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CARATTERI GENERALI DELL’ILLUMINISMO EUROPEO
Nonostante i grandi progressi in campo di cultura avvenuti nel
1600 per l'audacia e l'intelligenza individuale di pochi pensatori, la più diffusa immagine del mondo restava nel 1700, al
termine di quei cento anni rivoluzionari e innovatori, assai vicina
a quella di tre o quattro secoli prima. Nell'ambito della scienza
il modello galileiano e quello copernicano, con il Sole fermo al
centro, erano ancora lontani dall'essere universalmente
riconosciuti e ciò non solo nei paesi cattolici, ma pure in
quelli protestanti, che pure avevano avuto una maggiore
alfabetizzazione dovuta soprattutto alla teoria luterana del libero
esame: la Bibbia continuava ad essere per la grande maggioranza
degli uomini una fonte indiscutibile o almeno assai attendibile di
verità. Solo un'ostilità irriducibile nei confronti
della religione poteva portare ad accentuare il contrasto tra
scienza e Bibbia, ma di fatto personalità quali Galileo e
Newton non misero mai in dubbio la perfetta compatibilità fra
il proprio operato fisico e la fede cristiana. Le dimensioni
fisiche dell'universo, quindi, continuavano a rimanere tanto per
gli scienziati ( che volevano rimanere fedeli alla Bibbia ) quanto
per la gente comune piuttosto ristrette e in molti erano ancora
convinti che il mondo fosse stato creato da Dio 4004 anni prima
della nascita di Cristo.
Tuttavia la scoperta degli indiani d' America, a suo tempo, aveva
creato qualche problema a riguardo della concezione classica del mondo,
ma solo una migliore conoscenza del lontano oriente asiatico ( India e
Cina ) e una riscoperta del Mediterraneo orientale ( Egitto ) avevano
posto l' umanità di fine 1600 di fronte a problemi insormontabili: le
fonti storiche e letterarie di queste terre lontane sembravano
testimoniare fatti che implicavano cronologie bizzarre, impossibili da
mantenere entro la data 4004 a.C.
Certo Aristotele aveva perso
buona parte della sua autorità e cominciava ad essere messo
in discussione, ma l'ampliamento della conoscenza delle
civiltà asiatiche stava producendo un nuovo effetto
imprevisto. Il generale allargamento della prospettiva storica
portò allora a un atteggiamento più critico nei
confronti dei testi sacri e classici e non mancò chi
arrivò a trattare la Bibbia come un qualsiasi testo e non
come l'infallibile parola di Dio, rivelando tra l'altro le
incongruenze di tali testi.
Nel 1700 pare davvero inconcepibile che
il mondo sia stato creato nel 4004 a.C. e la geologia, che si stava
all'epoca affermando, nell'esaminare i fossili e i procedimenti
di erosione portò alla conclusione che i 6000 anni concessi
dalla Bibbia non bastavano per spiegare fenomeni così antichi.
Nel 1700 la ricerca scientifica ottiene buoni risultati; ma
questo in fondo era già accaduto nel 1600: ciò che
accade nel 1700 e non nel 1600 é che le novità
scientifiche diventano rapidamente patrimonio comune di un maggior
numero di uomini, essenzialmente per due fattori: la diffusione
dell'alfabetismo e la nascita di strumenti capaci di trasmettere
con facilità le nuove conoscenze. Va senz'altro notato come
in questo periodo si moltiplichino i giornali quotidiani,
approfittando anche dell'attenuazione dei controlli censori sulla
stampa: da questo punto di vista, l'Inghilterra è senz' altro il paese più "libero", anche perchè qui la
censura era stata addirittura abolita (1695).
Questa apprezzabile alfabetizzazione non fa altro che conferire
all'illuminismo e ai suoi pensatori un carattere tipicamente
divulgativo: ci si vuole rivolgere al maggior numero possibile di
persone e quindi non si deve scrivere in modo complesso: ecco allora
che il latino perde terreno e al trattato filosofico si preferisce il
romanzo filosofico, comprensibile anche per un pubblico di media
cultura. Se l' Inghilterra si libera della censura, la Francia invece
riesce a scrollarsi di dosso il clima cattolico intollerante e
bellicoso che aveva caratterizzato il periodo in cui aveva governato
Luigi XIV. Con questa liberazione Parigi torna a diventare la capitale
intellettuale del paese; nella prima fase del 1700 Parigi era già il
più grande centro di produzione di idee e il francese si era affermato
come lingua internazionale. E proprio a Parigi e in generale in Francia
si avvia un rapido sviluppo di una produzione letteraria dotata di una
forte carica di critica intellettuale nei confronti delle istituzioni
politiche e, soprattutto, religiose.
Spontaneamente questo "esercito" di
saggisti e scrittori si diede un'identità collettiva, una
vera coscienza di partito di opposizione, seppur privo di influenza
politica. Essi si chiamarono e si fecero chiamare "filosofi" e si
attribuirono il compito di sgretolare con i "lumi della ragione"
tutto ciò che la pesante e morta eredità dei secoli
passati aveva trasmesso a un'epoca che doveva essere una dinamica
transizione verso un futuro di progresso e rinnovamento. In Francia
si parla di filosofia dei lumi, altrove, in modo più
generale, di illuminismo. Ma in fin dei conti che cosa é l' illuminismo?
Il filosofo tedesco Kant risponde a questa domanda con
un breve testo intitolato: "Risposta alla domanda: che cosa
é l'illuminismo?" ; egli dà una definizione che,
più che alle manifestazioni storiche del movimento, bada
alla trasformazione dell'atteggiamento intellettuale e culturale
che esso comporta in ciascun individuo. L'illuminismo é
uscire dallo stato di minorità intellettuale, divenire
maggiorenni sul piano razionale e imparare a pensare con la propria
testa, staccandosi nettamente dalla superstizione. Kant definisce
così l'illuminismo: "L'illuminismo é l'uscita
dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a
se stesso [... ] abbi il coraggio di servirti della tua propria
intelligenza ! E'questo il motto dell'illuminismo ".
