immorale.
    
    Non è questo ciò che voleva dire l’antico saggio, che comparava le
    leggi a tele di ragno? Le mosche vi si impigliano, diceva, i
    calabroni l’attraversano. Mentre la giustizia resta obbligatoria per
    la moltitudine, tanto più obbligatoria quanto più essa è miserabile,
    si vede l’arrivista, a mano a mano che cresce in forza e in
    ricchezza, gettare la maschera, liberarsi del pregiudizio,
    sprofondare nel suo orgoglio come se, mettendo in mostra il suo
    egoismo, rientrasse nella sua dignità. Talento, potere, fortuna
    furono, in tutti i tempi, nell’opinione popolare, un motivo di
    dispensa dai doveri imposti alla massa. Il più debole autore, il più
    oscuro bohémien, se si crede geniale, si mette al di sopra della
    legge: che ne è dei principi della letteratura e dei principi
    dell’arte? dei principi della Chiesa e dei principi dello Stato?
    Come la religione, la morale è riservata alla plebe: guai se la
    plebe, a sua volta, giudicasse il gran signore e il borghese... E
    chi potrebbe ancora essere ingannato? in settant’anni non abbiamo
    forse cambiato venti volte le massime? non siamo, prima di ogni
    cosa, adoratori del successo? e pur raddoppiando l’ipocrisia, non ci
    picchiamo di pensare e di dire, a chi vuol intendere, che il crimine
    e la virtù sono parole, il rimorso una debolezza, la giustizia uno
    spauracchio, la morale una bubbola?
    
    Giustizia, morale! Si può dire di esse quello che gli inglesi dicono
    oggi del protezionismo, che è un brevetto scaduto, una ricetta
    divenuta inutile. Ahimè, tutti posseggono questo fatale segreto e si
    comportano di conseguenza. Non vi è giustizia, dicono, lo stato
    naturale dell’uomo è l’iniquità, ma l’iniquità limitata,
    circoscritta, come la guerra che ne è l’immagine, da armistizi,
    tregue, scambi di prigionieri, paci provvisorie, basate sull’astuzia
    e la necessità e rotte dal risentimento e la vendetta.
    
    Un pubblicista, de Girardin, con la sua precisione abituale, ha
    messo in evidenza questa situazione: «Nego la morale», scriveva in
    un opuscolo pubblicato qualche tempo dopo il colpo di Stato, «nego
    la giustizia, il diritto, il pudore, la buona fede, la virtù. Tutto
    è crimine, naturalmente crimine, necessariamente crimine; e io
    propongo contro il crimine – indovinate che cosa, monsignore: una
    religione? Oh no, de Girardin è del suo secolo, molto poco mistico e
    per nulla teologico – un sistema di assicurazioni». [...]
    
    Applicando questi principi all’uomo che vive in società, io concludo
    che la condizione sociale non può essere per l’individuo una
    diminuzione della sua dignità, essa non può esserne che un aumento.
    Bisogna dunque che la giustizia, nome con il quale designiamo
    soprattutto quella parte della morale che caratterizza il soggetto
    in società, per divenire efficace sia più di una idea; bisogna che
    essa sia contemporaneamente una realtà. Bisogna, diciamo, che essa
    agisca non solamente come nozione della conoscenza, rapporto
    economico, formula d’ordine, ma anche come forza dell’anima, forma
    della volontà, energia interiore, istinto sociale, analogo nell’uomo
    a quell’istinto comunista che abbiamo notato nell’ape. È ragionevole
    infatti pensare che, se la giustizia è rimasta fino a oggi
    impotente, ciò si deve al fatto che come facoltà, forza motrice,
    l’abbiamo interamente misconosciuta; che la sua cultura è stata
    negletta; che non ha marciato nel suo sviluppo con il medesimo passo
    dell’intelligenza; infine che noi l’abbiamo considerata come una
    fantasia della nostra immaginazione o l’impressione misteriosa di
    una volontà estranea. Bisogna dunque, ancora una volta, che questa
    giustizia la si senta in noi, nella coscienza, come una voluttà, un
    amore, una gioia, una collera; che noi si sia sicuri della sua
    eccellenza sia dal punto di vista della nostra felicità personale
    che da quello della conservazione sociale; che con questo zelo sacro
    della giustizia e con le sue manchevolezze si spieghino tutti i
    fatti della nostra vita collettiva, le sue statuizioni, le sue
    utopie, le sue perturbazioni, le sue corruzioni; e che ci appaia
    infine come il principio, il mezzo e il fine, la spiegazione e la
    sanzione del nostro destino.
    
    In due parole una forza di giustizia, e non semplicemente una
    nozione di giustizia, forza che, aumentando per l’individuo la
    dignità, la sicurezza e la felicità, assicuri nel contempo l’ordine
    sociale contro le incursioni dell’egoismo: ecco ciò che cerca la
    filosofia, e al di fuori del quale non può esistere società.
    
    Questa forza di giustizia esiste? ha una sede in qualche luogo,
    nell’uomo o al di fuori dell’uomo? Qui si dividono nuovamente le
    opinioni.
    
    Da quanto precede risulta già un punto essenziale, che possiamo
    considerare come acquisito. E cioè che per regolare i rapporti degli
    individui fra di loro, farli vivere insieme l’uno grazie all’altro e
    creare così la società, è necessario un principio, una forza, una
    entità, qualcosa come ciò che chiamiamo giustizia, che abbia la sua
    realtà, la sua sede in qualche luogo, dal quale determini le volontà
    e imponga loro le sue regole.
    
    Qual è questo potere? dove coglierlo? come definirlo? In ciò sta ora
    la questione.
    
    Si è preteso che la giustizia non sia altro che un rapporto di
    equilibrio, concepito dall’intelletto ma liberamente accettato dalla
    volontà, come ogni altra speculazione dello spirito, in ragione
    dell’utilità che esso vi trova; in modo che la giustizia, ricondotta
    alla sua formula, ridotta a una misura di precauzione e di
    assicurazione, a un atto di benevolenza, anzi di simpatia, ma sempre
    in vista dell’amore di se stesso, non sia, al di fuori di ciò, che
    una immaginazione, un nulla.
    
    Ma senza contare che questa opinione è smentita dal sentimento
    universale che riconosce e afferma nella giustizia ben altro che un
    calcolo di probabilità e una misura di garanzia, si può osservare,
    anzitutto, che in questo sistema, che non è altro che quello del
    dubbio morale, la società è impossibile: noi lo proviamo oggi come
    lo provarono i Greci e i Romani; inoltre, in assenza di una forza di
    giustizia, preponderante nelle anime, poiché la violenza e la frode
    ridiventerebbero la sola legge, la libertà, malgrado tutte le
    polizie e le garanzie, sarebbe distrutta e l’umanità diverrebbe una
    finzione. E ciò fa cadere la critica.
    
    Ritorno dunque al mio proposito e dico che qualunque sia la
    giustizia, e con qualunque nome la si chiami, la necessità di un
    principio che agisca sulla volontà come una forza, e la determini
    nel senso del diritto o della reciprocità degli interessi,
    indipendentemente da ogni considerazione di egoismo, questa
    necessità, dico, è incontestabile. La società non può dipendere dai
    calcoli e dalle convenienze dell’egoismo; gli atti dell’umanità
    tutta intera nelle sue ascese e nelle sue degradazioni lo
    testimoniano. Di questo principio, questa forza, bisogna constatarne
    l’esistenza, analizzarne la natura, darne la formula. Constatare la
    realtà della giustizia e definirla, indicarne le applicazioni
    generali: in questo consiste oggi l’etica; e la filosofia morale,
    fino a una maggiore manifestazione della coscienza, non può andare
    oltre.
    
    Orbene vi sono due modi di concepire la realtà della giustizia: come
    una pressione esercitata dall’esterno sull’io, o come una facoltà
    dell’io che, senza uscire dalla sua coscienza, sentirebbe la sua
    dignità nella persona del prossimo con la stessa vivacità con cui la
    sente nella propria persona; e si troverebbe così, pur conservando
    la sua individualità, identico e adeguato allo stesso essere
    collettivo.
    
    Nel primo caso, la giustizia è esterna e superiore all’individuo,
    sia che risieda nella collettività sociale, considerata come un
    essere sui generis la cui dignità prevale su quella di tutti i
    membri che la compongono, concezione che rientra nella teoria
    comunista già esaminata, sia che si metta la giustizia ancora più in
    alto, nell’essere trascendente assoluto che anima e ispira la
    società e che viene chiamato Dio.
    
    Nel secondo caso la giustizia è nell’intimo dell’individuo, omogenea
    con la sua dignità, uguale a quella stessa dignità moltiplicata per
    la somma dei rapporti che la vita sociale comporta. Diamo una idea
    dei due sistemi.
    
    Sistema della Rivelazione. Il primo e il più antico di questi
    sistemi, quello che raccoglie ancora la massa delle popolazioni del
    globo, benché perda di giorno in giorno terreno presso le nazioni
    più civili, è il sistema della trascendenza, volgarmente detto della
    Rivelazione. Tutte le religioni e quasi-religioni hanno per scopo di
    inculcarlo: il cristianesimo ne è, dopo Costantino, l’organo
    principale. Ai teologi o ai teorici della teodicea bisogna
    aggiungere la moltitudine dei riformatori che, pur separandosi dalla
    Chiesa e dallo stesso ateismo, rimangono fedeli al principio di
    subordinazione esterna, mettendo al posto di Dio la società,
    l’umanità, o qualsiasi altra sovranità, più o meno visibile e
    rispettabile.
    
    Secondo la dottrina generalmente seguita, di cui le teorie
    dissidenti non sono del resto che delle mutilazioni, il principio
    morale, formatore della coscienza, potenza plastica che le
    conferisce virtù e dignità, è di origine superiore all’uomo, sul
    quale agisce con una influenza che viene dall’alto, gratuita e
    misteriosa.
    
    La giustizia, secondo questa genesi, è dunque sovrannaturale e
    sovrumana; essa ha per vero soggetto Dio, che la comunica e
    l’insuffla nell’anima, fatta a sua immagine, cioè fatta della sua
    stessa sostanza, capace per conseguenza di ricevere i modi del suo
    divino autore. In che maniera, secondo i trascendentalisti, abbia
    luogo questa comunicazione, è una questione sulla quale essi si
    dividono, come succede per tutte le cose che oltrepassano
    l’esperienza. A seconda che lo scrittore si rifaccia più o meno
    strettamente all’idea mistica presa come punto di partenza, o che si
    lasci invece andare alle suggestioni dell’empirismo, la sua dottrina
    può variare dal cattolicesimo al panteismo, dal catechismo del
    concilio di Trento all’etica di Spinoza.
    
    Ma siccome, in una materia simile, un sistema deve essere studiato
    nell’integrità del suo sviluppo storico e non in frammentazioni
    arbitrarie; e siccome avremo l’occasione di convincerci che le
    restrizioni proposte dai moderati del trascendentalismo sono delle
    incongruenze palesi, effetto del pudore filosofico, esaminerò
    soprattutto il sistema cattolico, il più completo di tutti e il più
    logico.
    
    Secondo la teologia ortodossa basta dunque sapere:
    
    Che l’anima umana, vuota e buia, senza altra moralità che quella
    dell’egoismo, è incapace di elevarsi da sola alla legge che regge la
    società e di conformare a essa i suoi atti; che essa possiede
    soltanto una certa attitudine a ricevere la luce la cui trasfusione
    è operata in lei dal Rivelatore divino, in altri termini dal Verbo;
    
    Che questo stato di oscurità invincibile, che pur tuttavia, si
    assicura, avrebbe potuto non essere, è l’effetto di una corruzione
    diabolica, nella quale l’anima è incorsa nei primi giorni della
    creazione, corruzione che l’ha fatta ricadere al rango dei bruti, e
    dalla quale essa non può essere radicalmente guarita su questa
    terra;
    
    Che la rivelazione della legge ha avuto luogo una prima volta in
    Adamo, poi successivamente in Noè, Abramo, Mosè, i profeti e Gesù
    Cristo, il quale, con la sua Chiesa, ne ha organizzato per sempre la
    propagazione fra gli uomini;
    
    Che così la giustizia, cosa essenzialmente divina, ultrafisica,
    ultrarazionale, al di sopra di ogni osservazione e conclusione dello
    spirito, cosa espressa dalla parola trascendenza che caratterizza il
    sistema, non può, nella sua determinazione, avere niente di comune
    con le altre branche del sapere, fondate tutte in ugual misura
    sull’intelligenza e sull’esperienza; quanto alla pratica, che l’uomo
    è del tutto incapace, per natura, di qualsiasi obbedienza, virtù o
    sacrificio, che per natura ne rifugge non potendo trovare, in se
    stesso e su questa terra, alcun compenso;
    
    Che tutto ciò che l’uomo deve fare di conseguenza è di seguire
    l’impulso della grazia, che d’altra parte non gli manca mai, e di
    obbedire alla legge, tale quale gli è proposta da Dio per mezzo
    della Chiesa, nel qual caso sarà salvato; altrimenti, e nel caso in
    cui resistesse all’ordine divino e si mostrasse refrattario, sarà
    punito;
    
     Che non si può seriamente filosofare sui decreti del cielo
    come sui fenomeni della natura, né penetrare i motivi di chi sta in
    alto, e ancor meno pretendere di aggiungervi o togliervi qualcosa,
    poiché ciò equivarrebbe ad aspirare a rifare l’opera di Dio e a
    veder più lontano della sua provvidenza, il che non si può ammettere
    senza empietà.
    
    In conclusione, secondo questa teologia, il principio della
    giustizia è in Dio, che ne è nello stesso tempo il soggetto e il
    rivelatore, la forza di realizzazione ancora in Dio, la sanzione
    sempre in Dio. Di modo che, senza la manifestazione divina,
    l’umanità dopo la sua caduta non sarebbe ancora uscita dalla
    condizione delle bestie, e che il primo frutto della religione è
    questa stessa ragione filosofica che la misconosce e l’oltraggia.
    [...]
    
    Stabiliti questi principi, la teologia spiega così il movimento
    della storia. Tale movimento, che gli uni concepiscono come un
    progresso, mentre gli altri non vi vedono che un’agitazione
    irrazionale e sterile, non è altro, assicurano gli ispirati, che
    l’effetto della lotta che si stabilisce fin dal principio fra la
    natura egoista e recalcitrante dell’uomo e l’azione stimolante e
    sempre più vittoriosa della legge, espressione rivelata della
    società. Questo è il fondo della filosofia di Bossuet, nel suo
    Discorso sulla storia universale. Per questo la Chiesa ha preso il
    nome di militante: il suo nemico è l’angelo delle tenebre,
    personificazione del male, principale autore della nostra caduta,
    che, malgrado tutti gli esorcismi, malgrado il sangue di un Dio
    versato per i peccati del mondo, continua a possedere la maggioranza
    delle anime.
    
    Ma supporre che analogamente al progresso che si manifesta nelle
    scienze e nell’industria, e che è l’effetto dell’accumulazione della
    nostra scienza, ce ne possa essere uno simile nella giustizia,
    indipendentemente dall’azione efficace della grazia, questa è una
    proposizione contro la quale la teologia protesta con tutte le sue
    forze, dichiarandola distruttrice della religione e, per
    conseguenza, di ogni morale, di ogni società. E, bisogna dirlo, non
    soltanto l’immoralità contemporanea sembra dar ragione alla
    teologia, ma su questo punto anche la filosofia deista pensa in
    fondo come la Chiesa. Essa crede e insegna che la società è, come il
    corpo umano, soggetta a corruzione e decadenza; che di tanto in
    tanto ha bisogno di rigenerare i suoi costumi; e che questa
    rigenerazione morale non può compiersi che grazie a una condizione,
    il rinnovamento del dogma. Che cos’è il dogma? La parola interiore,
    divina e provvidenziale, che sgorga nelle epoche fatidiche per la
    rigenerazione delle società. È per questo che noi vediamo oggi delle
    intelligenze elevate, delle anime generose, convinte che la
    corruzione è al suo massimo, che il cristianesimo è esaurito, come
    una volta il paganesimo, e che il tempo è vicino, rivolgere la loro
    richiesta alla divinità, implorare con lacrime e compunzione una
    manifestazione del dogma. L’autore di France mistique ha contato più
    di trenta di questi concorrenti della Chiesa, il cui motto in un
    secolo decisamente razionalista, ma tuttavia agitato sempre dalla
    fede, sembra essere questo: ci vuole la rivelazione, ma non troppa!
    
    Tanto è penetrato nella coscienza degli uomini il sistema della
    trascendenza, nato dai concetti fondamentali e dalle prime ipotesi
    della ragione, formulato in leggende poetiche e meravigliosi
    racconti, sostenuto dalla debolezza d’animo dei filosofi! Si sa con
    quale salto mortale l’incomparabile Kant, dopo aver confutato con la
    sua Critica della Ragion pura tutte le pretese dimostrazioni
    dell’esistenza di Dio, l’abbia ritrovata nella Ragion pratica.
    Cartesio, prima di lui, era arrivato allo stesso risultato; ed è
    stupefacente vedere gli ultimi discepoli di questo acrobatico
    metafisico rigettare l’autorità della Chiesa, la rivelazione di
    Gesù, quelle di Mosè, dei patriarchi, di Zoroastro, dei Bramani, dei
    Druidi, insomma tutto il sistema delle religioni, per poi affermare,
    come fatto di psicologia positiva, la rivelazione immediata di Dio
    nelle anime.
    
    Secondo questi signori, Dio si manifesta direttamente a noi
    attraverso la coscienza; ciò che si chiama senso morale è
    l’impressione stessa della divinità. Per il solo fatto che riconosco
    l’obbligo
    
     di ubbidire alla giustizia, io sono, a sentir loro, credente
    malgrado me stesso, adoratore dell’Essere Supremo, e partigiano
    della religione naturale. Il dovere! Basta che io pronunci questa
    parola per attestare, contro il mio stesso desiderio, che io sono
    doppio: Io, anzitutto, che sono legato dal dovere; e l’Altro, cioè
    Dio, che ha formato questo legame, che si è stabilito nella mia
    anima, che mi possiede tutto intero, che anche quando mi immagino,
    nel seguire la legge morale, di compiere un atto autonomo, mi guida,
    senza che io me ne accorga, con la sua imperiosa suggestione. [...]
    
    Sistema della Rivoluzione. L’altro sistema, radicalmente opposto al
    primo, e di cui la rivoluzione si è proposta di assicurare il
    trionfo, è quello dell’immanenza, o dell’inneità della giustizia
    nella coscienza.
    
    Secondo questa teoria, l’uomo, benché partito da uno stato
    completamente selvaggio, produce incessantemente, con lo sviluppo
    spontaneo della sua natura, la società. È solo per astrazione che
    egli può essere considerato allo stato di isolamento e senza altra
    legge che l’egoismo. La sua coscienza non è doppia, come insegnano i
    trascendentalisti; essa non discende affatto, da una parte,
    dall’animalità e, dall’altra, da Dio: essa è soltanto polarizzata.
    Parte integrante di una esistenza collettiva, l’uomo sente la sua
    dignità nel contempo in se stesso e negli altri, e porta così nel
    suo cuore il principio di una moralità superiore alla sua
    individualità. E questo principio non lo riceve dal di fuori; gli è
    congenito, immanente. Esso costituisce la sua essenza, l’essenza
    della società stessa. Ha la forma propria dell’animo umano, forma
    che si precisa e si perfeziona sempre più grazie alle relazioni che
    la vita sociale fa nascere ogni giorno.
    
    La giustizia, in una parola, è in noi come l’amore, come le nozioni
    del bello, dell’utile, del vero, come tutte le nostre forze e le
    nostre facoltà. Perciò io nego che, mentre nessuno pensa a riferire
    a Dio l’amore, l’ambizione, lo spirito speculativo o
    imprenditoriale, si debba fare una eccezione per la giustizia.
    
     La giustizia è umana, del tutto umana, niente altro che umana:
    sarebbe farle torto riferirla, poco o tanto, direttamente o
    indirettamente, a un principio superiore o anteriore all’umanità. La
    filosofia si occupi finché vuole della natura di Dio e dei suoi
    attributi, può essere il suo diritto e il suo dovere. Io pretendo
    che questa nozione di Dio è inutile nelle nostre costituzioni
    giuridiche, come lo sarebbe nei nostri trattati di economia politica
    o di algebra. La teoria della Ragion pratica sussiste di per se
    stessa; non presuppone né richiede l’esistenza di Dio e
    l’immortalità dell’anima, e sarebbe una menzogna se avesse bisogno
    di simili sostegni.
    
    Ecco in che senso preciso, purgato da qualsiasi reminiscenza
    teologica o sovrannaturale, io mi servo della parola immanenza. La
    giustizia ha la sua sede nell’umanità, essa è progressiva e
    indefettibile nell’umanità, perché essa appartiene all’umanità:
    questo è il mio pensiero, attinto dallo strato più profondo della
    coscienza.
    
    E quando aggiungo che il fine della Rivoluzione è stato quello di
    esprimere questo pensiero, non voglio dire che la Rivoluzione e la
    sua idea sono nate improvvisamente, in un certo luogo e in un certo
    momento; in fatto di giustizia non c’è niente di nuovo sotto il
    sole. Voglio solo dire che è soltanto a partire dalla Rivoluzione
    francese che la teoria della giustizia immanente si è affermata con
    coscienza e pienezza, è divenuta preponderante e ha preso
    definitivamente possesso della società. Come la nozione di diritto è
    eterna e innata nell’umanità, così è innata ed eterna nell’umanità
    quella di Rivoluzione. Essa non è cominciata nell’anno di grazia
    1789, in una località compresa tra i Pirenei, l’Oceano, il Reno e le
    Alpi. Essa appartiene a tutti i tempi e a tutti i Paesi, essa data
    dal giorno in cui l’uomo, non fidandosi di se stesso, ha fatto, per
    sua sfortuna, appello a un’autorità invisibile, remuneratrice e
    vendicativa; ma è alla fine del secolo scorso, e sul suolo glorioso
    di Francia, che essa ha avuto la sua esplosione più lampante.
    
    Ciò spiegato, la teoria della giustizia, innata e progressiva, si
    deduce da sola.
    
