Pierre-Joseph Proudhon

Critica della proprietà e dello Stato

a cura di Giampietro N. Berti
elèuthera
© antologico 2009 elèuthera
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Progetto grafico di Riccardo Falcinelli
Indice
Introduzione
Nota bio-bibliografica
capitolo primo
Critica della proprietà
capitolo secondo
Critica dello Stato
capitolo terzo
Critica del comunismo
capitolo quarto
La giustizia come equilibrio
capitolo quinto
Autorità e libertà
capitolo sesto
L’associazione degli uguali
capitolo settimo
Il nuovo contratto sociale
capitolo ottavo
Il federalismo

Introduzione

La chiave del pensiero proudhoniano, ciò che ne costituisce al tempo stesso l’originalità e l’unità, non si trova in un apriorismo intellettuale o in un dogma metafisico, ma scaturisce dall’analisi dell’esistente inteso nella sua evidenza primordiale, dalla constatazione sociologica del suo palese pluralismo: il mondo morale, come il mondo fisico, riposano su una pluralità di elementi irriducibili e antagonisti. E del pluralismo occorre tener conto in ogni costruzione economica, in ogni concezione filosofica, in ogni metodo pedagogico, perché questa è la dinamica incessante, di composizione e scomposizione, della realtà, questa è la sua tensione permanente e la linfa vitale della libertà. Solo riconoscendo questo pluralismo organico nella realtà dei fatti e della società, sarà possibile passare a un pluralismo organizzatore come metodo di pensiero e tecnica di azione, come fattore di equilibrio delle forze.

Si delinea così in modo inequivocabile il fondamento teorico del suo anarchismo, ossia un relativismo pluralistico che può essere considerato senza alcun dubbio la chiave interpretativa di tutto il suo pensiero, di tutta la sua dottrina. Questo relativismo pluralistico poggia anch’esso sull’idea centrale che la scienza e la libertà sono infinite, per cui ogni pretesa di conoscenza integrale come ogni pretesa di risoluzione definitiva si mostrano fasulle sul piano scientifico e totalitarie sul piano politico. Occorre invece un grande realismo alimentato dalla consapevolezza della precarietà, della provvisorietà e della relatività di ogni conoscenza umana*.

Per Proudhon il problema fondamentale della conoscenza risiede nella difficoltà che l’uomo ha di abbracciare e di comprendere la simultaneità degli innumerevoli fattori che intervengono nello svolgimento della realtà. Per progredire, la scienza ha bisogno di concettualizzazioni, di schematizzazioni, di ordine, di precisione, ma nello stesso tempo ogni fissità pregiudica l’avanzata stessa del sapere, convertendolo da una ricerca «aperta» a una forma chiusa.

La scienza rappresenta di fatto una lotta contro ogni forma di arbitrio e, in quanto tale, non può che essere fondata obiettivamente; tuttavia questa razionalità, che deve essere il fondamento costante della ricerca, non può pretendere di essere esaustiva perché non esiste la possibilità di una totale razionalizzazione della realtà. Proudhon riconosce dei limiti alla conoscenza umana, nel senso che essa può spiegare il rapporto tra le cose, ma non può dare ragione e spiegazione della natura ultima dei fenomeni. Si precisa così il senso del suo problematicismo, tutto centrato sull’idea che il progresso scientifico si identifichi con la consapevolezza dell’impossibilità di pervenire a soluzioni integrali. L’esperienza umana non può risolversi in dati elementari prestabiliti. Bisogna dunque riconoscere fino in fondo la limitatezza dell’uomo e perciò la sua impossibilità a risolvere definitivamente ogni problema.

Questa consapevolezza fa di Proudhon un teorico avvertito e disincantato del socialismo, perché lo pone lontano da ogni sogno utopistico di rigenerazione totale e di metamorfosi antropologica.

Diventa dunque comprensibile la sua critica alla dialettica di Hegel. Mentre questi definisce la realtà nella forma triadica di una tesi e di un’antitesi, che si risolvono in una sintesi superiore, Proudhon afferma che proprio le opposizioni e le antinomie sono la struttura stessa del reale e che l’antinomia non si risolve. Il sistema hegeliano, secondo Proudhon, è un sistema precostituito, perché invece di attendere i fatti li anticipa; di conseguenza, la sua sintesi è del tutto fantastica e arbitraria. Insomma la sintesi, afferma Proudhon, non distrugge realmente ma solo formalmente la tesi e l’antitesi ed essa può farsi valere solo trasformandosi in una volontà egemonica di potere. Rispetto alla dialettica hegeliana, quella di Proudhon si specifica come un metodo di analisi dei rapporti, una ricerca estremamente sottile e sfumata delle leggi di composizione e combinazione dei fattori della realtà. In questo senso, essa tende a essere un pluralismo sociologico sempre più realistico; occorre non tanto inventare una logica, una idea sia pure rivoluzionaria e libertaria da imporre con forza alla realtà, ma scoprire le leggi proprie della società in modo da restituire a questa la sua autonomia, persa con la fissazione istituzionale della ripetitività autoritaria.

Si tratta dunque di un metodo fortemente empirico che consente all’osservatore di seguire le infinite composizioni e scomposizioni della realtà, di aderire al movimento reale delle cose e del loro svolgimento. L’ostilità di Proudhon verso tutti gli a priori lo spinge sempre più a cercare una metodologia capace di intendere specificamente il movimento stesso della realtà nel suo farsi, «colto, per così dire, sul fatto», in una ricerca incessante, essendo indefinito lo sviluppo stesso della società. Ecco perché la ricerca proudhoniana è costituzionalmente una ricerca «aperta», per sua struttura rivedibile e correggibile, non dogmatica, intrinsecamente libertaria. Non si tratta, beninteso, di una filosofia eclettica, ma di una concezione sociale che si prefigge di essere scientifica perché tende a riflettere l’infinita complessità della società per liberarla da ogni soffocante sintesi unitaria; perché si sostanzia di un metodo che non esita a cercare e accogliere la diversità in tutti i suoi dettagli. In conclusione, la struttura antinomica della società, essendo espressione dell’opposizione reale delle cose concrete, dimostra di per sé l’impossibilità di ogni sintesi a priori e di conseguenza l’impotenza oggettiva di ogni regime volto alla loro forzata mediazione. E qui infatti sta tutto lo sforzo teorico di Proudhon: nel ricercare l’equilibrio dei contrari senza far scomparire la contraddizione, linfa vitale della società e della libertà.

Si spiega quindi perché non vi è in Proudhon un’assolutizzazione del suo stesso metodo. In coerenza con i propri presupposti, il metodo di Proudhon è nei suoi principi anti-assolutistico, in quanto la filosofia viene concepita soltanto come metodologia, cioè come logica delle scienze. Secondo Proudhon è necessario vedere quale «struttura» sia sottesa alla legge delle antinomie, quale interazione reciproca le colleghi, quale totalità le comprenda.

Alla base della sociologia elaborata dal pensatore francese sta il concetto del lavoro come azione intelligente dell’uomo sulla materia e come forza plastica della società. Questo concetto è formulato da Proudhon in modo assai preciso: il lavoro – campo di osservazione dell’economia politica considerato: 1. soggettivamente nei lavoratori; 2. obiettivamente nella produzione; 3. sinteticamente nella distribuzione degli impieghi e nella ripartizione dei salari; 4. storicamente nelle sue determinazioni scientifiche – è la forza plastica della società, l’idea tipo che determina le diverse fasi della sua crescita e, di seguito, di tutto il suo organismo sia interno sia esterno. Così inteso, il concetto di lavoro è il concetto tipo della «serie», ciò che, in un certo senso, unifica tutte le serie perché è proprio il lavoro che si esprime nelle forme infinite del materialismo, dell’umanesimo, dello spiritualismo, del volontarismo e del personalismo, sia individuale sia collettivo. Il lavoro è dunque l’energia sociale per eccellenza, la forza specifica che crea e regge la società. Realtà né materiale né spirituale, esso è una forza «ideo-realista» che comprende indissolubilmente, nel suo processo creativo, idea e fatto, materia e spirito, uomo e società.

Tutta la socio-economia proudhoniana, dunque, vuol fondarsi come scienza del lavoro umano, quale che sia la sua determinazione concreta. Il lavoro si sviluppa attraverso la duplice legge della comunità d’azione e della sua divisione produttiva, perché si esplicita da un lato come processo di integrazione sociale, dando così alla società la sua unità e la sua coerenza collettiva, dall’altro come processo di differenziazione sociale, in quanto implica la diversificazione dei produttori e la specificazione delle funzioni. Per Proudhon, quindi, l’economia politica non è che un sapere particolare di questa scienza del lavoro.

Ma questo concetto di lavoro non può che rimandare immediatamente al concetto di lavoro collettivo, il quale rimanda a sua volta a quello di società, perché se è il lavoro ciò che produce tutti gli elementi della ricchezza, è la società o l’uomo collettivo che crea tale possibilità. Il lavoro collettivo risulta dunque non solamente una semplice somma di lavori individuali, ma l’espressione dell’attività di un essere sociale avente una sua specifica realtà con proprie leggi. Secondo Proudhon, per il vero economista la società è un essere vivente dotato di una intelligenza e di un’attività proprie, retta da leggi speciali che l’osservazione può scoprire, e la cui esistenza si manifesta non sotto una forma fisica, ma per l’insieme armonico dell’intima solidarietà di tutti i suoi membri. Così, nel seno stesso del lavoro, è la società che si evidenzia in tutte le azioni del lavoro umano; è questo il motivo per cui il campo di osservazione della scienza economica deve essere la società.

La scoperta della società come un essere collettivo reale, autonomo e immanente a tutti i suoi membri comporta la scoperta immediata dei suoi due attributi fondamentali: la ragione collettiva e la forza collettiva. Queste due nozioni sociologiche, sebbene non siano sempre esplicitate in modo chiaro, esauriente e continuativo, rimandano però sufficientemente a un comune concetto che si può così riassumere: la riunione delle unità individuali genera una realtà originale che è qualcosa di più e d’altro rispetto alla loro somma. La forza collettiva è l’elemento puramente sensibile della società, la sua manifestazione in movimento, l’atto attraverso cui il sociale palesa la sua esistenza, mentre la ragione collettiva è al contempo una comunità di coscienza e di intelligenza, cioè una ragione rinnovabile nel processo storico.

 Alla base di entrambe queste nozioni vi è l’idea fondamentale che l’uguaglianza e la giustizia sociale non sono solo un dover essere, ma un fatto oggettivo, sia pur compresso e deformato dalla società gerarchica e sfruttatrice. La creazione di un ordine sociale positivo non deve risultare da una costruzione arbitraria imposta con la forza e giustificata a posteriori dai legislatori, ma deve essere il prodotto dell’applicazione delle leggi sociologiche che descrivono l’organizzazione razionale della società intesa come lavoratore collettivo. L’autentico ordine sociale, dunque, non può che essere generato dalla presa di coscienza che la società attua di se stessa, attraverso un rapporto spontaneo e naturale, scoperto e applicato. L’ordine, in altre parole, non può che prodursi nell’umanità per mezzo della conoscenza che l’essere collettivo acquista delle proprie leggi.

Con la nozione di forza collettiva Proudhon precisa che gli individui, indipendentemente dalle loro capacità e attitudini, vivendo in società ricevono sempre di più di quanto danno; in altri termini l’uomo, nel momento in cui si inserisce nell’attività produttiva e partecipa a un compito comune, diventa immediatamente debitore verso la società di cui fa parte. Questo perché qualsiasi impresa produttiva e sociale, che riunisca gli sforzi individuali altrimenti separati, ha la capacità di generare, proprio attraverso la coesione dovuta al lavoro collettivo, una potenza economica e sociale essenzialmente diversa dalla somma, anche infinita, degli sforzi individuali divisi e non concomitanti.

Con la nozione di ragione collettiva Proudhon aggiunge che gli individui non possono associarsi veramente che alla sola condizione che si realizzi tra loro uno scambio fondato sull’uguaglianza. Infatti lo scambio tra non uguali, generando disuguaglianza, provoca continui conflitti sociali, rendendo impossibile la piena realizzazione della socialità umana. La ragione collettiva si estrinseca dunque in questo principio dello scambio paritario fondato su una ragione necessaria, pena la fine della società stessa. Poiché risulta da un gioco complesso della combinazione sociale, essa si presenta di volta in volta come intelligenza, giudizio, coscienza e volontà. La ragione collettiva non scaturisce dalla somma delle ragioni individuali sfocianti in uno stesso assoluto trascendente, che implica la rinuncia alla propria autonomia primitiva, ma dai rapporti contraddittori e liberi che permettono di relativizzare l’assoluto delle ragioni individuali. Attraverso questo incontro e scontro vengono superate le soggettività rispettive delle ragioni individuali e nasce allora questa ragione obiettiva che è la ragione sociale. Così la ragione collettiva risulta dall’antagonismo delle ragioni particolari e dalla loro composizione attraverso le opposizioni, allo stesso modo in cui la potenza pubblica risulta dal concorso delle forze individuali concorrenti fra loro. Essa deve procedere per «equazioni», negando ogni sistema precostituito.

Ora, se la forza collettiva e la ragione collettiva sono gli attributi della società intesa come essere collettivo, come lavoratore collettivo, le leggi di questa stessa società devono essere enucleate considerando tali attributi. Precisamente, la forza collettiva e la ragione collettiva rimandano al concetto di divisione e di composizione del lavoro. La divisione del lavoro è alla base della forza collettiva, la composizione del lavoro sta a fondamento della ragione collettiva. Da questo punto di vista, la divisione del lavoro si rivela nell’antagonismo competitivo, che è il segno della libertà del lavoratore, mentre la legge di composizione del lavoro si manifesta nella «serie», vale a dire nell’equilibrio dinamico degli elementi irriducibili, e al tempo stesso solidali, che la compongono. In altri termini la legge di divisione, o specificazione della funzione, rivela la legge di competizione e antagonismo che anima ogni essere individuale o collettivo, mentre la legge di composizione o di «serie» è la legge che sta alla base dell’associazione, cioè la legge della solidarietà che innerva ogni essere individuale e collettivo spingendolo all’unione e all’interdipendenza. Perciò antagonismo e solidarietà, divisione e composizione formano una coppia antinomica irriducibile. Così la divisione delle funzioni e la composizione della società si deducono naturalmente, implicando una immediata e irreversibile interpretazione ideologica libertaria. Infatti Proudhon, considerando contemporaneamente divisione e composizione come una coppia antinomica e indissolubile, si pone oltre l’individualismo classico del liberalismo e oltre l’universo tradizionale del comunismo, per arrivare a una fondazione della società che non è l’assoggettamento dell’individuo alla collettività, né la subordinazione della collettività all’individuo. Il primo, infatti, pretende di liberare l’uomo isolandolo e astraendolo dalla società, il secondo considera l’uomo come una semplice unità sottomessa a una collettività superiore, la quale, schiacciando la personalità, sfocia nel dispotismo. Contro la logica del comunismo, che è la logica dell’universalismo, e contro la logica del liberalismo, che è la logica del nominalismo, Proudhon pone la logica del pluralismo che contempla un ordine autonomo e immanente, al quale partecipano tutte le persone individualmente come elementi indispensabili e irriducibili di questo insieme.

Si delinea così il suo tentativo sintetizzatore volto a superare l’astratta contrapposizione fra individuo e società. La sua analisi, focalizzandosi sulle connessioni oggettive che legano l’individuo alla società, vuol sottolineare la peculiarità dell’uno e dell’altra, pur nella loro indissolubile interdipendenza. Essa afferma da una parte che l’individuo è il criterio dell’ordine sociale, mentre dall’altra ribadisce la specificità del sociale costituito da regole molto diverse da quelle che si ha l’abitudine di chiamare senso comune. Questa dialettica fra individuo e società è perciò circolare, nel senso che per conoscere l’uomo bisogna studiare la società, per conoscere la società bisogna studiare l’uomo, vale a dire che l’uomo e la società si servono reciprocamente da soggetto e da oggetto. In tal modo si sfugge all’unicismo comunista e liberale, che tende ad assorbire l’uno nell’altro a seconda del proprio punto di vista.

Nel riconoscimento dell’impossibilità da parte della società di assorbire l’individuo e da parte dell’individuo di assorbire la società, deve risiedere per Proudhon tutta la ricerca della libertà. Ecco perché la forza collettiva non deve essere considerata come una potenza obiettiva che si impone agli individui, né la ragione collettiva come una ragione definitivamente costituita, come un dogma. Sono le classi dominanti, invece, che utilizzano a proprio vantaggio l’insieme di questa energia sociale, trasformando la forza collettiva in forza coercitiva, e la ragione collettiva in ragione assolutistica. Il monopolio economico e il monopolio politico, il capitalismo e lo Stato, nascono appunto da questa generale alienazione.

Questo realismo, teso a cogliere l’infinita pluralità della vita comunitaria, ha il compito di evidenziare la realtà obiettiva delle leggi socio-economiche, affinché da queste leggi il socialismo possa partire per realizzare i propri scopi. Perché qui sta il punto: il socialismo può realizzarsi solo mantenendo l’antinomia.

La conservazione dell’antinomia, quale struttura unificante di tutto il reale, comporta il mantenimento di tutta la realtà sociale intesa come un insieme multiforme e insopprimibile di forze collettive. In altri termini, la pluralità delle forze collettive è il segno tangibile della conservazione antinomica. Pertanto, solo una scienza sociale capace di cogliere tale insieme può costituire la base razionalmente scientifica del socialismo. Una scienza sociale che faccia convergere su di sé filosofia ed economia, storia e sociologia, politica e morale. Solo così si può cogliere la società nella sua immanenza, cioè nell’insieme delle sue successive manifestazioni. Ne deriva, di conseguenza, che la scienza sociale è in realtà un insieme di conoscenze interdisciplinari che si prefiggono di superare ogni approccio unilaterale. Occorre dunque fondere in un unico metro analitico l’economia e la sociologia, rifiutandosi di stabilire un nesso di causalità tra la struttura economica e la struttura sociale, per enucleare invece l’immagine di un sistema economicosociale.

Con questa fondamentale impostazione, volta a darsi una scienza integrale, Proudhon prende le distanze, ancora una volta, sia dal liberismo economico che dal socialismo autoritario. Il liberismo economico afferma infatti che gli antagonismi sono ineluttabili e che non vi è altra soluzione che la loro accettazione, precludendosi così la reale comprensione del significato delle antinomie. Il socialismo autoritario sostiene che in una comunità fraterna tutti i conflitti scompariranno. L’uno e l’altro concordano nel negare la formazione di una scienza sociale che abbia come proprio oggetto le leggi immanenti della società: anche il socialismo autoritario – che pure dichiara di voler combattere il liberalismo – dimostra di non essere capace di superare l’orizzonte dell’economia politica, e questo plagio perpetuo è la condanna irrevocabile di entrambi. Occorre invece ripensare tutte le forme dell’attività umana secondo un criterio di equivalenza e di interdipendenza. Ogni manifestazione dell’uomo risulta infatti allo stesso titolo prodotto e produttrice della realtà sociale in atto, perché partecipa alla totalità espressa in ogni forza collettiva e perché, in egual misura, è creatrice di questo fenomeno.

Nella trasformazione sociale, e più in generale nel divenire incessante della realtà, tutte le forme dell’attività umana si presentano quindi in modo simultaneo perché nella pratica sono inseparabili e autonome, giacché nessuna forma deriva gerarchicamente da un’altra. Questa possibilità di pensare la realtà sociale come totalità dialettica, mai completamente risolvibile, come simultaneità attraversata da antinomie e contraddizioni, e non da schematismi gerarchici, consente quindi di stringere in un unico nesso coscienza e azione, idea e fatto, ragione e pratica, realtà e progettazione. Contro ogni gnoseologia che legga la realtà secondo una chiave interpretativa di tipo gerarchico, Proudhon sottolinea la costante mobilità dell’azione sociale che penetra l’insieme dei livelli materiali e intellettuali prodotti dalla società; restituisce intera l’immagine della realtà perché colta nella sua multiformità e pluridimensionalità; consente di ipotizzare, infine, con questa teoria che egli definisce ideo-realista, l’esistenza di una forma ordinata, di una idea, espressa dalla totalità delle relazioni intelligibili del reale, pur nella loro perenne contraddittorietà.

Proudhon intende ripensare tutta la realtà sociale nella sua attualità categoriale, in ciò che rimane fisso attraverso il tempo e lo spazio, e questo è possibile, a suo giudizio, solo pensando l’azione sociale come una identità fra pratica e teoria. L’esempio dello scambio, rapporto fondamentale che caratterizza la natura stessa del sociale, definisce chiaramente tale identità. In esso, afferma Proudhon, non si può opporre una idea a una realtà, né si può ricercare un rapporto di successione fra l’una e l’altra perché lo scambio è al tempo stesso una pratica e un rapporto astratto, una realtà e una idea. Nello scambio, l’idea è identica al fatto, l’azione è l’idea.

 In questa eccessiva tendenza di Proudhon al razionalismo non si deve scorgere un suo inconsapevole platonismo (le idee si esprimono nella realtà), né un suo inconsapevole hegelismo (l’identità del reale e del razionale). Proudhon ha voluto al contrario denunciare ogni idealismo, dimostrando come tutti i sistemi filosofici debbano avere la loro radice e la loro ragion d’essere nella società stessa, mentre la teoria dell’identità del reale e dell’ideale non ha per lui lo scopo di giustificare il presente, ma di scoprirne e denunciarne le contraddizioni.

L’analisi proudhoniana della forza collettiva vuol evidenziare l’immanenza in ogni azione sociale. In virtù di questo fattore, che si sprigiona spontaneamente dalla vita associata, il sociale si rende effettivamente autonomo rispetto a qualsiasi potere esterno: al di sotto dell’apparato governativo, all’ombra delle istituzioni politiche, esso tende a produrre lentamente il suo organismo e a costituire un ordine nuovo, espressione della sua vitalità e della sua autonomia. La società, per così dire, cammina da sola. Ogni potere politico, vivendo dell’approvazione di questa forza sociale, rispetto alla quale è tuttavia superfluo, non può perciò che instaurare con questa collettività un rapporto di contrapposizione, e in questo contrasto si ritrova, per Proudhon, lo stesso antagonismo che lega lo spontaneo e il meccanico, il mobile e l’immobile, la creazione e la conservazione. Precisamente, si ripete qui ciò che avviene fra capitale e lavoro perché, se nella società economica la forza collettiva nasce dai rapporti di cooperazione, nella società politica sorge dai rapporti di commutazione, di relazione, di scambio, moltiplicandosi in funzione di questi. Così come esiste un plusvalore economico, vi è pure un plusvalore statale, nel senso di una usurpazione permanente della potenza sociale espressa dall’essere collettivo della società. Si può dire pertanto che sfruttare e governare sono la stessa cosa. La politica è dunque, in rapporto alla vita sociale, ciò che il capitale è in relazione al lavoro: un’alienazione della forza collettiva; lo Stato, in quanto rappresentazione simbolica esterna della forza sociale, ne è anche, per ciò stesso, la negazione, una sottrazione di vita e di esistenza.

 Come si può notare, le categorie dell’alienazione e della trascendenza, già esplicitate da Feuerbach e Marx, tornano qui a innervare la critica proudhoniana. Specificamente, esse si fondono in una stretta analogia: se infatti per Feuerbach la trascendenza si dà nel rapporto esistenziale tra l’uomo e Dio, e se per Marx l’alienazione si estrinseca nella sola relazione tra l’essere produttore e la produzione stessa, per Proudhon questi due piani – dell’esistenza e del sociale nella forma della produzione – slittano l’uno sull’altro, identificandosi nella comune critica rivolta alla trascendenza sotto qualunque forma questa si manifesti.

La contrapposizione fra politico e sociale assume senz’altro la forma dello scontro fra autorità e libertà; date queste radicali premesse, Proudhon è conseguentemente contrario a qualsiasi rivoluzione di tipo politico, tale cioè da interessare soltanto il potere. Questo genere di rivoluzione, ai fini di un vero cambiamento sociale, è assolutamente fasullo, apparente, proprio perché fittizia risulta la dimensione stessa del politico, fondata com’è su una esistenza presa a prestito dal sociale.

Ogni rivoluzione politica non può che essere una rivoluzione alienante perché ripete la dinamica, sempre identica a se stessa, del rapporto parassitario fra la società globale e lo Stato, tra la forza collettiva espressa dalla società e l’appropriazione generale operata dallo Stato. Inoltre, poiché il politico deriva dall’alienazione posta in atto a tutti i livelli della vita collettiva, e non solo quindi dall’alienazione economica, pur se questa ha una grande importanza, ecco che la rivoluzione politica finisce per essere proprio la forma massima dell’alienazione umana. Comprendere la specificità del politico, senza intenderlo come riducibile a mero riflesso delle contraddizioni economiche, significa leggere contemporaneamente la logica del potere, sia nella sua forma generale, sia in quella particolare. Nella sua forma generale perché lo Stato, espressione suprema della politica, comprende il complesso più potente delle articolazioni autoritarie della società gerarchica: magistratura, polizia, finanze, educazione, esercito, burocrazia, informazione; nella sua forma particolare, perché il modello del politico si manifesta per definizione nell’esercizio del potere: l’autorità sta al governo come il pensiero alla parola, l’idea al fatto, l’anima al corpo. Se l’autorità è il principio del governo, il governo è l’esercizio dell’autorità. Abolire l’uno o l’altra, se l’abolizione è reale, significa distruggerli tutti e due nello stesso tempo; per lo stesso motivo, conservare l’uno o l’altra, se la conservazione è effettiva, significa mantenerli entrambi.

Ciò permette a Proudhon di dimostrare che non esiste una scienza della politica che non sia in realtà una scienza del potere, poiché le leggi della politica e quelle del potere sono di eguale natura, sono autonome e non rispondono a volontà ideologiche. Dovunque vengano applicate si evidenziano come leggi rispondenti a una logica tutta propria, refrattaria ai contesti socio-economici, anche se ne assimilano la contestualità storica. Esse travolgono ogni intenzione positiva di riforma, nel senso che non sono gli uomini a cambiare la natura del potere, ma questo a cambiare quelli. E ciò perché il potere è una vera proprietà, un diritto di usare e di abusare, un mezzo di sfruttamento dell’uomo attraverso la forza. Così il socialismo statalista pretende di combattere il capitalismo con una nuova alienazione, quella dello Stato; di lottare contro l’abuso con un ulteriore abuso; di abbattere un assolutismo con un altro assolutismo. Paradossalmente, è proprio lo Stato a essere il Dio adorato dal socialismo autoritario, un feticcio nato con il dogmatismo giacobino e continuato con il governamentalismo democratico, radicale e socialista.

Proudhon, approfondendo la sua critica allo Stato, nota perciò con acume come la classe politica dei democratici, dei socialisti governativi e dei rivoluzionari si contraddistingua per una volontà di appropriarsi del potere politico che, pur essendo più sottile e meno apparente della volontà di arricchirsi, è tuttavia equivalente e similare al gusto del potere economico e della proprietà tipica dei capitalisti. Contrariamente dunque a tutte le illusioni dei partiti e allo spirito giacobino, Proudhon mette in luce il carattere essenzialmente controrivoluzionario della politica perché essa si esprime sempre nella logica del potere. Egli segna una rottura con tutte le teorie politiche del passato e con le concezioni falsamente rivoluzionarie dei democratici, incapaci, tutte, di prescindere dal pregiudizio statalistico. Una rottura che conduce a questa lapidaria definizione della rivoluzione: «Nessuna autorità, nessun governo, nemmeno popolare: la rivoluzione sta in questo».

La contrapposizione esistente fra Stato e società, fra il politico e l’economico si inscrive nella più generale contrapposizione fra creazione e ripetizione, pluralità e unidimensionalità. Perciò solo nella società economica dei produttori, che si contrappongono frontalmente alla società politica dei dominatori, è possibile rintracciare e svelare quella dimensione creativa, spontanea e pluralista dell’agire sociale quale segno inconfondibile dell’emancipazione umana; solo all’interno di una teoria e di una pratica economica si possono correttamente trovare le ragioni e gli scopi di una teoria e di una pratica rivoluzionaria. La spontaneità, la creatività e la pluridimensionalità, proprie dell’azione sociale, della prassi collettiva dell’emancipazione umana, sono però solo le condizioni necessarie, ma non esaustive, per il raggiungimento della libertà. La società economica dei produttori può infatti dimostrare la propria capacità di autonomia da ogni tutela esterna dello Stato e del politico, senza per questo abolire il sistema del dominio.

Radicalmente opposta alla visione giacobina del colpo di mano, che si è dimostrata essere solo una operazione di potere e quindi non ha prodotto nessun reale cambiamento sul piano antropologico, la rivoluzione prospettata da Proudhon vuol determinare invece una trasformazione organica e profonda. In questo senso si precisa il suo sforzo teorico rispetto al concetto di storia. Questa deve essere intesa come reale svolgimento progressivo dell’uomo nelle sue capacità di autonomia rispetto al mondo e alla natura, ma solo nella misura in cui tale svolgimento comporta la consapevolezza dei limiti stessi del cambiamento. La concezione realistica di Proudhon non lascia spazio a nessuna visione millenaristica e provvidenzialistica del cambiamento concepito come metamorfosi assoluta. La storia non contiene in sé alcun fine, né è determinata da alcun significato. Non esiste quindi una soluzione definitiva dei problemi sociali, in quanto essi si rinnovano sempre proprio perché sempre vi è incessante mutamento storico.

 Con queste puntualizzazioni il pensatore francese elabora il concetto anarchico di rivoluzione, definibile perciò come il riconoscimento dello svolgimento incessante e infinito della storia per il sovvertimento e la distruzione dell’assoluto. Ciò significa, in altri termini, la consapevolezza della necessità di una duplice azione rivoluzionaria, tesa da un lato a favorire il mutamento storico perché questo, nel suo divenire, porta la società a cambiare perpetuamente di forma e perciò a dissolvere continuamente ogni fissazione e ripetizione; dall’altro lato a correggere, se occorre, questo stesso mutamento perché può essere a sua volta portatore di nuovi assoluti. Il travestimento dell’assoluto è infatti l’espressione che Proudhon usa per indicare la continua possibilità che si formi, all’interno di qualsiasi moto riformatore, un nuovo e più agguerrito assolutismo. Ecco perché ogni dottrina che aspira segretamente alla prepotenza e alla immutabilità, che tende a eternizzarsi, che si vanta di dare l’ultima formula della libertà e della ragione, che nasconde nelle pieghe della sua dialettica l’esclusione e l’intolleranza; che si afferma come verità in sé, pura da ogni contaminazione, assoluta, eterna, come una religione, e senza tollerare considerazioni di altro tipo, nega il movimento dello spirito e della classificazione delle cose, è falsa e funesta quanto è incapace di costruire. Contro i travestimenti dell’assoluto, che comprendono anche le dottrine falsamente rivoluzionarie, Proudhon propone perciò, da una parte, l’idea di progresso come processus, movimento innato, essenziale, spontaneo, incoercibile e indistruttibile, come movimento essenzialmente storico, soggetto a progressioni, conversioni, evoluzioni e metamorfosi. Dall’altra parte, propone una idea di progresso come scopo, ideale, per tracciare in questa direzione la marcia della libertà, affinché esso diventi la giustificazione dell’umanità da se stessa sotto lo stimolo dell’ideale. In conclusione, la rivoluzione non è la deduzione necessaria di una realtà oggettiva, ma è la realizzazione della volontà umana, una impresa voluta dalla coscienza emancipatrice dell’uomo: la libertà, secondo la definizione rivoluzionaria, non è per niente la coscienza della necessità, non è neppure la necessità dello spirito che si sviluppa, che si conserva con la necessità della natura. È una forza collettiva che comprende insieme la natura e lo spirito e che si possiede, capace come tale di negare lo spirito, di opporsi alla natura, di sottometterla, di disfarla e di disfarsi essa stessa. È una forza che si crea, mediante l’ideale della giustizia, una esistenza divina, il cui movimento è perciò superiore a quello della natura e dello spirito e incommensurabile con l’uno e con l’altro.

Una rivoluzione così intesa implica, sul piano dell’azione, una direttiva di fondo precisa: che vi sia la massima coerenza etica fra il contenuto dei fini perseguiti e la natura dei mezzi usati. I mezzi dell’azione devono essere dedotti dai fini che la rivoluzione si propone, quelli della giustizia. È su questo rapporto di deduzione tra fini e mezzi, dalla teoria alla prassi, che si fonda la certezza che la prassi sia, essa stessa, la teoria realizzata.

Naturalmente, poiché i fini della rivoluzione libertaria ed egualitaria sono la libertà e l’uguaglianza, dovranno essere libertari ed egualitari anche i mezzi dell’azione. Solo così può inscriversi l’obiettivo dell’azione nella prassi, l’atto rivoluzionario annunciare la società futura. Ma qual è la classe sociale capace di esprimere al contempo la consapevolezza della propria forza, la volontà di liberazione e la propria capacità politica di passare dalla spontaneità dell’azione alla libertà della rivoluzione? Secondo Proudhon, le classi operaie (classi operaie e non classe operaia perché egli allude, anarchicamente, a tutte le masse sfruttate) sono le sole che possono effettuare la rivoluzione sociale. Tuttavia ciò non avviene in virtù della contrapposizione oggettiva fra capitale e lavoro; infatti questa contrapposizione, sebbene sia la caratteristica centrale del sistema capitalista, è pur sempre una delle tante della società gerarchica; inoltre non esiste una legge deterministica che opponga le masse sfruttate agli sfruttatori: la pluralità delle contraddizioni mostra infatti che i cambiamenti storici non hanno e non possono avere esiti univoci necessitanti, che infiniti fattori dinamici concorrono allo svolgimento complessivo dell’evoluzione umana.

In realtà, la capacità politica delle classi operaie va cercata là dove l’idea di emancipazione è da queste classi prodotta e consapevolmente voluta. A questo proposito occorre che si verifichino tre condizioni: che il soggetto abbia coscienza di se stesso, della sua dignità, del suo valore, del posto che occupa nella società, della funzione che adempie, degli uffici cui ha diritto di aspirare, degli interessi che rappresenta o personifica; che, come risultato di questa coscienza di se stesso, affermi la sua idea, sappia cioè comprendere, esprimere con le parole, spiegare con il ragionamento la legge della sua esistenza, nel principio suo e nelle sue conseguenze; che da questa idea, infine, sappia dedurre sempre conclusioni pratiche secondo le variabili contingenti. Condizione essenziale della liberazione è dunque che le masse sfruttate elaborino da se stesse l’idea della società da instaurare e che pongano consapevolmente tale idea in rapporto alla loro azione sociale. Diversamente, fino a quando si mostreranno incapaci di esternare il loro progetto, fino a quando esse prenderanno a prestito le idee di emancipazione da altri movimenti sociali, la loro iniziativa storica non passerà mai dalla spontaneità alla libertà.

Questa autonoma capacità di azione delle classi operaie esige la loro completa separazione pratica e ideologica da ogni altra classe sociale non oppressa e da tutto quel sistema di alienazioni che costituisce la totalità strutturale della società gerarchica. Solo con questa radicale separazione le masse sfruttate possono uscire da ogni tutela politica, sociale, economica, culturale, ideologica, psicologica, impegnandosi in un processo storico senza precedenti: quello che le vedrà agire spontaneamente e liberamente da se stesse e per se stesse, senza più niente sperare dalle altre classi sociali né dai partiti politici costituiti né da qualsiasi setta di rivoluzionari di professione.

La concezione proudhoniana della coerenza tra i fini e i mezzi, tra gli obiettivi della libertà e dell’uguaglianza e gli strumenti libertari ed egualitari della lotta sociale, implica dunque la massima unità organica fra l’idea e l’azione rivoluzionaria da parte dei soli lavoratori. Dunque non deve esserci una divisione fra la coscienza del proletariato, rappresentato paradossalmente da un corpo politico non proletario e anzi estraneo al proletariato (il partito) e l’azione di questo stesso proletariato; tale separazione è invece promossa e teorizzata da tutte le altre correnti autoritarie che ritengono necessaria una guida politica delle masse popolari.

Il protagonista rivoluzionario non è dunque un soggetto sociale specifico o una specifica classe oppressa, ma l’insieme delle classi sfruttate, che proprio nella contrapposizione tra politico ed economico, tra Stato e società, si trovano unite organicamente tanto sul terreno delle trasformazioni immediate, quanto, e imprescindibilmente, su quello del cambiamento economico-sociale radicale attraverso l’abolizione del potere politico. L’unica rivoluzione capace di realizzare la libertà e l’uguaglianza è quella che si pone come obiettivo primario lo sterminio del potere e della politica; tale rivoluzione non può che essere una rivoluzione economica. Ciò può avvenire solo se le masse lavoratrici, appropriandosi in via diretta dei mezzi di produzione attraverso le molteplici organizzazioni professionali, avviano e sviluppano una vita sociale ed economica al di fuori e indipendentemente da quella politica; se gestiscono e praticano rapporti liberi e diretti senza alcuna mediazione istituzionale; se assolvono infine, in quanto società economica, ai compiti precedentemente svolti dalla società politica, al fine di rendere quest’ultima del tutto superflua.

Si tratta di concepire un sistema economico-sociale che, liberando le forze del lavoro da ogni sistema di monopolio e di sfruttamento, possa dare alle masse popolari la possibilità di appropriarsi in modo egualitario delle ricchezze sociali, dividendole sia collettivamente, sia individualmente. Così la proprietà sociale si configura allo stesso tempo come il segno della progressiva emancipazione acquisita e come il mezzo per attuarla. Perché essa non degeneri in dispotismo e diventi veramente universale, Proudhon concepisce una serie di garanzie quali sistemi regolativi e correttori del suo progetto di società autogestita. Un sistema di contrappesi, di continui e diversificati equilibri in grado di attenuare al massimo le tentazioni prevaricatrici, mantenendo nondimeno viva la forma sociale di una democrazia industriale di tipo conflittuale e moderno. Tutto ciò, però, sempre sotto il segno della libertà. L’uguaglianza si farà automaticamente, più rapidamente e meglio con il lavoro e con l’economia e, soprattutto, con l’esercizio universale della libertà.

Si delinea qui in modo incontrovertibile il riformismo proudhoniano, un riformismo che non scade mai a un empirismo eclettico. Esso si caratterizza altresì in un rifiuto della rivoluzione politica di tipo violento e insurrezionale (da lui ritenuta assolutamente inutile ai fini di una vera emancipazione popolare), che non deve essere inteso come un ripiegamento rispetto agli obiettivi della trasformazione sociale; questi ultimi, invero, devono rimanere sempre i più profondi e i più vasti possibili. La fase di transizione dalla società dello sfruttamento alla società autogestita deve consistere nella progressiva realizzazione dei fini nei mezzi di azione: se i fini sono la libertà e l’uguaglianza allora anche i mezzi dovranno essere libertari ed egualitari. L’umanità, per Proudhon, procede mediante approssimazioni: 1. approssimazione all’uguaglianza delle fortune mediante l’educazione, la divisione del lavoro e il libero sviluppo delle attitudini; 2. approssimazione all’uguaglianza delle fortune mediante la libertà commerciale e industriale; 3. approssimazione all’uguaglianza delle imposte; 4. approssimazione all’anarchia; 5. approssimazione all’a-religiosità o amisticismo; 6. progresso illimitato nella scienza, nel diritto, nella libertà, nell’onore, nella giustizia.

I lavoratori devono mirare all’universalizzazione dei privilegi goduti dalla borghesia; devono, cioè, universalizzare le sue originarie libertà di classe, sorte inizialmente quali strumento di dominio della borghesia stessa. Il compito dei lavoratori non è combattere contro le incompiutezze di classe del liberalismo, per far sorgere dalla classe proletaria un’altra libertà. Ciò è semplicemente un non senso, dal momento che il significato autentico della libertà sta nella sua universalità. Bisogna quindi conferire un significato universale alla libertà, disgiungendola da ogni reazionaria collocazione classista. Il socialismo è dunque il superamento storico del liberalismo. È così che la rivoluzione sociale realizza il suo compito: portare al suo termine finale l’evoluzione politica della società risolvendola nella libertà e nell’anarchia.

Ora, qual è la concezione politica più approssimata dell’anarchia? Il federalismo, risponde Proudhon, ed è perciò qui che egli focalizza la sua attenzione e la sua riflessione in modo particolare. Il federalismo proudhoniano infatti – un federalismo libertario – sa risolvere in una continua tensione di libertà i termini, dati prima come teoricamente insopprimibili, della libertà e dell’autorità. Il federalismo, cioè, è la realizzazione storicamente possibile della libertà e dell’anarchia perché mantiene i due principi di libertà e di autorità, risolvendoli in una transazione che si dà come continua divisione e ricomposizione, come continuo conflitto e perciò, oggettivamente, come continua tensione di libertà. La libertà è la realizzazione di questa transazione, che tende a spostare il peso dell’autorità a favore della libertà, «essendo nella natura delle cose» che il principio di autorità sia iniziatore mentre il principio di libertà determinante.

Di qui il concetto proudhoniano di autogestione che ruota attorno all’idea centrale della sostanziale similitudine che deve esistere fra società politica e società economica, non solo dal punto di vista di una ovvia interdipendenza, ma anche e soprattutto nel senso che le stesse leggi naturali che regolano la prima devono essere alla base della seconda. In questo senso l’autogestione proudhoniana si presenta come un insieme di strutture particolarmente coerenti e complementari. Tale similitudine dei principi organici inerenti alla costituzione economica e alla costituzione politica sviluppa dunque quell’interdipendenza e quella complementarità esistenti fra il mutualismo e il federalismo. Trasportato nella sfera politica, prende il nome di federalismo e in questa semplice sinonimia si riassume per intero la rivoluzione politica ed economica, perché il principio federativo è l’applicazione sulla più alta scala dei princìpi di mutualità, di divisione del lavoro, di solidarietà economica. Il mutualismo, edificazione dell’economia sulla reciprocità dei servizi, e il federalismo, edificazione dell’ordinamento politico sull’affratellamento dei gruppi, sono in effetti due applicazioni complementari di uno stesso principio, quello della giustizia.

La realizzazione della giustizia si attua grazie a quella scienza del lavoro, intesa come scienza ideo-realista, che abbiamo visto essere alla base dell’analisi sociologica. Perciò è questo concetto di lavoro come serie, cioè come infinita crescita e pluralità di tutte le sue forme – da quelle economiche a quelle culturali, da quelle politiche a quelle sociali – che sostanzia l’idea del giusto.

Due sono i principi che regolano la legge del lavoro: il principio di divisione e il principio di composizione, che qui si specificano come antagonismo competitivo e come equilibrio reciproco. È tra queste due leggi antinomiche che si sviluppa il movimento dialettico del lavoro umano in tutte le sue forme. La conoscenza di questa logica del mondo effettivo permetterà ai produttori di acquistare la reale padronanza della società e di costruire in tal modo un ordine autogestionario corrispondente alla reale natura dei rapporti sociali ed economici. Basato in tal modo sulla consapevolezza dell’impossibilità di ogni sintesi e sull’irriducibilità delle leggi antinomiche, l’ordine sociale pluralista della società autogestita si esprimerà come una tensione dinamica continua che solo la catena reale del lavoro, cioè la serie-tipo, saprà unificare e fornire di significato. In tutti i casi, la libertà e l’autonomia degli individui, dei gruppi e delle società particolari potrà darsi soltanto mantenendo la coppia antinomica della competizione e della cooperazione, che significa la presenza della concorrenza e della commutazione. La competizione o la concorrenza quale legge elementare della vita (legge di creazione, di produzione e di ripartizione); la cooperazione e la commutazione, quale legge di equilibrio, di partecipazione, di scambio e di associazione.

La legge di competizione è basata sulla primordiale constatazione che il mondo, la società, lo stesso uomo sono composti di elementi irriducibili, di princìpi antitetici, di forze antagonistiche, secondo una catena continua che non ha fine. È la vita reale infatti a esigere pluralità, antagonismo, autonomia, perché chi dice organismo, dice complicazione, chi dice pluralità dice contrarietà, indipendenza. La condizione della vita è l’azione, e l’azione è una lotta, una concorrenza dell’uomo con l’uomo, dei gruppi con i gruppi. Voler sopprimere questo antagonismo è impossibile perché ogni vita esige la lotta tra le forze antinomiche, ogni movimento è la risultante della tensione di tali forze, ogni libertà collettiva e individuale non è possibile che grazie al gioco di questa concorrenza. Insomma l’antagonismo è un fenomeno eterno, permanente, esistenziale, fisico, sociale, umano.

Ciò significa che il socialismo deve realizzarsi non malgrado o contro la concorrenza, ma grazie a essa. Solo i fanatici dell’unità e della pianificazione, i socialisti dogmatici e autoritari, non hanno capito questa realtà elementare. La concorrenza è infatti il modo in cui si manifesta e si esercita l’attività collettiva, l’espressione della spontaneità sociale, l’emblema della democrazia e dell’uguaglianza, lo strumento più energico della costituzione del valore, il supporto dell’associazione.

Ma l’antagonismo, esprimendosi in tutta la sua potenza, fa emergere immediatamente e del tutto naturalmente una controforza che si può definire come equilibrio, cooperazione, mutualità. Così l’opposizione delle forze è la condizione obiettiva e indispensabile di un equilibrio reale, di una solidarietà naturale, di una reciprocità spontanea. Quindi solo un libero antagonismo competitivo può esprimere un reale equilibrio. La stessa vita che esige contraddizione esige infatti anche reciprocità, commutazione.

Così la legge comune del pluralismo autogestionario, la legge di equilibrio e di mutualità, diventa allo stesso tempo legge organizzatrice del pluralismo sociale di cui l’antagonismo e il lavoro sono rispettivamente la legge motrice e la legge integratrice. Riconoscere l’equilibrio a ogni livello sociale è dunque il compito fondamentale di un socialismo che voglia essere veramente autogestionario. E questo sarà possibile solo se la riorganizzazione dell’industria e dell’agricoltura sarà effettuata sotto la giurisdizione di tutti quelli che la compongono.

Questa proprietà federalista è, rispetto a ogni membro della società economica, una comproprietà in mano comune. Essa insomma non viene abolita, ma ripartita. Nel suo carattere di diritto assoluto, nella società economica essa resta dunque, sotto questo aspetto, indivisa in ciascuna delle persone individuali e collettive di questa società. Così nella federazione agricola, in quella industriale e nelle organizzazioni cooperative dei servizi. Ma questo stesso diritto assoluto è, dal punto di vista dell’insieme della società autogestita, un diritto relativo perché nella visione proudhoniana la proprietà intesa come possesso è semplicemente una proprietà-funzione.

