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Erasmo da Rotterdam (Rotterdam, 1466/1469 – Basilea, 12 luglio 1536)
è stato un teologo, umanista e filosofo olandese.
Firmò i suoi scritti con lo pseudonimo di Desiderius Erasmus.
La sua opera più conosciuta è l'Elogio della follia,
ed è considerato il maggiore esponente del movimento
dell'Umanesimo cristiano.
Biografia
La giovinezza di Erasmo
Le informazioni sulla famiglia e sulla prima giovinezza di Erasmo si
possono dedurre solo da scarsi indizi sparsi nei suoi scritti.
Nacque a Rotterdam o a Gouda, in Olanda, allora territorio del
Ducato di Borgogna, in un anno imprecisato tra il 1466 e il 1469,
dalla relazione tra Margherita, una donna di Gouda figlia di un
medico, e un prete di nome Geert, i quali avevano già avuto
qualche anno prima un altro figlio, Pieter. Anche se le convivenze
più o meno mascherate di preti con donne erano relativamente
diffuse, tale circostanza fece però sì che Erasmo non
amasse parlare delle proprie origini.
Battezzato con il nome di Erasmo, adotterà in seguito il
secondo nome di Desiderio. Fece i primi studi a Gouda e all'incirca
dal 1476 frequentò la scuola capitolare di San Lebuinus a
Deventer, dove apprese soprattutto la lingua latina e la retorica.
Quella scuola, definita da Erasmo ancora barbara,[4] solo alla fine
del suo soggiorno fu retta dall'umanista Alexander Hegius, ed Erasmo
ebbe l'occasione di ascoltarvi una volta il famoso Rudolf Agricola.
Dopo la morte dei genitori per peste nel 1483 i tutori di Erasmo e
Pieter, che speravano che i due giovani prendessero i voti
monastici, li mandarono a studiare in una scuola dei Fratelli della
vita comune, a 's Hertogenbosch, da dove tornarono a Gouda dopo due
anni, a causa di una nuova epidemia di peste. Pieter si fece frate
nel convento di Sion, vicino Delft, e poco dopo, nel 1487, Erasmo
entrò nel convento agostiniano di Steyn, nei pressi di Gouda.
Qui Erasmo si legò con intensa amicizia al suo compagno di
cella, Servatius Rotger, di poco più giovane, che
diverrà priore di quel convento: «Io ti amo più
dei miei occhi, della mia anima, insomma più di me
stesso», e «Tu conosci la mia pusillanimità: se
non ho nessuno su cui appoggiarmi e riposare, mi struggo in lacrime
e prendo a noia la vita», gli scriveva in lettere dove
l'eccesso del sentimento si univa all'amore delle citazioni
classiche. Molti anni dopo, riflettendo sul suo passato, Erasmo
scriveva che «la gioventù suole concepire fervide
simpatie verso alcuni compagni». I legami di affetto e di
intimità nelle amicizie maschili erano del resto molto
frequenti nell'età rinascimentale, e i toni usati da Erasmo
non provano che egli fosse animato da desideri erotici. Non risulta
nessuna accusa di omosessualità mossagli durante la sua vita,
ed egli stesso si impegnò a condannare la sodomia nei suoi
scritti e ad elogiare il desiderio sessuale nel contesto del
matrimonio tra uomo e donna.
Poco alla volta imparò a controllarsi e alla figura dello
studente sentimentale subentrò quella del latinista che
discorre di letteratura e dà consigli di stile. In una
lettera all'amico Cornelius Gerard[10] egli mostra di aver acquisito
la conoscenza di tutti i maggiori autori classici latini, di
Agostino, di Gerolamo, di umanisti italiani, tra i quali spicca
Lorenzo Valla, le cui Elegantiae erano per lui un modello di bonae
litterae moderne.
Ma se nel convento si accresceva la sua istruzione, non progrediva
l'affezione per la vita monastica. Nel carteggio di quel periodo non
vi è traccia di argomenti religiosi e vi è
insofferenza per i suoi superiori che non comprendono e frenano la
sua passione per la poesia. Nella sua prima opera tuttavia, una
Lettera sul disprezzo del mondo (De contemptu mundi) scritta intorno
al 1489, egli loda la vita solitaria dei monaci come mezzo per
realizzare l'ideale umanistico della formazione di uno spirito
eletto, pur non giungendo mai ad esaltare il ritiro conventuale
quale espressione di una compiuta vita cristiana.
Con tutto ciò, il 25 aprile 1492 fu ordinato canonico
agostiniano a Steyn, ma già nel 1493 colse l'occasione per
lasciare il convento per mettersi al servizio del vescovo di
Cambrai, Hendrik van Bergen (1449-1502), il quale aveva
necessità di un segretario che fosse buon conoscitore del
latino. Erasmo non fu però soddisfatto della nuova
sistemazione che lo costringeva a frequenti viaggi per i Paesi
Bassi, sottraendogli molto tempo ai suoi studi prediletti. Fu
così che nel 1495, con il consenso del vescovo e con un
modesto sussidio, si recò a studiare presso
l'Università di Parigi, che era allora la sede principale
dell'insegnamento scolastico.
Gli Antibarbari
Tra la fine dell'incarico presso il vescovo e il suo arrivo a
Parigi, Erasmo terminò di scrivere l'Antibarbarorum Liber, un
dialogo nel quale egli affronta il problema della convivenza della
cultura classica con la fede cristiana. I motivi della decadenza
dell'antica cultura sono addebitati al prevalere, nella religione
cristiana, di un'ostilità pregiudiziale nei confronti
dell'eredità classica, spesso senza nemmeno conoscerla
realmente, i teologi scolastici l'hanno giudicata per lo più
pericolosa per la fede, e altri hanno ritenuto che per vivere
davvero cristianamente fosse necessario coltivare non le lettere ma
la virtù della semplicità.
È così avvenuto che «religione e cultura in
quanto tali non riescono a vivere in armonia nel modo giusto»,
poiché «la religione senza le bonae litterae comporta
in ogni caso una certa pesante ottusità», mentre
«i conoscitori delle litterae hanno una cordiale avversione
della religione». Poiché Erasmo ritiene che nella
cultura antica vi sia il presentimento del prossimo annuncio
cristiano, una conciliazione tra fede e cultura classica è
tuttavia possibile, come già Agostino e Gerolamo avevano
dimostrato, ma ora è l'arroganza dei teologi moderni a
renderla problematica.