    Prima della sua immersione nella società, o per meglio dire, prima
    che la società abbia cominciato a nascere da lui grazie alla
    generazione, al lavoro e alle idee, senza dubbio l’uomo, chiuso nel
    suo egoismo, limitato alla vita animale, non sa niente della legge
    morale. Come la sua intelligenza, prima di venire stimolata dalla
    sensibilità, è vuota, senza alcuna nozione dello spazio e del tempo,
    così la sua coscienza, prima di essere stimolata dalla società, è
    ugualmente vuota, senza conoscenza né del bene né del male.
    L’esperienza delle cose, necessaria alla produzione delle idee, non
    lo è meno allo sviluppo della coscienza.
    
    Ma come nessuna comunicazione esterna potrebbe da sola creare
    l’intelligenza e far sgorgare a miriadi le idee alate senza una
    preformazione intellettuale che renda possibile il concetto, così
    anche i fatti della vita sociale potranno ben prodursi,
    l’intelligenza potrà ben coglierne il rapporto, eppure questo
    rapporto non si tradurrà mai per la volontà in legge obbligatoria
    senza una preformazione del cuore che faccia scorgere al soggetto,
    nei rapporti sociali che lo coinvolgono, non soltanto un’armonia
    naturale, ma una specie di comando segreto da se stesso a se stesso.
    
    Così, secondo la teoria dell’immanenza, quand’anche la Rivelazione
    fosse provata, essa servirebbe, come l’insegnamento del maestro
    serve al discepolo, solo nella misura in cui l’anima possedesse in
    sé la facoltà di riconoscere la legge e di farla sua: il che esclude
    radicalmente e irrevocabilmente l’ipotesi trascendentale.
    
    Ne segue che la coscienza, quale ci è data dalla natura, è completa
    e sana: tutto ciò che avviene in lei è suo; essa basta a se stessa,
    non ha bisogno né di medico né di rivelatore; anzi, questo aiuto
    celeste, sul quale la si vorrebbe fondare, non può essere che di
    ostacolo alla sua dignità, non può che impastoiarla e incepparla.
    
    Dunque, non solo la scienza della giustizia e dei costumi è
    possibile perché da una parte è fondata su una facoltà speciale
    dell’anima che ha, come l’intelletto, le sue nozioni fondamentali,
    le sue forme innate, le sue anticipazioni, i suoi pregiudizi, e
    dall’altra sulla esperienza quotidiana con le sue induzioni e le sue
    analogie, con le sue gioie e i suoi dolori; ma bisogna anche dire
    che questa scienza è possibile solo a condizione che si distacchi
    interamente dalla fede, la quale ben lungi dal servirla, la
    perverte.
    
    Nel sistema della Rivelazione, la scienza della giustizia e dei
    costumi si fonda necessariamente, a priori, sulla parola di Dio,
    spiegata e commentata dai sacerdoti. Essa non si aspetta niente
    dall’adesione della coscienza, né dalle conferme dell’esperienza. Le
    sue formule assolute sono affrancate da qualsiasi considerazione
    puramente umana; decretate in anticipo e per sempre, esse sono fatte
    per l’uomo, non dall’uomo. Ciò implicherebbe che una dottrina sacra
    non possa ricevere un po’ di luce dagli accidenti della vita sociale
    e dalla variabilità dei suoi fenomeni: sarebbe come sottomettere
    l’ordine di Dio all’apprezzamento dell’uomo, abiurare di fatto la
    Rivelazione e riconoscere l’autonomia della coscienza, cosa
    incompatibile con la fede.
    
    Tale è il diritto divino, che ha per massima l’autorità: donde tutto
    un sistema di amministrazione per gli Stati, di polizia per i
    costumi, di economia per i beni, di educazione per la gioventù, di
    restrizione per le idee, di disciplina per gli uomini.
    
    Nella teoria dell’immanenza, invece, la conoscenza del giusto e
    dell’ingiusto risulta dall’esercizio di una facoltà speciale e dal
    giudizio che la ragione porta a posteriori sui suoi atti. Perciò per
    determinare la regola dei costumi, è sufficiente osservare la
    fenomenalità giuridica a mano a mano che essa si produce nei fatti
    della vita sociale. Ne segue che, essendo la giustizia il prodotto
    della coscienza, ciascuno si trova a essere, in ultima istanza,
    giudice del bene e del male, costituito come un’autorità di fronte a
    se stesso e agli altri. Se non affermo io stesso che la tal cosa è
    giusta, invano il principe e il prete ne affermeranno la giustizia e
    mi ordineranno di farla: essa resta ingiusta e immorale, e il potere
    che pretende di obbligarmi è tirannico. Reciprocamente, se io non
    affermo nel mio stesso foro interiore che la tal cosa è ingiusta,
    invano il principe e il prete pretenderanno di impedirmela: essa
    resta giusta e morale, e l’autorità che me la impedisce illegittima.
    
    Tale è il diritto umano, che ha per massima la libertà: donde tutto
    un sistema di coordinazioni, di garanzie reciproche, di servizi
    mutui, che è il contrario del sistema di autorità.
    
    È necessario aggiungere che in questa teoria, dovendo l’uomo
    arrivare da sé, e da sé solo, alla conoscenza della giustizia, la
    sua scienza è necessariamente progressiva e gli si manifesta con
    l’esperienza, a differenza della scienza rivelata, data una volta
    per tutte e alla quale non possiamo né aggiungere né togliere una
    lettera? È, del resto, ciò che dimostra la storia delle
    legislazioni; e non è stata una piccola causa di imbarazzo il
    bisogno di accordare le condizioni di questo progresso con l’idea di
    una Rivelazione simultanea e definitiva.
    
    Ma non è tutto. Siccome l’apprendimento della legge è progressivo,
    anche la giustificazione è progressiva: fatto anch’esso attestato
    dalla storia e anch’esso inconciliabile con la teoria di una grazia
    preventiva, concomitante, e con ogni specie di soccorso, provvidenza
    e prestazione celeste.
    
    Orbene, ammessa la realtà del progresso, in primo luogo come
    condizione della conoscenza, poi come sinonimia della
    giustificazione, tutta la storia dell’umanità, delle sue
    oscillazioni, delle sue aberrazioni, delle sue cadute, dei suoi
    raddrizzamenti, trova spiegazione, fino alla negazione stessa della
    virtualità umana che sta al fondo dell’idea religiosa, fino a questa
    disperazione nella giustizia che ne è il seguito e che, con il
    pretesto di unirci a Dio, finisce con il rovinare la nostra
    moralità.
    
    Così, dalla filosofia pratica, o dalla ricerca delle leggi delle
    azioni umane, si deduce la filosofia della storia, o ricerca delle
    leggi della storia, che potrebbe altrettanto bene essere chiamata
    istoriologia, e che sta alla storiografia, descrizione dei fatti
    della storia, come l’antropologia sta all’etnografia, l’aritmologia
    alla aritmografia, ecc.
    
    Una società nella quale la conoscenza del diritto fosse completa e
    il rispetto della giustizia inviolabile, sarebbe perfetta.
    
    Il suo movimento, non obbedendo che a una costante, senza dipendere
    più da variabili, sarebbe uniforme e rettilineo; in questo caso la
    storia si ridurrebbe a quella del lavoro e degli studi, o per meglio
    dire non vi sarebbe più storia.
    
    Tale non è la condizione della vita umana, e tale non potrebbe
    essere. Il progresso della giustizia, teorico e pratico, è uno stato
    da cui non ci è dato di uscire e di vedere la fine. Noi sappiamo
    discernere il bene dal male, ma non conosceremo mai la fine del
    diritto, perché non cesseremo mai di creare fra di noi nuovi
    rapporti. Siamo nati perfettibili; non saremo mai perfetti: la
    perfezione, l’immobilità, sarebbero la morte.
    
    [Da De la justice dans la Révolution et dans l’Église, trad. it.: La
    giustizia nella Rivoluzione e nella Chiesa, UTET, Torino 1968, pp.
    127-146].
    
    
    
    capitolo quinto
    
    Per Proudhon l’ordine politico si fonda su due opposti principi:
    l’autorità e la libertà. La loro antinomia è la sicura garanzia del
    fatto che un terzo termine è impossibile; dall’altra parte il
    rapporto tra queste due polarità non può risolversi in un completo
    annullamento della prima a favore della seconda. Vi è invece la
    concezione di una complementarità fra i due termini, nel senso che
    la libertà è completa solo quando si accorda con la necessità.
    
    Oltre a un riconoscimento del tutto ovvio delle leggi oggettive
    della necessità, quale unico modo per dominarne gli effetti, vi è in
    queste considerazioni l’idea che la libertà non può farsi soggetto
    assoluto. Anch’essa deve rispettare le particolarità e le
    determinazioni del reale, deve cioè pluralizzarsi e
    contestualizzarsi entro le forme storiche e le situazioni
    determinate. Si tratta di una concezione concreta della libertà che
    si pone all’opposto della visione astratta di derivazione
    illuminista. Questo perché Proudhon avverte una sorta di rischio
    assolutistico insito nel concetto di libertà, qualora essa non venga
    divisa fra più soggetti politici e sociali. Dare un valore assoluto
    alla libertà significa assegnarle lo stesso significato che il
    giacobinismo diede alla volontà
    
     generale. Occorre invece una dialettica fra determinismi e
    libertà in grado di trasformare l’idea astratta e generale di
    libertà in tante idee concrete e particolari di libertà. Infatti, la
    divisione della libertà si realizza ripetendo il movimento della
    necessità e riconoscendone le connessioni. La necessità è dunque la
    condizione della libertà.
    
    La chiara consapevolezza del rapporto fra necessità e libertà non
    impedisce comunque a Proudhon di continuare a pensare che solo nella
    tendenza al superamento della costrizione fisica e sociale l’uomo si
    realizza come libero; un superamento per mezzo del quale l’uomo, al
    di là della spontaneità, idealizza ciò che crea, trasfigura il
    reale, rifiuta di rassegnarsi al naturale, defatalizza il suo
    destino. Si può affermare addirittura che per Proudhon la funzione
    della libertà consiste nel portare il soggetto libero al di là di
    tutte le manifestazioni, aspetti e leggi, tanto della materia quanto
    dello spirito, e dargli un carattere per così dire sovrannaturale.
    
    Dall’insieme di queste considerazioni si ricava la consapevolezza
    che per la società possono esistere solo due modelli opposti,
    definibili come il regime della libertà e il regime dell’autorità. A
    suo giudizio, in tutto il corso della storia umana sono stati
    concepiti essenzialmente solo quattro regimi politici. Essi sono
    concettualmente insuperabili, nel senso che tutti gli altri modi di
    intendere la vita umana associata devono considerarsi delle
    variabili riconducibili sempre alla fondamentale quadripartizione
    che egli stesso così sintetizza: regime di autorità, nella duplice
    forma del governo di tutti da parte di uno (monarchia o patriarcato)
    e del governo di tutti da parte di tutti (panarchia o comunismo);
    carattere peculiare di questo regime è l’indivisione del potere;
    regime di libertà, nella duplice forma del governo di tutti da parte
    di ciascuno (democrazia) e del governo di ciascuno per sé (anarchia
    o autogoverno); carattere essenziale di questo regime è la divisione
    del potere. È tutto qui. Questa classificazione, suggerita a priori
    dalla natura delle cose, è razionalmente deducibile, è matematica.
    
    Si vede subito come questa contrapposizione fra il regime di
    autorità e il regime di libertà ponga nella stessa famiglia il
    principio monarchico con il principio comunista e il principio
    anarchico con il principio democratico, in quanto il primo gruppo ha
    la sua caratterizzazione nell’indivisione del potere, il secondo
    nella divisione. Come l’anarchia è l’estremo svolgimento logico
    della democrazia, così il comunismo è l’estremo svolgimento logico
    della monarchia.
    
    
    
    Autorità e libertà
    
    L’ordine politico poggia le sue basi su due principi contrari:
    l’autorità e la libertà, il primo dei quali iniziatore, il secondo
    determinante; questo rispondente alla libera ragione, quello alla
    fede che persuade all’obbedienza.
    
    Credo che nessuno vorrà infirmare questa prima proposizione.
    L’autorità e la libertà sono in questo mondo antiche quanto la razza
    umana: nascono con noi e si perpetuano in ciascuno di noi.
    Accontentiamoci di osservare una cosa, cui pochi lettori forse
    avranno pensato: che questi due principi formano, per così dire, una
    coppia, i cui due termini, indissolubilmente legati fra loro, sono
    tuttavia irriducibili l’uno all’altro e restano, a dispetto di ogni
    nostro sforzo, in lotta perpetua fra loro. L’autorità suppone
    invincibilmente una libertà che la riconosca o la neghi; la libertà
    a sua volta, nel senso politico della parola, suppone ugualmente
    un’autorità che tratti con essa, la tolleri o raffreni. Se
    sopprimete l’una, l’altra non ha più senso: l’autorità, senza una
    libertà che discuta, resista o si sottometta, non è che una vuota
    parola; la libertà, senza un’autorità che le faccia da contrappeso,
    è un nonsenso.
    
     Il principio di autorità, principio familiare, patriarcale,
    magistrale, monarchico, teocratico, tendente alla gerarchia, alla
    centralizzazione, all’assorbimento, è dato dalla natura, perciò
    essenzialmente fatale o, se preferite, divino. La sua influenza,
    combattuta, ostacolata dal principio contrario, può estendersi
    indefinitamente o restringersi, ma mai annullarsi.
    
    Il principio di libertà, personale, individualista, critico, che
    porta alla divisione, all’elezione, alla transazione, ci è dato
    dallo spirito. Principio essenzialmente arbitrale – di conseguenza
    superiore alla natura, che esso fa suo strumento, e alla fatalità,
    che esso vuol dominare – illimitato nelle sue aspirazioni e
    suscettibile, come il suo contrario, di estendersi e di
    restringersi, ma altrettanto incapace di esaurirsi per eccesso di
    sviluppo come di venire annientato dalla costrizione.
    
    Consegue da ciò che in ogni società, anche la più autoritaria, una
    parte è necessariamente lasciata alla libertà, così come in ogni
    società, anche la più liberale, una parte è riservata all’autorità.
    E questa condizione è assoluta: nessuna varietà di costituzione
    politica vi si sottrae. Malgrado gli sforzi del nostro intelletto,
    che tende per natura a risolvere le opposizioni nell’unità, questi
    due principi restano l’uno di fronte all’altro, in perpetua
    opposizione; e ogni moto politico risulta dalla loro ineluttabile
    tendenza diversa e dalle loro mutue reazioni.
    
    Tutto ciò, lo ammettiamo, non è forse cosa molto nuova, e più di un
    lettore si domanderà se non ho proprio nient’altro da insegnargli.
    Nessuno nega la natura né lo spirito, per quanto oscuri possano
    essere tali concetti; e a nessun scrittore è mai venuto in mente di
    negare il diritto all’esistenza della libertà o dell’autorità,
    sebbene risulti ugualmente impossibile conciliarle, farle vivere
    separate, o eliminare una delle due. Quale può essere dunque il mio
    scopo ribadendo questo luogo comune?
    
    Lo dirò subito: mostrare che tutte le costituzioni politiche e tutti
    i sistemi di governo, compreso il federalismo, possono ricondursi a
    questa formula: l’autorità controbilanciata dalla libertà, e
    viceversa.
    
     E questo fa sì che tutte le categorie adottate da Aristotele
    in poi da tanti autori per classificare le forme di governo,
    distinguere i vari tipi di Stato e caratterizzare le singole
    nazioni, e cioè monarchia, aristocrazia, democrazia, ecc.
    (eccettuando però qui il federalismo) si riducono a costruzioni
    puramente ipotetiche ed empiriche a un tempo, nelle quali la ragione
    e la giustizia possono trovar soddisfazione solo in modo assai
    imperfetto. Perché tutti quei sistemi di governo, fondati su
    principi ugualmente incompleti, che differiscono fra loro solo per
    la diversità degli interessi, dei pregiudizi e delle abitudini
    inveterate, in sostanza si rassomigliano e si equivalgono: al punto
    che, se non fosse per il disagio che fatalmente comportano nella
    pratica tali falsi sistemi, e per le conseguenti accuse reciproche a
    causa delle passioni frustrate e degli interessi misconosciuti e
    delle ambizioni deluse, per quanto riguarda i loro fondamenti tutti
    gli uomini non sarebbero poi così discordi. E perché infine tutte
    quelle divisioni di partiti, tra i quali la nostra immaginazione
    scava degli abissi, tutti quei contrasti di opinioni che ci sembrano
    insolubili, quegli antagonismi di interessi pratici che ci sembrano
    irrimediabili, si avviano a trovare il loro definitivo equilibrio
    nelle teorie del governo federativo.
    
    Quante cose volete far nascere, dirà qualcuno, da una semplice
    opposizione formale: autorità-libertà! E così è. Perché avendo
    osservato che le intelligenze comuni, i bambini, colgono assai
    meglio la verità concentrata in una formula astratta che non diluita
    in un volume di dissertazioni e di fatti, io ho voluto al contempo
    ridurre il mio lavoro all’essenziale per tutti quelli che non
    possono stare a leggere tanti libri, e renderlo più perentorio
    basandomi su nozioni semplici. L’autorità e la libertà, due idee
    opposte fra loro e condannate a vivere in perpetua lotta o a perire
    insieme: non è certo un concetto molto difficile. Che l’amico
    lettore abbia la pazienza di proseguire, e se ha compreso questo
    primo e breve paragrafo, potrà dirmi poi quel che pensa degli altri.
    
    Abbiamo individuato i due principi fondamentali e antitetici di ogni
    governo: autorità e libertà. Data la tendenza del nostro spirito a
    ricondurre tutte le sue nozioni a un principio unico, e quindi
    eliminare quelle che sembrano incompatibili con quel principio, due
    differenti tipi di governo si deducono solitamente a priori da
    quelle due nozioni basilari, secondo la preminenza o preferenza che
    si vuol accordare all’una o all’altra, e sono: il regime di autorità
    e il regime di libertà. Essendo inoltre la società composta da
    individui, e potendosi classificare i rapporti fra individuo e
    società in quattro diversi modi, ne risultano quattro tipi di
    governo, due per ciascun regime:
    
    1. regime di autorità: a) governo di tutti da parte di uno:
    monarchia o patriarcato; b) governo di tutti da parte di tutti:
    panarchia o comunismo; e il carattere essenziale di questo regime di
    autorità, in ambedue le specie, è l’indivisione del potere;
    
    2. regime di libertà: a) governo di tutti da parte di ciascuno:
    democrazia; b) governo di ciascuno per sé: anarchia o autogoverno; e
    il carattere essenziale di questo regime di libertà, in ambedue le
    specie, è la divisione del potere.
    
    Questa classificazione a priori, logicamente dedotta dai dati di
    fatto, è assoluta e matematica. Se si vuol far dipendere la politica
    da un ragionamento di tipo sillogistico, come tesero a supporre
    tutti gli antichi legislatori, essa non può uscire da questi schemi.
    E tale semplicismo originario è degno di tutta la nostra attenzione:
    ci fa vedere che fin dalle origini, e sotto tutti i regimi, gli
    ordinamenti statali hanno cercato di dedurre le loro costituzioni
    partendo da un solo elemento, ma che questo modo di ragionare
    nell’arte politica è primordiale. Ebbene, in ciò sta precisamente
    l’errore.
    
    1. Noi sappiamo qual è la base del governo monarchico, espressione
    primitiva del principio di autorità (mi basti rimandarvi a de
    Bonald): è l’autorità paterna. La famiglia è l’embrione della
    monarchia: i primi Stati furono in genere famiglie o tribù governate
    dal loro capo naturale, marito, padre, patriarca e, finalmente, re.
    
     In tal regime, lo Stato si sviluppa in due modi: o per
    generazione e moltiplicazione naturale della famiglia, tribù o
    razza; o per adozione, cioè incorporazione volontaria o forzata
    delle famiglie e tribù circostanti, ma in modo tale che queste nuove
    tribù vadano a comporre con la tribù madre una sola famiglia,
    restando come questa sottoposta allo stesso capo domestico. Questo
    secondo sviluppo dello Stato-famiglia può arrivare a proporzioni
    immense, fino a centinaia di milioni di uomini sparsi su centinaia
    di migliaia di leghe.
    
    La panarchia poi, o pantocrazia, o comunità, si produce naturalmente
    per la morte del monarca o capo famiglia e la dichiarazione dei
    sudditi, fratelli, figli o associati, di restare indivisi senza
    tuttavia scegliersi un nuovo capo. Questa forma politica è rara per
    non dire praticamente inesistente, poiché l’autorità dello Stato è
    in essa più pesante e l’individualità più oppressa che con qualunque
    altro regime. Non la possiamo vedere adottata se non dalle
    associazioni religiose, le quali, in tutti i Paesi e con qualunque
    culto, hanno mirato sempre all’annientamento della libertà. Tuttavia
    il suo principio è naturalmente dedotto dall’idea di autorità, come
    il regime monarchico, e si può trovarlo applicato in certi governi
    «di fatto»; cosicché ci era pur necessario farne menzione.
    
    Così la monarchia, fondata sul fatto naturale della famiglia e
    giustificata dal naturale principio di autorità, ha una sua
    legittimità e una sua moralità; e lo stesso si può dire del
    comunismo. Ma vedremo ben presto come queste due varietà del regime
    di autorità non possano, benché si fondino su un fatto di natura e
    sulle sue conseguenze logiche, mantenersi rigorosamente costrette
    nel rigoroso ossequio al loro principio e nella purezza della loro
    essenza, e che esse sono di conseguenza condannate a restare sempre
    allo stato di ipotesi. E infatti, malgrado la loro origine
    patriarcale, il loro ideale pacifico, il fascino dell’assolutismo e
    del diritto divino, in nessuna parte del mondo possiamo trovare
    monarchia o comunismo che siano rimasti fedeli al loro archetipo.
    
     2. Come nasce d’altra parte il regime democratico, spontanea
    espressione del principio di libertà? Rousseau e la Rivoluzione ce
    l’hanno insegnato: in base a una convenzione. Qui la filosofia non
    c’entra più, lo stato di libertà ci appare non più come il prodotto
    della natura organica, della carne, ma della natura intelligibile,
    cioè lo spirito.
    