Questo carattere antinomico della proprietà è dato dal fatto che essa non è un valore e una realtà assoluta perché si specifica solo con il mutamento della realtà sociale e storica: la proprietà è mutevole, e le rivoluzioni dell’umanità non hanno mai avuto che lo scopo di esprimerne i mutamenti. La storicità della proprietà dimostra per Proudhon che essa può essere contestualizzata in un regime socialista e piegata alle esigenze di questo. E ciò perché la proprietà non è che uno dei termini dell’insieme sociale. Nel caso specifico la proprietà assolverebbe due funzioni: da un lato, infatti, essa costituirebbe un argine indispensabile per la difesa della libertà individuale, minacciata da una possibile invadenza della sfera pubblica; dall’altro, avrebbe il compito di promuovere la responsabilità economica e di incentivare l’iniziativa imprenditoriale. Ecco in quale senso si delinea il socialismo autogestionario e libertario di Proudhon: nella coniugazione dell’istanza liberale della difesa della proprietà, quale garanzia reale e concreta dell’esercizio della libertà individuale, con l’istanza socialista della responsabilità economica, quale contesto obiettivo per la realizzazione della generalità dei diritti, dell’universalità dei doveri.

Il complesso sistema economico della società socialista prefigurata da Proudhon può essere sinteticamente riassunto nel seguente schema: mutualismo federativo nell’agricoltura, vale a dire costituzione di proprietà individuali di sfruttamento associato del suolo in un insieme di cooperative raggruppate in una federazione agricola; socialismo federativo nell’industria, vale a dire creazione di un insieme di proprietà collettive dei mezzi di produzione, concorrenti fra loro ma associate in una federazione industriale. Questa è la base della federazione agricolo-industriale comprendente pure le associazioni di consumatori e le cooperative dei servizi sociali.

Ognuno nella società economica è allo stesso tempo e allo stesso titolo produttore e consumatore perché esiste l’equivalenza nella reciprocità dei servizi. Secondo Proudhon, ciò è possibile applicando la teoria del valore-lavoro e, conseguentemente, del «valore costituito». Questo si può sinteticamente definire come equazione tra il lavoro utile (la domanda di prodotti e di servizi) e il lavoro di scambio (l’offerta in prodotti realizzati e in servizi), in breve tra il valore d’uso, che ha per base i bisogni dell’insieme dei consumatori, e il valore di scambio, che ha per base il lavoro.

Ciò perché il valore – pietra angolare della scienza economica – indica un rapporto essenzialmente sociale, nel senso che l’idea contraddittoria di valore, così bene messa in luce dall’inevitabile distinzione tra il valore d’uso e il valore di scambio, non viene da una falsa percezione dello spirito, né da una terminologia viziosa, né da qualsiasi aberrazione pratica, ma è insita alla natura delle cose e si impone alla ragione come forma generale del pensiero, cioè come categoria. Non è quindi assolutamente possibile sottrarsi alla legge generale del valore. Si tratta invece, per Proudhon, di esplicitarla per intero volgendola a favore dell’uguaglianza sociale. Di qui l’idea di arrivare a costituire il valore, a determinarlo equamente grazie a un circuito economico di scambio che possa – essendo libero da ogni monopolio – far ritornare a ogni produttore l’integralità del suo prodotto, al fine di realizzare in ogni individuo la doppia figura di produttore e consumatore.

Per intendere pienamente il significato del progetto proudhoniano della costituzione del valore occorre tener presente che nelle intenzioni del suo autore esso va inteso quasi come un modello normativo, non come un rimedio ai mali, alle deficienze e alle contraddizioni del regime capitalista. Non si tratta, per Proudhon, di riformare il capitalismo attraverso la legge della costituzione egualitaria del valore, ma di costruire una società socialista partendo dal necessario riconoscimento dell’impossibilità oggettiva della sua abolizione. Occorre, cioè, cercare la legge generale del valore: solo così il socialismo passerà veramente dalla fase utopistica alla fase scientifica. Da questo punto di vista la polemica di Marx e del posteriore marxismo contro Proudhon appare infondata, giacché il socialista francese non ha mai affermato che la costituzione del valore potesse essere determinata lasciando sussistere il capitalismo.

 Ma se la legge generale del valore è ineliminabile, se la formazione del valore si costituisce in tutti i casi anche in una futura società socialista, se ne deve dedurre, a questo punto, la condizione fondamentale e naturale di tale ineliminabilità: il mercato. Proudhon è il primo pensatore socialista a concepire in modo profetico la coniugazione del socialismo con il mercato. Coniugazione necessaria e indissolubile, secondo lui, non solo per l’oggettiva impossibilità di eliminare il valore, ma anche perché il luogo della sua formazione – il mercato – è il presidio di ogni libertà economica, sociale, politica e culturale. Il valore di scambio – inteso proprio come uno dei due aspetti della forma generale del pensiero, cioè come categoria – esprime dunque perfettamente un lessico ideologico preciso: lo scambio crea valore, deve creare valore; in altri termini, non è possibile concepire il valore e l’idea del valore senza lo scambio. Ogni forma di valore, da quella economica a quella sociale, da quella politica a quella culturale, si costituisce solo attraverso tale atto. Esso assume la forma sociale suprema della libertà perché quest’ultima si costituisce attraverso lo scambio, e poiché il valore di scambio rappresenta la forma sociale e dinamica della libertà, ne consegue inevitabilmente che l’abolizione del mercato comporta l’eliminazione della libertà.

Ora, secondo Proudhon, l’obiettivo della costituzione del valore è raggiungibile attraverso una scienza statistica che esprima l’insieme delle informazioni sull’organizzazione della produzione, sull’andamento del mercato, degli investimenti e del consumo; una scienza, insomma, capace di delineare un quadro del rapporto tra risorse e impieghi. Si potrà così arrivare a determinare la costituzione del valore sulla base delle previsioni di un costo del lavoro inteso in senso lato. A partire da questa contabilità economica, potrà essere costantemente stabilita una misura della giornata di lavoro secondo le industrie e le professioni. Quest’ultima sarà definita come la quantità dei servizi e della produzione che un uomo di forza e di intelligenza e di età media può fornire in un intervallo dato. In questo modo ogni forma assunta dalla circolazione della ricchezza avrà sempre come fonte comune il lavoro, inteso però non come forza-lavoro, cioè come lavoro produttivo, ma come processo, per cui in questa ottica anche il lavoro erogato nello scambio sarà capace di creare valore.

Nella versione proudhoniana il mutualismo non è un sistema precostituito e dato una volta per tutte. Esso è piuttosto concepito come un metodo regolativo generale capace di dare piena attuazione alle potenzialità latenti nelle varie dimensioni dell’economia. In questo senso è possibile individuare una ulteriore similitudine fra il mutualismofederalismo e il pluralismo. Infatti l’organizzazione sociale e istituzionale non segue un unico criterio per tutti i settori dell’economia: per l’industria Proudhon raccomanda il socialismo, per l’agricoltura il mutualismo, per i servizi la cooperazione. Questa diversità deriva dalla convinzione che la riorganizzazione sociale debba, in un certo senso, piegarsi alle caratteristiche proprie di ogni settore, pena l’uniformità mortificante di un piano esterno e autoritario. È possibile anche osservare a questo punto che le indicazioni proudhoniane riguardo alla riorganizzazione socialista delle industrie sono diverse dalla falsa immagine datane da quasi tutta la storiografia marxista e non marxista: Proudhon, infatti, non ha mai confuso il decentramento e il federalismo con il mantenimento di una struttura industriale arretrata e riduttiva. Egli è consapevole che il numero delle piccole imprese è condannato a diminuire in virtù di quella divisione del lavoro che è la condizione della forza collettiva. Infatti, come più individui, combinando i loro sforzi, producono una forza collettiva che è superiore per qualità e intensità alla somma delle loro rispettive forze, così più gruppi di lavoratori, posti fra loro in un rapporto di scambio, danno luogo a una potenza di ordine più elevato. Il problema per Proudhon è un altro. Si tratta di non piegarsi a un fatalismo del progresso industriale, che in realtà non esiste se non nella volontà politica di chi vuol promuoverlo. Esso infatti non può che risultare al servizio dell’accentramento economico e perciò dell’accentramento politico. Così il gigantismo industriale si rivela necessario non all’economia, ma alla volontà politica di potere. Ecco in quale senso non vi deve essere fusione fra società politica e società economica; essa infatti comporterebbe una «orientalizzazione» della vita civile che verrebbe del tutto identificata con quella politica, come nel caso della progettata società comunista. La similitudine fra dimensione politica e dimensione economica non deve perciò annullare le loro rispettive autonomie. Anzi, essa le deve maggiormente esaltare, a partire dal principio fondamentale che sta alla base di entrambe, il decentramento.

Nella pluridimensionalità dell’autogestione proudhoniana – intreccio organico fra industria e agricoltura, indipendenza dei gruppi produttivi, coesistenza e differenza fra i gruppi produttivi e i gruppi professionali, unione trasversale fra consumatori e produttori in varie e sovrapposte associazioni – non deve essere ravvisata una tendenza latente e oggettiva all’integralismo sociale, politico, economico e culturale. Il decentramento e l’autonomia politica, sociale ed economica dei gruppi e degli individui sono la garanzia obiettiva della differenza fra piano politico e piano economico, perché nella concezione proudhoniana la dimensione territoriale non coincide con quella produttiva, né quella produttiva con quella politica. In altri termini, Proudhon distingue chiaramente i due tipi di struttura, quella economica, vale a dire la federazione agricolo-industriale, e quella politica, vale a dire il federalismo. Questo sarà basato sul decentramento e sulla divisione dei poteri, sulla concessione della massima autonomia ai comuni e alle circoscrizioni regionali, sulla più ampia sostituzione possibile della burocrazia con una direzione degli affari più flessibile e immediata derivante dal gruppo naturale. Secondo Proudhon questo federalismo potrebbe configurarsi e riassumersi in tre norme fondamentali: 1. formare gruppi di media grandezza, relativamente sovrani, e riunirli con un atto di federazione; 2. in ogni Stato federato organizzare il governo in base alla legge della separazione degli organi, vale a dire: nell’ambito del potere pubblico separare tutto ciò che si può separare, determinare tutto ciò che si può determinare, ripartire fra vari organi o funzionari tutto ciò che si è separato e determinato, non lasciare nulla indiviso, circondare l’amministrazione pubblica con ogni condizione di pubblicità e di controllo; 3. invece di far assorbire gli Stati federati o le autorità provinciali e municipali da un’autorità centrale, limitare le attribuzioni di questa al semplice compito dell’iniziativa generale, della garanzia e sorveglianza reciproca. In tutti i casi questa indicazione di massima non è fine a se stessa, ma è solo il mezzo più coerente e nello stesso tempo più concreto e immediato per configurare la tendenza verso una società dove il centro politico è ovunque, la circonferenza in nessun punto.

L’autogestione proudhoniana, identificando in ogni nucleo economico e sociale la capacità di propulsione e di iniziativa, riconoscendo la possibilità di una libera composizione e ricomposizione dei nuclei sociali, economici, produttivi e professionali, intende porre le basi di una società libera ed egualitaria.



* Diamo, in questa Introduzione e nella scelta antologica che segue, una lettura anarchica di Proudhon. Siamo naturalmente consapevoli che sono possibili (e ci sono state) altre letture interpretative, libertarie e non. Siamo tuttavia persuasi che questa nostra lettura sia non solo legittima, ma in realtà più ampiamente esplicativa del suo pensiero inteso in senso complessivo.

 

Nota bio-bibliografica



Pierre-Joseph Proudhon nasce a Besançon il 15 gennaio 1809, quinto figlio di una famiglia poverissima. Il padre, un artigiano-bottaio poco versato per gli affari, trascina ben presto moglie e figli in un tracollo economico pur di non vendere la birra a un prezzo da lui ritenuto ingiusto. La madre, Catherine Simonin, è invece di tutt’altra indole. Donna energica, influisce decisamente sulla formazione morale del figlio. Fino all’età di dieci anni Proudhon non legge che il Vangelo. Entrato grazie a una borsa di studio al collegio di Besançon come allievo esterno, nel 1827, ormai prossimo al baccalaureato, interrompe gli studi per aiutare la famiglia.

Impiegatosi come tipografo nel 1829, entra in contatto con Fallot, che diviene suo amico e direttore spirituale. Dovendo per lavoro comporre libri e correggere bozze, legge molto, specialmente opere di carattere teologico. Nel 1838 si reca a Parigi dove resta fino al 1841, allorché perde la borsa di Suard, vinta tre anni prima, a causa del successo ottenuto dal suo Qu’est-ce que la propriété? In seguito a questa pubblicazione viene tradotto davanti alla Corte di Doubs (nel 1842) dove deve rispondere di diversi capi di accusa. Assolto grazie a una difesa

basata su argomentazioni filosofiche e scientifiche, si indebita però di lì a poco fino a essere costretto a lavorare presso i fratelli Gauthier, a Lione.

Nel febbraio 1844 entra nella cerchia degli economisti che fanno capo all’editore Guillaumin. Nell’autunno dello stesso anno allaccia rapporti con Marx e Bakunin (Proudhon e Marx però non simpatizzano, e ciò li porterà alla rottura). Nel 1847 abbandona il suo lavoro a Lione per un posto come giornalista a Parigi. In quell’anno fonda il quotidiano «Le Représentant du Peuple».

Nel 1848 difende i ribelli perseguitati, nonostante non approvi la Rivoluzione di Giugno. Eletto deputato all’Assemblea Nazionale tenta invano di propugnare riforme economiche. Dominato dall’idea del credito gratuito, fonda una Banca del Popolo, che però dovrà liquidare una volta condannato per «delitto di stampa». A causa di questa condanna ripara provvisoriamente in Belgio, ma al suo rientro clandestino viene arrestato. In carcere (dal 1849 al 1852) scrive molto e si sposa con l’operaia Eufrasia Pégard, da cui avrà quattro figlie.

Del periodo subito successivo alla sua detenzione la critica ha sottolineato il carattere più pessimista e disilluso. Ma nel 1858 la vena rivoluzionaria riesplode con la sua opera De la justice dans la Révolution et dans l’Église, che gli procura una nuova condanna. Ripara nuovamente in Belgio dove resta fin oltre il condono della pena (1860): tornerà in Francia solo nel 1862. Gli ultimi anni sono segnati da una intensa attività intellettuale. Muore a Passy il 19 gennaio 1865.



 PRINCIPALI OPERE DI PROUDHON



Qu’est-ce que la propriété? ou recherches sur le principe du droit et du gouvernement (Première mémoire), Paris 1840 [trad. it.: Che cos’è la proprietà, Milano 2000].

De la création de l’ordre dans l’humanité, ou principes d’organisation politique, Paris 1843.

Système des contradictions économiques, ou philosophie de la misère, Paris 1846 [trad. it.: Sistema delle contraddizioni economiche. Filosofia della miseria, Catania 1975].

Idée générale de la Révolution au XIXe siècle, Paris 1851 [trad. it. (estratti): in P. Ansart, P.-J. Proudhon, Milano 1978].

La Révolution sociale démontrée par le coup d’État du 2 décembre, Paris 1852.

De la justice dans la Révolution et dans l’Église, Paris 1858 [trad. it.: La giustizia nella Rivoluzione e nella Chiesa, Torino 1968].

Philosophie du progrès, Bruxelles 1858.

Du principe fédératif et de la nécessité de reconstituer le parti de la révolution, Paris 1863 [trad. it.: Del principio federativo, Roma 1979].

De la capacité politique des classes ouvrières, Paris 1865 [trad. it. (estratti): in P. Ansart, P.-J. Proudhon, cit.].

Théorie de la propriété, Paris 1865 [trad. it.: Teoria della proprietà, Roma 1998].

Correspondance (4 voll.), Paris 1971.

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Capitolo primo

Secondo Proudhon, lo sfruttamento economico si attua attraverso l’appropriazione indebita della forza collettiva generata dalla simultaneità e dalle convergenze degli sforzi individuali uniti in una impresa comune. Da ciò l’appropriazione di un surplus collettivo, vale a dire della differenza tra la produttività del lavoro collettivo e la semplice somma delle forze individuali considerate singolarmente. Tale plusvalore aumenta e si specifica all’interno del mercato capitalista del lavoro. Questa analisi dimostra chiaramente la paternità proudhoniana, nel campo socialista, della teoria del valore-lavoro: è Proudhon, non Marx, a denunciare per primo in questi termini il sistema capitalista.

Ma la critica della proprietà non si esplica solo nell’analisi dell’appropriazione e dello sfruttamento capitalista. Il pensatore francese prende infatti in esame ogni forma di proprietà, e quindi ogni teoria che la sottende e la giustifica. Questa analisi lo porta a concludere che nessuna delle teorie miranti a giustificare tale processo di appropriazione riesce a essere credibile. Non la teoria dell’occupazione, secondo la quale è legittima la proprietà di fatto su ciò di cui la collettività non ha ancora preso possesso; infatti questa teoria non può spiegare il

 passaggio dal fatto al diritto che ricorrendo a una tautologia: la proprietà è il diritto di proprietà. Dal canto suo la teoria della proprietà fondata sul lavoro, ossia sul principio che è proprietà del singolo ciò che è frutto della sua sola iniziativa, non solo non spiega perché il singolo abbia il diritto di appropriarsi, a un certo punto, del lavoro altrui, ma neppure dà ragione della realtà paradossale che proprio chi produce rimane privo della proprietà. Senza contare che questa teoria è internamente contraddittoria. Il lavoro, infatti, non ha di per sé alcun potere di appropriazione sulle cose della natura; e se, malgrado tutto, si riconoscesse al lavoro un tale potere, si sarebbe logicamente indotti ad affermare l’uguaglianza della proprietà, quali che siano il tipo di lavoro, la rarità del prodotto e la disuguaglianza delle forze collettive.

Non esiste perciò teoria che riesca a dar ragione logica di questo furto della forza collettiva, che riesca a legittimare ragionevolmente l’esistenza della proprietà. E tuttavia, in merito a tale questione, più importante ancora della critica alla concezione del regime proprietario è la revisione e ridefinizione proudhoniana del concetto stesso di proprietà, con la distinzione fra questa e il possesso. Questo, infatti, è l’uso socialmente responsabile di un bene, al fine di trarne un frutto corrispondente al lavoro individualmente fornito; si tratta di un uso che non implica il diritto assoluto di proprietà, né la possibilità di trasformare il bene di cui si usufruisce in un capitale, a sua volta produttivo di altri ulteriori beni.

La proprietà vera e propria è dunque il diritto di trarre frutto da un bene realizzato dal lavoro altrui; è il diritto di usare e di abusare, in una parola il dispotismo; è il diritto di detenere un bene senza farne uso, insomma un dominio senza alcuna giustificazione economico-sociale. Terra, strumenti, macchine hanno valore solo insieme al lavoro. Ma il puro e semplice proprietario è proprio colui che dissocia questo qualcosa dal lavoro: e per questa cosa inerte, che da sé non produce nulla, ottiene un compenso. È su questa divisione, infine, tra dominio e uso, che si fonda la separazione tra le classi sociali del proprietario e del lavoratore.

Per converso, secondo Proudhon, l’universalizzazione della proprietà non è un ostacolo all’uguaglianza sociale e alla libertà, ma la via più immediata e praticabile dell’emancipazione popolare, la via che può realizzare subito, per successive approssimazioni, una sempre maggiore uguaglianza delle fortune. Per realizzare questa universalizzazione occorre pensare una proprietà che si ponga nel sistema sociale come «liberale, federativa, decentratrice, repubblicana, egualitaria, progressista, amante della giustizia».



 Critica della proprietà

Se dovessi rispondere alla domanda «che cos’è la schiavitù?» e rispondessi dicendo «è un assassinio», il mio pensiero sarebbe subito compreso. Non avrei bisogno di un lungo discorso per dimostrare che il potere di privare l’uomo del pensiero, della volontà, della personalità, è un potere di vita e di morte, e che rendere schiavo un uomo significa assassinarlo. Perché dunque alla domanda «che cos’è la proprietà?» non posso rispondere «è un furto», senza avere la certezza di non essere compreso, benché questa seconda proposizione non sia che una trasformazione della prima? [...]

Nel secolo dominato dalla moralità borghese in cui ho avuto la ventura di nascere, il senso morale è talmente indebolito che non mi meraviglierei affatto di sentirmi chiedere da più di un onesto proprietario che cosa trovi di ingiusto e di illegale in tutto ciò. Anima di fango! cadavere galvanizzato! come si può sperare di convincerti se il furto in atto non ti sembra evidente? Un uomo, con dolci e insinuanti parole, trova il modo di far contribuire gli altri alla propria sistemazione; poi, una volta arricchito grazie allo sforzo comune, rifiuta di procurare, alle condizioni da lui stesso stabilite, il benessere di coloro ai quali deve la sua fortuna; e tu chiedi che cosa ci sia di fraudolento in una simile condotta! Con il pretesto di aver pagato i suoi operai, di non dover loro più nulla, di non poter trascurare le proprie occupazioni per mettersi al servizio altrui, egli rifiuta di aiutare gli altri nella loro sistemazione, come essi l’hanno aiutato nella sua; e quando, nell’impotenza del loro isolamento, questi lavoratori derelitti vengono a trovarsi nella necessità di vendere la loro parte, lui, questo proprietario ingrato, questo furfante arricchito, è pronto a consumare la loro spoliazione e la loro rovina. E tu puoi trovare giusto tutto ciò! Perché bada ch’io leggo nel tuo sguardo sorpreso ben più il rimprovero di una coscienza colpevole che non l’ingenuo stupore di una involontaria ignoranza.

Il capitalista, si dice, ha pagato le giornate degli operai; per l’esattezza, bisognerebbe dire che il capitalista ha pagato tante volte una giornata quanti sono gli operai impiegati ogni giorno, il che non è affatto la stessa cosa. Infatti, quella forza immensa che risulta dall’unione e dall’armonia dei lavoratori, dalla convergenza e dalla simultaneità dei loro sforzi, egli non l’ha pagata. Duecento granatieri in poche ore hanno eretto l’obelisco di Luxor sulla sua base; si può supporre che un solo uomo, in duecento giorni, ci sarebbe riuscito? E tuttavia, nel conto del capitalista, la somma dei salari sarebbe stata la stessa. Ebbene, un deserto da mettere a coltura, una casa da costruire, una manifattura da mantenere in esercizio, è come l’obelisco da sollevare, come una montagna da spostare. Il più piccolo patrimonio, il più modesto stabilimento, l’attivazione della più mediocre industria, esige un concorso di lavoro e di capacità tanto diverse che un uomo da solo non ci riuscirebbe mai. È stupefacente che gli economisti non l’abbiano notato. Facciamo dunque il bilancio di quel che il capitalista ha ricevuto e di quel che ha pagato.

Al lavoratore occorre un salario che lo faccia vivere mentre lavora, perché egli non produce che consumando. Chiunque dia lavoro a un uomo, gli deve nutrimento e mantenimento, oppure un

salario equivalente. È questa la prima parte da fare nella ripartizione di ogni prodotto. Concedo, per il momento, che a questo riguardo il capitalista abbia fatto il suo dovere.

Bisogna che il lavoratore, oltre alla sua sussistenza attuale, trovi nella produzione una garanzia della sua sussistenza futura, altrimenti vedrà inaridirsi la fonte del prodotto e annullarsi la sua capacità produttiva; in altri termini bisogna che il lavoro da fare rinasca continuamente dal lavoro compiuto: tale è la legge universale della riproduzione. È così che il coltivatore proprietario trova:

1. nei suoi raccolti, i mezzi non solo per vivere, lui e la sua famiglia, ma anche per conservare e accrescere il capitale, per allevare del bestiame, insomma per lavorare ancora e continuare a produrre;

2. nella proprietà di uno strumento di produzione, la garanzia permanente di un capitale da sfruttare e che rende possibile il lavoro.

Quale capitale può sfruttare colui che offre in cambio di una retribuzione i suoi servizi? Il bisogno presunto che il proprietario ha di lui e la sua eventuale volontà di dargli lavoro. Come in altri tempi il plebeo aveva la terra dalla munificenza e dal beneplacito del signore, così oggi l’operaio ha il suo lavoro dal beneplacito e dalle necessità del padrone e del proprietario: è quello che si chiama possesso a titolo precario. Ma questa condizione precaria è una ingiustizia perché implica disuguaglianza nella transazione. Il salario del lavoratore non supera di molto il suo consumo corrente e non gli assicura il salario dell’indomani, mentre il capitalista trova nello strumento prodotto dal lavoratore una garanzia di indipendenza e di sicurezza per l’avvenire.

Ora, questo fermento riproduttore, questo germe eterno di vita, questa preparazione di un fondo e di strumenti di produzione, è proprio quanto il capitalista deve al produttore e non gli rende mai: ed è questo diniego fraudolento che provoca l’indigenza del lavoratore, il lusso dell’ozioso e la disuguaglianza delle condizioni. È soprattutto in questo che consiste quel che è stato così ben definito sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo.

I casi sono tre: o il lavoratore parteciperà alla spartizione della cosa prodotta insieme all’imprenditore, detratta la somma dei salari, o l’imprenditore renderà al lavoratore servizi produttivi equivalenti, oppure si impegnerà a farlo lavorare sempre. Spartizione del prodotto, reciprocità dei servizi, o garanzia di un lavoro perpetuo: il capitalista non può sfuggire a questa scelta. Ma è evidente ch’egli non può soddisfare alla seconda e alla terza di queste condizioni: non può né mettersi al servizio di quelle migliaia di operai che direttamente o indirettamente gli hanno procurato la sua sistemazione, né occuparli tutti e per sempre. Resta dunque la spartizione della proprietà. Ma, se fosse attuata, tutte le condizioni risulterebbero uguali; non ci sarebbero più né grandi capitalisti né grandi proprietari. Quando dunque Comte, continuando a svolgere la sua ipotesi, ci mostra come il capitalista acquisti successivamente la proprietà di tutte le cose che paga, non fa che sprofondare sempre più nel suo deplorevole paralogismo; e siccome la sua argomentazione non cambia, anche la nostra risposta resta sempre la stessa. Ovvero, altri operai sono impiegati a costruire edifici; gli uni estraggono la pietra dalla cava, gli altri la trasportano, altri ancora la tagliano, altri la mettono in opera. Ciascuno di loro aggiunge un certo valore alla materia che gli passa per le mani, e questo valore, prodotto dal suo lavoro, è di sua proprietà. Egli lo vende, man mano che lo crea, al capitalista, che gliene paga il prezzo in alimenti e salari.

Divide et impera: dividi e regnerai; dividi e diventerai ricco; dividi e ingannerai gli uomini, abbaglierai la loro ragione, ti farai beffe della giustizia. Separate i lavoratori gli uni dagli altri e può anche darsi che il salario corrisposto a ciascuno superi il valore del prodotto individuale: ma non è di questo che si tratta. L’opera compiuta in venti giorni da una forza di mille uomini è stata pagata quanto lo sarebbe quella compiuta dalla forza di un singolo in cinquantacinque anni; ma questa forza di mille uomini ha fatto in venti giorni quel che la forza di uno solo non riuscirebbe a portare a termine in un milione di secoli: è giusto questo mercato? Ancora una volta, no: quando voi avete pagato tutte le forze individuali, non avete pagato la forza collettiva; di conseguenza resta sempre un diritto di proprietà collettiva che non avete acquistato e di cui godete ingiustamente.

Ammetto che un salario di venti giorni basti a quella moltitudine per nutrirsi, alloggiare, vestirsi per venti giorni: ma dato che il lavoro cessa allo scadere di questo termine, che ne sarà di questa se, man mano che produce, lascia il frutto del suo lavoro a proprietari che ben presto l’abbandoneranno? Mentre il proprietario, che gode di una solida posizione grazie al concorso di tutti i lavoratori, vive in sicurezza e non teme più che gli manchino né lavoro né pane, l’operaio può sperare solo nella benevolenza di quello stesso proprietario al quale ha venduto e infeudato la propria libertà. Se dunque il proprietario, trincerandosi nella sua autosufficienza e nel suo diritto, si rifiuta di dar lavoro all’operaio, come potrà questi sopravvivere? Egli avrà preparato un terreno eccellente e non vi seminerà; avrà costruito una casa comoda e splendida e non vi abiterà; avrà prodotto di tutto e non godrà di nulla.

Il lavoro ci conduce all’uguaglianza; ogni passo che facciamo ce ne avvicina sempre più, e se la forza, la diligenza, la laboriosità dei lavoratori fossero uguali, è evidente che lo sarebbero anche i beni. In effetti, se, come si pretende e come noi stessi abbiamo ammesso, il lavoratore è proprietario del valore da lui creato, ne consegue che:

l. Il lavoratore acquista a spese del proprietario ozioso;

2. Essendo ogni produzione necessariamente collettiva, l’operaio ha diritto, in proporzione al suo lavoro, alla partecipazione ai prodotti e agli utili;

3. Essendo ogni capitale accumulato una proprietà sociale, nessuno può averne la proprietà esclusiva.

Queste conseguenze sono irrefragabili; da sole basterebbero a sconvolgere tutta la nostra economia e a mutare le nostre leggi e istituzioni. Perché quelli stessi che hanno posto il principio rifiutano ora di seguirlo nelle sue conseguenze? Perché i Say, i Comte, gli Hennequin e gli altri, dopo aver detto che la proprietà deriva dal lavoro, cercano di immobilizzarla con l’occupazione e la prescrizione?

Ma lasciamo questi sofisti alle loro contraddizioni e alla loro cecità; il buon senso popolare farà giustizia dei loro equivoci. Affrettiamoci a illuminarlo e a mostrargli il cammino. L’uguaglianza si avvicina; ormai ce ne separa solo un breve intervallo, e domani questo intervallo sarà superato.

[Da Qu’est-ce que la propriété?, trad. it.: Che cos’è la proprietà, Zero in Condotta, Milano 2000, pp. 25, 106-109].

Che cosa è la proprietà? da dove viene la proprietà? che vuole la proprietà? Ecco il problema che interessa al più alto grado la filosofia; il problema logico per eccellenza, il problema dalla cui soluzione dipendono l’uomo, la società, il mondo. Il problema della proprietà è, sotto altra forma, il problema della certezza; la proprietà è l’uomo; la proprietà è Dio; la proprietà è tutto.

Ora, a questa questione formidabile, i giuristi rispondono balbettando i loro a priori: la proprietà è il diritto di usare e di abusare, diritto che risulta da un atto della volontà manifestata con l’occupazione e l’appropriazione; ed è evidente che essi non ci insegnano assolutamente nulla. Ammettendo che l’appropriazione sia necessaria al compimento del destino dell’uomo e all’esercizio della sua industria, tutto ciò che se ne può concludere è che, essendo l’appropriazione necessaria a tutti gli uomini, la possessione deve essere uguale ma sempre mutabile e mobile, suscettibile di aumento e di diminuzione, nonostante il consenso dei possessori; il che è la negazione stessa della proprietà. Nel sistema dei giuristi, dei ragionanti a priori, la proprietà, per esser d’accordo con se stessa, dovrebbe essere come la libertà, reciproca e inalienabile; in modo che ogni acquisto, cioè ogni esercizio ulteriore del diritto di appropriazione, si troverebbe a essere, al tempo stesso, per l’acquirente, il godimento di un diritto naturale e, di fronte ai suoi simili, una usurpazione; cosa che è contraddittoria, impossibile.

Che gli economisti appoggiati sulle loro induzioni utilitarie vengano a loro volta a dirci: l’origine della proprietà è il lavoro. La proprietà è il diritto di vivere lavorando, di disporre liberamente e sovranamente dei propri risparmi, del proprio capitale, del frutto della propria intelligenza e della propria industria. Il loro sistema non è più solido. Se il lavoro, l’occupazione effettiva e feconda, è il principio della proprietà, come spiegare la proprietà presso colui che non lavora? come giustificare l’affitto? come dedurre dalla formazione della proprietà mediante il lavoro il diritto di possedere senza lavoro? come concepire che da un lavoro sostenuto durante trent’anni risulta una proprietà eterna? Se il lavoro è la sorgente della proprietà, questo vuol dire che la proprietà è la ricompensa del lavoro. Ora, qual è il valore del lavoro? qual è la misura comune dei prodotti, il cui scambio conduce a così mostruose disuguaglianze nella proprietà?

Si dirà che la proprietà deve essere limitata alla durata dell’occupazione reale, alla durata del lavoro. Allora la proprietà cessa di essere personale, inviolabile e trasmissibile: non è più la proprietà. Non è patente che se la teoria dei giuristi è tutta arbitraria, quella degli economisti è dettata solo dall’abitudine? Del resto, essa è apparsa così dannosa per le sue conseguenze che è stata quasi subito abbandonata appena data alla luce. I giuristi d’oltre Reno, fra gli altri, sono ritornati quasi tutti al sistema della prima occupazione; cosa appena credibile nel Paese della dialettica.

Che dire poi delle divagazioni dei mistici, di quella gente a cui fa orrore la ragione e per cui il fatto è sempre sufficientemente spiegato, giustificato, in quanto esiste? La proprietà, dicono, è una creazione della spontaneità sociale, l’effetto di una legge della Provvidenza, davanti alla quale dobbiamo umiliarci come davanti a tutto ciò che viene da Dio. E che cosa potremmo trovare di più rispettabile, autentico, necessario e sacro di quel che il genere umano ha voluto spontaneamente e ha compiuto per un permesso dall’alto?

Così, la religione viene a sua volta a consacrare la proprietà; e da questo segno si può giudicare la poca solidità di tale principio. Ma la società, detta anche Provvidenza, non ha consentito alla proprietà che in vista del bene generale; è permesso, senza mancare al rispetto dovuto alla Provvidenza, di domandare da dove vengano allora le esclusioni? Perché se il bene generale non esige assolutamente l’uguaglianza delle proprietà, per lo meno implica una certa responsabilità da parte del proprietario; e quando il povero domanda l’elemosina, è il sovrano che reclama il suo diritto. Donde viene dunque che il proprietario è padrone di non rendere mai conto, di non mettere a parte?

Sotto tutti questi punti di vista la proprietà resta inintelligibile: quelli che l’hanno attaccata potevano essere certi già prima che non si sarebbe risposto loro, come potevano ugualmente essere sicuri che le loro critiche non avrebbero sortito il minimo effetto. La proprietà esiste di fatto ma la ragione la condanna; come conciliare qui la realtà e l’idea, come far passare la ragione nel fatto? Ecco ciò che ci resta da fare e che nessuno ancora sembra avere chiaramente compreso. Fintanto che la proprietà sarà difesa con così poveri mezzi, sarà in pericolo; e fintanto che un fatto nuovo e più potente non sarà opposto alla proprietà, gli attacchi non saranno che insignificanti proteste, buone per aizzare i pezzenti e irritare i proprietari.

Infine, è arrivato un critico che, procedendo con l’aiuto di un’argomentazione nuova, ha detto:

La proprietà, di fatto e di diritto, è essenzialmente contraddittoria ed è per questa stessa ragione che essa è qualche cosa.

Difatti:

La proprietà è il diritto di occupazione, e nel tempo stesso il diritto di esclusione.

La proprietà è il premio del lavoro, e la negazione del lavoro.

La proprietà è il prodotto spontaneo della società, e la dissoluzione della società.

La proprietà è una istituzione di giustizia, la proprietà è un furto. [...]

Da tutto questo risulta che un giorno la proprietà trasformata sarà una idea positiva, completa, sociale e vera; una proprietà che abolirà l’antica proprietà e diventerà per tutti ugualmente effettiva e benefica. E ciò che lo prova è ancora una volta che la proprietà è una contraddizione. Da questo momento la proprietà ha cominciato a essere conosciuta; è stata svelata la sua natura intima, il suo avvenire è stato previsto. Ma la critica non ha compiuto che metà del suo compito, poiché, per costruire definitivamente la proprietà, per toglierle il suo carattere di esclusione e darle la sua forma sintetica, non basta averla analizzata in se stessa, conviene ancora ritrovare l’ordine di idee di cui essa non è che un momento particolare, la serie che l’avviluppa e fuori della quale non è possibile né comprendere, né intaccare la proprietà. [...]

La proprietà comincia, o per meglio dire si manifesta, con una occupazione sovrana, effettiva, che esclude ogni idea di partecipazione e di comunità; questa occupazione, nella sua forma legittima e autentica, non è altro che il lavoro: senza questo, come mai la società avrebbe acconsentito a concedere e a far rispettare la proprietà? La società ha voluto la proprietà e tutte le legislazioni del mondo non sono state fatte che per essa.

La proprietà si è stabilita con l’occupazione, cioè con il lavoro: conviene ricordarlo spesso non per la conservazione della proprietà, ma per l’istruzione dei lavoratori. Il lavoro conteneva in potenza, doveva produrre per l’evoluzione delle sue leggi, la proprietà; nel modo stesso che aveva generato la separazione delle industrie, poi la gerarchia dei lavoratori, poi la concorrenza, il monopolio, la politica, ecc. Tutte queste antinomie sono allo stesso titolo posizioni successive del lavoro, bastoni da livello piantati sulla sua strada eterna e destinati a formulare, nella loro riunione sintetica, il vero diritto delle genti. Ma il fatto non è il diritto; la proprietà, prodotto naturale dell’occupazione e del lavoro, era un principio di anticipazione e di usurpazione; essa aveva dunque bisogno di essere riconosciuta e legittimata dalla società: questi due elementi, l’occupazione del lavoro e la sanzione legislativa, che i giuristi hanno male a proposito separati nei loro commentari, si sono riuniti per costituire la proprietà. Ora, si tratta di conoscere i motivi provvidenziali di questa concessione, quale parte essa sostenga nel sistema economico: tale sarà l’oggetto di questo paragrafo.

Proviamo dapprima che per stabilire la proprietà è stato necessario il consenso sociale.

Fin tanto che la proprietà non è riconosciuta e legittimata dallo Stato, resta un fatto extra sociale; è nella stessa posizione del bambino, il quale non è reputato membro della famiglia, della città e della Chiesa che tramite il riconoscimento del padre, l’iscrizione al registro dello stato civile e la cerimonia del battesimo. Nell’essenza di queste formalità il bambino è come la prole degli animali: è un membro inutile, un’anima vile e serva, indegna di considerazione; è un bastardo. Parimenti, il riconoscimento sociale è stato necessario alla proprietà, e ogni proprietà ha implicato una comunità primitiva. Senza questo riconoscimento, la proprietà resta semplice occupazione e può essere contestata dal primo venuto.

«Il diritto a una cosa», dice Kant, «è il diritto dell’uso privato di una cosa riguardo alla quale io sono in comunanza di possesso (primitiva o susseguente) con tutti gli altri uomini: questo possesso è l’unica condizione sotto la quale posso interdire a ogni altro possessore l’uso privato della cosa, perché senza la supposizione di questo possesso non sarebbe possibile concepire come io, che non sono attualmente possessore della cosa, possa essere leso da coloro che la possiedono e che se ne servono». Il mio arbitrio individuale o unilaterale non può obbligare altri a interdirsi l’uso di una cosa, se non vi era altrimenti obbligato. Egli non può essere dunque obbligato se non dagli arbitrii riuniti in un possesso comune. Se non fosse così, si sarebbe nella necessità di concepire un diritto in una cosa, come se essa avesse un obbligo verso di me, e donde deriverebbe in ultima analisi il diritto contro ogni possessore di questa cosa; concetto veramente assurdo.

Così, secondo Kant, il diritto di proprietà, cioè la legittimità dell’occupazione, procede dal consenso dello Stato, il quale implica originariamente possesso comune. E non può, dice Kant, essere altrimenti. Tutte le volte dunque che il proprietario osa opporre il suo diritto allo Stato, questi, riconducendo il proprietario alla convenzione, può sempre terminare la lite con questo ultimatum: o riconoscete la mia sovranità, e vi sottomettete a quello che l’interesse pubblico reclama, o io dichiaro che la vostra proprietà ha cessato di essere collocata sotto la salvaguardia delle leggi e le tolgo la mia protezione.

Da ciò segue che nello spirito del legislatore l’istituzione della proprietà, come quella del credito, del commercio e del monopolio, è stata fatta con un intento di equilibrio; il che colloca senz’altro la proprietà fra gli elementi dell’organizzazione, e la distingue come uno dei mezzi generali di costituzione dei valori. «Il diritto a una cosa», dice Kant, «è il diritto dell’uso privato di una cosa riguardo alla quale io sono in comunanza di possesso con tutti gli altri uomini». In virtù di questo principio, ogni uomo privo di proprietà può dunque e deve richiamarsi alla comunanza, custode dei diritti di tutti; da che ne risulta, come si è detto, che nelle vedute della Provvidenza le condizioni devono essere uguali.

Per essenza e destinazione, la rendita è dunque uno strumento di giustizia distributiva, uno dei mille mezzi che il genio economico mette in opera per giungere all’uguaglianza. È un immenso catasto eseguito contraddittoriamente da proprietari e fittavoli, senza collisione possibile, in un interesse superiore, e il cui risultato definitivo deve essere di uguagliare il possesso della terra fra i coltivatori del suolo e gli industriali. La rendita, in una parola, è quella legge agraria tanto desiderata che deve rendere tutti i lavoratori, tutti gli uomini, possessori uguali della terra e dei suoi frutti. Ci bisognava questa magia della proprietà per prendere al colono l’eccedenza del

prodotto ch’egli non può fare a meno di considerare come suo e di cui si crede esclusivamente l’autore.

La rendita, o per meglio dire la proprietà, ha schiacciato l’egoismo agricolo e creato una solidarietà che nessuna potenza, nessuna divisione della terra mai avrebbe fatto nascere. Con la proprietà, l’uguaglianza fra tutti gli uomini diventa definitivamente possibile; operando la rendita fra gli individui come la dogana fra le nazioni, tutte le cause, tutti i pretesti di disuguaglianza, scompaiono, e la società non aspetta altro che la leva destinata a dare l’impulso a questo movimento. Al proprietario mitologico succederà il proprietario autentico? distruggendo la proprietà, gli uomini diventeranno tutti proprietari? Tale è d’ora in poi la questione da risolvere, una questione insolubile senza la rendita.

Il genio sociale non procede come gli ideologi e con sterili astrazioni; non si dà pensiero né di interessi dinastici, né di ragion di Stato, né di diritti elettorali, né di teorie rappresentative, né di sentimenti umanitari o patriottici. Personifica o realizza sempre le sue idee: il suo sistema si sviluppa in una sequela di incarnazioni e di fatti, e per costituire la società si indirizza sempre all’individuo.

Dopo la grande epoca del credito, conveniva riattaccare l’uomo alla terra; il genio sociale ha istituito la proprietà. Poi si trattava di eseguire il catasto del globo; invece di pubblicare a suon di tromba una operazione collettiva, ci si rivolge agli interessi individuali, e dalla guerra del colono e dell’uomo di rendita risulta per la società il più imparziale arbitrato. Oggi, ottenuto l’effetto morale della proprietà, resta da fare la distribuzione della rendita. Guardatevi dal convocare assemblee primarie, dal chiamare i vostri oratori e i vostri tribuni, dal rinforzare la vostra politica e, con questo apparato dittatoriale, spaventare il mondo. Una semplice mutualità di cambio, aiutata da qualche combinazione di banca, basterà... Per i grandi effetti i più semplici mezzi: questa è la legge suprema della società e della natura.

La proprietà è il monopolio elevato alla seconda potenza; è, come il monopolio, un fatto spontaneo, necessario, universale. Ma la proprietà ha il favore dell’opinione pubblica, mentre il monopolio è guardato con disprezzo; noi possiamo inferire, da questo nuovo esempio, che come la società si stabilisce con la lotta, nello stesso modo la scienza non cammina che spinta dalla controversia. È così che la concorrenza è stata di volta in volta esaltata e maltrattata; che l’imposta, riconosciuta necessaria dagli economisti, è sgradita agli economisti; che la bilancia del commercio, le macchine, la divisione del lavoro, hanno eccitato di volta in volta l’approvazione e la maledizione pubblica. La proprietà è sacra, il monopolio è riprovevole: quando vedremo la fine dei nostri pregiudizi e delle nostre incongruenze?

Con la proprietà, la società ha realizzato un pensiero utile, leale, per altro fatale: ora voglio provare che, obbedendo a una necessità invincibile, essa si è gettata in una ipotesi impossibile. Credo di non aver dimenticato nessuno dei motivi che hanno presieduto allo stabilirsi della proprietà; oso anzi dire che ho dato a questi motivi un insieme e una evidenza sino a questo momento sconosciuti. Che il lettore supplisca, del resto, a ciò che involontariamente avrò potuto omettere: accetto anticipatamente tutte le sue ragioni e non mi propongo in alcun modo di contraddirvi.

Ma che in seguito mi dica, con la mano sulla coscienza, ciò che può replicare alla controprova che intendo portare.

Senza dubbio la ragione collettiva, obbedendo all’ordine del destino che gli prescriveva, con una serie di istituzioni provvidenziali, di consolidare il monopolio, ha fatto il suo dovere: la sua condotta è irreprensibile, e io non l’accuso. È il trionfo dell’umanità saper riconoscere ciò che c’è in essa di fatale, come il più grande sforzo della sua virtù è di sapervisi sottomettere. Se dunque la ragione collettiva, istituendo la proprietà, ha eseguito la sua consegna, essa non merita biasimo; la sua responsabilità è al coperto. Ma questa proprietà, che la società, forzata e costretta, se così posso dire, ha dato alla luce, chi ci garantisce che durerà? Certo la società non l’ha concepita dall’alto, e non ha potuto aggiungervi, levare o modificare nulla. Conferendola all’uomo, ha lasciato alla proprietà le sue qualità e i suoi errori, non ha preso alcuna precauzione né contro i suoi vizi costitutivi, né contro le forze superiori che possono distruggerla. Se la proprietà in se stessa è corruttibile, la società non ne sa niente, e non vi può niente. Se questa proprietà è esposta ad attacchi di un principio più potente, la società non può nulla. Come rimedierà, in effetti, la società al vizio della proprietà, dato che la proprietà è figlia del destino? E come la proteggerà contro una idea più alta, quando essa stessa non sussiste che per la proprietà, né conosce niente al disopra della proprietà? Ecco dunque qual è la teoria proprietaria.

La proprietà è, di necessità, provvidenziale; la ragione collettiva l’ha ricevuta da Dio e l’ha data all’uomo. E se oltretutto la proprietà è corruttibile per sua natura, o attaccabile da una forza maggiore, la società è irresponsabile; e chiunque, armato di questa forza, si presenterà per combattere la proprietà, la società gli deve sottomissione e obbedienza.

Si tratta dunque di sapere, primo, se la proprietà sia in sé cosa corruttibile e che dia presa alla distruzione; secondo, se mai esiste da qualche parte, nell’arsenale economico, uno strumento che la possa vincere.

