Caedo cur vestram rempublicam tantam perdidistis tam cito?
POMPONIO ATTICO, presso CICERONE, De senectute.
PREFAZIONE
ALLA SECONDA EDIZIONE
Quando questo Saggio fu pubblicato per la prima volta, i giudizi
pronunziati sul medesimo furon molti e diversi, siccome suole
inevitabilmente avvenire ad ogni libro, del quale l'autore ha
professata imparzialitá, ma non sono imparziali i lettori. Il
tempo però ed il maggior numero han resa giustizia, non al
mio ingegno né alla mia dottrina (ché né quello
né questa abbondavano nel mio libro), ma alla
imparzialitá ed alla sinceritá colla quale io avea in
esso narrati avvenimenti che per me non eran stati al certo
indifferenti.
Della prima edizione da lungo tempo non rimaneva piú un
esemplare; e, ad onta delle molte richieste che ne avea, io avrei
ancora differita per qualche altro tempo la seconda, se alcuni, che
han tentato ristamparla senza il mio assentimento, non mi avessero
costretto ad accelerarla.
Dopo la prima edizione, ho raccolti i giudizi che il pubblico ha
pronunziati, ed ho cercato, per quanto era in me, di usarne per
rendere il mio libro quanto piú si potesse migliore.
Alcuni avrebbero desiderato un numero maggiore di fatti. Ed in
veritá io non nego che nella prima edizione alcuni fatti ho
omessi, perché li ignorava; altri ho taciuti, perché
ho creduto prudente il tacerli; altri ho trasandati, perché
li reputava poco importanti; altri finalmente ho appena accennati.
Ho composto il mio libro senza aver altra guida che la mia memoria:
era impossibile saper tutti gl'infiniti accidenti di una
rivoluzione, e tutti rammentarli. Molti de' medesimi ho saputi
posteriormente, e, di essi, i piú importanti ho aggiunti a
quelli che giá avea narrati. Ad onta però di tutte le
aggiunzioni fatte, io ben mi avveggo che coloro, i quali
desideravano maggior numero di fatti nella prima edizione, ne
desidereranno ancora in questa seconda. Ma il mio disegno non
è stato mai quello di scriver la storia della rivoluzione di
Napoli, molto meno una leggenda. Gli avvenimenti di una rivoluzione
sono infiniti di numero; e come no, se in una rivoluzione agiscono
contemporaneamente infiniti uomini? Ma, per questa stessa ragione,
è impossibile che tra tanti avvenimenti non vi sieno molti
poco importanti e molti altri che si rassomiglian tra loro. I primi
li ho trascurati, i secondi li ho riuniti sotto le rispettive loro
classi. Piú che delle persone, mi sono occupato delle cose e
delle idee. Ciò è dispiaciuto a molti, che forse
desideravano esser nominati; è piaciuto a moltissimi, che
amavano di non esserlo. I nomi nella storia servon piú alla
vanitá di chi è nominato che all'istruzione di chi
legge. Quanti pochi sono gli uomini che han saputo vincere e
dominare le cose? Il massimo numero è servo delle medesime;
è tale, quale i tempi, le idee, i costumi, gli accidenti
voglion che sia: quando avete ben descritti questi, a che giova
nominar gli uomini? Io sono fermamente convinto che, se la maggior
parte delle storie si scrivesse in modo di sostituire ai nomi propri
delle lettere dell'alfabeto, l'istruzione, che se ne ritrarrebbe,
sarebbe la medesima. Finalmente, nella considerazione e nella
narrazione degli avvenimenti, mi sono piú occupato degli
effetti e delle cagioni delle cose che di que' piccioli accidenti
che non sono né effetti né cagioni di nulla, e che
piaccion tanto al lettore ozioso sol perché gli forniscono il
modo di poter usare di quel tempo che non saprebbe impiegare a
riflettere.
Dopo tali osservazioni, ognun vede che i fatti che mi rimanevano ad
aggiugnere eran in minor numero di quello che si crede. Ragionando
con molti di coloro i quali avrebbero desiderati piú fatti,
spesso mi sono avveduto che ciò che essi desideravano nel mio
libro giá vi era: ma essi desideravano nomi, dettagli,
ripetizioni; e queste non vi dovean essere. Per qual ragione
distrarrò io l'attenzione del lettore tra un numero infinito
d'inezie e lo distoglierò da quello ch'io reputo vero scopo
di ogni istoria, dalla osservazione del corso che hanno, non gli
uomini, che brillano un momento solo, ma le idee e le cose, che sono
eterne? Si dirá che il mio libro non merita il nome di
«storia»; ed io risponderò che non mi sono
giammai proposto di scriverne. Ma è forse indispensabile che
un libro, perché sia utile, sia una storia?
Una censura mi fu fatta, appena uscí alla luce il primo
volume. Siccome essa nasceva da un equivoco, credei mio dovere
dileguarlo; e lo feci con quell'avvertimento che, nella prima
edizione, leggesi al principio del secondo volume, e che ora
inserisco qui:
Tutte le volte che in quest'opera si parla di «nome», di
«opinione», di «grado», s'intende sempre di
quel grado, di quella opinione, di quel nome che influiscono sul
popolo, che è il grande, il solo agente delle rivoluzioni e
delle controrivoluzioni.
Taluni, per non aver fatta questa riflessione, hanno creduto che,
quando nel primo tomo, pagina 34, io parlo di coloro che furono
perseguitati dall'inquisizione di Stato, e li chiamo
«giovinetti senza nome, senza grado, senza fortuna»,
abbia voluto dichiararli persone di niun merito, quasi della feccia
del popolo, che desideravano una rivoluzione per far una fortuna.
Questo era contrario a tutto il resto dell'opera, in cui mille volte
si ripete che in Napoli eran repubblicani tutti coloro che avevano
beni e fortuna; che niuna nazione conta tanti che bramassero una
riforma per solo amor della patria; che in Napoli la repubblica
è caduta quasi per soverchia virtú de' repubblicani...
Nell'istesso luogo si dice che i lumi della filosofia erano sparsi
in Napoli piú che altrove, e che i saggi travagliavano a
diffonderli, sperando che un giorno non rimarrebbero inutili.
I primi repubblicani furono tutti delle migliori famiglie della
capitale e delle province: molti nobili, tutti gentiluomini, ricchi
e pieni di lumi; cosicché l'eccesso istesso de' lumi, che
superava l'esperienza dell'etá, faceva lor credere facile
ciò che realmente era impossibile per lo stato in cui il
popolaccio si ritrovava. Essi desideravano il bene, ma non potevano
produrre senza il popolo una rivoluzione; e questo appunto è
quello che rende inescusabile la tirannica persecuzione destata
contro di loro.
Chi legge con attenzione vede chiaramente che questo appunto ivi si
vuol dire. Io altro non ho fatto che riferire quello che allora
disse in difesa de' repubblicani il rispettabile presidente del
Consiglio, Cito; e Cito era molto lontano dall'ignorare le persone o
dal volerle offendere.
Sarebbe stoltezza dire che le famiglie Carafa, Riari, Serra,
Colonna, Pignatelli... fossero povere; ma, per produrre una
rivoluzione nello stato in cui allora era il popolo napoletano, si
richiedevano almeno trenta milioni di ducati, e questa somma si
può dir, senza far loro alcun torto, che essi non l'aveano.
La ricchezza è relativa all'oggetto a cui taluno tende: un
uomo che abbia trecentomila scudi di rendita è un ricchissimo
privato, ma sarebbe un miserabile sovrano.
Si può occupare nella societá un grado eminentissimo,
e non essere intanto atto a produrre una rivoluzione. Il presidente
del Consiglio occupava la prima magistratura del Regno, e non potea
farlo: ad un reggente di Vicaria, molto inferiore ad un presidente,
ad un eletto del popolo, moltissimo inferiore al reggente, era molto
piú facile sommovere il popolo.
Lo stesso si dice del nome. Chi può dire che le famiglie
Serra, Colonna, Pignatelli... fossero famiglie oscure? Che Pagano,
Cirillo, Conforti fossero uomini senza nome?... Ma essi aveano un
nome tra i saggi, i quali a produr la rivoluzione sono inutili, e
non ne aveano tra il popolo, che era necessario, ed a cui intanto
erano ignoti per esser troppo superiori. Paggio, capo de' lazzaroni
del Mercato, è un uomo dispregevole per tutti i versi; ma
intanto Paggio, e non Pagano, era l'uomo del popolo, il quale
bestemmia sempre tutto ciò che ignora.
Credo superfluo poi avvertire che i giudizi del popolo non sono i
miei; ma è necessario ricordare che, in un'opera destinata
alla veritá ed all'istruzione, è necessario riferire
tanto i giudizi miei quanto quelli del popolo. Ciascuno sará
al suo luogo: è necessario saperli distinguere e riconoscere;
e perciò è necessario aver la pazienza di leggere
l'opera intera, e non giudicarne da tratti separati.
Questo Saggio è stato tradotto in tedesco. Son molto grato al
signor Kellert, il quale, senza che ne conoscesse l'autore credette
il libro degno degli studi suoi: piú grato gli sono,
perché lo ha tradotto in modo da farlo apparir degno
dell'approvazione de' letterati di Germania; de' favorevoli giudizi
de' quali io andrei superbo, se non sapessi che si debbono in
grandissima parte ai nuovi pregi che al mio libro ha saputo dare
l'elegante traduttore. Pure, tra gli elogi che il libro ha ottenuti,
non è mancata qualche censura, ed una, tra le altre, scritta
collo stile di un cavalier errante che unisce la ragione alla spada,
leggesi nel giornale del signor Archenholz, intitolato: La Minerva.