Rousseau,
pensatore francese, dirà: "grande e bello spettacolo veder
l'uomo uscir quasi dal nulla per mezzo dei suoi propri sforzi;
disperdere, con i lumi della ragione, le tenebre in cui la natura
l'aveva avviluppato; innalzarsi al di sopra di se stesso;
lanciarsi con lo spirito fino alle regioni celesti: percorrere a
passi di gigante, al pari del sole, la vasta distesa dell' universo; e, ciò che é ancor più grande e
difficile, rientrare in se stesso per studiarvi l'uomo e
conoscerne la natura, i doveri e il fine ".
E'innegabile il rapporto di parentela tra l'età del razionalismo
(1600), ossia l'età dell'indiscussa onnipotenza della ragione umana, e
l'illuminismo: è evidente come vi siano analogie con l' illuminismo,
che prende il nome proprio dai lumi della ragione.
Tuttavia tra razionalismo e illuminismo possono essere ravvisate
anche differenze: il 1600 é l'epoca in cui si riscopre,
dopo un lungo periodo di svalutazione durato tutto il medioevo, la
ragione umana e come ogni scoperta appena fatta vi é la
tendenza ad entusiasmarsi troppo e a non vederne i limiti: ecco
allora che nel 1600 i filosofi ripongono tutta la loro fiducia nella
ragione in modo acritico, senza domandarsi se essa abbia dei limiti
o meno. Nel 1700, invece, dopo cento anni che questa riscoperta
é stata introdotta, ci si comincia a chiedere se la ragione
abbia dei limiti o meno: certo l'illuminismo é figlio del
razionalismo in quanto si predilige la ragione ad ogni altro
strumento di indagine, ma l'approccio con la ragione stessa
risulta diverso, più ponderato e critico.
Ma a questo punto sembra che con l'illuminismo si ritorni al medioevo
perchè in fondo già San Tommaso, che nutriva grande fiducia nella
ragione, si era chiesto fin dove potesse arrivare. La vera differenza
tra illuminismo e medioevo é che mentre per il medioevo la ragione é
limitata da Dio stesso, per l' illuminismo i limiti della ragione sono
imposti dalla ragione stessa: questo lo posso conoscere, quest'altro
no. Locke, filosofo preilluminista, definisce la ragione come una
candela che ci illumina il cammino; é sì l'unica luce che possa
illuminarci il cammino, ma rimane comunque una luce fioca, che non può
tutto.
E'anche interessante la metafora di cui si
avvale il più grande filosofo illuminista, Kant, nella
Critica alla ragion pura: egli dice di aver istituito il tribunale
della ragione: la ragione é contemporaneamente sia giudice
sia imputato: si vedono i limiti e si dà un giudizio, ma a
dare il giudizio é proprio colei che é accusata, la
ragione. Ecco allora che per gli uomini del 1700 la ragione non
é più un qualcosa di illimitato come era per gli
uomini del 1600, ma é tuttavia l'unico mezzo a nostra
disposizione per conoscere la realtà.
Tutti gli illuministi
hanno grande fiducia nella ragione umana e nel futuro e grande
svalutazione del passato, visto come somma di errori scientifici,
ingiustizie sociali e superstizioni religiose; è soprattutto
contro il Medioevo che si scagliano i pensatori settecenteschi, che
nutrono grandi speranze nel futuro, che ai loro occhi sarà
migliore perchè retto non dalla tradizione e dalla religione, bensì dai lumi della ragione, una ragione uguale
dappertutto: non si deve fare questo perchè lo dice la
Chiesa o la tradizione, ma perchè la ragione dice che
é giusto.
Ecco allora che l'illuminismo ha come sfondo l' utilitarismo, ossia il
far felici con la ragione il maggior numero possibile di uomini; e il
futuro consiste nel progresso: gli illuministi, di fronte all'antico
quesito se il bene consiste nel futuro o nel passato non esitano a
scegliere il futuro. E quest' idea in buona parte l'hanno derivata dal
Cristianesimo (l'acerrimo nemico degli illuministi ) che, a differenza
delle concezioni classiche del tempo in chiave circolare, colloca
l'uomo su una linea retta strutturando la storia in punti che volgono
al progresso: da Adamo fino alla redenzione. All'atteggiamento
illuministico é dunque connesso un sostanziale ottimismo, una
fondamentale fiducia nel futuro e nel carattere progressivo della
storia umana.
La ragione a cui l'illuminismo affida il
compito di rischiarare l'umanità non é però la
ragione assoluta di Cartesio, dalla quale scaturiscono
deduttivamente i sistemi metafisici della realtà, ma
piuttosto una ragione scientifico - strumentale che, per il suo
condizionamento empirico, é assai vicina a quella di Locke e
di Newton e, più alla lontana, di Galileo. Pur avendo
un'identità collettiva, questo fronte di scrittori
costituenti il partito dei filosofi, non avevano un' identità di vedute su tutti i problemi: su parecchi problemi
scientifici la pensavano in modo divergente tra loro, ma é
soprattutto interessante notare la differenza nelle opzioni
politiche e religiose: tra i filosofi ci furono sia atei dichiarati
sia sostenitori dell'esistenza di Dio, con le più diverse
sfumature gli uni dagli altri; c'era chi vedeva nella natura la
realizzazione di un progetto divino e chi invece pensava che la
natura fosse autosufficiente.
Ma almeno su un punto tutti i
filosofi illuministi erano d'accordo: il radicale rifiuto della
Chiesa cattolica ("schiacciate l'infame" era uno dei motti), con la
sua intolleranza universale, i suoi dogmi inaccettabili per la
ragione, il suo appoggio ai regimi tirannici, il suo ruolo di
divulgazione dell'ignoranza e la sua superstizione più
profonda. L'anticlericalismo dei filosofi talvolta era davvero
infuocato; non mancarono coloro che videro nella religione un
grande inganno intessuto dai preti di tutte le epoche per tenere i
popoli nell'ignoranza e nell'impotenza. Tuttavia vi furono anche
illuministi "simpatizzanti" nei confronti della religione, nella
quale vedevano un fenomeno naturale con un nucleo razionale ( l' esistenza di un Dio buono e ordinatore del mondo ).