Tratterò la prima questione in questo paragrafo; cercheremo ulteriormente il nemico che minaccia di inghiottire la proprietà. La proprietà è il diritto di usare e di abusare; in una parola, il dispotismo. Non che il despota abbia intenzione di distruggere la cosa, non è ciò che si deve intendere per diritto di usare e di abusare. La distruzione per la distruzione non si presuppone da parte del proprietario, si ammette sempre, qualunque uso faccia del suo bene, che vi sia un motivo di convenienza e di utilità.

Parlando di abuso, il legislatore ha voluto dire che il proprietario ha il diritto di sbagliarsi nell’uso dei suoi beni, senza che possa mai essere molestato per questo cattivo uso, senza che sia responsabile del suo errore. Il proprietario è sempre tenuto ad agire nel suo maggiore interesse; e appunto allo scopo di lasciargli maggiore libertà nel perseguimento di questo interesse, la società gli ha conferito il diritto di usare e di abusare del suo monopolio. Sin là dunque il diritto di proprietà è irreprensibile.

Ma ricordiamoci che questo diritto non è stato concesso solo riguardo all’individuo; nell’esposizione dei motivi della concessione esistono delle considerazioni tutte sociali; il contratto è sinallagmatico fra la società e l’uomo. Questo è talmente vero, talmente dichiarato anche dai proprietari, che ogniqualvolta si viene ad attaccare il loro privilegio è in nome, e solamente in nome, della società che essi lo difendono. Ora, il dispotismo proprietario dà soddisfazione alla società? In caso contrario, essendo illusoria la reciprocità, il patto sarebbe nullo e prima o poi la proprietà o la società perirebbero. Reitero dunque la mia domanda. Il dispotismo proprietario adempie al suo obbligo verso la società? agisce da buon padre di famiglia? è per sua essenza giusto, sociale, umano? Ecco le domande. Ed ecco cosa rispondo senza temere smentita.

Se è indubitabile, dal punto di vista della libertà individuale, che la concessione della proprietà sia necessaria, dal punto di vista giuridico la concessione della proprietà è radicalmente nulla, perché implica dalla parte del concessionario certi obblighi che è in sua facoltà compiere o non compiere.

Ora, in virtù del principio che ogni convenzione fondata sull’adempimento di una condizione non obbligatoria non obbliga, il contratto tacito di proprietà, passato fra il privilegiato e lo Stato, ai fini che abbiamo precedentemente stabiliti, è manifestamente illusorio; esso si annulla per la non reciprocità, per la lesione di una delle parti. E siccome, in fatto di proprietà, l’adempimento dell’obbligazione non può essere esigibile senza che la concessione stessa sia per ciò solo revocata, ne segue che c’è contraddizione nella definizione e incoerenza nel patto. Se i contraenti si ostinassero a mantenere il trattato, la forza delle cose si incaricherebbe di provare loro che fanno opera inutile: malgrado tutto, la fatalità del loro antagonismo riconduce fra essi la discordia.

Tutti gli economisti segnalano gli inconvenienti che ha per la produzione agricola lo sminuzzamento del territorio. D’accordo in questo con i socialisti, essi vedrebbero con gioia una coltivazione in grande che, operando su larga scala, applicando i processi potenti dell’arte e facendo importanti economie sul materiale, raddoppiasse, quadruplicasse forse il prodotto. Ma il proprietario esclama: veto, io non voglio. E siccome è nel suo diritto, siccome nessuno al mondo conosce il mezzo di cambiare questo diritto altrimenti che con l’espropriazione, e l’espropriazione è il niente, il legislatore, l’economista, il proletario, retrocedono con orrore davanti all’ignoto e si contentano di salutare da lontano le messi auspicate. Il proprietario è, per carattere, invidioso del bene pubblico; non potrebbe purgarsi da questo vizio che perdendo la proprietà.

La proprietà è dunque un ostacolo al lavoro e alla ricchezza, un ostacolo all’economia sociale; solo gli economisti e i giuristi si meravigliano di ciò.

Ma il proprietario: sarei ben stupido, dice, se abbandonassi un beneficio così netto. Invece di cento giornate di lavoro non ne pagherò che cinquanta: non è il proletario che approfitterà, ma io. Allora, osservate voi, il proletario sarà ancora più disgraziato di prima, poiché gli mancherà il lavoro una volta di più. Questo non mi riguarda, soggiunge il proprietario, uso del mio diritto. Che gli altri accantonino dei beni, se possono, che vadano in un’altra parte del mondo a cercare fortuna, fossero anche migliaia o milioni! Ogni proprietario nutre, in fondo al cuore, questo pensiero omicida. E siccome per la concorrenza, il monopolio e il credito l’invasione si estende sempre più, i lavoratori si trovano continuamente eliminati dal suolo: la proprietà è lo spopolamento della terra. Così la rendita del proprietario, combinata con il progresso dell’industria, cambia in abisso la fossa scavata sotto i piedi del lavoratore dal monopolio; il male si aggrava coi privilegi. La rendita del proprietario non è più il patrimonio dei poveri, voglio dire quella porzione del prodotto agricolo che resta dopo che le spese della coltura sono state compensate, e che doveva sempre servire come nuova materia di usufrutto al lavoro, secondo la bella teoria che ci mostra il capitale accumulato come una terra senza posa offerta alla produzione, e che più la si lavora, più sembra estendersi. La rendita è diventata per il proprietario il pegno della sua lubricità, lo strumento delle sue solitarie gioie. E notate che il proprietario che abusa, colpevole davanti alla carità e alla morale, sta senza rimprovero davanti alla legge, è inattaccabile in economia politica. Consumare la propria rendita: che c’è di più bello, di più nobile, di più legittimo? Nell’opinione del popolo come in quella dei potenti il consumo improduttivo è la virtù per eccellenza del proprietario. Tutti gli imbarazzi della società provengono da questo egoismo indelebile. [...]

Così la proprietà separa l’uomo dall’uomo cento volte di più del monopolio. Il legislatore, con un intento eminentemente sociale, aveva creduto di dare al possesso più forti garanzie; ed ecco si trova ad aver tolto al lavoratore persino la speranza, garantendo al monopolista, in perpetuo, il frutto quotidiano delle sue rapine. Quale grande proprietario non abusa della sua forza per violentare il piccolo? quale sapiente, costituito in dignità, non ricava un lucro dalla sua influenza e dal suo patronato? quale filosofo, accreditato nei consigli, non trova modo, sotto pretesto di traduzione, revisione o commentario, di trarre partito dalla filosofia? quale ispettore di scuola non è mercante di sillabari? L’economia politica è forse scevra da ogni commercio di azioni, e la religione da ogni simonia? Ho avuto l’onore di essere capo di stamperia, vendendo una dozzina di catechismi, cinque fogli in 120, trenta soldi. Dopo, il vescovo del luogo si è assunto il monopolio dei libri di religione, e il prezzo del catechismo è salito da 15 centesimi a 40: monsignore realizza ogni anno su questo solo articolo un utile netto di 50.000 franchi. La tale questione è stata messa a concorso dall’Accademia solo per dare l’occasione di un trionfo al signor tale; la tale composizione ha ottenuto il premio perché veniva dal signor tale, che professa le buone dottrine, vale a dire esercita l’arte della bassa adulazione presso i signori tali, tali, tali. La scienza titolata sbarra il cammino alla scienza ignobile; la quercia obbliga la canna a farle riverenza; la religione e la morale si utilizzano per privilegio, come il gesso e il carbon fossile; il privilegio giunge sino al premio della virtù, e le corone decretate nel teatro Mazzarino, per l’incoraggiamento della gioventù e il progresso della scienza, non sono più che l’insegna della feudalità accademica.

E tutti questi abusi di autorità, queste concussioni, queste brutture, provengono non dall’abuso illegale, ma dall’uso legale, legalissimo, della proprietà. Senza dubbio il funzionario il cui controllo è necessario per il libero passaggio di una mercanzia, o l’accettazione di una fornitura, non ha il diritto di trafficare questo controllo. Non è così ch’essi si comportino. Un simile atto ripugnerebbe alla virtù degli agenti dell’autorità, cadrebbe sotto la vendetta del codice penale, e non me ne occuperei. Ma colui il quale approva, non può niente approvare più volentieri che ciò che sa fare, poiché la sua approvazione è necessariamente in ragione dei suoi mezzi. Ora, siccome non è interdetto agli ispettori e controllori dell’autorità di fare da se stessi ciò che sono incaricati di approvare presso gli altri, e a più forte ragione di prendere parte e di interessarsi a ciò che deve essere sottomesso alla loro approvazione, e siccome in ogni specie di servizio, il salario e il beneficio sono legittimi, ne segue che la missione attribuita, per esempio, all’università e ai vescovi, di approvare o di disapprovare certe opere, costituisce a profitto dei vescovi e degli universitari un monopolio. E se la legge, contraddicendosi, pretende di impedirlo, la forza delle cose, più potente della legge, lo ripropone senza posa, e invece di un governo non abbiamo più che venalità e finzione. [...]

L’economia politica, dice il Rossi, è in sé buona e utile, ma non è la morale; essa procede facendo astrazione da qualsiasi moralità; sta a noi non abusare delle sue teorie, approfittare dei suoi insegnamenti, secondo le leggi superiori della morale. È come se dicesse: l’economia politica, l’economia della società, non è la società; l’economia della società procede facendo astrazione da ogni società; sta a noi non abusare delle sue teorie, approfittare dei suoi insegnamenti, secondo le leggi superiori della società. Che caos!

Io sostengo non solo con gli economisti che la proprietà non è né la morale, né la società, ma anche che essa è per suo principio direttamente contraria alla morale e alla società, come l’economia politica è antisociale perché le sue teorie sono diametralmente opposte all’interesse sociale.

Stando alla definizione, la proprietà è il diritto di usare e di abusare, cioè il dominio assoluto, irresponsabile, dell’uomo sulla sua persona e sui suoi beni. Se la proprietà cessasse di essere il diritto di abusare, essa cesserebbe di essere la proprietà. Io ho preso i miei esempi nella categoria degli atti abusivi permessi al proprietario. Che mai vi si opera che non sia di una legalità, di una proprietà irreprensibile? il proprietario non ha forse il diritto di dare il suo bene a chi gli pare e piace, di lasciar bruciare il suo vicino senza gridare al fuoco, di fare opposizione al bene pubblico, di scialacquare il suo patrimonio, di usufruire dell’operaio e di vessarlo, di mal produrre e di mal vendere? il proprietario può essere giuridicamente costretto a ben usare della sua proprietà? può essere disturbato nell’abuso? Che dico: la proprietà, precisamente perché è abusiva, non è forse per il legislatore tutto ciò che c’è di più sacro? si conosce una proprietà di cui la polizia determinerebbe l’uso, reprimerebbe l’abuso? e non è evidente, infine, che se si volesse introdurre la giustizia nella proprietà si distruggerebbe la proprietà stessa, come la legge, introducendo l’onestà nel concubinaggio, ha distrutto il concubinaggio?

La proprietà, per principio e per essenza, è dunque immorale: questa proposizione è d’ora innanzi indubitabile per la critica. Di conseguenza, il codice che, determinando i diritti del proprietario, non ha riservato quelli della morale, è un codice di immoralità; la giurisprudenza, questa pretesa scienza del diritto, la quale non è altro che la collezione di rubriche proprietarie, è immorale. E la giustizia, istituita per proteggere il libero e pacifico abuso della proprietà, la giustizia, che ordina di prestare manforte contro coloro che vorrebbero opporsi a questo abuso, che affligge e marchia di infamia chiunque abbia osato pretendere di riparare gli oltraggi della proprietà, la giustizia è infame. Se un figlio, soppiantato nell’affezione paterna da una indegna concubina, distrugge l’atto che lo diseredita e lo disonora, ne risponderà davanti la giustizia. Accusato, arrestato, condannato, andrà al Bagno a fare ammenda onorevole verso la proprietà, mentre la prostituta sarà entrata in possesso. Dov’è dunque qui l’immoralità? dov’è l’infamia? non è dalla parte della giustizia? Continuiamo a svolgere questa matassa e sapremo ben presto tutta la verità che cerchiamo. Non solo la giustizia, istituita per proteggere la proprietà, anche abusiva, anche immorale, è infame, ma la sanzione penale è infame, la polizia è infame, il boia e il patibolo sono infami. E la proprietà che abbraccia tutta questa serie, la proprietà da cui è uscita questa odiosa razza, la proprietà è infame.

Giudici armati per difenderla, magistrati il cui zelo è una minaccia permanente a quelli che l’accusano, vi interrogo. Che cosa avete visto nella proprietà che abbia potuto in tal modo soggiogare la vostra coscienza e corrompere il vostro giudizio? quale principio, superiore senza dubbio alla proprietà, più degno del vostro rispetto, ve la rende sì preziosa? allorché le sue opere la dichiarano infame, come mai la proclamate santa e sacra? quale considerazione, quale pregiudizio vi spinge? è forse l’ordine maestoso delle società umane, che non conoscete ma di cui supponete la proprietà esserne il saldissimo fondamento?

No, perché la proprietà, così com’è, è per voi l’ordine stesso, mentre d’altra parte è provato che la proprietà è di sua natura abusiva, cioè disordinata, antisociale.

[Da Système des contradictions économiques, trad. it.: Sistema delle contraddizioni economiche, Anarchismo, Catania 1975, pp. 40-41, 414438, 441-442, 452-453].



capitolo secondo

La concezione proudhoniana del politico definisce lo Stato come forma dell’alienazione della forza collettiva esplicitata a tutti i livelli, da quello sociale a quello economico, da quello culturale a quello psicologico. Per mantenere la propria esistenza, che è fittizia, esso non può che perpetuare l’espropriazione della società e quindi conservare la disuguaglianza: solo a condizione che la società sia e rimanga gerarchica, l’organizzazione statale può sostituirsi a quella sociale, il politico rispondere alle esigenze dell’economico e assolvere con autorità ciò che la società dovrebbe svolgere con autonomia. Per Proudhon il principio dell’antagonismo e del fatalismo politico porta alla metafisica governativa di una gerarchia eterna. Questo dogma fondato sulla teologia della forza è stato ripreso in pieno dalla democrazia giacobina e dal socialismo autoritario, che lo hanno mutuato dall’aristocrazia e dalla regalità. Si constata così, attraverso questa analogia simbolica, una sorta di religione della forza, di mistica della ragione di Stato, di fascino che ammanta il potere sociale, spingendolo come un archetipo sacrale fino nel profondo dell’inconscio sociale. In conclusione, l’idea dello Stato, secondo il pensatore francese, non può prescindere da una dimensione teistica, neppure nelle sue articolazioni formali (tanto da assumere perfino una qualche forma trinitaria di potenza, assistenza e sicurezza). Ne fa esempio la trasposizione dal piano teistico a quello fideistico operata dal pensiero giacobino: in esso l’immagine indeterminata e collettiva del popolo viene vissuta in chiave trascendente e sacrale, a estrema riconferma del fatto che ogni Stato tende per sua natura a fondare la propria legittimazione su di una dimensione mitica e mistica.

È proprio dunque della natura dello Stato, di ogni Stato, tendere a un proprio rafforzamento attraverso un movimento di assorbimento delle forze collettive e delle forze sociali. E non solo lo Stato è spinto dalla sua logica intrinseca ad appropriarsi dell’azione sociale, ma anche a centralizzare e unificare in una sola direzione la pluralità della vita collettiva. Questo movimento, che comporta l’aumento continuo delle funzioni statali a spese dell’iniziativa individuale, corporativa, comunale e sociale, una volta iniziato tende incessantemente a crescere, a invadere tutta la società, perché la centralizzazione è per sua natura espansiva, invadente.

La società disegualitaria è dunque la condizione obiettiva dell’esistenza dello Stato, allo stesso modo in cui l’esistenza di questo è la condizione del mantenimento della disuguaglianza sociale. La tendenza irreversibile dello Stato alla concentrazione e all’appropriazione della forza sociale dipende quindi dal conflitto delle classi, e più precisamente da ogni forma di gerarchia sociale che, a sua volta, è la premessa fondamentale per l’estorsione della forza collettiva.



Critica dello Stato

La stessa cosa non si può dire – anzi, è proprio il contrario – del problema politico, cioè del significato preciso da assegnare, per l’avvenire, al governo e allo Stato. Su tale punto la domanda non viene neppure posta: nella coscienza pubblica, nell’intelligenza delle masse non esiste. Una volta portata a compimento, nelle forme che abbiamo appena detto, la rivoluzione economica, può, deve, sussistere ancora il governo, lo Stato? Ecco ciò che nessuno, né dentro la democrazia, né fuori della democrazia, osa mettere in dubbio, e tuttavia si tratta di prendere in esame proprio questo problema, se si vogliono evitare nuove catastrofi.

Noi dunque affermiamo, e finora siamo i soli a farlo, che con la rivoluzione economica, da nessuno ormai messa in discussione, lo Stato deve sparire completamente; che tale scomparsa dello Stato è la conseguenza necessaria dell’organizzazione del credito e della riforma dell’imposta; che, in seguito a questa doppia innovazione, il governo diventa del tutto inutile e impossibile; che, a tal proposito, il governo è destinato a fare la stessa fine della proprietà feudale, del prestito a interesse, della monarchia assoluta o costituzionale, delle istituzioni giudiziarie, ecc., tutte cose che sono sì servite all’educazione della libertà, ma che cadono e svaniscono allorquando la libertà ha raggiunto la sua pienezza.

Altri, invece, e tra questi Louis Blanc e Pierre Leroux in prima fila, sostengono che dopo la rivoluzione economica, bisogna mantenere lo Stato, di cui però fino a questo momento non hanno fornito né il principio né il piano. Per essi la questione politica, invece di annullarsi o identificarsi con la questione economica, continua a sussistere: essi mantengono e allargano ulteriormente lo Stato, il potere, l’autorità, il governo. In effetti, si divertono a cambiare i nomi; al posto di Stato-padrone, per esempio, dicono Stato-servitore, come se bastasse cambiare le parole per trasformare le cose! Al di sopra di questo sistema di governo, del tutto misterioso, aleggia un sistema religioso, del quale ogni cosa, il dogma, il rito, lo scopo, sulla terra e in cielo, rimangono altrettanto misteriosi.

In un momento come questo, dunque, un momento d’accordo, o quasi, sul resto delle questioni, la domanda su cui si trova divisa la democrazia socialista è la seguente: dovrà lo Stato continuare a esistere una volta risolto il problema del lavoro e del capitale? In altri termini, continueremo ad avere, così come l’abbiamo avuta fino a ora, una costituzione politica al di fuori della costituzione sociale?

Noi rispondiamo di no. Sosteniamo che, una volta identificati il capitale e il lavoro, la società sussiste da sola e non ha più bisogno del governo. Noi siamo, di conseguenza, e l’abbiamo proclamato più di una volta, anarchici. L’anarchia è la condizione di esistenza delle società adulte, così come la gerarchia è la condizione di esistenza delle società primitive: nelle società umane esiste un incessante progresso dalla gerarchia all’anarchia.

Louis Blanc e Pierre Leroux affermano il contrario: oltre alla loro qualità di socialisti, essi conservano quella di politici; sono uomini di governo e di autorità, uomini di Stato.

Per risolvere una volta per tutte questo contrasto di opinioni, ci sembra allora necessario considerare lo Stato non più dal punto di vista della vecchia società, che lo ha naturalmente e necessariamente prodotto e che sta per finire, bensì dal punto di vista della società nuova, così come la fanno o devono farla le due riforme fondamentali e complementari del credito e dell’imposta.

Ora, se proviamo che da quest’ultimo punto di vista, lo Stato, considerato nella sua natura, riposa su una ipotesi completamente falsa; che, in secondo luogo, considerato nel suo oggetto, lo Stato giustifica la propria esistenza con una seconda ipotesi, ugualmente falsa; che, infine, considerato nell’ottica di una sua ulteriore prosecuzione, lo Stato può contare ancora e soltanto su una terza ipotesi, falsa come le prime due: una volta chiariti questi tre punti, il nodo della questione sarà sciolto, lo Stato verrà riconosciuto cosa superflua, quindi nociva e impossibile, il governo diverrà una contraddizione. Passiamo subito all’analisi.

«Che cos’è lo Stato?» si domanda Louis Blanc. E risponde:

Lo Stato, in un regime monarchico, è il potere di un uomo, la tirannia di uno solo.

Lo Stato, in un regime oligarchico, è il potere di un numero ristretto di uomini, la tirannia di pochi.

Lo Stato, in un regime aristocratico, è il potere di una classe, la tirannia di molti.

Lo Stato, in un regime anarchico, è il potere del primo venuto che è per caso il più intelligente e il più forte; è la tirannia del caos.

Lo Stato, in un regime democratico, è il potere di tutto il popolo, servito dai suoi eletti; è il regno della libertà.

Tra i 25.000 o 30.000 lettori di Louis Blanc, forse non ce ne sono neppure una decina cui questa definizione dello Stato non sia sembrata dimostrativa, e che non ripetano, seguendo il maestro: lo Stato è il potere di uno, di pochi, di molti, di tutti o del primo venuto, a seconda che si aggiunga alla parola Stato uno degli aggettivi seguenti: monarchico, oligarchico, aristocratico, democratico o anarchico. I delegati del Luxembourg – che, a quanto pare, si sentono defraudati se qualcuno si permette di avere una opinione diversa dalla loro sul significato e le tendenze della Rivoluzione di Febbraio – in una lettera resa pubblica mi hanno fatto l’onore di informarmi del fatto che essi giudicavano la risposta di Louis Blanc decisamente vittoriosa e che io non avevo altro da ribattere. A quanto pare, tra i cittadini delegati nessuno ha studiato il greco. Perché altrimenti si sarebbero accorti che il loro maestro e amico Louis Blanc, al posto di dire che cosa è lo Stato, non ha fatto altro che tradurre in francese le parole greche monos, uno; oligoi, alcuni; aristoi, i grandi; demos, il popolo, e a privativo, che indica la negazione. Servendosi esattamente di questi termini qualificativi, Aristotele ha potuto distinguere le differenti forme dello Stato, che si esprime a sua volta con arché, autorità, governo, Stato. Chiediamo scusa ai nostri lettori, ma non è affatto colpa nostra se la scienza politica del presidente del Luxembourg non va più in là dell’etimologia.

E si noti l’artificio! Nella sua traduzione è bastato a Louis Blanc introdurre prima quattro volte la parola tirannia – tirannia di uno solo, tirannia di molti, ecc. – e poi sopprimerla una volta – potere del popolo, servito dai suoi eletti – per riscuotere a primo colpo gli applausi. È tirannia qualunque tipo di Stato che non sia quello democratico, nel senso in cui l’intende Louis Blanc. Soprattutto l’anarchia è trattata in un modo particolare: è il potere del primo venuto che è per caso il più intelligente e il più forte; è la tirannia del caos. Che mostro questo primo venuto che, benché sia il primo venuto, è per caso anche il più intelligente e il più forte ed esercita la sua tirannia del caos. Se così stanno le cose, chi potrebbe preferire l’anarchia a questo affabile governo di tutto il popolo, servito così bene, come si sa, dai suoi eletti? Che grande vittoria! E noi per terra, fin dal primo colpo. Ah! retore, ringraziate il cielo di aver creato apposta per voi, nel XIX secolo, una idiozia come quella dei vostri cosiddetti delegati delle classi operaie, senza di che sareste morto sotto i fischi la prima volta che avete preso in mano una penna.

Che cos’è lo Stato? A questa domanda bisogna dare una risposta: l’enumerazione delle varie specie di Stati che, sulle orme di Aristotele, ha fatto il cittadino Louis Blanc, non ci ha insegnato nulla. Quanto a Pierre Leroux, non vale la pena interrogarlo. Ci risponderebbe che la domanda è indiscreta, che lo Stato è sempre esistito, che esisterà sempre: è la ragione ultima dei conservatori e delle bonnes femmes.

Lo Stato è la costituzione esterna della potenza sociale.

A causa di questa costituzione esterna della sua potenza e sovranità, il popolo non si governa da sé: c’è sempre qualcuno, a volte un solo individuo, a volte molti, a titolo elettivo o ereditario, incaricato di governarlo, amministrare i suoi affari, trattare e fare compromessi in suo nome, fungere insomma da capofamiglia, tutore gerente o mandatario, munito di procura generale, assoluta e irrevocabile.

Questa costituzione esterna della potenza collettiva, che i Greci chiamarono arché, principato, autorità, governo, riposa dunque sull’ipotesi secondo cui un popolo, quell’essere collettivo che chiamiamo società, non può governarsi, pensare, agire, esprimersi in modo autonomo, proprio come fanno gli esseri dotati di personalità individuale; e perciò ha bisogno di farsi rappresentare da uno o più individui, i quali, con qualsiasi titolo, sono ritenuti depositari della volontà del popolo e suoi agenti. Secondo tale ipotesi, è impossibile che la potenza collettiva, che appartiene essenzialmente alla massa, si esprima e agisca direttamente, senza la mediazione di organi fatti apposta e per così dire disposti ad hoc. A quanto pare – il che spiega la formazione di tutte le varietà e specie dello Stato – l’essere collettivo, la società, proprio perché è un essere razionale, non può rendersi sensibile, esteriorizzarsi, se non tramite l’incarnazione monarchica, l’usurpazione aristocratica o il mandato democratico; di conseguenza, gli è impedita ogni manifestazione propria e personale.

Ora, è precisamente questa nozione astratta dell’essere collettivo, della sua vita, della sua azione, della sua unità, della sua individualità, della sua personalità – perché, capite, la società è una

persona come è una persona l’umanità tutt’intera – è questa nozione dell’essere umano collettivo, come ente di ragione, che noi neghiamo oggi; e perciò neghiamo anche lo Stato, neghiamo il governo, respingiamo dalla società trasformata dalla rivoluzione economica qualsiasi costituzione della potenza popolare che si ponga al di fuori e al di sopra della massa, assuma essa sembianze di monarchia ereditaria, istituzione feudale o delegazione democratica.

Affermiamo, invece, che il popolo, la società, la massa, può e deve governarsi autonomamente, pensare, agire, muoversi e arrestarsi come un uomo, manifestarsi insomma nella sua individualità fisica, intellettuale e morale, senza l’aiuto di quella specie di sostituti che in passato furono i despoti, adesso sono gli aristocratici, qualche altra volta sono stati i pretesi delegati, devoti o servitori della folla, che noi chiamiamo puramente e semplicemente agitatori del popolo, demagoghi.

In due parole, neghiamo il governo e lo Stato perché affermiamo – e questo i fondatori di Stati non l’hanno mai creduto – la personalità e l’autonomia delle masse.

Inoltre affermiamo che ogni costituzione di Stato ha il solo scopo di condurre la società a questo stato di autonomia; che le varie forme di Stato, dalla monarchia assoluta fino alla democrazia rappresentativa, sono tutte mezzi termini, posizioni illogiche e instabili, che hanno di volta in volta una funzione transitoria o di tappe verso la libertà, nel senso che formano i gradi della scala politica attraverso cui le società si elevano alla coscienza e al possesso di se stesse.

Affermiamo, infine, che questa anarchia, che è l’espressione, come si vede, del più alto grado di libertà e ordine cui possa giungere l’umanità, è la vera formula della repubblica, lo scopo verso il quale ci spinge la Rivoluzione di Febbraio; sicché c’è contraddizione tra repubblica e governo, tra suffragio universale e Stato.

Noi fondiamo queste affermazioni sistematiche su due procedimenti: dimostrando in primo luogo, con il metodo storico e negativo, che qualsiasi costituzione di potere, qualsiasi organizzazione della forza collettiva che si basi su un processo di esteriorizzazione, per noi è diventata impossibile. È quanto abbiamo incominciato a fare nelle Confessioni di un rivoluzionario, con il raccontare la caduta di tutti i governi che si sono succeduti in Francia da sessant’anni a questa parte, mettendo in evidenza la causa della loro abolizione, e insistendo infine sull’esaurimento e la morte del potere sotto il regno corrotto di Luigi Filippo, durante la dittatura inerte del governo provvisorio e la presidenza insignificante del generale Cavaignac e di Luigi Bonaparte.

In secondo luogo, proviamo la nostra tesi spiegando in quale modo, con la riforma economica, la solidarietà industriale e l’organizzazione del suffragio universale, il popolo passi dalla spontaneità alla riflessione e alla coscienza; agisca, non più per impulso e fanatismo, ma con intenzione; si muova senza padroni e servi, senza delegati e aristocratici, proprio come farebbe un individuo. In questo modo, la nozione di persona, l’idea dell’io, si estende e generalizza: c’è la persona o l’io individuale, e c’è pure la persona o l’io collettivo; in tutti e due i casi, la volontà, l’azione, l’anima, lo spirito, la vita – cose del tutto misteriose e inafferrabili per chi ne rincorra il principio o ne ricerchi l’essenza – sono inseparabili dalla loro esistenza animale e vitale, dall’organizzazione. La psicologia delle nazioni e dell’umanità diventa, come la psicologia dell’uomo, una scienza possibile. Noi abbiamo annunciato questo tipo di dimostrazione positiva sia nelle nostre pubblicazioni sulla circolazione e il credito, sia nel capitolo XIV del manifesto de «La Voix du Peuple» riguardante la costituzione.

Sicché, quando Louis Blanc e Pierre Leroux si erigono a difensori dello Stato, cioè di una costituzione esterna della potenza pubblica, non fanno che riprodurre, a modo loro e in forme che non ci hanno ancora fatto conoscere, la vecchia finzione del governo rappresentativo, la cui formula integrale, l’espressione più completa, è ancora quella della monarchia costituzionale. Perché abbiamo fatto la Rivoluzione di Febbraio, forse per arrivare a questa contraddizione retrograda?

A noi sembra – voi che ne dite, lettori? – che la questione si stia un po’ chiarendo; dopo quello che abbiamo appena detto, i poveri di spirito saranno in grado di farsi una idea dello Stato, di capire perché mai dei repubblicani si chiedono se sia davvero indispensabile, dopo una rivoluzione economica che modifica tutti i rapporti sociali, mantenere quell’organo parassitario chiamato governo solo per soddisfare la vanità di pretesi uomini di Stato e al prezzo di 2 miliardi all’anno. E gli onorevoli delegati del Luxembourg che, solo perché occupano qualche poltrona, si credono uomini politici e si aggiudicano risolutamente la comprensione esclusiva della Rivoluzione, senza dubbio cesseranno di temere che noi, a titolo di più intelligenti e di più forti, dopo aver soppresso, perché inutile e troppo costoso, il governo, instaureremo la tirannia del caos. Noi neghiamo lo Stato e il governo; noi affermiamo l’autonomia del popolo e sosteniamo al tempo stesso la sua maggioranza. Potremmo mai essere fautori della tirannia, aspiranti al ministero, competitori di Louis Blanc e Pierre Leroux?

In verità, non riusciamo a capire la logica dei nostri avversari. Essi accettano un principio senza preoccuparsi delle conseguenze; si dichiarano d’accordo, per esempio, sull’uguaglianza dell’imposta che l’imposta sul capitale realizza; adottano il principio del credito popolare, reciproco e gratuito, perché tutti questi termini sono sinonimi; approvano la decadenza del capitale e l’emancipazione del lavoro. Quando poi arriva il momento di dedurre da tali premesse le conseguenze antigovernative, protestano, continuano a parlare di politica e di governo, senza domandarsi se il governo è compatibile con la libertà e l’uguaglianza industriale; se è possibile una scienza politica, quando è necessaria una scienza economica! Senza scrupoli attaccano la proprietà, nonostante la sua antichità venerabile; ma si inchinano davanti al potere come i sagrestani davanti al Santo Sacramento. Per loro il governo è l’a priori necessario e immutabile, il principio dei principi, l’arché eterna.

Certo, non scambiamo per prove le nostre affermazioni, sappiamo, come chiunque altro, a quali condizioni si dimostra una proposizione. Diremo soltanto che, prima di passare a una nuova

 costituzione dello Stato, bisognerebbe chiedersi se, proprio per le riforme economiche che la rivoluzione ci impone, non debba essere abolito lo Stato in quanto tale; se cioè la fine delle istituzioni politiche non sia implicita già nel senso e nella portata della riforma economica. Chiediamo se, in realtà, dopo l’esplosione di febbraio, l’instaurazione del suffragio universale, la dichiarazione del potere alla volontà popolare, sia ancora possibile un qualunque tipo di governo; se questo governo non si ritroverebbe poi di fronte all’eterna alternativa o di obbedire docilmente alle ingiunzioni cieche e contraddittorie della folla, o di ingannarla deliberatamente, come ha fatto il governo provvisorio, come hanno fatto sempre i demagoghi. Per lo meno, vorremmo sapere quali delle diverse attribuzioni dello Stato debbano essere conservate e allargate, e quali soppresse. Perché, se per caso, cosa del tutto prevedibile, neppure una delle attuali attribuzioni dello Stato sopravvivesse alla riforma economica, si dovrebbe allora ammettere, in base a tale dimostrazione negativa, che nella nuova condizione sociale lo Stato non è nulla, non può essere nulla; in due parole, che il solo modo per organizzare il governo democratico è la soppressione del governo.

Invece di tentare un’analisi positiva, pratica, realistica, del movimento rivoluzionario, che fanno i nostri pretesi promotori? Vanno a consultare Licurgo, Platone, Orfeo e tutta la saggezza mitologica; interrogano le vecchie leggende; si aspettano dai classici antichi la soluzione di problemi assolutamente moderni, e poi per risposta ci propinano le illuminazioni vertiginose del loro cervello.

E, di nuovo, sarebbe questa la scienza della società e della rivoluzione che doveva, a prima vista, risolvere tutti i problemi, la scienza essenzialmente pratica e immediata, senza dubbio una scienza eminentemente tradizionale, ma sopra ogni cosa progressiva, e nella quale il progresso si realizza attraverso la negazione sistematica della tradizione stessa? [...]

Abbiamo appena constatato che la nozione di Stato, visto nella sua natura, si basa per intero su una ipotesi almeno equivoca, quella dell’impersonalità e dell’inerzia fisica, intellettuale e morale delle masse. Ora proveremo che questa stessa nozione di Stato, dal punto di vista del suo oggetto, riposa su un’altra ipotesi, ancora più dubbia della prima, quella della permanenza dell’antagonismo in seno all’umanità, ipotesi che a sua volta è una prosecuzione del dogma primitivo della caduta e del peccato originale. Citiamo ancora «Le Nouveau Monde»:

Che cosa succede se si consente al più intelligente o al più forte di ostacolare lo sviluppo delle facoltà di chi è meno forte o meno intelligente? Succederà che la libertà andrà distrutta.

Come impedire questo delitto? Intromettendo tra l’oppressore e l’oppresso tutto il potere del popolo.

Se Jacques opprime Pierre, i 34 milioni di uomini che compongono la società francese accorreranno tutti in una volta per proteggere Pierre, per salvaguardare la libertà? Sarebbe ridicolo pretendere una cosa del genere.

Come dovrebbe intervenire allora la società? Per mezzo di chi essa avrà scelto a questo fine come suoi rappresentanti.

Ma chi sono questi rappresentanti della società, questi servitori del popolo? Lo Stato.

Dunque lo Stato non è altro che la società stessa, che agisce come società, per impedire... cosa? l’oppressione; per mantenere... cosa? la libertà.

Adesso è chiaro. Lo Stato è una rappresentazione della società, organizzata esteriormente per proteggere il debole contro il forte; in altri termini, per mettere pace tra i contendenti e fare ordine! Come si vede, Louis Blanc non è andato lontano a cercare lo scopo dello Stato. Esso perdura in tutti gli autori che si sono occupati di diritto pubblico, fin da Grotius, Giustiniano, Cicerone, ecc. È la tradizione orfica riportata da Orazio:

Il divino Orfeo, interprete degli dèi, richiamò gli uomini dal fondo delle foreste e inculcò loro l’orrore degli assassini e della carne umana. Di lui si dice anche che rese più docili i leoni e le tigri, come dopo si racconta di Anfione, il fondatore di Tebe, che riusciva a smuovere le pietre con il suono della sua lira e con l’incantesimo della sua preghiera le portava dove voleva.

Il socialismo, lo sapevamo, per certuni non richiede grandi sforzi di immaginazione. Basta imitare piattamente i vecchi mitologi; copiare il cattolicesimo pur inveendo contro di esso; scimmiottare il potere che si brama; gridare poi con tutte le proprie forze: Libertà, Uguaglianza, Fratellanza! e il gioco è fatto. Si diventa rivelatori, riformatori, riportatori democratici e sociali; si diventa candidati designati al ministero del progresso, e perfino alla dittatura della repubblica!

Così, secondo il parere di Louis Blanc, il potere è nato dalla barbarie; la sua organizzazione attesta l’esistenza di uno stato primitivo di ferocia e violenza, effetto della totale assenza di commerci e industria. Lo Stato ha dovuto mettere fine a questa barbarie, contrapponendo alla forza di ogni individuo una forza superiore, capace, in mancanza di altri argomenti, di costringere la sua volontà. La costituzione dello Stato presuppone quindi, lo dicevamo prima, un antagonismo sociale profondo, homo homini lupus: è quanto afferma lo stesso Louis Blanc quando, dopo aver distinto gli uomini in forti e deboli, impegnati come bestie feroci a contendersi il cibo, fa intervenire tra di essi, in qualità di mediatore, lo Stato.

Dunque lo Stato sarebbe inutile, lo Stato non avrebbe né scopo né motivo di esistere, lo Stato dovrebbe abrogarsi da solo se arrivasse un momento in cui, per una causa qualunque, non ci fossero più nella società né forti né deboli, in cui cioè la disuguaglianza delle forze fisiche e intellettuali non potesse essere causa di spoliazioni e oppressione, indipendentemente dalla protezione, più fittizia che reale del resto, dello Stato.

Ora, è esattamente questa la tesi che sosteniamo noi oggi.

Ciò che ingentilisce i costumi e che a poco a poco fa regnare il diritto al posto della forza, ciò che fonda la sicurezza, che crea progressivamente la libertà e l’uguaglianza, è, più che la religione e lo Stato, il lavoro; è, in primo luogo, l’industria e il commercio; poi la scienza, che lo spiritualizza; e infine l’arte, suo fiore immortale. La religione, con le sue promesse e i suoi terrori, lo Stato, con i suoi tribunali e i suoi eserciti, hanno dato al sentimento del diritto, troppo debole nei primi uomini, l’unica sanzione possibile e comprensibile per degli spiriti selvaggi. Per noi, corrotti, come diceva Jean-Jacques, dall’industria, le scienze, le lettere, le arti, questa sanzione risiede altrove: essa è nella divisione delle proprietà, nell’ingranaggio delle industrie, nello sviluppo del lusso, nel bisogno imperioso di benessere, bisogno che rende per tutti necessario il lavoro. Dopo la rudezza delle prime ere, dopo la superbia delle caste e la costituzione delle prime società feudali, rimaneva ancora in piedi un ultimo elemento di servitù: ed era il capitale. Se il capitale perde il suo predominio, il lavoratore, cioè il commerciante, l’industriale, l’agricoltore, lo scienziato, l’artista, non ha più bisogno di protezione; bastano a proteggerlo il suo talento, la sua scienza, la sua industria. Dopo la decadenza del capitale, la conservazione dello Stato, invece di proteggere la libertà, non può che comprometterla.

L’idea della specie umana, della sua essenza, della sua perfettibilità, della sua sorte, sarebbe veramente triste se venisse concepita come un’agglomerazione di individui esposti necessariamente, a causa della disuguaglianza delle forze fisiche e intellettuali, al pericolo costante di una spoliazione reciproca o della tirannia di alcuni. Una idea del genere rispecchia la filosofia più retriva; appartiene a quei tempi di barbarie nei quali l’assenza dei veri elementi dell’ordine sociale non consentiva al genio del legislatore l’uso di strumenti diversi dal puro e semplice ricorso alla forza; nei quali la supremazia di un potere pacificatore e vendicatore appariva a tutti come la giusta conseguenza di una degradazione anteriore e di una macchia originale. Per essere più espliciti, le istituzioni politiche e giudiziarie per noi rappresentano la formula esoterica e concreta del mito della caduta, del mistero della redenzione e del sacramento della penitenza. Ed è curioso vedere dei socialisti, che si dicono nemici o rivali della Chiesa e dello Stato, recuperare poi tutto quello che oltraggiano: il sistema rappresentativo in politica, il dogma della caduta in religione.

Giacché si parla tanto di dottrina, dichiariamo francamente che la nostra è completamente diversa.

Per noi, lo stato morale della società si modifica e diventa migliore insieme al suo stato economico. Una cosa è la moralità di un popolo selvaggio, ignorante e senza industria; altra cosa quella di un popolo lavoratore e creatore; di conseguenza, nell’uno e nell’altro caso sono diverse anche le garanzie sociali. In una società trasformata, quasi a sua insaputa, dallo sviluppo dell’economia, non ci sono più né forti né deboli; ci sono soltanto lavoratori, le cui facoltà e mezzi tendono incessantemente a eguagliarsi con la solidarietà industriale e la garanzia della circolazione. Per assicurare il diritto e il dovere di ciascuno risulta vano il ricorso dell’immaginazione all’idea di autorità e di governo, che se mai è indice della disperazione profonda di anime per lungo tempo spaventate dalla polizia e dal sacerdozio; basta l’esame più semplice delle funzioni dello Stato per dimostrare che, se la disuguaglianza delle fortune, l’oppressione, le spoliazioni e la miseria non sono affatto l’eterno appannaggio della nostra natura, il primo cancro da estirpare, dopo lo sfruttamento capitalistico, la prima piaga da guarire, è proprio lo Stato.

Vediamo concretamente, bilanci alla mano, che cos’è lo Stato.

Lo Stato è l’esercito. Riformatori, avete bisogno di un esercito per difendervi? In tal caso, voi intendete la sicurezza pubblica alla maniera di Cesare e Napoleone... Non siete repubblicani, siete dei despoti.

Lo Stato è la polizia; polizia urbana, polizia rurale, polizia delle acque e foreste. Riformatori, avete bisogno della polizia? Allora voi intendete l’ordine come Fouché, Gisquet, Caussidière e Carlier. Non siete democratici, siete delatori.

Lo Stato è tutto il sistema giudiziario: giudici di pace, preture, corti d’appello, corte di cassazione, alta corte, tribunali di probiviri, tribunali di commercio, consigli di prefettura, consiglio di Stato, consigli di guerra. Riformatori, avete proprio bisogno di tutti questi apparati? Allora intendete la giustizia come Baroche, Dupin e Perrin Dandin. Non siete affatto socialisti, siete delle vecchie volpi. Lo Stato è il fisco, il bilancio. Riformatori, non volete l’abolizione delle imposte? Allora voi intendete la ricchezza pubblica come Thiers, secondo il quale i bilanci più grossi sono quelli migliori. Non siete affatto organizzatori del lavoro, siete dei gabellieri. Lo Stato è la dogana. Riformatori, avete bisogno di dazi differenziali e barriere doganali per proteggere il lavoro nazionale? Allora vi intendete di commercio e di circolazione come Fould e Rothschild. Non siete affatto apostoli della fratellanza, siete degli ebrei.

Lo Stato è il debito pubblico, la moneta, l’ammortamento, le casse di risparmio, ecc. Riformatori, è questa la vostra scienza fondamentale? Allora voi intendete l’economia sociale alla maniera di Humann, Lacave-Laplagne, Garnier-Pagès, Passy, Duclerc e dell’Uomo dei quaranta scudi. Siete come Turcaret.

Lo Stato... ma conviene fermarsi. Non c’è nulla, assolutamente nulla nello Stato, dalla testa ai piedi della gerarchia, che non sia abuso da sanare, parassitismo da sopprimere, strumento di tirannia da distruggere. Voi ci venite a dire che bisogna conservare lo Stato, moltiplicare le funzioni dello Stato, rendere sempre più forte il potere dello Stato! Via, non siete per niente rivoluzionari; perché i veri rivoluzionari sono essenzialmente semplificatori e liberali. Voi siete mistificatori, illusionisti; siete dei confusionari.

Qui spunta, a favore dello Stato, un’ultima ipotesi. Pur se lo Stato, affermano gli pseudodemocratici, fino a questo momento ha svolto solo un ruolo parassitario e tirannico, non per questo bisogna negargli una destinazione più nobile e umana. Lo Stato è destinato a diventare il principale organo della produzione, del consumo e della circolazione; il promotore della libertà e dell’uguaglianza.

Perché la libertà e l’uguaglianza sono lo Stato.

Il credito è lo Stato.

Il commercio, l’agricoltura e l’industria sono lo Stato.

I canali, le ferrovie, le miniere, le assicurazioni, come pure i ta-

bacchi e le poste, sono lo Stato.

L’istruzione pubblica è lo Stato.

In definitiva, lo Stato, messe da parte le sue funzioni negative,

dovrebbe assumerne altre, positive; da oppressore, improduttivo e retrivo, qual è stato, dovrebbe diventare organizzatore, produttore e servitore. Sarebbe, questa, la feudalità rigenerata, la gerarchia delle associazioni operaie, organizzate e scaglionate secondo una potente formula di cui Pierre Leroux si riserva di rivelarci il segreto.

Così, gli organizzatori dello Stato suppongono – giacché, in realtà, questi non fanno che andar di supposizione in supposizione – che lo Stato possa cambiar natura e, per così dire, trasformarsi da sé, tramutarsi da Satana in Arcangelo e, dopo aver vissuto per secoli di sangue e carneficine come una bestia feroce, brucare il citiso con le caprette e allattare gli agnelli. Questo ci insegnano Louis Blanc e Pierre Leroux; ed è tutto qui, noi lo dicevamo da molto tempo, il segreto del socialismo.

Noi amiamo il potere tutelare, generoso, devoto, che assume come massima queste profonde parole del Vangelo: «Il primo tra di voi sia il servitore di tutti gli altri», e odiamo invece il potere depravato, corruttore, oppressivo, che fa del popolo la sua preda. Lo ammiriamo quando rappresenta la parte generosa e vivente dell’umanità; lo aborriamo quando ne rappresenta la parte cadaverica. Ci ribelliamo contro tutta l’insolenza, l’usurpazione, il brigantaggio presenti nella nozione di STATO-PADRONE, mentre applaudiamo a quel che di commovente, fecondo e nobile c’è nella nozione di STATO-SERVITORE.

Diciamo meglio: c’è una fede alla quale noi teniamo mille volte di più della vita, e questa è la nostra fede nella prossima e definitiva TRASFORMAZIONE del potere. Sta qui il passaggio trionfale dal vecchio al nuovo mondo. Tutti i governi dell’Europa di oggi si basano sulla nozione di STATO-PADRONE; ma eccoli ormai danzare, sconvolti, il girotondo dei morti... («Le Nouveau Monde», 15 novembre 1849).