L'articolo è sottoscritto dal signor Dietrikstein, che io non
conosco, ma che ho ragion di credere essere al tempo istesso
valentissimo scrittore e guerriero, poiché si mostra pronto
egualmente a sostener contro di me colla penna e colla spada che il
signor barone di Mack sia un eccellente condottiero di armata, ad
onta che nel mio libro io avessi tentato di far credere il
contrario. In veritá, io dichiaro che valuto pochissimo i
talenti militari del generale Mack. Quando io scriveva il mio
Saggio, avea presenti al mio pensiero la campagna di Napoli e la
seconda campagna delle Fiandre, ambedue dirette da Mack: vedeva
nell'una e nell'altra gli stessi rovesci e le stesse cagioni di
rovesci; e credei poter ragionevolmente conchiudere che la colpa
fosse del generale. Ciò che è effetto di sola fortuna
non si ripete con tanta simiglianza due volte. Quando poi pervenne
in Milano l'articolo del signor Dietrikstein, era giá aperta
l'ultima campagna. L'amico, che mi comunicò l'articolo,
avrebbe desiderato che io avessi fatta qualche risposta. Ma, due
giorni appresso, il cannone della piazza annunziò la vittoria
di Ulma, ed io rimandai all'amico l'articolo, e vi scrissi a'
piè della pagina: «La risposta è fatta».
Questo mio libro non deve esser considerato come una storia, ma
bensí come una raccolta di osservazioni sulla storia. Gli
avvenimenti posteriori han dimostrato che io ho osservato con
imparzialitá e non senza qualche acume. Gran parte delle cose
che io avea previste si sono avverate; l'esperimento delle cose
posteriori ha confermati i giudizi che avea pronunziati sulle
antecedenti. Mentre quasi tutta l'Europa teneva Mack in conto di
gran generale, io solo, io il primo, ho vendicato l'onor della mia
nazione, ed ho asserito che le disgrazie da lui sofferte nelle sue
campagne non eran tanto effetto di fortuna quanto d'ignoranza. Fin
dal 1800 io ho indicato il vizio fondamentale che vi era in tutte le
leghe che si concertavano contro la Francia, e pel quale tutt'i
tentativi de' collegati dovean sempre avere un esito infelice, ad
onta di tutte le vittorie che avessero potuto ottenere; e tutto
ciò perché le vittorie consumano le forze al pari o
poco meno delle disfatte, e le forze si perdono inutilmente se son
prive di consiglio, né vi è consiglio ove o non vi
è scopo o lo scopo è tale che non possa ottenersi.
Desidero che chiunque legge questo libro paragoni gli avvenimenti
de' quali nel medesimo si parla a quelli che sono succeduti alla sua
pubblicazione. Troverá che spesso il giudizio da me
pronunziato sopra quelli è stata una predizione di questi, e
che l'esperienza posteriore ha confermate le antecedenti mie
osservazioni. Il gabinetto di Napoli ha continuato negli stessi
errori: sempre lo stesso incerto oscillar nella condotta, la stessa
alternativa di speranze e di timore, e quella sempre temeraria,
questo sempre precipitoso; moltissima fiducia negli aiuti stranieri,
nessuna fiducia e perciò nessuna cura delle forze proprie;
non mai un'operazione ben concertata; nella prima lega, il trattato
di Tolentino e la spedizione di Tolone conchiuso e fatta fuori di
ogni ragione e di ogni opportunitá; nella seconda,
l'invasione dello Stato pontificio fatta prima che l'Austria
pensasse a mover le sue armate, le operazioni del picciolo corpo che
Damas comandava in Arezzo incominciate quando le forze austriache
non esistevano piú; nella terza finalmente, un trattato
segnato colla Francia, mentre forse non era necessario poiché
si pensava di infrangerlo; i russi e gl'inglesi chiamati quando
giá la somma delle cose era stata decisa in Austerlitz;
l'inutile macchia di traditore, e l'inopportunitá del
tradimento, e l'obbrobrio di vedere un re che comanda a sette
milioni di uomini divenire, per colpa de' suoi ministri, quasi il
fattore degl'inglesi e cedere il comando delle sue proprie truppe
entro il suo proprio regno ad un generale russo. Ricercate le
cagioni di tutti questi avvenimenti, e trovate esser sempre le
stesse: un ministro che traeva gran parte del suo potere
dall'Inghilterra, ove avea messe in serbo le sue ricchezze;
l'ignoranza delle forze della propria nazione, la nessuna cura di
migliorare la di lei sorte, di ridestare negli animi degli abitanti
l'amor della patria, della milizia e della gloria; lo stato di
violenza che naturalmente dovea sorgere da quella specie di lotta,
che era inevitabile tra un popolo naturalmente pieno di energia ed
un ministro straniero che volea tenerlo nella miseria e
nell'oppressione; la diffidenza che questo stesso ministro avea
ispirata nell'animo de' sovrani contro la sua nazione; tutto insomma
quello che io avea predetto, dicendo che la condotta di quel
gabinetto avrebbe finalmente perduto un'altra volta, ed
irreparabilmente, il Regno.
Avrei potuto aggiugnere alla storia della rivoluzione anche quella
degli avvenimenti posteriori fino ai nostri giorni. Riserbo questa
occupazione a' tempi ne' quali avrò piú ozio e maggior
facilitá di istruirmene io stesso, ritornato che sarò
nella mia patria. Ne formerò un altro volume dello stesso
sesto, carta e caratteri del presente. Intanto nulla ho voluto
cangiare al libro che avea pubblicato nel 1800. Quando io componeva
quel libro, il gran Napoleone era appena ritornato dall'Egitto;
quando si stampava, egli avea appena prese le redini delle cose,
appena avea incominciata la magnanima impresa di ricomporre le idee
e gli ordini della Francia e dell'Europa. Ma io ho il vanto di aver
desiderate non poche di quelle grandi cose che egli posteriormente
ha fatte; ed, in tempi ne' quali tutt'i princípi erano
esagerati, ho il vanto di aver raccomandata, per quanto era in me,
quella moderazione che è compagna inseparabile della sapienza
e della giustizia, e che si può dire la massima direttrice di
tutte le operazioni che ha fatte l'uomo grandissimo. Egli ha
verificato l'adagio greco per cui si dice che gl'iddii han data una
forza infinita alle mezze proporzionali, cioè alle idee di
moderazione, di ordine, di giustizia. Le stesse lettere, che io avea
scritte al mio amico Russo sul progetto di costituzione composto
dall'illustre e sventurato Pagano, sebbene oggi superflue, pure le
ho conservate e come un monumento di storia e come una dimostrazione
che tutti quegli ordini che allora credevansi costituzionali non
eran che anarchici. La Francia non ha incominciato ad aver ordine,
l'Italia non ha incominciato ad aver vita, se non dopo Napoleone; e,
tra li tanti benefíci che egli all'Italia ha fatti, non
è l'ultimo certamente quello di aver donato a Milano Eugenio
ed alla mia patria Giuseppe.
Lettera dell'autore a N.Q.
Quando io incominciai ad occuparmi della storia della rivoluzione di
Napoli, non ebbi altro scopo che quello di raddolcire l'ozio e la
noia dell'emigrazione. È dolce cosa rammentar nel porto le
tempeste passate. Io avea ottenuto il mio intento; né avrei
pensato ad altro, se tu e gli altri amici, ai quali io lessi il
manoscritto, non aveste creduto che esso potesse esser utile a
qualche altro oggetto.
Come va il mondo! Il re di Napoli dichiara la guerra ai francesi ed
è vinto; i francesi conquistano il di lui regno e poi
l'abbandonano; il re ritorna e dichiara delitto capitale l'aver
amata la patria mentre non apparteneva piú a lui. Tutto
ciò è avvenuto senza che io vi avessi avuto la minima
parte, senza che neanche lo avessi potuto prevedere: ma tutto
ciò ha fatto sí che io sia stato esiliato, che sia
venuto in Milano, dove, per certo, seguendo il corso ordinario della
mia vita, non era destinato a venire, e che quivi, per non aver
altro che fare, sia diventato autore. «Tutto è
concatenato nel mondo», diceva Panglos: possa tutto esserlo
per lo meglio!
In altri tempi non avrei permesso certamente che l'opera mia vedesse
la luce. Fino a ier l'altro, invece di princípi, non abbiamo
avuto che l'esaltazione de' princípi; cercavamo la
libertá e non avevamo che sètte. Uomini, non tanto
amici della libertá quanto nemici dell'ordine inventavano una
parola per fondare una setta, e si proclamavan capi di una setta per
aver diritto di distruggere chiunque seguisse una setta diversa.
Quegli uomini, ai quali l'Europa rimprovererá eternamente la
morte di Vergniaud, di Condorcet, di Lavoisier e di Bailly; quegli
uomini, che riunirono entro lo stesso tempio alle ceneri di Rousseau
e di Voltaire quelle di Marat e ricusarono di raccogliervi quelle di
Montesquieu, non erano certamente gli uomini da' quali l'Europa
sperar poteva la sua felicitá.
Un nuovo ordine di cose ci promette maggiori e piú durevoli
beni. Ma credi tu che l'oscuro autore di un libro possa mai produrre
la felicitá umana? In qualunque ordine di cose, le idee del
vero rimangono sempre sterili o generan solo qualche inutile
desiderio negli animi degli uomini dabbene, se accolte e protette
non vengano da coloro ai quali è affidato il freno delle cose
mortali.
Se io potessi parlare a colui a cui questo nuovo ordine si deve, gli
direi che l'obblio ed il disprezzo appunto di tali idee fece
sí che la nuova sorte, che la sua mano e la sua mente avean
data all'Italia, quasi divenisse per costei, nella di lui
lontananza, sorte di desolazione, di ruina e di morte, se egli
stesso non ritornava a salvarla.