Senz'altro l' atteggiamento religioso più diffuso presso le compagini dei
filosofi illuministi fu il deismo, ossia il credere nell'esistenza
di Dio solo sulla base di argomentazioni razionali, rifiutando ogni
forma di rivelazione, un pò come aveva fatto Aristotele a
suo tempo vedendo la divinità come " primo motore ", come "
causa incausata ". Non si tratta, certo, di ateismo, tuttavia
é evidente come sia assurdo pregare una divinità come
quella in cui credevano i deisti, una divinità che di umano
non ha nulla e che può essere colta non con la fede,
bensì con la ragione: non é un Dio a immagine e
somiglianza dell'uomo ( come invece vuole il " teismo " ),
bensì é una sorta di principio metafisico garante
dell'ordine nel mondo.
In qualche modo il pensiero anti -
cristiano degli illuministi contribuirà ad una vera e propria
scristianizzazione tipica del 1700; tuttavia sarebbe errato pensare
che solo gli illuministi abbiano portato a questa laicizzazione
della società: merita allora di essere ricordata la
massoneria, ossia l'associazione segreta che si suppone essersi
sviluppata dalla corporazione medioevale dei muratori; essa, nata
in Scozia ed Inghilterra, divenne una vera e propria società
e con diramazioni dislocate in tutta l'Europa. Come gli
illuministi, anche la massoneria propugnava il deismo, però
in modo più " terra a terra ", più comprensibile a
tutti: se il popolo si scristianizzò non fu certo
perchè leggeva le opere dei filosofi illuministi, ma per via
della massoneria e del suo ruolo intermedio di società
nè nobile nè popolare.
Tuttavia nell'illuminismo
troviamo anche vere e proprie posizioni atee: viene ripresa la
definizione di Cartesio dell'uomo come animale macchina dotato di
anima; ma ad essa si preferisce quella di animale macchina senza
anima; é un ateismo radicale.
Ma illuminismo non significa solo anti - cristianesimo; nel 1700 presso
i filosofi nasce il gusto della scoperta per il nuovo, magari con
soluzioni spericolate, il che spiega bene la grande passione di questi
pensatori per le forme enciclopediche e per i romanzi filosofici,
tipici del 1700; nasce anche l'interesse per civiltà diverse rispetto a
quella europea: così come la Terra non é più al centro dell'universo,
comincia ad affacciarsi l'idea che l' Europa non sia più il centro
della Terra. E'interessante citare a proposito le "Lettere persiane" di
Montesquieu nelle quali si immagina un gruppo di persiani in visita a
Parigi che descrivono tramite lettere ai loro corrispondenti iraniani
vita e costumi di una società cattolica e assolutistica, con sguardo
distaccato, nella loro nuda oggettività: l'ovvio e il quotidiano
diventano l'assurdo e il grottesco e il lettore viene abituato
all'ottica del relativismo culturale: la Francia e l' Europa non sono
più il centro, ma solo un angolo del mondo; ciò che a noi europei pare
banale e ovvio perchè ci siamo abituati, agli Iraniani sembrerà
ridicolo e bislacco. Una simile operazione, naturalmente, la si potrà
compiere con un cinese o con un pellerossa.
Si può anche addurre come
esempio dell'interessamento degli illuministi per le civiltà
straniere il mito del buon selvaggio, sostenuto da Rousseau, che,
a differenza degli altri illuministi, tende a vedere nel progresso
qualcosa di fortemente negativo, destinato ad aumentare sempre
più la disuguaglianza tra gli uomini; ecco allora che egli
sintetizza questo concetto nell'idea del buon selvaggio, non
corrotto dalle tradizioni e che con la sua ragione può
arrivare ad una concezione di Dio più pura e veritiera di
quella di un teologo cattolico. Rousseau riscopre quindi una
nozione moderna di primitivo, capace di illuminare il passato e la
storia della civilizzazione umana.
Se é vero che presso gli
illuministi affiora l'interesse per le culture diverse, tuttavia
dobbiamo specificare che l'Europa finisce comunque per rimanere al
centro: in altre parole, l'esame che Montesquieu e Rousseau fanno
di civiltà lontane ed estranee all'Europa non é volto
effettivamente a conoscere meglio le medesime, ma a vedere l' Europa e gli Europei da un altro punto di vista.
Ma il manifesto
del partito illuminista é senz'altro l'Enciclopedia, un' opera mastodontica prevista in 17 grandi volumi che illustra
attraverso i suoi articoli disposti alfabeticamente i progressi
della scienza e della tecnica e che discute con la libertà
consentita dal sistema di censura francese i grandi problemi
teologici, filosofici e politici. La direzione del progetto era
stata affidata a uno dei più vivaci e originali pensatori
illuministi, Denis Diderot, e al matematico famoso un pò
ovunque d'Alembert: l'intero partito dei filosofi era stato
chiamato a raccolta per dar vita a quest'opera di ampio respiro,
baluardo della filosofia illuministica. L'opera potè
superare tutte le opposizioni ( forti erano soprattutto quelle dei
gesuiti ) e godette perfino dell'appoggio di molti aristocratici.
Le vicende dell'Enciclopedia sono esemplari: dimostrano come la
cultura illuminista non tema rivali e come coi lumi della ragione
tutto può essere vinto.
Tuttavia dobbiamo dire che la forma
enciclopedica, di misure mastodontiche, non era la sola forma di
stesura: c'erano, come accennavamo, i romanzi filosofici e in
più anche il pamphlet, breve e non tecnico, alla portata di
tutti.
Molti studiosi hanno pensato che l'illuminismo fosse una
cultura tipicamente borghese, cosciente della propria opposizione
globale alla società del tempo. Però non é del
tutto corretto: infatti i borghesi non leggevano i testi
illuministi in quanto totalmente assorbiti da attività
più proficue; essi circolavano soprattutto nei salotti
aristocratici e non é quindi scorretto affermare che l' illuminismo finì per diventare una manifestazione dello
scetticismo dell'aristocrazia e della sua perdita dei valori
tradizionali.