Pierre Leroux è immerso completamente in queste teorie. Ciò che vuole, insegna, invoca, è una rigenerazione dello Stato – ma non ha ancora detto come e con chi deve realizzarsi questa rigenerazione – come pure vuole e invoca una rigenerazione del cristianesimo, senza aver potuto, finora, formulare il suo dogma e dare il suo credo.

Contrariamente a Pierre Leroux e Louis Blanc, noi pensiamo che la teoria dello Stato tutelare, generoso, devoto, produttore, promotore, organizzatore, liberale e progressivo, sia una utopia, una pura illusione della loro ottica intellettualistica. Pierre Leroux e Louis Blanc assomigliano, secondo noi, a un uomo che, stando in piedi su uno specchio e vedendo la sua immagine rovesciata, è sicuro che tale immagine diventerà una realtà e sostituirà un giorno, ci sia concessa l’espressione, la sua persona naturale.

Ecco cosa ci separa da questi due uomini; e checché ne dicano, non ci siamo mai sognati di negare i loro talenti e servizi, bensì deploriamo la loro ostinata allucinazione. Noi non crediamo allo Stato-servitore: per noi esso è semplicemente una contraddizione.

Servitore e padrone, quando si riferiscono allo Stato, sono sinonimi; come più o meno sono termini identici quando si riferiscono all’uguaglianza. Il proprietario, con l’interesse del capitale, chiede più dell’uguaglianza; il comunismo, con la formula: A ciascuno secondo i suoi bisogni concede meno dell’uguaglianza: si tratta sempre di disuguaglianza; ed è questa la ragione per la quale noi non siamo né comunisti né proprietari. Similmente, chi dice Stato-padrone, dice usurpazione della potenza pubblica; chi dice Stato-servitore, dice delega della potenza pubblica; è sempre un’alienazione di questa potenza, sempre una potenza, un’autorità esterna, arbitraria, al posto dell’autorità immanente, inalienabile, non trasferibile, dei cittadini: sempre più o meno della libertà. Per questa ragione noi non vogliamo lo Stato.

 D’altronde, tanto per uscire dalla metafisica e rientrare nel dominio dell’esperienza, abbiamo qualcosa da dire a Louis Blanc e a Pierre Leroux.

Voi pretendete e affermate che lo Stato, il governo, possa e debba essere trasformato integralmente nel suo principio, nella sua essenza, nella sua azione, nei suoi rapporti con i cittadini, nelle sue realizzazioni concrete; e così, che lo Stato, bancarottiere e falsario, debba essere la fonte di ogni credito; che a esso, per tanti secoli avversario dei lumi e ancora oggi ostile all’insegnamento primario e alla libertà di stampa, proprio a esso spetti provvedere, d’ufficio, all’istruzione dei cittadini; che, dopo aver lasciato che il commercio, l’industria, l’agricoltura e tutti gli strumenti della ricchezza si sviluppassero senza il suo intervento e, spesso, anche malgrado la sua resistenza, spetti allo Stato farsi promotore assoluto del lavoro e delle innovazioni; che, infine, questo eterno avversario della libertà debba, ancora, non già lasciare in pace la libertà, bensì creare, dirigere la libertà. In questa meravigliosa trasformazione dello Stato consisterebbe, secondo voi, la rivoluzione attuale.

Voi dovete, allora, esibire le prove della vostra ipotesi, dedurre la sua legittimità, i suoi titoli storici, esporne la filosofia; e al tempo stesso metterla in pratica.

Ora, già è evidente che nella vostra ipotesi teoria e pratica, tutto insomma, è in contraddizione formale sia con l’idea stessa, sia con la storia, sia infine con le tendenze più autentiche dell’umanità.

Secondo noi, la vostra teoria è in contraddizione con se stessa, poiché pretende di fare della libertà una creazione dello Stato, mentre invece è lo Stato che deve essere una creazione della libertà. Difatti, se lo Stato si impone alla mia volontà, lo Stato è padrone; io non sono libero; la teoria cade.

Essa è in contraddizione con i fatti storici, giacché siete voi i primi a riconoscere che quanto di positivo, di bello e di buono si sia prodotto nella sfera dell’attività umana, è stato frutto esclusivo della libertà, la quale ha agito indipendentemente dallo Stato e quasi sempre in opposizione con lo Stato; il che conduce direttamente alla conclusione che manda in rovina il vostro sistema: la libertà basta a se stessa e non ha alcun bisogno dello Stato.

La vostra teoria, infine, è in contraddizione con le tendenze manifeste della civiltà poiché, anziché arricchire senza posa la libertà e la dignità individuale, facendo, secondo il precetto di Kant, di ogni anima umana un esemplare dell’umanità intera, una delle facce dell’anima collettiva, voi subordinate la persona privata alla persona pubblica, sottomettete l’individuo al gruppo, assorbite il cittadino nello Stato.

Tocca a voi superare, con un principio superiore alla libertà e allo Stato, tutte queste contraddizioni. Quanto a noi, che neghiamo semplicemente lo Stato, che seguiamo con decisione la linea della libertà e restiamo fedeli alla pratica rivoluzionaria, non è compito nostro dimostrare la falsità della vostra ipotesi; le prove le aspettiamo da voi. Lo Stato-padrone è finito, su questo siete d’accordo con noi. Quanto allo Stato-servitore, non abbiamo l’idea di cosa possa essere; ma sospettiamo che si tratti di una grandiosa ipocrisia. Anzi, a dire il vero, questo Stato-servitore ci fa pensare a una serva padrona; a noi non piace; preferiamo, fino a prova contraria, prendere come legittima sposa la libertà. Spiegateci insomma, se vi è possibile, per quale ragione, dopo che abbiamo demolito lo Stato per amore di questa adorata libertà, dovremmo adesso, per effetto dello stesso amore, ripristinare lo Stato. Fino a quando non avrete risolto questo problema, noi continueremo a protestare contro qualsiasi governo, qualsiasi autorità, qualsiasi potere; sosterremo verso e contro tutti la prerogativa della libertà. Vi diremo: per noi, la libertà è cosa acquisita; ebbene, voi conoscete la regola giuridica: melior est conditio possidentis. Presentate i vostri diritti alla riorganizzazione del governo; altrimenti, niente governo!

Riassumiamo.

Lo Stato è la costituzione esterna della potenza sociale.

Tale costituzione presuppone, per principio, che la società sia

un ente privo di spontaneità, governo, unità, e che, per agire, abbia bisogno di essere fittiziamente rappresentata da uno o più mandatari, a titolo elettivo o ereditario: ma lo sviluppo economico delle società e insieme l’organizzazione del suffragio universale dimostrano che questo presupposto è falso.

La costituzione dello Stato suppone inoltre, quanto al suo oggetto, che l’antagonismo o lo stato di guerra sia la condizione essenziale e indelebile dell’umanità, condizione che rende necessario, tra i deboli e i forti, l’intervento di una forza coercitiva che, opprimendo tutti, faccia cessare gli antagonismi. Noi sosteniamo che, così intesa, la missione dello Stato non ha più ragione di esistere; che ormai, con la divisione del lavoro, la solidarietà industriale, il gusto del benessere, l’uguale ripartizione del capitale e dell’imposta, offrono alla libertà e alla giustizia garanzie di gran lunga più sicure di quelle che offrivano loro un tempo la religione e lo Stato.

Per quel che riguarda la trasformazione utilitaria dello Stato, noi la consideriamo una utopia, contraddetta al tempo stesso e dalla storia dei governi, e dalla tendenza rivoluzionaria, e dallo spirito delle riforme economiche ormai accettate. In ogni caso, noi diciamo che solo alla libertà spetterebbe riorganizzare il potere, il che oggi vuol dire eliminare del tutto il potere. In conclusione, o niente rivoluzione sociale, o niente governo; questa è, sul problema politico, la nostra soluzione.

[Da Les confessions d’un révolutionnaire, trad. it. (estratti): in P. Ansart, P.-J. Proudhon, La Pietra, Milano 1978, pp. 71-84].



capitolo terzo

Proudhon svolge una doppia analisi critica rispetto al comunismo. Da un lato vuol dimostrare l’assoluta inconsistenza del suo progetto positivo, tutto fondato sull’irreale idea di eliminare la proprietà tout court, dall’altro vuol mettere in luce i suoi esiti dispotici perché questo ricostituirà, sotto il modo della «proprietà collettiva», una nuova e più potente forma di proprietà. In altri termini, Proudhon intende svelare la natura proprietaria dello stesso comunismo. Infatti, la proprietà è in tutti i casi ineliminabile e pertanto essa esisterà anche in una società dove è stata eliminata la proprietà privata. Anzi, in una tale società, gli effetti negativi della proprietà saranno maggiori perché il privilegio reale verrà occultato dall’ideologia collettivista; il fatto concreto, assolutamente ineliminabile, che i mezzi di produzione sono sotto il controllo di qualcuno (classe, individuo, ente) verrà mascherato dall’illusione della collettivizzazione. Credere di cancellare lo sfruttamento e la proprietà attraverso la semplice abolizione della proprietà privata diventa, appunto, solo una illusione, perché non abolisce ma semplicemente trasferisce da un soggetto all’altro, dal dominio privato a quello pubblico, la proprietà stessa. Tale progetto non può che portare a quella che è la massima espressione negativa della proprietà: l’essere connaturata al monopolio di Stato dei mezzi di produzione.

Il comunismo, infatti, abolisce solo il modo di produzione generato dal capitale, vale a dire lo sfruttamento del lavoro umano come lavoro astratto generale, come merce, ma non distrugge per nulla la causa della proprietà, perché questa si ricostituisce sotto le spoglie di un diverso controllo e sfruttamento della forza collettiva. Non esplicitando il fatto reale che la proprietà, intesa come inevitabile attribuzione a qualcuno dei mezzi di produzione, è in tutti i casi ineliminabile, esso permette che nei fatti questo qualcuno, mimetizzato dietro il mito della «proprietà collettiva», possa veramente controllare e sfruttare il lavoro monopolizzato dallo Stato. In tal caso la proprietà si ricostituisce non come proprietà giuridico-privata dei mezzi di produzione, come riconoscimento ufficiale, ma come reale possesso da parte di chi detiene e controlla in qualche modo il monopolio del lavoro.

Il comunismo può dunque realizzarsi soltanto violentando le leggi immanenti e obiettive della società, coartando la struttura antinomica del sociale, che invece richiede una equazione superiore intesa come equilibrio degli opposti, piuttosto che come loro liquidazione in una soffocante sintesi autoritaria. In altri termini, il comunismo non può che darsi a prezzo della dittatura e della sua trasformazione in regime poliziesco.



 Critica del comunismo

La prima cosa che mi ha messo in guardia contro l’utopia comunista, ma di cui i partigiani più o meno accusati di questa utopia non si danno per intesi, è che la comunanza è una delle categorie dell’economia politica, di questa pretesa scienza che il socialismo ha per missione di combattere, e che definisco la descrizione delle consuetudini proprietarie. Come la proprietà è il monopolio elevato alla sua seconda potenza, così la comunanza non è altra cosa che l’esaltazione dello Stato, la glorificazione della polizia. E come lo Stato si è volto, nella quinta epoca, a reazione o monopolio, così pure, nella fase in cui siamo pervenuti, il comunismo appare per dare scaccomatto alla proprietà.

Il comunismo riproduce, dunque, ma su un piano inverso, tutte le contraddizioni dell’economia politica. Il suo segreto consiste nel sostituire l’uomo collettivo all’individuo in ciascuna delle funzioni sociali: produzione, scambio, consumo, educazione, famiglia. E siccome questa nuova evoluzione non concilia e non risolve niente, essa termina fatalmente, al pari delle precedenti, con l’iniquità e con la miseria.

 Così il destino del socialismo è affatto negativo: l’utopia comunista, sortita dal lato economico dello Stato, è la controprova del costume egoistico e proprietario! Da questo punto di vista essa non manca, è vero, di una certa utilità: serve alla scienza sociale, come serve alla filologia l’opposizione di niente a qualche cosa.

Il socialismo è una logomachia: sono sorpreso che gli economisti non se ne siano accorti. La comunione, come la concorrenza, l’imposta, la dogana, la banca, è di competenza dell’economia politica; la comunanza è al fondo della teoria della divisione del lavoro, della forza collettiva, delle spese generali, delle società anonime e in accomandita, delle casse di risparmio e di assicurazione, delle banche di circolazione e di credito, ecc.; la comunione, in una parola, è dappertutto, come lo spazio, ed è nulla.

Tutte le utopie socialiste, dall’Atlantide di Platone sino all’Icaria di Cabet, nel loro più stretto significato si riducono a questa sostituzione di un’antinomia con un’altra. Il merito, in tutte, quanto a invenzione, è zero; l’abbellimento non è che un insignificante accessorio; e per ciò che riguarda la decadenza della facoltà utopica segnalata presso gli autori, essa viene unicamente dalle correzioni che l’esperienza loro impone e che sono altrettante apostasie da parte loro. Del resto, questi scrittori, di cui non ho riguardo di disconoscere le intenzioni, sono tutti insipidi plagiari degli economisti, proprietari travestiti che, mentre l’umanità sale penosamente la montagna in cui deve trasfigurarsi, si danno l’originalità di ridiscenderla.

Ed è per questo che diventerei comunista? Ma ciò sarebbe gettarmi nel chimerico per sfuggire l’impossibile, e per paura di Loyola, abbracciare Cagliostro. [...]

Il sole, l’aria e il mare sono comuni: il godimento di questi oggetti presenta il più alto grado di comunismo possibile! Nessuno può piantarvi confini, dividerli e delimitarli. Si è notato, non senza ragione, che l’immensità della distanza, la profondità impenetrabile, l’instabilità perpetua, avevano potuto sottrarli all’appropriazione. Tale e così grande è la forza di questo istinto che ci spinge alla divisione e alla guerra! Il risultato dunque di questa prima osservazione, cosa preziosa per la scienza, è che la proprietà è tutto ciò che si definisce, la comunanza tutto ciò che non si definisce! Quale può essere, dopo questo, il punto di partenza del comunismo?

I grandi lavori dell’umanità partecipano a questo carattere economico delle potenze della natura. L’uso delle strade, delle piazze pubbliche, delle chiese, musei, biblioteche, ecc., è comune. Le spese per la loro costruzione sono fatte in comune, benché la ripartizione di queste spese sia lungi dall’essere uguale, ciascuno contribuendovi in ragione precisamente inversa della sua fortuna. Donde si vede, cosa preziosa a notare, che uguaglianza e comunanza non sono la stessa cosa! Certi economisti pretendono pure che i lavori di utilità pubblica dovrebbero essere eseguiti dall’industria privata, più attiva, secondo loro, più diligente e meno cara; tuttavia non si è d’accordo su questo punto. Quanto all’uso degli oggetti, resta invariabilmente comune; non è mai venuta a nessuno l’idea che questa sorta di cose dovessero essere appropriate. [...]

L’uomo che abbiamo visto nel periodo della sua educazione, nel compimento dei suoi doveri civili e religiosi e nell’esercizio delle funzioni pubbliche, semi-comunista, l’uomo diventa nell’industria, nel commercio, nell’agricoltura, affatto proprietario. Produce, cambia e consuma in una maniera esclusivamente privata, e non conserva che rare relazioni con la comunanza. Per effetto di un istinto irresistibile e di un pregiudizio affascinatore che risale ai tempi più lontani della storia, ogni operaio aspira a divenire imprenditore, ogni compagno vuol diventare padrone, ogni giornaliero sogna di fare fortuna, come un tempo ogni plebeo sognava di diventare nobile. E notate una cosa che deve eccitare la vostra impazienza tanto quanto mi stupisce: non c’è alcuno che ignori lo svantaggio dello smembramento, le gravezze della vita domestica, l’imperfezione della piccola industria, i danni dell’isolamento. La personalità è più forte di tutte le considerazioni; l’egoismo preferisce i rischi della lotteria all’assoggettamento della comunanza, se la ride dei teoremi dell’economia politica.

 Insomma, la comunione ci coglie all’origine e ci si impone fatalmente di fronte alle grandi potenze della natura.

Quanto alla sua essenza, la comunione ripugna alla definizione; non è la stessa cosa che l’uguaglianza; non è vincolata in alcun modo alla materia e dipende tutta dal libero arbitrio; si distingue dall’associazione e si avvicina all’egoismo. Appena l’industria comincia a nascere e il lavoro produce i suoi primi abbozzi, la personalità entra in lotta con la comunione, che ci appare allora, sulla soglia domestica e persino nel letto coniugale, di già imperfetta e vacillante. Più tardi la troveremo incompatibile con una educazione liberale e vigorosa; infine, essa declina rapidamente nelle funzioni salariate e sparisce tutt’affatto nel lavoro libero. Tutto questo risulta dalla necessità delle cose tanto quanto dalla spontaneità della nostra natura: gli economisti lo avevano riconosciuto da lungo tempo. [...]

La fratellanza! Ecco dunque, secondo Cabet, il fondo, la forma e la sostanza dell’insegnamento comunista. È giusto riconoscerlo, Cabet, come Saint-Simon e Fourier, è caposcuola. San Paolo, rispondendo ai giudici increduli che lo interrogavano sulla sua dottrina, diceva loro con superba ironia: «Io non so che una cosa, Gesù crocifisso». Cabet parla come san Paolo e dice ai suoi neofiti: «Io non so che una cosa, la fratellanza». [...]

Ora, a questa parola fratellanza, che contiene tante cose, sostituite, con Platone, la repubblica, che non dice meno, oppure con Fourier l’attrazione, che dice ancora più; oppure con Michelet l’amore e l’istinto, che comprendono tutto; oppure con altri la solidarietà, che riunisce tutto; o infine, con Louis Blanc, la grande forza di iniziativa dello Stato, sinonimo dell’onnipotenza di Dio. E allora vedrete che tutte queste espressioni sono perfettamente equivalenti, di modo che Cabet, rispondendo dall’alto del suo «Populaire» alla domanda che gli era stata fatta, «la mia scienza è la fratellanza», ha parlato per tutto il socialismo. Noi proveremo, infatti, che tutte le utopie socialiste, senza eccezione, si riducono all’enunciato così corto, così categorico, così esplicito di Cabet: la mia scienza è la fratellanza; sicché chiunque osasse aggiungervi una sola parola di commento, cadrebbe tosto nell’apostasia e nell’eresia. Il che vuol dire che né Platone, né gli Gnostici, né i primi Padri, né i Valdesi, né Moro, né Campanella, né Babeuf, né Owen, né SaintSimon, né Fourier, né il loro continuatore Cabet, sono in grado, con l’aiuto del loro principio, di spiegare la società e ancor meno di imporle delle leggi.

Ma come mai fra tutte queste espressioni – fratellanza, amore, attrazione, ecc. – che pretendiamo essere di uguale forza Cabet ha preferito la prima? Questo merita una spiegazione.

La prima cosa a cui deve lavorare la comunione, come pure la religione, è di soffocare lo spirito di controversia con il quale nessuna istituzione è sicura e definitiva. Io consiglio dunque Cabet, allorché avrà ricevuto dalle mani del popolo le redini dello Stato, e tutti i partiti si saranno fusi sotto la sua dittatura paterna, di cambiare il sistema di educazione universitaria, questo sistema abominevole, dove i giovani apprendono a diventare dotti, inquisitivi, argomentatori senza pietà e senza misericordia.

Se interrogo i diversi riformatori sui mezzi che si propongono di usare per la realizzazione delle loro utopie, tutti mi rispondono in una sintesi unanime: per rigenerare la società e organizzare il lavoro bisogna rimettere agli uomini che possiedono la scienza di questa organizzazione la fortuna e l’autorità pubblica. Sopra questo dogma essenziale sono tutti quanti d’accordo: c’è universalità di opinioni. Gli interminabili appelli delle sette socialiste alla borsa dei loro avventori partono da questa idea. Ma perché i riformatori, divenuti padroni degli affari, usino con efficacia del potere, conviene dare a questo potere una grande forza di iniziativa: il sistema di Blanc. Ora, a quale condizione il potere acquista la sua maggior forza? Alla condizione di essere costituito democraticamente o in repubblica: sistema di Platone, di Rousseau, del «National», ecc. La riforma politica è il preliminare obbligato della riforma sociale. Ma perché la democrazia piuttosto che la monarchia costituzionale, piuttosto che un senato di aristocratici? Perché, essendo gli uomini solidali, conviene renderli politicamente e giuridicamente uguali: il sistema dei solidali-uniti istituito, credo, da Cherbuliez. Donde viene che gli uomini sono solidali? Dal fatto che vivono sotto l’impero di una legge comune che avvince l’un l’altro tutti i loro movimenti: l’attrazione, il sistema di Fourier. Che cos’è questa attrazione che conosciamo solo da ieri? È precisamente l’amore, è la carità che conosciamo da lungo tempo: il sistema di Michelet. Come avviene che gli uomini si amino e si odino, si attirino e si respingano vicendevolmente come i poli di una calamita? È che tutti gli uomini sono fratelli: il sistema di Cabet.

Tale è dunque la fratellanza, il fatto primordiale, il grande fatto naturale e cosmico, fisiologico e patologico, politico ed economico, al quale si riattacca, come l’effetto alla sua causa, la comunione. L’analogia delle parole, ecco il metodo, la teoria, la dialettica del socialismo. [...]

Come mai dunque, con questa intelligenza meravigliosa delle cause prime, seconde e finali; come mai, con questa abilità senza pari a infilare delle frasi, il socialismo non è mai riuscito ad altro che a inquietare il mondo, senza poter rendere gli uomini né migliori né più fortunati? Se l’economia politica ha potuto essere giudicata dalle sue opere, il socialismo corre oggi il grande pericolo di essere valutato in ragione della sua impotenza; è importante dunque renderci conto della sterilità dell’utopia, così come abbiamo fatto per le anomalie della pratica.

Per chiunque abbia riflettuto sul progresso della socialità umana, la fratellanza effettiva, quella fratellanza del cuore e della ragione che sola merita le cure del legislatore e l’attenzione del materialista – e di cui la fratellanza di razza è la semplice espressioni carnale – questa fratellanza, dico, non è affatto, come credono i socialisti, il principio dei perfezionamenti della società, la regola delle sue evoluzioni: essa ne è lo scopo e il frutto. La questione non è sapere come, essendo fratelli di spirito e di cuore, riusciremo a vivere senza farci la guerra e divorarci scambievolmente; non è questa la questione, ma è come, essendo fratelli per natura, diventeremo tali anche per sentimenti; come mai i nostri interessi, invece di dividerci, ci uniranno. Ecco ciò che il semplice buon senso rivela a ogni uomo che l’utopia non ha reso miope. Come già abbiamo dimostrato con il quadro delle contraddizioni economiche, avendo lo sviluppo delle istituzioni civilizzatrici per risultato inevitabile di gettare la discordia nelle passioni, di infiammare negli uomini l’appetito concupiscente e l’appetito irascibile, e di fare di questi angeli di Dio tante bestie feroci, accade che povere creature destinate al piacere, all’amore, si lacerano in furiosi combattimenti, si infliggono orribili ferite; e non è cosa facile porre fra loro le basi di un trattato di pace. Come dunque sarà distribuito il lavoro? qual è la legge dello scambio? qual è la sanzione della giustizia? dove comincia il possesso esclusivo, dove finisce? sin dove si stende la comunione, dove finisce? in quale proporzione questo elemento fa parte dell’organismo collettivo, sotto quale forma e secondo quale legge? come mai, in una parola, diventeremo fratelli? Tale è, a un tempo, la questione prima e lo scopo finale della comunione.

Così la fratellanza, la solidarietà, l’amore, l’uguaglianza, ecc., non possono risultare che da una conciliazione degli interessi, cioè da una organizzazione del lavoro e da una teoria dello scambio. La fratellanza è il fine, non il principio della comunione, come lo è di tutte le forme di associazione e di governo; e Platone, Cabet e quelli che in seguito a queste due sommità del socialismo, invece di insegnarci le leggi della produzione e dello scambio, ci chiedono potere e danaro, entrando nell’utopia con la fratellanza, la solidarietà e l’amore, tutta questa gente, dico, prende l’effetto per la causa, la conclusione per il principio; essi cominciano, come dice il proverbio, la loro casa dagli abbaini. Ancora una volta, chi impedisce ai socialisti di associarsi fra essi se la fratellanza basta? c’è bisogno per questo di un permesso del ministro, di una legge delle Camere? Un sì commovente spettacolo edificherebbe il mondo e non comprometterebbe che l’utopia: questa devozione sarebbe forse al disopra del coraggio dei comunisti?

Ecco, senza che essi fossero in grado di rendersene conto, ciò che sentivano in fondo al cuore i cittadini che osarono interrogare Cabet. Ma fu con una grande superiorità di tattica che il maestro rispose loro: Il mio principio è la fratellanza; perché senza questo rovesciamento, non vi era più comunismo. Cabet era sicuro che, dopo questo colpo decisivo, non gli si sarebbe domandato quale fosse il principio della fratellanza, poiché sarebbe stato gettarsi in un seguito infinito di questioni, e ormai conveniva farla finita. [...]

Eccoci dunque giunti ai conti correnti, alle necessità di una regola di ripartizione e di valutazione dei prodotti, cioè alla dissoluzione della comunione. Infatti, ogni conto corrente si bilancia con il dare e avere, in altri termini con il tuo e mio; ogni ripartizione è sinonimo di individualismo. [...]

Il socialismo non conta, si rifiuta di contare. Né più né meno che l’economia politica esso afferma l’incommensurabilità del valore. Senza questo, comprenderebbe che ciò che rintraccia attraverso le sue utopie è dato dalla legge dello scambio; cercherebbe la formula di questa legge; e come la teologia dopo che ha scoperto il senso dei suoi miti, come la filosofia dopo che ha costruito la sua logica, il socialismo, avendo trovato la legge del valore, conoscerebbe se stesso e cesserebbe di esistere. Il problema della ripartizione non è stato, sino a ora, attaccato frontalmente da alcun scrittore socialista: la prova è che tutti hanno concluso, come gli economisti, contro la possibilità di una regola di ripartizione. Gli uni hanno adottato per divisa: a ciascuno secondo la sua attitudine, a ogni attitudine secondo le sue opere, ma si sono ben guardati dal dire né quale fosse, secondo loro, la misura dell’attitudine né quale fosse la misura del lavoro. Gli altri hanno aggiunto al lavoro e all’attitudine un nuovo elemento di valutazione: il capitale, altrimenti detto monopolio; e hanno così provato una volta di più che non erano altro che vili plagiari della civiltà, benché tanto si facciano notare per le loro aperture all’imprevisto. Infine, si è formata una terza opinione che, per sfuggire a queste transazioni arbitrarie, sostituisce alla ripartizione la razione e prende per epigrafe: a ciascuno secondo i suoi bisogni nella misura delle risorse sociali. Con ciò il lavoro, il capitale e il talento si trovano eliminati dalla scienza; nello stesso tempo, la gerarchia industriale e la concorrenza sono soppresse; inoltre la distinzione dei lavoratori in produttivi e improduttivi, essendo tutti pubblici funzionari, si dilegua; la moneta è definitivamente proscritta, e con essa ogni segno rappresentativo del valore; il credito, la circolazione, la bilancia commerciale non sono più che parole prive di senso in questo regno della fratellanza universale! [...]

Niente di più facile da fare che un piano di comunismo. La repubblica è padrona di tutto: distribuisce i suoi uomini, dissoda, lavora, costruisce magazzini, case, laboratori; fabbrica palazzi, officine, scuole; produce tutte le cose necessarie al vestirsi, al nutrimento, all’abitazione; dà istruzione e svago del tutto gratis, a quanto si crede, e nella misura delle sue risorse. Ciascuno è operaio nazionale e lavora per conto dello Stato che non paga nessuno, ma che si prende cura di tutti quanti, come un padre di famiglia fa dei suoi figli. Tale è, più o meno, l’utopia di questo eccellente Cabet, utopia ripresa, con leggere modifiche, dai pensatori greci, egizi, siriani, indiani, latini, inglesi, francesi, americani, riprodotta con alcune varianti da Pecqueur, e verso la quale gravita, suo malgrado ma nient’affatto contro voglia, il rappresentante della nostra giovane democrazia, Louis Blanc. Semplice e perentorio com’è, non si può negare che questo meccanismo ha per lo meno il vantaggio di essere alla portata di tutti. Da cui si evince, leggendo gli autori, che essi non si aspettano opposizione che sulle ore di lavoro, la scelta dei costumi e altri dettagli di fantasia, che non intaccano, aggiungono, il sistema.

Ma questo sistema, così semplice a dire degli utopisti, diventa tutto a un tratto di una inestricabile complicazione se si riflette che l’uomo è un essere libero, refrattario alla polizia e alla comunanza, e che ogni organizzazione che violi la libertà individuale perirà per opera della libertà individuale. Così si vede, nelle utopie socialiste, l’appropriazione ritornare sempre, e, senza rispetto per la fratellanza, turbare l’ordine comunitario. [...]

Il primo e più potente espediente dell’organizzazione industriale è la separazione delle industrie, altrimenti detta divisione del lavoro. La natura, con la differenza dei climi, ha preceduto questa divisione e ne ha determinato a priori tutte le conseguenze; il genio umano ha fatto il resto. L’umanità soddisfa i propri bisogni applicando questa grande legge di divisione, dalla quale nascono la circolazione e lo scambio. Di più, è da questa divisione primordiale che i differenti popoli ricevono la loro originalità e il loro carattere. La fisionomia delle razze non è, come si potrebbe credere, un tratto indelebile conservato dalla generazione, è una impronta della natura, capace solo di sparire per effetto dell’emigrazione e del cambiamento di abitudini. La divisione del lavoro non agisce dunque semplicemente come organo di produzione, ma esercita una influenza essenziale sullo spirito e il corpo; è la forma della nostra educazione come del nostro lavoro. Per tutti questi aspetti si può dire che è creatrice dell’uomo come pure della ricchezza, che è necessaria all’individuo tanto quanto alla società, e che, a riguardo del primo come della seconda, la divisione del lavoro deve essere applicata con tutta la potenza e l’intensità di cui è suscettibile.

Ma applicare la legge di divisione è fomentare l’individualismo, provocare la dissoluzione della comunità; è impossibile sfuggire a questa conseguenza. In effetti, poiché in una comunanza ben gestita la quantità di lavoro da fornire per ogni industria è conosciuta, e il numero dei lavoratori è parimenti conosciuto, e poiché il lavoro non si esige da ciascuno se non come condizione di salario e garanzia per tutti, quale ragione avrebbe la comunanza di resistere a una legge di natura, di restringerne l’azione, di impedirne l’effetto? [...]

Si dirà che non si può accordare la libertà del lavoro perché implica l’appropriazione e, con l’appropriazione, il monopolio, l’usura, la proprietà, lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo? Replico che, se la libertà genera questi abusi, è per mancanza di una legge di scambio, di una costituzione del valore e di una teoria di ripartizione che mantenga fra i consumatori l’uguaglianza, fra le funzioni l’equilibrio. Ora, chi è che si oppone alla ripartizione? e chi è che respinge con tutte le sue forze la teoria del valore e la legge dello scambio? Il comunismo. Così il comunismo respinge la libertà del lavoro perché gli occorrerebbe una legge di ripartizione, e rigetta poi la ripartizione al fine di conservare la comunanza del

lavoro: che discorso sconclusionato! [...]

Ho provato sempre che il lavoro non può essere diviso senza che

il consumo lo sia; in altri termini, che la legge di divisione implica una legge di ripartizione, e che questa ripartizione, procedendo per dare e avere, sinonimo di tuo e di mio, distrugge la comunanza. Così l’individualismo esiste fatalmente in seno alla comunanza, nella distribuzione dei prodotti e nella divisione del lavoro: qualsiasi cosa faccia, la comunanza è condannata a perire; non ha altra scelta che di abdicare nelle mani della giustizia, risolvendo il problema del valore, oppure di istituire, sotto il manto della fratellanza, il dispotismo del numero invece del dispotismo della forza.

Tutto ciò che il socialismo ha esternato, dalla morte di Caino sino alle fucilate di Rive-de-Gier, su questo grande problema dell’organizzazione, non è altro che un grido di disperazione e di impotenza, per non dire una declamazione da ciarlatano. Nessuno, oggi più di ieri, né nel socialismo, né nella parte proprietaria, ha risolto le contraddizioni dell’economia sociale; e tutti questi apostoli dell’organizzazione e della riforma – non faccio che riferire qui quello su cui abbiamo mille volte convenuto, mio caro Villegardelle – si approfittano della credulità pubblica, scontando, a nome della scienza avvenire, il beneficio di una verità vecchia come il mondo, e di cui non sanno nemmeno articolare il nome.

Il produttore sarà libero o no dal suo lavoro? A questa domanda così semplice, il socialismo non osa rispondere: da qualunque parte si volga è perduto. La divisione del lavoro è avvinta con un legame indissolubile alla ripartizione matematica dei prodotti, la libertà del produttore all’indipendenza del consumatore. Togliete la divisione del lavoro, la proporzionalità dei valori, l’uguaglianza delle fortune, e il globo, capace di nutrire 10 miliardi di uomini ricchi e forti, basta appena a qualche milione di selvaggi; togliete la libertà, e l’uomo non è che un miserabile forzato, che trascina sino alla tomba la catena delle sue speranze deluse; togliete l’individualismo delle esistenze, e fate dell’umanità un gran polipaio. Ma affermate la divisione del lavoro, e la comunanza sparisce con l’uniformità; affermate la libertà, e i misteri della politica cadono con la religione dello Stato; affermate l’organizzazione, e la comunanza delle persone non è più che uno spaventevole incubo.

La comunanza con la divisione del lavoro, la comunanza con la libertà, la comunanza con l’organizzazione – perbacco! – è il caos con gli attributi della luce, della vita e dell’intelligenza. E domandate perché non sono comunista! Consultate, di grazia, il dizionario degli antinomi, e saprete perché non sono comunista.

Il non-io, diceva un filosofo, è l’io che si obbietta, che si oppone a se stesso e si prende per un altro; il soggetto e l’oggetto sono identici: A uguale ad A. Questo principio, che serve di base a tutto un sistema di filosofia e che nella speculazione si può ancora considerare come vero, è anche il punto di partenza della scienza economica, il primo assioma della giustizia distributiva. In questo ordine di idee A è uguale ad A, cioè il lavoro realizzato è matematicamente uguale al lavoro pensato; di conseguenza, il salario dell’operaio è uguale al suo prodotto, il consumo uguale alla produzione. Ciò è vero tanto dell’individuo che scambia con altri produttori, come del lavoro collettivo che non scambia che con se stesso, come dell’uomo sequestrato dai suoi simili e che diventa allora egli solo tutta l’umanità. Il salario nel lavoratore collettivo è uguale al prodotto; conseguentemente i prodotti di tutti i lavoratori sono uguali fra essi, e i loro salari ancora uguali: là è il principio dell’uguaglianza delle condizioni e delle fortune.

 Così l’uguaglianza, nell’uomo collettivo, non è altro che l’uguaglianza del tutto alla somma delle parti; si stabilisce in seguito, a mezzo della libertà, fra le corporazioni industriali e le classi dei cittadini; si costituisce infine, lentamente e con oscillazioni infinite, fra gli individui. Ma l’uguaglianza deve essere alla fine universale, perché ogni individuo rappresenta l’umanità, ed essendo ogni uomo uguale all’altro, il prodotto deve diventare, per tutti, uguale al prodotto.

Tale non è il punto di vista della comunanza. La comunanza ha orrore delle cifre, l’aritmetica le è mortale. Essa non ammette che la legge dell’universo, omnia in pondere et numero, et mensura, sia pure la legge della società; la comunanza, in una parola, non accetta l’uguaglianza e nega la giustizia.

Qual è, dunque, il principio a cui dà la preferenza? Secondo Cabet, la fratellanza. Bisogna che io confessi: questa scempiaggine conta fra i suoi apologeti uomini di ben minore innocenza dell’onorevole Cabet.

L’uguaglianza e la giustizia, a quel che assicurano questi profondi teorici, non sono che rapporti di proprietà e di antagonismo che devono sparire sotto la legge dell’amore e della devozione. In questo nuovo stato, dare è sinonimo di ricevere; la fortuna consiste nel prodigarsi; all’emulazione degli egoismi succede l’emulazione delle abnegazioni. Tale è l’idea superiore del socialismo, idea che è nostro dovere approfondire in quanto, grazie a questa idea superiore, perdiamo tutte le idee inferiori di giusto e ingiusto, di diritto e di dovere, di obbligazione e di danno, ecc. Di idea superiore in idea superiore finiremo per non avere più idee. [...]

Il comunismo impone dei limiti alla varietà della natura. E dice, come l’Eterno all’Oceano: tu arriverai sin qui, non andrai più lontano. L’uomo della comunanza, una volta creato, è creato per sempre... Non è proprio così che il fourierismo ha preteso immobilizzare la scienza? Ciò che Cabet fa per il costume, Fourier l’aveva fatto per il progresso: quale dei due merita di più la riconoscenza dell’umanità? Per arrivare a questi fini con maggior certezza, l’icariano regola lo spirito pubblico, prende le sue misure contro le idee nuove. In Icaria c’è un giornale comunale, uno provinciale e uno nazionale; c’è, come nella Chiesa, un catechismo, un vangelo, una liturgia. La libertà di pensiero è il diritto di fare proposte all’assemblea.

L’opinione della maggioranza è reputata opinione pubblica, nello stesso modo che nelle nostre Camere la ragione si conta, ma non si discute. Il giornale, stampato a spese dello Stato, è distribuito gratis, rende conto delle deliberazioni, fa conoscere la cifra della minoranza, analizza le sue ragioni dopo che tutto è detto. I libri di scienza e di letteratura sono fatti e pubblicati in base a una delibera; la pubblicità non è ammessa per niente altro. In effetti, appartenendo tutto alla comunanza, e non avendo nessuno alcunché di proprio, la stampa di un libro non autorizzato è impossibile. D’allora in poi, che si avrebbe a dire? Ogni idea faziosa si trova dunque arrestata sul nascere, e non avremo più dei reati di stampa: è l’ideale della politica preventiva. Così il comunismo è condotto dalla logica all’intolleranza delle idee. Ma, misericordia! L’intolleranza delle idee come l’intolleranza delle persone, è l’esclusione, è la proprietà! La comunanza è la proprietà! Non ci si capisce più niente, ma come vedrete è proprio così.

Di tutti i pregiudizi inintelligenti e retrogradi, quello che i comunisti accarezzano di più è la dittatura. Dittatura dell’industria, dittatura del commercio, dittatura del pensiero, dittatura nella vita sociale e nella vita privata, dittatura dappertutto, tale è il dogma che si libra, come la nuvola sul Sinai, sull’utopia icariana. La rivoluzione sociale Cabet non la concepisce come effetto possibile dello sviluppo delle istituzioni e del concorso delle intelligenze; questa idea è troppo metafisica per il suo gran cuore. D’accordo con Platone e tutti i rivelatori, d’accordo con Robespierre e Napoleone, d’accordo con Fourier – questo dittatore della scienza sociale, che nulla ha lasciato da scoprire – e d’accordo infine con Blanc e la democrazia di Luglio, che vuol procurare la felicità del popolo suo malgrado e dare al potere la più grande forza di iniziativa possibile, Cabet deriva la riforma dal consiglio, dalla volontà, dall’alta missione di un personaggio, eroe, messia e rappresentante degli icariani. Cabet si guarda bene dal far nascere la legge nuova dalle discussioni di un’assemblea regolarmente uscita dall’elezione popolare, mezzo troppo lento e che comprometterebbe tutto. Gli serve un uomo. Dopo aver soppresso tutte le volontà individuali, le concentra in una individualità suprema che esprime il pensiero collettivo, e come il motore immobile di Aristotele dà impulso a tutte le attività subalterne. Così, dal semplice sviluppo dell’idea si è invincibilmente condotti a concludere che l’ideale della comunanza è l’assolutismo. E invano si dirà che questo assolutismo sarà transitorio, poiché se una cosa è necessaria un solo istante, lo diventa per sempre: la transizione è eterna.

[Da Système des contradictions économiques, trad. it.: Sistema delle contraddizioni economiche, Anarchismo, Catania 1975, pp. 468-498].



capitolo quarto

Il grado di giustizia realizzato nella storia è ciò che determina e specifica il livello qualitativo del progresso umano. La giustizia è intimamente connessa alla libertà perché la sua realizzazione è opera del libero arbitrio dell’uomo, della libera volontà, in quanto è il risultato di una consapevolezza etica, di una cosciente azione rivoluzionaria. L’ideale proudhoniano della giustizia non è, come potrebbe apparire superficialmente, l’esito di una visione idealistica e utopistica della storia, ma, al contrario, il frutto di una riflessione profondamente rivoluzionaria e realistica. Proudhon, identificando il socialismo con la sua dimensione etica, vale a dire con la giustizia, non intende concepire quest’ultima, né ritiene sia possibile farlo, come una realtà esterna all’uomo, trascendente rispetto all’empiricità antropologica dell’individuo. La giustizia, cioè, non è qualcosa di idealistico, ma un attributo intrinseco dell’uomo, nel senso che essa è intima e omogenea alla sua costituzione antropologica. Solo da questa intrinseca e immanente autocoscienza dell’umano può svilupparsi una potenzialità sovversiva ben maggiore di ogni effetto causato da contingenze storiche, può farsi concreto il progetto rivoluzionario dell’uguaglianza. E questo soprattutto dopo la svolta epocale della secolarizzazione, così ben riassunta dal pensatore francese: lo scetticismo, dopo aver devastato religione e politica, si è abbattuto sulla morale, e in ciò consiste la dissoluzione moderna. Sotto l’azione essiccante del dubbio la virtù più rara è distrutta. Non c’è più nulla che tenga, la rotta è completa. È sulla base di questa convinzione che Proudhon critica e respinge ogni idea di determinismo storico, a suo giudizio falsa sul piano scientifico e reazionaria sul piano ideologico. Falsa sul piano scientifico perché tutta l’esperienza storica passata sta a testimoniare la discontinuità e l’imprevedibilità del processo storico; reazionaria sul piano ideologico perché il determinismo, anche se risultato di una prassi immanente alla collettività umana, è nondimeno, rispetto all’individuo, un puro trascendentalismo, e perciò un’altra ed ennesima alienazione.

Ma che cos’è la giustizia? È la traduzione sociale e istituzionale del rapporto di reciprocità e commutazione. La società perde qualunque senso se non ha questa coscienza. Questa logica di equilibrio sta alla base del pluralismo, volto a costituirsi come sistema «aperto» capace di far convivere più tendenze di per sé contraddittorie, a porsi come estrinsecazione della libertà nel suo infinito movimento. Con tale metodo si può giungere alla consapevolezza ideologica dell’uguaglianza sociale perché, scoprendo l’intima connessione dei fenomeni entro il contesto di una dinamica complessa di relazioni e di situazioni, si arriva a capire che questa stessa dialettica esprime la necessità di un principio di coordinazione, il quale esclude di per sé la gerarchia. Essa, indicando un rapporto di uguaglianza, annuncia in pari tempo la legge della reciprocità e dell’equivalenza che è alla base del mutualismo economico-sociale. La giustizia come equilibrio, come reciprocità, come equivalenza configura un ordine nel quale tutti i rapporti sono rapporti di uguaglianza; dove non esiste né primato, né obbedienza, né centro di gravità, né direzione, dove la sola legge è che tutto si sottometta alla giustizia, cioè all’equilibrio. Nello stesso tempo, a partire da questa valenza ideologica dell’uguaglianza, è possibile arrivare anche a quella della libertà intesa come pluralismo. Infatti, il concetto di uguaglianza non si specifica in Proudhon come mero appiattimento e uniformità, ma al contrario come esaltazione del particolare e dell’individuale. L’uguaglianza, egli afferma, non è affatto una condizione fissa, ma la media algebrica di una situazione sempre mobile.



 La giustizia come equilibrio

Per stabilire l’equilibrio si fa ricorso a diverse ipotesi. Gli uni, considerando che l’uomo non ha valore che per la società e che al di fuori della società esso ricade allo stato bruto, tendono con tutte le loro forze, in nome degli interessi particolari e sociali, ad assorbire l’individuo nella collettività. Cioè non riconoscono altri interessi legittimi che quelli del gruppo sociale, e di conseguenza non riconoscono altra dignità, altra inviolabilità, che nel gruppo, da cui gli individui traggono in seguito quelli che vengono chiamati, ma molto impropriamente, i loro diritti. In questo sistema, l’individuo non ha esistenza giuridica; non è niente di per se stesso; non può invocare diritti, non ha che doveri. La società lo produce come sua espressione, gli conferisce una peculiarità, gli assegna una funzione, gli accorda la sua parte di felicità e di gloria: egli le deve tutto, essa non gli deve nulla.

Tale è, in poche parole, il sistema comunista, preconizzato da Licurgo, Platone, dai fondatori di ordini religiosi e dalla maggior parte dei socialisti contemporanei. Questo sistema, che si potrebbe definire la decadenza della personalità in nome della società, si ri-

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 trova, leggermente modificato, nel dispotismo orientale, nell’autocrazia dei Cesari, e nell’assolutismo di diritto divino. È il fondo di tutte le religioni. La sua teoria si riduce a questa proposizione contraddittoria: asservire l’individuo al fine di rendere libera la massa. Evidentemente la difficoltà non è risolta: è aggirata. Si tratta di tirannia, di tirannia mistica e anonima; non di associazione. Così il risultato è stato quello che si poteva prevedere: avendo privato la persona umana delle sue prerogative, la società si è trovata sprovvista del suo principio vitale; non c’è un esempio di comunità che, fondata sull’entusiasmo, non sia finita nella imbecillità.

Lo spirito va da un estremo all’altro. Resi accorti dall’insuccesso del comunismo, si è ricaduti nell’ipotesi di una libertà illimitata. I partigiani di questa opinione sostengono che non c’è, in fondo, opposizione tra gli interessi; che essendo gli uomini tutti della stessa natura, avendo tutti bisogno gli uni degli altri, i loro interessi sono identici, e pertanto facilmente accordabili; che solo l’ignoranza delle leggi economiche ha causato questo antagonismo, che sparirà il giorno in cui, più illuminati sui nostri rapporti, ritorneremo alla libertà e alla natura. In breve, si conclude che se vi è disarmonia tra gli uomini, ciò deriva soprattutto dall’ingerenza dell’autorità in cose che non sono di sua competenza, dalla mania di regolamentare e legiferare; che non resta che lasciar agire la libertà, illuminata dalla scienza, e tutto rientrerà infallibilmente nell’ordine. Tale è la teoria dei moderni economisti, partigiani del libero scambio, del lasciar fare, lasciar passare, del ciascuno da sé, ciascuno per sé, ecc.