- Un uomo - gli direi, - che ha liberata due volte l'Italia, che ha
fatto conoscere all'Egitto il nome francese e che, ritornando, quasi
sulle ali de' venti, simile alla folgore, ha dissipati, dispersi,
atterriti coloro che eransi uniti a perdere quello Stato che egli
avea creato ed illustrato colle sue vittorie, molto ha fatto per la
sua gloria; ma molto altro ancora può e deve fare per il bene
dell'umanitá. Dopo aver infrante le catene all'Italia, ti
rimane ancora a renderle la libertá cara e sicura, onde
né per negligenza perda né per forza le sia rapito il
tuo dono. Che se la mia patria, come piccolissima parte di quel
grande insieme di cui si occupano i tuoi pensieri, è destino
che debba pur servire all'ordine generale delle cose, e se è
scritto ne' fati di non poter avere tutti quei beni che essa spera,
abbia almeno per te alleviamento a quei tanti mali onde ora è
oppressa! Tu vedi, sotto il piú dolce cielo e nel piú
fertile suolo dell'Europa, la giustizia divenuta istrumento
dell'ambizione di un ministro scellerato, il dritto delle genti
conculcato, il nome francese vilipeso, un'orribile carneficina
d'innocenti ch'espiano colla morte e tra tormenti le colpe non loro;
e, nel momento istesso in cui ti parlo, diecimila gemono ancora ed
invocano, se non un liberatore, almeno un intercessore potente.
Un grande uomo dell'antichitá che tu eguagli per cuore e
vinci per mente, uno che, come te, prima vinse i nemici della patria
e poscia riordinò quella patria per la quale avea vinto,
Gerone di Siracusa, per prezzo della vittoria riportata sopra i
cartaginesi, impose loro l'obbligo di non ammazzare piú i
propri figli. Egli allora stipulò per lo genere umano.
Se tu ti contenti della sola gloria di conquistatore, mille altri
troverai, i quali han fatto, al pari di te, tacere la terra al loro
cospetto; ma, se a questa gloria vorrai aggiungere anche quella di
fondatore di saggi governi e di ordinatore di popoli, allora
l'umanitá riconoscente ti assegnerá, nella memoria de'
posteri, un luogo nel quale avrai pochissimi rivali o nessuno.
L'adulazione rammenta ai potenti quelle virtú de' loro
maggiori, che essi non sanno piú imitare; la filosofia
rammenta ai grandi uomini le virtú proprie, perché
proseguano sempre piú costanti nella magnanima loro
impresa...
NB. Ogni volta che si parlerá di moneta di Napoli, il conto
s'intenda sempre in ducati: ogni ducato corrisponde a quattro lire
di Francia.
I
INTRODUZIONE
Io imprendo a scriver la storia di una rivoluzione che dovea formare
la felicitá di una nazione, e che intanto ha prodotta la sua
ruina(1). Si vedrá in meno di un anno un gran regno
rovesciato, mentre minacciava conquistar tutta l'Italia; un'armata
di ottantamila uomini battuta, dissipata, distrutta da un pugno di
soldati; un re debole, consigliato da ministri vili, abbandonare i
suoi Stati senza verun pericolo; la libertá nascere e
stabilirsi quando meno si sperava; il fato istesso combattere per la
buona causa, e gli errori degli uomini distruggere l'opera del fato
e far risorgere dal seno della libertá un nuovo dispotismo e
piú feroce.
Le grandi rivoluzioni politiche occupano nella storia dell'uomo quel
luogo istesso che tengono i fenomeni straordinari nella storia della
natura. Per molti secoli le generazioni si succedono tranquillamente
come i giorni dell'anno: esse non hanno che i nomi diversi, e chi ne
conosce una le conosce tutte. Un avvenimento straordinario sembra
dar loro una nuova vita; nuovi oggetti si presentano ai nostri
sguardi; ed in mezzo a quel disordine generale, che sembra voler
distruggere una nazione, si scoprono il suo carattere, i suoi
costumi e le leggi di quell'ordine, del quale prima si vedevano
solamente gli effetti.
Ma una catastrofe fisica è, per l'ordinario, piú
esattamente osservata e piú veracemente descritta di una
catastrofe politica. La mente, in osservar questa, segue sempre i
moti irresistibili del cuore; e degli avvenimenti che piú
interessano il genere umano, invece di aversene la storia, non se ne
ha per lo piú che l'elogio o la satira. Troppo vicini ai
fatti de' quali vogliam fare il racconto, noi siamo oppressi dal
loro numero istesso; non ne vediamo l'insieme; ne ignoriamo le
cagioni e gli effetti; non possiamo distinguere gli utili
dagl'inutili, i frivoli dagl'importanti, finché il tempo non
li abbia separati l'uno dall'altro, e, facendo cader nell'obblio
ciò che non merita di esser conservato, trasmetta alla
posteritá solo ciò che è degno della memoria ed
utile all'istruzione di tutt'i secoli.
La posteritá, che ci deve giudicare, scriverá la
nostra storia. Ma, siccome a noi spetta di prepararle il materiale
de' fatti, cosí sia permesso di prevenirne il giudizio. Senza
pretendere di scriver la storia della rivoluzione di Napoli, mi sia
permesso trattenermi un momento sopra alcuni avvenimenti che in essa
mi sembrano piú importanti, ed indicare ciò che ne'
medesimi vi sia da lodare, ciò che vi sia da biasimare. La
posteritá, esente da passioni, non è sempre libera da
pregiudizi in favor di colui che rimane ultimo vincitore; e le
nostre azioni potrebbero esser calunniate sol perché sono
state infelici.
Dichiaro che non sono addetto ad alcun partito, a meno che la
ragione e l'umanitá non ne abbiano uno. Narro le vicende
della mia patria; racconto avvenimenti che io stesso ho veduto e de'
quali sono stato io stesso un giorno non ultima parte; scrivo pei
miei concittadini, che non debbo, che non posso, che non voglio
ingannare. Coloro i quali, colle piú pure intenzioni e col
piú ardente zelo per la buona causa, per mancanza di lumi o
di coraggio l'han fatta rovinare; coloro i quali o son morti
gloriosamente o gemono tuttavia vittime del buon partito oppresso,
mi debbono perdonare se nemmen per amicizia offendo quella
veritá che deve esser sempre cara a chiunque ama la patria, e
debbono esser lieti se, non avendo potuto giovare ai posteri colle
loro operazioni, possano almeno esser utili cogli esempi de' loro
errori e delle sventure loro.
Di qualunque partito io mi sia, di qualunque partito sia il lettore,
sempre gioverá osservare come i falsi consigli, i capricci
del momento, l'ambizione de' privati, la debolezza de' magistrati,
l'ignoranza de' propri doveri e della propria nazione, sieno
egualmente funesti alle repubbliche ed ai regni; ed i nostri posteri
dagli esempi nostri vedranno che qualunque forza senza saviezza non
fa che distrugger se stessa, e che non vi è vera saviezza
senza quella virtú che tutto consacra al bene universale.
II
STATO DELL'EUROPA DOPO IL 1793
Ma, prima di trattar della nostra rivoluzione, convien risalire un
poco piú alto e trattenersi un momento sugli avvenimenti che
la precedettero; veder qual era lo stato della nazione, quali
cagioni la involsero nella guerra, quali mali soffriva, quali beni
sperava: cosí il lettore sará in istato di meglio
conoscere le sue cause e giudicar piú sanamente de' suoi
effetti.
La Francia, fin dal 1789, avea fatta la piú gran rivoluzione
di cui ci parli la storia. Non vi era esempio di rivoluzione, che,
volendo tutto riformare, avea tutto distrutto. Le altre aveano
combattuto e vinto un pregiudizio con un altro pregiudizio,
un'opinione con un'altra opinione, un costume con un altro costume:
questa avea nel tempo istesso attaccato e rovesciato l'altare, il
trono, i diritti e le proprietá delle famiglie, e finanche i
nomi che nove secoli avean resi rispettabili agli occhi de' popoli.
La rivoluzione francese, sebbene prevista da alcuni pochi saggi, ai
quali il volgo non suole prestar fede, scoppiò improvvisa e
sbalordí tutta l'Europa. Tutti gli altri sovrani, parte per
parentela che li univa a Luigi decimosesto, parte per proprio
interesse, temettero un esempio che potea divenir contagioso.
Si credette facile impresa estinguere un incendio nascente. Si
sperò molto sui torbidi interni che agitavano la Francia, non
tornando in mente ad alcuno che all'avvicinar dell'inimico esterno
l'orgoglio nazionale avrebbe riuniti tutt'i partiti divisi. Si
sperò molto nella decadenza delle arti e del commercio, nella
mancanza assoluta di tutto, in cui era caduta la Francia; si
sperò a buon conto vincerla per miseria e per fame, senza
ricordarsi che il periglio rende gli entusiasti guerrieri, e la fame
rende i guerrieri eroi. Una guerra esterna, mossa con eguale
ingiustizia ed imprudenza, assodò una rivoluzione, che, senza
di essa, sarebbe degenerata in guerra civile.
L'Inghilterra meditava conquiste immense e vantaggi infiniti nel suo
commercio sulla ruina di una nazione che sola allora era la sua
rivale. La corte di Londra, piú che ogni altra corte di
Europa, temer dovea il contagio delle nuove opinioni, che si potean
dire quasi nate nel seno dell'Inghilterra; e, per renderle odiose al
popolo inglese, mezzo migliore non ritrovò che risvegliare
l'antica rivalitá nazionale, onde farle odiare, se non come
irragionevoli, almen come francesi. Pitt vedeva che gli abitanti
della Gran Brettagna, e specialmente gl'irlandesi e scozzesi, eran
disposti a fare altrettanto: la rivoluzione sarebbe scoppiata in
Inghilterra, se gl'inglesi quasi non avessero sdegnato d'imitare i
francesi(2).