Erasmo a Parigi
Erasmo rimase a Parigi fino al 1499. Si stabilì dapprima nel
Collège de Montaigu, ma presto la dura disciplina e il
pessimo alloggio lo convinsero a trasferirsi in una pensione per
studenti, arrotondando il magro stipendio del vescovo con lezioni
private di latino. Per le necessità del suo lavoro di
precettore, scrisse alcuni manuali e cominciò a raccogliere
una serie di proverbi e di forme idiomatiche latine destinate a
grande successo, gli Adagia.
Intendeva laurearsi in teologia, ma non riuscì nello scopo.
Certamente rimase deluso dei suoi professori e della teologia
scolastica deteriore che veniva insegnata, fondata su Duns Scoto:
«se tu vedessi Erasmo seduto tra quei santi scotisti, con la
bocca aperta, ad ascoltare la lezione che il professor Grillardus
tiene dall'alto della sua cattedra! Se tu lo vedessi, con la fronte
aggrottata, con gli occhi sbarrati e i lineamenti tesi!»,
scrisse allora, e qualche anno dopo: «arzigogoli e
sottigliezze sofistiche, concepiti da ignoranti e attaccabrighe:
nascono liti su liti e noi, molto compresi, disputiamo su questioni
di lana caprina e solleviamo problemi quasi insopportabili per
orecchie pie». Erasmo non cesserà di sottolineare la
lontananza delle loro stultae quaestiones dalla prudenza e dalla
sobrietà di spirito dei Padri della Chiesa, della quale
ammirava e venerava talmente «l'ordine dei teologi, che solo
ad esso diedi il mio nome, e solo in esso volli essere annoverato,
benché la modestia mi vieti di fregiarmi di un titolo
così elevato, in quanto non ignoro quali doti di sapere e di
vita si richiedano per il nome di teologo».
A Parigi fu in contatto con Jan Standonck (1454-1504), direttore di
Montaigu, e con un amico di questi, Jan Mombaer (1460-1501),
entrambi seguaci della Devotio moderna, movimento religioso che
Erasmo aveva già conosciuto a Steyn e il cui influsso su
Erasmo è stato sopravvalutato. Del resto, giudicò il
Rosetum exercitiorum spiritualium scritto da Mombaer
«nient'altro che cardi e loglio», e nel colloquio Del
mangiar pesce denunciò «la vera e propria
crudeltà verso il prossimo» dello Standonck.
Apprezzò invece Robert Gaguin (1433-1501), uno dei maggiori
umanisti parigini dell'epoca, e si fece un buon amico nell'umanista
italiano Fausto Andrelini, già poeta laureato a Roma e che
anche in Francia aveva ottenuto un grande successo nel campo delle
lettere latine, tanto da essere nominato poeta regio da Carlo VIII.
Nell'estate del 1499 lasciò Parigi per l'Inghilterra, per
diventare precettore del giovane William Blount, quarto barone di
Mountjoy, che sarà poi maestro del principe Enrico. Grazie
alle conoscenze di lord Mountjoy, Erasmo venne in contatto con molti
esponenti dell'aristocrazia, con Tommaso Moro (1478-1535), con
William Grocyn (1446-1519), con Thomas Linacre (1460-1524). Si
compiaceva di vedere come in Inghilterra germogliassero
«ovunque abbondanti i semi della scienza antica», come
scrisse il 5 dicembre all'amico Robert Fisher.
A Londra fu presentato al principino Enrico e, stabilitosi a Oxford,
conobbe anche il teologo John Colet (1466-1519), del quale
ascoltò con grande interesse le lezioni sulle lettere di san
Paolo. Si è sostenuto che il Colet abbia esercitato un
influsso decisivo su Erasmo, spingendolo a quell'interesse
filologico per la Bibbia che è centrale nella sua
attività di studioso. In realtà John Colet non
conosceva il greco e il fascino che egli esercitò
sull'umanista olandese si deve probabilmente soprattutto alla
qualità del suo carattere personale, come lo stesso Erasmo
scrisse ricordando il Colet.
Dopo sei mesi, Erasmo ritornò a Parigi. Il viaggio fu molto
movimentato: i doganieri inglesi gli sequestrarono a Dover tutto il
suo denaro e in Francia due briganti tentarono di rapinarlo. Il
bisogno di guadagnare rimase per molti anni assillante ed egli
dovette più volte rivolgersi a diversi benefattori sparsi tra
i Paesi Bassi, l'Inghilterra e la Francia. Era già ben
consapevole del suo valore se, chiedendo all'amico Jacob Batt di
intercedere presso la ricca mecenate Anna van Borsselen, scriveva
nel 1500 che «con i miei scritti renderò a questa
gentilissima signora più onore di tutti gli altri teologi da
lei protetti. Mentre essi predicano banalità effimere, quello
che scrivo io è destinato a durare. Quegli ottusi
chiacchieroni si possono ascoltare in questa o quella chiesa, mentre
i miei libri vengono letti da latini, da greci, da tutti i popoli
della terra. Di tali ottusi teologi se ne trovano in abbondanza, uno
come me non lo si vede da secoli».
Gli Adagia
Nel 1500 l'editore parigino Jean Philippe pubblicò i suoi
Adagiorum collectanea, una raccolta di 818 proverbi latini e modi di
dire filologicamente commentati. La raccolta si amplierà con
le successive edizioni: quella del 1505 ne contiene 838, l'edizione
veneziana di Aldo Manuzio, del 1508 - a partire dalla quale Erasmo
comincia a inserire numerose citazioni greche - ne contiene 3.260 e
porta il titolo Adagiorum chiliades che sarà quello
definitivo anche nell'ultima edizione del 1536, pubblicata con i
tipi dell'editore di Basilea Johan Froben e contenente 4.151
proverbi.
I più citati, tra i latini, sono Cicerone, Aulo Gellio,
Macrobio, Orazio, Virgilio; tra i greci, Aristofane, Aristotele,
Diogene Laerzio, Luciano, Omero, Pitagora, Platone, Plutarco,
Sofocle, la Suda. Gli autori cristiani - Agostino e Gerolamo - o i
passi biblici sono relativamente meno presenti, mentre non mancano
autori rari come Michele Apostolio, Diogeniano, Stefano di Bisanzio,
Zenobio.