Come si vede, è sempre non risolvere la difficoltà; è negare che essa esista. Noi non sappiamo che farcene della vostra giustizia, dicono i liberali, dal momento che non ammettiamo la realtà dell’antagonismo. Giustizia e utilità sono per noi sinonimi. È sufficiente che gli interessi, sedicenti opposti, si comprendano perché essi si rispettino: la virtù, nell’uomo sociale, come nell’uomo solitario, non è che egoismo beninteso.

Questa teoria, che fa consistere l’organizzazione sociale unicamente nello sviluppo della libertà individuale, sarebbe forse vera – e si potrebbe dire che la scienza dei diritti e la scienza degli interessi sono una sola e identica scienza – se, una volta fatta la scienza degli interessi, o scienza economica, la sua applicazione non incontrasse alcuna difficoltà. Questa teoria, dicevo, sarebbe vera se gli interessi potessero essere fissati una volta per tutte e rigorosamente definiti; se, essendo stati sin dall’inizio uguali e, più tardi, nel loro sviluppo, avendo camminato di pari passo, avessero obbedito a una legge costante; se non fosse necessario, nella loro disuguaglianza crescente, attribuire una così larga parte al caso e all’arbitrio; se malgrado tanto numerose e stupefacenti anomalie, il minimo progetto di regolarizzazione non sollevasse da parte degli individui interessati proteste così vive; se si potesse prevedere sin da ora la fine della disuguaglianza, e proprio a causa dell’antagonismo; se per la loro natura essenzialmente mobile ed evolutiva, gli interessi non giungessero continuamente a ostacolarsi, a scavare tra di loro delle disuguaglianze nuove; se non tendessero malgrado tutto a interferire, a soppiantarsi; se la missione del legislatore non fosse precisamente, infine, quella di consacrare per mezzo delle sue leggi, a mano a mano che essa si sviluppa, questa scienza degli interessi, dei loro rapporti, del loro equilibrio, della loro solidarietà: scienza che sarebbe la più alta espressione del diritto se la si potesse credere definitiva, ma scienza che, venendo sempre dopo il fatto, non prevenendo mai le difficoltà, essendo costretta a imporre le sue decisioni per mezzo dell’autorità pubblica, può ben servire da strumento e da ausilio all’ordine, ma non può affatto essere presa per il principio stesso dell’ordine.

A causa di queste considerazioni, la teoria liberale, o dell’egoismo beninteso, inconfutabile se la scienza economica fosse costituita e fosse dimostrata l’identità degli interessi, si riduce a una petizione di principio. Essa suppone come realizzate delle cose che non possono mai esserlo; delle cose la cui realizzazione incessante, approssimativa, parziale, variabile, costituisce l’opera interminabile del genere umano. Così, mentre l’utopia comunista ha ancora i suoi praticanti, l’utopia dei liberali non ha potuto ricevere il minimo inizio di esecuzione.

Scartate l’ipotesi comunista e l’ipotesi individualistica, la prima in quanto distruttrice della personalità, la seconda in quanto chimerica, non resta da prenderne in esame che un’ultima sulla quale del resto la moltitudine dei popoli e la maggioranza dei legislatori sono d’accordo: quella della giustizia.

La dignità, nell’uomo, è una qualità altera, assoluta, insofferente di qualsiasi dipendenza e di qualsiasi legge che tenda alla dominazione degli altri e all’assorbimento del mondo.

Si ammette a priori che, davanti alla società di cui fanno parte, tutti gli individui, considerati semplicemente come persone morali, e fatta astrazione dalle capacità, dai servizi resi, dalle mancanze commesse, sono di ugual dignità; di conseguenza, essi devono ottenere per le loro persone la stessa considerazione, partecipare allo stesso titolo al governo della società, alla elaborazione delle leggi, all’esercizio delle cariche. [...]

Abbiamo visto che il comunismo parte dall’idea che l’uomo è un essere fondamentalmente non socievole e cattivo, homo homini lupus; che non ha nessun diritto da esercitare, nessun dovere da compiere verso i suoi simili; che la società sola fa tutto in lui, essa sola gli dà la dignità e fa di lui un essere morale. Non è altro che la decadenza umana posta come principio: cosa che ripugna alla nozione dell’essere e implica contraddizione.

Nel sistema della libertà pura, la dignità del soggetto, che si credeva di salvaguardare con una esagerazione in senso contrario, non è meno sacrificata. Qui l’uomo non ha più né virtù, né giustizia, né moralità, né socialità, poiché l’interesse solo fa tutto in lui, cosa che ripugna alla coscienza che non si lascia ridurre al puro egoismo.

L’idea giuridica sembra dunque, da quest’ultimo punto di vista, soddisfare le più nobili aspirazioni della nostra natura: essa ci proclama degni, socievoli, morali; capaci di amore, di sacrificio, di virtù; incapaci di conoscere l’odio se non attraverso l’amore, l’avarizia se non attraverso la devozione, la fellonia se non attraverso l’eroismo; e ciò perché essa si aspetta solo dalla nostra coscienza ciò che le altre concezioni impongono alla nostra sottomissione o sollecitano dal nostro interesse.

Per ciò che riguarda la società, metteremo in evidenza delle differenze analoghe.

Nel comunismo, la società, lo Stato, esterno e superiore all’individuo, gode da solo dell’iniziativa; al di fuori di lui nessuna libertà d’azione; tutto si assorbe in un’autorità anonima, autocratica, indiscutibile, la cui provvidenza benevola o vendicativa distribuisce dall’alto, sulle teste prostrate, le punizioni e le ricompense. Non è una cité, una società; è un gregge presieduto da un gerarca, al quale solo, per legge, appartengono la ragione, la libertà e la dignità dell’uomo.

Nel sistema della libertà pura, se fosse possibile ammetterne per un istante la realizzazione, ci sarebbe ancor meno società che nel comunismo. Poiché, da un lato, non si riconosce l’esistenza collettiva e, dall’altro, si pretende che per mantenere la pace non siano necessarie concessioni reciproche, e che tutto si riduca a un calcolo di interesse, l’azione politica o sociale diviene superflua: non vi è realmente società. È un’agglomerazione di individualità giustapposte, che marciano parallelamente ma senza nulla di organico, senza forza di collettività, dove la cité non ha nulla da fare, dove l’associazione, ridotta a una verifica di conti, è non dico nulla, ma quanto meno illecita.

Perché ci sia società tra creature ragionevoli bisogna che vi sia un ingranaggio delle libertà, una transazione volontaria, un impegno reciproco: cosa che non può farsi senza l’aiuto di un altro principio, il principio mutualista del diritto. La giustizia è commutativa per sua natura e forma; così la società, ben lungi dal poter essere concepita come esistente al di sopra e al di fuori degli individui, come accade nella comunità, deriva solo da essi, risulta dalla loro azione reciproca e dalla loro comune energia: essa ne è l’espressione e la sintesi. Grazie a questo organismo, gli individui, simili per la loro indigenza originale, si specializzano per i loro talenti, per le loro industriosità, per le loro funzioni; sviluppano e moltiplicano, a un grado sconosciuto, la loro azione e la loro libertà. In modo che arriviamo a questo risultato decisivo: volendo far tutto per mezzo della sola libertà, la si diminuisce; obbligandola a transigere, la si raddoppia.

Per ciò che riguarda il progresso.

La comunità, una volta costituita, lo è per sempre. Dunque niente rivoluzioni, niente trasformazioni: l’assoluto è immutabile. Il cambiamento le ripugna. Perché dovrebbe cambiare? Non consiste proprio nell’assorbire sempre più nell’autorità anonima ogni vita, ogni pensiero, ogni azione, nel chiudere gli sbocchi, nell’impedire il lavoro libero, il commercio libero e il libero esame? Il progresso qui è un nonsenso.

Con la libertà illimitata è naturale, ovviamente, che il progresso possa manifestarsi nell’industria, ma esso sarà nullo nella vita pubblica, nullo nelle istituzioni, perché secondo l’ipotesi, essendo identici il giusto e l’utile, confondendosi la morale e gli interessi, non vi è solidarietà sociale, non vi sono interessi comuni, né istituzioni.

Solo la giustizia, dunque, può essere detta progressista, poiché essa suppone un emendamento continuo della legislazione, secondo l’esperienza della vita di tutti i giorni, e pertanto un sistema sempre più fecondo di garanzie.

Del resto, ciò che costituisce il trionfo dell’idea giuridica sulle due forme ipotetiche del comunismo e dell’individualismo è che, mentre il diritto è sufficiente a se stesso, il comunismo e l’individualismo, incapaci di realizzarsi per la sola virtù del loro principio, non possono fare a meno delle prescrizioni del diritto. Entrambi sono costretti a chiamare la giustizia in loro soccorso, e si condannano così da soli per la loro incongruenza e la loro contraddizione. Il comunismo, obbligato dalla rivolta delle individualità oppresse a fare concessioni e ad allontanarsi dal rigore delle sue massime, perisce presto o tardi, innanzi tutto per il fermento della libertà che esso introduce nel suo seno, poi per l’istituzione di una magistratura arbitra delle transazioni. L’individualismo, incapace di risolvere a priori il suo famoso problema dell’accordo degli interessi e costretto a stabilire delle leggi almeno provvisorie, abdica a sua volta davanti a questa forza nuova, che esclude l’esercizio puro della libertà.

Delle tre ipotesi che abbiamo visto prodursi allo scopo di trionfare dell’opposizione degli interessi, di creare un ordine nell’umanità e di convertire la moltitudine delle individualità in associazione, non ne sussiste dunque realmente che una sola, quella della giustizia. La giustizia, per il suo principio mutualista e commutativo, assicura la libertà e ne aumenta la potenza, crea la società e le dà, con una forza irresistibile, una vita immortale. E come nello stato giuridico la libertà, elevandosi a un più alto potere, ha cambiato carattere, così lo Stato, acquistando una forza straordinaria, non è più lo stesso che nella ipotesi comunista: è la risultante, non la dominante, degli interessi.

Da ciò ne consegue, cosa che distingue radicalmente la Rivoluzione dall’Ancien Régime, che sebbene lo Stato, considerato come unità superiore e persona collettiva, possa anche avere una propria dignità, propri interessi, proprie azioni, propri diritti, non ha più, tuttavia, compito maggiore di quello di vegliare a che ciascuno rispetti la persona, la proprietà e gli interessi di ognuno, in una parola a che tutti siano fedeli al patto sociale. In ciò consiste la prerogativa essenziale dello Stato; tutte le sue attribuzioni ne derivano; cosa che significa che, lungi dal dominare gli interessi, esso non esiste che per servirli.

L’individuo, essendo tenuto a rispettare il patto se non vuol perdere l’appoggio della cité e incorrere nel suo biasimo, sembra subordinato allo Stato, ma avendo il diritto di richiamare gli altri al rispetto del patto, di richiedere la protezione della comunità, è superiore allo Stato ed è lui stesso sovrano. Nell’ordine giuridico, o democratico, l’autorità, di cui oggi si ama tanto abusare, non ha altro significato.

 Se si esaminano le cose dal punto di vista puramente speculativo, e prima di qualsiasi tentativo di applicazione, è certo che la giustizia – cioè l’ordine sociale stabilito su di un sistema di transazioni libere e di garanzie reciproche, che hanno per interprete l’arbitrato della cité per sanzione il suo potere – è certo, dico, che questa ipotesi è infinitamente più razionale, più pratica, più feconda delle due altre, le sole del resto che possano esserle opposte.

Ma il fatto di aver dimostrato la superiorità di una teoria non è tutto: bisogna assicurarsi che questa teoria basti al suo oggetto; che, davanti alle difficoltà di applicazione, alla cattiva volontà degli uomini, non sia destinata a fallire miseramente e a trasformare le speranze del legislatore in delusioni.

Qui si sollevano le questioni più scabrose.

L’uomo è libero, egoista per natura, diciamo persino legittimamente egoista, capace di sacrificarsi per amore e per amicizia, ma ribelle a ogni costrizione, come conviene a ogni essere ragionevole e degno. Se ricerca la società, è tuttavia pieno di diffidenza verso i suoi simili, che giudica meglio quanto più conosce se stesso; ed è pronto a tornare sui propri impegni, a romperli, a eluderli, appena ne suppone l’imprudenza, la sincerità o l’utilità.

Si tratta dunque di sapere se l’uomo darà il suo consenso a questo sistema di transazioni che si vanta del nome di contratto sociale e di diritti, perché è evidente che, senza consenso, non vi può essere giustizia; se egli sarà libero di non consentire perché, di fronte alla necessità di un ordine sociale e all’impraticabilità dei due sistemi, di cui l’uno gli toglie la libertà e l’altro lo abbandona all’antagonismo, sembra impossibile che lo possa rifiutare, almeno in maniera formale; se, quindi, la sua accettazione non sarà accompagnata da riserve segrete, da reticenze che annullerebbero, virtualmente, il patto; se, scarsamente soddisfatto della legge, lo sarà maggiormente dei suoi interpreti; se, di conseguenza, questo stato giuridico, da cui si attendevano effetti così meravigliosi, non si risolverà in un sistema di ipocrisia, dal quale ogni uomo astuto prenderà quello che stimerà a lui conveniente e lascerà il resto.

Chi formulerà la legge? chi dirà il diritto e il dovere? in nome di chi e di che cosa si presenterà questa giustizia, sempre cieca, sempre tardiva, mai interamente riparatrice? chi garantirà la saggezza dei suoi precetti? Supponiamo una legge giusta: chi garantirà a ciascuno la fedeltà del vicino, la probità del giudice, il disinteresse del ministro, la prudenza e l’onestà del funzionario? In questo sistema specioso, dove si pensa che tutto derivi dall’iniziativa dell’uomo e del cittadino, dove la legge è reputata l’espressione della sua volontà, quanta violenza e arbitrio! Quante truffe!

E se ora, dopo aver visto brillare per un istante questa idea sublime del diritto, si dovesse ammettere, con la teologia, che la giustizia integrale non è di questo mondo, che non si può possederne pienamente la nozione ma soltanto coglierne l’ombra, come proporre allora alla ragione diffidente dei mortali una legislazione approssimativa? come incatenare le coscienze? chi si arrogherà il diritto di accusare coloro che la infrangono? come punire delle persone che, per non restarne vittime, si saranno decise a transigere con la legge? che cosa diverrebbero allora il vizio e la virtù? che cosa la morale?... Non sarebbe meglio, per i poveri umani, la guerra aperta, accanita, senza tregua, piuttosto che una pace vergognosa, piena di miseria, di perfidia, di tradimenti, di assassini, sotto questo preteso regime del diritto? Eh! Bisognava sfuggire alla tirannide e all’anarchia attraverso la giustizia, ed ecco che, con il pretesto della giustizia, abbiamo l’assolutismo dello Stato, l’antagonismo degli interessi, e per sovrappiù il tradimento!

Da quando l’uomo si è unito all’uomo per la comune difesa e la ricerca della sussistenza, questo problema formidabile è stato posto, e la soluzione non sembra più vicina del primo giorno. Le rivoluzioni si succedono; le religioni, i governi, le leggi cambiano, e la giustizia è sempre altrettanto equivoca, sempre altrettanto impotente. Che dico? È questo venir meno della giustizia che fa l’infelicità generale. Come al tempo della prima iniziazione, gli spiriti sognano il diritto, l’uguaglianza, la libertà e la pace. Ma non è mai altro che un sogno: la fede si è spenta e la virtù non si è mostrata; la massima del proprio interesse, appena addolcita dal timore degli dèi e dal terrore dei supplizi, governa da sola il mondo; e se i costumi dell’umanità si sono distinti fino a ora da quelli delle bestie, è per questa commedia giuridica di cui esse non sono capaci a causa della loro bestialità. [...]

Una situazione simile è contraria tanto alla ragione delle cose quanto a quella dell’uomo, ed è soprattutto perché contrasta con la ragione delle cose che noi non potremo rassegnarvici. È una legge di natura che l’essere intelligente e libero faccia da sé i suoi costumi; che li raggruppi secondo una legge di ragione e di libertà; che, infine, in qualsiasi situazione si trovi, solo o in società, arrivi alla felicità attraverso la sua moralità.

Ecco ciò che dice la ragione e che esige la natura; ciò che attesta, in una certa misura, l’esempio degli animali; ciò che cerca l’uomo, sotto la doppia e irresistibile spinta della sua sensibilità e della sua coscienza. Restare in questo stato di semi-giustizia è impossibile: bisogna andare avanti, tanto più che non potremmo cambiare sistema. Noi siamo legati alla giustizia dagli sforzi stessi che abbiamo fatto per realizzarla. Qualche riflessione finirà per convincerci.

Dico innanzi tutto che, meno che mai, possiamo riprendere il giogo comunista.

La subordinazione dell’individuo al gruppo, che costituisce il fondamento di questo sistema, si osserva in tutti gli animali associati; essa appare come una conseguenza del principio fisiologico che, in qualunque organismo, subordina ogni facoltà alla finalità generale. Così, nelle api, la comunità risulta dall’organizzazione degli individui o, per meglio dire, è questa organizzazione che è determinata dalle esigenze della vita comune. Poiché la pluralità delle femmine implica la pluralità delle famiglie, e ciò provoca la dissoluzione della comunità, non vi è, per tutta la comunità, che una sola femmina, la regina, rappresentante dell’unità sociale e la cui fecondità è sufficiente a mantenere la popolazione. Questa regina è servita da sette o otto re, che sono uccisi subito dopo che la deposizione delle uova li ha resi inutili. Le operaie non hanno sesso, cioè nulla che le porti verso lo scisma e la divisione. Tutto il loro amore, tutta la loro anima, tutta la loro felicità è nell’arnia, nel benessere della comunità, al di fuori della quale esse periscono come creature senza ragione di esistenza, come membri dai quali lo stesso centro della vita si è ritirato.

Ecco la comunità, come è richiesta dalla logica e come è realizzata dalla natura.

Orbene, facendo gli uomini simili, e se non completamente uguali almeno pressappoco equivalenti; dando loro un sentimento esaltato della propria dignità; ponendo nella formazione delle coppie la distinzione delle famiglie, la natura non sembra aver voluto per l’uomo una subordinazione altrettanto micidiale. Essa lascia all’uomo la sua personalità. Essa vuole che, pur associandosi, resti libero. Quale sarà dunque la forma della società umana, se non è comunista? Per mezzo di quale virtù, di quale legge, l’uomo, moltiplicando la sua potenza per mezzo dell’associazione, potrà conservare cionondimeno la sua azione personale e il suo libero arbitrio? Ecco ciò che da secoli il genere umano cerca con ardore; è per questo che ha rovesciato uno dopo l’altro tanti governi diversi, la cui tendenza assolutista e la cui tirannia lo riportavano al comunismo animale; è per questo che oggi, affermando più che mai la sua sociabilità, le mette sempre come prima condizione la libertà.

Ma se la comunità ci è organicamente ripugnante, la libertà, a sua volta, anche se stimolata dall’interesse, non è sufficiente tuttavia alla costituzione dell’ordine. La nozione dell’utile, che gioca un ruolo così importante nella società, è incapace di produrla; ci vuole anche qualcos’altro; ci vuole quello che tutti intendono perfettamente con le parole di diritto e di dovere.

Un paragone vi farà capire.

Se il fisiologo deduce dalla considerazione della vita e delle sue leggi delle regole di condotta per la sussistenza, il vestire, l’abitazione, il lavoro, il rapporto tra i sessi, l’educazione dei bambini,

 ecc., avrà fatto un codice di igiene; nessuno dirà che ha fatto un trattato dei doveri e gettato i fondamenti di un ordine sociale.

Le leggi dell’igiene possono fornire il motivo e l’occasione di un diritto da citare, di un dovere da adempiere; di per se stesse, non obbligano nessuno, e invano si pretenderebbe di risolvere in questo modo il problema dell’associazione. L’insalubrità di un mestiere è una cosa, l’interesse dell’imprenditore è un’altra. Se questo trova vantaggio nel sacrificare centinaia di operai per fare più rapidamente fortuna; se questi ultimi, allettati dal salario, trovano utile, in cambio di un godimento presente, sacrificare la loro salute ventura, non è con dei consigli di igiene che si potrà fermarli. Ma, si dice, lo Stato ha interesse a che la vita dei cittadini sia rispettata, e questo interesse prevale su tutti gli altri. A questo io rispondo che se l’interesse dello Stato supera l’interesse, bene o male inteso, dell’imprenditore e degli operai, ciò non fa assolutamente sì che questi interessi siano gli stessi, come dovrebbe invece essere in un sistema dove l’utile è considerato come l’espressione del giusto, la libertà la stessa cosa della giustizia. Inoltre, non è possibile invocare l’utilità generale quando si ragiona nel sistema di una libertà assoluta. Solo il comunismo, e la giustizia, possono parlare di interessi generali.

Orbene, ciò che abbiamo appena detto in particolare dell’igiene si applica, in maniera generale, all’economia.

Che l’utilitarista, sull’esempio di Bentham, cerchi anche nei rapporti naturali che il lavoro, la proprietà, lo scambio e il credito stabiliscano tra gli uomini delle regole e delle garanzie per la condotta delle operazioni, la previsione dei rischi, la sicurezza e il benessere dell’esistenza; che egli giunga fino a dimostrare che, in parecchi casi, il singolo che comprende il suo vero interesse trovi vantaggio a sacrificare qualcosa del suo piuttosto che competere con i suoi simili e con la società: questo filosofo di nuova specie potrà forse essere un grande economista, ma non avrà nulla in comune con colui che insegna la giustizia, il diritto.

L’economia politica e domestica, scienza eminente che non cede in dignità che alla scienza stessa del diritto, può fornire, come l’igiene pubblica e privata, ampia materia alle prescrizioni del legislatore e alle affermazioni della morale. Tuttavia essa non è la giustizia: non è solamente il senso comune che lo dichiara ma è, come ho detto, la natura stessa delle cose.

In tutti questi casi, la legge igienica o economica è proposta al soggetto, ma sotto forma di consiglio, senza ingiunzione della coscienza, con la probabilità di un beneficio se si impegna a sottomettervisi, o di una disgrazia se si rifiuta. La giustizia, al contrario, in virtù della reciprocità che la fonda e del giuramento che ci lega, si impone, imperativa, sovente onerosa, senza preoccupazioni di interesse, tenendo conto unicamente del diritto e del dovere, per quanto poco utile le circostanze possano aver fatto il primo, per quanto disastroso esse abbiano reso il secondo.

Dunque, niente comunità: abbiamo troppe abitudini di indipendenza, di personalità, di responsabilità, di senso della famiglia, di critica, di rivolta.

Dunque, niente libertà illimitata: abbiamo troppi interessi solidali, troppe cose comuni, troppo bisogno gli uni contro gli altri del ricorso allo Stato.

La giustizia sola, sempre più esplicita, saggia, severa: ecco ciò che richiede la situazione, ciò che richiedono tutte le voci dell’umanità.

Bisognerebbe concludere che la società umana, nel suo dato rigoroso, è una creazione impossibile; che la nostra specie ambigua non è né solitaria né socievole; che essa non può sussistere per mezzo del diritto più di quanto lo possa attraverso la comunanza o l’egoismo, e che tutta la morale dell’uomo consiste nel salvaguardare il suo interesse privato contro le incursioni dei suoi simili, pagando un tributo a una finzione che, sebbene non soddisfi interamente le sue attese, diminuisce almeno i suoi rischi, dicendo al brigantaggio: arriverai fino a questo punto, non andrai oltre?

La cosa merita di essere esaminata. Se si trovasse infatti, come alcuni pretendono, che la nostra giustizia, con le sue formule, non è che una maschera del nostro antagonismo, sarebbe il caso, bisogna confessarlo, di ridurre singolarmente la nostra gloria, e la scienza dovrebbe dire che siamo degli animali ben strani. Andiamo oltre: l’uomo non osando confessare la sua legge di natura, che è l’egoismo; non potendo seguire la sua ragione sociale, che esige il sacrificio; sballottato tra la pace e la guerra, speculando tanto sull’ipotesi del diritto che sulla realtà del brigantaggio, l’uomo, dico non avrebbe dei veri costumi: sarebbe una creatura, per essenza e destino, immorale.

Non è questo ciò che voleva dire l’antico saggio, che comparava le leggi a tele di ragno? Le mosche vi si impigliano, diceva, i calabroni l’attraversano. Mentre la giustizia resta obbligatoria per la moltitudine, tanto più obbligatoria quanto più essa è miserabile, si vede l’arrivista, a mano a mano che cresce in forza e in ricchezza, gettare la maschera, liberarsi del pregiudizio, sprofondare nel suo orgoglio come se, mettendo in mostra il suo egoismo, rientrasse nella sua dignità. Talento, potere, fortuna furono, in tutti i tempi, nell’opinione popolare, un motivo di dispensa dai doveri imposti alla massa. Il più debole autore, il più oscuro bohémien, se si crede geniale, si mette al di sopra della legge: che ne è dei principi della letteratura e dei principi dell’arte? dei principi della Chiesa e dei principi dello Stato? Come la religione, la morale è riservata alla plebe: guai se la plebe, a sua volta, giudicasse il gran signore e il borghese... E chi potrebbe ancora essere ingannato? in settant’anni non abbiamo forse cambiato venti volte le massime? non siamo, prima di ogni cosa, adoratori del successo? e pur raddoppiando l’ipocrisia, non ci picchiamo di pensare e di dire, a chi vuol intendere, che il crimine e la virtù sono parole, il rimorso una debolezza, la giustizia uno spauracchio, la morale una bubbola?

Giustizia, morale! Si può dire di esse quello che gli inglesi dicono oggi del protezionismo, che è un brevetto scaduto, una ricetta divenuta inutile. Ahimè, tutti posseggono questo fatale segreto e si comportano di conseguenza. Non vi è giustizia, dicono, lo stato naturale dell’uomo è l’iniquità, ma l’iniquità limitata, circoscritta, come la guerra che ne è l’immagine, da armistizi, tregue, scambi di prigionieri, paci provvisorie, basate sull’astuzia e la necessità e rotte dal risentimento e la vendetta.

Un pubblicista, de Girardin, con la sua precisione abituale, ha messo in evidenza questa situazione: «Nego la morale», scriveva in un opuscolo pubblicato qualche tempo dopo il colpo di Stato, «nego la giustizia, il diritto, il pudore, la buona fede, la virtù. Tutto è crimine, naturalmente crimine, necessariamente crimine; e io propongo contro il crimine – indovinate che cosa, monsignore: una religione? Oh no, de Girardin è del suo secolo, molto poco mistico e per nulla teologico – un sistema di assicurazioni». [...]

Applicando questi principi all’uomo che vive in società, io concludo che la condizione sociale non può essere per l’individuo una diminuzione della sua dignità, essa non può esserne che un aumento. Bisogna dunque che la giustizia, nome con il quale designiamo soprattutto quella parte della morale che caratterizza il soggetto in società, per divenire efficace sia più di una idea; bisogna che essa sia contemporaneamente una realtà. Bisogna, diciamo, che essa agisca non solamente come nozione della conoscenza, rapporto economico, formula d’ordine, ma anche come forza dell’anima, forma della volontà, energia interiore, istinto sociale, analogo nell’uomo a quell’istinto comunista che abbiamo notato nell’ape. È ragionevole infatti pensare che, se la giustizia è rimasta fino a oggi impotente, ciò si deve al fatto che come facoltà, forza motrice, l’abbiamo interamente misconosciuta; che la sua cultura è stata negletta; che non ha marciato nel suo sviluppo con il medesimo passo dell’intelligenza; infine che noi l’abbiamo considerata come una fantasia della nostra immaginazione o l’impressione misteriosa di una volontà estranea. Bisogna dunque, ancora una volta, che questa giustizia la si senta in noi, nella coscienza, come una voluttà, un amore, una gioia, una collera; che noi si sia sicuri della sua eccellenza sia dal punto di vista della nostra felicità personale che da quello della conservazione sociale; che con questo zelo sacro della giustizia e con le sue manchevolezze si spieghino tutti i fatti della nostra vita collettiva, le sue statuizioni, le sue utopie, le sue perturbazioni, le sue corruzioni; e che ci appaia infine come il principio, il mezzo e il fine, la spiegazione e la sanzione del nostro destino.

In due parole una forza di giustizia, e non semplicemente una nozione di giustizia, forza che, aumentando per l’individuo la dignità, la sicurezza e la felicità, assicuri nel contempo l’ordine sociale contro le incursioni dell’egoismo: ecco ciò che cerca la filosofia, e al di fuori del quale non può esistere società.

Questa forza di giustizia esiste? ha una sede in qualche luogo, nell’uomo o al di fuori dell’uomo? Qui si dividono nuovamente le opinioni.

Da quanto precede risulta già un punto essenziale, che possiamo considerare come acquisito. E cioè che per regolare i rapporti degli individui fra di loro, farli vivere insieme l’uno grazie all’altro e creare così la società, è necessario un principio, una forza, una entità, qualcosa come ciò che chiamiamo giustizia, che abbia la sua realtà, la sua sede in qualche luogo, dal quale determini le volontà e imponga loro le sue regole.

Qual è questo potere? dove coglierlo? come definirlo? In ciò sta ora la questione.

Si è preteso che la giustizia non sia altro che un rapporto di equilibrio, concepito dall’intelletto ma liberamente accettato dalla volontà, come ogni altra speculazione dello spirito, in ragione dell’utilità che esso vi trova; in modo che la giustizia, ricondotta alla sua formula, ridotta a una misura di precauzione e di assicurazione, a un atto di benevolenza, anzi di simpatia, ma sempre in vista dell’amore di se stesso, non sia, al di fuori di ciò, che una immaginazione, un nulla.

Ma senza contare che questa opinione è smentita dal sentimento universale che riconosce e afferma nella giustizia ben altro che un calcolo di probabilità e una misura di garanzia, si può osservare, anzitutto, che in questo sistema, che non è altro che quello del dubbio morale, la società è impossibile: noi lo proviamo oggi come lo provarono i Greci e i Romani; inoltre, in assenza di una forza di giustizia, preponderante nelle anime, poiché la violenza e la frode ridiventerebbero la sola legge, la libertà, malgrado tutte le polizie e le garanzie, sarebbe distrutta e l’umanità diverrebbe una finzione. E ciò fa cadere la critica.

Ritorno dunque al mio proposito e dico che qualunque sia la giustizia, e con qualunque nome la si chiami, la necessità di un principio che agisca sulla volontà come una forza, e la determini nel senso del diritto o della reciprocità degli interessi, indipendentemente da ogni considerazione di egoismo, questa necessità, dico, è incontestabile. La società non può dipendere dai calcoli e dalle convenienze dell’egoismo; gli atti dell’umanità tutta intera nelle sue ascese e nelle sue degradazioni lo testimoniano. Di questo principio, questa forza, bisogna constatarne l’esistenza, analizzarne la natura, darne la formula. Constatare la realtà della giustizia e definirla, indicarne le applicazioni generali: in questo consiste oggi l’etica; e la filosofia morale, fino a una maggiore manifestazione della coscienza, non può andare oltre.

Orbene vi sono due modi di concepire la realtà della giustizia: come una pressione esercitata dall’esterno sull’io, o come una facoltà dell’io che, senza uscire dalla sua coscienza, sentirebbe la sua dignità nella persona del prossimo con la stessa vivacità con cui la sente nella propria persona; e si troverebbe così, pur conservando la sua individualità, identico e adeguato allo stesso essere collettivo.

Nel primo caso, la giustizia è esterna e superiore all’individuo, sia che risieda nella collettività sociale, considerata come un essere sui generis la cui dignità prevale su quella di tutti i membri che la compongono, concezione che rientra nella teoria comunista già esaminata, sia che si metta la giustizia ancora più in alto, nell’essere trascendente assoluto che anima e ispira la società e che viene chiamato Dio.

Nel secondo caso la giustizia è nell’intimo dell’individuo, omogenea con la sua dignità, uguale a quella stessa dignità moltiplicata per la somma dei rapporti che la vita sociale comporta. Diamo una idea dei due sistemi.

Sistema della Rivelazione. Il primo e il più antico di questi sistemi, quello che raccoglie ancora la massa delle popolazioni del globo, benché perda di giorno in giorno terreno presso le nazioni più civili, è il sistema della trascendenza, volgarmente detto della Rivelazione. Tutte le religioni e quasi-religioni hanno per scopo di inculcarlo: il cristianesimo ne è, dopo Costantino, l’organo principale. Ai teologi o ai teorici della teodicea bisogna aggiungere la moltitudine dei riformatori che, pur separandosi dalla Chiesa e dallo stesso ateismo, rimangono fedeli al principio di subordinazione esterna, mettendo al posto di Dio la società, l’umanità, o qualsiasi altra sovranità, più o meno visibile e rispettabile.

Secondo la dottrina generalmente seguita, di cui le teorie dissidenti non sono del resto che delle mutilazioni, il principio morale, formatore della coscienza, potenza plastica che le conferisce virtù e dignità, è di origine superiore all’uomo, sul quale agisce con una influenza che viene dall’alto, gratuita e misteriosa.

La giustizia, secondo questa genesi, è dunque sovrannaturale e sovrumana; essa ha per vero soggetto Dio, che la comunica e l’insuffla nell’anima, fatta a sua immagine, cioè fatta della sua stessa sostanza, capace per conseguenza di ricevere i modi del suo divino autore. In che maniera, secondo i trascendentalisti, abbia luogo questa comunicazione, è una questione sulla quale essi si dividono, come succede per tutte le cose che oltrepassano l’esperienza. A seconda che lo scrittore si rifaccia più o meno strettamente all’idea mistica presa come punto di partenza, o che si lasci invece andare alle suggestioni dell’empirismo, la sua dottrina può variare dal cattolicesimo al panteismo, dal catechismo del concilio di Trento all’etica di Spinoza.

Ma siccome, in una materia simile, un sistema deve essere studiato nell’integrità del suo sviluppo storico e non in frammentazioni arbitrarie; e siccome avremo l’occasione di convincerci che le restrizioni proposte dai moderati del trascendentalismo sono delle incongruenze palesi, effetto del pudore filosofico, esaminerò soprattutto il sistema cattolico, il più completo di tutti e il più logico.

Secondo la teologia ortodossa basta dunque sapere:

Che l’anima umana, vuota e buia, senza altra moralità che quella dell’egoismo, è incapace di elevarsi da sola alla legge che regge la società e di conformare a essa i suoi atti; che essa possiede soltanto una certa attitudine a ricevere la luce la cui trasfusione è operata in lei dal Rivelatore divino, in altri termini dal Verbo;

Che questo stato di oscurità invincibile, che pur tuttavia, si assicura, avrebbe potuto non essere, è l’effetto di una corruzione diabolica, nella quale l’anima è incorsa nei primi giorni della creazione, corruzione che l’ha fatta ricadere al rango dei bruti, e dalla quale essa non può essere radicalmente guarita su questa terra;

Che la rivelazione della legge ha avuto luogo una prima volta in Adamo, poi successivamente in Noè, Abramo, Mosè, i profeti e Gesù Cristo, il quale, con la sua Chiesa, ne ha organizzato per sempre la propagazione fra gli uomini;

Che così la giustizia, cosa essenzialmente divina, ultrafisica, ultrarazionale, al di sopra di ogni osservazione e conclusione dello spirito, cosa espressa dalla parola trascendenza che caratterizza il sistema, non può, nella sua determinazione, avere niente di comune con le altre branche del sapere, fondate tutte in ugual misura sull’intelligenza e sull’esperienza; quanto alla pratica, che l’uomo è del tutto incapace, per natura, di qualsiasi obbedienza, virtù o sacrificio, che per natura ne rifugge non potendo trovare, in se stesso e su questa terra, alcun compenso;

Che tutto ciò che l’uomo deve fare di conseguenza è di seguire l’impulso della grazia, che d’altra parte non gli manca mai, e di obbedire alla legge, tale quale gli è proposta da Dio per mezzo della Chiesa, nel qual caso sarà salvato; altrimenti, e nel caso in cui resistesse all’ordine divino e si mostrasse refrattario, sarà punito;

 Che non si può seriamente filosofare sui decreti del cielo come sui fenomeni della natura, né penetrare i motivi di chi sta in alto, e ancor meno pretendere di aggiungervi o togliervi qualcosa, poiché ciò equivarrebbe ad aspirare a rifare l’opera di Dio e a veder più lontano della sua provvidenza, il che non si può ammettere senza empietà.

In conclusione, secondo questa teologia, il principio della giustizia è in Dio, che ne è nello stesso tempo il soggetto e il rivelatore, la forza di realizzazione ancora in Dio, la sanzione sempre in Dio. Di modo che, senza la manifestazione divina, l’umanità dopo la sua caduta non sarebbe ancora uscita dalla condizione delle bestie, e che il primo frutto della religione è questa stessa ragione filosofica che la misconosce e l’oltraggia. [...]

Stabiliti questi principi, la teologia spiega così il movimento della storia. Tale movimento, che gli uni concepiscono come un progresso, mentre gli altri non vi vedono che un’agitazione irrazionale e sterile, non è altro, assicurano gli ispirati, che l’effetto della lotta che si stabilisce fin dal principio fra la natura egoista e recalcitrante dell’uomo e l’azione stimolante e sempre più vittoriosa della legge, espressione rivelata della società. Questo è il fondo della filosofia di Bossuet, nel suo Discorso sulla storia universale. Per questo la Chiesa ha preso il nome di militante: il suo nemico è l’angelo delle tenebre, personificazione del male, principale autore della nostra caduta, che, malgrado tutti gli esorcismi, malgrado il sangue di un Dio versato per i peccati del mondo, continua a possedere la maggioranza delle anime.

Ma supporre che analogamente al progresso che si manifesta nelle scienze e nell’industria, e che è l’effetto dell’accumulazione della nostra scienza, ce ne possa essere uno simile nella giustizia, indipendentemente dall’azione efficace della grazia, questa è una proposizione contro la quale la teologia protesta con tutte le sue forze, dichiarandola distruttrice della religione e, per conseguenza, di ogni morale, di ogni società. E, bisogna dirlo, non soltanto l’immoralità contemporanea sembra dar ragione alla teologia, ma su questo punto anche la filosofia deista pensa in fondo come la Chiesa. Essa crede e insegna che la società è, come il corpo umano, soggetta a corruzione e decadenza; che di tanto in tanto ha bisogno di rigenerare i suoi costumi; e che questa rigenerazione morale non può compiersi che grazie a una condizione, il rinnovamento del dogma. Che cos’è il dogma? La parola interiore, divina e provvidenziale, che sgorga nelle epoche fatidiche per la rigenerazione delle società. È per questo che noi vediamo oggi delle intelligenze elevate, delle anime generose, convinte che la corruzione è al suo massimo, che il cristianesimo è esaurito, come una volta il paganesimo, e che il tempo è vicino, rivolgere la loro richiesta alla divinità, implorare con lacrime e compunzione una manifestazione del dogma. L’autore di France mistique ha contato più di trenta di questi concorrenti della Chiesa, il cui motto in un secolo decisamente razionalista, ma tuttavia agitato sempre dalla fede, sembra essere questo: ci vuole la rivelazione, ma non troppa!

Tanto è penetrato nella coscienza degli uomini il sistema della trascendenza, nato dai concetti fondamentali e dalle prime ipotesi della ragione, formulato in leggende poetiche e meravigliosi racconti, sostenuto dalla debolezza d’animo dei filosofi! Si sa con quale salto mortale l’incomparabile Kant, dopo aver confutato con la sua Critica della Ragion pura tutte le pretese dimostrazioni dell’esistenza di Dio, l’abbia ritrovata nella Ragion pratica. Cartesio, prima di lui, era arrivato allo stesso risultato; ed è stupefacente vedere gli ultimi discepoli di questo acrobatico metafisico rigettare l’autorità della Chiesa, la rivelazione di Gesù, quelle di Mosè, dei patriarchi, di Zoroastro, dei Bramani, dei Druidi, insomma tutto il sistema delle religioni, per poi affermare, come fatto di psicologia positiva, la rivelazione immediata di Dio nelle anime.

Secondo questi signori, Dio si manifesta direttamente a noi attraverso la coscienza; ciò che si chiama senso morale è l’impressione stessa della divinità. Per il solo fatto che riconosco l’obbligo

 di ubbidire alla giustizia, io sono, a sentir loro, credente malgrado me stesso, adoratore dell’Essere Supremo, e partigiano della religione naturale. Il dovere! Basta che io pronunci questa parola per attestare, contro il mio stesso desiderio, che io sono doppio: Io, anzitutto, che sono legato dal dovere; e l’Altro, cioè Dio, che ha formato questo legame, che si è stabilito nella mia anima, che mi possiede tutto intero, che anche quando mi immagino, nel seguire la legge morale, di compiere un atto autonomo, mi guida, senza che io me ne accorga, con la sua imperiosa suggestione. [...]

Sistema della Rivoluzione. L’altro sistema, radicalmente opposto al primo, e di cui la rivoluzione si è proposta di assicurare il trionfo, è quello dell’immanenza, o dell’inneità della giustizia nella coscienza.

Secondo questa teoria, l’uomo, benché partito da uno stato completamente selvaggio, produce incessantemente, con lo sviluppo spontaneo della sua natura, la società. È solo per astrazione che egli può essere considerato allo stato di isolamento e senza altra legge che l’egoismo. La sua coscienza non è doppia, come insegnano i trascendentalisti; essa non discende affatto, da una parte, dall’animalità e, dall’altra, da Dio: essa è soltanto polarizzata. Parte integrante di una esistenza collettiva, l’uomo sente la sua dignità nel contempo in se stesso e negli altri, e porta così nel suo cuore il principio di una moralità superiore alla sua individualità. E questo principio non lo riceve dal di fuori; gli è congenito, immanente. Esso costituisce la sua essenza, l’essenza della società stessa. Ha la forma propria dell’animo umano, forma che si precisa e si perfeziona sempre più grazie alle relazioni che la vita sociale fa nascere ogni giorno.

La giustizia, in una parola, è in noi come l’amore, come le nozioni del bello, dell’utile, del vero, come tutte le nostre forze e le nostre facoltà. Perciò io nego che, mentre nessuno pensa a riferire a Dio l’amore, l’ambizione, lo spirito speculativo o imprenditoriale, si debba fare una eccezione per la giustizia.

 La giustizia è umana, del tutto umana, niente altro che umana: sarebbe farle torto riferirla, poco o tanto, direttamente o indirettamente, a un principio superiore o anteriore all’umanità. La filosofia si occupi finché vuole della natura di Dio e dei suoi attributi, può essere il suo diritto e il suo dovere. Io pretendo che questa nozione di Dio è inutile nelle nostre costituzioni giuridiche, come lo sarebbe nei nostri trattati di economia politica o di algebra. La teoria della Ragion pratica sussiste di per se stessa; non presuppone né richiede l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima, e sarebbe una menzogna se avesse bisogno di simili sostegni.

Ecco in che senso preciso, purgato da qualsiasi reminiscenza teologica o sovrannaturale, io mi servo della parola immanenza. La giustizia ha la sua sede nell’umanità, essa è progressiva e indefettibile nell’umanità, perché essa appartiene all’umanità: questo è il mio pensiero, attinto dallo strato più profondo della coscienza.

E quando aggiungo che il fine della Rivoluzione è stato quello di esprimere questo pensiero, non voglio dire che la Rivoluzione e la sua idea sono nate improvvisamente, in un certo luogo e in un certo momento; in fatto di giustizia non c’è niente di nuovo sotto il sole. Voglio solo dire che è soltanto a partire dalla Rivoluzione francese che la teoria della giustizia immanente si è affermata con coscienza e pienezza, è divenuta preponderante e ha preso definitivamente possesso della società. Come la nozione di diritto è eterna e innata nell’umanità, così è innata ed eterna nell’umanità quella di Rivoluzione. Essa non è cominciata nell’anno di grazia 1789, in una località compresa tra i Pirenei, l’Oceano, il Reno e le Alpi. Essa appartiene a tutti i tempi e a tutti i Paesi, essa data dal giorno in cui l’uomo, non fidandosi di se stesso, ha fatto, per sua sfortuna, appello a un’autorità invisibile, remuneratrice e vendicativa; ma è alla fine del secolo scorso, e sul suolo glorioso di Francia, che essa ha avuto la sua esplosione più lampante.

Ciò spiegato, la teoria della giustizia, innata e progressiva, si deduce da sola.

Prima della sua immersione nella società, o per meglio dire, prima che la società abbia cominciato a nascere da lui grazie alla generazione, al lavoro e alle idee, senza dubbio l’uomo, chiuso nel suo egoismo, limitato alla vita animale, non sa niente della legge morale. Come la sua intelligenza, prima di venire stimolata dalla sensibilità, è vuota, senza alcuna nozione dello spazio e del tempo, così la sua coscienza, prima di essere stimolata dalla società, è ugualmente vuota, senza conoscenza né del bene né del male. L’esperienza delle cose, necessaria alla produzione delle idee, non lo è meno allo sviluppo della coscienza.

Ma come nessuna comunicazione esterna potrebbe da sola creare l’intelligenza e far sgorgare a miriadi le idee alate senza una preformazione intellettuale che renda possibile il concetto, così anche i fatti della vita sociale potranno ben prodursi, l’intelligenza potrà ben coglierne il rapporto, eppure questo rapporto non si tradurrà mai per la volontà in legge obbligatoria senza una preformazione del cuore che faccia scorgere al soggetto, nei rapporti sociali che lo coinvolgono, non soltanto un’armonia naturale, ma una specie di comando segreto da se stesso a se stesso.

Così, secondo la teoria dell’immanenza, quand’anche la Rivelazione fosse provata, essa servirebbe, come l’insegnamento del maestro serve al discepolo, solo nella misura in cui l’anima possedesse in sé la facoltà di riconoscere la legge e di farla sua: il che esclude radicalmente e irrevocabilmente l’ipotesi trascendentale.

Ne segue che la coscienza, quale ci è data dalla natura, è completa e sana: tutto ciò che avviene in lei è suo; essa basta a se stessa, non ha bisogno né di medico né di rivelatore; anzi, questo aiuto celeste, sul quale la si vorrebbe fondare, non può essere che di ostacolo alla sua dignità, non può che impastoiarla e incepparla.

Dunque, non solo la scienza della giustizia e dei costumi è possibile perché da una parte è fondata su una facoltà speciale dell’anima che ha, come l’intelletto, le sue nozioni fondamentali, le sue forme innate, le sue anticipazioni, i suoi pregiudizi, e dall’altra sulla esperienza quotidiana con le sue induzioni e le sue analogie, con le sue gioie e i suoi dolori; ma bisogna anche dire che questa scienza è possibile solo a condizione che si distacchi interamente dalla fede, la quale ben lungi dal servirla, la perverte.