L'Inghilterra, sebbene non fosse stata la prima a dichiarar la
guerra, fu però la prima a soffiare il fuoco della discordia.
L'Austria seguí l'invito della sua antica e naturale alleata.
Le corti di Europa non conoscevano le repubbliche. Dalla perdita
inevitabile della Francia speravano un guadagno sicuro. La Prussia
l'avea giá ottenuto nel congresso di Pilnitz colla divisione
della Polonia. L'Inghilterra e la Prussia mossero lo statolder, il
quale volea distrarre con una guerra esterna gli animi non troppo
tranquilli de' batavi, resi da poco suoi sudditi, ed amava veder
distrutti coloro che potevan essere un giorno non deboli protettori
de' medesimi.
La Prussia e l'Austria strascinarono i piccoli principi dell'impero,
i quali, piú che dalla perdita di pochi, incerti, inutili
dritti, che la rivoluzione di Francia avea lor tolti in Alsazia ed
in Lorena, erano mossi dall'oro degl'inglesi, ai quali da lungo
tempo erano avvezzi a vendere il sangue de' propri sudditi. Il re di
Sardegna seguí le vie di sua antica politica, ed avvezzo ad
ingrandirsi tra le dissensioni della Francia e dell'Austria, alle
quali vendeva alternativamente i suoi soccorsi, tenne sulle prime il
partito della lega, che gli parve il piú forte. Finalmente
anche la Spagna seguí l'impulso generale; e la guerra fu
risoluta.
Si aprí la campagna con grandissime vittorie degli alleati;
ma ben presto furono seguite dai piú terribili rovesci. I
francesi seppero distaccar la Prussia dalla lega; la quale, ottenuta
la sua porzione di Polonia, comprese che, tra due potenze di
prim'ordine che si laceravano e distruggevano a vicenda, suo meglio
era quello di rimaner neutrale.
La corte di Spagna s'ingelosí ben presto dell'Inghilterra,
che sola voleva ritrar profitto dalla guerra comune. La condotta
degl'inglesi in Tolone fece scoppiare il malumore che da lungo tempo
covava nel suo seno, e Carlo quarto non volle piú impiegar le
sue forze ad accrescere una nazione che egli dovea temere piú
della francese. Mentre i suoi eserciti erano battuti per terra, le
sue flotte rimanevano inoperose per mare; mentre i francesi
guadagnavano in Europa, egli avrebbe potuto aver un compenso in
America e dar fine cosí alla guerra con una vicendevole
restituzione, senza quelle perdite che fu costretto a soffrire per
ottenere la pace. Il desiderio de' francesi era appunto quello che
molti lor dichiarassero la guerra e niuno la facesse con tutte le
sue forze; cosí ogni nuovo nemico dava ai francesi una nuova
vittoria, e quella lega, che dovea abbassarli, serviva ad
ingrandirli.
La guerra era ormai divenuta, come nell'antica Roma, indispensabile
alla Francia, tra perché teneva luogo di tutte le arti e di
tutto il commercio, che prima formavano la sussistenza del popolo,
tra perché un governo quasi sempre fazioso la considerava
come un mezzo di occupare e distrarre gli animi troppo attivi degli
abitanti ed allontanare i torbidi che soglion fermentar nella pace.
Quindi si sviluppò quel sistema di democratizzazione
universale, di cui i politici si servivan per interesse, a cui i
filosofi applaudivano per soverchia buona fede; sistema che alla
forza delle armi riunisce quella dell'opinione, che suol produrre, e
talora ha prodotti, quegl'imperi che tanto somigliano ad una
monarchia universale.
III
STATO D'ITALIA FINO ALLA PACE DI CAMPOFORMIO
In breve tempo li francesi si videro vincitori e padroni delle
Fiandre, dell'Olanda, della Savoia e di tutto l'immenso tratto
ch'è lungo la sinistra sponda del Reno. Non ebbero
però in Italia sí rapidi successi; e le loro armate
stettero tre anni a' piedi delle Alpi, che non potettero superare, e
che forse non avrebbero superate giammai, se il genio di Bonaparte
non avesse chiamata anche in questi luoghi la vittoria.
Quando l'impresa d'Italia fu affidata a Bonaparte, era quasi che
disperata. Egli si trovò alla testa di un'armata alla quale
mancava tutto, ma che era uscita dalla Francia nel momento del suo
maggiore entusiasmo e che era da tre anni avvezza ai disagi ed alle
fatiche; si trovò alla testa di coraggiosi avventurieri,
risoluti di vincere o morire. Egli avea tutti i talenti, e quello
specialmente di farsi amare dai soldati, senza del quale ogni altro
talento non val nulla.
Se le campagne di Bonaparte in Italia si vogliono paragonare a
quelle che i romani fecero in paesi stranieri, si potranno dir
simili solo a quelle colle quali conquistarono la Macedonia.
Scipione ebbe a combattere un grandissimo capitano che non avea
nazione; molti altri non ebbero a fronte né generali
né nazioni guerriere: solo nella Macedonia i romani trovarono
potenza bene ordinata, nazione agguerrita ed audace per freschi
trionfi, e generali i quali, se non aveano il genio, sapevano almeno
la pratica dell'arte. Bonaparte cangiò la tattica,
cangiò la pratica dell'arte; e le pesanti evoluzioni de'
tedeschi divennero inutili come le falangi de' macedoni in faccia ai
romani. Supera le Alpi e piomba nel Piemonte. Costringe il re di
Sardegna, stanco forsi da una guerra di cinque anni, privato di
buona porzione de' suoi domini, abbandonato dagli austriaci, ridotti
a difendere il loro paese, a sottoscrivere un armistizio, forse
necessario, ma al certo non onorevole, ed a cedere a titolo di
deposito fino alla pace quelle piazze che ancora potea e che
difender dovea fino alla morte. Dopo ciò, la campagna non fu
che una serie continua di vittorie.
L'Italia era divisa in tanti piccoli Stati, i quali però,
riuniti, pur potevano opporre qualche resistenza. Bonaparte fu
sí destro da dividere i loro interessi. Questa è la
sorte, dice Machiavelli, di quelle nazioni le quali han giá
guadagnata la riputazione delle armi: ciascuno brama la loro
amicizia, ciascuno procura distornare una guerra che teme.
Cosí i romani han combattuto sempre i loro nemici ad uno ad
uno e li han vinti tutti. Il papa tentò di stringere una lega
italica. Concorrevano volentieri a questa alleanza le corti di
Napoli e di Sardegna, la prima delle quali s'incaricò
d'invitarvi anche la repubblica veneta. Ma i «savi» di
questa repubblica alle proposizioni del residente napolitano
risposero che nel senato veneto era giá quasi un secolo che
non parlavasi di alleanza, che si sarebbe proposta inutilmente; ma
che, se mai la lega fosse stata stretta tra gli altri principi, non
era difficile che la repubblica vi accedesse. Ma, quando il
gabinetto di Vienna ebbe cognizione di tali trattative, vi si oppose
acremente e mostrò con parole e con fatti che piú
della rivoluzione francese temeva l'unione italiana!
Allora si vide quanto lo stato politico degl'italiani fosse
infelice, non solo perché divisi in tanti piccoli Stati
(ché pure la divisione non sarebbe stata il piú grave
de' mali), ma perché da duecento anni o conquistati o, quel
che è peggio, protetti dagli stranieri, all'ombra del sistema
generale di Europa, senza aver guerra tra loro, senza temerne dagli
esteri, tra la servitú e la protezione, avean perduto ogni
amor di patria ed ogni virtú militare. Noi, in questi ultimi
tempi, non solo non abbiam potuto rinnovar gli esempi antichi de'
nostri avi antichissimi, i quali, riuniti, conquistarono tanta parte
dell'universo, ma neanche quei meno illustri dei tempi a noi
piú vicini, quando, divisi tra noi, ma indipendenti da tutto
il rimanente dell'Europa, eravamo italiani, liberi ed armati.
Gli austriaci, rimasti soli, non poterono sostener l'impeto nemico:
tutta la Lombardia fu invasa, Mantova cadde, ed essi furono respinti
fino al Tirolo. Bonaparte era giá poco lontano da Vienna,
l'Europa aspettava da momento a momento azioni piú
strepitose; quando si vide la Francia condiscendere ad una pace,
colla quale essa acquistava il possesso della sinistra sponda del
Reno e dell'importante piazza di Magonza, e l'Austria riconosceva
l'indipendenza della repubblica cisalpina, in compenso della quale
le si davano i domíni della repubblica veneta. Questa, col
risolversi troppo tardi alla guerra, altro non avea fatto che dare
ai piú potenti un plausibile motivo di accelerare la sua
ruina.
Per qual forza di destino avrebbe potuto sussistere un governo, il
quale da due secoli avea distrutta ogni virtú ed ogni valor
militare, che avea ristretto tutto lo Stato nella sola capitale, e
poscia avea concentrata la capitale in poche famiglie, le quali,
sentendosi deboli a tanto impero, non altra massima aveano che la
gelosia, non altra sicurezza che la debolezza de' sudditi e,
piú che ogni nemico esterno, temer doveano la virtú
de' propri sudditi? Non so che avverrá dell'Italia; ma il
compimento della profezia del segretario fiorentino, la distruzione
di quella vecchia imbecille oligarchia veneta, sará sempre
per l'Italia un gran bene. Ed io che, tra i beni che posson ricevere
i popoli, il primo luogo do a quelli della mente, cioè al
giudicar retto, onde vien poi l'oprar virtuoso e nobile; io credo
esser giá sommo vantaggio il veder tolto l'antico errore per
cui i gentiluomini veneziani godevan nelle menti del volgo fama di
sapienti reggitori di Stato.