Detto questo, bisogna ora affrontare le posizioni degli illuministi in
ambito politico: gli illuministi erano tutti grandissimi ammiratori del
sistema liberale inglese ed erano tutti d'accordo su alcuni punti
essenziali: la completa libertà di religione, la fine del potere
culturale della Chiesa cattolica, la libertà di stampa ( come già
avveniva in Inghilterra ), l'abolizione dei privilegi fiscali, il netto
ridimensionamento dell'assolutismo regio. Ma anche in campo politico,
come in campo religioso, non ci fu mai una totale identità di idee tra
gli illuministi. Nel 1734, nelle "Lettere filosofiche" Voltaire prende
in esame il sistema parlamentare inglese; nel 1748 Montesquieu
argomenta in favore di tale sistema nella sua opera più importante, "Lo
spirito delle leggi": a suo avviso il sistema delle leggi di ciascun
paese ha uno spirito, una logica occulta e quindi esse non sono il
risultato del caso; il che deve rendere consapevole chi cerca di
attuare dei progetti di riforma che non tutte le evoluzioni sono facili
o possibili. Un riformatore che non tiene in considerazione la
struttura sociale di un paese, delle sue tradizioni, della densità
umana, dell'estensione geografica e dei determinismi ambientali é
destinato a fallire. Le leggi non sono soltanto il prodotto della
volontà del legislatore, ma " intese nel loro significato più ampio,
sono i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose ", dice
Montesquieu. Egli ravvisa tre modelli fondamentali: 1 ) repubblicano :
, fondato sulla virtù e sulla libertà ( repubblica romana e cantoni
svizzeri ); 2 ) tirannico: ispirato dalla paura dei sudditi ( in ultima
istanza schiavi ) nei confronti del sovrano - tiranno: il sovrano é
padrone assoluto del popolo ( civiltà orientali, Russia ); 3 ) governi
temperati ( o moderati ): c'é un monarca e il rapporto monarca -
sudditi é temperato da corpi intermedi: il suddito non é mai
completamente solo di fronte al sovrano.
Montesquieu é convinto che queste tre forme siano dettate dalle
condizioni climatiche: la tirannide é tipica delle grandi pianure (
Russia ) dove la società, quasi come il terreno, si appiattisce: il
cittadino é solo di fronte al sovrano, che su di lui può tutto. Le
migliori sembrano le piccole repubbliche, ma esse vanno bene solo su
territori ridotti; quindi i più adatti per l'Europa sono i regimi
temperati, le monarchie costituzionali: se la Francia non degenera in
tirannide, secondo Montesquieu é solo perchè il regime è temperato da
organi intermedi quali l'aristocrazia e il parlamento. Montesquieu
guarda con simpatia al sistema inglese, ma sa di non poterlo trasferire
in Francia in maniera pura e semplice. Dell' Inghilterra bisogna
secondo lui imitare soprattutto un elemento, la pratica di dividere il
potere tra istituzioni diverse, la migliore procedura per evitare la
tirannide: la magistratura dovrà essere totalmente dipendente dal
potere del governo, il parlamento dovrà emanare leggi generali, il re e
il suo governo dovranno eseguire le leggi e svolgere gli incarichi di
alta politica, senza che nessuno dei tre poteri cerchi di usurpare le
funzioni altrui.
Tuttavia accanto a posizioni liberali, ne troviamo altre
di stampo democratico in Rousseau, uno dei pochi illuministi a
guardare al popolo con discreta simpatia: nella democrazia ognuno
deve rinunciare ai propri per cederli ad un'istanza superiore;
già Hobbes e Spinoza, nel secolo passato, avevano fatto
discorsi simili; per Hobbes però il sovrano era un qualcosa
a parte, per Spinoza invece non é altro che la
società che acquisisce in collettivo i diritti di cui si
é privata singolarmente; Rousseau la pensa come Spinoza: io
cittadino contribuisco per quel che mi compete a elaborare le leggi
che poi sono tenuto a rispettare, cedo i miei diritti di singolo
per poi riacquistarli come collettivo: é la maggioranza a
decidere le leggi e la volontà della maggioranza va vista
come volontà di tutti: il paradosso é che devo
considerare volontà mia ( ciò che ha deciso la
maggioranza ) anche ciò che va contro la mia volontà.
E' bene quindi sottolineare come democrazia e liberalismo non siano
la stessa cosa, ma anzi siano quasi concetti antitetici: il
liberalismo consiste nel difendere il singolo cittadino ritagliando
uno strato privato del cittadino intoccabile anche per lo Stato; la
democrazia invece vuole che tutti abbiano diritto a partecipare alle
decisioni politiche ma che poi chi perde debba "subire"
riconoscendo sue volontà che sue non sono, ma che tali ha
deciso la maggioranza.
Durante il 1700 non mancarono anche le utopie comunistiche, che si
opponevano al progresso materiale che andava contro la coesione sociale
e l'uguaglianza tra gli uomini: queste utopie sono quasi un
distacco dalla società ingiusta per rintanarsi con l'immaginazione in
una società giusta e garante dell'uguaglianza.
In ambito politico, come accennato, prevalse il liberalismo mentre in
campo economico il liberismo, ossia la teoria secondo la quale lo Stato
non deve intromettersi nell'economia del cittadino. Il liberismo si
basò soprattutto su una critica al mercantilismo ( ossia quella teoria
che sosteneva che le ricchezze non fossero in crescita e che l' unico
modo per arricchirsi fosse farle entrare nel proprio Stato per poi non
farle più uscire): non é vero che i traffici delle principali potenze
commerciali stavano crescendo gli uni a spese degli altri. Tuttavia
l'intera discussione liberista assume due diverse posizioni; da un lato
troviamo la fisiocrazia (soprattutto in Francia ), dall'altro troviamo
l'economia politica classica ( soprattutto in Inghilterra ). Ma quali
sono le differenze ?
La fisiocrazia (fusiV + kratoV) é, in generale, il governo della natura
ed é significativo che si sviluppi in Francia, dove l'agricoltura era
il settore primeggiante. I fisiocratici sostenevano che la vera
ricchezza derivasse dalla natura, dalla coltivazione dei campi, in
parole povere dall' agricoltura. Certo aveva anche un significato
metaforico questo governo della natura: i fisiocratici erano pur sempre
illuministi e si richiamavano a ciò che é naturale ( la natura appunto
) in contrapposizione a ciò che é artificiale, riallacciandosi
essenzialmente al mito del buon selvaggio di Rousseau; i fisiocratici
francesi sono convinti che nella ragione sia insita un'organizzazione
politica giusta, ma che gli uomini si siano visti dare costituzioni e
sovrani ingiusti, che vanno contro la ragione. Rousseau questo aspetto
lo coglierà dal punto di vista sentimentale ( "La nuova Eloisa" ): il
matrimonio per lui si deve fondare sul sentimento e non sui soldi, come
capitava all' epoca: tutti gli illuministi rivendicano ciò che é giusto
per ragione in contrasto con ciò che é giusto per convenzione. I
fisiocratici, sostenendo il governo della natura, sono convinti che
l'economia abbia le sue leggi naturali: spetta allo Stato non
influenzarle; esso per l'economia non deve fare assolutamente niente,
se non riscuotere le tasse. L'idea generale fisiocratica é che, visto
che l'economia ha le sue leggi naturali, é ovvio che se lasciata a sè e
alla natura non può che andare bene!