Nel sistema della Rivelazione, la scienza della giustizia e dei costumi si fonda necessariamente, a priori, sulla parola di Dio, spiegata e commentata dai sacerdoti. Essa non si aspetta niente dall’adesione della coscienza, né dalle conferme dell’esperienza. Le sue formule assolute sono affrancate da qualsiasi considerazione puramente umana; decretate in anticipo e per sempre, esse sono fatte per l’uomo, non dall’uomo. Ciò implicherebbe che una dottrina sacra non possa ricevere un po’ di luce dagli accidenti della vita sociale e dalla variabilità dei suoi fenomeni: sarebbe come sottomettere l’ordine di Dio all’apprezzamento dell’uomo, abiurare di fatto la Rivelazione e riconoscere l’autonomia della coscienza, cosa incompatibile con la fede.

Tale è il diritto divino, che ha per massima l’autorità: donde tutto un sistema di amministrazione per gli Stati, di polizia per i costumi, di economia per i beni, di educazione per la gioventù, di restrizione per le idee, di disciplina per gli uomini.

Nella teoria dell’immanenza, invece, la conoscenza del giusto e dell’ingiusto risulta dall’esercizio di una facoltà speciale e dal giudizio che la ragione porta a posteriori sui suoi atti. Perciò per determinare la regola dei costumi, è sufficiente osservare la fenomenalità giuridica a mano a mano che essa si produce nei fatti della vita sociale. Ne segue che, essendo la giustizia il prodotto della coscienza, ciascuno si trova a essere, in ultima istanza, giudice del bene e del male, costituito come un’autorità di fronte a se stesso e agli altri. Se non affermo io stesso che la tal cosa è giusta, invano il principe e il prete ne affermeranno la giustizia e mi ordineranno di farla: essa resta ingiusta e immorale, e il potere che pretende di obbligarmi è tirannico. Reciprocamente, se io non affermo nel mio stesso foro interiore che la tal cosa è ingiusta, invano il principe e il prete pretenderanno di impedirmela: essa resta giusta e morale, e l’autorità che me la impedisce illegittima.

Tale è il diritto umano, che ha per massima la libertà: donde tutto un sistema di coordinazioni, di garanzie reciproche, di servizi mutui, che è il contrario del sistema di autorità.

È necessario aggiungere che in questa teoria, dovendo l’uomo arrivare da sé, e da sé solo, alla conoscenza della giustizia, la sua scienza è necessariamente progressiva e gli si manifesta con l’esperienza, a differenza della scienza rivelata, data una volta per tutte e alla quale non possiamo né aggiungere né togliere una lettera? È, del resto, ciò che dimostra la storia delle legislazioni; e non è stata una piccola causa di imbarazzo il bisogno di accordare le condizioni di questo progresso con l’idea di una Rivelazione simultanea e definitiva.

Ma non è tutto. Siccome l’apprendimento della legge è progressivo, anche la giustificazione è progressiva: fatto anch’esso attestato dalla storia e anch’esso inconciliabile con la teoria di una grazia preventiva, concomitante, e con ogni specie di soccorso, provvidenza e prestazione celeste.

Orbene, ammessa la realtà del progresso, in primo luogo come condizione della conoscenza, poi come sinonimia della giustificazione, tutta la storia dell’umanità, delle sue oscillazioni, delle sue aberrazioni, delle sue cadute, dei suoi raddrizzamenti, trova spiegazione, fino alla negazione stessa della virtualità umana che sta al fondo dell’idea religiosa, fino a questa disperazione nella giustizia che ne è il seguito e che, con il pretesto di unirci a Dio, finisce con il rovinare la nostra moralità.

Così, dalla filosofia pratica, o dalla ricerca delle leggi delle azioni umane, si deduce la filosofia della storia, o ricerca delle leggi della storia, che potrebbe altrettanto bene essere chiamata istoriologia, e che sta alla storiografia, descrizione dei fatti della storia, come l’antropologia sta all’etnografia, l’aritmologia alla aritmografia, ecc.

Una società nella quale la conoscenza del diritto fosse completa e il rispetto della giustizia inviolabile, sarebbe perfetta.

Il suo movimento, non obbedendo che a una costante, senza dipendere più da variabili, sarebbe uniforme e rettilineo; in questo caso la storia si ridurrebbe a quella del lavoro e degli studi, o per meglio dire non vi sarebbe più storia.

Tale non è la condizione della vita umana, e tale non potrebbe essere. Il progresso della giustizia, teorico e pratico, è uno stato da cui non ci è dato di uscire e di vedere la fine. Noi sappiamo discernere il bene dal male, ma non conosceremo mai la fine del diritto, perché non cesseremo mai di creare fra di noi nuovi rapporti. Siamo nati perfettibili; non saremo mai perfetti: la perfezione, l’immobilità, sarebbero la morte.

[Da De la justice dans la Révolution et dans l’Église, trad. it.: La giustizia nella Rivoluzione e nella Chiesa, UTET, Torino 1968, pp. 127-146].



capitolo quinto

Per Proudhon l’ordine politico si fonda su due opposti principi: l’autorità e la libertà. La loro antinomia è la sicura garanzia del fatto che un terzo termine è impossibile; dall’altra parte il rapporto tra queste due polarità non può risolversi in un completo annullamento della prima a favore della seconda. Vi è invece la concezione di una complementarità fra i due termini, nel senso che la libertà è completa solo quando si accorda con la necessità.

Oltre a un riconoscimento del tutto ovvio delle leggi oggettive della necessità, quale unico modo per dominarne gli effetti, vi è in queste considerazioni l’idea che la libertà non può farsi soggetto assoluto. Anch’essa deve rispettare le particolarità e le determinazioni del reale, deve cioè pluralizzarsi e contestualizzarsi entro le forme storiche e le situazioni determinate. Si tratta di una concezione concreta della libertà che si pone all’opposto della visione astratta di derivazione illuminista. Questo perché Proudhon avverte una sorta di rischio assolutistico insito nel concetto di libertà, qualora essa non venga divisa fra più soggetti politici e sociali. Dare un valore assoluto alla libertà significa assegnarle lo stesso significato che il giacobinismo diede alla volontà

 generale. Occorre invece una dialettica fra determinismi e libertà in grado di trasformare l’idea astratta e generale di libertà in tante idee concrete e particolari di libertà. Infatti, la divisione della libertà si realizza ripetendo il movimento della necessità e riconoscendone le connessioni. La necessità è dunque la condizione della libertà.

La chiara consapevolezza del rapporto fra necessità e libertà non impedisce comunque a Proudhon di continuare a pensare che solo nella tendenza al superamento della costrizione fisica e sociale l’uomo si realizza come libero; un superamento per mezzo del quale l’uomo, al di là della spontaneità, idealizza ciò che crea, trasfigura il reale, rifiuta di rassegnarsi al naturale, defatalizza il suo destino. Si può affermare addirittura che per Proudhon la funzione della libertà consiste nel portare il soggetto libero al di là di tutte le manifestazioni, aspetti e leggi, tanto della materia quanto dello spirito, e dargli un carattere per così dire sovrannaturale.

Dall’insieme di queste considerazioni si ricava la consapevolezza che per la società possono esistere solo due modelli opposti, definibili come il regime della libertà e il regime dell’autorità. A suo giudizio, in tutto il corso della storia umana sono stati concepiti essenzialmente solo quattro regimi politici. Essi sono concettualmente insuperabili, nel senso che tutti gli altri modi di intendere la vita umana associata devono considerarsi delle variabili riconducibili sempre alla fondamentale quadripartizione che egli stesso così sintetizza: regime di autorità, nella duplice forma del governo di tutti da parte di uno (monarchia o patriarcato) e del governo di tutti da parte di tutti (panarchia o comunismo); carattere peculiare di questo regime è l’indivisione del potere; regime di libertà, nella duplice forma del governo di tutti da parte di ciascuno (democrazia) e del governo di ciascuno per sé (anarchia o autogoverno); carattere essenziale di questo regime è la divisione del potere. È tutto qui. Questa classificazione, suggerita a priori dalla natura delle cose, è razionalmente deducibile, è matematica.

Si vede subito come questa contrapposizione fra il regime di autorità e il regime di libertà ponga nella stessa famiglia il principio monarchico con il principio comunista e il principio anarchico con il principio democratico, in quanto il primo gruppo ha la sua caratterizzazione nell’indivisione del potere, il secondo nella divisione. Come l’anarchia è l’estremo svolgimento logico della democrazia, così il comunismo è l’estremo svolgimento logico della monarchia.



Autorità e libertà

L’ordine politico poggia le sue basi su due principi contrari: l’autorità e la libertà, il primo dei quali iniziatore, il secondo determinante; questo rispondente alla libera ragione, quello alla fede che persuade all’obbedienza.

Credo che nessuno vorrà infirmare questa prima proposizione. L’autorità e la libertà sono in questo mondo antiche quanto la razza umana: nascono con noi e si perpetuano in ciascuno di noi. Accontentiamoci di osservare una cosa, cui pochi lettori forse avranno pensato: che questi due principi formano, per così dire, una coppia, i cui due termini, indissolubilmente legati fra loro, sono tuttavia irriducibili l’uno all’altro e restano, a dispetto di ogni nostro sforzo, in lotta perpetua fra loro. L’autorità suppone invincibilmente una libertà che la riconosca o la neghi; la libertà a sua volta, nel senso politico della parola, suppone ugualmente un’autorità che tratti con essa, la tolleri o raffreni. Se sopprimete l’una, l’altra non ha più senso: l’autorità, senza una libertà che discuta, resista o si sottometta, non è che una vuota parola; la libertà, senza un’autorità che le faccia da contrappeso, è un nonsenso.

 Il principio di autorità, principio familiare, patriarcale, magistrale, monarchico, teocratico, tendente alla gerarchia, alla centralizzazione, all’assorbimento, è dato dalla natura, perciò essenzialmente fatale o, se preferite, divino. La sua influenza, combattuta, ostacolata dal principio contrario, può estendersi indefinitamente o restringersi, ma mai annullarsi.

Il principio di libertà, personale, individualista, critico, che porta alla divisione, all’elezione, alla transazione, ci è dato dallo spirito. Principio essenzialmente arbitrale – di conseguenza superiore alla natura, che esso fa suo strumento, e alla fatalità, che esso vuol dominare – illimitato nelle sue aspirazioni e suscettibile, come il suo contrario, di estendersi e di restringersi, ma altrettanto incapace di esaurirsi per eccesso di sviluppo come di venire annientato dalla costrizione.

Consegue da ciò che in ogni società, anche la più autoritaria, una parte è necessariamente lasciata alla libertà, così come in ogni società, anche la più liberale, una parte è riservata all’autorità. E questa condizione è assoluta: nessuna varietà di costituzione politica vi si sottrae. Malgrado gli sforzi del nostro intelletto, che tende per natura a risolvere le opposizioni nell’unità, questi due principi restano l’uno di fronte all’altro, in perpetua opposizione; e ogni moto politico risulta dalla loro ineluttabile tendenza diversa e dalle loro mutue reazioni.

Tutto ciò, lo ammettiamo, non è forse cosa molto nuova, e più di un lettore si domanderà se non ho proprio nient’altro da insegnargli. Nessuno nega la natura né lo spirito, per quanto oscuri possano essere tali concetti; e a nessun scrittore è mai venuto in mente di negare il diritto all’esistenza della libertà o dell’autorità, sebbene risulti ugualmente impossibile conciliarle, farle vivere separate, o eliminare una delle due. Quale può essere dunque il mio scopo ribadendo questo luogo comune?

Lo dirò subito: mostrare che tutte le costituzioni politiche e tutti i sistemi di governo, compreso il federalismo, possono ricondursi a questa formula: l’autorità controbilanciata dalla libertà, e viceversa.

 E questo fa sì che tutte le categorie adottate da Aristotele in poi da tanti autori per classificare le forme di governo, distinguere i vari tipi di Stato e caratterizzare le singole nazioni, e cioè monarchia, aristocrazia, democrazia, ecc. (eccettuando però qui il federalismo) si riducono a costruzioni puramente ipotetiche ed empiriche a un tempo, nelle quali la ragione e la giustizia possono trovar soddisfazione solo in modo assai imperfetto. Perché tutti quei sistemi di governo, fondati su principi ugualmente incompleti, che differiscono fra loro solo per la diversità degli interessi, dei pregiudizi e delle abitudini inveterate, in sostanza si rassomigliano e si equivalgono: al punto che, se non fosse per il disagio che fatalmente comportano nella pratica tali falsi sistemi, e per le conseguenti accuse reciproche a causa delle passioni frustrate e degli interessi misconosciuti e delle ambizioni deluse, per quanto riguarda i loro fondamenti tutti gli uomini non sarebbero poi così discordi. E perché infine tutte quelle divisioni di partiti, tra i quali la nostra immaginazione scava degli abissi, tutti quei contrasti di opinioni che ci sembrano insolubili, quegli antagonismi di interessi pratici che ci sembrano irrimediabili, si avviano a trovare il loro definitivo equilibrio nelle teorie del governo federativo.

Quante cose volete far nascere, dirà qualcuno, da una semplice opposizione formale: autorità-libertà! E così è. Perché avendo osservato che le intelligenze comuni, i bambini, colgono assai meglio la verità concentrata in una formula astratta che non diluita in un volume di dissertazioni e di fatti, io ho voluto al contempo ridurre il mio lavoro all’essenziale per tutti quelli che non possono stare a leggere tanti libri, e renderlo più perentorio basandomi su nozioni semplici. L’autorità e la libertà, due idee opposte fra loro e condannate a vivere in perpetua lotta o a perire insieme: non è certo un concetto molto difficile. Che l’amico lettore abbia la pazienza di proseguire, e se ha compreso questo primo e breve paragrafo, potrà dirmi poi quel che pensa degli altri.

Abbiamo individuato i due principi fondamentali e antitetici di ogni governo: autorità e libertà. Data la tendenza del nostro spirito a ricondurre tutte le sue nozioni a un principio unico, e quindi eliminare quelle che sembrano incompatibili con quel principio, due differenti tipi di governo si deducono solitamente a priori da quelle due nozioni basilari, secondo la preminenza o preferenza che si vuol accordare all’una o all’altra, e sono: il regime di autorità e il regime di libertà. Essendo inoltre la società composta da individui, e potendosi classificare i rapporti fra individuo e società in quattro diversi modi, ne risultano quattro tipi di governo, due per ciascun regime:

1. regime di autorità: a) governo di tutti da parte di uno: monarchia o patriarcato; b) governo di tutti da parte di tutti: panarchia o comunismo; e il carattere essenziale di questo regime di autorità, in ambedue le specie, è l’indivisione del potere;

2. regime di libertà: a) governo di tutti da parte di ciascuno: democrazia; b) governo di ciascuno per sé: anarchia o autogoverno; e il carattere essenziale di questo regime di libertà, in ambedue le specie, è la divisione del potere.

Questa classificazione a priori, logicamente dedotta dai dati di fatto, è assoluta e matematica. Se si vuol far dipendere la politica da un ragionamento di tipo sillogistico, come tesero a supporre tutti gli antichi legislatori, essa non può uscire da questi schemi. E tale semplicismo originario è degno di tutta la nostra attenzione: ci fa vedere che fin dalle origini, e sotto tutti i regimi, gli ordinamenti statali hanno cercato di dedurre le loro costituzioni partendo da un solo elemento, ma che questo modo di ragionare nell’arte politica è primordiale. Ebbene, in ciò sta precisamente l’errore.

1. Noi sappiamo qual è la base del governo monarchico, espressione primitiva del principio di autorità (mi basti rimandarvi a de Bonald): è l’autorità paterna. La famiglia è l’embrione della monarchia: i primi Stati furono in genere famiglie o tribù governate dal loro capo naturale, marito, padre, patriarca e, finalmente, re.

 In tal regime, lo Stato si sviluppa in due modi: o per generazione e moltiplicazione naturale della famiglia, tribù o razza; o per adozione, cioè incorporazione volontaria o forzata delle famiglie e tribù circostanti, ma in modo tale che queste nuove tribù vadano a comporre con la tribù madre una sola famiglia, restando come questa sottoposta allo stesso capo domestico. Questo secondo sviluppo dello Stato-famiglia può arrivare a proporzioni immense, fino a centinaia di milioni di uomini sparsi su centinaia di migliaia di leghe.

La panarchia poi, o pantocrazia, o comunità, si produce naturalmente per la morte del monarca o capo famiglia e la dichiarazione dei sudditi, fratelli, figli o associati, di restare indivisi senza tuttavia scegliersi un nuovo capo. Questa forma politica è rara per non dire praticamente inesistente, poiché l’autorità dello Stato è in essa più pesante e l’individualità più oppressa che con qualunque altro regime. Non la possiamo vedere adottata se non dalle associazioni religiose, le quali, in tutti i Paesi e con qualunque culto, hanno mirato sempre all’annientamento della libertà. Tuttavia il suo principio è naturalmente dedotto dall’idea di autorità, come il regime monarchico, e si può trovarlo applicato in certi governi «di fatto»; cosicché ci era pur necessario farne menzione.

Così la monarchia, fondata sul fatto naturale della famiglia e giustificata dal naturale principio di autorità, ha una sua legittimità e una sua moralità; e lo stesso si può dire del comunismo. Ma vedremo ben presto come queste due varietà del regime di autorità non possano, benché si fondino su un fatto di natura e sulle sue conseguenze logiche, mantenersi rigorosamente costrette nel rigoroso ossequio al loro principio e nella purezza della loro essenza, e che esse sono di conseguenza condannate a restare sempre allo stato di ipotesi. E infatti, malgrado la loro origine patriarcale, il loro ideale pacifico, il fascino dell’assolutismo e del diritto divino, in nessuna parte del mondo possiamo trovare monarchia o comunismo che siano rimasti fedeli al loro archetipo.

 2. Come nasce d’altra parte il regime democratico, spontanea espressione del principio di libertà? Rousseau e la Rivoluzione ce l’hanno insegnato: in base a una convenzione. Qui la filosofia non c’entra più, lo stato di libertà ci appare non più come il prodotto della natura organica, della carne, ma della natura intelligibile, cioè lo spirito.

Sotto quest’altro regime, lo sviluppo dello Stato si ha per accessione o libera adesione. Come si presuppone che tutti i cittadini abbiano aderito al contratto-base, così lo straniero che si fa cittadino si suppone abbia dato la stessa adesione; e solo a questa condizione egli ottiene i diritti e le prerogative degli altri. Se lo Stato si troverà a far guerra e si farà conquistatore, il suo principio lo porterà ad accordare alle popolazioni conquistate gli stessi diritti di cui godono i propri cittadini: è quel che si indica con il termine isonomia. Così procedevano i Romani quando concedevano il diritto di cittadinanza. E i fanciulli stessi, quando giungono alla maggiore età, è come se avessero giurato lo stesso patto: essi non diventano cittadini, in realtà, perché sono figli di cittadini, come accade nella monarchia dove i figli del suddito sono anch’essi sudditi per nascita, o nelle comunità di Licurgo e di Platone dove, nascendo, essi sono dello Stato; per essere membro di una democrazia, indipendentemente dalla propria qualità di ingenuus, bisogna, in teoria, aver liberamente accettato quel sistema di governo.

La stessa cosa accadrà per l’accessione di una famiglia, di una città, di una provincia: la libertà è sempre la base del fatto e lo giustifica.

Così allo sviluppo dello Stato autoritario, patriarcale, monarchico o comunista, si oppone lo sviluppo dello Stato liberale, contrattuale e democratico. E come non ci sono limiti naturali per l’estensione della monarchia (e ciò in tutti i tempi e in tutti i popoli ha suggerito l’idea di una monarchia universale o messianica), non ci sono neppure limiti naturali per l’estensione dello Stato democratico (e ciò suggerisce ugualmente l’idea di una democrazia o repubblica universale).

 Come varietà del regime liberale, ho segnalato l’anarchia, o governo del singolo da parte del singolo, cioè autogoverno. Poiché l’espressione «governo anarchico» implica una specie di contraddizione, la cosa sembra impossibile e l’idea assurda. Tuttavia il difetto è qui soltanto nell’espressione: la nozione di anarchia, in politica, è altrettanto razionale e positiva quanto le altre. Essa consiste nel fatto che, qualora si riducessero le funzioni politiche alle funzioni dell’umana industria, l’ordine sociale risulterebbe dal solo fatto delle transazioni e degli scambi; e ciascuno allora potrebbe chiamarsi autocrate di se stesso, che è l’estremo opposto dell’assolutismo monarchico*.

E ancora: come la monarchia e il comunismo, fondati su un fatto di natura e sulla logica, hanno la loro legittimità e la loro moralità, senza che tuttavia possano mai realizzarsi in tutto il rigore e la purezza della loro idea, così la democrazia e l’anarchia, fondate sul principio della libertà e sui suoi diritti, e perseguendo un ideale logicamente dedotto da tal principio, hanno la loro legittimità e la loro moralità. Ma vedremo altresì come, malgrado la loro origine giuridica e razionalista, neppure questi regimi possano, accrescendo e sviluppandosi in popolazione e territorio, mantenersi rigorosamente e limpidamente coerenti con la loro primitiva idea, e restino perciò condannati a uno stato di desiderata perpetuo: malgrado il potente fascino della libertà, né la democrazia né l’anarchia si sono mai in alcun luogo costituite nella pienezza e integrità della loro idea.

* Proudhon, in una lettera del 20 agosto 1864 a «l’éditeur du Dictionnaire Larousse», specifica ulteriormente: «[Quanto all’anarchia], ho inteso indicare con questo termine il limite estremo del progresso politico. L’anarchia è, se così posso esprimermi, una forma di governo o di costituzione in cui la coscienza pubblica e privata, formata dallo sviluppo della scienza e del diritto, è di per sé sufficiente a mantenere l’ordine e a garantire tutte le libertà; di conseguenza il principio di autorità, le istituzioni preventive e repressive e la burocrazia sono ridotte alla loro forma più semplice, e a maggior ragione sono scomparse le forme monarchiche e la forte centralizzazione, sostituite dalle istituzioni federative e dai costumi comunali. Quando la vita politica e l’esistenza domestica saranno identificate, quando, con la soluzione dei problemi economici, gli interessi sociali e individuali saranno equilibrati e solidali, è evidente che scomparirà ogni costituzione e saremo in piena libertà, cioè in anarchia. La legge sociale si compirà da se stessa, senza bisogno di ordine e sorveglianza, grazie alla spontaneità universale» [N.d.C.].

[Da Du principe fédératif, trad. it. (estratti): in P. Ansart, P.-J. Proudhon, La Pietra, Milano 1978, pp. 260-265].



capitolo sesto

Il principio proudhoniano di associazione riprende implicitamente il concetto di forza collettiva per applicarlo alla libertà: come l’unione degli sforzi individuali genera nel gruppo sociale una forza superiore alle individualità, altrettanto la sintesi delle autentiche facoltà umane genera una forza d’azione superiore alle singole facoltà. Attraverso questa forza superiore l’uomo si sperimenta come libero e può opporsi al mondo e trasformarlo. La nuova associazione umana dovrà quindi emergere da complesse e molteplici esperienze culturali e spirituali, dall’uso contemporaneo e libero di ogni talento, dalla messa in opera di tutte quelle condizioni atte a favorire la capacità da parte dell’uomo di riprogettarsi continuamente. Di qui la concezione di una naturale confluenza fra sviluppo intellettuale e sviluppo fisico, quello sviluppo in grado di comporre sinteticamente l’unità dello studio-lavoro che, nell’equilibrio fra teoria e prassi, caratterizza l’uomo completo ed emancipato. Ciò che sta alla base dell’obiettivo proudhoniano dell’integrazione, per ogni individuo, del lavoro manuale con quello intellettuale, è quindi la convinzione teorica che solo l’unità sintetica di idea e fatto, di teoria e prassi, possa esprimere e realizzare la naturale completezza psico-fisica dell’uomo, cioè quella forza collettiva che è propria delle sue possibilità e che può renderlo libero.

Questa integrazione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale in ogni individuo comporta l’abolizione della divisione gerarchica tra funzioni intellettuali e funzioni manuali nell’organizzazione produttiva e sociale, e contemporaneamente l’abolizione della divisione verticale fra idea e azione, teoria e prassi, nel processo generale di liberazione. Infatti, come la funzione politica separata dall’azione sociale delle masse si concreta nella tutela della società da parte dello Stato, così le funzioni intellettuali separate da quelle manuali si concretano socialmente in classi dominanti all’interno della produzione sociale.

Alla divisione della società gerarchica, Proudhon oppone la concezione libertaria ed egualitaria di una società economica autogestita e composta da produttori autonomi e uguali; al principio statale, quello dei partigiani della libertà, secondo i quali la società deve essere considerata non come una gerarchia di funzioni e di facoltà, ma come un sistema di equilibri fra forme libere, in cui ognuno ha garanzia di conseguire i medesimi diritti purché sottostia agli stessi doveri, di ottenere gli stessi vantaggi in compenso dei medesimi servizi, sistema questo essenzialmente egualitario.

Si precisa così la concezione proudhoniana dell’autogestione: libertà di movimento e di rotazione degli incarichi per tutti, capacità di controllo da parte dei produttori in virtù di una conoscenza che da individuale si è fatta collettiva, gestione dell’intera serie dei processi produttivi attraverso una conoscenza integrale fattasi equilibrio fra scienza e lavoro, teoria e prassi, idea e azione.

L’organizzazione policentrica e federalista di ogni nucleo produttivo, sotto il governo di tutti quelli che la compongono, è l’obiettivo del tutto logico e naturale della visione proudhoniana della rivoluzione economica, che si contrappone in modo frontale alla rivoluzione politica. Questa rivoluzione non può coinvolgere solo la classe operaia, ma deve investire più classi, ceti, gruppi, individui, posti sotto il segno dello sfruttamento e dell’oppressione, e tutti aggregati attorno a un progetto di trasformazione dal basso delle strutture produttive e sociali.



 L’associazione degli uguali

L’unione delle forze, da non confondere con l’associazione, come mostreremo fra poco, è anch’essa, allo stesso titolo del lavoro e dello scambio, produttrice di ricchezza. È una potenza economica di cui io per primo, credo, ho fatto notare l’importanza, nella mia prima tesi sulla proprietà. Cento uomini, che uniscono o combinano i loro sforzi, producono, in certi casi, non cento volte come uno, ma duecento volte, trecento volte, mille volte. A ciò ho dato il nome di forza collettiva.

Da questo fatto ho anche tratto un argomento, rimasto come tanti altri senza risposta, contro un certo tipo di appropriazione: perché non basta più allora pagare semplicemente il salario a un dato numero di operai per acquistare legittimamente il loro prodotto, ma bisognerebbe pagare questo salario due, tre, dieci volte di più, oppure render a ciascuno di essi, di volta in volta, un servizio analogo.

La forza collettiva: ecco dunque un altro principio che, pur nella sua nudità metafisica, è però produttore di ricchezza. Lo si trova ugualmente applicato in tutti quei casi in cui il lavoro individuale, per quante volte lo si ripeta, è destinato a rimanere importante. Eppure, non esiste una legge che prescriva tale applicazione. Anzi, c’è da osservare che gli utopisti societari non ne hanno mai fatto un loro cavallo di battaglia. La verità è che la forza collettiva è un atto impersonale, mentre l’associazione è un impegno volontario; tra l’una e l’altra ci può essere un punto di incontro, ma non identità.

Supponiamo ancora, come nell’esempio precedente, che la società che lavora sia composta solo di operai isolati che non sanno né combinare né cumulare i loro strumenti: l’industriale che improvvisamente svelasse questo segreto farebbe da solo per il progresso delle ricchezze più di quanto non abbiano fatto il vapore e le macchine, poiché l’impiego stesso delle macchine e del lavoro non sarebbe possibile senza di lui. Costui sarebbe uno dei più grandi benefattori dell’umanità, un rivoluzionario veramente fuori dell’ordinario.

Sorvolo su altri fatti dello stesso genere, che pure potrei citare, come la concorrenza, la divisione del lavoro, la proprietà, ecc., e che insieme costituiscono ciò che io definisco forze economiche, principi produttori di realtà. Una descrizione più dettagliata di tali forze si può trovare nelle opere degli economisti, i quali, proprio con il loro assurdo disdegno della metafisica, hanno dimostrato, senza volerlo, per mezzo della teoria delle forze industriali, il dogma fondamentale della teoria cristiana, la creazione de nihilo.

Si tratta adesso di sapere se l’associazione è una di quelle forze essenzialmente immateriali, le quali, agendo, diventano produttrici di effetti utili e fonti di benessere; perché è evidente che soltanto a questa condizione il principio societario – e non faccio qui distinzioni tra una scuola e l’altra – può presentarsi come soluzione del problema del proletariato.

L’associazione, in una parola, è una potenza economica? È da vent’anni ormai che viene raccomandata, che se ne aspettano gli effetti miracolosi. Com’è possibile che nessuno riesca a dimostrarne l’efficacia? l’efficacia dell’associazione sarebbe, per caso, più difficile da dimostrare di quella del commercio, del credito o della divisione del lavoro?

 Per quanto mi riguarda, la mia risposta è categorica: no, l’associazione non è una forza economica. L’associazione è sterile per natura, perfino nociva, perché è un impedimento alla libertà del lavoratore. Gli autori responsabili delle utopie fraternali, da cui tanta gente si lascia ancora sedurre, hanno attribuito senza ragione, senza prove, al contratto di associazione una virtù e una efficacia proprie soltanto alla forza collettiva, alla divisione del lavoro o allo scambio. Il pubblico non si è accorto della confusione: di qui la costituzione di associazioni affidate al caso, i loro destini così diversi e le incertezze dell’opinione.

Quando un’associazione, industriale o commerciale, ha per scopo di mettere in opera una delle grandi forze economiche, oppure di sfruttare un fondo la cui natura esige che resti indiviso, un monopolio, una clientela, l’associazione formata a tale scopo può prosperare; ma tale risultato essa non lo raggiunge in virtù del suo principio, essa lo deve ai suoi mezzi. Il che del resto è dimostrato dal fatto che tutte le volte che lo stesso risultato può essere ottenuto senza associazione, si preferisce non associarsi. L’associazione è un vincolo per natura contrario alla libertà; e noi acconsentiamo a sottometterci a esso soltanto alla condizione di ricevere una indennità sufficiente. Sicché è possibile contrapporre a tutti gli utopisti societari la seguente regola pratica: l’uomo si associa sempre suo malgrado e perché non può fare diversamente.

Bisogna distinguere dunque tra il principio di associazione e i mezzi, variabili all’infinito, di cui una società, per effetto di circostanze esterne estranee alla sua natura, dispone, e tra i quali colloco al primo posto le forze economiche. Il principio è qualcosa che, in assenza di altri motivi, non incoraggerebbe nessuno a imbarcarsi in una qualunque impresa; i mezzi sono ciò per cui alla fine, nella speranza di ottenere un certo utile, ci si rassegna a sacrificare l’indipendenza. Esaminiamo, in effetti, questo principio; ritorneremo dopo sui mezzi.

Chi dice associazione dice necessariamente solidarietà, responsabilità comune, fusione, nei confronti di terzi, dei diritti e dei doveri. Proprio così l’intendono tutte le società fondate sul principio fraternale e su quello dell’armonia, anche se parlano poi di concorrenza emulativa.

Nell’associazione, chi fa ciò che può fa ciò che deve: solo per il socio debole o pigro, e per lui soltanto, si può dire che l’associazione produca profitto. Di qui l’uguaglianza dei salari, legge suprema dell’associazione.

Nell’associazione, tutti rispondono di tutti: il più piccolo vale quanto il più grande; l’ultimo arrivato ha gli stessi diritti del più anziano. L’associazione cancella tutte le colpe, livella tutte le disuguaglianze: di qui la solidarietà della cialtroneria e dell’incapacità.

La formula dell’associazione è dunque questa, ed è Louis Blanc che ce l’ha data:

Da ognuno secondo le sue capacità, A ognuno secondo i suoi bisogni.

Il codice, nelle sue diverse definizioni della società civile e commerciale, è d’accordo con l’oratore del Luxembourg: qualsiasi allontanamento da tale principio costituisce un ritorno all’individualismo.

Così spiegata da socialisti e giuristi, può l’associazione generalizzarsi, diventare la legge universale e superiore, il diritto pubblico e civile di tutta una nazione, dell’intera umanità?

Questa è la domanda posta dalle varie scuole societarie, le quali, pur variando la loro regolamentazione, si pronunciano tutte, all’unanimità, in modo affermativo.

Invece a questo io rispondo: no, il contratto di associazione, quale che sia la sua forma, non può mai diventare la legge universale, perché essendo per natura improduttivo e fastidioso, applicabile soltanto in casi del tutto speciali, e crescendo i suoi inconvenienti molto più in fretta dei suoi vantaggi, esso è al tempo stesso contrario sia all’economia del lavoro, sia alla libertà del lavoratore. Donde arrivo alla conclusione che una società del genere non potrà mai abbracciare né tutti gli operai di una stessa industria, né tutte le corporazioni industriali, né a maggior ragione una nazione di 36 milioni di uomini; e perciò il principio societario non contiene la soluzione richiesta.

Aggiungo che l’associazione non solo non è una forza economica, ma che è applicabile soltanto in casi speciali, che dipendono dai mezzi a disposizione. È facile rendersi conto oggi, con i fatti, di questa seconda affermazione e quindi determinare il ruolo dell’associazione nel XIX secolo.

Il carattere fondamentale dell’associazione, l’abbiamo detto, è la solidarietà. Ora, quale ragione può spingere gli operai a farsi solidali gli uni con gli altri, ad alienare la loro indipendenza, a sottomettersi alla legge assoluta di un contratto e, quel che è peggio, di un gestore?

La ragione può essere molto diversa, ma sempre obiettiva, esterna alla società.

Ci si associa, talvolta per conservare una clientela, messa insieme originariamente dall’opera di un unico imprenditore, ma che gli eredi separandosi rischierebbero di disperdere; talvolta per sfruttare in comune una industria, un brevetto, un privilegio, ecc., che non è possibile far valere altrimenti, o che renderebbe di meno a ognuno di essi se entrassero in concorrenza; talvolta per l’impossibilità di ottenere altrimenti il capitale necessario; talvolta infine per livellare e ripartire i rischi di perdite causate da naufragio, incendio, servizi ripugnanti e penosi, ecc.

Andate fino in fondo e scoprirete che, se una qualunque società prospera, essa lo deve a una causa obiettiva, estranea, che non dipende affatto dalla sua essenza e senza la quale, lo ripeto, tale società, per quanto sapientemente organizzata, non vivrebbe.

Infatti, nel primo dei casi che abbiamo appena segnalato, la società ha lo scopo di sfruttare una vecchia reputazione, che da sola procura la maggior parte dei profitti; nel secondo, essa si fonda su un monopolio, cioè su quanto di più esclusivo e antisociale possa esserci; nel terzo, la società in accomandita, quello che la società mette in atto è una forza economica, sia la forza collettiva, sia la divisione del lavoro; nel quarto, la società si confonde con l’assicurazione: è un contratto aleatorio, inventato appunto per supplire all’assenza o all’inerzia della fratellanza.

È evidente che in nessuno di questi casi la società sussiste in virtù del suo principio; essa dipende dai mezzi che ha, cioè da una causa esterna. Ora, quello che ci è stato promesso, e di cui abbiamo bisogno, è invece un principio primo, vivificante, efficace.

Ci si associa ancora per l’economia di consumo, al fine di evitare il danno delle compere al minuto. Questo è il mezzo che si consiglia ai nuclei familiari modesti, a chi non dispone di risorse sufficienti per comprare all’ingrosso. Ma questo tipo di associazione, che poi è quella dei compratori di carne all’asta, testimonia contro il principio. Consentite a ogni produttore di commerciare all’ingrosso, o, che poi è lo stesso, organizzate il commercio al minuto in modo tale che, per quanto riguarda i prezzi, offra gli stessi vantaggi della vendita all’ingrosso, e l’associazione diventa inutile. D’altronde, le persone agiate non hanno bisogno di entrare in questi gruppi: vi troverebbero più fastidi che vantaggi.

E si noti ancora che in ogni società così costituita su una base positiva, la solidarietà del contratto non si estende mai al di là dello stretto necessario. Gli associati rispondono l’uno dell’altro di fronte a terzi e di fronte alla giustizia, certo, ma soltanto per quel che riguarda gli affari della società; al di fuori, cessa la solidarietà. In seguito a questa norma diverse associazioni operaie di Parigi, che prima avevano voluto, per eccesso di dedizione, superare le regole abituali e costituirsi secondo il principio dell’uguaglianza dei salari, sono state costrette a desistere. Dappertutto oggi i soci lavorano a cottimo, di modo che là dove la quota sociale consiste soprattutto in lavoro, nel senso che ogni socio viene remunerato, in salario e profitto, proporzionalmente al suo prodotto, la società operaia non è altro che la contropartita della società in accomandita; cioè una società in accomandita in cui il fondo iniziale, anziché consistere in denaro, è fatto di lavoro, il che poi è la negazione della fratellanza stessa. In ogni associazione, insomma, i soci, cercando attraverso l’unione delle forze e dei capitali dei vantaggi che non potrebbero ottenere altrimenti, si danno da fare per ricevere la minore solidarietà e la maggiore indipendenza possibili. Chiaro? Non è forse il caso di esclamare, come san Tommaso, «conclusum est adversus manichaeos»?

Sì, l’associazione formata specificamente in vista del legame di famiglia e della legge della dedizione, al di là di ogni considerazione economica esterna, di ogni interesse preponderante, l’associazione fine a se stessa, insomma, è un atto di pura religione, un vincolo soprannaturale senza valore positivo, un mito.

È quello che colpisce di più quando si passa all’esame delle diverse teorie dell’associazione proposte all’accettazione degli adepti. Fourier, per esempio, e dopo di lui Pierre Leroux, danno per certo che se i lavoratori si raggruppano secondo determinate affinità organiche e mentali, delle quali forniscono le caratteristiche, soltanto per questo fatto essi possono far aumentare le loro energie e le loro capacità; che lo slancio del lavoratore, ordinariamente tanto penoso, può diventare allegro e gioioso; che il prodotto, tanto quello individuale che quello collettivo, può aumentare di molto; che in questo consiste la virtù produttrice dell’associazione, che potrebbe quindi essere considerata una forza economica. Il lavoro piacevole è la formula convenzionale per designare questo meraviglioso risultato dell’associazione. Come si vede, è una cosa ben diversa dalla dedizione alla quale si fermano così pietosamente le teorie di Louis Blanc e di Cabet.

Oserei dire che i due eminenti socialisti, Fourier e Pierre Le-

roux, hanno scambiato i loro simboli con la realtà. Innanzi tutto, nessuno ha mai visto in azione da nessuna parte questa forza societaria, questa specie di analogo della forza collettiva e della divisione del lavoro; gli inventori stessi, e i loro discepoli che tanto ne hanno parlato, ancora non hanno fatto la loro prima esperienza. D’altra parte, la più superficiale conoscenza dei principi dell’economia politica e della psicologia basta a far comprendere che non può esserci nulla in comune tra un eccitamento dell’anima, quali la gaiezza del lavoro artigianale, il canto di manovra dei vogatori, ecc., e una forza industriale. Anzi, tali manifestazioni spesso sono contrarie alla gravità, alla concentrazione taciturna propria del lavoro. Il lavoro è, insieme con l’amore, la funzione più segreta, più sacra dell’uomo: si irrobustisce con la solitudine, si decompone con la prostituzione.

Ma a prescindere da queste considerazioni psicologiche e dall’assenza di qualsiasi dato sperimentale, chi può non accorgersi che quello che i due autori hanno creduto di scoprire dopo tante profonde ricerche, l’uno nella Serie di gruppi contrastati, l’altro nella Triade, altro non è che l’espressione mistica e apocalittica di ciò che da sempre è esistito nella pratica industriale, ovvero la divisione del lavoro, la forza collettiva, la concorrenza, lo scambio, il credito, la proprietà stessa e la libertà? chi non si accorge che degli utopisti antichi e moderni si può dire la stessa cosa dei teologi di tutte le religioni? Mentre questi ultimi, nei loro misteri, non facevano altro che descrivere le leggi della filosofia e del progresso umanitario, quelli, nelle loro tesi filantropiche, sognano senza saperlo le grandi leggi dell’economia sociale. Ora, queste leggi, le potenze della produzione che devono salvare l’uomo dalla povertà e dal vizio, sono più o meno quelle che ho citato prima. Ecco le vere forze economiche, principi immateriali di ogni ricchezza che, senza incatenare l’uomo all’uomo, lasciano al produttore la libertà più completa, alleviano il lavoro, lo appassionano, raddoppiano il suo prodotto, creano tra gli uomini una solidarietà che non ha nulla di personale, e li uniscono con dei legami più forti di tutte le combinazioni simpatiche e di tutti i contratti.

I miracoli annunciati dai due profeti sono noti da secoli. Di quella grazia efficace prefigurata dall’organizzazione della serie, di quel dono del divino amore promesso dal discepolo di Saint-Simon ai suoi ternari, possiamo osservarne l’influenza, per quanto corrotta sia, per quanto anarchica ce l’abbiano trasmessa i rivoluzionari dell’89-93, possiamo seguirne l’oscillazione in Borsa e sui nostri mercati. Si risveglino una buona volta gli utopisti dalle loro estasi sentimentali, si degnino di gettare uno sguardo su ciò che accade intorno a loro; leggano, ascoltino, facciano delle esperienze: si accorgeranno allora che quello che essi attribuiscono con tanto entusiasmo, l’uno alla serie, l’altro alla trinità, un altro ancora alla dedizione, non è altro che il prodotto delle forze economiche analizzate da Adam Smith e dai suoi successori.

Dato che mi sono impegnato in questa discussione soprattutto nell’interesse della classe lavoratrice, prima di finire vorrei dire ancora qualcosa sulle associazioni operaie, i risultati da esse ottenuti, il ruolo che devono svolgere nella rivoluzione. Queste società sono state formate, in maggioranza, da uomini imbevuti di teorie fraternali e convinti, pur senza rendersene conto, dell’efficacia economica del principio. In generale, sono state accolte con simpatia; hanno goduto il favore dei repubblicani che, fin dall’inizio, hanno procurato loro la necessaria clientela di partenza; non è mancata loro neppure la pubblicità sui giornali: tutti elementi di successo di cui non si è tenuto abbastanza conto, ma perfettamente estranei al principio.

Attualmente, come vanno concretamente le cose? Un buon numero di queste società riescono a stare in piedi e promettono di svilupparsi ancora: si sa il perché. Alcune sono composte degli operai più abili del settore; cioè si reggono sul monopolio delle capacità. Altre hanno attirato e conservano la clientela mantenendo bassi i prezzi; è la concorrenza che le fa vivere.

Non parlo di quelle che hanno ottenuto commesse e crediti dallo Stato: incoraggiamento puramente gratuito.

Generalmente, infine, in queste associazioni gli operai, per sbarazzarsi di tutti gli intermediari, commissionari, imprenditori, capitalisti, ecc., che secondo la logica del vecchio stato di cose si interpongono tra il produttore e il consumatore, hanno dovuto lavorare un po’ di più e accontentarsi di un salario minimo. Tutte cose abbastanza ordinarie nel campo dell’economia politica, per ottenere le quali, come dicevo prima, non è affatto necessaria l’associazione.

 Senza dubbio, i membri di queste associazioni, nei rapporti reciproci e in quelli con il pubblico, sono animati dai più fraterni sentimenti. Ma sono sicuri che questa fratellanza, ben lontana dall’essere la causa dei loro successi, non abbia al contrario la sua origine nella giustizia severa che regna nei loro reciproci rapporti? si rendono conto di quello che potrebbe accadere se la garanzia della loro impresa non risiedesse in qualcosa di ben diverso dalla carità che li anima, e che non è altro che il cemento dell’edificio del quale il lavoro e le forze che lo moltiplicano sono le pietre?

Quanto alle società che per sostenersi hanno semplicemente la virtù problematica dell’associazione, e la cui attività può esercitarsi in esclusiva, senza riunione di operai, esse stentano moltissimo ad andare avanti e riescono a scongiurare il vuoto della loro costituzione solo grazie agli sforzi di dedizione, ai continui sacrifici, a un illimitato spirito di rassegnazione.

Si citano, come esempio di un rapido successo, le associazioni per la macelleria, che oggi vanno tanto di moda. Questo esempio, meglio di ogni altro, mostra fin dove arriva la disattenzione del pubblico e l’erroneità delle idee.

Le macellerie cosiddette societarie di societario hanno soltanto l’insegna; si tratta della concorrenza organizzata in comune da cittadini di ogni ceto contro il monopolio dei macellai. Non è altro che l’applicazione di un nuovo principio, per non dire di una nuova forza economica, la reciprocità, che consiste nel fatto che quelli che partecipano allo scambio si garantiscono a vicenda, e irrevocabilmente, i loro prodotti a prezzo di costo.

Ora, questo principio sul quale si basano essenzialmente le cosiddette macellerie societarie ha così poco a che fare con l’associazione che in molte di queste macellerie il servizio è assicurato da operai salariati, comandati da un direttore, il quale rappresenta gli accomandanti. Per svolgere questa funzione bastava un macellaio qualsiasi estratto a sorte dalla coalizione, senza bisogno di aggiungere spese di nuovo personale e attrezzature.

Il principio di reciprocità sul quale si fondano le macellerie e le drogherie societarie tende ora a sostituirsi, come elemento organico, a quello della fratellanza nelle associazioni operaie. Ecco il resoconto della «République» del 20 aprile 1851 su una nuova società formata da lavoratori delle sartorie:

Ecco degli operai che mettono in discussione questa sentenza della vecchia economia: senza capitali, niente lavoro, la quale, se avesse un valido fondamento, condannerebbe a una servitù, a una miseria disperata e senza fine, l’innumerevole classe dei lavoratori che, assolutamente sprovvista di capitali, è costretta a vivere alla giornata. Rifiutandosi di accettare questa desolante conclusione della scienza ufficiale, e interrogando le leggi razionali della produzione delle ricchezze e del consumo, questi operai hanno scoperto che il capitale, normalmente considerato come l’elemento generatore del lavoro, in realtà ha solo una utilità convenzionale; che i soli veri agenti della produzione sono l’intelligenza e le braccia dell’uomo, e che quindi è possibile organizzare la produzione, assicurare la circolazione dei prodotti e il loro normale consumo, attraverso la semplice comunicazione diretta dei produttori e dei consumatori, chiamati, dopo la soppressione di un intermediario oneroso e l’instaurazione di rapporti nuovi, a raccogliere quei profitti che vanno attualmente a ingrossare il capitale, questo sovrano dominatore del lavoro, della vita e dei bisogni di tutti.