Il trattato di Campoformio era vantaggioso a tutt'e due le potenze
contraenti. L'Austria, sopra tutto, vi avea guadagnato massimo; e,
se rimaneva ancora qualche altro oggetto a determinarsi, era facile
prevedere che a spese de' piú piccoli principi di Germania
essa avrebbe guadagnato anche dippiú. Ma era facile
egualmente prevedere che l'Inghilterra, avendo sola tra gli alleati
colla guerra guadagnato e dovendo sola restituire, esser dovea
lontana dai pensieri di pace.
Il governo che allora avea la Francia, checché molti
credessero, avea, almen per poco, rinunciato al progetto di
democratizzazione universale, il quale, al modo come l'aveano i
francesi immaginato, era solo eseguibile in un momento di
entusiasmo. I romani mostravan di rendere ai popoli gli ordini che
essi bramavano, ma non avevan la smania di portar dappertutto gli
ordini di Roma. Quindi i romani conservarono meglio e piú
lungamente l'apparenza di liberatori de' popoli. Ma il governo
francese riteneva tuttavia il primiero linguaggio per vendere a
piú caro prezzo le sue promesse e le sue minacce: eravi
sempre una contraddizione tra i proclami de' generali e le
negoziazioni de' ministri, tra le parole date ai popoli e quelle
date ai re; e, tra queste continue contraddizioni, si faceva, ora
coi popoli ora coi re, un traffico continuo di speranze e di timori.
Giá da questo ognuno prevedeva che il trattato di Campoformio
avea sol per poco sospesa la democratizzazione di tutta l'Italia. Il
re di Sardegna non era che il ministro della repubblica francese in
Torino; il duca di Toscana ed il papa non erano nulla. Berthier
finalmente occupò Roma; la distruzione di un vecchio governo
teocratico non costò che il volerla; tale è lo stato
dell'Italia, che chiunque vuole o salvarla o occuparla deve
riunirla, e non si può riunire senza cangiare il governo di
Roma. L'indifferenza colla quale l'Italia riguardò tale
avvenimento mostrò bene qual progresso le nuove opinioni
avean fatto negli animi degl'italiani.
IV
NAPOLI - REGINA
Rimaneva il regno di Napoli; e forse, almen per quel tempo, i
francesi non aveano né interesse né forza né
volontá di attaccarlo. Ma la parentela coi sovrani di
Francia, l'influenza preponderante del gabinetto inglese, il
carattere della regina, tutto contribuiva a fomentare nella corte di
Napoli l'odio che fin da principio, piú caldo che ogni altra
corte di Europa, avea spiegato contro la rivoluzione francese. La
regina, nel viaggio che avea fatto per la Germania e per l'Italia in
occasione del matrimonio delle sue figlie, era stata la prima
motrice di quella lega che poi si vide scoppiare contro la Francia.
La forza costrinse la corte di Napoli a sottoscrivere una
neutralitá, quando Latouche venne con una squadra in faccia
alla stessa capitale. Forse allora temette piú di quel che
dovea: se avesse prolungate per due altri giorni le trattative, la
stagione ed i venti avrebbero fatta vendetta di una flotta che
troppo imprudentemente si era avventurata entro un golfo pericoloso
in una stagione pericolosissima.
La presa di Tolone fece rompere di nuovo la neutralitá. Al
pari delle altre corti, quella di Napoli inviò delle truppe a
sostenere una sciagurata impresa piú mercantile che
guerriera, la quale, nel modo in cui fu immaginata e diretta, potea
esser utile solo agl'inglesi. Nella primavera seguente inviò
due brigate di cavalleria nella Cisalpina in soccorso
dell'imperatore: esse si condussero molto bene. Ma le vittorie di
Bonaparte in Italia fecero ricadere la corte ne' suoi timori, e si
affrettò a conchiudere una pace nel tempo appunto in cui
l'imperatore avea maggior bisogno de' suoi aiuti; nel tempo in cui,
non presa ancora Mantova, non distrutte ancora tutte le forze
imperiali in Italia, poteva, facendo avanzar le sue truppe, produrre
un potente e forse pericoloso diversivo. Il governo francese ad una
corte che non sapeva far la guerra seppe vendere quella pace, che
esso avrebbe dovuto e che forse era pronto a comprare.
Perché si ebbe tanta paura della flotta di Latouche?
Perché si credeva che in Napoli vi fossero cinquantamila
pronti a prender l'armi in di lui favore. Non vi era nessuno,
nessuno... Qual fu nella trattativa di questa pace il grande oggetto
del quale si occupò la corte di Napoli? La liberazione di
circa duecento scolaretti, che teneva arrestati nelle sue fortezze.
Che non si fece, che non si pagò per far sí che il
Direttorio non insistesse, come allora era di moda, per la
liberazione de' «rei di opinione»? La regina non
approvava quella pace, e forse avea ragione; ma credette aver
ottenuto molto, avendo ottenuto il diritto di poter incrudelire
inutilmente contro pochi giovinetti che conveniva disprezzare... Non
si perdano mai di vista questi fatti. La corte di Napoli non sapeva
né che temere né che sperare: come si poteva
pretendere che agisse saviamente?
La corte di Napoli era la corte delle irresoluzioni, della
viltá ed, in conseguenza, delle perfidie. La regina ed il re
eran concordi solo nell'odiare i francesi; ma l'odio del re era
indolente, quello della regina attivissimo: il primo si sarebbe
contentato di tenerli lontani, la seconda volea vederli distrutti.
Ne' momenti di pericolo, il re ascoltava i suoi timori e, piú
de' timori, la sua indolenza; al primo favore di fortuna, al primo
raggio di nuove e liete speranze, per cagione della stessa
indolenza, abbandonava di nuovo gli affari alla regina.
Acton fomentava nel re un'indolenza che accresceva l'imperio suo e
della regina; e questa, per desiderio di comandare, non si avvedeva
che Acton turbava tutte le cose e spingeva ad inevitabile rovina il
re, il Regno e lei stessa. La regina era ambiziosa; ma l'ambizione
è un vizio o una virtú, secondo le vie che sceglie,
secondo il bene o il male che produce. Ella venne la prima volta da
Germania col disegno d'invadere il trono, né si ristette
finché, per mezzo degl'intrighi e dell'ascendente che una
colta educazione le dava sull'animo del marito, non giunse a cangiar
tutt'i rapporti interni ed esterni dello Stato.
Il marchese Tanucci previde le funeste conseguenze del genio
novatore della giovine regina, e volle opporvisi fin da quel momento
in cui pretese di aver entrata e voto nel Consiglio di Stato. Era
questa una novitá inudita nel regno di Napoli, e molto
piú nella famiglia di Borbone, ma la regina vinse e
giurò vendicarsi di Tanucci: né la sua etá,
né il suo merito, né li suoi lunghi e fedeli servizi
poterono salvar questo vecchio amico di Carlo terzo ed aio, per
cosí dire, di suo figlio dalla umiliazione e dalla disgrazia.
Sotto un re, debole inimico ed infedele amico, tutti compresero non
esservi da temere, non da sperare, se non dalla regina; e tutti
furono a lei venduti. Ella creò anche al di fuori nuovi
sostegni all'impero.
Tutti gl'interessi politici univano il regno di Napoli a quello di
Francia e di Spagna, e questi legami potevano formar la
felicitá della nazione coi vantaggi del commercio e della
pace. Ma gl'interessi della nazione poteano bene essere quelli del
re, non mai però quelli della regina: ella volea nuovi
rapporti politici, che la sostenessero, se bisognasse, contro il re
e, se fosse possibile, anche contro la nazione. Noi diventammo ligi
dell'Austria, potenza lontana, dalla quale la nazione nostra nulla
potea sperare e tutto dovea temere; potenza, la quale, involta in
continue guerre, ci strascinava ogni momento a prender parte
negl'interessi altrui, senza poter mai sperare di veder difesi li
nostri. La preponderanza che l'Austria andava acquistando sulle
nostre coste offese la Spagna; ma la regina, lungi dal temere il suo
sdegno, lo fomentò, lo spinse agli estremi, onde togliere al
re ogni via di ravvedimento.
I ministri del re doveano esser i favoriti della regina; ma questa
sacrificava sempre i suoi favoriti ai disegni suoi. L'ultimo
è stato il piú fortunato di tutti, non perché
avesse piú merito, ma perché avea piú audacia
degli altri, li quali non combattevano con lui ad armi eguali,
perché non si permettevano tutto ciò ch'egli ardiva
fare. Conservavano ancora costoro qualche vecchio sentimento di
giustizia, di amicizia, di pubblico bene: come contrastare con uno
che tutto sacrificava alla distruzione de' suoi nemici ed al favore
della sua sovrana?(3).