Ecco allora la caratteristica frase
politica fisiocratica: laissez faire, laissez passer ("lasciate
fare, lasciate passare"); se anche c'é una carestia non
bisogna intervenire: secondo gli illuministi se ci fosse una crisi
in Piemonte, per dire, il grano arriverebbe comunque dalle zone
vicine ( la Lombardia per esempio ) dal momento che in Piemonte,
essendoci crisi salgono i prezzi perchè il grano scarseggia,
e i venditori lombardi ci guadagnano solo a venire in Piemonte a
vendere il grano perchè potranno venderlo a prezzi più
cari che non in Lombardia. Ci fu un fisiocratico illuminista, di
nome Turgot, che potè applicare questa teoria alla corte di
Luigi XVI: ci furono grandi carestie e lui, da buon fisiocratico,
propose di non intervenire ma la situazione non migliorò
affatto: il grano non arrivò e Turgot fu licenziato e le sue
teorie fisiocratiche vennero abbandonate. Va subito detto che se il
progetto di Turgot si rivelò fallimentare fu solo
perchè un'economia di tipo fisiocratico é efficace
solo con mezzi di traspoorto efficaci ( che all'epoca non c'erano
ancora ), ossia se il grano può arrivare in fretta laddove
scarseggia.
L'economia politica classica ravvisa il suo esponente
più importante nello scozzese Adam Smith: egli, in un
periodo in cui si discuteva ampiamente se la vera ricchezza fosse
nell'agricoltura o nell'industria, si chiese: ma che cosa
é che fa il valore di una cosa? La risposta che trovò
fu sostanzialmente questa: la cristallizzazione del lavoro presente
nella merce in questione. Di fatto tutte le cose che abitualmente
compriamo o vendiamo sono incommensurabili e sarebbe quindi
impossibile effettuare vendite o acquisti: un fruttivendolo che
vada da un calzolaio quanti kg di patate dovrebbe dargli per avere
un paio di scarpe ? E'assurdo ! Teoricamente si potrebbero solo
scambiare merci uguali: patate con patate e scarpe con scarpe.
Eppure noi sappiamo che le scarpe e le patate hanno un loro valore,
che é dato dal lavoro presente in esse: un tot di lavoro per
fare le scarpe e un tot per le patate. Quindi il perno dell' economia per Smith non é l'agricoltura ( come era invece per
i fisiocrati francesi ) bensì l'industria; la teoria
economica di Smith, proprio per distinguerla da quella fisiocratica
francese, verrà definita "economia politica classica".
Tra le varie " scoperte " di Adam Smith c'é anche quella
dell'importanza della divisione del lavoro: contò che per
produrre uno spillo occorrevano 19 passaggi e capì che
facendo fare un solo passaggio ad una sola persona si ottenevano due
effetti positivi: innanzitutto costava meno perchè si
trattava di manodopera meno qualificata, dovendo fare solo un
passaggio. Poi si accorse che effettuando un solo passaggio l'operaio finiva per diventare bravissimo. Smith, tuttavia, si
accorse anche dei limiti della suddivisione del lavoro: un
fabbricatore di liuti ha un rapporto soggettivo con ciò che
produce, lo fa con amore perchè lo vede nascere e poi lo
vede finito; un operaio al quale spetti un solo passaggio non
può avere questo rapporto con ciò che produce e, per
di più, il compiere sempre e solo lo stesso passaggio causa
in lui un abbrutimento fisico.
Riprendiamo ora in modo più approfondito la questione della mano
invisibile: per Smith lo stato non deve assolutamente intervenire
nell'economia (egli é quindi un liberista ) e le cose vanno lasciate al
loro destino senza interventi statali: ciascuno deve fare i propri
interessi; d' altronde Smith diceva: "non è dalla generosità del
macellaio, del birraio o del fornaio che noi possiamo sperare di
ottenere il nostro pranzo, ma dalla valutazione che essi fanno dei
propri interessi". Ma allora, dirà qualcuno, ci sarà chi si arricchisce
e chi si impoverisce sempre più ! Per Smith non é così: se tutti fanno
i propri interessi é ovvio che aumenterà in qualche misura la ricchezza
collettiva e tutti godranno dei vantaggi, sebbene in maniera diversa: é
ovvio che chi investe guadagnerà di più del povero, ma tuttavia anche
quest'ultimo avrà un incremento positivo di ricchezza: "cercando per
quanto può di impiegare il suo capitale a sostegno dell'industria
interna e di indirizzare questa industria in modo che il suo prodotto
possa avere il massimo valore, ogni individuo contribuisce
necessariamente quanto può a massimizzare il reddito annuale della
società... egli mira soltanto al proprio guadagno e in questo, come in
molti altri casi, egli è condotto da una mano invisibile a promuovere
un fine che non entrava nelle sue intenzioni. Nè per la società è un
male che questo fine non entrasse nelle sue intenzioni. Perseguendo il
proprio interesse, egli spesso promuove quello della società in modo
più efficace di quando intende realmente realmente promuoverlo." Quello
che può essere considerato un vizio nel campo privato, ossia il fare i
propri interessi, diventa una virtù nel campo pubblico.