Erasmo aveva infatti iniziato a studiare il greco solo dal 1500,
comperandosi scritti di Platone e pagandosi un insegnante, e nello
stesso tempo si dedicava allo studio di Gerolamo, di cui possedeva
tutte le opere. La conoscenza del greco gli era indispensabile per
affrontare l'impegno maggiore, quello della Bibbia e della teologia:
«io credo che sia il colmo della follia anche solo accennare a
quella parte della teologia che tratta in particolare del mistero
della salvezza, se non si è padroni anche del greco»,
scriveva nel 1501, e tre anni dopo scriveva di trovarsi «sotto
l'incantesimo del greco», deciso a dedicare la vita allo
studio della Scrittura.
L'Enchiridion
Già scritto nel 1501 per Johann Poppenreyter, un armiere
della corte di Borgogna, il quale si fece dell'opuscolo quel che
Erasmo si «fece della spada ricevuta in cambio per
omaggio», cioè nulla,[26] l'Enchiridion militis
christiani fu rielaborato da Erasmo nel 1503 e pubblicato ad
Anversa dall'editore Dirck Maertens nel febbraio del 1504 nelle
Lucubratiunculae, una raccolta di brevi scritti di diversi autori.[
L'Enchiridion fu edito come opera a sé dallo stesso Maertens
nel 1515 a Lovanio ed ebbe una larga diffusione con diverse
traduzioni: la prima traduzione italiana, a opera di Emilio dei
Migli, apparve a Brescia nel 1531. È da notare che, per la
ristampa del 1518 dell'editore Johann Froben di Basilea, Erasmo
scrisse un'introduzione nella quale difendeva Lutero dagli attacchi
cui era soggetto dopo l'esposizione delle sue Tesi.
Enchiridion significa manuale o anche pugnale e lo scopo del libro,
come dichiara l'autore, è prescrivere un modello di vita
cristiana. Il cristiano è concepito come un soldato che deve
combattere per vivere felicemente nel mondo: egli possiede due armi,
la preghiera e la conoscenza di sé. In quanto essere
naturale, egli appartiene a questo mondo, ma egli è anche un
essere spirituale, e deve pertanto innalzarsi al mondo dello
spirito. Citando infatti il passo di Giovanni «è lo
spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla»,
Erasmo commenta che «a tal punto non giova, che la carne
è mortifera se non conduce allo spirito». E anche Paolo
«vuole che ci fondiamo sullo spirito che è la fonte
della carità e della libertà».
Ne deriva che per giungere a Dio, la via delle pratiche esteriori di
devozione - andare in chiesa, recitare i salmi, digiunare - non
è adeguata se non corrisponde a un'intima convinzione:
«beati coloro che ascoltano interiormente la parola di Dio.
Felici quelli a cui il Signore dice interiormente la sua parola: le
loro anime saranno salvate». Credere che le cerimonie
religiose da sole bastino a salvarci significa «rimanere nella
carne della legge, confidare in cose che non valgono nulla e che in
realtà Dio detesta».
La vita monacale è un esempio di pratica continua e
scrupolosa delle cerimonie. I monaci, che pure credono di avere un
rapporto privilegiato con Dio e con lo spirito, sono rimasti in
realtà «bambini in Cristo», mostrando una
«grande debolezza d'animo: trepidano anche laddove non
c'è nulla da temere e sbadigliano per il sonno quando il
pericolo è maggiore». Essi opprimono il cristiano con
scrupoli e cavilli, «lo costringono a rispettare tradizioni
puramente umane e precipitano il misero in una sorta di giudaismo,
gli insegnano il timore, non l'amore».
Altri esempi di devozione cerimoniale degenerati nel formalismo e
nella vuota apparenza sono il culto dei santi e delle reliquie.
È meglio imitare la loro vita e le loro virtù, e
piuttosto che venerare un frammento della croce di Cristo, è
meglio ascoltare la sua parola: «come niente è
più simile al Padre del Figlio, il Verbo del Padre che
promana dall'intimità del suo cuore, così niente
è più simile a Cristo della sua parola». Anche
la messa appartiene alla sfera dell'esteriorità se il
sacrificio di Cristo non si realizza nello spirito dell'uomo.
Nella visione di Erasmo del cristianesimo, «l'uomo si pone
davanti a Dio come individuo singolo, e segue solo la voce di Dio e
della propria coscienza [...] È la via verso
l'interiorizzazione. Il dato oggettivo e insignificante, quello
istituzionale, non serve [...] quello che conta veramente è
solo il cuore, la disposizione individuale». Con
l'Enchiridion, «la parola d'ordine della libertà
evangelica è lanciata. E sebbene in questa prima fase essa
sia una formula più che una dottrina, tuttavia fin da ora la
si trova strettamente associata alla religione dello spirito. La
libertà evangelica è il vertice dello spiritualismo di
Erasmo, il risvolto positivo della sua battaglia contro
l'esteriorità delle cerimonie».
Quel che Erasmo intendeva colpire erano comunque gli eccessi di tali
cerimoniali, non le pratiche in sé. Sono attestate ad esempio
le sue esperienze di pellegrino al santuario di Nostra Signora della
Santa Casa a Walsingham, o una preghiera di ringraziamento in onore
di Santa Genoveffa, da lui composta per averlo fatto guarire da una
malattia.
Il viaggio in Italia
Il nuovo secolo si era aperto per Erasmo con nuovi viaggi da Parigi
a Orléans, poi a Lovanio nel 1502, ancora a Parigi nel 1505,
dove pubblicò le Annotationes al Nuovo Testamento di Lorenzo
Valla, primo esempio della sua attività di curatore ed
esegeta di manoscritti.
Dopo una breve permanenza in Inghilterra, dal 1506 al 1509 Erasmo
visse in Italia. Dopo un primo periodo trascorso a Torino, dove il 4
settembre 1506 si laureò in teologia presso la locale
Università, si trasferì a Bologna e di qui Venezia,
ospite del suocero dell'editore Aldo Manuzio. Con lui abitava
l'umanista Girolamo Aleandro, dal quale Erasmo prese lezioni di
greco: destinato a una carriera ecclesiastica di grande successo,
l'Aleandro diventerà cardinale e nunzio pontificio, e
accuserà Erasmo di essere un eretico e un fomentatore della
Riforma protestante.