Giovanni Acton venne dalla Toscana, cioè da uno Stato che non
avea marina, a crearne una in Napoli. Avea due titoli, oltre un
terzo che gli attribuisce la fama, a meritare il favore della
regina: era, tra' ministri del re, il solo straniero e seppe prima
degli altri comprendere che in Napoli la regina era tutto ed il re
era un nulla. Giunse nel tempo in cui ardevano piú che mai i
disgusti colla corte di Spagna. Sambuca, che allora era primo
ministro, prese il partito spagnuolo: fu male accorto e vile;
perdette la grazia della regina e poco dipoi, come era inevitabile,
anche quella del re. Si vide per poco suo successore Caracciolo: ma
costui, rotto dagli anni e per natura portato all'indolenza, in una
corte ove non si voleva il bene né si soffriva il vero, non
fu che l'ombra di un gran nome e serví, senza saperlo o
almeno senza curarlo, a far risplendere Acton, che la regina voleva
esaltare, ma che ancora non poteva vincere la riputazione de'
piú vecchi. La morte di Caracciolo diede luogo finalmente ai
suoi disegni: Acton fu posto alla testa degli affari, il vecchio De
Marco confinato ai minuti dettagli di casa reale, tutti gli altri
ministri non furono che creature di Acton. La sola parte d'ingegno,
che Acton veramente possedeva, era quella di conoscer gli uomini.
Non vi era alcuno che meglio di lui sapesse definire il carattere
morale de' suoi favoriti. Riputava Castelcicala vile e crudele nella
sua viltá; Vanni entusiasta, ambizioso e crudele per furore
quanto lo era Castelcicala per riflessione; Simonetti e Corradini
ambedue uomini dabbene, ma il primo indolente, il secondo pedante,
ed incapaci ambedue di opporsi a lui. Si serví di
Castelcicala fin da che era ministro in Londra.
V
STATO DEL REGNO - AVVILIMENTO DELLA NAZIONE
Acton e la regina quasi congiurarono insieme per perdere il Regno.
La regina spiegò il piú alto disprezzo per tutto
ciò ch'era nazionale. Si voleva un genio? Dovea darcisi
dall'Arno. Si voleva un uomo dabbene? Dovea venirci dall'Istro. Ci
vedemmo inondati da una folla di stranieri, i quali occuparono tutte
le cariche, assorbirono tutte le rendite senz'avere verun talento e
verun costume, insultarono coloro ai quali rapivano la sussistenza.
Il merito nazionale fu obbliato, fu depresso e poté credersi
felice quando non fu perseguitato(4).
Quel nobile sentimento di orgoglio, che solo ispira le grandi
azioni, facendocene credere capaci; quel sentimento, che solo ispira
lo spirito pubblico e l'amor della patria; quel sentimento, che in
altri tempi ci fece esser grandi e che oggi fa grandi tante altre
nazioni di Europa, delle quali fummo un tempo e maestri e signori,
era interamente estinto presso di noi. Noi diventammo a vicenda or
francesi or tedeschi ora inglesi; noi non eravamo piú nulla.
Tante volte e sí altamente per venti anni ci era ripetuto che
noi non valevamo nulla, che quasi si era giunto a farcelo credere.
La nazione napoletana sviluppò prima una frivola mania per le
mode degli esteri. Questo produceva un male al nostro commercio ed
alle nostre manifatture: in Napoli un sartore non sapeva cucire un
abito, se il disegno non fosse venuto da Londra o da Parigi.
Dall'imitazione delle vesti si passò a quella del costume e
delle maniere, indi all'imitazione delle lingue: si apprendeva il
francese e l'inglese, mentre era piú vergognoso il non sapere
l'italiano(5). L'imitazione delle lingue portò seco
finalmente quella delle opinioni. La mania per le nazioni estere
prima avvilisce, indi ammiserisce, finalmente ruina una nazione,
spegnendo in lei ogni amore per le cose sue. La regina fu la prima
ad aprir la porta a quelle novitá, che ella stessa poi con
tanto furore ha perseguitate. Una nazione, che troppo ammira le cose
straniere, alle cagioni di rivoluzione che porta seco il corso
politico di ogni popolo aggiunge anche quelle degli altri popoli.
Quanti tra noi erano democratici solo perché lo erano i
francesi? Sopra cento teste voi dovete contare, in ogni nazione,
cinquanta donne e quarantotto uomini piú frivoli delle donne:
essi non ragionano in altro modo che in questo: - In... si pettina
meglio, si veste meglio, si cucina meglio, si parla meglio: la prova
n'è che noi ci pettiniamo, mangiamo, ci vestiamo com'essi
fanno. Come è possibile che quella nazione non pensi e non
operi meglio di noi?(6).
VI
INQUISIZIONE DI STATO
I nostri affetti, preso che abbiano un corso, piú non si
arrestano. L'odio segue il disprezzo, e dietro l'odio vengono il
sospetto ed il timore. La regina, che non amava la nazione, temeva
di esserne odiata; e questo affetto, sebbene penoso, ha bisogno, al
pari di ogni altro, di essere fomentato. Chiunque le parlò
male della nazione fu da lei ben accolto.
Le novitá delle opinioni politiche accrebbero i suoi sospetti
e diedero nuovi mezzi ai cortigiani per guadagnare il suo cuore.
Acton non mancò di servirsene per perder Medici e qualche
altro illustre suo rivale. Quindi si sciolse il freno e si
portò la desolazione nel seno di tutte le famiglie.
Un esempio. I nostri giovinetti in quegli anni aveano per moda di
far delle corse a cavallo per Chiaia ed ai Bagnuoli. Si dette a
credere ad Acton, o piuttosto Acton volle dar a credere alla corte,
che essi volessero rinnovare le corse olimpiche. Qual rapporto tra
le corse de' nostri giovani napolitani e quelle de' greci? E, quando
anche quelle fossero state un'imitazione di queste, qual male? qual
pericolo? Acton intanto incaricò la polizia di vegliare su
queste corse, come se si fosse trattato della marcia di venti
squadroni nemici che piombassero sulla capitale.
Alcuni giovani entusiasti, ripieni la testa delle nuove teorie,
leggevano ne' fogli periodici gli avvenimenti della rivoluzione
francese e ne parlavano tra di loro o, ciocché val molto
meno, ne parlavano alle loro innamorate ad ai loro parrucchieri.
Essi non aveano altro delitto che questo, né giovani senza
grado, senza fortuna, senza opinione potevano tentarne altro. Fu
eretto un tribunale di sangue col nome di «Giunta di
Stato» per giudicarli, come se avessero giá ucciso il
re e rovesciata la costituzione.
Pochi magistrati, tra coloro che componevano la Giunta, amanti
veracemente del re e della patria, vedendo che il primo, il vero, il
solo delitto di Stato era quello di seminar diffidenze tra il
sovrano e la nazione, ardirono prendere la difesa dell'innocenza e
proporre al re che la pena de' rei di Stato mal si applicava a pochi
giovani inesperti, i quali non di altro delitto eran rei che di aver
parlato di ciò che era meglio tacere, di aver approvato
ciò che era meglio esaminare; delitto di giovani, i quali si
sarebbero corretti coll'etá e coll'esperienza, che avrebbe
smentite le brillanti ma fallaci teorie onde erano le loro menti
invasate. I mali di opinione si guariscono col disprezzo e
coll'obblio: il popolo non intenderá, non seguirá mai
i filosofi. Ma, se voi perseguitate le opinioni, allora esse
diventano sentimenti; il sentimento produce l'entusiasmo;
l'entusiasmo si comunica; vi inimicate chi soffre la persecuzione,
vi inimicate chi la teme, vi inimicate anche l'uomo indifferente che
la condanna; e finalmente l'opinione perseguitata diventa generale e
trionfa.
Ma, ove si tratta di delitto di Stato, le piú evidenti
ragioni rimangono inefficaci. Imperciocché di rado un tal
delitto esiste, e di rado avviene che un uomo attenti con atto non
equivoco alla costituzione o al sovrano di una nazione: il
piú delle volte si tratta di parole che vaglion meno delle
minacce, o di pensieri che vagliono anche meno delle parole. Tali
cose vagliono quanto le fa valere il timore di chi regna(7). Guai a
chi ha ascoltato una volta le voci del timore! Quanto piú ha
temuto, piú dovrá temere. Molto temeva la regina di
Napoli, ed Acton voleva che temesse di piú. Le frequenti
impressioni di sospetti e di timori, che aveva sofferte, avevano
quasi alterato il di lei fisico e turbata interamente la serie e
l'associazione delle sue idee. Persone degne di fede mi narrano che
non senza pericolo di dispiacerle taluno le attestava la
fedeltá de' sudditi suoi.
Si volle del sangue, e se n'ebbe. Furono condannati a morte tre
infelici, tra' quali il virtuoso Emmanuele de Deo, a cui si fece
offrire la vita purché rivelasse i suoi complici, e che in
faccia all'istessa morte seppe preferirla all'infamia.
Ecco un esempio di ciò che possa e che produca il timore
negli animi, una volta turbati. Nel giorno dell'esecuzione della
sentenza si presero quelle precauzioni che altre volte si erano
trascurate e che anche allora erano superflue. Si temeva che il
popolo volesse salvare tre sciagurati, che appena conosceva; si
temeva una sedizione di circa cinquantamila rivoluzionari, che per
lo meno si diceva dover esser in Napoli. Intanto, le truppe che
quasi assediavano la cittá, gli ordini minaccevoli del
governo, tutto allarmava la fantasia del popolo; qualunque moto
piú leggiero, che in altri tempi sarebbe stato indifferente,
doveva turbarlo; temeva i sollevatori, temeva gli ordini del
governo, temeva tutto; ed il minimo timore dovea produrre, come
difatti produsse, in una gran massa di popolo un'agitazione
tumultuosa. Cosí i sospetti del governo rendono piú
sospettoso il popolo. Da quell'epoca il popolo napolitano, che prima
quasi si conteneva da se stesso senza veruna polizia, fu piú
difficile a maneggiarsi; tutte le pubbliche feste furono fatte con
maggiori precauzioni, ma non furono perciò piú
tranquille.