Secondo questa teoria l’emancipazione dei lavoratori è dunque possibile con la riunione in fascio delle forze individuali e dei bisogni; in altri termini, con l’associazione dei produttori e dei consumatori, che, non avendo più interessi contrapposti, sfuggono irrimediabilmente al dominio del capitale.

In realtà, siccome i bisogni del consumo sono permanenti, se produttori e consumatori entrano in relazione direttamente, se si associano, se si fanno credito, è chiaro che il rialzo o il ribasso, l’aumento artificioso o il deprezzamento arbitrario, che la speculazione fa subire al lavoro e alla produzione, non hanno più ragion d’essere.

Questo è l’ideale della reciprocità e quanto i suoi fondatori hanno già realizzato, nei limiti della loro esperienza, con la creazione di buoni detti di consumo, scambiabili in qualsiasi momento con prodotti dell’associazione. Così, finanziata da quelli che la fanno lavorare, l’associazione consegna i suoi prodotti a prezzo di costo, prelevando per la remunerazione del suo lavoro soltanto il prezzo medio della manodopera. Questa è la soluzione razionale che i soci fondatori hanno voluto dare a tutte le grandi questioni di economia sollevate in questi ultimi tempi e particolarmente alle seguenti:

Abolizione di qualunque forma di sfruttamento;

Annientamento graduale e pacifico dell’azione del capitale; creazione del credito gratuito;

Garanzia ed equa retribuzione del lavoro; emancipazione del proletariato.

L’associazione dei sarti è la prima che sia stata fondata ufficialmente e per così dire scientificamente su una forza economica rimasta fino a oggi oscura e inapplicata nella routine commerciale. Ora, è evidente che l’impiego di questa forza non costituisce affatto un contratto di associazione, ma tutt’al più un contratto di scambio, nel quale la prestazione corrispettiva o il rapporto di reciprocità tra il commerciante e la clientela, se non è formalmente espresso, è almeno sottinteso. E quando l’autore dell’articolo, un vecchio comunista, usa la parola associazione per designare i rapporti nuovi che la reciprocità si propone di sviluppare tra i produttori e i consumatori, è evidente che egli fa qualche concessione a vecchie preoccupazioni mentali, oppure si lascia prender la mano dall’abitudine.

Perciò, pur riconoscendo ai fondatori della reciprocità il merito di aver applicato questo grande principio, il collaboratore della «République» avrebbe dovuto ricordare loro certe nozioni elementari della loro stessa teoria; e cioè che l’obbligo, essenzialmente commutativo e bilaterale da parte del produttore rispetto al consumatore, di consegnare i propri prodotti a prezzo di costo, e che costituisce la nuova potenza economica, non sarebbe più sufficiente a motivare un’associazione di lavoratori se la legge della reciprocità fosse universalmente adottata e praticata; che una società formata su questa unica base, per sostenersi ha bisogno del vantaggio che le deriva dal mancato riconoscimento da parte della maggioranza; e che il giorno in cui, con il consenso di tutti i cittadini, la reciprocità diventasse una legge dell’economia sociale, e un qualunque non associato potesse offrire al pubblico gli stessi vantaggi della società, anzi vantaggi ancora maggiori dato che non avrebbe spese generali da sostenere, la società non avrebbe più alcun motivo di esistere.

Un’altra associazione del genere, il cui meccanismo si avvicina maggiormente alla formula elementare della reciprocità, è la Massaia, della quale lo stesso giornale, la «République», ha parlato nel numero dell’8 maggio. Essa ha lo scopo di fornire ai consumatori, a prezzi ridotti, con garanzie di qualità e senza frode alcuna, tutti gli oggetti di consumo. Per farne parte basta versare la somma di 5 franchi, a titolo di capitale sociale, più 50 centesimi per le spese generali di amministrazione. I soci, si noti bene, non accettano incarichi, né assumono impegni, ma hanno soltanto l’obbligo di pagare gli oggetti che su ordinazione vengono loro forniti a domicilio. Solo l’agente generale è responsabile.

Il principio è sempre lo stesso. Nelle macellerie societarie, la garanzia del basso prezzo, della qualità e del peso è ottenuta tramite una società in accomandita, da cui risulta la fondazione di una macelleria speciale, diretta ad hoc da un agente apposito, facente funzione di padrone e imprenditore. Nella Massaia, un imprenditore generale, rappresentante di tutti i possibili generi commerciali, si incarica, sfruttando 5 franchi di sottoscrizione e 50 centesimi per le spese, di fornire tutti gli oggetti di consumo. Nel caso dei sarti, c’è in più il meccanismo del buono di consumo, abbastanza importante, ma allo stato attuale delle cose non si può dire che li avvantaggi di molto. Supponiamo che tutti i commercianti, fabbricanti e industriali della capitale assumano rispetto al pubblico, e tra di loro, un impegno simile a quello che le macellerie societarie, il fondatore della Massaia, i sarti della reciprocità assumono nei confronti dei loro clienti: l’associazione sarebbe allora universale. Ma è anche chiaro che un’associazione del genere non sarebbe più un’associazione. Si modificherebbero i costumi commerciali, ecco tutto; la reciprocità diventerebbe una legge, e tutti sarebbero liberi, esattamente come prima.

Benché io sia lontano dal pretendere che l’associazione debba scomparire per sempre dal sistema delle transazioni umane, e riconosca anzi che in alcuni casi essa è indispensabile, posso constatare, senza paura di sbagliarmi, che il principio societario si autodistrugge giorno dopo giorno con la sua stessa pratica; e mentre appena tre anni fa gli operai propendevano tutti per l’associazione fraternale, oggi convergono verso un sistema di garanzie che, una volta realizzate, renderà in una miriade di casi superflua l’associazione, mentre, si noti bene, in altri casi la renderà necessaria. In fondo, le associazioni esistenti, con il formare una massa ineluttabile di produttori e di consumatori direttamente in rapporto tra di loro, non possono far altro che portare a quel risultato.

Se poi l’associazione non è affatto una forza produttiva, se al contrario essa è un peso del quale il lavoro tende naturalmente a liberarsi, è chiaro che l’associazione non può più essere considerata come una legge organica; ben lontana dall’assicurare l’equilibrio, essa tende piuttosto a distruggere l’armonia, imponendo a tutti, al posto della giustizia, al posto della responsabilità individuale, la solidarietà. E allora essa non può più sussistere dal punto di vista del diritto e come elemento scientifico, bensì come sentimento, come precetto mistico, divino.

Perciò i promotori a oltranza dell’associazione, sentendo quanto il loro principio sia sterile, contrario alla libertà, e di conseguenza quanto poco possa essere accettato come formula sovrana della rivoluzione, fanno gli sforzi più incredibili per mantenere il fuoco fatuo della fratellanza. Louis Blanc ha rivoltato perfino la parola d’ordine repubblicana, come se avesse voluto rivoluzionare la rivoluzione. Non dice più come tutti, e secondo la tradizione, Libertà, Uguaglianza, Fratellanza, ma dice: Uguaglianza, Fratellanza, Libertà! Oggi noi partiamo dall’uguaglianza, è l’uguaglianza che dobbiamo prendere come primo termine, ed è su di essa che dobbiamo costruire l’edificio nuovo della rivoluzione. Quanto alla libertà, essa si dedurrà dalla fratellanza. Louis Blanc la promette dopo l’associazione, come i preti promettono il paradiso dopo la morte.

Lascio immaginare che cosa può essere un socialismo che si diverte tanto a trasporre le parole.

L’uguaglianza! Avevo sempre creduto che essa fosse il frutto naturale della libertà, la quale almeno non ha bisogno né di teoria né di costrizione. Avevo creduto, dico, che spettasse all’organizzazione delle forze economiche, alla divisione del lavoro, alla concorrenza, al credito, alla reciprocità, e soprattutto all’educazione, far nascere l’uguaglianza. Louis Blanc ha cambiato tutto. Nuovo Sganarello, egli mette l’uguaglianza a sinistra, la libertà a destra, la fratellanza in mezzo, come Gesù Cristo tra il buono e il cattivo ladrone. Noi cessiamo di essere liberi così come ci fa la natura, per divenire in primo luogo uguali: cioè, quello che dovrebbe essere il risultato del lavoro, qui si realizza con un colpo di Stato; dopo di che, ridiventeremo più o meno liberi, come e quanto converrà al governo.

Da ognuno secondo le sue capacità, A ognuno secondo i suoi bisogni.

Così vuole l’uguaglianza secondo Louis Blanc.

Bisogna compiangere le persone la cui capacità rivoluzionaria si riduce, se così posso dire, a questa casistica! Il fatto, però, che appartengano al regno degli innocenti non ci deve impedire di confutarli.

Ricordiamo ancora una volta il principio. L’associazione, così come la definisce Louis Blanc, è un contratto che, totalmente o parzialmente (Società universali e società particolari, Codice civile, art. 1835), mette allo stesso livello i contraenti, subordina le loro libertà al dovere sociale, li spersonalizza, li tratta quasi come Humann trattava i contribuenti quando poneva l’assioma: far rendere all’imposta tutto quello che essa può rendere! Quanto può produrre l’uomo? quanto si spende per nutrirlo? Questa è la domanda suprema che risulta dalla formula – come potrei dire? – declinatoria Da ognuno... A ognuno... con la quale Louis Blanc riassume i diritti e i doveri del socio.

Chi, dunque, valuterà le capacità? chi deciderà i bisogni?

Voi dite che la mia capacità è 100; io invece sostengo che è solo 90. Voi aggiungete che il mio bisogno è 90; e io affermo che è 100. Tra me e voi c’è una differenza di 20, sia sul bisogno sia sulla capacità. Si tratta, in altri termini, del dibattito famoso che si svolge tra l’offerta e la domanda. Chi giudicherà tra me e la società?

Se la società vuol far prevalere, nonostante la mia protesta, il suo parere, io la lascio, punto e basta. La società finisce per mancanza di soci.

Se, con il ricorso alla forza, essa pretende di costringermi, se mi impone il sacrificio e la dedizione, io le dico: ipocrita! mi avete promesso di liberarmi dallo sfruttamento del capitale e del potere, ed ecco che nel nome dell’uguaglianza e della fratellanza siete voi a sfruttarmi. Anche prima, per derubarmi, si esaltava al massimo la mia capacità, e viceversa si attenuavano i miei bisogni. Mi si diceva che i prodotti mi costavano così poco! che per vivere mi bastavano pochissime cose! Voi agite allo stesso modo. Che differenza c’è allora tra la fratellanza e la condizione del salariato?

Delle due l’una: o l’associazione sarà obbligatoria, forzata, e allora è come la schiavitù; oppure sarà libera, e allora ci si chiede: quale garanzia avrà la società che il socio lavori secondo la sua capacità, quale garanzia avrà il socio che l’associazione lo remuneri secondo i suoi bisogni? non è evidente che un dibattito del genere non può che avere una sola soluzione? E questa è che il prodotto e i bisogni si adeguino reciprocamente: il che ci riporta puramente e semplicemente al regime della libertà.

Si rifletta dunque. L’associazione non è una forza economica: è esclusivamente un legame di coscienza, obbligatorio di fronte al tribunale interiore, ma privo di effetto, o piuttosto nocivo, rispetto al lavoro e alla ricchezza. E questo io non lo provo con l’aiuto di un’argomentazione più o meno abile: è il risultato della pratica industriale fin da quando esiste la società. La posterità non comprenderà come sia stato possibile che, in un secolo innovatore, degli scrittori ritenuti all’avanguardia per quanto riguarda la comprensione dei fatti sociali abbiano fatto tanto chiasso intorno a un principio del tutto soggettivo, e per di più già esplorato da tutte le parti e da tutte le generazioni del globo.

Su una popolazione di 36 milioni di uomini, ce ne sono 24 milioni almeno occupati in agricoltura. Questi, non li assocerete mai. A che pro? Il lavoro dei campi non ha bisogno della coreografia societaria, verso la quale il contadino prova una certa ripugnanza. Il contadino, è bene ricordarselo, ha applaudito alla repressione del giugno 1848, perché in tale repressione egli ha visto un atto di libertà contro il comunismo.

Dei 12 milioni di cittadini rimanenti, 6 almeno – fabbricanti, artigiani, impiegati, funzionari, per i quali l’associazione non rappresenta nessuno scopo, nessun profitto o attrattiva – preferiranno sempre rimanere liberi. Ci sono dunque 6 milioni di persone, che compongono in buona parte la classe salariata, le quali, spinte dalla loro attuale condizione, potrebbero accettare di far parte delle società operaie senza pensarci due volte e in buona fede. A questi 6 milioni di persone, padri, madri, fanciulli e vecchi, mi permetto di dire in anticipo che non tarderebbero a liberarsi dal loro giogo volontario se la rivoluzione non desse loro dei motivi per associarsi più seri, più reali di quelli che essi credono di scorgere nel principio, e del quale io ho mostrato la nullità.

Certo, l’associazione ha una sua funzione nell’economia dei popoli; sì, le società operaie, come protesta contro la condizione salariale, come affermazione della reciprocità, e già per questi due motivi così cariche di speranza, sono chiamate a svolgere un ruolo considerevole nel nostro prossimo futuro. Questo ruolo consisterà soprattutto nella gestione dei grandi strumenti del lavoro e nell’esecuzione di certe opere che, per il fatto di richiedere al tempo stesso una grande divisione delle funzioni e una grande forza collettiva, sarebbero dei veri e propri vivai del proletariato se non si applicasse l’associazione, o, per meglio dire, la partecipazione. Per esempio, opere come la costruzione delle ferrovie.

Ma l’associazione in quanto tale non risolve affatto il problema rivoluzionario. Anzi, già di per sé rappresenta un problema la cui soluzione implica che i soci non perdano nulla della loro indipendenza e conservino tutti i vantaggi dell’unione: il che vuol dire che la migliore delle associazioni è quella in cui, grazie a una organizzazione superiore, ci sia il massimo di libertà e il minimo di dedizione.

Perciò le società operaie, oggi quasi del tutto trasformate per quanto riguarda i principi che le guidano, non devono essere giudicate in base ai risultati più o meno felici che ottengono, ma unicamente in base alla loro tendenza occulta, che è quella di affermare e realizzare la repubblica sociale. Che gli operai lo sappiano o l’ignorino, non è nei loro piccoli interessi di società che risiede l’importanza della loro opera; essa è nella negazione del regime capitalista, speculatore e governativo che abbiamo ereditato dalla prima rivoluzione. Più tardi, quando la menzogna politica, l’anarchia mercantile e la feudalità finanziaria saranno state sconfitte, le società dei lavoratori dalle chincaglierie e dai bilboquets dovranno passare ai grandi settori dell’industria, come è loro naturale prerogativa.

Ma come diceva un grande rivoluzionario, san Paolo, bisogna che l’errore faccia il suo corso: «Oportet haereses esse». C’è da temere che non è ancora finita l’epoca delle utopie societarie. L’associazione, per una certa classe di predicatori perdigiorno, per molto tempo ancora sarà un pretesto di agitazione e un veicolo di ciarlatanismo. Con le ambizioni che essa può far nascere, l’invidia che si maschera dietro la sua pretesa dedizione, gli istinti di dominio che risveglia, essa sarà per molto tempo ancora una di quelle incresciose preoccupazioni che ritardano nel popolo la comprensione della rivoluzione. Le stesse società operaie, giustamente orgogliose dei loro primi successi, trasportate dalla concorrenza che esse fanno ai vecchi padroni, inebriate dai segni che già prefigurano la loro futura potenza, pronte come tutte le società a battersi per il loro predominio, avide di potere, difficilmente potranno astenersi da ogni tipo di esagerazione e restare nei limiti della loro funzione. Potranno allora esserci pretese esorbitanti, coalizioni gigantesche, irrazionali, fluttuazioni disastrose, che un’approfondita conoscenza delle leggi dell’economia sociale sarebbe stata invece in grado di prevenire.

A questo proposito, una grande responsabilità storica graverà su Louis Blanc. Proprio lui, al Luxembourg, con il suo gioco di parole Uguaglianza-Fratellanza-Libertà; con le sue incisioni mistiche Da ognuno..., A ognuno..., ha incominciato quell’opposizione miserabile dell’ideologia contro le idee e sollevato contro il socialismo il senso comune. Si è creduto l’ape della rivoluzione, e invece non ne era che la cicala. Possa alla fine, dopo aver avvelenato gli operai con le sue formule assurde, portare alla causa del proletariato, caduta un giorno per sbaglio nelle sue deboli mani, l’obolo della sua astensione e del suo silenzio!

[Da Idée générale de la Révolution au XIXe siècle, trad. it. (estratti): in P. Ansart, P.-J. Proudhon, La Pietra, Milano 1978, pp. 136-150].



capitolo settimo

La critica di Proudhon alle teorie contrattualiste si svolge in analogia alla critica dello Stato. Le teorie contrattualiste affermano che il potere politico è stato generato contemporaneamente alla società civile attraverso un contratto sociale sottoscritto consensualmente da tutti gli individui. Proudhon osserva giustamente come sia assurdo credere che il sociale, fenomeno spontaneo e naturale, sia stato creato dal politico, dimensione artificiosa e culturale. Vi è invece una società permanente, indistruttibile, che sostiene tutte le forme ufficiali comunicando a loro una parte di sé. La società reale è il «noumeno», la società ufficiale è il «fenomeno», la prima è l’essenza, la seconda è lo Stato. Occorre quindi pensare il politico attraverso il sociale, pur nella consapevolezza della distinzione dei due piani. Questa critica investe chiaramente la nozione rousseauiana del contratto sociale, dove esso è appunto per Rousseau l’accordo politico, e per Proudhon invece sinonimo di alienazione della libertà e di sottomissione coatta. Il contratto rousseauiano si presenta ai suoi occhi quale ipotesi troppo irreale perché non fa riferimento alle forze concrete dell’esperienza sociale ed economica. Alla base del contratto sociale di Rousseau, come di tutta la tradizione giacobina, vi è una fondamentale ambiguità dovuta proprio all’indeterminatezza del ruolo del potere, il quale, venendo concepito come indiviso perché nato dal popolo, non può che risolversi in un puro dispotismo: tutto ciò che la storia e l’immaginazione possono suggerire di estrema licenza e di estrema servitù si deduce con facilità e rigore di logica dalla teoria societaria di Rousseau.

La critica proudhoniana si estende comunque a tutte le forme contrattualiste, da quella assolutistica a quella democratica, perché tutte fondate sull’idea che gli uomini debbano cedere la loro autonomia e delegare il loro potere al fine di costruire una sovranità che, volenti o nolenti, dovranno poi rispettare. La teoria della democrazia rappresentativa e del suffragio universale vengono considerate da Proudhon sotto questa luce, e perciò valutate una grande illusione mistificatoria. A suo giudizio è assurdo sperare che la democrazia rappresentativa esprima le idee e gli interessi generali. Un delegato, eletto al fine di conciliare le idee e i problemi di tutti o almeno di una parte dei suoi mandanti, rappresenterà sempre invece una sola idea e un solo interesse; un’assemblea, per quanto voglia rappresentare la pluralità degli elettori, non potrà alla fine che esprimere la sola opinione della sua maggioranza. Così, dichiarando l’opinione di metà del parlamento espressione della volontà popolare, si perverrà inevitabilmente a una tirannia maggioritaria. La rivoluzione politica voluta dai democratici non ha perciò come obiettivo quello di restituire al popolo la sua sovranità per mezzo della distruzione dell’autorità, ma al contrario quello di fare della democrazia una nuova autorità, un nuovo potere più forte e più solido perché fondato questa volta su un consenso popolare allargato ottenuto tramite una mistificazione.

Il rifiuto della democrazia rappresentativa indica qual è l’atteggiamento e il giudizio di Proudhon verso ogni forma di rappresentanza e di delega, specialmente per quanto riguarda l’emancipazione delle classi inferiori. Si può dire senz’altro che la teoria proudhoniana della separazione fra società politica e società economica, fra Stato e società, sta alla base del principio fondamentale secondo il quale l’emancipazione dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori stessi.

Più estesamente, questa idea, che ha il suo fondamento nel concetto di autonomia delle masse, afferma che l’emancipazione umana può avvenire solo senza l’aiuto del governo e senza l’aiuto di qualsiasi consorteria o fazione rivoluzionaria separata dal popolo.



 Il nuovo contratto sociale

La forma sotto la quale i primi uomini hanno concepito l’ordine nella società è la forma patriarcale o gerarchica, cioè, in teoria l’autorità, in pratica il governo. La giustizia, che più tardi è stata distinta in distributiva e commutativa, dapprima è apparsa loro solo sotto il primo aspetto: un superiore che dà agli inferiori ciò che a ognuno di essi spetta.

L’idea di governo nacque dunque dai costumi della famiglia e dall’esperienza domestica: allora non ci fu alcuna protesta perché alla società l’esistenza del governo pareva un fatto naturale come il rapporto di subordinazione che nella famiglia si stabilisce tra padre e figli. Sicché de Bonald ha potuto affermare, a ragione, che la famiglia è l’embrione dello Stato, del quale riproduce le categorie essenziali: il re nel padre, il ministro nella madre, il suddito nel figlio. Anche per questo i socialisti della fratellanza, che considerano la famiglia come un elemento della società, arrivano tutti alla dittatura, la forma più esagerata di governo. L’amministrazione di Cabet, nei suoi Stati di Nauvoo, ne è un bell’esempio. Quanto tempo ancora ci occorrerà per comprendere questa filiazione di idee?

 La concezione primitiva dell’ordine che discende dal governo appartiene a tutti i popoli. E se, fin dall’origine, gli sforzi che sono stati compiuti per organizzare, limitare, modificare l’azione del potere, per adeguarla ai bisogni generali e alle circostanze, pure dimostrano che c’era una negazione implicita nell’affermazione, è certo però che nessuna ipotesi antagonistica è stata espressa; lo spirito è ovunque rimasto lo stesso. A mano a mano che le nazioni sono uscite dallo stato selvaggio e dalla barbarie, hanno imboccato immediatamente la strada del governo e seguito tutte lo stesso ciclo istituzionale: sono passate, tanto per usare categorie ormai comuni a tutti gli storici e ai pubblicisti, dalla monarchia, all’aristocrazia, alla democrazia.

Ma c’è qualcosa di più grave ancora.

Il pregiudizio del governo è penetrato fin nel più profondo delle coscienze, ha modellato la ragione a sua immagine e somiglianza, tanto che qualsiasi concezione diversa si è resa per lungo tempo impossibile; e i pensatori più audaci sono arrivati alla conclusione che il governo era una calamità, senza dubbio, un castigo per l’umanità, e però un male necessario!

Ecco perché, fino ai nostri giorni, le rivoluzioni più emancipatrici, e tutti i fermenti di libertà, sono sbocciati costantemente in un atto di fede e di sottomissione al potere; e perché tutte le rivoluzioni non sono servite che a ripristinare la tirannia: io qui non faccio eccezioni né per la costituzione del 1793 né per quella del 1848, che pure sono le due espressioni più avanzate della democrazia francese. Ciò che ha mantenuto questa predisposizione mentale e reso così a lungo invincibile l’incanto è il fatto che, in seguito alla supposta analogia tra la società e la famiglia, il governo si è sempre presentato come l’organo naturale della giustizia, il protettore del debole, il preservatore della pace. Considerato come un ente provvidenziale e altamente garante, il governo è riuscito a radicarsi sia nei cuori sia nelle menti! Ha partecipato dell’anima universale; è stato la fede, la superstizione segreta, invincibile, dei cittadini. Se per caso si è mostrato debole, di lui si è detto, come della religione e della proprietà: non è l’istituzione che è cattiva, è l’abuso. Non è il re che è cattivo, sono i suoi ministri. Ah! se venisse a saperlo il re!

Così al dato della gerarchia, dell’assolutismo, dell’autorità governante, si è aggiunto un ideale intimo e in costante contraddizione con l’istinto di uguaglianza e di indipendenza; e se il popolo, a ogni rivoluzione, seguendo le ispirazioni del suo cuore, ha creduto di correggere i vizi del suo governo, è stato invece tradito dalle sue stesse idee: credendo di ripristinare il potere a suo favore, in realtà se lo è ritrovato sempre contro; invece che a un protettore, esso si è consegnato a un tiranno.

L’esperienza mostra, in realtà, che per quanto popolare possa essere stata la sua origine il governo si è schierato sempre e ovunque dalla parte della classe più colta e più ricca contro quella più povera e più numerosa; che, dopo essersi mostrato per un po’ di tempo liberale, a poco a poco è diventato governo d’eccezione, esclusivo; che infine, invece di sostenere la libertà e l’uguaglianza fra tutti, ha fatto di tutto per distruggerle, in virtù della sua inclinazione naturale al privilegio.

Abbiamo mostrato, in un altro studio, come dal 1789 la Rivoluzione non abbia fondato nulla; la società, secondo l’espressione di Royer-Collard, sia stata ridotta in polvere; la distribuzione delle fortune affidata al caso; e come, di conseguenza, il governo, che ha la missione di proteggere sia le proprietà sia le persone, di fatto sia stato istituito per i ricchi contro i poveri. Chi può negare adesso che questa anomalia, che pure si è pensato fosse specifica della costituzione politica del nostro Paese, è comune a tutti i governi? Mai si è vista la proprietà dipendere esclusivamente dal lavoro; in nessuna epoca il lavoro è stato garantito dall’equilibrio delle forze economiche: da questo punto di vista, la civiltà del XIX secolo non è più avanzata della barbarie delle prime ere. L’autorità, difendendo i diritti di fatto stabiliti, proteggendo gli interessi acquisiti, si è schierata sempre dalla parte della ricchezza e contro la povertà: la storia dei governi è il martirologio del proletariato.

 Questa inevitabile defezione del potere dalla causa popolare va analizzata soprattutto nel caso della democrazia, ultimo termine dell’evoluzione del principio di governo.

Cosa fa il popolo quando, stanco dei suoi aristocratici, indignato per la corruzione dei suoi principi, proclama la propria sovranità, ovvero l’autorità dei propri suffragi?

Esso si dice: innanzi tutto, nella società ci vuole ordine. Custode di questo ordine, che deve essere per noi la libertà e l’uguaglianza, è il governo.

Ebbene, si controlli il governo; la costituzione e le leggi diventino l’espressione della nostra volontà; si faccia in modo che funzionari e magistrati, eletti da noi al nostro servizio e revocabili in qualunque momento, non possano mai intraprendere qualcosa di diverso da quello che la volontà del popolo avrà stabilito. Si può allora essere sicuri, a condizione che la nostra sorveglianza non si allenti mai, che il governo curerà i nostri interessi, non servirà soltanto ai ricchi e non sarà più preda di ambiziosi e intriganti; e le cose andranno avanti a nostro piacimento e a nostro vantaggio.

Così ragiona la massa in tutte le epoche di oppressione. Ragionamento semplice, di una logica elementarissima, e che riesce sempre a produrre il suo risultato. Anche se questa massa, d’accordo con Considérant e Rittinghausen, arrivasse ad affermare: i nostri nemici sono quelli stessi che noi mandiamo al governo, quindi governiamoci da noi e saremo liberi, la logica non cambierebbe. Se non cambia il principio, cioè il governo, non può cambiare neppure la conclusione.

Sono ormai mille anni che questa teoria risarcisce le classi oppresse e gli oratori che le difendono. Il governo diretto non risale né a Francoforte, né alla Convenzione, né a Rousseau: ha la stessa età del governo indiretto, risale alla fondazione delle società.

Niente monarchia ereditaria, Niente presidenza,

Niente rappresentanza,

 Niente delega,

Niente alienazione del potere,

Governo diretto,

Il POPOLO nell’esercizio permanente della sua sovranità.

Che c’è dunque alla base di questo ritornello che si è ripreso come se fosse una tesi nuova e rivoluzionaria, e che Ateniesi, Beoti, Lacedemoni, Romani, ecc., non abbiano già conosciuto, praticato, molto prima della nostra era? Non si tratta sempre dello stesso circolo vizioso, sempre dello stesso precipitare verso l’assurdo, che dopo aver esaurito, eliminato una dopo l’altra monarchie assolute, monarchie aristocratiche o rappresentative, democrazie, giunge a toccare il limite del governo diretto, per ricominciare daccapo con la dittatura a vita e la monarchia ereditaria? Presso tutte le nazioni, quella del governo diretto è stata l’epoca palingenetica delle aristocrazie distrutte e dei troni spezzati: questo tipo di governo non ha potuto reggersi neppure presso popoli, come quelli di Atene e Sparta, che avevano il vantaggio di una popolazione minima e del servizio degli schiavi. Da noi sarebbe il preludio del cesarismo, nonostante le nostre ferrovie, le poste, i telegrafi; nonostante la semplificazione delle leggi, la revocabilità dei funzionari, la forma imperativa del mandato. Ci farebbe precipitare verso la tirannia imperiale tanto più in fretta in quanto i nostri proletari non vogliono più essere salariati, i proprietari non sopporterebbero di essere spossessati, e i fautori del governo diretto, ponendo ogni cosa sul piano della politica, sembrano non avere alcuna idea dell’organizzazione economica. Un altro passo in questa direzione e rispunta l’aurora dell’era dei Cesari: a una democrazia inestricabile succederà, senza altri passaggi, l’impero, con o senza Napoleone.

Occorre uscire da questo cerchio infernale. Occorre traversare, da parte a parte, l’idea politica, la vecchia nozione di giustizia distributiva e giungere a quella di giustizia commutativa, che, nella logica della storia come in quella del diritto, le fa seguito. Eh! voi che volete non vedere, che cercate tra le nuvole qualcosa che già avete sottomano, rileggete i vostri autori, guardatevi intorno, analizzate le vostre stesse formule, e troverete la soluzione, che si trascina da tempo immemorabile attraverso i secoli, e che voi, insieme con i vostri corifei, non avete mai degnato di uno sguardo.

Nella ragione generale, tutte le idee sono coeterne: esse appaiono una dopo l’altra soltanto nella storia, dove, a mano a mano, esse si vengono a mettere alla testa delle cose e in prima fila. L’operazione con la quale una idea viene espulsa dal potere, nella logica, si chiama negazione; quella con la quale un’altra idea si insedia, si chiama affermazione. Ogni negazione rivoluzionaria implica dunque un’affermazione susseguente; questo principio, che la pratica delle rivoluzioni dimostra, riceverà a questo punto una stupefacente conferma.

La prima negazione autentica che sia stata fatta dell’idea di autorità è quella di Lutero. Questa negazione, tuttavia, non è andata al di là dalla sfera religiosa: Lutero, come Leibniz, Kant, Hegel, era uno spirito essenzialmente di governo. La sua negazione ha preso il nome di libero esame.

Ora, che cosa nega il libero esame? L’autorità della Chiesa. Che cosa lo suppone? L’autorità della ragione. Che cos’è la ragione? Un patto tra l’intuizione e l’esperienza.

L’autorità della ragione: questa è dunque l’idea positiva, eterna, che la Riforma ha sostituito all’autorità della fede. Se un tempo la filosofia dipendeva dalla Rivelazione, sarà ormai la Rivelazione a essere subordinata alla filosofia. Sono invertite le parti, il governo della società non è più lo stesso, la morale è cambiata, il destino stesso sembra modificarsi. Già si può scorgere, al punto in cui siamo, la vera portata di quel rinnovamento di sogno caratterizzato dalla successione del verbo dell’uomo alla parola di Dio.

Lo stesso movimento sta per prodursi nella sfera delle idee politiche.

Dopo Lutero, il principio del libero esame fu trasportato, soprattutto da Jurieu, dallo spirituale al temporale. Alla sovranità del diritto divino, l’avversario di Bossuet oppose la sovranità del popolo; cosa che egli espresse con grandissima precisione, forza, profondità, nell’idea di patto o contratto sociale, ponendola manifestamente in contraddizione con quelle di potere, autorità, governo, imperium, arché.

Che cos’è in realtà il contratto sociale? l’accordo del cittadino con il governo? No, sarebbe come girarsi e rigirarsi nella stessa idea. Il contratto sociale è l’accordo dell’uomo con l’uomo, accordo dal quale deve derivare ciò che noi chiamiamo società. Qui la nozione di giustizia commutativa, posta dal fatto primitivo dello scambio e definita dal diritto romano, soppianta quella di giustizia distributiva, definitivamente liquidata dalla critica repubblicana. Traducete le parole contratto e giustizia commutativa, che appartengono alla lingua giuridica, nella lingua degli affari e avrete il commercio, cioè, nel significato più elevato, l’atto attraverso il quale gli uomini, in quanto si dichiarano essenzialmente produttori, rinunciano l’uno nei confronti dell’altro a ogni aspirazione al governo.

La giustizia commutativa, il dominio dei contratti, in altri termini il dominio economico o industriale, sono i vari sinonimi dell’idea che, con il suo avvento, deve sopprimere il vecchio sistema della giustizia distributiva, del dominio delle leggi, o in termini più concreti, il regime feudale, governativo e militare. L’avvenire dell’umanità sta in questa sostituzione.

Ma prima che questa rivoluzione dottrinaria possa definirsi, prima che sia compresa, e prima, soprattutto, che si impadronisca delle popolazioni, le uniche che possono renderla esecutiva, quanti dibattiti sterili! che sonnolenza di idee! che tempi per agitatori e sofisti! Dal tempo della controversia tra Jurieu e Bossuet fino alla pubblicazione del Contratto sociale di Rousseau, c’è quasi un secolo di distanza; e quando quest’ultimo arriva, prende la parola non per rivendicare l’idea, bensì per soffocarla.

Rousseau, la cui autorità ci governa da circa un secolo, non ha capito niente del contratto sociale. A lui soprattutto occorre risalire se si vuol rintracciare la causa della grande deviazione del 1793, già espiata con cinquantasette anni di sterili rivolgimenti, e che alcuni temperamenti più focosi che riflessivi vorrebbero ancora farci riprendere come una tradizione sacra.

L’idea di contratto non è compatibile con l’idea di governo: su questo punto richiamo l’attenzione di Ledru-Rollin, il quale, da giureconsulto, dovrebbe conoscere il problema. Ciò che caratterizza il contratto, la convenzione commutativa, è il fatto che proprio in virtù di tale convenzione la libertà e il benessere dell’uomo aumentano, mentre con l’istituzione di un’autorità diminuiscono necessariamente sia l’una sia l’altro. La cosa apparirà in tutta la sua evidenza se si riflette che il contratto è l’atto attraverso il quale due o più individui decidono di predisporre tra di loro, in una misura e per un tempo determinati, quella potenza industriale che noi chiamiamo scambio; e di conseguenza si obbligano e si garantiscono reciprocamente una certa somma di servizi, prodotti, diritti, doveri, ecc., che possono procurarsi e rendersi, riconoscendosi del resto perfettamente indipendenti, sia per il loro consumo, sia per la loro produzione.

Fra contraenti, il rapporto è tale che deve esistere per ognuno un interesse reale e personale, il quale implica che un uomo tratti allo scopo di ridurre nello stesso tempo la sua libertà e il suo reddito. Tra governanti e governati, al contrario, qualunque forma assuma la rappresentanza, la delega o la funzione di governo, c’è necessariamente alienazione di una parte della libertà e della fortuna del cittadino: in cambio di che? L’abbiamo spiegato prima.

Nel contratto dunque le prestazioni sono essenzialmente corrispettive: l’unica obbligazione che esso impone ai contraenti è quella che risulta dalla loro reciproca promessa personale; non è sottoposto ad alcuna autorità esterna; detta soltanto la legge comune alle parti, dall’iniziativa delle quali dipende anche la sua esecuzione.

Se il contratto allora è questo, nella sua accezione più generale e nella pratica quotidiana, che cosa sarà il contratto sociale, che dovrebbe riunire tutti i membri di una nazione in uno stesso interesse?

Il contratto sociale è l’atto supremo con il quale ogni cittadino cede alla società il suo amore, la sua intelligenza, il suo lavoro, i suoi servizi, i suoi prodotti, i suoi beni; in cambio dell’affetto, delle idee, dei lavori, prodotti, servizi e beni dei suoi simili: la misura del diritto di ciascuno è determinata sempre dalla misura del suo apporto, cioè quello che è possibile ottenere dipende sempre da quanto si cede.

Così, il contratto sociale deve abbracciare l’universalità dei cittadini, dei loro interessi e dei loro rapporti. Se anche un solo uomo fosse escluso dal contratto, se uno solo degli interessi sui quali i membri della nazione, esseri intelligenti, industriosi, sensibili, sono chiamati a trattare, fosse omesso, il contratto sarebbe più o meno relativo e particolare; non sarebbe sociale.

Il contratto sociale deve far aumentare il benessere e la libertà per ogni cittadino. Se vi si introducesse surrettiziamente una qualche ingiustizia; se una parte dei cittadini si trovasse, in virtù del contratto, in posizione subalterna e fosse sfruttata dall’altra, non si tratterebbe più di un contratto ma di una frode; di conseguenza, si potrebbe invocare in qualsiasi momento e con pieno diritto la rescissione del contratto.

Il contratto sociale deve essere liberamente deciso, individualmente accettato, firmato manu propria da tutti coloro i quali vi partecipano. Se la discussione fosse impedita, troncata, elusa; se il consenso fosse estorto con l’inganno; se la firma fosse apposta in bianco, oppure a occhi chiusi, senza la lettura degli articoli e senza alcuna spiegazione preliminare; o se addirittura, come per il giuramento militare, essa fosse pregiudicata e forzata, il contratto sociale non sarebbe altro allora che una cospirazione contro la libertà e il benessere degli individui più ignoranti, deboli e numerosi, una spoliazione sistematica contro la quale ogni mezzo di resistenza e anche di rappresaglia potrebbe diventare un diritto e un dovere.

Aggiungiamo che il contratto sociale, di cui si sta qui parlando, non ha nulla in comune con il contratto di associazione, con il quale, come abbiamo mostrato in un precedente studio, il contraente aliena una parte della sua libertà e si sottomette a una solidarietà imbarazzante, spesso rischiosa, nella speranza più o meno fondata di un beneficio. Il contratto sociale appartiene per essenza al contratto commutativo: non soltanto lascia libero il contraente, ma accresce la sua libertà; non soltanto lascia intatti i suoi beni, ma fa aumentare la sua proprietà; non prescrive nulla al suo lavoro; si basa esclusivamente sui suoi scambi: tutti elementi, questi, che non si ritrovano nel contratto di associazione, anzi sono in contraddizione con esso.

Così deve essere, secondo le definizioni del diritto e la pratica universale, il contratto sociale. Occorre dire ora che, di questa molteplicità di rapporti che il patto sociale è chiamato a definire e a regolare, Rousseau non ha visto che i rapporti politici, così sopprimendo dal contratto i punti fondamentali per occuparsi solamente di quelli secondari? Occorre dire che di queste condizioni essenziali, indispensabili – la libertà assoluta del contraente, il suo intervento diretto, personale, la firma apposta con cognizione di causa, l’accrescimento di libertà e benessere che vi deve trovare – Rousseau non ne ha capita e rispettata alcuna?

Per lui, il contratto sociale non è né un atto commutativo né un atto di associazione: Rousseau si guarda bene dall’invischiarsi in considerazioni del genere. È un atto con il quale si istituiscono degli arbitri, scelti dai cittadini, al di fuori di ogni convenzione preliminare, per tutti i casi di contestazione, lite, frode o violenza che possono presentarsi nei rapporti che a loro piacerà in seguito intrecciare; e vengono investiti, questi arbitri, di una forza sufficiente per dare esecuzione alle loro sentenze e farsi pagare le vacazioni.

Nel libro di Rousseau non c’è traccia di un contratto positivo, reale, o basato su qualche interesse concreto. Per dare una idea esatta della sua teoria, non posso far di meglio che paragonarla a un trattato commerciale, nel quale però fossero stati soppressi i nomi delle parti, lo scopo della convenzione, la natura e l’importanza dei valori, prodotti e servizi per i quali si doveva trattare, le condizioni di qualità, consegna, prezzo, rimborso, in una parola tutto ciò che costituisce la materia dei contratti... e ci si fosse invece occupati esclusivamente di pene e tribunali.

 In verità, cittadino di Ginevra, voi dite cose giustissime. Ma prima di parlarmi del sovrano e del principe, delle guardie e del giudice, mi dite almeno per che cosa dovrei partecipare al contratto? Come! Voi mi fate firmare un atto in virtù del quale io posso essere perseguito per mille contravvenzioni dalla polizia urbana, rurale, fluviale, forestale, ecc.; vedermi tradotto davanti ai tribunali, giudicato, condannato per danno, truffa, razzia, rapina, bancarotta, devastazione, disobbedienza alle leggi dello Stato, offesa alla morale pubblica, vagabondaggio; e in questo atto non trovo una parola né sui miei diritti, né sui miei obblighi: vedo solo pene!

Ma ogni pena presuppone un dovere, senza dubbio, e a ogni dovere corrisponde un diritto. Ebbene, dove sono, nel vostro contratto, i miei diritti e i miei doveri? che cosa ho promesso ai miei concittadini? ed essi, a me, che cosa hanno promesso? Bisogna che lo diciate: altrimenti il vostro sistema delle pene è un eccesso di potere; il vostro Stato di diritto, una flagrante usurpazione; la vostra polizia, le vostre sentenze e le vostre esecuzioni, altrettanti atti abusivi. Voi che avete così ben negato la proprietà, che avete messo sotto accusa con magniloquenza la disuguaglianza delle condizioni tra gli uomini, quale condizione, quale posto mi avete destinato nella vostra repubblica per sentirvi in diritto di giudicarmi, di mettermi in carcere, di togliermi la vita e l’onore? Perfido retore, avete gridato tanto contro gli sfruttatori e i tiranni solo per consegnarmi a essi indifeso.

Così Rousseau definisce il contratto sociale:

Trovate una forma di associazione che difenda e protegga, con tutta la forza comune, la persona e i beni di ogni socio, e attraverso la quale ognuno, unendosi a tutti, non obbedisca che a se stesso, e resti libero come prima.

Sono queste, certo, le condizioni del patto sociale per quanto riguarda la protezione e la difesa dei beni e delle persone. Ma sul modo di acquistare, di trasferire dei beni, sul lavoro, lo scambio, il

 valore e il prezzo dei prodotti, sull’educazione, su quell’insieme di rapporti in base ai quali, volente o nolente, l’uomo entra in società con i suoi simili, Rousseau non dice nulla, e la sua teoria è veramente futile. Ora, chi non ammette che, senza una definizione dei diritti e dei doveri, non è possibile alcun tipo di transazione; che dove non ci sono clausole contrattuali, non possono esserci neppure infrazioni, né di conseguenza colpevoli; e per concludere nel pieno rispetto del rigore filosofico, che una società che punisce e che uccide in virtù di un simile titolo, dopo aver provocato la rivolta, commette essa stessa un assassinio premeditato?

Rousseau è tanto lontano dal volere che si faccia menzione, nel contratto sociale, dei principi e delle leggi che governano la fortuna delle nazioni e dei singoli individui, che egli, nel suo programma demagogico, come nel Trattato sull’educazione, parte dall’ipotesi menzognera, spogliatrice, omicida, che solo l’individuo è buono e che è la società a renderlo depravato; che all’uomo, di conseguenza, conviene astenersi il più possibile da ogni relazione con i suoi simili, e che tutto quanto ci resta da fare in questo basso mondo, rimanendo nel nostro isolamento sistematico, consiste nello stabilire tra di noi una reciproca assicurazione per la protezione delle nostre persone e dei nostri beni; il sovrappiù, e cioè la cosa economica, la sola essenziale, viene abbandonato al capriccio della nascita e della speculazione, e sottomesso, in caso di contestazione, all’arbitrato di esperti elettivi, che giudicano ricorrendo ai loro manuali di diritto o appellandosi all’equità naturale della ragione. In due parole, il contratto sociale, secondo Rousseau, non è altro che l’alleanza offensiva e difensiva fra quelli che possiedono contro quelli che non possiedono, e la parte che vi prende ogni cittadino è la polizza che egli è tenuto a saldare, proporzionalmente alla sua fortuna e secondo la gravità dei rischi che il pauperismo gli fa correre.

È questo patto di odio, monumento di insanabile misantropia; questa coalizione fra i baroni della proprietà, del commercio e dell’industria contro le esigenze del proletariato; questa promessa di

 guerra sociale; è questo, insomma, ciò che Rousseau chiama contratto sociale, con una tracotanza che non esiterei a definire scellerata se solo credessi nel genio di quest’uomo!

Ma quand’anche il virtuoso e sensibile Jean-Jacques si fosse proposto di eternare la discordia tra gli uomini, avrebbe potuto far altro di meglio che offrire loro, come contratto di unione, la carta del loro eterno antagonismo? Basta guardarlo all’opera: nella sua teoria del governo riconoscerete lo stesso spirito che ha ispirato la sua teoria dell’educazione. Come è l’insegnante, tale è l’uomo di Stato. Se il pedagogo predica l’isolamento, il funzionario semina la divisione.

Dopo aver posto per principio che il popolo è l’unico sovrano, che esso non può che rappresentarsi da solo, che la legge deve essere l’espressione della volontà di tutti, e altre magnifiche banalità che tutti i tribuni utilizzano, Rousseau abbandona surrettiziamente la sua tesi e si mette da parte. Per cominciare, alla volontà generale, collettiva, individuale, sostituisce la volontà della maggioranza; poi, con il pretesto che non è possibile per una nazione occuparsi della cosa pubblica dalla mattina alla sera, avanza la tesi della nomina, attraverso le elezioni, dei rappresentanti o dei mandatari che dovranno legiferare in nome del popolo e i cui decreti avranno forza di leggi. Al posto di una transazione diretta, personale sui suoi interessi, al cittadino non resta altro che la facoltà di scegliersi gli arbitri a maggioranza. Dopo di che, Rousseau può sentirsi a proprio agio. La tirannia, che si appellava al diritto divino, era odiosa; allora egli la riorganizza e la rende rispettabile, facendola, dice lui, derivare dal popolo. Invece del patto universale, integrale, che deve assicurare tutti i diritti, favorire tutte le facoltà, provvedere a tutti i bisogni, prevenire tutte le difficoltà, che tutti devono conoscere, approvare, firmare, egli ci offre, che cosa?, esattamente quello che oggi viene chiamato governo diretto, una ricetta, per mezzo della quale, proprio in assenza di ogni monarchia, aristocrazia, corpo ecclesiastico, è sempre possibile giustificare il parassitismo della minoranza e l’oppressione della maggioranza con il richiamo alla collettività astratta del popolo. È in una parola la legalizzazione del caos sociale, ricavata con l’aiuto di un sotterfugio intellettuale; la consacrazione della miseria, dedotta dalla sovranità del popolo. Del resto, non una parola sul lavoro, sulla proprietà, o sulle forze industriali, che pure il contratto sociale ha lo scopo di organizzare. Rousseau non sa che cos’è l’economia. Il suo programma parla esclusivamente di diritti politici; non riconosce diritti economici.