Erasmo approfittò del soggiorno veneziano per procurarsi
altri manoscritti di autori greci e per lavorare intensamente agli
Adagia che ampliò notevolmente e fece pubblicare dal Manuzio
nel 1508. Visitò anche Padova e Siena, fu a Napoli, a Cuma e,
nel 1509, a Roma, dove conobbe i cardinali Domenico Grimani e
Giovanni de' Medici, gli umanisti Raffaele Riario ed Egidio di
Viterbo - altro suo futuro, accanito avversario - e assistette, il
venerdì santo, a una predica tenuta di fronte a Giulio II nel
quale l'oratore paragonava il papa a Giove che impone la sua
autorità ai potenti del mondo.
La notizia della morte del re inglese Enrico VII nell'aprile del
1509 e della prossima salita al trono di Enrico VIII, comunicatagli
dall'amico Blount con un invio di denaro e il miraggio dei grandi
successi che lo avrebbero atteso in Inghilterra, lo spinse a
lasciare Roma, e come all'andata in Italia era andato scrivendo un
De senectute, così nel viaggio di ritorno, «per non
perdere in chiacchiere da rozzi illetterati tutto il
tempo»,gli venne in mente di celebrare l'elogio della pazzia,
quel Moriae encomium che nel titolo ricordava il nome dell'amico
Tommaso Moro che si riprometteva di rivedere nella lontana isola.
In Inghilterra: l'Elogio della Follia
Dopo un viaggio di due mesi Erasmo raggiunse l'Inghilterra e fu
ospite dell'amico Moro. Durante un periodo di malattia, riprese la
sua idea di scrivere un Moriae Encomium o Elogio della Follia che
portò a termine in una settimana. Lo scritto fu pubblicato a
Parigi nel 1511, ebbe una seconda edizione aumentata nel 1514, e nel
1515 apparve a Basilea, per l'editore Froben, la versione definitiva
con un commento dell'umanista olandese Gerard Listrius, scritto in
parte dallo stesso Erasmo.
È la Follia personificata a parlare e a fare l'elogio di se
stessa di fronte a un pubblico che appare molto divertito. Erasmo
mantiene nel discorso una costante ambiguità, presentando le
sue affermazioni non solo come folli, ma anche rivelatrici, sotto
l'apparenza scherzosa, di una profonda e seria verità.
La Follia è figlia della ninfa Neotete, la Giovinezza, e di
Pluto, il dio della ricchezza, e a un cenno di questo dio
«tutte le cose, sacre e profane, si confondono insieme, a suo
arbitrio si fanno guerre, paci, imperi, consigli, tribunali,
assemblee popolari, matrimoni, trattati, alleanze, leggi, arti, cose
serie e cose buffe», insomma tutte le attività proprie
dell'uomo. Già gli esseri umani nascono da quella parte del
corpo che è «così pazza, così buffa, che
non se ne può fare nemmeno il nome senza scoppiare a
ridere», e per mettere il collo al guinzaglio del matrimonio
bisogna proprio essere sotto l'influsso di Anoia, l'irriflessione.
L'incanto dell'infanzia è dovuto a quella sua «follia
pazzerellona», il piacere della gioventù a quella sua
certa mancanza di giudizio, e alla noiosa assennatezza
dell'età matura succede spesso il rimbambimento della
vecchiaia: «il vecchio va in delirio, e questo è dono
mio - dice la Follia - ma intanto questo mio vecchio delirante
è libero da quei miserevoli affanni che torturano il
saggio».
Un po' di follia dà sapore alla vita, rende amabili le
donne, favorisce la convivialità e le amicizie, insomma ci
permette di sopportarci a vicenda.
La follia produce le guerre, che sono «origine e campo delle
imprese più lodate», affidate non a caso a
«parassiti, ruffiani, briganti, sicari, contadini, imbecilli,
indebitati e simile feccia umana», certamente non ai filosofi
e ai cosiddetti sapienti, che se mettono mano agli affari di Stato
combinano solo danni, e sono inabili anche alle più modeste
funzioni della vita quotidiana. Per governare occorre invece
ingannare il popolo, lusingarlo per acquisirne il favore, essere
spinto da quella follia che è l'amore di sé, della
fama e della gloria che ci fa abbandonare ogni timidezza e ci induce
all'azione.
A guardar bene, la vita è una commedia dove ciascuno recita
una sua parte, e non è bene strappare la maschera agli attori
che stanno recitando: «tutta la vita non ha alcuna consistenza
ma, tant'è, questa commedia non può essere
rappresentata altrimenti», e il saggio che volesse mostrare
l'autentica realtà delle cose farebbe la figura
dell'insensato. L'uomo veramente prudente non deve «aspirare a
una saggezza superiore alla propria sorte, ma fare buon viso
all'andazzo generale e partecipare alle debolezze umane. Si
dirà che questa è follia. Non lo negherò,
purché si conceda che tale è la vita, la commedia
della vita che stiamo recitando».
Erasmo accenna poi alle follie di diverse categorie di persone: i
cacciatori, gli alchimisti, che sprecano tempo e denaro, e come loro
i giocatori d'azzardo, mentre al contrario, coloro che propalano
«miracoli e favolette di prodigi» hanno per scopo di
«cavar quattrini, come usano principalmente preti e
predicatori popolari». Ci sono poi i superstiziosi, quelli che
recitano ogni giorno i salmi penitenziali, e quelli che
attribuiscono a ciascun santo una particolare virtù
protettrice. Del resto, questi vaneggiamenti sono autorizzati e
alimentati dai sacerdoti, i quali «sanno che questa è
una piccola fonte di guadagno che non finisce mai».
C'è poi la follia dei nobili, che si vantano dei loro
antenati ma che non differiscono «dall'ultimo mozzo di
stalla», quella dei commercianti, che benché esercitino
«la più ignobile delle professioni e nella maniera
più ignobile», si considerano gli uomini più
importanti del mondo, come i grammatici, «sempre affamati,
sempre ripugnanti», che «marciscono nel fetore e nella
sozzura». I poeti credono di acquistare fama immortale, ma non
fanno altro che «accarezzare le orecchie di qualunque babbeo
con ciance e favolette da ridere». Ci sono poi gli scrittori,
i più seri dei quali, mai soddisfatti dell'opera loro,
perdono la salute e la vista senza compenso, mentre gli altri sanno
che più scriveranno sciocchezze maggior successo avranno,
come i plagiari, che si gloriano di una fama usurpata. Facendo la
satira degli studiosi e degli scrittori, Erasmo giunge di fatto a
burlarsi di se stesso, rivelando però in tal modo come sia
difficile prendere completamente sul serio la sua Follia.