Si sciolse la prima Giunta. Si sperava poter respirare finalmente da
tanti orrori; ma, pochi mesi dopo, si vide in campo una nuova
congiura ed una Giunta piú terribile della prima. Si vollero
allontanati tutti que' magistrati che conservavano ancora qualche
sentimento di giustizia e di umanitá. Si mostrò di
volere i scellerati, ed i scellerati corsero in folla. Castelcicala,
Vanni, Guidobaldi si misero alla loro testa. La nazione fu assediata
da un numero infinito di spie e di delatori, che contavano i passi,
registravano le parole, notavano il colore del volto, osservavano
finanche i sospiri. Non vi fu piú sicurezza. Gli odii privati
trovarono una strada sicura per ottener la vendetta, e coloro che
non avevano nemici furono oppressi dagli amici loro medesimi, che la
sete dell'oro e l'ambizione aveva venduti ad Acton ed a Vanni. Che
si può difatti conservare di buono in una nazione, dove chi
regna non dá le ricchezze, le cariche, gli onori se non ai
delatori? dove, se si presenta un uomo onesto a chiedere il premio
delle sue fatiche o delle sue virtú, gli si risponde che
«si faccia prima del merito»? Per «farsi del
merito» s'intendeva divenir delatore, cioè formar la
ruina almeno di dieci persone oneste. Questo merito aveano tanti, i
nomi de' quali la giusta vendetta della posteritá non deve
permettere che cadano nell'obblio. La regina, indispettita contro un
sentimento di virtú che la massima parte della nazione ancora
conservava, diceva pubblicamente che «ella sarebbe un giorno
giunta a distruggere quell'antico pregiudizio per cui si reputava
infame il mestiere di delatore». Tutte queste e molte altre
simili cose si narravano: forse, siccome sempre suole avvenire, in
picciola parte vere, pel maggior numero false e finte per odio. Ma
queste cose, o vere o false che sieno, sono sempre dannose quando e
si dicono da molti e da molti si credono, perché rendono
piú audaci gli scellerati e piú timidi i buoni. Che se
esse son false, meritano doppiamente la pubblica esecrazione que'
ministri i quali colla loro condotta dánno occasione a dirle
e ragione a crederle. Per cagioni intanto di queste voci, una parte
della nazione si armò contro l'altra; non vi furono
piú che spie ed uomini onesti, e chi era onesto era in
conseguenza un «giacobino». Vanni avea detto mille volte
alla regina che il Regno era pieno di giacobini: Vanni volle apparir
veridico, e colla sua condotta li creò.
Tutt'i castelli, tutte le carceri furono ripiene d'infelici. Si
gittarono in orribili prigioni, privi di luce e di tutto ciò
ch'era necessario alla vita, e vi languirono per anni, senza poter
ottenere né la loro assoluzione né la loro condanna,
senza neanche poter sapere la cagione della loro disgrazia. Quasi
tutti, dopo quattro anni, uscirono liberi, come innocenti; e
sarebbero usciti tutti, se non si fossero loro tolti i legittimi
mezzi di difesa. Vanni, che era allor il direttor supremo di tali
affari, non si curava piú di chi era giá in carcere;
non pensava che a carcerarne degli altri: ardí dire che
«almeno dovevano arrestarsene ventimila». Se il
fratello, se il figlio, se il padre, se la moglie di qualche
infelice ricorreva a costui per sollecitare la decisione della di
lui sorte, un tal atto di umanitá si ascriveva a delitto. Se
si ricorreva al re e che il re qualche volta ne chiedeva conto a
Vanni, ciò anche era inutile, perché per Vanni
rispondeva la regina, la quale credeva che Vanni operasse bene.
Vanni diceva sempre che vi erano altre fila della congiura da
scoprire, altri rei da arrestare; e la regina tutto approvava,
perché temeva sempre altri rei ed altre congiure.
Vanni, il quale meglio di ogni altro sapeva con quali arti si era
ordita un'inquisizione, diretta piú a fomentare i timori
della regina che a calmarli, tremava ogni volta che gli si parlava
di esame e di sentenza. Ei volea trovare il reo, e temea che si
fosse ricercata la veritá(8).
Sembrerá a molti inverisimile tutto ciò che io narro
di Vanni. E difatti il carattere morale di quell'uomo era singolare.
Egli riuniva un'estrema ambizione ad una crudeltá estrema e,
per colmo delle sciagure dell'umanitá, era un entusiasta.
Ogni affare che gli si addossava era grandissimo; ma egli voleva
sempre apparir piú grande di tutti gli affari. Uomini tali
sono sempre funesti, perché, non potendo o non sapendo
soddisfare l'ambizione loro con azioni veramente grandi, si sforzano
di fare apparir tali tutte quelle che possono e che sanno fare, e le
corrompono.
Vanni incominciò ad acquistar fama di giudice integro e
severissimo colla condotta che tenne col principe di Tarsia, il
quale era stato per qualche anno direttore della fabbrica di seterie
che il re avea stabilita in San Leucio. Il primo errore forse lo
commise il re, affidando tale impresa al principe di Tarsia
anziché ad un fabbricante; il secondo lo fu di Tarsia, il
quale, non essendo fabbricante, non dovea accettar tale commissione.
Ne avvenne quello che ne dovea avvenire. Tarsia era un onestissimo
cavaliere, cioè un onestissimo spensierato, incapace di
malversare un soldo, ma incapace al tempo istesso d'impedir che gli
altri malversassero. Si trovò ne' conti una mancanza di circa
cinquantamila scudi. Fu data a Vanni la commissione di liquidare i
conti. Non eravi affare piú semplice, perché Tarsia
era un uomo che poteva e voleva pagare. Pure Vanni prolungò
l'affare non so per quanti anni: cadde il trono, e l'affare di
Tarsia ancora pendeva indeciso; ed intanto non eravi genere di
vessazioni e d'insulti ai quali non sottoponesse la famiglia di
Tarsia, perché, dicesi, tale era l'intenzione di Acton. Gli
uomini di buon senso, alcuni dicevano: - Che imbecille! - altri: -
Che impostore! - Ma nella corte si faceva dire: - Che giudice
integro! Con quanto zelo, con quanta fermezza affronta il principe
di Tarsia, un grande di Spagna, un grande officiale del palazzo! -
Come se l'ingiustizia che si commette contro i grandi non possa
derivar dalle stesse cagioni ed essere egualmente vile che quella
che si commette contro i piccioli.
Si avea bisogno d'un inquisitor di Stato, e si scelse Vanni per la
ragione istessa per la quale non si avrebbe dovuto scegliere. La
prima volta che Vanni entrò nell'assemblea de' magistrati che
dovean giudicare, si mostrò tutto affannato, cogli occhi
mezzo stralunati, e, raccomandando ai giudici la giustizia,
soggiunse: - Son due mesi da che io non dormo, vedendo i pericoli
che ha corsi il mio re. - «Il mio re»: questo era il
modo col quale egli usava chiamarlo dopo che gli fu affidata
l'inquisizione di Stato. - Il vostro re! - gli disse un giorno il
presidente del Consiglio, Cito, uomo rispettabile e per la carica e
per cento anni di vita irreprensibile - il vostro re! Che volete
intender mai con questa parola, che, sotto apparenza di zelo,
nasconde tanta superbia? E perché non dite «il nostro
re»? Egli è re di tutti noi, e tutti l'amiamo
egualmente. - Queste poche parole bastano per far giudicare di due
uomini; ma, in un governo debole, colui che pronunzia piú
alto «il mio re» suole vincere chi si contenta di dire
«il nostro re».
Lo sguardo di Vanni era sempre riconcentrato in se stesso; il colore
del volto pallido-cinereo, come suole essere il colore degli uomini
atroci; il suo passo irregolare e quasi a salti, il passo insomma
della tigre: tutte le sue azioni tendevano a sbalordire ed atterrire
gli altri; tutt'i suoi affetti atterrivano e sbalordivano lui
stesso. Non ha potuto abitar di piú di un anno in una stessa
casa, ed in ogni casa abitava al modo che narrasi de' signorotti di
Fera e di Agrigento. Ecco l'uomo che dovea salvare il Regno!
Ma la macchina di quattro anni dovea finalmente sciogliersi.
Gl'interessati fremevano; gli uomini di buon senso ridevano di una
nuova specie di delitto di Stato che in quattro anni d'inquisizione
non si era ancora scoperto; nel popolaccio istesso andava
raffreddandosi quel caldo che nei primi tempi avea mostrato contro i
rei, e quasi incominciava a sentir pietá di tanti infelici, i
quali non vedendo condannati, incominciava a credere innocenti.
Acton, che da principio era stato il principal autore
dell'inquisizione, dopo averne usato quanto bastava ai suoi disegni,
vedendola innoltrar piú di quel che conveniva e non volendo e
non potendo arrestarla, avea ceduto il suo luogo a Castelcicala.
Costui, il piú vile degli uomini, avea bisogno, per
guadagnare il favore della regina, di quel mezzo che Acton avea
adoperato solo per atterrare i suoi rivali, ed in conseguenza dovea
spingerne l'abuso piú oltre, e lo spinse. Fece di tutto
perché la cabala non si scoprisse: giunse ad imputare a
delitto la religiositá di coloro che diedero il voto per la
veritá; giunse a minacciare un castigo agli avvocati da lui
stesso destinati, perché difendevano i rei con zelo. Ma la
nazione era oppressa e non corrotta, e, se diede grandi esempi di
pazienza, ne diede anche moltissimi, ed egualmente splendidi, di
virtú. Nulla potette smuovere la costanza de' giudici e lo
zelo degli avvocati. Quando si vide la veritá trionfare, ed
uscir liberi quei che si volevano morti, Castelcicala, per
giustificarsi agli occhi del pubblico e del re, il quale finalmente
si era occupato di un tal affare, immolò Vanni, e tutta la
colpa ricadde sopra costui.