La forma più tipica della politica illuministica é indubbiamente
l'assolutismo illuminato, ossia il punto di incontro tra il governo
assoluto (la cui politica si può sintetizzare in una celebre frase di
Luigi XIV: "lo stato sono io" e l'illuminismo, incontro che
avviene sostanzialmente tra il 1740 e il 1790; si capisce che per
riformare ci si deve avvalere delle teorie illuministe. Gli illuministi
intendono, sulla scia di quanto pensava Montesquieu, arrivare ad un
compromesso che equilibri i rispettivi poteri (monarchia, parlamento,
ecc). I filosofi non avevano certo troppa fiducia nel popolo, nel quale
tendevano a vedere una massa senza cervello succube degli inganni della
religione; certo si sarebbe voluto togliere il popolo dalla lunga notte
dell'ignoranza con i lumi della ragione, ma in fin dei conti gli
illuministi preferirono riformare l'alta società: bisognava
conquistare i vertici della società, che detenevano il potere politico
ed economico e non il popolo: ma l' assolutismo illuminato dimostrerà
ben presto i suoi limiti, trovando resistenze nella società stessa (
che si oppone con rivolte ) o talvolta nei sovrani " illuminati ", che
accettano la collaborazione dell'illuminismo finchè funzionale al
rafforzamento del loro potere di sovrani; in altre parole abbiamo
sovrani molto assoluti e poco illuminati.
L'assolutismo illuminato si arena, pur avendo sortito qualche effetto
positivo quale la stesura di catasti, ossia veri e propri censimenti
degli averi dei cittadini volti a far pagare a tutti le tasse e a
servire come spunto per gli investimenti; l'assolutismo illuminato fece
sviluppare la cultura ( anche quella del clero tramite seminari ) e
diede contro alla Chiesa: l'illuminismo le diede contro perchè la
riteneva una forma di superstizione, l' assolutismo perchè vedeva in
essa un rivale per il suo potere, un contropotere: il cattolicesimo
prevedeva una duplice fedeltà ( al re e al papa ) e la Chiesa finiva
per essere uno stato dentro lo stato.
L'assolutismo illuminato si affermò
un pò ovunque in Europa, fatta eccezione per lo Stato
Pontificio, per Venezia (che era un'oligarchia) e per l' Inghilterra, dove non c'era l'assolutismo, bensì il
parlamento e dove le riforme erano già tutte avvenute nel
secolo passato. Ma l'assolutismo illuminato finì per
arenarsi per diversi motivi: in primo luogo assolutismo e
illuminismo sono e restano due cose ben differenti tra loro che non
potranno mai essere del tutto congiunte; in secondo luogo anche
quando c'era un monarca davvero illuminato (quale fu, ad esempio, Giuseppe d'Austria ), fu la società ad ostacolare i
progetti.
Dobbiamo ancora fare una precisazione: da come abbiamo finora descritto
l'illuminismo, sembrerebbe essere il trionfo della fredda ragione e del
meccanicismo, il vedere l'universo come una grande macchina; ma in
realtà, sebbene in una prima fase l'illuminismo non si discostasse
molto da come l'abbiamo appena descritto, dobbiamo dire che si
assistette ad una seconda fase dove accanto alla ragione ( che pure si
ammorbidisce, passando da scienze matematiche a scienze biologiche e
chimiche nacque il sentimento: sarà ancora una volta Rousseau a
dare la spinta iniziale: egli con "La nuova Eloisa" si schiera in
favore ad un amore romantico e passionale contro le ragioni pratiche
dettate dalla tradizione; così come in economia non bisogna
intromettersi e sovvertire le leggi della natura, anche in amore non
bisogna immischiarsi, bensì bisogna lasciar trionfare la natura e
l'amore; invece con l'"Emilio" difende la figura del bambino che,
secondo la tradizionale etica aristotelica, era privo di valore in
quanto "uomo in potenza": non aveva un valore in sè, ma aveva un valore
come futuro uomo: non c'era bisogno di tenere in considerazione le
esigenze del bambino. Rousseau invece attribuisce valore e dignità al
bambino in sé: in primis bisogna prendersi cura del bambino in
quanto tale e solo dopo di ciò che sarà; Emilio, il bambino che dà il
nome all'opera, viene messo dal maestro nelle condizioni di fare
esperienze che gli permettano di imparare direttamente dalla natura.
Quindi con l'"Emilio" si dà nuova dignità al bambino, con la "Nuova
Eloisa" alla donna, che non é più vista esclusivamente come "creatrice
di bambini", ma comincia ad assumere un valore di per sè.
Va poi sottolineato, sempre a riguardo del sentimento e dell' umanità illuministica, il rifiuto del diritto penale
tradizionale, con il suo apparato di torture e pene orripilanti e
fantasiose sul corpo del delinquente. Merita aìdi essere
citato a proposito il libro del filosofo illuminista italiano Cesare
Beccaria intitolato "Dei delitti e delle pene", che ebbe una
risonanza europea. Egli si schierò apertamente in primis
contro la tortura, sottolineando come essa colpisca tanto i
colpevoli quanto gli innocenti e come sotto tortura chiunque
confessi, anche se innocente. Inoltre egli parlò contro la
pena di morte, che a quei tempi era vista come una forma di
vendetta istituzionalizzata; nel 1700 lo Stato in generale si
é nettamente rafforzato e i delinquenti vengono comunque
catturati con più facilità: il delinquente sa che
corre il rischio di essere preso e dovrà essere punito e
quindi non agirà comunque, che ci sia o che non ci sia la
pena di morte. Beccaria poi fa notare come la pena debba avere due
funzioni: in primis deve correggere il criminale ( e uccidendolo
non lo si corregge ); essa poi deve rendere più sicura la
società. Anche una pena "mite", purchè lo Stato
sia efficiente e garantisca l'applicazione della pena stessa,
può funzionare per correggere perchè se so che
sarò punito mi guarderò bene dal commettere
ingiustizia. Fino al secolo passato la pena di morte era uno
spettacolo pubblico; con il 1700 invece spariscono le compiacenze
pedagogiche verso i pubblici squartamenti degli assassini e dei
parricidi: la gente non vuol più assistere a questi
spettacoli tremendi; ecco allora che entra in gioco il sentimento.
L’ILLUMINISMO ITALIANO
In Italia la diffusione della cultura illuministica si sviluppa in
ritardo rispetto agli altri paesi europei. Ciò è
dovuto al differente contesto storico-culturale della penisola.