Tra gli eruditi, i giuristi formano migliaia di leggi «poco
importa se a proposito o a sproposito» e poi ammucchiano
chiose su chiose per rendere più difficili gli studi legali.
I retori e i sofisti battagliano su «questioni di lana
caprina» e si azzuffano su qualsiasi argomento «armati
di tre sillogismi». I filosofi poi, benché non sappiano
nulla, fanno professione di sapere tutto e «van gridando
dovunque che essi vedono le idee, gli universali, le forme separate,
la materia prima, le quiddità e le ecceità».
Largo spazio viene dedicato da Erasmo anche alla follia di teologi
ed ecclesiastici. Oggetto della sua satira non sono ovviamente i
teologi in quanto tali, ai quali lui stesso si onorava di
appartenere, bensì i theologiae histriones («istrioni
della teologia») come li definisce nella lettera apologetica a
Martin Dorp del maggio 1515. Costoro, «razza
straordinariamente boriosa e irritabile», si occupano delle
questioni più assurde, quali «Iddio Padre odia il
Figlio? Avrebbe potuto Dio prender forma di donna, o del diavolo,
d'un asino, d'una zucca, d'una pietra? E in tal caso, come avrebbe
una zucca parlato al popolo e fatto miracoli?», e formulano
sentenze morali paradossali. Questi teologi della scolastica
decadente - di indirizzo realista, nominalista, tomista, albertista,
occamista, o scotista - metterebbero in difficoltà san Paolo
e tutti gli apostoli, se disputassero con loro. E guai a non essere
d'accordo con loro. Ne verrebbe subito la sentenza: «questa
proposizione è scandalosa, quest'altra poco reverente, questa
puzza d'eresia, quest'altra suona male». Buffo poi è il
fatto che essi credono di esser grandi teologi, quanto più
barbaramente parlano: «sostengono infatti che non è
conforme alla maestà delle sacre lettere esser costretti a
ubbidire alle leggi dei grammatici». A costoro Erasmo
contrappone i teologi che ritiene autenticamente autorevoli:
«Tanta è la sottigliezza del loro giudizio che, senza
il voto di questi baccellieri, a formare un vero cristiano non
basterebbero il battesimo, né il Vangelo, né San Paolo
o San Pietro, né San Gerolamo o Sant'Agostino, né lo
stesso San Tommaso, il più aristotelico di tutti i
teologi».
Quanto a quei religiosi che sono detti monaci - parola che significa
letteralmente solitari - c'è da dire che buona parte di essi
non hanno niente a che fare con la religione e non sono solitari,
visto che «non c'è luogo dove non te li trovi tra i
piedi». Quando in chiesa non «ragliano, da asini che
sono, i loro salmi», disturbano per le strade, elemosinando
con grande fracasso, e credono di guadagnarsi la vita eterna
osservando certe «cerimonie e tradizioncelle umane»,
senza sapere che Cristo chiederà conto dell'osservanza del
comandamento della carità. Da come predicano, poi,
«c'è da giurare che siano stati a scuola da ciarlatani
di piazza, senza per altro riuscire a raggiungerli».
Vescovi e cardinali, gli eredi degli apostoli, si danno alla bella
vita, e i papi, i vicari di Cristo, vivono «mollemente e senza
pensieri». Mentre i primi cristiani abbandonavano tutti i loro
beni per seguire Gesù, per il cosiddetto patrimonio di san
Pietro, cioè «borgate, tributi, dazi, signorie»,
i papi «si battono con il ferro e il fuoco, non senza
effusione di molto sangue cristiano», e sono essi «a
lasciare sparire nel silenzio Cristo, a incatenarlo trafficando con
le loro leggi, a corromperlo con interpretazioni sforzate, a
sgozzarlo con la loro vita pestifera».
L'ultima parte dell’Elogio della follia, uscendo dai toni fin troppo
burleschi, acquista connotazioni decisamente teologiche, diventando
apologia della fede cristiana che contro e oltre le necessità
della ragione accetta un articolo di fede indimostrabile, un uomo
che è Dio, che muore sulla croce e resuscita dai morti.
Rifacendosi a San Paolo, Erasmo fa dire alla Follia che occorre
farsi stolto per diventare sapiente, e che a Dio sono cari gli
uomini senza senno. È per lo stesso motivo che i re, i
sovrani del mondo, odiano coloro che sono troppo intelligenti e
preferiscono circondarsi di persone grossolane? Certamente no, ma
«la religione cristiana ha una specie di parentela con la
pazzia», perché coloro che sono stati conquistati dalla
pietà cristiana hanno prodigato i loro beni, trascurato le
offese, tollerato gli inganni, considerato amici i nemici, evitato i
piaceri, avuto a fastidio la vita, desiderato la morte. Insomma,
sono diventati «assolutamente ottusi a ogni senso comune, come
se il loro animo vivesse altrove, non dentro il corpo. E questa che
cos'è, se non pazzia?».
Come la saggezza umana è follia agli occhi di Dio e
viceversa, così già Platone, attraverso il mito della
caverna, aveva mostrato i due piani della conoscenza: quello dei
prigionieri legati che osservano le ombre della realtà,
scambiandole per realtà autentica, e quello del prigioniero
che si libera, esce dalla caverna e torna a riferire ai suoi
compagni delle cose viste nella loro realtà. Quest'ultimo,
«ormai sapiente, compiange e deplora la loro pazzia, posseduti
come sono da così grande illusione; gli altri invece ridono
di lui come di un matto che sragiona».
L'opera ebbe grande successo: vivente Erasmo, conobbe 36 edizioni,
numerose traduzioni e imitazioni, come il De triumpho stultitiae di
Faustino Perisauli. La verve polemica e a tratti graffiante di cui
nonostante ciò fu accusato era comunque lontana dalla sua
sensibilità: «Non volli offendere, ma ammonire, non
nuocere ma giovare, non recar danno ma sostegno ai costumi degli
uomini».
Erasmo aveva ottenuto nel 1511 una pensione e i benefici della
parrocchia di Aldington, nel Kent, e grazie all'interessamento
dell'amico John Fisher, vescovo e rettore dell'Università di
Cambridge, d'insegnare in questa Università greco e teologia.