    Sotto quest’altro regime, lo sviluppo dello Stato si ha per
    accessione o libera adesione. Come si presuppone che tutti i
    cittadini abbiano aderito al contratto-base, così lo straniero che
    si fa cittadino si suppone abbia dato la stessa adesione; e solo a
    questa condizione egli ottiene i diritti e le prerogative degli
    altri. Se lo Stato si troverà a far guerra e si farà conquistatore,
    il suo principio lo porterà ad accordare alle popolazioni
    conquistate gli stessi diritti di cui godono i propri cittadini: è
    quel che si indica con il termine isonomia. Così procedevano i
    Romani quando concedevano il diritto di cittadinanza. E i fanciulli
    stessi, quando giungono alla maggiore età, è come se avessero
    giurato lo stesso patto: essi non diventano cittadini, in realtà,
    perché sono figli di cittadini, come accade nella monarchia dove i
    figli del suddito sono anch’essi sudditi per nascita, o nelle
    comunità di Licurgo e di Platone dove, nascendo, essi sono dello
    Stato; per essere membro di una democrazia, indipendentemente dalla
    propria qualità di ingenuus, bisogna, in teoria, aver liberamente
    accettato quel sistema di governo.
    
    La stessa cosa accadrà per l’accessione di una famiglia, di una
    città, di una provincia: la libertà è sempre la base del fatto e lo
    giustifica.
    
    Così allo sviluppo dello Stato autoritario, patriarcale, monarchico
    o comunista, si oppone lo sviluppo dello Stato liberale,
    contrattuale e democratico. E come non ci sono limiti naturali per
    l’estensione della monarchia (e ciò in tutti i tempi e in tutti i
    popoli ha suggerito l’idea di una monarchia universale o
    messianica), non ci sono neppure limiti naturali per l’estensione
    dello Stato democratico (e ciò suggerisce ugualmente l’idea di una
    democrazia o repubblica universale).
    
     Come varietà del regime liberale, ho segnalato l’anarchia, o
    governo del singolo da parte del singolo, cioè autogoverno. Poiché
    l’espressione «governo anarchico» implica una specie di
    contraddizione, la cosa sembra impossibile e l’idea assurda.
    Tuttavia il difetto è qui soltanto nell’espressione: la nozione di
    anarchia, in politica, è altrettanto razionale e positiva quanto le
    altre. Essa consiste nel fatto che, qualora si riducessero le
    funzioni politiche alle funzioni dell’umana industria, l’ordine
    sociale risulterebbe dal solo fatto delle transazioni e degli
    scambi; e ciascuno allora potrebbe chiamarsi autocrate di se stesso,
    che è l’estremo opposto dell’assolutismo monarchico*.
    
    E ancora: come la monarchia e il comunismo, fondati su un fatto di
    natura e sulla logica, hanno la loro legittimità e la loro moralità,
    senza che tuttavia possano mai realizzarsi in tutto il rigore e la
    purezza della loro idea, così la democrazia e l’anarchia, fondate
    sul principio della libertà e sui suoi diritti, e perseguendo un
    ideale logicamente dedotto da tal principio, hanno la loro
    legittimità e la loro moralità. Ma vedremo altresì come, malgrado la
    loro origine giuridica e razionalista, neppure questi regimi
    possano, accrescendo e sviluppandosi in popolazione e territorio,
    mantenersi rigorosamente e limpidamente coerenti con la loro
    primitiva idea, e restino perciò condannati a uno stato di
    desiderata perpetuo: malgrado il potente fascino della libertà, né
    la democrazia né l’anarchia si sono mai in alcun luogo costituite
    nella pienezza e integrità della loro idea.
    
    * Proudhon, in una lettera del 20 agosto 1864 a «l’éditeur du
    Dictionnaire Larousse», specifica ulteriormente: «[Quanto
    all’anarchia], ho inteso indicare con questo termine il limite
    estremo del progresso politico. L’anarchia è, se così posso
    esprimermi, una forma di governo o di costituzione in cui la
    coscienza pubblica e privata, formata dallo sviluppo della scienza e
    del diritto, è di per sé sufficiente a mantenere l’ordine e a
    garantire tutte le libertà; di conseguenza il principio di autorità,
    le istituzioni preventive e repressive e la burocrazia sono ridotte
    alla loro forma più semplice, e a maggior ragione sono scomparse le
    forme monarchiche e la forte centralizzazione, sostituite dalle
    istituzioni federative e dai costumi comunali. Quando la vita
    politica e l’esistenza domestica saranno identificate, quando, con
    la soluzione dei problemi economici, gli interessi sociali e
    individuali saranno equilibrati e solidali, è evidente che
    scomparirà ogni costituzione e saremo in piena libertà, cioè in
    anarchia. La legge sociale si compirà da se stessa, senza bisogno di
    ordine e sorveglianza, grazie alla spontaneità universale» [N.d.C.].
    
    [Da Du principe fédératif, trad. it. (estratti): in P. Ansart, P.-J.
    Proudhon, La Pietra, Milano 1978, pp. 260-265].
    
    
    
    capitolo sesto
    
    Il principio proudhoniano di associazione riprende implicitamente il
    concetto di forza collettiva per applicarlo alla libertà: come
    l’unione degli sforzi individuali genera nel gruppo sociale una
    forza superiore alle individualità, altrettanto la sintesi delle
    autentiche facoltà umane genera una forza d’azione superiore alle
    singole facoltà. Attraverso questa forza superiore l’uomo si
    sperimenta come libero e può opporsi al mondo e trasformarlo. La
    nuova associazione umana dovrà quindi emergere da complesse e
    molteplici esperienze culturali e spirituali, dall’uso contemporaneo
    e libero di ogni talento, dalla messa in opera di tutte quelle
    condizioni atte a favorire la capacità da parte dell’uomo di
    riprogettarsi continuamente. Di qui la concezione di una naturale
    confluenza fra sviluppo intellettuale e sviluppo fisico, quello
    sviluppo in grado di comporre sinteticamente l’unità dello
    studio-lavoro che, nell’equilibrio fra teoria e prassi, caratterizza
    l’uomo completo ed emancipato. Ciò che sta alla base dell’obiettivo
    proudhoniano dell’integrazione, per ogni individuo, del lavoro
    manuale con quello intellettuale, è quindi la convinzione teorica
    che solo l’unità sintetica di idea e fatto, di teoria e prassi,
    possa esprimere e realizzare la naturale completezza psico-fisica
    dell’uomo, cioè quella forza collettiva che è propria delle sue
    possibilità e che può renderlo libero.
    
    Questa integrazione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale in
    ogni individuo comporta l’abolizione della divisione gerarchica tra
    funzioni intellettuali e funzioni manuali nell’organizzazione
    produttiva e sociale, e contemporaneamente l’abolizione della
    divisione verticale fra idea e azione, teoria e prassi, nel processo
    generale di liberazione. Infatti, come la funzione politica separata
    dall’azione sociale delle masse si concreta nella tutela della
    società da parte dello Stato, così le funzioni intellettuali
    separate da quelle manuali si concretano socialmente in classi
    dominanti all’interno della produzione sociale.
    
    Alla divisione della società gerarchica, Proudhon oppone la
    concezione libertaria ed egualitaria di una società economica
    autogestita e composta da produttori autonomi e uguali; al principio
    statale, quello dei partigiani della libertà, secondo i quali la
    società deve essere considerata non come una gerarchia di funzioni e
    di facoltà, ma come un sistema di equilibri fra forme libere, in cui
    ognuno ha garanzia di conseguire i medesimi diritti purché sottostia
    agli stessi doveri, di ottenere gli stessi vantaggi in compenso dei
    medesimi servizi, sistema questo essenzialmente egualitario.
    
    Si precisa così la concezione proudhoniana dell’autogestione:
    libertà di movimento e di rotazione degli incarichi per tutti,
    capacità di controllo da parte dei produttori in virtù di una
    conoscenza che da individuale si è fatta collettiva, gestione
    dell’intera serie dei processi produttivi attraverso una conoscenza
    integrale fattasi equilibrio fra scienza e lavoro, teoria e prassi,
    idea e azione.
    
    L’organizzazione policentrica e federalista di ogni nucleo
    produttivo, sotto il governo di tutti quelli che la compongono, è
    l’obiettivo del tutto logico e naturale della visione proudhoniana
    della rivoluzione economica, che si contrappone in modo frontale
    alla rivoluzione politica. Questa rivoluzione non può coinvolgere
    solo la classe operaia, ma deve investire più classi, ceti, gruppi,
    individui, posti sotto il segno dello sfruttamento e
    dell’oppressione, e tutti aggregati attorno a un progetto di
    trasformazione dal basso delle strutture produttive e sociali.
    
    
    
     L’associazione degli uguali
    
    L’unione delle forze, da non confondere con l’associazione, come
    mostreremo fra poco, è anch’essa, allo stesso titolo del lavoro e
    dello scambio, produttrice di ricchezza. È una potenza economica di
    cui io per primo, credo, ho fatto notare l’importanza, nella mia
    prima tesi sulla proprietà. Cento uomini, che uniscono o combinano i
    loro sforzi, producono, in certi casi, non cento volte come uno, ma
    duecento volte, trecento volte, mille volte. A ciò ho dato il nome
    di forza collettiva.
    
    Da questo fatto ho anche tratto un argomento, rimasto come tanti
    altri senza risposta, contro un certo tipo di appropriazione: perché
    non basta più allora pagare semplicemente il salario a un dato
    numero di operai per acquistare legittimamente il loro prodotto, ma
    bisognerebbe pagare questo salario due, tre, dieci volte di più,
    oppure render a ciascuno di essi, di volta in volta, un servizio
    analogo.
    
    La forza collettiva: ecco dunque un altro principio che, pur nella
    sua nudità metafisica, è però produttore di ricchezza. Lo si trova
    ugualmente applicato in tutti quei casi in cui il lavoro
    individuale, per quante volte lo si ripeta, è destinato a rimanere
    importante. Eppure, non esiste una legge che prescriva tale
    applicazione. Anzi, c’è da osservare che gli utopisti societari non
    ne hanno mai fatto un loro cavallo di battaglia. La verità è che la
    forza collettiva è un atto impersonale, mentre l’associazione è un
    impegno volontario; tra l’una e l’altra ci può essere un punto di
    incontro, ma non identità.
    
    Supponiamo ancora, come nell’esempio precedente, che la società che
    lavora sia composta solo di operai isolati che non sanno né
    combinare né cumulare i loro strumenti: l’industriale che
    improvvisamente svelasse questo segreto farebbe da solo per il
    progresso delle ricchezze più di quanto non abbiano fatto il vapore
    e le macchine, poiché l’impiego stesso delle macchine e del lavoro
    non sarebbe possibile senza di lui. Costui sarebbe uno dei più
    grandi benefattori dell’umanità, un rivoluzionario veramente fuori
    dell’ordinario.
    
    Sorvolo su altri fatti dello stesso genere, che pure potrei citare,
    come la concorrenza, la divisione del lavoro, la proprietà, ecc., e
    che insieme costituiscono ciò che io definisco forze economiche,
    principi produttori di realtà. Una descrizione più dettagliata di
    tali forze si può trovare nelle opere degli economisti, i quali,
    proprio con il loro assurdo disdegno della metafisica, hanno
    dimostrato, senza volerlo, per mezzo della teoria delle forze
    industriali, il dogma fondamentale della teoria cristiana, la
    creazione de nihilo.
    
    Si tratta adesso di sapere se l’associazione è una di quelle forze
    essenzialmente immateriali, le quali, agendo, diventano produttrici
    di effetti utili e fonti di benessere; perché è evidente che
    soltanto a questa condizione il principio societario – e non faccio
    qui distinzioni tra una scuola e l’altra – può presentarsi come
    soluzione del problema del proletariato.
    
    L’associazione, in una parola, è una potenza economica? È da
    vent’anni ormai che viene raccomandata, che se ne aspettano gli
    effetti miracolosi. Com’è possibile che nessuno riesca a dimostrarne
    l’efficacia? l’efficacia dell’associazione sarebbe, per caso, più
    difficile da dimostrare di quella del commercio, del credito o della
    divisione del lavoro?
    
     Per quanto mi riguarda, la mia risposta è categorica: no,
    l’associazione non è una forza economica. L’associazione è sterile
    per natura, perfino nociva, perché è un impedimento alla libertà del
    lavoratore. Gli autori responsabili delle utopie fraternali, da cui
    tanta gente si lascia ancora sedurre, hanno attribuito senza
    ragione, senza prove, al contratto di associazione una virtù e una
    efficacia proprie soltanto alla forza collettiva, alla divisione del
    lavoro o allo scambio. Il pubblico non si è accorto della
    confusione: di qui la costituzione di associazioni affidate al caso,
    i loro destini così diversi e le incertezze dell’opinione.
    
    Quando un’associazione, industriale o commerciale, ha per scopo di
    mettere in opera una delle grandi forze economiche, oppure di
    sfruttare un fondo la cui natura esige che resti indiviso, un
    monopolio, una clientela, l’associazione formata a tale scopo può
    prosperare; ma tale risultato essa non lo raggiunge in virtù del suo
    principio, essa lo deve ai suoi mezzi. Il che del resto è dimostrato
    dal fatto che tutte le volte che lo stesso risultato può essere
    ottenuto senza associazione, si preferisce non associarsi.
    L’associazione è un vincolo per natura contrario alla libertà; e noi
    acconsentiamo a sottometterci a esso soltanto alla condizione di
    ricevere una indennità sufficiente. Sicché è possibile contrapporre
    a tutti gli utopisti societari la seguente regola pratica: l’uomo si
    associa sempre suo malgrado e perché non può fare diversamente.
    
    Bisogna distinguere dunque tra il principio di associazione e i
    mezzi, variabili all’infinito, di cui una società, per effetto di
    circostanze esterne estranee alla sua natura, dispone, e tra i quali
    colloco al primo posto le forze economiche. Il principio è qualcosa
    che, in assenza di altri motivi, non incoraggerebbe nessuno a
    imbarcarsi in una qualunque impresa; i mezzi sono ciò per cui alla
    fine, nella speranza di ottenere un certo utile, ci si rassegna a
    sacrificare l’indipendenza. Esaminiamo, in effetti, questo
    principio; ritorneremo dopo sui mezzi.
    
    Chi dice associazione dice necessariamente solidarietà,
    responsabilità comune, fusione, nei confronti di terzi, dei diritti
    e dei doveri. Proprio così l’intendono tutte le società fondate sul
    principio fraternale e su quello dell’armonia, anche se parlano poi
    di concorrenza emulativa.
    
    Nell’associazione, chi fa ciò che può fa ciò che deve: solo per il
    socio debole o pigro, e per lui soltanto, si può dire che
    l’associazione produca profitto. Di qui l’uguaglianza dei salari,
    legge suprema dell’associazione.
    
    Nell’associazione, tutti rispondono di tutti: il più piccolo vale
    quanto il più grande; l’ultimo arrivato ha gli stessi diritti del
    più anziano. L’associazione cancella tutte le colpe, livella tutte
    le disuguaglianze: di qui la solidarietà della cialtroneria e
    dell’incapacità.
    
    La formula dell’associazione è dunque questa, ed è Louis Blanc che
    ce l’ha data:
    
    Da ognuno secondo le sue capacità, A ognuno secondo i suoi bisogni.
    
    Il codice, nelle sue diverse definizioni della società civile e
    commerciale, è d’accordo con l’oratore del Luxembourg: qualsiasi
    allontanamento da tale principio costituisce un ritorno
    all’individualismo.
    
    Così spiegata da socialisti e giuristi, può l’associazione
    generalizzarsi, diventare la legge universale e superiore, il
    diritto pubblico e civile di tutta una nazione, dell’intera umanità?
    
    Questa è la domanda posta dalle varie scuole societarie, le quali,
    pur variando la loro regolamentazione, si pronunciano tutte,
    all’unanimità, in modo affermativo.
    
    Invece a questo io rispondo: no, il contratto di associazione, quale
    che sia la sua forma, non può mai diventare la legge universale,
    perché essendo per natura improduttivo e fastidioso, applicabile
    soltanto in casi del tutto speciali, e crescendo i suoi
    inconvenienti molto più in fretta dei suoi vantaggi, esso è al tempo
    stesso contrario sia all’economia del lavoro, sia alla libertà del
    lavoratore. Donde arrivo alla conclusione che una società del genere
    non potrà mai abbracciare né tutti gli operai di una stessa
    industria, né tutte le corporazioni industriali, né a maggior
    ragione una nazione di 36 milioni di uomini; e perciò il principio
    societario non contiene la soluzione richiesta.
    
    Aggiungo che l’associazione non solo non è una forza economica, ma
    che è applicabile soltanto in casi speciali, che dipendono dai mezzi
    a disposizione. È facile rendersi conto oggi, con i fatti, di questa
    seconda affermazione e quindi determinare il ruolo dell’associazione
    nel XIX secolo.
    
    Il carattere fondamentale dell’associazione, l’abbiamo detto, è la
    solidarietà. Ora, quale ragione può spingere gli operai a farsi
    solidali gli uni con gli altri, ad alienare la loro indipendenza, a
    sottomettersi alla legge assoluta di un contratto e, quel che è
    peggio, di un gestore?
    
    La ragione può essere molto diversa, ma sempre obiettiva, esterna
    alla società.
    
    Ci si associa, talvolta per conservare una clientela, messa insieme
    originariamente dall’opera di un unico imprenditore, ma che gli
    eredi separandosi rischierebbero di disperdere; talvolta per
    sfruttare in comune una industria, un brevetto, un privilegio, ecc.,
    che non è possibile far valere altrimenti, o che renderebbe di meno
    a ognuno di essi se entrassero in concorrenza; talvolta per
    l’impossibilità di ottenere altrimenti il capitale necessario;
    talvolta infine per livellare e ripartire i rischi di perdite
    causate da naufragio, incendio, servizi ripugnanti e penosi, ecc.
    
    Andate fino in fondo e scoprirete che, se una qualunque società
    prospera, essa lo deve a una causa obiettiva, estranea, che non
    dipende affatto dalla sua essenza e senza la quale, lo ripeto, tale
    società, per quanto sapientemente organizzata, non vivrebbe.
    
    Infatti, nel primo dei casi che abbiamo appena segnalato, la società
    ha lo scopo di sfruttare una vecchia reputazione, che da sola
    procura la maggior parte dei profitti; nel secondo, essa si fonda su
    un monopolio, cioè su quanto di più esclusivo e antisociale possa
    esserci; nel terzo, la società in accomandita, quello che la società
    mette in atto è una forza economica, sia la forza collettiva, sia la
    divisione del lavoro; nel quarto, la società si confonde con
    l’assicurazione: è un contratto aleatorio, inventato appunto per
    supplire all’assenza o all’inerzia della fratellanza.
    
    È evidente che in nessuno di questi casi la società sussiste in
    virtù del suo principio; essa dipende dai mezzi che ha, cioè da una
    causa esterna. Ora, quello che ci è stato promesso, e di cui abbiamo
    bisogno, è invece un principio primo, vivificante, efficace.
    
    Ci si associa ancora per l’economia di consumo, al fine di evitare
    il danno delle compere al minuto. Questo è il mezzo che si consiglia
    ai nuclei familiari modesti, a chi non dispone di risorse
    sufficienti per comprare all’ingrosso. Ma questo tipo di
    associazione, che poi è quella dei compratori di carne all’asta,
    testimonia contro il principio. Consentite a ogni produttore di
    commerciare all’ingrosso, o, che poi è lo stesso, organizzate il
    commercio al minuto in modo tale che, per quanto riguarda i prezzi,
    offra gli stessi vantaggi della vendita all’ingrosso, e
    l’associazione diventa inutile. D’altronde, le persone agiate non
    hanno bisogno di entrare in questi gruppi: vi troverebbero più
    fastidi che vantaggi.
    
    E si noti ancora che in ogni società così costituita su una base
    positiva, la solidarietà del contratto non si estende mai al di là
    dello stretto necessario. Gli associati rispondono l’uno dell’altro
    di fronte a terzi e di fronte alla giustizia, certo, ma soltanto per
    quel che riguarda gli affari della società; al di fuori, cessa la
    solidarietà. In seguito a questa norma diverse associazioni operaie
    di Parigi, che prima avevano voluto, per eccesso di dedizione,
    superare le regole abituali e costituirsi secondo il principio
    dell’uguaglianza dei salari, sono state costrette a desistere.
    Dappertutto oggi i soci lavorano a cottimo, di modo che là dove la
    quota sociale consiste soprattutto in lavoro, nel senso che ogni
    socio viene remunerato, in salario e profitto, proporzionalmente al
    suo prodotto, la società operaia non è altro che la contropartita
    della società in accomandita; cioè una società in accomandita in cui
    il fondo iniziale, anziché consistere in denaro, è fatto di lavoro,
    il che poi è la negazione della fratellanza stessa. In ogni
    associazione, insomma, i soci, cercando attraverso l’unione delle
    forze e dei capitali dei vantaggi che non potrebbero ottenere
    altrimenti, si danno da fare per ricevere la minore solidarietà e la
    maggiore indipendenza possibili. Chiaro? Non è forse il caso di
    esclamare, come san Tommaso, «conclusum est adversus manichaeos»?
    
    Sì, l’associazione formata specificamente in vista del legame di
    famiglia e della legge della dedizione, al di là di ogni
    considerazione economica esterna, di ogni interesse preponderante,
    l’associazione fine a se stessa, insomma, è un atto di pura
    religione, un vincolo soprannaturale senza valore positivo, un mito.
    
    È quello che colpisce di più quando si passa all’esame delle diverse
    teorie dell’associazione proposte all’accettazione degli adepti.
    Fourier, per esempio, e dopo di lui Pierre Leroux, danno per certo
    che se i lavoratori si raggruppano secondo determinate affinità
    organiche e mentali, delle quali forniscono le caratteristiche,
    soltanto per questo fatto essi possono far aumentare le loro energie
    e le loro capacità; che lo slancio del lavoratore, ordinariamente
    tanto penoso, può diventare allegro e gioioso; che il prodotto,
    tanto quello individuale che quello collettivo, può aumentare di
    molto; che in questo consiste la virtù produttrice
    dell’associazione, che potrebbe quindi essere considerata una forza
    economica. Il lavoro piacevole è la formula convenzionale per
    designare questo meraviglioso risultato dell’associazione. Come si
    vede, è una cosa ben diversa dalla dedizione alla quale si fermano
    così pietosamente le teorie di Louis Blanc e di Cabet.
    