Rousseau ci insegna che il popolo, ente collettivo, non ha esistenza unitaria; che è una persona astratta, una individualità morale, e come tale incapace di pensare, agire, muoversi: il che vuol dire che non c’è nulla che distingua la ragione generale dalla ragione individuale, e perciò rappresenta meglio la prima colui il quale sviluppa maggiormente in sé la seconda. Affermazione falsa che conduce direttamente al dispotismo.

Poi Rousseau da questo primo errore deduce e traduce nei seguenti aforismi i punti salienti della sua teoria liberticida, e così ci insegna:

Che il governo popolare o diretto deriva essenzialmente dall’alienazione della libertà di ognuno a vantaggio di tutti;

Che la separazione dei poteri è la prima condizione di un governo libero;

Che in una repubblica ben costituita non può essere permessa alcuna associazione o riunione particolare di cittadini, perché costituirebbe uno Stato nello Stato, un governo nel governo;

Che sovrano e principe non sono affatto la stessa cosa, e anzi il primo non esclude il secondo, di modo che il governo più diretto può benissimo coesistere con una monarchia ereditaria: una combinazione che abbiamo già visto sotto Luigi Filippo, e che certuni vorrebbero rivedere;

Che il sovrano, cioè il popolo, in quanto entità fittizia, persona morale, concetto puro dell’intelletto, ha come suo rappresentante naturale e visibile il principe, il quale più tende a essere uno solo, più conta;

 Che il governo non è qualcosa che sta dentro la società, ma qualcosa di esterno a essa;

Che, sempre secondo questa catena di considerazioni che in Rousseau si susseguono con una logica geometrica, una vera democrazia non è mai esistita, e non esisterà mai, perché, se nella democrazia è la maggioranza che deve votare le leggi ed esercitare il potere, è però contrario all’ordine naturale il fatto che la maggioranza governi e la minoranza sia governata;

Che il governo diretto è in particolare impraticabile in un Paese come la Francia, perché bisognerebbe per prima cosa livellare le fortune, e l’uguaglianza delle fortune è impossibile;

Che del resto, e precisamente a causa dell’impossibilità di mantenere l’uguaglianza, il governo diretto è quello più instabile, più pericoloso, quello che più degli altri può generare catastrofi e guerre civili;

Che siccome le democrazie antiche, pur essendo piccole e mantenute dalla schiavitù, non sono riuscite a sopravvivere, sarebbe vano introdurre da noi questa forma di governo;

Che essa va bene per degli esseri divini, non per gli uomini.

Dopo aver in tal modo e a lungo preso in giro i suoi lettori, dopo aver scritto sotto il titolo deludente, in verità, di Contratto sociale, il codice della tirannia capitalistica e mercantile, il ciarlatano ginevrino conclude che il proletariato, la subordinazione del lavoratore, la dittatura e l’inquisizione sono cose necessarie.

È privilegio dei letterati, a quanto pare, rimpiazzare la ragione e la moralità con le loro capacità stilistiche.

Mai uomo aveva assommato a tal punto l’orgoglio dello spirito, l’aridità dell’animo, la bassezza delle inclinazioni, la depravazione dei costumi, l’ingratitudine del cuore; mai l’eloquenza delle passioni, l’ostentazione della sensibilità, l’impudenza del paradosso, avevano provocato una simile infatuazione. Dopo Rousseau, e proprio in base al suo insegnamento, è sorta da noi la scuola, o meglio, l’industria filantropica e sentimentale che, pur coltivando il più perfetto egoismo, è capace di raccogliere gli onori della carità e della dedizione. Diffidate di questa filosofia, di questa politica, di questo socialismo alla Rousseau. La sua filosofia è fatta di belle parole che servono solo a coprirne il vuoto; la sua politica si costituisce essenzialmente sul dominio; quanto alle sue idee sulla società, esse riescono appena a mascherare la loro profonda ipocrisia. Quelli che leggono Rousseau e l’ammirano possono semplicemente essersi lasciati abbindolare, e io li scuso: ma a quelli che lo seguono e lo copiano dico che farebbero bene a badare alla propria reputazione. Si avvicina il tempo in cui basterà una citazione di Rousseau per rendere sospetto uno scrittore.

Diciamo per finire che, a onta del XVIII secolo e del nostro, il Contratto sociale di Rousseau, capolavoro di destrezza oratoria, è stato ammirato, portato alle stelle, ritenuto la tavola delle libertà pubbliche; che costituenti, girondini, giacobini, cordelieri vi andarono tutti a cercare l’oracolo; che ha fatto da testo alla costituzione del 1793, dichiarata assurda dai suoi autori; e che a questo libro ancora oggi si ispirano i più zelanti riformatori della scienza politica e sociale. Il cadavere dell’autore, che il popolo trascinerà a Montfaucon il giorno in cui avrà capito il senso delle parole libertà, giustizia, morale, ragione, società, ordine, riposa glorioso e venerato sotto le catacombe del Pantheon, dove non entrerà mai nessuno di quegli onesti lavoratori che nutrono con sangue e sudore la loro povera famiglia, mentre i grandi geni che vengono esposti alla loro adorazione mandano, nel loro osceno furore, i loro bastardi all’ospedale.

Ogni aberrazione della coscienza pubblica porta con sé la sua pena. Il successo di Rousseau è costato alla Francia più oro, sangue e disonore di quanto non gliene avesse fatto spargere il regno detestato delle tre famose cortigiane, Cotillon I, Cotillon II, Cotillon III (la Châteauroux, la Pompadour e la Dubarry). La nostra patria, che ha dovuto patire sempre a causa dell’influenza straniera, deve a Rousseau le lotte sanguinose e le delusioni del 1793.

E così, mentre la tradizione rivoluzionaria del XVIII secolo ci consegnava come antitesi dell’idea di governo quella di contratto sociale, che il genio gallico, così giuridico, avrebbe sicuramente approfondito, è bastato l’artificio di un retore per distoglierci dalla vera strada e far differire l’interpretazione. La negazione del governo, che sta al fondo dell’utopia di Morelly; che gettò un barlume, subito spento, attraverso le manifestazioni sinistre degli Arrabbiati e degli Hebertisti; che sarebbe emersa dalle dottrine di Babeuf, se Babeuf avesse saputo ragionare e dedurre il principio che lo ispirava: questa grande e decisiva negazione traversò, incompresa, tutto il XVIII secolo.

Ma una idea non può perire: essa rinasce sempre dalla sua idea contraddittoria. Il trionfo di Rousseau significa solo che un giorno egli sarà detestato di più. In attesa della deduzione teorica e pratica dell’idea contrattuale, l’esperienza completa del principio di autorità servirà a educare l’umanità. Dal compimento stesso di questa evoluzione politica emergerà, alla fine, l’ipotesi opposta: il governo, consumandosi da solo, partorirà, come un suo postulato storico, il socialismo.

Fu Saint-Simon il primo a riprendere le fila, sia pure con un linguaggio incerto e una coscienza ancora poco chiara. «La specie umana», scriveva fin dal 1818, «ha dovuto prima vivere sotto il regime governativo e feudale. Essa è stata destinata a passare dal regime governativo o militare sotto il regime amministrativo o industriale, dopo aver fatto abbastanza progressi nelle scienze positive e nell’industria. Infine, a causa della sua stessa organizzazione, essa è stata costretta a sopportare una crisi lunga e violenta, nella fase del suo passaggio dal sistema militare al sistema pacifico. L’epoca attuale è un’epoca di transizione. La crisi di transizione è incominciata con la predicazione di Lutero: da allora, la direzione degli spiriti è stata essenzialmente critica e rivoluzionaria».

Poi, a sostegno delle sue idee, Saint-Simon cita una serie di uomini di Stato che avrebbero avuto l’idea più o meno vaga di questa grandiosa metamorfosi: Sully, Colbert, Turgot, Necker, lo stesso Villèle; e una serie di filosofi: Bacone, Montesquieu, Condorcet, Comte, Constant, Cousin, de Laborde, Fiévée, Dunoyer, ecc. Saint-Simon è tutto qui, in queste poche righe, scritte con uno stile profetico, ma non troppo digeribili per l’epoca in cui vennero scritte, troppo condensate per i giovani che per primi si legarono al nobile innovatore. Qui non si parla, si noti bene, né della comunità dei beni e delle donne, né della riabilitazione della carne, né dell’androgino, né del Padre Supremo, né del Circulus, né della Triade. Nulla di quanto è stato volgarizzato dai discepoli appartiene al maestro: anzi, i sansimoniani hanno misconosciuto proprio l’idea di Saint-Simon.

Cosa ha voluto dire Saint-Simon?

Dal momento in cui, da una parte, la filosofia succede alla fede e sostituisce la vecchia nozione di governo con quella di contratto; e, dall’altra parte, in seguito a una rivoluzione che abolisce il regime feudale, la società chiede di poter sviluppare, armonizzare le sue potenze economiche: da questo momento in poi è inevitabile che il governo, negato in teoria, si distrugga progressivamente nella pratica. E quando Saint-Simon, per designare questo nuovo ordine di cose, in conformità con il vecchio stile, usa il termine governo unito con l’attributo amministrativo o industriale, è evidente che la parola in questione assume nel suo contesto un significato metaforico, o piuttosto analogico, che poteva ingannare soltanto i profani. Non è possibile ingannarsi sul pensiero di Saint-Simon se si legge il brano, ancora più esplicito, che cito qui di seguito:

Se si osserva l’andamento che segue l’educazione degli individui, si nota, nelle scuole primarie, che l’azione del governare è la più forte; e a mano a mano che si sale ai gradi più elevati, si vede che l’azione del governare tende a diminuire la sua intensità, mentre l’insegnamento svolge un ruolo sempre più importante. La stessa cosa si può dire a proposito dell’educazione della società. L’azione militare, cioè feudale (di governo), all’origine è stata necessariamente preponderante e ha dovuto acquistare sempre più importanza; a sua volta il potere amministrativo deve necessariamente finire con il dominare il potere militare.

 A questi passaggi di Saint-Simon bisognerebbe aggiungere la sua famosa Parabola che, nel 1819, cadde sul mondo ufficiale come una scure, e a causa della quale l’autore fu tradotto davanti alla Corte d’assise il 20 febbraio 1820 e assolto. Questo brano è troppo esteso, e del resto abbastanza conosciuto, per poterlo qui riportare.

La negazione di Saint-Simon, come si vede, non è dedotta dall’idea di contratto, che Rousseau e i suoi seguaci avevano da ottant’anni corrotto e disonorato; essa deriva da una intuizione diversa, completamente sperimentale e a posteriori, come si addice a un osservatore dei fatti. Quello che la teoria del contratto, ispirazione della logica provvidenziale, avrebbe fin dal tempo di Jurieu fatto intravedere nell’avvenire della società è la fine dei governi; questo, appunto, constata Saint-Simon in base alla legge dell’evoluzione dell’umanità, e quando ormai la mischia fra i sostenitori del parlamento è giunta al colmo. Così, la teoria del diritto e la filosofia della storia, come due punti fermi posti l’uno davanti all’altro, hanno instradato lo spirito verso una rivoluzione sconosciuta: ancora un passo, e arriviamo al fatto.

Tutte le strade portano a Roma, dice il proverbio. Tutte le indagini portano anche alla verità.

Il XVIII secolo, credo di averlo dimostrato con abbondanza di particolari, se non fosse stato messo fuori strada dal repubblicanesimo classico di Rousseau, retrogrado e declamatorio, sarebbe giunto, attraverso lo sviluppo dell’idea di contratto, cioè per via giuridica, alla negazione del governo.

Saint-Simon ha dedotto questa negazione dall’osservazione storica e dall’educazione dell’umanità. A mia volta, io l’ho dedotta, se mi è consentito citarmi in questo momento in cui sono il solo a rappresentare il dato rivoluzionario, dall’analisi delle funzioni economiche e dalla teoria del credito o dello scambio. Non ho bisogno, credo, per dimostrarlo, di richiamare le diverse opere e articoli nei quali mi sono occupato dell’argomento: da tre anni essi hanno suscitato abbastanza scalpore.

Così, l’Idea, germe incorruttibile, traversa i tempi, illuminando di quando in quando qualche uomo di buona volontà, fino al giorno in cui una intelligenza che non si lascia intimidire la raccoglie, la lascia covare, poi la lancia come una meteora sulle masse elettrizzate.

L’idea di contratto, nata dalla Riforma in opposizione con quella di governo, ha traversato il XVII e XVIII secolo senza che alcun pubblicista la rilevasse, senza che un solo rivoluzionario la vedesse. Anzi, le più illustri figure della Chiesa, della filosofia, della politica, si misero insieme per combatterla. Rousseau, Sieyès, Robespierre, Guizot, tutta la scuola dei sostenitori del parlamento sono stati gli alfieri della reazione. Un uomo, messo in guardia, anche se abbastanza tardi, dalla degradazione del principio conduttore della storia, riporta alla luce l’idea giovane e feconda: disgraziatamente l’aspetto più appariscente della sua dottrina inganna i suoi stessi discepoli; essi non si accorgono che il produttore è la negazione del governante, che l’organizzazione è incompatibile con l’autorità; così, per altri trent’anni si perde di vista la formula. Finalmente, essa si impadronisce dell’opinione pubblica a forza di proteste e di scandali; ma allora, o vanas hominum mentes, o pectora cœca! Le reazioni determinano le rivoluzioni! L’idea anarchica è appena impiantata nel suolo popolare che subito dei sedicenti conservatori vengono a innaffiarla con le loro calunnie, a ingrassarla con le loro violenze, a riscaldarla sotto le vetrate del loro odio, a soccorrerla in tutti i modi con le loro stupide reazioni. Grazie a loro, oggi dall’idea anarchica sono spuntate l’idea antigovernativa, l’idea del lavoro, l’idea del contratto; e cresce, sale, si arrampica sulle società operaie; e fra non molto, come il minuscolo seme del Vangelo, sarà un albero immenso che con i suoi rami coprirà tutta la terra.

Dato che alla sovranità della Rivelazione si è sostituita quella della Ragione; che la nozione di contratto succede a quella di governo; che l’evoluzione storica conduce fatalmente l’umanità a una nuova pratica; che la critica economica già constata che sotto il nuovo regime l’istituzione politica deve essere assorbita dall’organismo industriale, concludiamo tranquillamente che la formula rivoluzionaria non può più essere né quella della legislazione diretta, né quella del governo diretto, e neppure quella del governo semplificato, bensì quella dell’abolizione del governo.

Né monarchia, né aristocrazia e neppure democrazia, in quanto quest’ultima implicherebbe comunque un governo che agisce in nome del popolo e si sostituisce al popolo. Nessuna autorità, nessun governo, anche se popolare: ecco la rivoluzione.

Legislazione diretta, governo diretto, governo semplificato, vecchie menzogne che sarebbe vano tentare di ringiovanire. Diretto o indiretto, semplice o composto, il governo del popolo farà sempre sparire il popolo. È sempre il dominio dell’uomo sull’uomo; la finzione che fa violenza alla libertà; la forza brutale che pone fine alle questioni, che invece solo la giustizia può risolvere; l’ambizione perversa che si fa sgabello della dedizione e della credulità. No, non prevarrà l’antica serpe: a furia di attorcigliarsi sulla questione del governo diretto, questa volta si è strangolata da sola. Ora che possediamo, in una stessa antitesi, l’idea politica e l’idea economica, la produzione e il governo, che possiamo reciprocamente dedurle l’una dall’altra, provarle, confrontarle, non c’è più da temere la reazione del neogiacobinismo. Quelli ancora affascinati dallo scisma di Robespierre saranno domani gli ortodossi della rivoluzione.

[Da Idée générale de la Révolution au XIXe siècle, trad. it. (estratti): in P. Ansart, P.-J. Proudhon , La Pietra, Milano 1978, pp. 155-170].



capitolo ottavo

Secondo Proudhon, la dialettica sociale non può risolvere in una sintesi superiore le opposizioni della vita socio-economica. Tale concezione, che vede nel continuo svolgimento delle antinomie la struttura stessa del sociale, lo porta a formulare la dottrina del federalismo pluralista, considerata l’unica realistica perché le contraddizioni, costituendo la linfa vitale della società, sono insopprimibili. Il federalismo pluralista si definisce da una parte come critica di tutte le dottrine stataliste, uniciste, assolutistiche, in quanto utopistiche e reazionarie, e dall’altra come metodo regolativo, più che costitutivo, dei rapporti socio-economici. Esso infatti deve garantire, con la sua dimensione aperta, l’uguale possibilità di espressione di ogni individuo o gruppo, in armonia con le proprie esigenze geografiche e le proprie tradizioni storiche. Il sistema federativo deve essere insomma il risultato degli equilibri da ricercarsi nel rapporto fra gruppi e individui, fra unità e molteplicità, fra società globale e raggruppamenti particolari, fra coesione e libertà. Tuttavia, ciò che costituisce l’essenza e il carattere del contratto federativo – egli precisa – è che in un tale sistema i contraenti si riservano più diritto, autorità e proprietà di quanto non ne abbandonino. Per sorreggere questo disegno fondamentalmente libertario ed egualitario, Proudhon ha concepito il mutualismo economico, il solo in grado di rendere operante tale impianto strutturale. Il mutualismo in senso economico è un socialismo pluralista, decentralizzato, fondato sull’autogestione, da parte dei produttori, della proprietà federale degli strumenti di produzione. Esso realizza contemporaneamente la democrazia industriale, sotto il diretto controllo dei lavoratori, e una democrazia politica il cui unico scopo è di essere al servizio di quella industriale.

La proprietà nel regime autogestionario e federalistico diventa una funzione definitivamente sottomessa alla regolamentazione interna del nuovo diritto economico e della giustizia sociale. Su questa proprietà federalizzata, che cambia non solo di soggetto ma di natura, Proudhon fa poggiare la federazione agricolo-industriale, la quale attribuisce gli strumenti di produzione contemporaneamente all’insieme della società economica, a ogni regione, a ogni gruppo di lavoratori, a ogni operaio e contadino considerati individualmente. Essa organizza una proprietà federativa e mutualista dei mezzi di produzione i cui possessori sono simultaneamente l’intera organizzazione economica, centrale e regionale, le diverse branche dell’industria, ogni fabbrica e infine ogni lavoratore. Il possesso universalizzato non comporta però la spartizione della proprietà, che resta una e indivisa. In altri termini, gli individui possono richiedere il riscatto della loro parte, prodotta dal proprio lavoro, al fine di realizzare un’altra ulteriore unità produttiva o sociale, senza pretendere tuttavia la divisione della proprietà precedente. Così, considerata in se stessa, l’idea di una federazione industriale serve di compimento e di sanzione alla federazione politica, perché riceve la conferma più schiacciante dai principi dell’economia.



Il federalismo

Se il lettore ha seguito con un po’ di attenzione quanto abbiamo esposto fin qui, la società umana deve apparirgli come una creazione fantastica, piena di cause di stupore e di misteri. Ne riassumeremo brevemente i termini:

1. l’ordine politico riposa su due principi strettamente connessi, opposti e irriducibili: l’autorità e la libertà;

2. da questi due principi, si deducono parallelamente due regimi contrari: il regime assolutista o autoritario, e il regime liberale; 3. le forme di questi due regimi sono altrettanto differenti fra di loro, incompatibili e logicamente inconciliabili, quanto le loro nature; le abbiamo definite con due parole: indivisione e separazione

(del potere);

4. la ragione ci dice che ogni dottrina deve svilupparsi secondo

i suoi principi, ogni essere secondo la sua legge: la coerenza è la condizione della vita come del pensiero. Ma in politica si verifica esattamente il contrario: né l’autorità né la libertà possono costituirsi per conto loro, creare un sistema che sia esclusivamente loro proprio; anzi, sono precisamente condannate, quando vogliono stabilire ciascuna il proprio regime, a ricorrere reciprocamente e perpetuamente al principio opposto;

5. la conseguenza che ne risulta è che, siccome la fedeltà ai principi è possibile solo nella politica teorica ma la pratica è obbligata a transazioni di ogni sorta, ogni governo si riduce, a guardar bene, malgrado la miglior volontà e la più gran virtù possibile, a una creazione ibrida, equivoca, a una promiscuità di regimi che la logica ripudia e davanti alla quale la buona fede arretra spaventata; nessun governo sfugge a tale contraddizione;

6. in conclusione: la pratica politica divenendo sempre più e fatalmente preda dell’arbitrario, la corruzione si impadronisce presto del potere, e la società è trascinata, senza posa e senza risorsa, sul piano inclinato delle rivoluzioni continue. [...]

Dovremo osservare dapprima come i due principi, autorità e libertà, dai quali vengono tutte le difficoltà, si mostrano nella storia in una successione logica e cronologica. L’autorità, come la famiglia, come il padre, genitor, compare per prima: essa ha l’iniziativa, è un’affermazione. La libertà, coi suoi ragionamenti, viene dopo: è la critica, la protesta, la libera decisione. Le ragioni di questo ordine successivo risultano dai concetti stessi di tali principi e dalla natura delle cose, e la storia conferma questo ragionamento. In ciò non è possibile il dubbio e nessuna arbitraria inversione. Un’altra osservazione, non meno importante, è che il regime autoritario, paternalistico e monarchico, si allontana tanto più dal proprio ideale quanto più numerosa diviene la famiglia, tribù o città, e quanto più lo Stato cresce in popolazione e territorio: cosicché più l’autorità si estende, più diventa intollerabile. Donde le concessioni che essa è obbligata a fare all’opposto principio di libertà. Inversamente, il regime di libertà, quanto più lo Stato cresce in popolazione ed estensione, quanto più si moltiplicano i rapporti fra gli uomini e progredisce la scienza, tanto più si accosta al proprio ideale e acquista probabilità di successo. Prima si comincerà a reclamare da ogni parte la costituzione, più tardi si arriverà alla decentralizzazione. Pazientando un po’, si potrà veder sorgere l’idea di federazione. In conclusione, si potrà applicare alla libertà e all’autorità quello che diceva Giovanni Battista di sé e di Gesù: «Illam oportet crescere, hanc autem minui».

Questo duplice moto, l’uno retrogrado e l’altro progressivo, che si risolve in un fenomeno unico, risulta tanto dalla definizione concettuale dei principi, quanto dalla loro posizione reciproca e dalla loro azione. E anche qui non è possibile l’equivoco, e non c’è posto per nessuna interpretazione arbitraria: la cosa si impone per evidenza intuitiva e certezza matematica. Siamo in presenza di una legge.

La conseguenza di questa legge, che si può chiamare necessaria, è necessaria a sua volta: il principio di autorità, che compare per primo ed è come la materia o il dato da elaborare della libertà, della ragione e del diritto, viene a poco a poco subordinato dal principio giuridico, razionalista e liberale; come il capo di Stato, che dapprima inviolabile, irresponsabile, assoluto, vero pater familias, diventa poi giudicabile dalla ragione, primo soggetto di legge, e infine semplice agente, strumento o servitore della libertà.

Questa terza proposizione è altrettanto certa delle prime due, esente da ogni equivoco e contraddizione, e chiaramente confermata dalla storia. Nella lotta eterna fra i due principi, la Rivoluzione francese, al pari della Riforma, rappresenta un’era di critica: essa ci fa vedere, nell’ordine politico, la libertà che toglie ufficialmente il primato all’autorità, così come la Riforma, nell’ordine religioso, contrassegnò il momento in cui il libero esame è venuto a prevalere sulla semplice fede. Dopo Lutero infatti ogni credenza religiosa si è fatta ragionatrice: l’ortodossia, non meno dell’eresia, ha assunto la pretesa di condurre l’uomo alla fede per mezzo della ragione. Il precetto di san Paolo, Rationabile sit obsequium vestrum, è stato sempre più largamente commentato e messo in pratica, Roma si è messa a discutere come Ginevra, e la religione tende a imporsi come una scienza.

 La sottomissione alla Chiesa si è complicata di tante condizioni e riserve che, salvo la differenza degli articoli di fede, non c’è più stata differenza di mentalità fra il cristiano e il non credente: essi non hanno la stessa opinione, questo è certo, ma per il resto, quanto a modo di pensare, di ragionare, quanto a coscienza, tutti e due si comportano allo stesso modo. Similmente, dopo la Rivoluzione francese, il prestigio dell’autorità è diminuito: la deferenza agli ordini di un principio è divenuta condizionale, si esige dal sovrano una specie di reciprocità, delle garanzie. La mentalità politica è cambiata: anche i monarchici più ferventi hanno voluto avere delle carte costituzionali come i vecchi baroni di Giovanni Senzaterra, e i Berryer, i Falloux, i Montalembert possono dichiararsi altrettanto liberali dei nostri democratici. Châteaubriand, il bardo della Restaurazione, si vantava di essere filosofo repubblicano: con un semplice atto del suo libero arbitrio si nominò difensore dell’altare e del trono. E sono note le vicende del cattolicesimo spinto di Lamennais.

Così, mentre l’autorità è pericolante, diventando di giorno in giorno più precaria, il sentimento del diritto si afferma e la libertà, sempre sospetta, diviene tuttavia sempre più reale e più forte. L’assolutismo resiste quanto può, ma batte in ritirata: sembra che la repubblica, sempre combattuta, calunniata, tradita, bandita, avanzi tuttavia a passi di gigante. Qual partito trarremo noi da un fatto così capitale per la costituzione dei governi?

Considerato che, nell’ordine teorico come nella realtà storica, l’autorità e la libertà si succedono come per una specie di polarizzazione; che la prima cala insensibilmente e si ritira, mentre la seconda cresce e si impone; che risulta da questo duplice moto una specie di subalternizzazione dell’autorità, la quale si rimette sempre più alle leggi della libertà; che, in altri termini, il regime liberale o contrattuale guadagna ogni dì sul regime autoritario, risulta che dovremo riferirci al concetto di contratto, come all’idea attualmente dominante nella politica. [...]

 Il contratto politico non acquista tutta la sua dignità e moralità se non a condizione:

1. di essere sinallagmatico e commutativo;

2. di essere circoscritto, riguardo al suo oggetto, entro certi limiti; due condizioni che si presuppongono esistenti sotto il regime democratico, ma che anche in esso troppo sovente non sono che una finzione. Possiamo forse dire che in una democrazia rappresentativa e centralizzatrice, in una monarchia costituzionale e censitaria, e tanto meno poi in una repubblica comunistica sul tipo di Platone, il contratto politico che lega il cittadino allo Stato sia perfetto e reciproco? Possiamo forse dire che questo contratto, che toglie ai cittadini la metà o i due terzi della loro sovranità e il quarto del loro prodotto, sia circoscritto entro giusti limiti? Sarebbe più esatto dire, come l’esperienza troppo spesso ci insegna, che il contratto in tutti questi sistemi è esorbitante, oneroso, essendo, per una parte più o meno considerevole dei cittadini, un impegno senza giusta contropartita; e anche aleatorio, poiché il vantaggio promesso in cambio, già insufficiente, non è neppur sicuro.

Affinché il contratto politico risponda alla condizione sinallagmatica e commutativa che l’idea stessa di democrazia esige, affinché, contenuto in giusti limiti, resti vantaggioso e comodo per tutti, bisogna che il cittadino, entrando in questa società:

1. abbia a ricevere dallo Stato tanto quanto egli sacrifica allo Stato;

2. che conservi tutta la propria libertà, la propria sovranità e il diritto di iniziativa, salvo per la parte relativa allo speciale oggetto per il quale si è fatto il contratto e si è chiesta la garanzia allo Stato. Così regolato e inteso in tal senso, il contratto politico diventa quello che io chiamo una federazione.

Federazione, dal latino foedus, genitivo foederis, vale a dire patto, 194

 contratto, trattato, convenzione, alleanza, ecc., è una convenzione in virtù della quale uno o più capi di famiglia, uno o più comuni, uno o più gruppi di comuni e Stati, si obbligano reciprocamente e su un piede di uguaglianza gli uni verso gli altri, per uno o più scopi particolari che diventano da quel momento particolare ed esclusiva incombenza dei delegati della federazione*. Esaminiamo bene questa definizione.

Quello che fa l’essenza e il carattere del contratto federale, sul quale richiamo l’attenzione del lettore, è che in tale sistema i contraenti, capi di famiglia o comuni, cantoni, province o Stati, non solo si impegnano bilateralmente e commutativamente gli uni verso gli altri, ma si riservano singolarmente, nel formare il patto, una quantità di diritti, di libertà, di autorità, di proprietà, maggiore di quella che essi sacrificano.

Così non è, per esempio, nella società universale di beni e profitti autorizzata dal codice civile, detta solitamente «società in comunanza», che è l’immagine in miniatura di tutti gli Stati assoluti. Colui che si impegna in un’associazione di tale specie, soprattutto se essa è perpetua, è limitato da legami, è soggetto a impegni, per una parte maggiore dell’iniziativa che conserva. Ed è questo che rende un tale contratto così raro e che in ogni tempo ha reso generalmente insopportabile la vita cenobitica. Qualsiasi impegno, anche sinallagmatico e commutativo, che, chiedendo agli associati la totalità dei loro sforzi, non lascia nulla alla loro indipendenza e li rende completamente votati all’associazione, è un impegno eccessivo, che ripugna tanto al cittadino come al privato individuo.

In base a tali principi, il contratto di federazione, avendo per scopo, in linea generale, di garantire agli Stati confederati la loro sovranità, l’integrità del territorio, la libertà dei cittadini; di regolare pacificamente le loro controversie; di attuare quei provvedimenti di carattere generale che riguardano la sicurezza e la prosperità comune; un tale contratto, dico, malgrado l’importanza degli interessi in gioco, è essenzialmente limitato. L’autorità che ha il compito di metterlo in esecuzione non potrà mai opprimere le parti associate: vale a dire che le attribuzioni delle autorità federali non potranno mai prevalere in numero e peso su quelle delle autorità comunali e provinciali, così come queste non potranno condizionare eccessivamente i diritti e le prerogative dell’uomo e del cittadino. Perché se così non fosse, il comune diventerebbe una circoscrizione, la federazione tornerebbe a essere uno Stato centralizzato di tipo monarchico, e l’autorità federale, da semplice mandataria subordinata alla volontà dei contraenti, come deve essere, si presenterebbe come preponderante: invece di essere limitata a un servizio speciale, sarebbe intesa a occuparsi di tutte le attività e le iniziative, e gli Stati confederati si troverebbero ridotti a prefetture, intendenze o succursali. Tutto il corpo politico così ridotto, potrebbe allora chiamarsi repubblica, o democrazia, o con qualunque altro nome, ma non sarebbe più uno Stato costituito nella pienezza delle sue autonomie, non sarebbe più una confederazione. E la stessa cosa accadrebbe, a maggior ragione, se, per qualche errato calcolo di economia, per deferenze particolari, o per qualunque altra causa, comuni, cantoni o Stati confederati incaricassero uno di loro dell’amministrazione e del governo di tutti. La repubblica da federativa diventerebbe unitaria e sarebbe sulla via del dispotismo.

 In conclusione, il sistema federativo è esattamente il contrario della gerarchia o centralizzazione amministrativa e governativa, che è il contrassegno, indistintamente, delle democrazie imperiali, delle monarchie costituzionali e delle repubbliche unitarie. La sua legge fondamentale, caratteristica, è la seguente: «Nella federazione, le attribuzioni dell’autorità centrale si restringono, diminuiscono, man mano che la confederazione si sviluppa con l’accesso di nuovi Stati». Nei governi centralizzati, invece, le attribuzioni del potere supremo si moltiplicano, si estendono, si fanno più dirette e immediate, accrescono le loro competenze sugli affari di province, comuni, corporazioni, e su quelli dei cittadini, in ragione diretta della superficie territoriale e della massa della popolazione. E ne viene quella schiacciante pressione sotto la quale sparisce ogni libertà, non solamente comunale e provinciale, ma anche individuale e nazionale.

Una conseguenza di questo patto, con la quale chiuderemo il capitolo, è che, essendo il sistema unitario l’inverso del sistema federativo, una confederazione tra grandi monarchie costituzionali, e a maggior ragione tra democrazie imperiali, è una cosa impossibile. Stati come la Francia, l’Austria, l’Inghilterra, la Russia, la Prussia, possono stringere fra loro trattati di alleanza e di commercio, ma non possono confederarsi: prima di tutto perché il principio sul quale si sono costituiti, essendo di natura contrario a ciò, li metterebbe in opposizione con il patto federale; il quale, dal canto suo, li obbligherebbe a rinunciare in parte alla loro sovranità e a riconoscere al di sopra di sé, almeno in certi casi, un’autorità arbitrale. Viceversa, la natura di questi Stati è di comandare, non di transigere o di obbedire. I principi che nel 1813, sostenuti dalla ribellione delle masse, combattevano per la libertà dell’Europa contro il dispotismo napoleonico, e più tardi formarono la Santa Alleanza, non erano dei «confederati»: l’assolutismo dei loro Stati non permetteva loro di assumere quel titolo. Essi erano, come nel 1792, dei coalizzati; e la storia non darà loro altro nome. Diverso è il caso della Confederazione germanica, che è entrata in un periodo di riforme, e nella quale l’affermarsi della libertà e della nazionalità rischia di far sparire a un certo momento le dinastie che vi fanno ostacolo. [...]

L’idea di federazione è antica nella storia quanto quelle di monarchia e democrazia, anzi quanto l’autorità e la libertà. Come potrebbe essere altrimenti? Tutto ciò cui la legge del progresso dà vita affonda le sue radici nella natura. La civiltà cammina, condizionata dai suoi principi, preceduta, seguita e avviluppata dal suo corteo di idee; e la federazione, fondata sul contratto, espressione solenne della libertà, non poteva non essere presente. [...]

Per lunghi secoli l’idea di federazione sembra velata e tenuta in riserva: ciò è da spiegarsi con l’iniziale incapacità delle nazioni e con la conseguente necessità di formarle con una rigida disciplina. Tale è il ruolo che, per una certa qual superiore determinazione, pare sia stato affidato al sistema unitario. Era necessario infatti domare, fissare le moltitudini erranti, rozze e disorganizzate, riunire in gruppi le città isolate e ostili, fondare a poco a poco, di autorità, un diritto comune e imporre, in forma categorica, le leggi generali dell’umanità. Non si potrebbe attribuire altro significato a queste grandi creazioni politiche dell’antichità, cui succedettero in seguito, mano a mano, gli imperi dei Greci, dei Romani, poi dei francesi, la Chiesa cristiana, la rivolta di Lutero, e finalmente la Rivoluzione francese.

La federazione non avrebbe potuto adempiere a questa missione educatrice in primo luogo perché, essendo basata sulla libertà, rifiuta l’idea di costrizione e riposa sulla nozione di contratto sinallagmatico, commutativo e limitato; in secondo luogo perché suo compito è garantire la sovranità dell’autonomia ai popoli che unisce: agli stessi che inizialmente si trattava di tenere sotto il giogo nell’attesa che fossero in grado di governarsi da sé, con la ragione. In breve, essendo la civiltà per sua natura progressiva, una forma di governo federativo che si fosse instaurata sin dagli inizi avrebbe implicato una contraddizione.

Un altro motivo di esclusione provvisoria per il principio federativo è da ricercarsi nella ridotta capacità di espansione degli Stati riuniti in federazioni. Abbiamo detto nel II capitolo che la monarchia, per sé e in virtù del suo principio, non conosce limiti al proprio sviluppo e che lo stesso vale per la democrazia. Questa facoltà di espansione è passata dai governi semplici, o a priori, ai governi misti, o di fatto, aristocrazie e democrazie, imperi democratici e monarchie costituzionali che, indistintamente, sotto questo profilo hanno fedelmente obbedito al loro principio. Da lì sono nati i sogni messianici e tutti i tentativi di monarchia o repubblica universale.

In questi sistemi la tendenza all’inglobamento non ha fine: si può tranquillamente affermare che in essi l’idea di «frontiera naturale» è una finzione, o per meglio dire una soperchieria politica; i fiumi, le montagne e i mari sono considerati non più come limiti territoriali, ma come ostacoli che il sovrano e la nazione hanno quasi il dovere di superare. Ciò è nella logica del principio: la facoltà di possedere, di accumulare, di comandare e di sfruttare è infinita, non ha che l’universo come confini. L’esempio più famoso di questo accaparramento di territori e di popolazioni, a dispetto di montagne, fiumi, foreste, mari e deserti, è stato l’impero romano, che aveva il suo centro e la sua capitale in una penisola, in seno a un vasto mare, e le sue province tutte intorno, raggiungibili, anche se lontane, dai suoi eserciti e dai suoi funzionari.

Ogni Stato è per sua natura annessionista. Nulla arresta il suo cammino invasore, tranne l’incontro con un altro Stato, invasore anch’esso e in grado di fronteggiarlo. I propugnatori più accesi del principio di nazionalità non mancano, all’occasione, dal contraddirsi quando ne va dell’interesse e, a maggior ragione, della sicurezza del loro Paese: chi nella democrazia francese avrebbe osato reclamare contro l’annessione della Savoia e di Nizza? Non è neppure tanto raro vedere le annessioni favorite dagli stessi annessi, che mercanteggiano la loro indipendenza e la loro autonomia. Diverso è quanto accade nel sistema federativo. In grado di difendersi egregiamente se attaccata – gli svizzeri l’hanno più volte dimostrato – una confederazione è invece molto debole quando si tratta di conquistare. Eccettuato il caso, molto raro, in cui uno Stato vicino chieda di essere accolto nel patto, si può dire che, proprio per una questione vitale, di sopravvivenza, essa si preclude ogni possibilità di ampliamento. Infatti, in virtù del principio che limitando l’oggetto del patto di federazione alla mutua difesa e a qualche fine di comune utilità, essa garantisce a ogni Stato il suo territorio, la sua sovranità, la sua costituzione, la libertà dei suoi cittadini, riservandogli in più autorità, iniziativa, potenza, in misura maggiore di quel che esso sacrifica, la confederazione si autoimpone dei limiti; limiti tanto più rigorosi quanto più le località ammesse nell’alleanza sono distanti tra loro, così che si arriva a un punto in cui il patto si trova a non avere più logica giustificativa.

Supponiamo che uno degli Stati confederati formuli il progetto di una conquista particolare, che desideri annettere una città vicina, una provincia confinante, che voglia intromettersi negli affari di un altro Stato; non solo non potrà contare sull’appoggio della confederazione, la quale risponderà che il patto è stato stipulato nell’ottica della mutua difesa e non dell’espansione di un singolo, ma si vedrà anche ostacolato nella sua impresa dalla solidarietà federale che non consente che tutti si espongano alla guerra per le ambizioni di uno solo. In tal modo una confederazione è allo stesso tempo una garanzia per i suoi membri e per i suoi vicini.

Così, contrariamente a ciò che accade per altre forme di governo, l’idea di una confederazione universale è contraddittoria. In questo si manifesta una volta di più la superiorità morale del sistema federativo sul sistema unitario, esposto a tutti gli inconvenienti e a tutti i vizi dell’indefinito, dell’illimitato, dell’assoluto e dell’ideale.

L’Europa stessa sarebbe troppo grande per una confederazione unica: essa potrebbe formare soltanto una confederazione di confederazioni. È in base a questo concetto che, nella mia ultima pubblicazione, indicavo come primo passo da fare nella riforma del diritto pubblico europeo il ristabilimento delle confederazioni italiana, greca, batava, scandinava e danubiana, come preludio alla decentralizzazione dei grandi Stati e, in seguito, al disarmo generale.

Ogni nazionalità tornerebbe allora alla libertà e prenderebbe corpo, in tal caso, l’idea di un equilibrio europeo, auspicato da tutti i pubblicisti e gli uomini di Stato, ma irrealizzabile finché sussisteranno grandi potenze unitarie.

Non meraviglia quindi che l’idea di federazione, condannata a una esistenza quieta e modesta, a vivere sulla scena politica il ruolo più negletto, sia rimasta sino ai nostri giorni offuscata dallo splendore dei grandi Stati. Avendo sempre i pregiudizi e gli abusi di ogni genere pullulato e infierito con la stessa intensità sia negli Stati federativi che nelle monarchie feudali o unitarie – pregiudizio di nobiltà, privilegio di borghesia, autorità della Chiesa, con la conseguente totale oppressione del popolo e servitù dello spirito – la libertà è rimasta imprigionata in una camicia di forza e la civiltà impantanata in un invincibile status quo.

Nel sistema federativo, simili motivi di apprensione non esistono. L’autorità centrale, promotrice più che esecutrice, non dispone che di una parte assai limitata della pubblica amministrazione, quella che concerne i soli servizi federali; essa è posta sotto il controllo degli Stati, padroni assoluti di se stessi, che godono, per quanto rispettivamente li concerne, dell’autorità più completa, legislativa, esecutiva e giudiziaria. Il potere centrale è meglio subordinato in quanto è affidato a un’assemblea formata dai delegati degli Stati, membri anch’essi, molto spesso, dei relativi governi, che per questa ragione esercitano sugli atti dell’assemblea federale una sorveglianza tanto più accurata e severa.

Come dal punto di vista politico due o più Stati indipendenti possono confederarsi per garantire reciprocamente l’integrità dei rispettivi territori o per proteggere le proprie libertà, così dal punto di vista economico possono confederarsi per la protezione reciproca del commercio e dell’industria, realizzando quel che si chiama «unione doganale». Si possono confederare, inoltre, per la costruzione e la manutenzione delle vie di comunicazione, strade, canali, ferrovie, per l’organizzazione del credito e dell’assicurazione, ecc.

Lo scopo di queste particolari federazioni è di sottrarre i cittadini degli Stati contraenti allo sfruttamento capitalista e burocratico tanto all’interno che all’esterno; esse costituiscono nel loro insieme, in opposizione al feudalesimo finanziario oggi dominante, ciò che chiamerò «federazione agricolo-industriale». Non entrerò al riguardo in una specifica trattazione. Chi da quindici anni ha più o meno seguito i miei lavori sa cosa intendo dire. Il feudalesimo finanziario e industriale ha come scopo di consacrare, attraverso la monopolizzazione dei servizi pubblici, il privilegio dell’istruzione, la parcellizzazione del lavoro, la remunerazione del capitale, la disuguaglianza delle imposte, ecc., la fragilità politica delle masse, il servaggio economico o salariato, in una parola, la disuguaglianza delle condizioni sociali e delle ricchezze. La federazione agricolo-industriale, al contrario, tende a raggiungere per approssimazioni successive l’uguaglianza, organizzando al minor costo possibile, e in altre mani che quelle dello Stato, tutti i servizi pubblici, mediante la liberalizzazione del credito e dell’assicurazione, con la perequazione dell’imposta, garantendo il lavoro e l’istruzione, per mezzo di una combinazione del lavoro che permetta a ogni lavoratore di divenire da operaio semplice operaio specializzato, e da salariato impiegato. Una simile rivoluzione non potrebbe evidentemente essere opera di una monarchia borghese né di una democrazia unitaria: è compito della federazione.

Essa non rientra nel contratto unilaterale o di «beneficenza», né nelle istituzioni di carità; rientra invece nel contratto sinallagmatico e commutativo. Considerata in sé, l’idea di una federazione industriale che serva di complemento e ratifica alla federazione politica riceve la conferma più evidente dai principi dell’economia. È l’applicazione sulla più alta scala dei principi di mutualità, della divisione del lavoro e della solidarietà economica che la volontà del popolo trasformerebbe in leggi dello Stato.

Che il lavoro resti libero, che il potere, più letale per il lavoro dello stesso sistema comunista, si astenga dall’intervenire in questo campo: e sarebbe ora! Ma le industrie sono sorelle, sono legate tra loro: l’una non può soffrire senza che le altre ne risentano. Che si federino dunque, non per assorbirsi e fondersi, ma per garantirsi mutualmente le condizioni di prosperità a loro comuni e di cui nessuno può arrogarsi il monopolio. Formando un patto di tal genere non porteranno alcun attacco alla loro libertà, non faranno che imprimerle, anzi, più certezza e più forza. Accadrà di esse ciò che si verifica per i poteri dello Stato o per i vari organi di un animale, in cui la potenza e l’armonia sono il risultato della suddivisione.

Così, fatto mirabile, la zoologia, l’economia politica e la politica si trovano qui d’accordo per dimostrarci, la prima, che l’animale più perfetto, con gli organi più efficienti e quindi più attivo, più intelligente e meglio costituito per dominare, è quello nel quale le facoltà e gli organi sono più specializzati, suddivisi, coordinati; la seconda, che la società più produttiva, più ricca, più salvaguardata dall’ipertrofia e dal pauperismo, è quella in cui il lavoro è meglio diviso, la concorrenza più aperta, lo scambio più leale, la circolazione più regolare, il salario più giusto, la proprietà più legale, tutte le industrie, infine, reciprocamente garantite; la terza, infine, che il governo più libero e più morale è quello in cui i poteri sono meglio divisi, l’amministrazione meglio ripartita, l’indipendenza dei gruppi più rispettata, le autorità provinciali, cantonali, municipali meglio servite da quella centrale: in una parola, il governo federativo.

Riassumendo, così come il principio monarchico o di autorità ha come primo corollario l’assimilazione o incorporazione dei gruppi che si annette, in altri termini la centralizzazione amministrativa, ovvero ciò che si potrebbe ulteriormente definire la messa in comune di tutte le funzioni; come secondo corollario, l’indivisione del potere, altrimenti detto assolutismo; come terzo corollario, il feudalesimo terriero e industriale; allo stesso modo il principio federativo ha come primo corollario l’indipendenza amministrativa dei gruppi aggregati; come secondo corollario, la separazione dei poteri in ogni Stato sovrano; e infine, come terzo corollario, la federazione agricolo-industriale.

* Nella dottrina di Jean-Jacques Rousseau, che è quella di Robespierre e dei giacobini, il contratto sociale è in verità una finzione dei giuristi immaginata per render ragione, senza ricorrere al diritto divino o all’autorità paterna o alla necessità sociale, della formazione dello Stato e dei rapporti tra il governo e gli individui. Tale teoria, mutuata dai calvinisti, era nel 1762 un progresso, poiché mirava a ridurre a un principio razionale quanto fino ad allora era stato considerato come una semplice conseguenza della legge di natura e del sentimento religioso. Nel sistema federativo, invece, il contratto sociale è più che una finzione: è un patto positivo, effettivo, che è stato realmente proposto, discusso, votato, adottato, e che si può modificare regolarmente a volontà dei contraenti. Fra il contratto federativo e quello di Rousseau e del 1793 c’è tutta la distanza che passa fra la realtà e l’ipotesi [nota di Proudhon].

[Da Du principe fédératif, trad. it.: La questione sociale, Veronelli, Milano 1957, pp. 91-103].

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