CHIOCCHETTI, Emilio

 

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di Carlo Coen

Nacque a Moena (Trento) il 20 sett. 1880 da Lorenzo e Maddalena De Francesco. Vestì l'abito francescano nel 1895 e l'anno successivo si trasferì a Rovereto per termnare gli studi secondari. In questi anni il suo interesse fu rivolto principalmente alla letteratura, ma nel contempo egli iniziò a leggere Pascal e a conoscere, benché di seconda mano, attraverso il Corte e il Morando, il pensiero filosofico di quel Rosmini che influenzò profondamente tutta la sua elaborazione successiva. Iniziati dopo il liceo i corsi di teologia, si appassionò agli studi biblici, tanto da richiedere il trasferimento presso l'Istituto biblico francescano di Gerusalemme e la facoltà teologica di Vienna, che gli venne però rifiutato in entrambi i casi. Nel 1903 ebbe l'ordinazione sacerdotale.

L'incontro con la filosofia avvenne invece relativamente tardi, quando egli fu mandato a Roma presso il Collegio internazionale di S. Antonio, dove rimase fino al 1908, dedicandosi con impegno e assiduità ai corsi filosofici. In quell'anno ritornò a Rovereto, per insegnare filosofia. Fin dal suo sorgere collaborò, su invito del padre Gemelli, alla Rivista di filosofia neoscolastica con recensioni e note critiche; tale collaborazione lo impegnerà per tutta la vita.

Il suo interesse per la filosofia contemporanea si manifestò fin da questi anni: tra il 1908 e il 1909 progettò uno studio sistematico sulla filosofia di Bergson, interrompendolo definitivamente per approfondire le sue cognizioni e la sua cultura filosofica recandosi a Lovanio, centro degli studi neoscolastici, nel 1910. È di questo periodo il suo approccio all'idealismo crociano, che costituirà l'elemento centrale della sua elaborazione. Subito dopo si recò in Germania, a Fulda, per ascoltare il Gutberlet, e successivamente a Vienna, dove frequentò come uditore le lezioni di psicologia del Wundt.

Tornato all'insegnamento a Rovereto nel 1912, assunse la direzione della Rivista tridentina, continuando a studiare e a scrivere articoli. Significativi furono quelli sul pragniatismo, che redasse per la Rivista di filosofia neoscolastica tra il 1910 e il 1911, dove espose in maniera circostanziata le dottrine di tale corrente. Ma la sua fatica più importante di questi anni fu la serie di articoli sulla filosofia di Benedetto Croce del 1913 e del 1914, che furono ripubblicati in volume nel 1915 e in edizioni successive (La filosofia di Benedetto Croce, Firenze 1915; 2 ed., Milano 1920; 3 ed. riveduta e ampliata, ibid. 1924).

Prima di affrontare specificamente la filosofia crociana, il C., nell'introduzione, espone la sua concezione gnoseologica. Ciò, avverte, servirà a comprendere più chiaramente gli accordi e i disaccordi con il Croce.

Dopo aver criticato le due concezioni opposte dei pluralismo e del monismo, in quanto ambedue astratte e unilaterali, affermando che la verità consiste in una conciliazione a livello superiore, il C. delinea il suo sintetismo: di esplicita derivazione rosminiana, tale concezione si fonda sulla concretezza della realtà e la sua organicità e consiste in una legge universale che stabilisce in un ordine organico tutte le forme della realtà stessa. In questa posizione, più ancora che nell'aperta polemica contro ogni atomismo, si riconosce una ripresa, benché adattata alle esigenze del XX secolo, della soluzione aristotelico-platonica del problema critico. Essa trova nell'autocoscienza, attraverso la sua presenzialità e autoaffermazione, la via per giungere al concetto. Dalla perfetta corrispondenza tra ordine logico e ontologico e dalla realtà come totalità organica, deriva che ogni conoscenza deve essere sapere sistematico e organico e che duqque ogni concetto è universale e concreto.

Passando poi allo studio della filosofia del Croce, dopo aver ricordato il contesto storicoculturale in cui essa si formò, il C. dichiara esplicitamente che vi possono essere alcuni punti di totale accordo con essa. Il primo di essi è il concetto di arte come intuizione pura; il grande merito del Croce, afferma il C., sta nell'aver formulato teoricamente e dedotto filosoficamente il carattere lirico e sentimentale della creazione artistica. Altro punto fondamentale di accordo riguarda la teoria degli pseudoconcetti, e di qui l'affermazione di concretezza e universalità del concetto, nonché la natura non teoretica dell'errore; è evidente che tali accordi sono la diretta conseguenza della dottrina del sintetismo del Chiocchetti. Questi elementi positivi sono però tutti inficiati dalla concezione immanentistica del Croce, su cui sì appunta infatti la sua critica. Il C. riafferma, di fronte all'idealismo immanentistico, il realismo teistico., per cui la realtà, in quanto razionale, esige un soggetto trascendente come sua causa e ragione sufficiente, per cui, cioè, la razionalità della natura deve avere in Dio una fonte analoga a quella della razionalità del mondo umano.

Allo scoppio della guerra, sospettato di irredentismo, fu costretto a trasferirsi oltre il Brennero, a Schwaz, dove rimase, se si eccettua una breve parentesi viennese, fino al 1918, quando tornò nel Trentino, a Cles. Il volume sul Croce aveva però suscitato notevoli e animate polemiche; accusato di idealismo, i suoi scritti principali del quinquennio 1915-1920 riguardano, direttamente o indirettamente, la questione gnoseologica.