    Oserei dire che i due eminenti socialisti, Fourier e Pierre Le-
    
    roux, hanno scambiato i loro simboli con la realtà. Innanzi tutto,
    nessuno ha mai visto in azione da nessuna parte questa forza
    societaria, questa specie di analogo della forza collettiva e della
    divisione del lavoro; gli inventori stessi, e i loro discepoli che
    tanto ne hanno parlato, ancora non hanno fatto la loro prima
    esperienza. D’altra parte, la più superficiale conoscenza dei
    principi dell’economia politica e della psicologia basta a far
    comprendere che non può esserci nulla in comune tra un eccitamento
    dell’anima, quali la gaiezza del lavoro artigianale, il canto di
    manovra dei vogatori, ecc., e una forza industriale. Anzi, tali
    manifestazioni spesso sono contrarie alla gravità, alla
    concentrazione taciturna propria del lavoro. Il lavoro è, insieme
    con l’amore, la funzione più segreta, più sacra dell’uomo: si
    irrobustisce con la solitudine, si decompone con la prostituzione.
    
    Ma a prescindere da queste considerazioni psicologiche e
    dall’assenza di qualsiasi dato sperimentale, chi può non accorgersi
    che quello che i due autori hanno creduto di scoprire dopo tante
    profonde ricerche, l’uno nella Serie di gruppi contrastati, l’altro
    nella Triade, altro non è che l’espressione mistica e apocalittica
    di ciò che da sempre è esistito nella pratica industriale, ovvero la
    divisione del lavoro, la forza collettiva, la concorrenza, lo
    scambio, il credito, la proprietà stessa e la libertà? chi non si
    accorge che degli utopisti antichi e moderni si può dire la stessa
    cosa dei teologi di tutte le religioni? Mentre questi ultimi, nei
    loro misteri, non facevano altro che descrivere le leggi della
    filosofia e del progresso umanitario, quelli, nelle loro tesi
    filantropiche, sognano senza saperlo le grandi leggi dell’economia
    sociale. Ora, queste leggi, le potenze della produzione che devono
    salvare l’uomo dalla povertà e dal vizio, sono più o meno quelle che
    ho citato prima. Ecco le vere forze economiche, principi immateriali
    di ogni ricchezza che, senza incatenare l’uomo all’uomo, lasciano al
    produttore la libertà più completa, alleviano il lavoro, lo
    appassionano, raddoppiano il suo prodotto, creano tra gli uomini una
    solidarietà che non ha nulla di personale, e li uniscono con dei
    legami più forti di tutte le combinazioni simpatiche e di tutti i
    contratti.
    
    I miracoli annunciati dai due profeti sono noti da secoli. Di quella
    grazia efficace prefigurata dall’organizzazione della serie, di quel
    dono del divino amore promesso dal discepolo di Saint-Simon ai suoi
    ternari, possiamo osservarne l’influenza, per quanto corrotta sia,
    per quanto anarchica ce l’abbiano trasmessa i rivoluzionari
    dell’89-93, possiamo seguirne l’oscillazione in Borsa e sui nostri
    mercati. Si risveglino una buona volta gli utopisti dalle loro
    estasi sentimentali, si degnino di gettare uno sguardo su ciò che
    accade intorno a loro; leggano, ascoltino, facciano delle
    esperienze: si accorgeranno allora che quello che essi attribuiscono
    con tanto entusiasmo, l’uno alla serie, l’altro alla trinità, un
    altro ancora alla dedizione, non è altro che il prodotto delle forze
    economiche analizzate da Adam Smith e dai suoi successori.
    
    Dato che mi sono impegnato in questa discussione soprattutto
    nell’interesse della classe lavoratrice, prima di finire vorrei dire
    ancora qualcosa sulle associazioni operaie, i risultati da esse
    ottenuti, il ruolo che devono svolgere nella rivoluzione. Queste
    società sono state formate, in maggioranza, da uomini imbevuti di
    teorie fraternali e convinti, pur senza rendersene conto,
    dell’efficacia economica del principio. In generale, sono state
    accolte con simpatia; hanno goduto il favore dei repubblicani che,
    fin dall’inizio, hanno procurato loro la necessaria clientela di
    partenza; non è mancata loro neppure la pubblicità sui giornali:
    tutti elementi di successo di cui non si è tenuto abbastanza conto,
    ma perfettamente estranei al principio.
    
    Attualmente, come vanno concretamente le cose? Un buon numero di
    queste società riescono a stare in piedi e promettono di svilupparsi
    ancora: si sa il perché. Alcune sono composte degli operai più abili
    del settore; cioè si reggono sul monopolio delle capacità. Altre
    hanno attirato e conservano la clientela mantenendo bassi i prezzi;
    è la concorrenza che le fa vivere.
    
    Non parlo di quelle che hanno ottenuto commesse e crediti dallo
    Stato: incoraggiamento puramente gratuito.
    
    Generalmente, infine, in queste associazioni gli operai, per
    sbarazzarsi di tutti gli intermediari, commissionari, imprenditori,
    capitalisti, ecc., che secondo la logica del vecchio stato di cose
    si interpongono tra il produttore e il consumatore, hanno dovuto
    lavorare un po’ di più e accontentarsi di un salario minimo. Tutte
    cose abbastanza ordinarie nel campo dell’economia politica, per
    ottenere le quali, come dicevo prima, non è affatto necessaria
    l’associazione.
    
     Senza dubbio, i membri di queste associazioni, nei rapporti
    reciproci e in quelli con il pubblico, sono animati dai più fraterni
    sentimenti. Ma sono sicuri che questa fratellanza, ben lontana
    dall’essere la causa dei loro successi, non abbia al contrario la
    sua origine nella giustizia severa che regna nei loro reciproci
    rapporti? si rendono conto di quello che potrebbe accadere se la
    garanzia della loro impresa non risiedesse in qualcosa di ben
    diverso dalla carità che li anima, e che non è altro che il cemento
    dell’edificio del quale il lavoro e le forze che lo moltiplicano
    sono le pietre?
    
    Quanto alle società che per sostenersi hanno semplicemente la virtù
    problematica dell’associazione, e la cui attività può esercitarsi in
    esclusiva, senza riunione di operai, esse stentano moltissimo ad
    andare avanti e riescono a scongiurare il vuoto della loro
    costituzione solo grazie agli sforzi di dedizione, ai continui
    sacrifici, a un illimitato spirito di rassegnazione.
    
    Si citano, come esempio di un rapido successo, le associazioni per
    la macelleria, che oggi vanno tanto di moda. Questo esempio, meglio
    di ogni altro, mostra fin dove arriva la disattenzione del pubblico
    e l’erroneità delle idee.
    
    Le macellerie cosiddette societarie di societario hanno soltanto
    l’insegna; si tratta della concorrenza organizzata in comune da
    cittadini di ogni ceto contro il monopolio dei macellai. Non è altro
    che l’applicazione di un nuovo principio, per non dire di una nuova
    forza economica, la reciprocità, che consiste nel fatto che quelli
    che partecipano allo scambio si garantiscono a vicenda, e
    irrevocabilmente, i loro prodotti a prezzo di costo.
    
    Ora, questo principio sul quale si basano essenzialmente le
    cosiddette macellerie societarie ha così poco a che fare con
    l’associazione che in molte di queste macellerie il servizio è
    assicurato da operai salariati, comandati da un direttore, il quale
    rappresenta gli accomandanti. Per svolgere questa funzione bastava
    un macellaio qualsiasi estratto a sorte dalla coalizione, senza
    bisogno di aggiungere spese di nuovo personale e attrezzature.
    
    Il principio di reciprocità sul quale si fondano le macellerie e le
    drogherie societarie tende ora a sostituirsi, come elemento
    organico, a quello della fratellanza nelle associazioni operaie.
    Ecco il resoconto della «République» del 20 aprile 1851 su una nuova
    società formata da lavoratori delle sartorie:
    
    Ecco degli operai che mettono in discussione questa sentenza della
    vecchia economia: senza capitali, niente lavoro, la quale, se avesse
    un valido fondamento, condannerebbe a una servitù, a una miseria
    disperata e senza fine, l’innumerevole classe dei lavoratori che,
    assolutamente sprovvista di capitali, è costretta a vivere alla
    giornata. Rifiutandosi di accettare questa desolante conclusione
    della scienza ufficiale, e interrogando le leggi razionali della
    produzione delle ricchezze e del consumo, questi operai hanno
    scoperto che il capitale, normalmente considerato come l’elemento
    generatore del lavoro, in realtà ha solo una utilità convenzionale;
    che i soli veri agenti della produzione sono l’intelligenza e le
    braccia dell’uomo, e che quindi è possibile organizzare la
    produzione, assicurare la circolazione dei prodotti e il loro
    normale consumo, attraverso la semplice comunicazione diretta dei
    produttori e dei consumatori, chiamati, dopo la soppressione di un
    intermediario oneroso e l’instaurazione di rapporti nuovi, a
    raccogliere quei profitti che vanno attualmente a ingrossare il
    capitale, questo sovrano dominatore del lavoro, della vita e dei
    bisogni di tutti.
    
    Secondo questa teoria l’emancipazione dei lavoratori è dunque
    possibile con la riunione in fascio delle forze individuali e dei
    bisogni; in altri termini, con l’associazione dei produttori e dei
    consumatori, che, non avendo più interessi contrapposti, sfuggono
    irrimediabilmente al dominio del capitale.
    
    In realtà, siccome i bisogni del consumo sono permanenti, se
    produttori e consumatori entrano in relazione direttamente, se si
    associano, se si fanno credito, è chiaro che il rialzo o il ribasso,
    l’aumento artificioso o il deprezzamento arbitrario, che la
    speculazione fa subire al lavoro e alla produzione, non hanno più
    ragion d’essere.
    
    Questo è l’ideale della reciprocità e quanto i suoi fondatori hanno
    già realizzato, nei limiti della loro esperienza, con la creazione
    di buoni detti di consumo, scambiabili in qualsiasi momento con
    prodotti dell’associazione. Così, finanziata da quelli che la fanno
    lavorare, l’associazione consegna i suoi prodotti a prezzo di costo,
    prelevando per la remunerazione del suo lavoro soltanto il prezzo
    medio della manodopera. Questa è la soluzione razionale che i soci
    fondatori hanno voluto dare a tutte le grandi questioni di economia
    sollevate in questi ultimi tempi e particolarmente alle seguenti:
    
    Abolizione di qualunque forma di sfruttamento;
    
    Annientamento graduale e pacifico dell’azione del capitale;
    creazione del credito gratuito;
    
    Garanzia ed equa retribuzione del lavoro; emancipazione del
    proletariato.
    
    L’associazione dei sarti è la prima che sia stata fondata
    ufficialmente e per così dire scientificamente su una forza
    economica rimasta fino a oggi oscura e inapplicata nella routine
    commerciale. Ora, è evidente che l’impiego di questa forza non
    costituisce affatto un contratto di associazione, ma tutt’al più un
    contratto di scambio, nel quale la prestazione corrispettiva o il
    rapporto di reciprocità tra il commerciante e la clientela, se non è
    formalmente espresso, è almeno sottinteso. E quando l’autore
    dell’articolo, un vecchio comunista, usa la parola associazione per
    designare i rapporti nuovi che la reciprocità si propone di
    sviluppare tra i produttori e i consumatori, è evidente che egli fa
    qualche concessione a vecchie preoccupazioni mentali, oppure si
    lascia prender la mano dall’abitudine.
    
    Perciò, pur riconoscendo ai fondatori della reciprocità il merito di
    aver applicato questo grande principio, il collaboratore della
    «République» avrebbe dovuto ricordare loro certe nozioni elementari
    della loro stessa teoria; e cioè che l’obbligo, essenzialmente
    commutativo e bilaterale da parte del produttore rispetto al
    consumatore, di consegnare i propri prodotti a prezzo di costo, e
    che costituisce la nuova potenza economica, non sarebbe più
    sufficiente a motivare un’associazione di lavoratori se la legge
    della reciprocità fosse universalmente adottata e praticata; che una
    società formata su questa unica base, per sostenersi ha bisogno del
    vantaggio che le deriva dal mancato riconoscimento da parte della
    maggioranza; e che il giorno in cui, con il consenso di tutti i
    cittadini, la reciprocità diventasse una legge dell’economia
    sociale, e un qualunque non associato potesse offrire al pubblico
    gli stessi vantaggi della società, anzi vantaggi ancora maggiori
    dato che non avrebbe spese generali da sostenere, la società non
    avrebbe più alcun motivo di esistere.
    
    Un’altra associazione del genere, il cui meccanismo si avvicina
    maggiormente alla formula elementare della reciprocità, è la
    Massaia, della quale lo stesso giornale, la «République», ha parlato
    nel numero dell’8 maggio. Essa ha lo scopo di fornire ai
    consumatori, a prezzi ridotti, con garanzie di qualità e senza frode
    alcuna, tutti gli oggetti di consumo. Per farne parte basta versare
    la somma di 5 franchi, a titolo di capitale sociale, più 50
    centesimi per le spese generali di amministrazione. I soci, si noti
    bene, non accettano incarichi, né assumono impegni, ma hanno
    soltanto l’obbligo di pagare gli oggetti che su ordinazione vengono
    loro forniti a domicilio. Solo l’agente generale è responsabile.
    
    Il principio è sempre lo stesso. Nelle macellerie societarie, la
    garanzia del basso prezzo, della qualità e del peso è ottenuta
    tramite una società in accomandita, da cui risulta la fondazione di
    una macelleria speciale, diretta ad hoc da un agente apposito,
    facente funzione di padrone e imprenditore. Nella Massaia, un
    imprenditore generale, rappresentante di tutti i possibili generi
    commerciali, si incarica, sfruttando 5 franchi di sottoscrizione e
    50 centesimi per le spese, di fornire tutti gli oggetti di consumo.
    Nel caso dei sarti, c’è in più il meccanismo del buono di consumo,
    abbastanza importante, ma allo stato attuale delle cose non si può
    dire che li avvantaggi di molto. Supponiamo che tutti i
    commercianti, fabbricanti e industriali della capitale assumano
    rispetto al pubblico, e tra di loro, un impegno simile a quello che
    le macellerie societarie, il fondatore della Massaia, i sarti della
    reciprocità assumono nei confronti dei loro clienti: l’associazione
    sarebbe allora universale. Ma è anche chiaro che un’associazione del
    genere non sarebbe più un’associazione. Si modificherebbero i
    costumi commerciali, ecco tutto; la reciprocità diventerebbe una
    legge, e tutti sarebbero liberi, esattamente come prima.
    
    Benché io sia lontano dal pretendere che l’associazione debba
    scomparire per sempre dal sistema delle transazioni umane, e
    riconosca anzi che in alcuni casi essa è indispensabile, posso
    constatare, senza paura di sbagliarmi, che il principio societario
    si autodistrugge giorno dopo giorno con la sua stessa pratica; e
    mentre appena tre anni fa gli operai propendevano tutti per
    l’associazione fraternale, oggi convergono verso un sistema di
    garanzie che, una volta realizzate, renderà in una miriade di casi
    superflua l’associazione, mentre, si noti bene, in altri casi la
    renderà necessaria. In fondo, le associazioni esistenti, con il
    formare una massa ineluttabile di produttori e di consumatori
    direttamente in rapporto tra di loro, non possono far altro che
    portare a quel risultato.
    
    Se poi l’associazione non è affatto una forza produttiva, se al
    contrario essa è un peso del quale il lavoro tende naturalmente a
    liberarsi, è chiaro che l’associazione non può più essere
    considerata come una legge organica; ben lontana dall’assicurare
    l’equilibrio, essa tende piuttosto a distruggere l’armonia,
    imponendo a tutti, al posto della giustizia, al posto della
    responsabilità individuale, la solidarietà. E allora essa non può
    più sussistere dal punto di vista del diritto e come elemento
    scientifico, bensì come sentimento, come precetto mistico, divino.
    
    Perciò i promotori a oltranza dell’associazione, sentendo quanto il
    loro principio sia sterile, contrario alla libertà, e di conseguenza
    quanto poco possa essere accettato come formula sovrana della
    rivoluzione, fanno gli sforzi più incredibili per mantenere il fuoco
    fatuo della fratellanza. Louis Blanc ha rivoltato perfino la parola
    d’ordine repubblicana, come se avesse voluto rivoluzionare la
    rivoluzione. Non dice più come tutti, e secondo la tradizione,
    Libertà, Uguaglianza, Fratellanza, ma dice: Uguaglianza,
    Fratellanza, Libertà! Oggi noi partiamo dall’uguaglianza, è
    l’uguaglianza che dobbiamo prendere come primo termine, ed è su di
    essa che dobbiamo costruire l’edificio nuovo della rivoluzione.
    Quanto alla libertà, essa si dedurrà dalla fratellanza. Louis Blanc
    la promette dopo l’associazione, come i preti promettono il paradiso
    dopo la morte.
    
    Lascio immaginare che cosa può essere un socialismo che si diverte
    tanto a trasporre le parole.
    
    L’uguaglianza! Avevo sempre creduto che essa fosse il frutto
    naturale della libertà, la quale almeno non ha bisogno né di teoria
    né di costrizione. Avevo creduto, dico, che spettasse
    all’organizzazione delle forze economiche, alla divisione del
    lavoro, alla concorrenza, al credito, alla reciprocità, e
    soprattutto all’educazione, far nascere l’uguaglianza. Louis Blanc
    ha cambiato tutto. Nuovo Sganarello, egli mette l’uguaglianza a
    sinistra, la libertà a destra, la fratellanza in mezzo, come Gesù
    Cristo tra il buono e il cattivo ladrone. Noi cessiamo di essere
    liberi così come ci fa la natura, per divenire in primo luogo
    uguali: cioè, quello che dovrebbe essere il risultato del lavoro,
    qui si realizza con un colpo di Stato; dopo di che, ridiventeremo
    più o meno liberi, come e quanto converrà al governo.
    
    Da ognuno secondo le sue capacità, A ognuno secondo i suoi bisogni.
    
    Così vuole l’uguaglianza secondo Louis Blanc.
    
    Bisogna compiangere le persone la cui capacità rivoluzionaria si
    riduce, se così posso dire, a questa casistica! Il fatto, però, che
    appartengano al regno degli innocenti non ci deve impedire di
    confutarli.
    
    Ricordiamo ancora una volta il principio. L’associazione, così come
    la definisce Louis Blanc, è un contratto che, totalmente o
    parzialmente (Società universali e società particolari, Codice
    civile, art. 1835), mette allo stesso livello i contraenti,
    subordina le loro libertà al dovere sociale, li spersonalizza, li
    tratta quasi come Humann trattava i contribuenti quando poneva
    l’assioma: far rendere all’imposta tutto quello che essa può
    rendere! Quanto può produrre l’uomo? quanto si spende per nutrirlo?
    Questa è la domanda suprema che risulta dalla formula – come potrei
    dire? – declinatoria Da ognuno... A ognuno... con la quale Louis
    Blanc riassume i diritti e i doveri del socio.
    
    Chi, dunque, valuterà le capacità? chi deciderà i bisogni?
    
    Voi dite che la mia capacità è 100; io invece sostengo che è solo
    90. Voi aggiungete che il mio bisogno è 90; e io affermo che è 100.
    Tra me e voi c’è una differenza di 20, sia sul bisogno sia sulla
    capacità. Si tratta, in altri termini, del dibattito famoso che si
    svolge tra l’offerta e la domanda. Chi giudicherà tra me e la
    società?
    
    Se la società vuol far prevalere, nonostante la mia protesta, il suo
    parere, io la lascio, punto e basta. La società finisce per mancanza
    di soci.
    
    Se, con il ricorso alla forza, essa pretende di costringermi, se mi
    impone il sacrificio e la dedizione, io le dico: ipocrita! mi avete
    promesso di liberarmi dallo sfruttamento del capitale e del potere,
    ed ecco che nel nome dell’uguaglianza e della fratellanza siete voi
    a sfruttarmi. Anche prima, per derubarmi, si esaltava al massimo la
    mia capacità, e viceversa si attenuavano i miei bisogni. Mi si
    diceva che i prodotti mi costavano così poco! che per vivere mi
    bastavano pochissime cose! Voi agite allo stesso modo. Che
    differenza c’è allora tra la fratellanza e la condizione del
    salariato?
    
    Delle due l’una: o l’associazione sarà obbligatoria, forzata, e
    allora è come la schiavitù; oppure sarà libera, e allora ci si
    chiede: quale garanzia avrà la società che il socio lavori secondo
    la sua capacità, quale garanzia avrà il socio che l’associazione lo
    remuneri secondo i suoi bisogni? non è evidente che un dibattito del
    genere non può che avere una sola soluzione? E questa è che il
    prodotto e i bisogni si adeguino reciprocamente: il che ci riporta
    puramente e semplicemente al regime della libertà.
    
    Si rifletta dunque. L’associazione non è una forza economica: è
    esclusivamente un legame di coscienza, obbligatorio di fronte al
    tribunale interiore, ma privo di effetto, o piuttosto nocivo,
    rispetto al lavoro e alla ricchezza. E questo io non lo provo con
    l’aiuto di un’argomentazione più o meno abile: è il risultato della
    pratica industriale fin da quando esiste la società. La posterità
    non comprenderà come sia stato possibile che, in un secolo
    innovatore, degli scrittori ritenuti all’avanguardia per quanto
    riguarda la comprensione dei fatti sociali abbiano fatto tanto
    chiasso intorno a un principio del tutto soggettivo, e per di più
    già esplorato da tutte le parti e da tutte le generazioni del globo.
    
    Su una popolazione di 36 milioni di uomini, ce ne sono 24 milioni
    almeno occupati in agricoltura. Questi, non li assocerete mai. A che
    pro? Il lavoro dei campi non ha bisogno della coreografia
    societaria, verso la quale il contadino prova una certa ripugnanza.
    Il contadino, è bene ricordarselo, ha applaudito alla repressione
    del giugno 1848, perché in tale repressione egli ha visto un atto di
    libertà contro il comunismo.
    