Qui intraprese uno studio approfondito delle lettere di san Gerolamo
e del Nuovo Testamento. Rimasto in contatto con John Colet, che a
Londra aveva fondato la Saint Paul's School, gli dedicò il De
copia duplici, un manuale di stile latino.
A Lovanio e a Basilea
Nel gennaio 1514, non sopportando i colleghi di teologia di
Cambridge, già oggetto della satira dell'Elogio,
lasciò l'insegnamento e tornò a Londra, prima tappa
per il ritorno nel continente. In luglio sbarcò a Calais,
dove fu raggiunto dall'ordine del priore di Steyn di tornare in
convento. Erasmo rifiutò, sostenendo di non essere fatto per
la vita conventuale e di voler continuare i suoi studi e le sue
pubblicazioni. Si fermò per breve tempo a Lovanio e in agosto
riprese il viaggio lungo il Reno per raggiungere Basilea e
accordarsi con l'editore Johann Froben per una nuova edizione
ampliata degli Adagia, per quella delle lettere di Gerolamo e
soprattutto per la pubblicazione del testo del Nuovo Testamento,
nella versione greca e latina da lui curata con l'aggiunta dei suoi
commenti.
La diffusione degli Adagia, dell'Enchiridion e dell'Elogio lo
avevano reso molto noto e rispettato negli ambienti umanistici ed
egli fu accolto, anche nelle soste fatte a Treviri, a Magonza e a
Strasburgo, con tutti gli onori.
La sua polemica contro alcuni aspetti della vita della Chiesa
cattolica non nacque da dubbi sulla dottrina tradizionale né
da ostilità verso l’organizzazione in sé della Chiesa,
ma, piuttosto, da un'esigenza di purificare la dottrina stessa e di
salvaguardare le istituzioni del Cristianesimo dai pericoli che le
minacciavano, quali la corruzione, l'interesse di pontefici
guerrieri come papa Giulio II all'ampliamento dello Stato della
Chiesa, la vendita delle indulgenze, il culto smodato delle
reliquie.
Come studioso cercò di liberare i metodi della scolastica
dalla rigidità e dal formalismo della tradizione medievale.
Egli si riteneva un predicatore della virtù, e questa
convinzione lo guidò per tutta la vita mentre cercava di
rigenerare l’Europa mediante una critica profonda e coraggiosa alla
Chiesa cattolica. Tale convinzione rappresenta il filo conduttore di
un’esistenza che, altrimenti, potrebbe sembrare piena di
contraddizioni.
Tuttavia con il passare degli anni le posizioni estremiste presero
il sopravvento su quelle moderate ed Erasmo si trovò sempre
più in contrasto sia con le chiese riformate che con quelle
cattoliche perché entrambe erano fortemente opposte alla sua
visione moderata.
Erasmo e la riforma luterana
La Riforma di Martin Lutero – che tradizione vuole prenda avvio il
31 ottobre 1517 con l’affissione sulla porta della chiesa di
Wittenberg, com'era uso a quel tempo, di 95 tesi in latino
riguardanti il valore e l'efficacia delle indulgenze – mise a dura
prova il carattere di Erasmo. Fino ad allora il mondo aveva riso
della sua satira, ma pochi avevano interferito con le sue
attività.
Le tensioni erano giunte a un punto tale che pochi avrebbero potuto
sottrarsi al nascente dibattito, non certo Erasmo che era proprio al
culmine della propria fama letteraria. Il doversi per forza
schierare e la partigianeria erano contrarie sia al suo carattere
sia ai suoi costumi. Nelle sue critiche rivolte alle "follie"
clericali e agli eccessi della Chiesa egli aveva sempre tenuto a
precisare di non volere attaccare la Chiesa come istituzione e di
non essere mosso da inimicizia nei confronti del clero.
Erasmo condivideva, in effetti, molti aspetti delle critiche di
Lutero alla Chiesa cattolica, ad esempio nei confronti delle
indulgenze e dei formalismi esteriori del clero, come pure sulla
necessità di un ritorno allo spirito originario del
cristianesimo. Sarà invece il punto centrale della dottrina
luterana (quello che negava l'esistenza del libero arbitrio) a
tenere divisi i due personaggi. Erasmo aveva il massimo rispetto per
Martin Lutero e, a sua volta, il riformatore manifestò sempre
ammirazione per la superiore cultura di Erasmo. Lutero sperava di
potere collaborare con Erasmo in un’opera che gli sembrava la
continuazione della propria.
Erasmus dipinto da Hans Holbein il Giovane
Erasmo, invece, declinò l’invito ad impegnarsi, affermando
che se avesse seguito tale invito, avrebbe messo in pericolo la
propria posizione di guida di un movimento puramente intellettuale,
che riteneva essere lo scopo della propria vita. Soltanto da una
posizione neutrale – riteneva Erasmo – si poteva influenzare la
riforma della religione. Erasmo rifiutò dunque di cambiare
confessione, ritenendo che vi fossero possibilità di una
riforma anche nell’ambito delle strutture esistenti della Chiesa
cattolica.
A Lutero tale scelta parve un mero rifiuto ad assumersi le proprie
responsabilità motivato da mancanza di fermezza o, peggio, da
codardia.
Fu allora che Erasmo – contrariamente alla sua natura – prese
posizione per due volte su questioni dottrinalmente controverse.
* La prima volta fu sul tema cruciale del libero
arbitrio. Nel 1524 con il suo scritto De libero arbitrio diatribe
sive collatio egli satireggiò la dottrina luterana del
"servo" arbitrio. In ogni caso nella sua opera egli non prende una
posizione definitiva, ma ciò agli occhi dei luterani
rappresentava già una colpa. In risposta Lutero nel 1525
scrisse il De Servo Arbitrio, nel quale attaccava direttamente
Erasmo tanto da affermare che quest’ultimo non sarebbe stato neppure
un cristiano.
Mentre la Riforma trionfava, iniziarono però anche quei
disordini sociali che Erasmo temeva e che Lutero riteneva
inevitabili: la guerra dei contadini, l’iconoclastia, il radicalismo
che sfociò nei movimenti anabattisti in Germania e Olanda.
Erasmo era felice di essersene tenuto lontano, anche se, in ambienti
cattolici, lo si accusava di essere stato il fomentatore di tali
discordie.