Polemizzando con il dogmatismo assoluto del Mattiussi e con l'astrattismo del Mercier, il C. ribadì la sua posizione, chiarendo assai bene sia le affinità che le differenze tra essa e l'idealismo. Non è possibile liquidare sommariamente, dice il C., tutte le conquiste della filosofia moderna e, anche se occorre senza dubbio ristabilire la validità del realismo tradizionale, ciò deve tuttavia avvenire per via di dimostrazione e mai per principi astratti e decisi una volta per tutte. Se il dualismo tra soggetto e oggetto va tenuto fermo, la concretezza e l'universalità del concetto rimangono i caratteri fondamentali del conoscere, poiché non c'è cognizione positiva senza percezione. Ma la concretezza idealistica e quella realistica differiscono profondamente, afferma il C., rigettando ogni accusa di idealismo: l'accordo tra ordo idearum e ordo rerum nell'idealismo è quasi automatico e necessario, poiché l'attività creatrice dell'io si identifica con la realtà; nel realismo, invece, esso deriva da un libero avvicinarsi di soggetto e oggetto, che rimangono due entità distinte.Nel 1920 il C. contrasse l'encefalite letargica: questa malattia, alla quale resistette per lungo tempo, gli procurò comunque crisi successive che gli impedirono di dedicarsi con continuità all'insegnamento e allo studio. Superata una prima crisi, il C. pubblicò nel 1922 un altro volume fondamentale nella sua opera di disamina dell'idealismo italiano, ormai in posizione predominante nel dibattito culturale di quegli anni, confrontandosi con l'attualismo (La filosofia di Giovanni Gentile, Milano 1922; 2 ed., ibid. 1925).

Nel volume sul Gentile si avverte subito un tono diverso da quello usato per il Croce: inolto più duro e intransigente e meno disposto a concessioni. L'idealismo attualistico viene opposto alla concezione cristiana in maniera netta e definito nemico della fede. Vengono riconosciute la forza e la vitalità delle dottrine gentiliane, ma ciò viene giudicato assai negativamente. Eppure, nella conclusione, il C. sa trarre alcuni insegnamenti dallo studio dei due pensatori meridionali affrontato in questi due volumi. In particolare, afferma, da essi il cattolico deve imparare che è necessario poggiare ogni attività filosofica su di una vasta base culturale, in grado di abbracciare tutti i problemi e le relative risposte che ad essi vengono date con atteggiamenti sempre rinnovantisi da parte dello spirito. "Da tutti e due - conclude il C. - dobbiamo imparare a vedere e cogliere la organicità, la metodicità, la modernità e la concretezza storica del sapere. Ma quanto ai principli noi non abbiamo nulla da imparare; noi ci sentiamo superiori agli idealisti, perché la filosofia che costruiamo sulla base di essi non contraddice, come l'idealismo, alle attestazioni della coscienza umana e della cognizione comune, ma la spiega, la integra e la riduce a sistema" (p. 475).

Ma il senso profondo di questo elemento della sua elaborazione può apparire ancora più chiaro quando il C., che aveva definito il crocianesimo più uno "spiritualismo realistico" che un vero e proprio idealismo, spiega le ragioni del suo pur sempre differente atteggiamento nei confronti dei due filosofi meridionali: "Il Croce tratta e risolve problemi che anche la filosofia tradizionale, considerava come immanenti; il Gentile invece risolve nel senso dell'immanenza problemi che la filosofia tradizionale risolve nel senso della trascendenza... Il Croce vede il mondo e si ferma lì; il Gentile vede il mondo e lo afferma come Dio" (p. 476).

Finché, in altre parole, il pensiero moderno puntualizzava in senso storicistico alcuni problemi riguardanti la ragione umana e il suo rapporto con la realtà, il cattolico poteva e doveva svecchiare le sue concezioni, prestando attenzione a molte sue considerazioni; quando, invece, esso entrava nel campo della religione, pretendendo di minare le sue basi filosofiche tradizionali, ecco che l'atteggiamento del credente doveva mutare di segno.

Nel 1924 il C. ottenne la libera docenza presso l'università cattolica del Sacro Cuore di Milano e iniziò l'insegnamento universitario. Ma nel 1931 subì un nuovo, grave attacco della sua malattia e fu costretto a lasciare la cattedra e a tornare a Rovereto. In questi anni la sua attività era stata multiforme: aveva pubblicato scritti su Maine de Biran, s. Tommaso, Herbart, e soprattutto su Giambattista Vico, che raccolse poi in volume (La filosofia di Giambattista Vico, Milano 1935).

Attraverso questi scritti il C. confermò l'impostazione delle elaborazioni precedenti: un'attenzione sempre viva alle problematiche, pur varie e talvolta contraddittorie, delle correnti e dei sistemi che analizzava, il rifiuto di ogni liquidazione soniniaria o dogmatica, la discussione sempre attenta e circostanziata di ogni dottrina, la ricerca di elementi positivi in ogni manifestazione di pensiero furono le caratteristiche costanti di tutta la sua opera.

Negli anni '30 e '40, lottando contro il male che talvolta gli impediva addirittura di leggere, progettò lavori di ampio respiro su s. Agostino e Duns Scoto, che. non portò mai a termine; scrisse ancora numerosi articoli, riprendendo e precisando tematiche già affrontate, quali la sua concezione sintesistica e organicistica, la filosofia di G. B. Vico, Duns Scoto e Rosmini, l'estetica crociana.

La sua figura rimane comunque legata al tentativo, in parte riuscito, di aggiornare la filosofia cristiana nell'epoca dell'idealismo, attraverso la discussione aperta con esso e l'incontro tra neoscolastica e crocianesimo; la sua attenzione sempre viva alle correnti più significative della filosofia del '900 e il suo metodo, aperto a ogni novità, di affrontare le problematiche da esse poste sono gli elementi che fanno del C. un personaggio non trascurabile nel complesso dibattito filosofico e culturale del periodo tra le due guerre.

Morì a Moena il 27 luglio 1951.