    Dei 12 milioni di cittadini rimanenti, 6 almeno – fabbricanti,
    artigiani, impiegati, funzionari, per i quali l’associazione non
    rappresenta nessuno scopo, nessun profitto o attrattiva –
    preferiranno sempre rimanere liberi. Ci sono dunque 6 milioni di
    persone, che compongono in buona parte la classe salariata, le
    quali, spinte dalla loro attuale condizione, potrebbero accettare di
    far parte delle società operaie senza pensarci due volte e in buona
    fede. A questi 6 milioni di persone, padri, madri, fanciulli e
    vecchi, mi permetto di dire in anticipo che non tarderebbero a
    liberarsi dal loro giogo volontario se la rivoluzione non desse loro
    dei motivi per associarsi più seri, più reali di quelli che essi
    credono di scorgere nel principio, e del quale io ho mostrato la
    nullità.
    
    Certo, l’associazione ha una sua funzione nell’economia dei popoli;
    sì, le società operaie, come protesta contro la condizione
    salariale, come affermazione della reciprocità, e già per questi due
    motivi così cariche di speranza, sono chiamate a svolgere un ruolo
    considerevole nel nostro prossimo futuro. Questo ruolo consisterà
    soprattutto nella gestione dei grandi strumenti del lavoro e
    nell’esecuzione di certe opere che, per il fatto di richiedere al
    tempo stesso una grande divisione delle funzioni e una grande forza
    collettiva, sarebbero dei veri e propri vivai del proletariato se
    non si applicasse l’associazione, o, per meglio dire, la
    partecipazione. Per esempio, opere come la costruzione delle
    ferrovie.
    
    Ma l’associazione in quanto tale non risolve affatto il problema
    rivoluzionario. Anzi, già di per sé rappresenta un problema la cui
    soluzione implica che i soci non perdano nulla della loro
    indipendenza e conservino tutti i vantaggi dell’unione: il che vuol
    dire che la migliore delle associazioni è quella in cui, grazie a
    una organizzazione superiore, ci sia il massimo di libertà e il
    minimo di dedizione.
    
    Perciò le società operaie, oggi quasi del tutto trasformate per
    quanto riguarda i principi che le guidano, non devono essere
    giudicate in base ai risultati più o meno felici che ottengono, ma
    unicamente in base alla loro tendenza occulta, che è quella di
    affermare e realizzare la repubblica sociale. Che gli operai lo
    sappiano o l’ignorino, non è nei loro piccoli interessi di società
    che risiede l’importanza della loro opera; essa è nella negazione
    del regime capitalista, speculatore e governativo che abbiamo
    ereditato dalla prima rivoluzione. Più tardi, quando la menzogna
    politica, l’anarchia mercantile e la feudalità finanziaria saranno
    state sconfitte, le società dei lavoratori dalle chincaglierie e dai
    bilboquets dovranno passare ai grandi settori dell’industria, come è
    loro naturale prerogativa.
    
    Ma come diceva un grande rivoluzionario, san Paolo, bisogna che
    l’errore faccia il suo corso: «Oportet haereses esse». C’è da temere
    che non è ancora finita l’epoca delle utopie societarie.
    L’associazione, per una certa classe di predicatori perdigiorno, per
    molto tempo ancora sarà un pretesto di agitazione e un veicolo di
    ciarlatanismo. Con le ambizioni che essa può far nascere, l’invidia
    che si maschera dietro la sua pretesa dedizione, gli istinti di
    dominio che risveglia, essa sarà per molto tempo ancora una di
    quelle incresciose preoccupazioni che ritardano nel popolo la
    comprensione della rivoluzione. Le stesse società operaie,
    giustamente orgogliose dei loro primi successi, trasportate dalla
    concorrenza che esse fanno ai vecchi padroni, inebriate dai segni
    che già prefigurano la loro futura potenza, pronte come tutte le
    società a battersi per il loro predominio, avide di potere,
    difficilmente potranno astenersi da ogni tipo di esagerazione e
    restare nei limiti della loro funzione. Potranno allora esserci
    pretese esorbitanti, coalizioni gigantesche, irrazionali,
    fluttuazioni disastrose, che un’approfondita conoscenza delle leggi
    dell’economia sociale sarebbe stata invece in grado di prevenire.
    
    A questo proposito, una grande responsabilità storica graverà su
    Louis Blanc. Proprio lui, al Luxembourg, con il suo gioco di parole
    Uguaglianza-Fratellanza-Libertà; con le sue incisioni mistiche Da
    ognuno..., A ognuno..., ha incominciato quell’opposizione miserabile
    dell’ideologia contro le idee e sollevato contro il socialismo il
    senso comune. Si è creduto l’ape della rivoluzione, e invece non ne
    era che la cicala. Possa alla fine, dopo aver avvelenato gli operai
    con le sue formule assurde, portare alla causa del proletariato,
    caduta un giorno per sbaglio nelle sue deboli mani, l’obolo della
    sua astensione e del suo silenzio!
    
    [Da Idée générale de la Révolution au XIXe siècle, trad. it.
    (estratti): in P. Ansart, P.-J. Proudhon, La Pietra, Milano 1978,
    pp. 136-150].
    
    
    
    capitolo settimo
    
    La critica di Proudhon alle teorie contrattualiste si svolge in
    analogia alla critica dello Stato. Le teorie contrattualiste
    affermano che il potere politico è stato generato contemporaneamente
    alla società civile attraverso un contratto sociale sottoscritto
    consensualmente da tutti gli individui. Proudhon osserva giustamente
    come sia assurdo credere che il sociale, fenomeno spontaneo e
    naturale, sia stato creato dal politico, dimensione artificiosa e
    culturale. Vi è invece una società permanente, indistruttibile, che
    sostiene tutte le forme ufficiali comunicando a loro una parte di
    sé. La società reale è il «noumeno», la società ufficiale è il
    «fenomeno», la prima è l’essenza, la seconda è lo Stato. Occorre
    quindi pensare il politico attraverso il sociale, pur nella
    consapevolezza della distinzione dei due piani. Questa critica
    investe chiaramente la nozione rousseauiana del contratto sociale,
    dove esso è appunto per Rousseau l’accordo politico, e per Proudhon
    invece sinonimo di alienazione della libertà e di sottomissione
    coatta. Il contratto rousseauiano si presenta ai suoi occhi quale
    ipotesi troppo irreale perché non fa riferimento alle forze concrete
    dell’esperienza sociale ed economica. Alla base del contratto
    sociale di Rousseau, come di tutta la tradizione giacobina, vi è una
    fondamentale ambiguità dovuta proprio all’indeterminatezza del ruolo
    del potere, il quale, venendo concepito come indiviso perché nato
    dal popolo, non può che risolversi in un puro dispotismo: tutto ciò
    che la storia e l’immaginazione possono suggerire di estrema licenza
    e di estrema servitù si deduce con facilità e rigore di logica dalla
    teoria societaria di Rousseau.
    
    La critica proudhoniana si estende comunque a tutte le forme
    contrattualiste, da quella assolutistica a quella democratica,
    perché tutte fondate sull’idea che gli uomini debbano cedere la loro
    autonomia e delegare il loro potere al fine di costruire una
    sovranità che, volenti o nolenti, dovranno poi rispettare. La teoria
    della democrazia rappresentativa e del suffragio universale vengono
    considerate da Proudhon sotto questa luce, e perciò valutate una
    grande illusione mistificatoria. A suo giudizio è assurdo sperare
    che la democrazia rappresentativa esprima le idee e gli interessi
    generali. Un delegato, eletto al fine di conciliare le idee e i
    problemi di tutti o almeno di una parte dei suoi mandanti,
    rappresenterà sempre invece una sola idea e un solo interesse;
    un’assemblea, per quanto voglia rappresentare la pluralità degli
    elettori, non potrà alla fine che esprimere la sola opinione della
    sua maggioranza. Così, dichiarando l’opinione di metà del parlamento
    espressione della volontà popolare, si perverrà inevitabilmente a
    una tirannia maggioritaria. La rivoluzione politica voluta dai
    democratici non ha perciò come obiettivo quello di restituire al
    popolo la sua sovranità per mezzo della distruzione dell’autorità,
    ma al contrario quello di fare della democrazia una nuova autorità,
    un nuovo potere più forte e più solido perché fondato questa volta
    su un consenso popolare allargato ottenuto tramite una
    mistificazione.
    
    Il rifiuto della democrazia rappresentativa indica qual è
    l’atteggiamento e il giudizio di Proudhon verso ogni forma di
    rappresentanza e di delega, specialmente per quanto riguarda
    l’emancipazione delle classi inferiori. Si può dire senz’altro che
    la teoria proudhoniana della separazione fra società politica e
    società economica, fra Stato e società, sta alla base del principio
    fondamentale secondo il quale l’emancipazione dei lavoratori deve
    essere opera dei lavoratori stessi.
    
    Più estesamente, questa idea, che ha il suo fondamento nel concetto
    di autonomia delle masse, afferma che l’emancipazione umana può
    avvenire solo senza l’aiuto del governo e senza l’aiuto di qualsiasi
    consorteria o fazione rivoluzionaria separata dal popolo.
    
    
    
     Il nuovo contratto sociale
    
    La forma sotto la quale i primi uomini hanno concepito l’ordine
    nella società è la forma patriarcale o gerarchica, cioè, in teoria
    l’autorità, in pratica il governo. La giustizia, che più tardi è
    stata distinta in distributiva e commutativa, dapprima è apparsa
    loro solo sotto il primo aspetto: un superiore che dà agli inferiori
    ciò che a ognuno di essi spetta.
    
    L’idea di governo nacque dunque dai costumi della famiglia e
    dall’esperienza domestica: allora non ci fu alcuna protesta perché
    alla società l’esistenza del governo pareva un fatto naturale come
    il rapporto di subordinazione che nella famiglia si stabilisce tra
    padre e figli. Sicché de Bonald ha potuto affermare, a ragione, che
    la famiglia è l’embrione dello Stato, del quale riproduce le
    categorie essenziali: il re nel padre, il ministro nella madre, il
    suddito nel figlio. Anche per questo i socialisti della fratellanza,
    che considerano la famiglia come un elemento della società, arrivano
    tutti alla dittatura, la forma più esagerata di governo.
    L’amministrazione di Cabet, nei suoi Stati di Nauvoo, ne è un
    bell’esempio. Quanto tempo ancora ci occorrerà per comprendere
    questa filiazione di idee?
    
     La concezione primitiva dell’ordine che discende dal governo
    appartiene a tutti i popoli. E se, fin dall’origine, gli sforzi che
    sono stati compiuti per organizzare, limitare, modificare l’azione
    del potere, per adeguarla ai bisogni generali e alle circostanze,
    pure dimostrano che c’era una negazione implicita nell’affermazione,
    è certo però che nessuna ipotesi antagonistica è stata espressa; lo
    spirito è ovunque rimasto lo stesso. A mano a mano che le nazioni
    sono uscite dallo stato selvaggio e dalla barbarie, hanno imboccato
    immediatamente la strada del governo e seguito tutte lo stesso ciclo
    istituzionale: sono passate, tanto per usare categorie ormai comuni
    a tutti gli storici e ai pubblicisti, dalla monarchia,
    all’aristocrazia, alla democrazia.
    
    Ma c’è qualcosa di più grave ancora.
    
    Il pregiudizio del governo è penetrato fin nel più profondo delle
    coscienze, ha modellato la ragione a sua immagine e somiglianza,
    tanto che qualsiasi concezione diversa si è resa per lungo tempo
    impossibile; e i pensatori più audaci sono arrivati alla conclusione
    che il governo era una calamità, senza dubbio, un castigo per
    l’umanità, e però un male necessario!
    
    Ecco perché, fino ai nostri giorni, le rivoluzioni più
    emancipatrici, e tutti i fermenti di libertà, sono sbocciati
    costantemente in un atto di fede e di sottomissione al potere; e
    perché tutte le rivoluzioni non sono servite che a ripristinare la
    tirannia: io qui non faccio eccezioni né per la costituzione del
    1793 né per quella del 1848, che pure sono le due espressioni più
    avanzate della democrazia francese. Ciò che ha mantenuto questa
    predisposizione mentale e reso così a lungo invincibile l’incanto è
    il fatto che, in seguito alla supposta analogia tra la società e la
    famiglia, il governo si è sempre presentato come l’organo naturale
    della giustizia, il protettore del debole, il preservatore della
    pace. Considerato come un ente provvidenziale e altamente garante,
    il governo è riuscito a radicarsi sia nei cuori sia nelle menti! Ha
    partecipato dell’anima universale; è stato la fede, la superstizione
    segreta, invincibile, dei cittadini. Se per caso si è mostrato
    debole, di lui si è detto, come della religione e della proprietà:
    non è l’istituzione che è cattiva, è l’abuso. Non è il re che è
    cattivo, sono i suoi ministri. Ah! se venisse a saperlo il re!
    
    Così al dato della gerarchia, dell’assolutismo, dell’autorità
    governante, si è aggiunto un ideale intimo e in costante
    contraddizione con l’istinto di uguaglianza e di indipendenza; e se
    il popolo, a ogni rivoluzione, seguendo le ispirazioni del suo
    cuore, ha creduto di correggere i vizi del suo governo, è stato
    invece tradito dalle sue stesse idee: credendo di ripristinare il
    potere a suo favore, in realtà se lo è ritrovato sempre contro;
    invece che a un protettore, esso si è consegnato a un tiranno.
    
    L’esperienza mostra, in realtà, che per quanto popolare possa essere
    stata la sua origine il governo si è schierato sempre e ovunque
    dalla parte della classe più colta e più ricca contro quella più
    povera e più numerosa; che, dopo essersi mostrato per un po’ di
    tempo liberale, a poco a poco è diventato governo d’eccezione,
    esclusivo; che infine, invece di sostenere la libertà e
    l’uguaglianza fra tutti, ha fatto di tutto per distruggerle, in
    virtù della sua inclinazione naturale al privilegio.
    
    Abbiamo mostrato, in un altro studio, come dal 1789 la Rivoluzione
    non abbia fondato nulla; la società, secondo l’espressione di
    Royer-Collard, sia stata ridotta in polvere; la distribuzione delle
    fortune affidata al caso; e come, di conseguenza, il governo, che ha
    la missione di proteggere sia le proprietà sia le persone, di fatto
    sia stato istituito per i ricchi contro i poveri. Chi può negare
    adesso che questa anomalia, che pure si è pensato fosse specifica
    della costituzione politica del nostro Paese, è comune a tutti i
    governi? Mai si è vista la proprietà dipendere esclusivamente dal
    lavoro; in nessuna epoca il lavoro è stato garantito dall’equilibrio
    delle forze economiche: da questo punto di vista, la civiltà del XIX
    secolo non è più avanzata della barbarie delle prime ere.
    L’autorità, difendendo i diritti di fatto stabiliti, proteggendo gli
    interessi acquisiti, si è schierata sempre dalla parte della
    ricchezza e contro la povertà: la storia dei governi è il
    martirologio del proletariato.
    
     Questa inevitabile defezione del potere dalla causa popolare
    va analizzata soprattutto nel caso della democrazia, ultimo termine
    dell’evoluzione del principio di governo.
    
    Cosa fa il popolo quando, stanco dei suoi aristocratici, indignato
    per la corruzione dei suoi principi, proclama la propria sovranità,
    ovvero l’autorità dei propri suffragi?
    
    Esso si dice: innanzi tutto, nella società ci vuole ordine. Custode
    di questo ordine, che deve essere per noi la libertà e
    l’uguaglianza, è il governo.
    
    Ebbene, si controlli il governo; la costituzione e le leggi
    diventino l’espressione della nostra volontà; si faccia in modo che
    funzionari e magistrati, eletti da noi al nostro servizio e
    revocabili in qualunque momento, non possano mai intraprendere
    qualcosa di diverso da quello che la volontà del popolo avrà
    stabilito. Si può allora essere sicuri, a condizione che la nostra
    sorveglianza non si allenti mai, che il governo curerà i nostri
    interessi, non servirà soltanto ai ricchi e non sarà più preda di
    ambiziosi e intriganti; e le cose andranno avanti a nostro
    piacimento e a nostro vantaggio.
    
    Così ragiona la massa in tutte le epoche di oppressione.
    Ragionamento semplice, di una logica elementarissima, e che riesce
    sempre a produrre il suo risultato. Anche se questa massa, d’accordo
    con Considérant e Rittinghausen, arrivasse ad affermare: i nostri
    nemici sono quelli stessi che noi mandiamo al governo, quindi
    governiamoci da noi e saremo liberi, la logica non cambierebbe. Se
    non cambia il principio, cioè il governo, non può cambiare neppure
    la conclusione.
    
    Sono ormai mille anni che questa teoria risarcisce le classi
    oppresse e gli oratori che le difendono. Il governo diretto non
    risale né a Francoforte, né alla Convenzione, né a Rousseau: ha la
    stessa età del governo indiretto, risale alla fondazione delle
    società.
    
    Niente monarchia ereditaria, Niente presidenza,
    
    Niente rappresentanza,
    
     Niente delega,
    
    Niente alienazione del potere,
    
    Governo diretto,
    
    Il POPOLO nell’esercizio permanente della sua sovranità.
    
    Che c’è dunque alla base di questo ritornello che si è ripreso come
    se fosse una tesi nuova e rivoluzionaria, e che Ateniesi, Beoti,
    Lacedemoni, Romani, ecc., non abbiano già conosciuto, praticato,
    molto prima della nostra era? Non si tratta sempre dello stesso
    circolo vizioso, sempre dello stesso precipitare verso l’assurdo,
    che dopo aver esaurito, eliminato una dopo l’altra monarchie
    assolute, monarchie aristocratiche o rappresentative, democrazie,
    giunge a toccare il limite del governo diretto, per ricominciare
    daccapo con la dittatura a vita e la monarchia ereditaria? Presso
    tutte le nazioni, quella del governo diretto è stata l’epoca
    palingenetica delle aristocrazie distrutte e dei troni spezzati:
    questo tipo di governo non ha potuto reggersi neppure presso popoli,
    come quelli di Atene e Sparta, che avevano il vantaggio di una
    popolazione minima e del servizio degli schiavi. Da noi sarebbe il
    preludio del cesarismo, nonostante le nostre ferrovie, le poste, i
    telegrafi; nonostante la semplificazione delle leggi, la
    revocabilità dei funzionari, la forma imperativa del mandato. Ci
    farebbe precipitare verso la tirannia imperiale tanto più in fretta
    in quanto i nostri proletari non vogliono più essere salariati, i
    proprietari non sopporterebbero di essere spossessati, e i fautori
    del governo diretto, ponendo ogni cosa sul piano della politica,
    sembrano non avere alcuna idea dell’organizzazione economica. Un
    altro passo in questa direzione e rispunta l’aurora dell’era dei
    Cesari: a una democrazia inestricabile succederà, senza altri
    passaggi, l’impero, con o senza Napoleone.
    
    Occorre uscire da questo cerchio infernale. Occorre traversare, da
    parte a parte, l’idea politica, la vecchia nozione di giustizia
    distributiva e giungere a quella di giustizia commutativa, che,
    nella logica della storia come in quella del diritto, le fa seguito.
    Eh! voi che volete non vedere, che cercate tra le nuvole qualcosa
    che già avete sottomano, rileggete i vostri autori, guardatevi
    intorno, analizzate le vostre stesse formule, e troverete la
    soluzione, che si trascina da tempo immemorabile attraverso i
    secoli, e che voi, insieme con i vostri corifei, non avete mai
    degnato di uno sguardo.
    
    Nella ragione generale, tutte le idee sono coeterne: esse appaiono
    una dopo l’altra soltanto nella storia, dove, a mano a mano, esse si
    vengono a mettere alla testa delle cose e in prima fila.
    L’operazione con la quale una idea viene espulsa dal potere, nella
    logica, si chiama negazione; quella con la quale un’altra idea si
    insedia, si chiama affermazione. Ogni negazione rivoluzionaria
    implica dunque un’affermazione susseguente; questo principio, che la
    pratica delle rivoluzioni dimostra, riceverà a questo punto una
    stupefacente conferma.
    
    La prima negazione autentica che sia stata fatta dell’idea di
    autorità è quella di Lutero. Questa negazione, tuttavia, non è
    andata al di là dalla sfera religiosa: Lutero, come Leibniz, Kant,
    Hegel, era uno spirito essenzialmente di governo. La sua negazione
    ha preso il nome di libero esame.
    
    Ora, che cosa nega il libero esame? L’autorità della Chiesa. Che
    cosa lo suppone? L’autorità della ragione. Che cos’è la ragione? Un
    patto tra l’intuizione e l’esperienza.
    
    L’autorità della ragione: questa è dunque l’idea positiva, eterna,
    che la Riforma ha sostituito all’autorità della fede. Se un tempo la
    filosofia dipendeva dalla Rivelazione, sarà ormai la Rivelazione a
    essere subordinata alla filosofia. Sono invertite le parti, il
    governo della società non è più lo stesso, la morale è cambiata, il
    destino stesso sembra modificarsi. Già si può scorgere, al punto in
    cui siamo, la vera portata di quel rinnovamento di sogno
    caratterizzato dalla successione del verbo dell’uomo alla parola di
    Dio.
    
    Lo stesso movimento sta per prodursi nella sfera delle idee
    politiche.
    
    Dopo Lutero, il principio del libero esame fu trasportato,
    soprattutto da Jurieu, dallo spirituale al temporale. Alla sovranità
    del diritto divino, l’avversario di Bossuet oppose la sovranità del
    popolo; cosa che egli espresse con grandissima precisione, forza,
    profondità, nell’idea di patto o contratto sociale, ponendola
    manifestamente in contraddizione con quelle di potere, autorità,
    governo, imperium, arché.
    
    Che cos’è in realtà il contratto sociale? l’accordo del cittadino
    con il governo? No, sarebbe come girarsi e rigirarsi nella stessa
    idea. Il contratto sociale è l’accordo dell’uomo con l’uomo, accordo
    dal quale deve derivare ciò che noi chiamiamo società. Qui la
    nozione di giustizia commutativa, posta dal fatto primitivo dello
    scambio e definita dal diritto romano, soppianta quella di giustizia
    distributiva, definitivamente liquidata dalla critica repubblicana.
    Traducete le parole contratto e giustizia commutativa, che
    appartengono alla lingua giuridica, nella lingua degli affari e
    avrete il commercio, cioè, nel significato più elevato, l’atto
    attraverso il quale gli uomini, in quanto si dichiarano
    essenzialmente produttori, rinunciano l’uno nei confronti dell’altro
    a ogni aspirazione al governo.
    