L'arretratezza economica, l'immobilità delle istituzioni,
l'instabilità politica dovuta alla catena delle guerre di
successione, l'assenza di una borghesia dotata di consistente peso
economico-sociale, l'assolutismo delle dinastie regie, la pesante
atmosfera controriformistica, il prevalere di una cultura umanistica
e storico-erudita, dimentica della tradizione scientifica
galileiana, producono per lungo tempo una situazione di stasi
sociale ed intellettuale (la cui unica eccezione è costituita
dal Vico).
Solo con la pace di Aquisgrana (1748), che assicura al
paese un arco quarantennale di pace, la situazione generale della
penisola comincia a dare segni di risveglio. In campo politico,
Milano, Parma, Firenze e Napoli, grazie alle nuove dinastie
riformatrici degli Asburgo, dei Lorena e dei Borboni, che si
ispirano ai "dispotismi illuminati" europei, avviano una serie di
riforme in senso anti-feudale ed anti-clericale. Per ciò che
riguarda la cultura, da un lato si ha lo studio e la divulgazione di
importanti opere d'Oltralpe (compresa la traduzione della
Enciclopedia), dall'altro si ha la creazione di una cattedra di
economia a Napoli e la fondazione del giornale milanese,I l
Caffè, nel cui ambito abbiamo la comparsa di un libro di
valore europeo: Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria.
Invece
negli altri stati italiani, soprattutto nel Piemonte e nello Stato
pontificio, la situazione tende a rimanere stagnante e le tendenze
autoritarie dei governanti impediscono una consistente diffusione
del pensiero illuministico, anche se non riescono a frenare l'eco
delle nuove idee. Pur non essendo privo di debiti verso il pensiero
inglese, l'Illuminismo italiano - che non è fatto di "grandi
solitari" ma di figure di media statura impegnate in problemi
sociali e cariche pubbliche - appare strettamente connesso a quello
francese ed ha come sua caratteristica l'apertura verso problemi
morali, giuridici ed economici.
Perciò l'importanza
dell'Illuminismo deve "essere rintracciata prevalentemente sul piano
politico, dove esso rappresenta una vigorosa reazione al
disinteresse per la cosa pubblica e alla separazione della cultura
dalla società... Più empiristico di quello tedesco,
meno speculativamente penetrante di quello inglese, meno radicale di
quello francese, l'Illuminismo italiano non è per questo
impedito dallo svolgere la sua specifica funzione, organicamente
commisurata alle esigenze della società del tempo e capace di
creare una temperie culturale vivace".
In Italia, come detto, i due
centri in cui l’Illuminismo trova terreno più fertile per la
sua diffusione sono Napoli e Milano: a Napoli lo spirito
dell'Illuminismo trova i suoi precursori soprattutto in Ludovico
Antonio Muratori (1672-1750) e in Pietro Giannone (1676-1748). Il
primo, storico ed erudito di fama europea, autore degli Annali
d'Italia (1744-1749) e delle Riflessioni sopra il buon gusto nelle
lettere e nelle arti (1708), è importante per la polemica
contro i ritardi della cultura italiana del tempo e per aver
stabilito alcuni principi della metodologia storiografica
critico-scientifica: la messa tra parentesi della tradizione,
l'accertamento della realtà dei fatti e
dell'autenticità dei documenti, il rispetto
dell'oggettività storica. Il secondo, autore della Istoria
civile del Regno di Napoli (1723), mostra come il potere
ecclesiastico abbia, per via di successive usurpazioni, limitato e
indebolito il potere politico e come sia interesse di questo ridurre
lo stesso potere ecclesiastico nei puri limiti spirituali. Il
Giannone si attendeva dalla sua opera tra l'altro "il rischiaramento
delle nostre leggi patrie e dei nostri propri istituti e
costumi".
Una figura che appartiene più all'Illuminismo
francese che all'italiano è quella del napoletano abate
Ferdinando Galiani (1728-1787) che fu per dieci anni (1759-1769)
segretario dell'Ambasciata del Regno di Napoli a Parigi e
dominò i salotti intellettuali della capitale francese con il
suo spirito e il suo brio. Galiani fu specialmente un economista. Il
suo trattato Della moneta (1751) è diretto a criticare la
tesi del mercantilismo che la ricchezza di una nazione consista nel
possesso dei metalli preziosi. Le sue idee filosofiche, non esposte
in forma sistematica, ma gettate qua e là come motti di
spirito, sono contenute nelle Lettere (scritte in francese) e sono
in tutto conformi alle idee dominanti nell'ambiente francese in cui
Galiani è vissuto. Nei filosofi i quali affermano che tutto
è bene nel migliore dei mondi, Galiani vede degli atei
patentati che, per paura di essere arrostiti, non hanno voluto
terminare il loro sillogismo. Ed ecco qual è questo
sillogismo. "Se un Dio avesse fatto il mondo, questo sarebbe senza
dubbio il migliore di tutti; ma non lo è, neppur da lontano;
dunque non c'è Dio". A questi atei camuffati bisogna
rispondere, secondo Galiani, nel modo seguente: "Non sapete che Dio
ha tratto questo mondo dal nulla? Ebbene, noi abbiamo dunque Dio per
padre e il nulla per madre. Certamente nostro padre è una
grandissima cosa, ma nostra madre non vale niente del tutto. Si
prende dal padre, ma si prende anche dalla madre. Ciò che vi
è di buono nel mondo viene dal padre e ciò che vi
è di cattivo viene dalla signora nulla, nostra madre, che non
valeva gran che" (Lett. all'Abate Mayeul, 14 dicembre 1771).
Dal
sensismo francese deduce il fondamento delle sue dottrine economiche
Antonio Genovesi (1712-1769) che fu il primo in Europa a professare
nelle università la nuova scienza dell'economia: ricopri
infatti, dal 1754, la cattedra di lezioni di commercio
nell'Università di Napoli. Genovesi riconosce come principio
motore, sia degli individui sia dei corpi politici, il desiderio di
sfuggire al dolore che deriva dal bisogno inappagato e chiama tale
desiderio interesse, considerandolo come ciò che sprona
l'uomo, non solo alla sua attività economica, ma anche alla
creazione delle arti, delle scienze e ad ogni virtù (Lez. di
commercio, ediz. 1778, 1, p. 57). Genovesi è anche autore di
opere filosofiche: Meditazionifilosofiche sulla religione e sulla
morale (1758); Logica (1766); Scienze metafisiche (1766); Diceosina
ossia dottrina del giusto e dell'onesto ( 17 76). Nelle Meditazioni
egli rifà a suo modo il procedimento cartesiano; ma riconosce
il primo principio non nel pensiero ma nel piacere di esistere.