A dimostrazione della sua lontananza dalla Riforma, quando nel 1529
Basilea adottò le dottrine riformate, Erasmo si
trasferì nella vicina città imperiale di Friburgo in
Brisgovia, rimasta cattolica. A Friburgo egli continuò la sua
instancabile attività letteraria terminando l’opera
più importante dei suoi ultimi anni: l’Ecclesiaste, parafrasi
dell’omonimo libro biblico (detto pure Qoelet, o il "Predicatore"),
nel quale egli sostiene che la predicazione è l’unico dovere
veramente importante della fede cattolica.
* La seconda grande questione alla quale Erasmo
prese parte fu quella della dottrina dei sacramenti e, in
particolare, del valore dell’eucaristia. Nel 1530 Erasmo
pubblicò una nuova edizione del testo ortodosso risalente
all'XI secolo di Algerius contro l’eretico Berengario di Tours. Ad
esso aggiunse una dedica, nella quale confermava la propria fede
nella dottrina cattolica della presenza reale di Cristo nell’ostia
consacrata. In tal modo egli smentì gli antisacramentali
guidati da Giovanni Ecolampadio di Basilea, i quali citavano Erasmo
a sostegno delle loro tesi scismatiche.
Gli ultimi anni e la morte
Inviso ormai ad ambo gli schieramenti – il 19 gennaio 1543 i suoi
libri sarebbero stati bruciati a Milano insieme a quelli di Lutero –
Erasmo morì la notte fra l’11 e il 12 luglio 1536 a Basilea
dove era tornato per controllare la pubblicazione dell’Ecclesiaste.
Fu sepolto nella cattedrale ormai dedicata al culto riformato,
sebbene egli fosse sempre rimasto cattolico.
La dottrina
Sebbene Erasmo fosse rimasto per tutta la vita cattolico,
criticò con magistrale e caustica ironia gli eccessi presenti
nella Chiesa cattolica del suo tempo, per proporre invece una
philosophia Christi che si incardinasse su una religiosità
interiore, sostanziata da una pratica costante della carità.
Utilizzando i lavori filologici di Lorenzo Valla preparò una
nuova versione greca e latina del Nuovo Testamento apprezzata tra
l'altro da Lutero, nei confronti del quale tuttavia Erasmo fu
protagonista di una celebre polemica sulla questione del libero
arbitrio.
Il pensiero umanistico e riformatore di Erasmo
Al centro dello spirito innovatore con cui Erasmo intendeva
riformare la Chiesa vi erano da un lato i valori del mondo classico,
dall'altro la riscoperta del cristianesimo delle origini. Egli
cercò sempre una sintesi tra queste due visioni della vita,
sintesi che del resto era già al centro dei propositi dei
filosofi rinascimentali e neoplatonici, come ad esempio
Niccolò Cusano, Marsilio Ficino e Pico della Mirandola. Nel
tentativo di conciliare l’humanitas classica con la pietas
cristiana, egli partiva comunque da posizioni meno dottrinali e
più attinenti all'aspetto della condotta pratica.
In ossequio all'ideale dell’humanitas, cioè della greca
"filantropia" (l'amore per l'umanità), Erasmo credeva nel
rispetto della dignità dell'uomo, il cui riconoscimento passa
per la concordia e la pace, da realizzare con l'uso sapiente della
ragione. Richiamandosi a Seneca, Cicerone e Agostino, condannava le
varie forme di violenza e di prevaricazione dei potenti sui deboli,
deprecando le torture e la pena di morte.
Riguardo invece il sentimento della pietas, che per Erasmo
costituisce il nucleo centrale del cristianesimo, era convinto
dell'importanza di una fede radicata nell'interiorità
dell'animo. Le pratiche esteriori della vita religiosa secondo
Erasmo non hanno valore se non sono ricondotte alle virtù
essenziali del cristiano, cioè l'umiltà, il perdono,
la compassione e la pazienza. Predicò una tolleranza
religiosa che facesse a meno di cacce all'eretico e di aspre contese
critiche e dottrinali.
Per riformare e purificare la vita della fede, Erasmo elaborò
quindi un progetto generale di riforma religiosa fondata su
un'educazione culturale, volta a porre rimedio ai maggiori pericoli
da lui paventati, che erano principalmente:
* il decadimento morale del clero e l'ostentata
ricchezza dei vescovi;
* l'esplosione di interessi nazionalistici e
particolaristici tali da poter frantumare l'unità dei
cristiani;
* una teologia scolastica che gli sembrava
impaludata in questioni inutili e distanti dalla prassi cristiana.
Erasmo si impegnò soprattutto per diffondere il sapere dei
classici, tramite l’eloquentia (ovvero l'arte di persuadere), e per
depurare la Bibbia dalle incrostazioni medievali rendendola
accessibile a tutti, tramite un lavoro di critica filologica.
La polemica con Lutero
Il proposito riformatore di Erasmo, che pure aveva incontrato
l'atteggiamento favorevole di varie personalità eminenti come
l'imperatore Carlo V, il papa Leone X, i re Francesco I ed Enrico
VIII, era destinato però a naufragare completamente. Le lotte
e le contese religiose seguite alla riforma luterana vanificarono
quei progetti di concordia e tolleranza religiosa che gli stavano
tanto a cuore. Sebbene avesse fatto di tutto per evitarlo, lo
scontro con Lutero era stato alla fine inevitabile, in particolare
sul tema del libero arbitrio, non tanto da un punto di vista
dottrinale, quanto sul piano del risvolto pratico che la
predicazione luterana comportava. La negazione della libertà
umana era per Erasmo incompatibile con la mentalità umanista
e rinascimentale che esaltava la capacità dell'individuo di
essere libero artefice del proprio destino, e gli sembrava svilisse
la dignità stessa dell'uomo. Se, come affermava Lutero,
l'essere umano non ha la facoltà di accettare o rifiutare
liberamente la grazia divina che gli viene offerta, a che scopo
nelle Scritture sono presenti ammonimenti e biasimi, minacce di
castighi ed elogi dell'obbedienza? Se inoltre, come predicava
Lutero, l'uomo non ha bisogno di chiese e organi intermediari tra
sé e Dio, ma è in grado da solo di accedere ai
contenuti della Bibbia essendo l'unico sacerdote di se stesso, come
si concilia questa supposta autonomia con la sua assoluta
incapacità di scelta in ambito morale?