    La giustizia commutativa, il dominio dei contratti, in altri termini
    il dominio economico o industriale, sono i vari sinonimi dell’idea
    che, con il suo avvento, deve sopprimere il vecchio sistema della
    giustizia distributiva, del dominio delle leggi, o in termini più
    concreti, il regime feudale, governativo e militare. L’avvenire
    dell’umanità sta in questa sostituzione.
    
    Ma prima che questa rivoluzione dottrinaria possa definirsi, prima
    che sia compresa, e prima, soprattutto, che si impadronisca delle
    popolazioni, le uniche che possono renderla esecutiva, quanti
    dibattiti sterili! che sonnolenza di idee! che tempi per agitatori e
    sofisti! Dal tempo della controversia tra Jurieu e Bossuet fino alla
    pubblicazione del Contratto sociale di Rousseau, c’è quasi un secolo
    di distanza; e quando quest’ultimo arriva, prende la parola non per
    rivendicare l’idea, bensì per soffocarla.
    
    Rousseau, la cui autorità ci governa da circa un secolo, non ha
    capito niente del contratto sociale. A lui soprattutto occorre
    risalire se si vuol rintracciare la causa della grande deviazione
    del 1793, già espiata con cinquantasette anni di sterili
    rivolgimenti, e che alcuni temperamenti più focosi che riflessivi
    vorrebbero ancora farci riprendere come una tradizione sacra.
    
    L’idea di contratto non è compatibile con l’idea di governo: su
    questo punto richiamo l’attenzione di Ledru-Rollin, il quale, da
    giureconsulto, dovrebbe conoscere il problema. Ciò che caratterizza
    il contratto, la convenzione commutativa, è il fatto che proprio in
    virtù di tale convenzione la libertà e il benessere dell’uomo
    aumentano, mentre con l’istituzione di un’autorità diminuiscono
    necessariamente sia l’una sia l’altro. La cosa apparirà in tutta la
    sua evidenza se si riflette che il contratto è l’atto attraverso il
    quale due o più individui decidono di predisporre tra di loro, in
    una misura e per un tempo determinati, quella potenza industriale
    che noi chiamiamo scambio; e di conseguenza si obbligano e si
    garantiscono reciprocamente una certa somma di servizi, prodotti,
    diritti, doveri, ecc., che possono procurarsi e rendersi,
    riconoscendosi del resto perfettamente indipendenti, sia per il loro
    consumo, sia per la loro produzione.
    
    Fra contraenti, il rapporto è tale che deve esistere per ognuno un
    interesse reale e personale, il quale implica che un uomo tratti
    allo scopo di ridurre nello stesso tempo la sua libertà e il suo
    reddito. Tra governanti e governati, al contrario, qualunque forma
    assuma la rappresentanza, la delega o la funzione di governo, c’è
    necessariamente alienazione di una parte della libertà e della
    fortuna del cittadino: in cambio di che? L’abbiamo spiegato prima.
    
    Nel contratto dunque le prestazioni sono essenzialmente
    corrispettive: l’unica obbligazione che esso impone ai contraenti è
    quella che risulta dalla loro reciproca promessa personale; non è
    sottoposto ad alcuna autorità esterna; detta soltanto la legge
    comune alle parti, dall’iniziativa delle quali dipende anche la sua
    esecuzione.
    
    Se il contratto allora è questo, nella sua accezione più generale e
    nella pratica quotidiana, che cosa sarà il contratto sociale, che
    dovrebbe riunire tutti i membri di una nazione in uno stesso
    interesse?
    
    Il contratto sociale è l’atto supremo con il quale ogni cittadino
    cede alla società il suo amore, la sua intelligenza, il suo lavoro,
    i suoi servizi, i suoi prodotti, i suoi beni; in cambio
    dell’affetto, delle idee, dei lavori, prodotti, servizi e beni dei
    suoi simili: la misura del diritto di ciascuno è determinata sempre
    dalla misura del suo apporto, cioè quello che è possibile ottenere
    dipende sempre da quanto si cede.
    
    Così, il contratto sociale deve abbracciare l’universalità dei
    cittadini, dei loro interessi e dei loro rapporti. Se anche un solo
    uomo fosse escluso dal contratto, se uno solo degli interessi sui
    quali i membri della nazione, esseri intelligenti, industriosi,
    sensibili, sono chiamati a trattare, fosse omesso, il contratto
    sarebbe più o meno relativo e particolare; non sarebbe sociale.
    
    Il contratto sociale deve far aumentare il benessere e la libertà
    per ogni cittadino. Se vi si introducesse surrettiziamente una
    qualche ingiustizia; se una parte dei cittadini si trovasse, in
    virtù del contratto, in posizione subalterna e fosse sfruttata
    dall’altra, non si tratterebbe più di un contratto ma di una frode;
    di conseguenza, si potrebbe invocare in qualsiasi momento e con
    pieno diritto la rescissione del contratto.
    
    Il contratto sociale deve essere liberamente deciso, individualmente
    accettato, firmato manu propria da tutti coloro i quali vi
    partecipano. Se la discussione fosse impedita, troncata, elusa; se
    il consenso fosse estorto con l’inganno; se la firma fosse apposta
    in bianco, oppure a occhi chiusi, senza la lettura degli articoli e
    senza alcuna spiegazione preliminare; o se addirittura, come per il
    giuramento militare, essa fosse pregiudicata e forzata, il contratto
    sociale non sarebbe altro allora che una cospirazione contro la
    libertà e il benessere degli individui più ignoranti, deboli e
    numerosi, una spoliazione sistematica contro la quale ogni mezzo di
    resistenza e anche di rappresaglia potrebbe diventare un diritto e
    un dovere.
    
    Aggiungiamo che il contratto sociale, di cui si sta qui parlando,
    non ha nulla in comune con il contratto di associazione, con il
    quale, come abbiamo mostrato in un precedente studio, il contraente
    aliena una parte della sua libertà e si sottomette a una solidarietà
    imbarazzante, spesso rischiosa, nella speranza più o meno fondata di
    un beneficio. Il contratto sociale appartiene per essenza al
    contratto commutativo: non soltanto lascia libero il contraente, ma
    accresce la sua libertà; non soltanto lascia intatti i suoi beni, ma
    fa aumentare la sua proprietà; non prescrive nulla al suo lavoro; si
    basa esclusivamente sui suoi scambi: tutti elementi, questi, che non
    si ritrovano nel contratto di associazione, anzi sono in
    contraddizione con esso.
    
    Così deve essere, secondo le definizioni del diritto e la pratica
    universale, il contratto sociale. Occorre dire ora che, di questa
    molteplicità di rapporti che il patto sociale è chiamato a definire
    e a regolare, Rousseau non ha visto che i rapporti politici, così
    sopprimendo dal contratto i punti fondamentali per occuparsi
    solamente di quelli secondari? Occorre dire che di queste condizioni
    essenziali, indispensabili – la libertà assoluta del contraente, il
    suo intervento diretto, personale, la firma apposta con cognizione
    di causa, l’accrescimento di libertà e benessere che vi deve trovare
    – Rousseau non ne ha capita e rispettata alcuna?
    
    Per lui, il contratto sociale non è né un atto commutativo né un
    atto di associazione: Rousseau si guarda bene dall’invischiarsi in
    considerazioni del genere. È un atto con il quale si istituiscono
    degli arbitri, scelti dai cittadini, al di fuori di ogni convenzione
    preliminare, per tutti i casi di contestazione, lite, frode o
    violenza che possono presentarsi nei rapporti che a loro piacerà in
    seguito intrecciare; e vengono investiti, questi arbitri, di una
    forza sufficiente per dare esecuzione alle loro sentenze e farsi
    pagare le vacazioni.
    
    Nel libro di Rousseau non c’è traccia di un contratto positivo,
    reale, o basato su qualche interesse concreto. Per dare una idea
    esatta della sua teoria, non posso far di meglio che paragonarla a
    un trattato commerciale, nel quale però fossero stati soppressi i
    nomi delle parti, lo scopo della convenzione, la natura e
    l’importanza dei valori, prodotti e servizi per i quali si doveva
    trattare, le condizioni di qualità, consegna, prezzo, rimborso, in
    una parola tutto ciò che costituisce la materia dei contratti... e
    ci si fosse invece occupati esclusivamente di pene e tribunali.
    
     In verità, cittadino di Ginevra, voi dite cose giustissime. Ma
    prima di parlarmi del sovrano e del principe, delle guardie e del
    giudice, mi dite almeno per che cosa dovrei partecipare al
    contratto? Come! Voi mi fate firmare un atto in virtù del quale io
    posso essere perseguito per mille contravvenzioni dalla polizia
    urbana, rurale, fluviale, forestale, ecc.; vedermi tradotto davanti
    ai tribunali, giudicato, condannato per danno, truffa, razzia,
    rapina, bancarotta, devastazione, disobbedienza alle leggi dello
    Stato, offesa alla morale pubblica, vagabondaggio; e in questo atto
    non trovo una parola né sui miei diritti, né sui miei obblighi: vedo
    solo pene!
    
    Ma ogni pena presuppone un dovere, senza dubbio, e a ogni dovere
    corrisponde un diritto. Ebbene, dove sono, nel vostro contratto, i
    miei diritti e i miei doveri? che cosa ho promesso ai miei
    concittadini? ed essi, a me, che cosa hanno promesso? Bisogna che lo
    diciate: altrimenti il vostro sistema delle pene è un eccesso di
    potere; il vostro Stato di diritto, una flagrante usurpazione; la
    vostra polizia, le vostre sentenze e le vostre esecuzioni,
    altrettanti atti abusivi. Voi che avete così ben negato la
    proprietà, che avete messo sotto accusa con magniloquenza la
    disuguaglianza delle condizioni tra gli uomini, quale condizione,
    quale posto mi avete destinato nella vostra repubblica per sentirvi
    in diritto di giudicarmi, di mettermi in carcere, di togliermi la
    vita e l’onore? Perfido retore, avete gridato tanto contro gli
    sfruttatori e i tiranni solo per consegnarmi a essi indifeso.
    
    Così Rousseau definisce il contratto sociale:
    
    Trovate una forma di associazione che difenda e protegga, con tutta
    la forza comune, la persona e i beni di ogni socio, e attraverso la
    quale ognuno, unendosi a tutti, non obbedisca che a se stesso, e
    resti libero come prima.
    
    Sono queste, certo, le condizioni del patto sociale per quanto
    riguarda la protezione e la difesa dei beni e delle persone. Ma sul
    modo di acquistare, di trasferire dei beni, sul lavoro, lo scambio,
    il
    
     valore e il prezzo dei prodotti, sull’educazione, su
    quell’insieme di rapporti in base ai quali, volente o nolente,
    l’uomo entra in società con i suoi simili, Rousseau non dice nulla,
    e la sua teoria è veramente futile. Ora, chi non ammette che, senza
    una definizione dei diritti e dei doveri, non è possibile alcun tipo
    di transazione; che dove non ci sono clausole contrattuali, non
    possono esserci neppure infrazioni, né di conseguenza colpevoli; e
    per concludere nel pieno rispetto del rigore filosofico, che una
    società che punisce e che uccide in virtù di un simile titolo, dopo
    aver provocato la rivolta, commette essa stessa un assassinio
    premeditato?
    
    Rousseau è tanto lontano dal volere che si faccia menzione, nel
    contratto sociale, dei principi e delle leggi che governano la
    fortuna delle nazioni e dei singoli individui, che egli, nel suo
    programma demagogico, come nel Trattato sull’educazione, parte
    dall’ipotesi menzognera, spogliatrice, omicida, che solo l’individuo
    è buono e che è la società a renderlo depravato; che all’uomo, di
    conseguenza, conviene astenersi il più possibile da ogni relazione
    con i suoi simili, e che tutto quanto ci resta da fare in questo
    basso mondo, rimanendo nel nostro isolamento sistematico, consiste
    nello stabilire tra di noi una reciproca assicurazione per la
    protezione delle nostre persone e dei nostri beni; il sovrappiù, e
    cioè la cosa economica, la sola essenziale, viene abbandonato al
    capriccio della nascita e della speculazione, e sottomesso, in caso
    di contestazione, all’arbitrato di esperti elettivi, che giudicano
    ricorrendo ai loro manuali di diritto o appellandosi all’equità
    naturale della ragione. In due parole, il contratto sociale, secondo
    Rousseau, non è altro che l’alleanza offensiva e difensiva fra
    quelli che possiedono contro quelli che non possiedono, e la parte
    che vi prende ogni cittadino è la polizza che egli è tenuto a
    saldare, proporzionalmente alla sua fortuna e secondo la gravità dei
    rischi che il pauperismo gli fa correre.
    
    È questo patto di odio, monumento di insanabile misantropia; questa
    coalizione fra i baroni della proprietà, del commercio e
    dell’industria contro le esigenze del proletariato; questa promessa
    di
    
     guerra sociale; è questo, insomma, ciò che Rousseau chiama
    contratto sociale, con una tracotanza che non esiterei a definire
    scellerata se solo credessi nel genio di quest’uomo!
    
    Ma quand’anche il virtuoso e sensibile Jean-Jacques si fosse
    proposto di eternare la discordia tra gli uomini, avrebbe potuto far
    altro di meglio che offrire loro, come contratto di unione, la carta
    del loro eterno antagonismo? Basta guardarlo all’opera: nella sua
    teoria del governo riconoscerete lo stesso spirito che ha ispirato
    la sua teoria dell’educazione. Come è l’insegnante, tale è l’uomo di
    Stato. Se il pedagogo predica l’isolamento, il funzionario semina la
    divisione.
    
    Dopo aver posto per principio che il popolo è l’unico sovrano, che
    esso non può che rappresentarsi da solo, che la legge deve essere
    l’espressione della volontà di tutti, e altre magnifiche banalità
    che tutti i tribuni utilizzano, Rousseau abbandona surrettiziamente
    la sua tesi e si mette da parte. Per cominciare, alla volontà
    generale, collettiva, individuale, sostituisce la volontà della
    maggioranza; poi, con il pretesto che non è possibile per una
    nazione occuparsi della cosa pubblica dalla mattina alla sera,
    avanza la tesi della nomina, attraverso le elezioni, dei
    rappresentanti o dei mandatari che dovranno legiferare in nome del
    popolo e i cui decreti avranno forza di leggi. Al posto di una
    transazione diretta, personale sui suoi interessi, al cittadino non
    resta altro che la facoltà di scegliersi gli arbitri a maggioranza.
    Dopo di che, Rousseau può sentirsi a proprio agio. La tirannia, che
    si appellava al diritto divino, era odiosa; allora egli la
    riorganizza e la rende rispettabile, facendola, dice lui, derivare
    dal popolo. Invece del patto universale, integrale, che deve
    assicurare tutti i diritti, favorire tutte le facoltà, provvedere a
    tutti i bisogni, prevenire tutte le difficoltà, che tutti devono
    conoscere, approvare, firmare, egli ci offre, che cosa?, esattamente
    quello che oggi viene chiamato governo diretto, una ricetta, per
    mezzo della quale, proprio in assenza di ogni monarchia,
    aristocrazia, corpo ecclesiastico, è sempre possibile giustificare
    il parassitismo della minoranza e l’oppressione della maggioranza
    con il richiamo alla collettività astratta del popolo. È in una
    parola la legalizzazione del caos sociale, ricavata con l’aiuto di
    un sotterfugio intellettuale; la consacrazione della miseria,
    dedotta dalla sovranità del popolo. Del resto, non una parola sul
    lavoro, sulla proprietà, o sulle forze industriali, che pure il
    contratto sociale ha lo scopo di organizzare. Rousseau non sa che
    cos’è l’economia. Il suo programma parla esclusivamente di diritti
    politici; non riconosce diritti economici.
    
    Rousseau ci insegna che il popolo, ente collettivo, non ha esistenza
    unitaria; che è una persona astratta, una individualità morale, e
    come tale incapace di pensare, agire, muoversi: il che vuol dire che
    non c’è nulla che distingua la ragione generale dalla ragione
    individuale, e perciò rappresenta meglio la prima colui il quale
    sviluppa maggiormente in sé la seconda. Affermazione falsa che
    conduce direttamente al dispotismo.
    
    Poi Rousseau da questo primo errore deduce e traduce nei seguenti
    aforismi i punti salienti della sua teoria liberticida, e così ci
    insegna:
    
    Che il governo popolare o diretto deriva essenzialmente
    dall’alienazione della libertà di ognuno a vantaggio di tutti;
    
    Che la separazione dei poteri è la prima condizione di un governo
    libero;
    
    Che in una repubblica ben costituita non può essere permessa alcuna
    associazione o riunione particolare di cittadini, perché
    costituirebbe uno Stato nello Stato, un governo nel governo;
    
    Che sovrano e principe non sono affatto la stessa cosa, e anzi il
    primo non esclude il secondo, di modo che il governo più diretto può
    benissimo coesistere con una monarchia ereditaria: una combinazione
    che abbiamo già visto sotto Luigi Filippo, e che certuni vorrebbero
    rivedere;
    
    Che il sovrano, cioè il popolo, in quanto entità fittizia, persona
    morale, concetto puro dell’intelletto, ha come suo rappresentante
    naturale e visibile il principe, il quale più tende a essere uno
    solo, più conta;
    
     Che il governo non è qualcosa che sta dentro la società, ma
    qualcosa di esterno a essa;
    
    Che, sempre secondo questa catena di considerazioni che in Rousseau
    si susseguono con una logica geometrica, una vera democrazia non è
    mai esistita, e non esisterà mai, perché, se nella democrazia è la
    maggioranza che deve votare le leggi ed esercitare il potere, è però
    contrario all’ordine naturale il fatto che la maggioranza governi e
    la minoranza sia governata;
    
    Che il governo diretto è in particolare impraticabile in un Paese
    come la Francia, perché bisognerebbe per prima cosa livellare le
    fortune, e l’uguaglianza delle fortune è impossibile;
    
    Che del resto, e precisamente a causa dell’impossibilità di
    mantenere l’uguaglianza, il governo diretto è quello più instabile,
    più pericoloso, quello che più degli altri può generare catastrofi e
    guerre civili;
    
    Che siccome le democrazie antiche, pur essendo piccole e mantenute
    dalla schiavitù, non sono riuscite a sopravvivere, sarebbe vano
    introdurre da noi questa forma di governo;
    
    Che essa va bene per degli esseri divini, non per gli uomini.
    
    Dopo aver in tal modo e a lungo preso in giro i suoi lettori, dopo
    aver scritto sotto il titolo deludente, in verità, di Contratto
    sociale, il codice della tirannia capitalistica e mercantile, il
    ciarlatano ginevrino conclude che il proletariato, la subordinazione
    del lavoratore, la dittatura e l’inquisizione sono cose necessarie.
    
    È privilegio dei letterati, a quanto pare, rimpiazzare la ragione e
    la moralità con le loro capacità stilistiche.
    
    Mai uomo aveva assommato a tal punto l’orgoglio dello spirito,
    l’aridità dell’animo, la bassezza delle inclinazioni, la
    depravazione dei costumi, l’ingratitudine del cuore; mai l’eloquenza
    delle passioni, l’ostentazione della sensibilità, l’impudenza del
    paradosso, avevano provocato una simile infatuazione. Dopo Rousseau,
    e proprio in base al suo insegnamento, è sorta da noi la scuola, o
    meglio, l’industria filantropica e sentimentale che, pur coltivando
    il più perfetto egoismo, è capace di raccogliere gli onori della
    carità e della dedizione. Diffidate di questa filosofia, di questa
    politica, di questo socialismo alla Rousseau. La sua filosofia è
    fatta di belle parole che servono solo a coprirne il vuoto; la sua
    politica si costituisce essenzialmente sul dominio; quanto alle sue
    idee sulla società, esse riescono appena a mascherare la loro
    profonda ipocrisia. Quelli che leggono Rousseau e l’ammirano possono
    semplicemente essersi lasciati abbindolare, e io li scuso: ma a
    quelli che lo seguono e lo copiano dico che farebbero bene a badare
    alla propria reputazione. Si avvicina il tempo in cui basterà una
    citazione di Rousseau per rendere sospetto uno scrittore.
    
    Diciamo per finire che, a onta del XVIII secolo e del nostro, il
    Contratto sociale di Rousseau, capolavoro di destrezza oratoria, è
    stato ammirato, portato alle stelle, ritenuto la tavola delle
    libertà pubbliche; che costituenti, girondini, giacobini, cordelieri
    vi andarono tutti a cercare l’oracolo; che ha fatto da testo alla
    costituzione del 1793, dichiarata assurda dai suoi autori; e che a
    questo libro ancora oggi si ispirano i più zelanti riformatori della
    scienza politica e sociale. Il cadavere dell’autore, che il popolo
    trascinerà a Montfaucon il giorno in cui avrà capito il senso delle
    parole libertà, giustizia, morale, ragione, società, ordine, riposa
    glorioso e venerato sotto le catacombe del Pantheon, dove non
    entrerà mai nessuno di quegli onesti lavoratori che nutrono con
    sangue e sudore la loro povera famiglia, mentre i grandi geni che
    vengono esposti alla loro adorazione mandano, nel loro osceno
    furore, i loro bastardi all’ospedale.
    
    Ogni aberrazione della coscienza pubblica porta con sé la sua pena.
    Il successo di Rousseau è costato alla Francia più oro, sangue e
    disonore di quanto non gliene avesse fatto spargere il regno
    detestato delle tre famose cortigiane, Cotillon I, Cotillon II,
    Cotillon III (la Châteauroux, la Pompadour e la Dubarry). La nostra
    patria, che ha dovuto patire sempre a causa dell’influenza
    straniera, deve a Rousseau le lotte sanguinose e le delusioni del
    1793.
    