Questo indirizzo che sembra derivato da Helvétius non
impedisce al Genovesi di difendere le tesi dello spiritualismo
tradizionale: la spiritualità e l'immortalità
dell'anima, il finalismo del mondo fisico e l'esistenza di Dio.
A
Montesquieu si ispirava Gaetano Filangieri (1752-1788) nella sua
Scienza della legislazione (1781-1788), che mette a partito l'opera
del filosofo francese per dedurne ciò che si deve fare per
l'avvenire, cioè per trarne i principi e le regole di una
riforma della legislazione di tutti i paesi. Dalla riforma della
legislazione, Filangieri si attende il progresso del genere umano
verso la felicità e l'educazione del cittadino. Ispirato da
questa fiducia ottimistica nella funzione formatrice e creatrice
della legge, il Filangieri delinea il suo piano di legislazione. Nel
quale è notevole una difesa dell'educazione pubblica, difesa
che muove dal principio che solo essa può avere
uniformità di istituzioni, di massime e di sentimenti e che
per ciò soltanto la minor parte possibile dei cittadini va
lasciata all'educazione privata.
La dottrina di Vico delle tre
età e dei corsi e ricorsi storici è ripresa nello
spirito dell'Illuminismo da Mario Pagano (1748-1799) nei Saggi
politici dei principi, progressi e decadenza della società
(1783-1785). Ma a Pagano è estranea completamente quella
problematicità della storia che domina l'opera di Vico. Il
corso e ricorso delle nazioni è per lui un ordine fatale,
dovuto più a cause fisiche che a cause morali. Pagano
considera il mondo della storia come un mondo naturale, le cui leggi
non sono diverse da quello fisico.
L'altro centro dell'Illuminismo
italiano fu Milano dove una schiera di scrittori si riunì
intorno a un periodico, Il Caffè, che ebbe vita breve ed
intensa (1764-1765). Il giornale, concepito sul modello dello
Spectator inglese, fu diretto dai fratelli Verri, Pietro e
Alessandro, e vi collaborò fra gli altri Cesare Beccaria.
Alessandro Verri (1741-1816) fu letterato e storico. Pietro Verri
(1728-1797) fu filosofo ed economista. In un Discorso sull'indole
del piacere e del dolore (1773) Pietro Verri sostiene il principio
che tutte le sensazioni, piacevoli o dolorose, dipendono, oltre che
dall'azione immediata degli oggetti sugli organi corporei, dalla
speranza e dal timore. La dimostrazione di questa tesi è
fatta dapprima per ciò che riguarda il piacere e il dolore
morale, riportati a un impulso dell'anima verso l'avvenire. Il
piacere del matematico che ha scoperto un teorema deriva, per
esempio, dalla speranza dei piaceri che lo aspettano in avvenire,
dalla stima e dai benefici che la sua scoperta gli apporterà.
Il dolore per una disgrazia è similmente il timore dei dolori
e delle difficoltà future. Ora poiché la speranza
è per l'uomo la probabilità di vivere nel futuro
meglio che nel presente, essa suppone sempre la mancanza di un bene
ed è per ciò il risultato di un difetto, di un dolore,
di un male. Il piacere morale non è che la rapida cessazione
del dolore ed è tanto più intenso quanto maggiore fu
il dolore della privazione o del bisogno.
Il Verri estende poi la
sua dottrina anche ai piaceri e ai dolori fisici, facendo vedere
come molte volte il piacere fisico non è che la cessazione di
una privazione naturale o artificiale dell'uomo. All'obiezione che
la tesi si può invertire, sostenendo con eguale
verisimiglianza che ogni dolore consiste nella rapida cessazione del
piacere, il Verri risponde che una simile generazione reciproca non
si può dare, perché "l'uomo non potrebbe cominciare
mai a sentire né piacere né dolore; altrimenti la
prima delle due sensazioni di questo genere sarebbe e non sarebbe la
prima in questa ipotesi, il che è un assurdo" (Discorso, 6).
Verri giunge a confermare la conclusione che Maupertuís aveva
tratto dal suo calcolo, e cioè che la somma totale dei dolori
è superiore a quella dei piaceri. Difatti la quantità
del piacere non può mai essere superiore a quella del dolore
perché il piacere non è che la cessazione del dolore." Ma tutti i dolori'che non terminano rapidamente sono una
quantità di male che nella sensibilità umana non trova
compenso e in ogni uomo si dànno delle sensazioni dolorose
che cedono lentamente" (ivi, 6). Anche i piaceri delle belle arti
hanno la stessa origine: a loro fondamento ci sono quelli che Verri
chiama dolori innominati. L'arte non dice nulla agli uomini che sono
tutti presi dalla gioia e parla invece a coloro che sono occupati
dal dolore o dalla tristezza. Il magistero dell'arte consiste anzi
nello "spargere le bellezze consolatrici dell'arte in modo che ci
sia intervallo bastante tra l'una e l'altra per ritornare alla
sensazione di qualche dolore innominato, ovvero di tempo in tempo di
far nascere delle sensazioni dolorose espressamente, e
immediatamente soggiungervi un'idea ridente, che dolcemente
sorprenda e rapidamente faccia cessare il dolore" (ivi, 8).
La
conclusione è che "il dolore è il principio motore di
tutto l'uman genere". Da questi presupposti muove l'altro discorso
di Verri Sulla felicità. Per l'uomo è impossibile la
felicità pura e costante, ed invece è possibile la
miseria e l'infelicità. L'eccesso dei desideri sulle nostre
capacità è la misura dell'infelicità. L'assenza
dei desideri è piuttosto vegetazione che vita, mentre la
violenza dei desideri può essere provata da ognuno ed
è talvolta uno stato durevole. La saggezza consiste nel
commisurare in ogni campo i desideri alle possibilità e
perciò la felicità non è fatta che per l'uomo
illuminato e virtuoso.