Questi furono alcuni dei punti toccati da Erasmo nella polemica da
lui intrapresa, mirante a ribadire che il libero arbitrio è
stato viziato ma non distrutto completamente dal peccato originale,
e che senza un minimo di libertà da parte dell'uomo la
giustizia e la misericordia divina diventano prive di significato.
Le opere
Erasmo dedicò la maggior parte dei suoi studi all'ambito
religioso. Tutte le sue opere, pubblicate in latino, furono
rapidamente tradotte nelle lingue moderne.
Durante il proprio soggiorno inglese Erasmo iniziò l’esame
sistematico dei manoscritti del Nuovo Testamento – anche quelli
scoperti di recente o che, in quel periodo, giungevano dalla Grecia
dopo la fine dell'Impero bizantino – al fine di prepararne una nuova
edizione e una traduzione latina.
Le traduzioni dei testi sacri (spesso a senso, senza la
maturità filologica degli umanisti italiani guidati da
Lorenzo Valla) forgiarono la sua vasta cultura umanistica e lo
indussero a contrapporre la cultura teologica vista come forgiatrice
di letterati alla fede religiosa che definiva "creatrice di soldati
di Cristo", riprendendo il tema classico del miles christianus.
L’edizione del Nuovo Testamento sarebbe stata poi pubblicata da
Johann Froben a Basilea nel 1516. Essa costituirà la base per
la maggior parte degli studi scientifici sulla Bibbia nel periodo
della Riforma, e sarà utilizzata dallo stesso Lutero per la
sua traduzione tedesca della Bibbia. Erasmo pubblicò pure
un’edizione critica del testo greco nel 1516, Novum Instrumentum
omne, diligenter ab Erasmo Rot. Recognitum et Emendatum con
traduzione latina e annotazioni.
La terza edizione servirà ai traduttori della versione
inglese della Bibbia detta "di Re Giacomo". Il testo divenne in
seguito noto come Textus Receptus. Erasmo avrebbe pubblicato in
seguito altre tre versioni nel 1522, 1527 e 1535, dedicando l'opera
a papa Leone X, quale patrono della cultura. Erasmo considerava il
proprio lavoro come un servizio alla cristianità.
Alcuni hanno sollevato critiche in quanto all'accuratezza del Textus
Receptus. Uno dei motivi è che Erasmo aveva potuto consultare
solo un pugno di manoscritti greci e di tarda origine. Inoltre
asseriscono che Erasmo fece il suo lavoro in fretta. Egli stesso
ammise che la sua edizione era stata “fatta in fretta anziché
redatta”. Malgrado questi aspetti sfavorevoli delle edizioni di
Erasmo, che si applicarono quasi con ugual forza al Textus Receptus,
questo testo rimase la norma per più di duecento anni. Fra i
primi a produrre testi basandosi su maggiore rigore ci furono gli
eruditi tedeschi Johann Jakob Griesbach e Lachmann.
Gli altri scritti
Tra le altre opere Adagia (1500), Manuale del soldato cristiano
(1503), Institutio principis christiani (1504), Colloquia familiaria
(1522). Questi lavori che riportavano i testi alle fonti originarie
lo fecero considerare come il padre della Riforma protestante. Egli
comunque, pur condividendo la necessità di un rinnovamento in
ambito ecclesiastico, rimase sempre cattolico, e si oppose anzi
duramente al protestantesimo di Martin Lutero. Un'altra opera va
annoverata tra gli scritti del grande umanista: il dialogo satirico
Iulius exclusus e coelis, composto durante il periodo successivo
alla morte del papa-soldato Giulio II e in particolare tra la fine
del 1513 - inizi del '14 (gli anni del soggiorno di Erasmo a
Cambridge). L'opera è un vivace scambio di battute tra San
Pietro e un arrogante Papa Giulio che pretende di entrare in
Paradiso con uno stuolo di rozzi combattenti morti "in nome della
fede" durante le campagne belliche promosse dal defunto pontefice.
Dell'opera, pubblicata anonima, Erasmo ha sempre negato la
paternità, per motivi probabilmente legati alla sua immagine
di fronte al neo pontefice Leone X, che sembrava dare adito a quella
riforma all'interno della Chiesa da sempre caldeggiata
dall'umanista. La critica è comunque da tempo concorde che
sia uscita dalla colta penna di Erasmo, il nome che subito era stato
suggerito anche dai contemporanei. Un viaggio davvero pauroso di
Erasmo, è basato sull'argomento della follia. Erasmo crede
che i pazzi sono quelli che sanno osservare la realtà da
prospettive diverse, un'altra realtà, scavalcando tutti i
canoni razionali della ragione; però cari lor signori, vi
lascio e vi abbandono, pensando ancora a Erasmo che ivi entrò
ove voi foste irrazionali esaminando sia pazzi che normali,in ogni
dove nella mente umana, pensandola e vedendola sia come pazza sia
come sana.
Le sue critiche agli errori delle autorità ecclesiastiche e
alla superstizione lo esposero all'accusa di essere luterano anche
da ambienti cattolici, ma Erasmo rifiutò sempre quest'accusa.
Per far fronte agli attacchi che gli venivano mossi, illustrò
la sua posizione teologica con l'opera De libero arbitrio (1524),
che conteneva una brillante critica a Martin Lutero (che a sua volta
gli rispose con il De servo arbitrio).
L’ultima opera di Erasmo fu la Preparazione alla morte, nella quale
assicura che una vita onesta è la condicio sine qua non per
raggiungere una morte felice.
Erasmo e la Controriforma
Erasmo godette di ampio prestigio nella prima metà del XVI
secolo e gli venne anche offerto dal papa il cappello cardinalizio,
che rifiutò. Dopo la sua morte, nel periodo successivo al
Concilio di Trento, nella fase della Controriforma, la sua
libertà intellettuale venne guardata con sospetto e le sue
opere vennero incluse nell'Indice dei libri proibiti, ma la sua
battaglia contro l'ignoranza e la superstizione era motivata
esclusivamente dalle sue convinzioni umanistiche e non da critiche
alla fede. Come testimonia il suo rifarsi ad alcuni movimenti
innovatori quali la Devotio moderna, infatti, egli intendeva
professare una riforma spirituale e dei costumi, e non una riforma
teologica.