    E così, mentre la tradizione rivoluzionaria del XVIII secolo ci
    consegnava come antitesi dell’idea di governo quella di contratto
    sociale, che il genio gallico, così giuridico, avrebbe sicuramente
    approfondito, è bastato l’artificio di un retore per distoglierci
    dalla vera strada e far differire l’interpretazione. La negazione
    del governo, che sta al fondo dell’utopia di Morelly; che gettò un
    barlume, subito spento, attraverso le manifestazioni sinistre degli
    Arrabbiati e degli Hebertisti; che sarebbe emersa dalle dottrine di
    Babeuf, se Babeuf avesse saputo ragionare e dedurre il principio che
    lo ispirava: questa grande e decisiva negazione traversò,
    incompresa, tutto il XVIII secolo.
    
    Ma una idea non può perire: essa rinasce sempre dalla sua idea
    contraddittoria. Il trionfo di Rousseau significa solo che un giorno
    egli sarà detestato di più. In attesa della deduzione teorica e
    pratica dell’idea contrattuale, l’esperienza completa del principio
    di autorità servirà a educare l’umanità. Dal compimento stesso di
    questa evoluzione politica emergerà, alla fine, l’ipotesi opposta:
    il governo, consumandosi da solo, partorirà, come un suo postulato
    storico, il socialismo.
    
    Fu Saint-Simon il primo a riprendere le fila, sia pure con un
    linguaggio incerto e una coscienza ancora poco chiara. «La specie
    umana», scriveva fin dal 1818, «ha dovuto prima vivere sotto il
    regime governativo e feudale. Essa è stata destinata a passare dal
    regime governativo o militare sotto il regime amministrativo o
    industriale, dopo aver fatto abbastanza progressi nelle scienze
    positive e nell’industria. Infine, a causa della sua stessa
    organizzazione, essa è stata costretta a sopportare una crisi lunga
    e violenta, nella fase del suo passaggio dal sistema militare al
    sistema pacifico. L’epoca attuale è un’epoca di transizione. La
    crisi di transizione è incominciata con la predicazione di Lutero:
    da allora, la direzione degli spiriti è stata essenzialmente critica
    e rivoluzionaria».
    
    Poi, a sostegno delle sue idee, Saint-Simon cita una serie di uomini
    di Stato che avrebbero avuto l’idea più o meno vaga di questa
    grandiosa metamorfosi: Sully, Colbert, Turgot, Necker, lo stesso
    Villèle; e una serie di filosofi: Bacone, Montesquieu, Condorcet,
    Comte, Constant, Cousin, de Laborde, Fiévée, Dunoyer, ecc.
    Saint-Simon è tutto qui, in queste poche righe, scritte con uno
    stile profetico, ma non troppo digeribili per l’epoca in cui vennero
    scritte, troppo condensate per i giovani che per primi si legarono
    al nobile innovatore. Qui non si parla, si noti bene, né della
    comunità dei beni e delle donne, né della riabilitazione della
    carne, né dell’androgino, né del Padre Supremo, né del Circulus, né
    della Triade. Nulla di quanto è stato volgarizzato dai discepoli
    appartiene al maestro: anzi, i sansimoniani hanno misconosciuto
    proprio l’idea di Saint-Simon.
    
    Cosa ha voluto dire Saint-Simon?
    
    Dal momento in cui, da una parte, la filosofia succede alla fede e
    sostituisce la vecchia nozione di governo con quella di contratto;
    e, dall’altra parte, in seguito a una rivoluzione che abolisce il
    regime feudale, la società chiede di poter sviluppare, armonizzare
    le sue potenze economiche: da questo momento in poi è inevitabile
    che il governo, negato in teoria, si distrugga progressivamente
    nella pratica. E quando Saint-Simon, per designare questo nuovo
    ordine di cose, in conformità con il vecchio stile, usa il termine
    governo unito con l’attributo amministrativo o industriale, è
    evidente che la parola in questione assume nel suo contesto un
    significato metaforico, o piuttosto analogico, che poteva ingannare
    soltanto i profani. Non è possibile ingannarsi sul pensiero di
    Saint-Simon se si legge il brano, ancora più esplicito, che cito qui
    di seguito:
    
    Se si osserva l’andamento che segue l’educazione degli individui, si
    nota, nelle scuole primarie, che l’azione del governare è la più
    forte; e a mano a mano che si sale ai gradi più elevati, si vede che
    l’azione del governare tende a diminuire la sua intensità, mentre
    l’insegnamento svolge un ruolo sempre più importante. La stessa cosa
    si può dire a proposito dell’educazione della società. L’azione
    militare, cioè feudale (di governo), all’origine è stata
    necessariamente preponderante e ha dovuto acquistare sempre più
    importanza; a sua volta il potere amministrativo deve
    necessariamente finire con il dominare il potere militare.
    
     A questi passaggi di Saint-Simon bisognerebbe aggiungere la
    sua famosa Parabola che, nel 1819, cadde sul mondo ufficiale come
    una scure, e a causa della quale l’autore fu tradotto davanti alla
    Corte d’assise il 20 febbraio 1820 e assolto. Questo brano è troppo
    esteso, e del resto abbastanza conosciuto, per poterlo qui
    riportare.
    
    La negazione di Saint-Simon, come si vede, non è dedotta dall’idea
    di contratto, che Rousseau e i suoi seguaci avevano da ottant’anni
    corrotto e disonorato; essa deriva da una intuizione diversa,
    completamente sperimentale e a posteriori, come si addice a un
    osservatore dei fatti. Quello che la teoria del contratto,
    ispirazione della logica provvidenziale, avrebbe fin dal tempo di
    Jurieu fatto intravedere nell’avvenire della società è la fine dei
    governi; questo, appunto, constata Saint-Simon in base alla legge
    dell’evoluzione dell’umanità, e quando ormai la mischia fra i
    sostenitori del parlamento è giunta al colmo. Così, la teoria del
    diritto e la filosofia della storia, come due punti fermi posti
    l’uno davanti all’altro, hanno instradato lo spirito verso una
    rivoluzione sconosciuta: ancora un passo, e arriviamo al fatto.
    
    Tutte le strade portano a Roma, dice il proverbio. Tutte le indagini
    portano anche alla verità.
    
    Il XVIII secolo, credo di averlo dimostrato con abbondanza di
    particolari, se non fosse stato messo fuori strada dal
    repubblicanesimo classico di Rousseau, retrogrado e declamatorio,
    sarebbe giunto, attraverso lo sviluppo dell’idea di contratto, cioè
    per via giuridica, alla negazione del governo.
    
    Saint-Simon ha dedotto questa negazione dall’osservazione storica e
    dall’educazione dell’umanità. A mia volta, io l’ho dedotta, se mi è
    consentito citarmi in questo momento in cui sono il solo a
    rappresentare il dato rivoluzionario, dall’analisi delle funzioni
    economiche e dalla teoria del credito o dello scambio. Non ho
    bisogno, credo, per dimostrarlo, di richiamare le diverse opere e
    articoli nei quali mi sono occupato dell’argomento: da tre anni essi
    hanno suscitato abbastanza scalpore.
    
    Così, l’Idea, germe incorruttibile, traversa i tempi, illuminando di
    quando in quando qualche uomo di buona volontà, fino al giorno in
    cui una intelligenza che non si lascia intimidire la raccoglie, la
    lascia covare, poi la lancia come una meteora sulle masse
    elettrizzate.
    
    L’idea di contratto, nata dalla Riforma in opposizione con quella di
    governo, ha traversato il XVII e XVIII secolo senza che alcun
    pubblicista la rilevasse, senza che un solo rivoluzionario la
    vedesse. Anzi, le più illustri figure della Chiesa, della filosofia,
    della politica, si misero insieme per combatterla. Rousseau, Sieyès,
    Robespierre, Guizot, tutta la scuola dei sostenitori del parlamento
    sono stati gli alfieri della reazione. Un uomo, messo in guardia,
    anche se abbastanza tardi, dalla degradazione del principio
    conduttore della storia, riporta alla luce l’idea giovane e feconda:
    disgraziatamente l’aspetto più appariscente della sua dottrina
    inganna i suoi stessi discepoli; essi non si accorgono che il
    produttore è la negazione del governante, che l’organizzazione è
    incompatibile con l’autorità; così, per altri trent’anni si perde di
    vista la formula. Finalmente, essa si impadronisce dell’opinione
    pubblica a forza di proteste e di scandali; ma allora, o vanas
    hominum mentes, o pectora cœca! Le reazioni determinano le
    rivoluzioni! L’idea anarchica è appena impiantata nel suolo popolare
    che subito dei sedicenti conservatori vengono a innaffiarla con le
    loro calunnie, a ingrassarla con le loro violenze, a riscaldarla
    sotto le vetrate del loro odio, a soccorrerla in tutti i modi con le
    loro stupide reazioni. Grazie a loro, oggi dall’idea anarchica sono
    spuntate l’idea antigovernativa, l’idea del lavoro, l’idea del
    contratto; e cresce, sale, si arrampica sulle società operaie; e fra
    non molto, come il minuscolo seme del Vangelo, sarà un albero
    immenso che con i suoi rami coprirà tutta la terra.
    
    Dato che alla sovranità della Rivelazione si è sostituita quella
    della Ragione; che la nozione di contratto succede a quella di
    governo; che l’evoluzione storica conduce fatalmente l’umanità a una
    nuova pratica; che la critica economica già constata che sotto il
    nuovo regime l’istituzione politica deve essere assorbita
    dall’organismo industriale, concludiamo tranquillamente che la
    formula rivoluzionaria non può più essere né quella della
    legislazione diretta, né quella del governo diretto, e neppure
    quella del governo semplificato, bensì quella dell’abolizione del
    governo.
    
    Né monarchia, né aristocrazia e neppure democrazia, in quanto
    quest’ultima implicherebbe comunque un governo che agisce in nome
    del popolo e si sostituisce al popolo. Nessuna autorità, nessun
    governo, anche se popolare: ecco la rivoluzione.
    
    Legislazione diretta, governo diretto, governo semplificato, vecchie
    menzogne che sarebbe vano tentare di ringiovanire. Diretto o
    indiretto, semplice o composto, il governo del popolo farà sempre
    sparire il popolo. È sempre il dominio dell’uomo sull’uomo; la
    finzione che fa violenza alla libertà; la forza brutale che pone
    fine alle questioni, che invece solo la giustizia può risolvere;
    l’ambizione perversa che si fa sgabello della dedizione e della
    credulità. No, non prevarrà l’antica serpe: a furia di
    attorcigliarsi sulla questione del governo diretto, questa volta si
    è strangolata da sola. Ora che possediamo, in una stessa antitesi,
    l’idea politica e l’idea economica, la produzione e il governo, che
    possiamo reciprocamente dedurle l’una dall’altra, provarle,
    confrontarle, non c’è più da temere la reazione del neogiacobinismo.
    Quelli ancora affascinati dallo scisma di Robespierre saranno domani
    gli ortodossi della rivoluzione.
    
    [Da Idée générale de la Révolution au XIXe siècle, trad. it.
    (estratti): in P. Ansart, P.-J. Proudhon , La Pietra, Milano 1978,
    pp. 155-170].
    
    
    
    capitolo ottavo
    
    Secondo Proudhon, la dialettica sociale non può risolvere in una
    sintesi superiore le opposizioni della vita socio-economica. Tale
    concezione, che vede nel continuo svolgimento delle antinomie la
    struttura stessa del sociale, lo porta a formulare la dottrina del
    federalismo pluralista, considerata l’unica realistica perché le
    contraddizioni, costituendo la linfa vitale della società, sono
    insopprimibili. Il federalismo pluralista si definisce da una parte
    come critica di tutte le dottrine stataliste, uniciste,
    assolutistiche, in quanto utopistiche e reazionarie, e dall’altra
    come metodo regolativo, più che costitutivo, dei rapporti
    socio-economici. Esso infatti deve garantire, con la sua dimensione
    aperta, l’uguale possibilità di espressione di ogni individuo o
    gruppo, in armonia con le proprie esigenze geografiche e le proprie
    tradizioni storiche. Il sistema federativo deve essere insomma il
    risultato degli equilibri da ricercarsi nel rapporto fra gruppi e
    individui, fra unità e molteplicità, fra società globale e
    raggruppamenti particolari, fra coesione e libertà. Tuttavia, ciò
    che costituisce l’essenza e il carattere del contratto federativo –
    egli precisa – è che in un tale sistema i contraenti si riservano
    più diritto, autorità e proprietà di quanto non ne abbandonino. Per
    sorreggere questo disegno fondamentalmente libertario ed
    egualitario, Proudhon ha concepito il mutualismo economico, il solo
    in grado di rendere operante tale impianto strutturale. Il
    mutualismo in senso economico è un socialismo pluralista,
    decentralizzato, fondato sull’autogestione, da parte dei produttori,
    della proprietà federale degli strumenti di produzione. Esso
    realizza contemporaneamente la democrazia industriale, sotto il
    diretto controllo dei lavoratori, e una democrazia politica il cui
    unico scopo è di essere al servizio di quella industriale.
    
    La proprietà nel regime autogestionario e federalistico diventa una
    funzione definitivamente sottomessa alla regolamentazione interna
    del nuovo diritto economico e della giustizia sociale. Su questa
    proprietà federalizzata, che cambia non solo di soggetto ma di
    natura, Proudhon fa poggiare la federazione agricolo-industriale, la
    quale attribuisce gli strumenti di produzione contemporaneamente
    all’insieme della società economica, a ogni regione, a ogni gruppo
    di lavoratori, a ogni operaio e contadino considerati
    individualmente. Essa organizza una proprietà federativa e
    mutualista dei mezzi di produzione i cui possessori sono
    simultaneamente l’intera organizzazione economica, centrale e
    regionale, le diverse branche dell’industria, ogni fabbrica e infine
    ogni lavoratore. Il possesso universalizzato non comporta però la
    spartizione della proprietà, che resta una e indivisa. In altri
    termini, gli individui possono richiedere il riscatto della loro
    parte, prodotta dal proprio lavoro, al fine di realizzare un’altra
    ulteriore unità produttiva o sociale, senza pretendere tuttavia la
    divisione della proprietà precedente. Così, considerata in se
    stessa, l’idea di una federazione industriale serve di compimento e
    di sanzione alla federazione politica, perché riceve la conferma più
    schiacciante dai principi dell’economia.
    
    
    
    Il federalismo
    
    Se il lettore ha seguito con un po’ di attenzione quanto abbiamo
    esposto fin qui, la società umana deve apparirgli come una creazione
    fantastica, piena di cause di stupore e di misteri. Ne riassumeremo
    brevemente i termini:
    
    1. l’ordine politico riposa su due principi strettamente connessi,
    opposti e irriducibili: l’autorità e la libertà;
    
    2. da questi due principi, si deducono parallelamente due regimi
    contrari: il regime assolutista o autoritario, e il regime liberale;
    3. le forme di questi due regimi sono altrettanto differenti fra di
    loro, incompatibili e logicamente inconciliabili, quanto le loro
    nature; le abbiamo definite con due parole: indivisione e
    separazione
    
    (del potere);
    
    4. la ragione ci dice che ogni dottrina deve svilupparsi secondo
    
    i suoi principi, ogni essere secondo la sua legge: la coerenza è la
    condizione della vita come del pensiero. Ma in politica si verifica
    esattamente il contrario: né l’autorità né la libertà possono
    costituirsi per conto loro, creare un sistema che sia esclusivamente
    loro proprio; anzi, sono precisamente condannate, quando vogliono
    stabilire ciascuna il proprio regime, a ricorrere reciprocamente e
    perpetuamente al principio opposto;
    
    5. la conseguenza che ne risulta è che, siccome la fedeltà ai
    principi è possibile solo nella politica teorica ma la pratica è
    obbligata a transazioni di ogni sorta, ogni governo si riduce, a
    guardar bene, malgrado la miglior volontà e la più gran virtù
    possibile, a una creazione ibrida, equivoca, a una promiscuità di
    regimi che la logica ripudia e davanti alla quale la buona fede
    arretra spaventata; nessun governo sfugge a tale contraddizione;
    
    6. in conclusione: la pratica politica divenendo sempre più e
    fatalmente preda dell’arbitrario, la corruzione si impadronisce
    presto del potere, e la società è trascinata, senza posa e senza
    risorsa, sul piano inclinato delle rivoluzioni continue. [...]
    
    Dovremo osservare dapprima come i due principi, autorità e libertà,
    dai quali vengono tutte le difficoltà, si mostrano nella storia in
    una successione logica e cronologica. L’autorità, come la famiglia,
    come il padre, genitor, compare per prima: essa ha l’iniziativa, è
    un’affermazione. La libertà, coi suoi ragionamenti, viene dopo: è la
    critica, la protesta, la libera decisione. Le ragioni di questo
    ordine successivo risultano dai concetti stessi di tali principi e
    dalla natura delle cose, e la storia conferma questo ragionamento.
    In ciò non è possibile il dubbio e nessuna arbitraria inversione.
    Un’altra osservazione, non meno importante, è che il regime
    autoritario, paternalistico e monarchico, si allontana tanto più dal
    proprio ideale quanto più numerosa diviene la famiglia, tribù o
    città, e quanto più lo Stato cresce in popolazione e territorio:
    cosicché più l’autorità si estende, più diventa intollerabile. Donde
    le concessioni che essa è obbligata a fare all’opposto principio di
    libertà. Inversamente, il regime di libertà, quanto più lo Stato
    cresce in popolazione ed estensione, quanto più si moltiplicano i
    rapporti fra gli uomini e progredisce la scienza, tanto più si
    accosta al proprio ideale e acquista probabilità di successo. Prima
    si comincerà a reclamare da ogni parte la costituzione, più tardi si
    arriverà alla decentralizzazione. Pazientando un po’, si potrà veder
    sorgere l’idea di federazione. In conclusione, si potrà applicare
    alla libertà e all’autorità quello che diceva Giovanni Battista di
    sé e di Gesù: «Illam oportet crescere, hanc autem minui».
    
    Questo duplice moto, l’uno retrogrado e l’altro progressivo, che si
    risolve in un fenomeno unico, risulta tanto dalla definizione
    concettuale dei principi, quanto dalla loro posizione reciproca e
    dalla loro azione. E anche qui non è possibile l’equivoco, e non c’è
    posto per nessuna interpretazione arbitraria: la cosa si impone per
    evidenza intuitiva e certezza matematica. Siamo in presenza di una
    legge.
    
    La conseguenza di questa legge, che si può chiamare necessaria, è
    necessaria a sua volta: il principio di autorità, che compare per
    primo ed è come la materia o il dato da elaborare della libertà,
    della ragione e del diritto, viene a poco a poco subordinato dal
    principio giuridico, razionalista e liberale; come il capo di Stato,
    che dapprima inviolabile, irresponsabile, assoluto, vero pater
    familias, diventa poi giudicabile dalla ragione, primo soggetto di
    legge, e infine semplice agente, strumento o servitore della
    libertà.
    
    Questa terza proposizione è altrettanto certa delle prime due,
    esente da ogni equivoco e contraddizione, e chiaramente confermata
    dalla storia. Nella lotta eterna fra i due principi, la Rivoluzione
    francese, al pari della Riforma, rappresenta un’era di critica: essa
    ci fa vedere, nell’ordine politico, la libertà che toglie
    ufficialmente il primato all’autorità, così come la Riforma,
    nell’ordine religioso, contrassegnò il momento in cui il libero
    esame è venuto a prevalere sulla semplice fede. Dopo Lutero infatti
    ogni credenza religiosa si è fatta ragionatrice: l’ortodossia, non
    meno dell’eresia, ha assunto la pretesa di condurre l’uomo alla fede
    per mezzo della ragione. Il precetto di san Paolo, Rationabile sit
    obsequium vestrum, è stato sempre più largamente commentato e messo
    in pratica, Roma si è messa a discutere come Ginevra, e la religione
    tende a imporsi come una scienza.
    
     La sottomissione alla Chiesa si è complicata di tante
    condizioni e riserve che, salvo la differenza degli articoli di
    fede, non c’è più stata differenza di mentalità fra il cristiano e
    il non credente: essi non hanno la stessa opinione, questo è certo,
    ma per il resto, quanto a modo di pensare, di ragionare, quanto a
    coscienza, tutti e due si comportano allo stesso modo. Similmente,
    dopo la Rivoluzione francese, il prestigio dell’autorità è
    diminuito: la deferenza agli ordini di un principio è divenuta
    condizionale, si esige dal sovrano una specie di reciprocità, delle
    garanzie. La mentalità politica è cambiata: anche i monarchici più
    ferventi hanno voluto avere delle carte costituzionali come i vecchi
    baroni di Giovanni Senzaterra, e i Berryer, i Falloux, i
    Montalembert possono dichiararsi altrettanto liberali dei nostri
    democratici. Châteaubriand, il bardo della Restaurazione, si vantava
    di essere filosofo repubblicano: con un semplice atto del suo libero
    arbitrio si nominò difensore dell’altare e del trono. E sono note le
    vicende del cattolicesimo spinto di Lamennais.
    
    Così, mentre l’autorità è pericolante, diventando di giorno in
    giorno più precaria, il sentimento del diritto si afferma e la
    libertà, sempre sospetta, diviene tuttavia sempre più reale e più
    forte. L’assolutismo resiste quanto può, ma batte in ritirata:
    sembra che la repubblica, sempre combattuta, calunniata, tradita,
    bandita, avanzi tuttavia a passi di gigante. Qual partito trarremo
    noi da un fatto così capitale per la costituzione dei governi?
    
    Considerato che, nell’ordine teorico come nella realtà storica,
    l’autorità e la libertà si succedono come per una specie di
    polarizzazione; che la prima cala insensibilmente e si ritira,
    mentre la seconda cresce e si impone; che risulta da questo duplice
    moto una specie di subalternizzazione dell’autorità, la quale si
    rimette sempre più alle leggi della libertà; che, in altri termini,
    il regime liberale o contrattuale guadagna ogni dì sul regime
    autoritario, risulta che dovremo riferirci al concetto di contratto,
    come all’idea attualmente dominante nella politica. [...]
    
     Il contratto politico non acquista tutta la sua dignità e
    moralità se non a condizione:
    
    1. di essere sinallagmatico e commutativo;
    
    2. di essere circoscritto, riguardo al suo oggetto, entro certi
    limiti; due condizioni che si presuppongono esistenti sotto il
    regime democratico, ma che anche in esso troppo sovente non sono che
    una finzione. Possiamo forse dire che in una democrazia
    rappresentativa e centralizzatrice, in una monarchia costituzionale
    e censitaria, e tanto meno poi in una repubblica comunistica sul
    tipo di Platone, il contratto politico che lega il cittadino allo
    Stato sia perfetto e reciproco? Possiamo forse dire che questo
    contratto, che toglie ai cittadini la metà o i due terzi della loro
    sovranità e il quarto del loro prodotto, sia circoscritto entro
    giusti limiti? Sarebbe più esatto dire, come l’esperienza troppo
    spesso ci insegna, che il contratto in tutti questi sistemi è
    esorbitante, oneroso, essendo, per una parte più o meno
    considerevole dei cittadini, un impegno senza giusta contropartita;
    e anche aleatorio, poiché il vantaggio promesso in cambio, già
    insufficiente, non è neppur sicuro.
    
    Affinché il contratto politico risponda alla condizione
    sinallagmatica e commutativa che l’idea stessa di democrazia esige,
    affinché, contenuto in giusti limiti, resti vantaggioso e comodo per
    tutti, bisogna che il cittadino, entrando in questa società:
    
    1. abbia a ricevere dallo Stato tanto quanto egli sacrifica allo
    Stato;
    
    2. che conservi tutta la propria libertà, la propria sovranità e il
    diritto di iniziativa, salvo per la parte relativa allo speciale
    oggetto per il quale si è fatto il contratto e si è chiesta la
    garanzia allo Stato. Così regolato e inteso in tal senso, il
    contratto politico diventa quello che io chiamo una federazione.
    
    Federazione, dal latino foedus, genitivo foederis, vale a dire
    patto, 194
    
     contratto, trattato, convenzione, alleanza, ecc., è una
    convenzione in virtù della quale uno o più capi di famiglia, uno o
    più comuni, uno o più gruppi di comuni e Stati, si obbligano
    reciprocamente e su un piede di uguaglianza gli uni verso gli altri,
    per uno o più scopi particolari che diventano da quel momento
    particolare ed esclusiva incombenza dei delegati della federazione*.
    Esaminiamo bene questa definizione.
    
    Quello che fa l’essenza e il carattere del contratto federale, sul
    quale richiamo l’attenzione del lettore, è che in tale sistema i
    contraenti, capi di famiglia o comuni, cantoni, province o Stati,
    non solo si impegnano bilateralmente e commutativamente gli uni
    verso gli altri, ma si riservano singolarmente, nel formare il
    patto, una quantità di diritti, di libertà, di autorità, di
    proprietà, maggiore di quella che essi sacrificano.
    
    Così non è, per esempio, nella società universale di beni e profitti
    autorizzata dal codice civile, detta solitamente «società in
    comunanza», che è l’immagine in miniatura di tutti gli Stati
    assoluti. Colui che si impegna in un’associazione di tale specie,
    soprattutto se essa è perpetua, è limitato da legami, è soggetto a
    impegni, per una parte maggiore dell’iniziativa che conserva. Ed è
    questo che rende un tale contratto così raro e che in ogni tempo ha
    reso generalmente insopportabile la vita cenobitica. Qualsiasi
    impegno, anche sinallagmatico e commutativo, che, chiedendo agli
    associati la totalità dei loro sforzi, non lascia nulla alla loro
    indipendenza e li rende completamente votati all’associazione, è un
    impegno eccessivo, che ripugna tanto al cittadino come al privato
    individuo.
    
    In base a tali principi, il contratto di federazione, avendo per
    scopo, in linea generale, di garantire agli Stati confederati la
    loro sovranità, l’integrità del territorio, la libertà dei
    cittadini; di regolare pacificamente le loro controversie; di
    attuare quei provvedimenti di carattere generale che riguardano la
    sicurezza e la prosperità comune; un tale contratto, dico, malgrado
    l’importanza degli interessi in gioco, è essenzialmente limitato.
    L’autorità che ha il compito di metterlo in esecuzione non potrà mai
    opprimere le parti associate: vale a dire che le attribuzioni delle
    autorità federali non potranno mai prevalere in numero e peso su
    quelle delle autorità comunali e provinciali, così come queste non
    potranno condizionare eccessivamente i diritti e le prerogative
    dell’uomo e del cittadino. Perché se così non fosse, il comune
    diventerebbe una circoscrizione, la federazione tornerebbe a essere
    uno Stato centralizzato di tipo monarchico, e l’autorità federale,
    da semplice mandataria subordinata alla volontà dei contraenti, come
    deve essere, si presenterebbe come preponderante: invece di essere
    limitata a un servizio speciale, sarebbe intesa a occuparsi di tutte
    le attività e le iniziative, e gli Stati confederati si troverebbero
    ridotti a prefetture, intendenze o succursali. Tutto il corpo
    politico così ridotto, potrebbe allora chiamarsi repubblica, o
    democrazia, o con qualunque altro nome, ma non sarebbe più uno Stato
    costituito nella pienezza delle sue autonomie, non sarebbe più una
    confederazione. E la stessa cosa accadrebbe, a maggior ragione, se,
    per qualche errato calcolo di economia, per deferenze particolari, o
    per qualunque altra causa, comuni, cantoni o Stati confederati
    incaricassero uno di loro dell’amministrazione e del governo di
    tutti. La repubblica da federativa diventerebbe unitaria e sarebbe
    sulla via del dispotismo.
    
     In conclusione, il sistema federativo è esattamente il
    contrario della gerarchia o centralizzazione amministrativa e
    governativa, che è il contrassegno, indistintamente, delle
    democrazie imperiali, delle monarchie costituzionali e delle
    repubbliche unitarie. La sua legge fondamentale, caratteristica, è
    la seguente: «Nella federazione, le attribuzioni dell’autorità
    centrale si restringono, diminuiscono, man mano che la
    confederazione si sviluppa con l’accesso di nuovi Stati». Nei
    governi centralizzati, invece, le attribuzioni del potere supremo si
    moltiplicano, si estendono, si fanno più dirette e immediate,
    accrescono le loro competenze sugli affari di province, comuni,
    corporazioni, e su quelli dei cittadini, in ragione diretta della
    superficie territoriale e della massa della popolazione. E ne viene
    quella schiacciante pressione sotto la quale sparisce ogni libertà,
    non solamente comunale e provinciale, ma anche individuale e
    nazionale.
    
    Una conseguenza di questo patto, con la quale chiuderemo il
    capitolo, è che, essendo il sistema unitario l’inverso del sistema
    federativo, una confederazione tra grandi monarchie costituzionali,
    e a maggior ragione tra democrazie imperiali, è una cosa
    impossibile. Stati come la Francia, l’Austria, l’Inghilterra, la
    Russia, la Prussia, possono stringere fra loro trattati di alleanza
    e di commercio, ma non possono confederarsi: prima di tutto perché
    il principio sul quale si sono costituiti, essendo di natura
    contrario a ciò, li metterebbe in opposizione con il patto federale;
    il quale, dal canto suo, li obbligherebbe a rinunciare in parte alla
    loro sovranità e a riconoscere al di sopra di sé, almeno in certi
    casi, un’autorità arbitrale. Viceversa, la natura di questi Stati è
    di comandare, non di transigere o di obbedire. I principi che nel
    1813, sostenuti dalla ribellione delle masse, combattevano per la
    libertà dell’Europa contro il dispotismo napoleonico, e più tardi
    formarono la Santa Alleanza, non erano dei «confederati»:
    l’assolutismo dei loro Stati non permetteva loro di assumere quel
    titolo. Essi erano, come nel 1792, dei coalizzati; e la storia non
    darà loro altro nome. Diverso è il caso della Confederazione
    germanica, che è entrata in un periodo di riforme, e nella quale
    l’affermarsi della libertà e della nazionalità rischia di far
    sparire a un certo momento le dinastie che vi fanno ostacolo. [...]
    
    L’idea di federazione è antica nella storia quanto quelle di
    monarchia e democrazia, anzi quanto l’autorità e la libertà. Come
    potrebbe essere altrimenti? Tutto ciò cui la legge del progresso dà
    vita affonda le sue radici nella natura. La civiltà cammina,
    condizionata dai suoi principi, preceduta, seguita e avviluppata dal
    suo corteo di idee; e la federazione, fondata sul contratto,
    espressione solenne della libertà, non poteva non essere presente.
    [...]
    
    Per lunghi secoli l’idea di federazione sembra velata e tenuta in
    riserva: ciò è da spiegarsi con l’iniziale incapacità delle nazioni
    e con la conseguente necessità di formarle con una rigida
    disciplina. Tale è il ruolo che, per una certa qual superiore
    determinazione, pare sia stato affidato al sistema unitario. Era
    necessario infatti domare, fissare le moltitudini erranti, rozze e
    disorganizzate, riunire in gruppi le città isolate e ostili, fondare
    a poco a poco, di autorità, un diritto comune e imporre, in forma
    categorica, le leggi generali dell’umanità. Non si potrebbe
    attribuire altro significato a queste grandi creazioni politiche
    dell’antichità, cui succedettero in seguito, mano a mano, gli imperi
    dei Greci, dei Romani, poi dei francesi, la Chiesa cristiana, la
    rivolta di Lutero, e finalmente la Rivoluzione francese.
    
    La federazione non avrebbe potuto adempiere a questa missione
    educatrice in primo luogo perché, essendo basata sulla libertà,
    rifiuta l’idea di costrizione e riposa sulla nozione di contratto
    sinallagmatico, commutativo e limitato; in secondo luogo perché suo
    compito è garantire la sovranità dell’autonomia ai popoli che
    unisce: agli stessi che inizialmente si trattava di tenere sotto il
    giogo nell’attesa che fossero in grado di governarsi da sé, con la
    ragione. In breve, essendo la civiltà per sua natura progressiva,
    una forma di governo federativo che si fosse instaurata sin dagli
    inizi avrebbe implicato una contraddizione.
    
    Un altro motivo di esclusione provvisoria per il principio
    federativo è da ricercarsi nella ridotta capacità di espansione
    degli Stati riuniti in federazioni. Abbiamo detto nel II capitolo
    che la monarchia, per sé e in virtù del suo principio, non conosce
    limiti al proprio sviluppo e che lo stesso vale per la democrazia.
    Questa facoltà di espansione è passata dai governi semplici, o a
    priori, ai governi misti, o di fatto, aristocrazie e democrazie,
    imperi democratici e monarchie costituzionali che, indistintamente,
    sotto questo profilo hanno fedelmente obbedito al loro principio. Da
    lì sono nati i sogni messianici e tutti i tentativi di monarchia o
    repubblica universale.
    
    In questi sistemi la tendenza all’inglobamento non ha fine: si può
    tranquillamente affermare che in essi l’idea di «frontiera naturale»
    è una finzione, o per meglio dire una soperchieria politica; i
    fiumi, le montagne e i mari sono considerati non più come limiti
    territoriali, ma come ostacoli che il sovrano e la nazione hanno
    quasi il dovere di superare. Ciò è nella logica del principio: la
    facoltà di possedere, di accumulare, di comandare e di sfruttare è
    infinita, non ha che l’universo come confini. L’esempio più famoso
    di questo accaparramento di territori e di popolazioni, a dispetto
    di montagne, fiumi, foreste, mari e deserti, è stato l’impero
    romano, che aveva il suo centro e la sua capitale in una penisola,
    in seno a un vasto mare, e le sue province tutte intorno,
    raggiungibili, anche se lontane, dai suoi eserciti e dai suoi
    funzionari.
    
    Ogni Stato è per sua natura annessionista. Nulla arresta il suo
    cammino invasore, tranne l’incontro con un altro Stato, invasore
    anch’esso e in grado di fronteggiarlo. I propugnatori più accesi del
    principio di nazionalità non mancano, all’occasione, dal
    contraddirsi quando ne va dell’interesse e, a maggior ragione, della
    sicurezza del loro Paese: chi nella democrazia francese avrebbe
    osato reclamare contro l’annessione della Savoia e di Nizza? Non è
    neppure tanto raro vedere le annessioni favorite dagli stessi
    annessi, che mercanteggiano la loro indipendenza e la loro
    autonomia. Diverso è quanto accade nel sistema federativo. In grado
    di difendersi egregiamente se attaccata – gli svizzeri l’hanno più
    volte dimostrato – una confederazione è invece molto debole quando
    si tratta di conquistare. Eccettuato il caso, molto raro, in cui uno
    Stato vicino chieda di essere accolto nel patto, si può dire che,
    proprio per una questione vitale, di sopravvivenza, essa si preclude
    ogni possibilità di ampliamento. Infatti, in virtù del principio che
    limitando l’oggetto del patto di federazione alla mutua difesa e a
    qualche fine di comune utilità, essa garantisce a ogni Stato il suo
    territorio, la sua sovranità, la sua costituzione, la libertà dei
    suoi cittadini, riservandogli in più autorità, iniziativa, potenza,
    in misura maggiore di quel che esso sacrifica, la confederazione si
    autoimpone dei limiti; limiti tanto più rigorosi quanto più le
    località ammesse nell’alleanza sono distanti tra loro, così che si
    arriva a un punto in cui il patto si trova a non avere più logica
    giustificativa.
    
    Supponiamo che uno degli Stati confederati formuli il progetto di
    una conquista particolare, che desideri annettere una città vicina,
    una provincia confinante, che voglia intromettersi negli affari di
    un altro Stato; non solo non potrà contare sull’appoggio della
    confederazione, la quale risponderà che il patto è stato stipulato
    nell’ottica della mutua difesa e non dell’espansione di un singolo,
    ma si vedrà anche ostacolato nella sua impresa dalla solidarietà
    federale che non consente che tutti si espongano alla guerra per le
    ambizioni di uno solo. In tal modo una confederazione è allo stesso
    tempo una garanzia per i suoi membri e per i suoi vicini.
    
    Così, contrariamente a ciò che accade per altre forme di governo,
    l’idea di una confederazione universale è contraddittoria. In questo
    si manifesta una volta di più la superiorità morale del sistema
    federativo sul sistema unitario, esposto a tutti gli inconvenienti e
    a tutti i vizi dell’indefinito, dell’illimitato, dell’assoluto e
    dell’ideale.
    
    L’Europa stessa sarebbe troppo grande per una confederazione unica:
    essa potrebbe formare soltanto una confederazione di confederazioni.
    È in base a questo concetto che, nella mia ultima pubblicazione,
    indicavo come primo passo da fare nella riforma del diritto pubblico
    europeo il ristabilimento delle confederazioni italiana, greca,
    batava, scandinava e danubiana, come preludio alla
    decentralizzazione dei grandi Stati e, in seguito, al disarmo
    generale.
    
    Ogni nazionalità tornerebbe allora alla libertà e prenderebbe corpo,
    in tal caso, l’idea di un equilibrio europeo, auspicato da tutti i
    pubblicisti e gli uomini di Stato, ma irrealizzabile finché
    sussisteranno grandi potenze unitarie.
    
    Non meraviglia quindi che l’idea di federazione, condannata a una
    esistenza quieta e modesta, a vivere sulla scena politica il ruolo
    più negletto, sia rimasta sino ai nostri giorni offuscata dallo
    splendore dei grandi Stati. Avendo sempre i pregiudizi e gli abusi
    di ogni genere pullulato e infierito con la stessa intensità sia
    negli Stati federativi che nelle monarchie feudali o unitarie –
    pregiudizio di nobiltà, privilegio di borghesia, autorità della
    Chiesa, con la conseguente totale oppressione del popolo e servitù
    dello spirito – la libertà è rimasta imprigionata in una camicia di
    forza e la civiltà impantanata in un invincibile status quo.
    
    Nel sistema federativo, simili motivi di apprensione non esistono.
    L’autorità centrale, promotrice più che esecutrice, non dispone che
    di una parte assai limitata della pubblica amministrazione, quella
    che concerne i soli servizi federali; essa è posta sotto il
    controllo degli Stati, padroni assoluti di se stessi, che godono,
    per quanto rispettivamente li concerne, dell’autorità più completa,
    legislativa, esecutiva e giudiziaria. Il potere centrale è meglio
    subordinato in quanto è affidato a un’assemblea formata dai delegati
    degli Stati, membri anch’essi, molto spesso, dei relativi governi,
    che per questa ragione esercitano sugli atti dell’assemblea federale
    una sorveglianza tanto più accurata e severa.
    
    Come dal punto di vista politico due o più Stati indipendenti
    possono confederarsi per garantire reciprocamente l’integrità dei
    rispettivi territori o per proteggere le proprie libertà, così dal
    punto di vista economico possono confederarsi per la protezione
    reciproca del commercio e dell’industria, realizzando quel che si
    chiama «unione doganale». Si possono confederare, inoltre, per la
    costruzione e la manutenzione delle vie di comunicazione, strade,
    canali, ferrovie, per l’organizzazione del credito e
    dell’assicurazione, ecc.
    
    Lo scopo di queste particolari federazioni è di sottrarre i
    cittadini degli Stati contraenti allo sfruttamento capitalista e
    burocratico tanto all’interno che all’esterno; esse costituiscono
    nel loro insieme, in opposizione al feudalesimo finanziario oggi
    dominante, ciò che chiamerò «federazione agricolo-industriale». Non
    entrerò al riguardo in una specifica trattazione. Chi da quindici
    anni ha più o meno seguito i miei lavori sa cosa intendo dire. Il
    feudalesimo finanziario e industriale ha come scopo di consacrare,
    attraverso la monopolizzazione dei servizi pubblici, il privilegio
    dell’istruzione, la parcellizzazione del lavoro, la remunerazione
    del capitale, la disuguaglianza delle imposte, ecc., la fragilità
    politica delle masse, il servaggio economico o salariato, in una
    parola, la disuguaglianza delle condizioni sociali e delle
    ricchezze. La federazione agricolo-industriale, al contrario, tende
    a raggiungere per approssimazioni successive l’uguaglianza,
    organizzando al minor costo possibile, e in altre mani che quelle
    dello Stato, tutti i servizi pubblici, mediante la liberalizzazione
    del credito e dell’assicurazione, con la perequazione dell’imposta,
    garantendo il lavoro e l’istruzione, per mezzo di una combinazione
    del lavoro che permetta a ogni lavoratore di divenire da operaio
    semplice operaio specializzato, e da salariato impiegato. Una simile
    rivoluzione non potrebbe evidentemente essere opera di una monarchia
    borghese né di una democrazia unitaria: è compito della federazione.
    
    Essa non rientra nel contratto unilaterale o di «beneficenza», né
    nelle istituzioni di carità; rientra invece nel contratto
    sinallagmatico e commutativo. Considerata in sé, l’idea di una
    federazione industriale che serva di complemento e ratifica alla
    federazione politica riceve la conferma più evidente dai principi
    dell’economia. È l’applicazione sulla più alta scala dei principi di
    mutualità, della divisione del lavoro e della solidarietà economica
    che la volontà del popolo trasformerebbe in leggi dello Stato.
    
    Che il lavoro resti libero, che il potere, più letale per il lavoro
    dello stesso sistema comunista, si astenga dall’intervenire in
    questo campo: e sarebbe ora! Ma le industrie sono sorelle, sono
    legate tra loro: l’una non può soffrire senza che le altre ne
    risentano. Che si federino dunque, non per assorbirsi e fondersi, ma
    per garantirsi mutualmente le condizioni di prosperità a loro comuni
    e di cui nessuno può arrogarsi il monopolio. Formando un patto di
    tal genere non porteranno alcun attacco alla loro libertà, non
    faranno che imprimerle, anzi, più certezza e più forza. Accadrà di
    esse ciò che si verifica per i poteri dello Stato o per i vari
    organi di un animale, in cui la potenza e l’armonia sono il
    risultato della suddivisione.
    
    Così, fatto mirabile, la zoologia, l’economia politica e la politica
    si trovano qui d’accordo per dimostrarci, la prima, che l’animale
    più perfetto, con gli organi più efficienti e quindi più attivo, più
    intelligente e meglio costituito per dominare, è quello nel quale le
    facoltà e gli organi sono più specializzati, suddivisi, coordinati;
    la seconda, che la società più produttiva, più ricca, più
    salvaguardata dall’ipertrofia e dal pauperismo, è quella in cui il
    lavoro è meglio diviso, la concorrenza più aperta, lo scambio più
    leale, la circolazione più regolare, il salario più giusto, la
    proprietà più legale, tutte le industrie, infine, reciprocamente
    garantite; la terza, infine, che il governo più libero e più morale
    è quello in cui i poteri sono meglio divisi, l’amministrazione
    meglio ripartita, l’indipendenza dei gruppi più rispettata, le
    autorità provinciali, cantonali, municipali meglio servite da quella
    centrale: in una parola, il governo federativo.
    
    Riassumendo, così come il principio monarchico o di autorità ha come
    primo corollario l’assimilazione o incorporazione dei gruppi che si
    annette, in altri termini la centralizzazione amministrativa, ovvero
    ciò che si potrebbe ulteriormente definire la messa in comune di
    tutte le funzioni; come secondo corollario, l’indivisione del
    potere, altrimenti detto assolutismo; come terzo corollario, il
    feudalesimo terriero e industriale; allo stesso modo il principio
    federativo ha come primo corollario l’indipendenza amministrativa
    dei gruppi aggregati; come secondo corollario, la separazione dei
    poteri in ogni Stato sovrano; e infine, come terzo corollario, la
    federazione agricolo-industriale.
    
    * Nella dottrina di Jean-Jacques Rousseau, che è quella di
    Robespierre e dei giacobini, il contratto sociale è in verità una
    finzione dei giuristi immaginata per render ragione, senza ricorrere
    al diritto divino o all’autorità paterna o alla necessità sociale,
    della formazione dello Stato e dei rapporti tra il governo e gli
    individui. Tale teoria, mutuata dai calvinisti, era nel 1762 un
    progresso, poiché mirava a ridurre a un principio razionale quanto
    fino ad allora era stato considerato come una semplice conseguenza
    della legge di natura e del sentimento religioso. Nel sistema
    federativo, invece, il contratto sociale è più che una finzione: è
    un patto positivo, effettivo, che è stato realmente proposto,
    discusso, votato, adottato, e che si può modificare regolarmente a
    volontà dei contraenti. Fra il contratto federativo e quello di
    Rousseau e del 1793 c’è tutta la distanza che passa fra la realtà e
    l’ipotesi [nota di Proudhon].
    
    [Da Du principe fédératif, trad. it.: La questione sociale,
    Veronelli, Milano 1957, pp. 91-103].
    
    203