Vanni avea accusati al re tutti i giudici, il presidente del
Consiglio Mazzocchi, Ferreri, Chinigò, gli uomini forse i
piú rispettabili che Napoli avesse e per dottrina e per
integritá e per attaccamento al proprio sovrano; e un momento
forse si dubitò se dovessero esser puniti questi tali o
Vanni. Se Vanni rimaneva vincitore, avrebbe compíta l'opera
della perdita del Regno e della rovina del trono. Per buona sorte
era giunto all'estremo, e rovinò se stesso per aver voluto
troppo. Ma, prima che ciò avvenisse, di quanti altri uomini
utili avrebbe privato lo Stato, e quanti fedeli servitori avrebbe
tolti al re? Quando anche il rovescio del trono di Napoli non fosse
avvenuto per effetto della guerra, Vanni sarebbe bastato solo a
cagionarlo, e lo avrebbe fatto.
Vanni fu deposto ed esiliato dalla capitale: si tentò di
raddolcire in segreto il suo esilio, ma invano. L'anima ambiziosa di
Vanni cadde in un furore melanconico, il quale finalmente lo spinse
a darsi da se stesso una morte, che, per soddisfazione della
giustizia e per bene dell'umanitá, avrebbe meritato da altra
mano e molto tempo prima. La sua morte precedette di poco l'entrata
de' francesi in Napoli. Egli li temea, avea chiesta alla corte un
asilo in Sicilia, e gli era stato negato. Prima di uccidersi scrisse
un biglietto, in cui diceva: «L'ingratitudine di una corte
perfida, l'avvicinamento di un nemico terribile, la mancanza di
asilo mi han determinato a togliermi una vita che ormai mi è
di peso. Non s'incolpi nessuno della mia morte; ed il mio esempio
serva a render saggi gli altri inquisitori di Stato». Ma gli
altri inquisitori di Stato risero della sua morte, ne rise
Castelcicala; e l'inquisizione continuò collo stesso furore,
finché i francesi non furono a Capua.
VII
CAGIONI ED EFFETTI DELLA PERSECUZIONE
Io mi arresto; la mia mente inorridisce alla memoria di tanti
orrori. Ma donde mai è nato tanto furore negli animi de'
sovrani d'Europa contro la rivoluzione francese? Molte altre nazioni
aveano cangiata forma di governo; non vi è quasi secolo che
non conti un cangiamento: ma né quei cangiamenti aveano mai
interessati altri che le corti direttamente offese, né aveano
prodotto nelle altre nazioni alcun sospetto ed alcuna persecuzione.
Pochi anni prima, i saggi americani avean fatta una rivoluzione poco
diversa dalla francese, e la corte di Napoli vi avea pubblicamente
applaudito: nessuno avea temuto allora che i napolitani volessero
imitare i rivoluzionari della Virginia. Il pericolo de' sovrani
è forse cresciuto in proporzione de' loro timori?
I francesi illusero loro stessi sulla natura della loro rivoluzione,
e credettero effetto della filosofia quello che era effetto delle
circostanze politiche nelle quali trovavasi la loro nazione.
Quella Francia, che ci si presentava come un modello di governo
monarchico, era una monarchia che conteneva piú abusi,
piú contraddizioni: la rivoluzione non aspettava che una
causa occasionale per iscoppiare. Grandi cause occasionali furono la
debolezza del re, l'alterigia, or prepotente or debole anch'essa,
della regina e di Artois, l'ambizione dello scellerato ed inetto
Orléans, il debito delle finanze, Necker, l'Assemblea de'
notabili e, molto piú, gli Stati generali. Ma, prima che
queste cagioni esistessero, eravi giá antica infinita materia
di rivoluzione accumulata da molti secoli: la Francia riposava sopra
una cenere fallace, che copriva un incendio devastatore.
Tra tanti che hanno scritta la storia della rivoluzione francese,
è credibile che niuno ci abbia esposte le cagioni di tale
avvenimento, ricercandole, non giá ne' fatti degli uomini, i
quali possono modificare solo le apparenze, ma nel corso eterno
delle cose istesse, in quel corso che solo ne determina la natura?
La leggenda delle mosse popolari, degli eccidi, delle ruine, delle
varie opinioni, de' vari partiti, forma la storia di tutte le
rivoluzioni, e non giá di quella di Francia, perché
nulla ci dice di quello per cui la rivoluzione di Francia differisce
da tutte le altre. Nessuno ci ha descritto una monarchia assoluta,
creata da Richelieu e rinforzata da Luigi decimoquarto in un
momento; una monarchia surta, al pari di tutte le altre di Europa,
dall'anarchia feudale, senza però averla distrutta,
talché, mentre tutti gli altri sovrani si erano elevati
proteggendo i popoli contro i baroni, quello di Francia avea nel
tempo istesso nemici ed i feudatari, ivi piú potenti che
altrove, ed il popolo ancora oppresso; le tante diverse costituzioni
che ogni provincia avea; la guerra sorda ma continua tra i diversi
ceti del regno; una nobiltá singolare, la quale, senza esser
meno oppressiva di quella delle altre nazioni, era piú
numerosa, ed a cui apparteneva chiunque voleva, talché ogni
uomo, appena che fosse ricco, diventava nobile, ed il popolo perdea
cosí financo la ricchezza; un clero, che si credeva essere
indipendente dal papa e che non credeva dipendere dal re, onde era
in continua lotta e col re e col papa; i gradi militari di privativa
de' nobili, i civili venali ed ereditari, in modo che all'uomo non
nobile e non ricco nulla rimaneva a sperare; le dispute che tutti
questi contrasti facevano nascere; la smania di scrivere, che indi
nasceva e che era divenuta in Francia un mezzo di sussistenza per
coloro i quali non ne avevano altro, e che erano moltissimi; la
discussione delle opinioni a cui le dispute davan luogo ed il
pericolo che dalle stesse opinioni nasceva, poiché su di esse
eran fondati gl'interessi reali de' ceti; quindi la massima
persecuzione e la massima intolleranza per parte del clero e della
corte, nell'atto che si predicava la massima tolleranza dai
filosofi; quindi la massima contraddizione tra il governo e le
leggi, tra le leggi e le idee, tra le idee e li costumi, tra una
parte della nazione ed un'altra; contraddizione che dovea produrre
l'urto vicendevole di tutte le parti, uno stato di violenza nella
nazione intera, ed in séguito o il languore della distruzione
o lo scoppio di una rivoluzione. Questa sarebbe stata la storia
degna di Polibio(9).
La Francia avea nel tempo istesso infiniti abusi da riformare.
Quanto maggiore è il numero degli abusi, tanto piú
astratti debbono essere i princípi della riforma ai quali si
deve rimontare, come quelli che debbono comprendere maggior numero
di idee speciali. I francesi furono costretti a dedurre i
princípi loro dalla piú astrusa metafisica, e caddero
nell'errore nel qual cadono per l'ordinario gli uomini che seguono
idee soverchiamente astratte, che è quello di confonder le
proprie idee colle leggi della natura. Tutto ciò che avean
fatto o volean fare credettero esser dovere e diritto di tutti gli
uomini.
Chi paragona la Dichiarazione de' diritti dell'uomo fatta in America
a quella fatta in Francia, troverá che la prima parla ai
sensi, la seconda vuol parlare alla ragione: la francese è la
formola algebraica dell'americana. Forse quell'altra Dichiarazione
che avea progettata Lafayette era molto migliore.
Idee tanto astratte portano seco loro due inconvenienti: sono
piú facili ad eludersi dai scellerati, sono piú facili
ad adattarsi a tutt'i capricci de' potenti; i turbolenti e faziosi
vi trovano sempre di che sostenere le loro pretensioni le piú
strane, e gli uomini dabbene non ne ricevono veruna protezione. Chi
guarda il corso della rivoluzione francese ne sará convinto.
I sovrani credettero, come i francesi, che la loro rivoluzione fosse
un affare di opinione, un'opera di ragione, e la perseguitarono.
Ignorarono le cagioni vere della rivoluzione francese e ne temettero
gli effetti per quello stesso motivo per il quale non avrebbero
dovuto temerli. Quando e dove mai la ragione ha avuto una setta?
Quanto piú astratte sono le idee della riforma, quanto
piú rimote dalla fantasia e da' sensi, tanto meno sono atte a
muovere un popolo. Non l'abbiamo noi veduto in Italia, in Francia
istessa? Nel modo in cui i francesi aveano esposti i santi
princípi dell'umanitá, tanto era sperabile che gli
altri popoli si rivoluzionassero, quanto sarebbe credibile che le
nostre pitture di ruote di carozze si perfezionino per i
princípi di prospettiva dimostrati col calcolo differenziale
ed integrale.
Se il re di Napoli avesse conosciuto lo stato della sua nazione,
avrebbe capito che non mai avrebbe essa né potuto né
voluto imitar gli esempi della Francia. La rivoluzione di Francia
s'intendeva da pochi, da pochissimi si approvava, quasi nessuno la
desiderava; e, se vi era taluno che la desiderasse, la desiderava
invano, perché una rivoluzione non si può fare senza
il popolo, ed il popolo non si move per raziocinio, ma per bisogno.
I bisogni della nazione napolitana eran diversi da quelli della
francese: i raziocini de' rivoluzionari eran divenuti tanto astrusi
e tanto furenti, che non li potea piú comprendere. Questo pel
popolo. Per quella classe poi che era superiore al popolo, io credo,
e fermamente credo, che il maggior numero de' medesimi non avrebbe
mai approvate le teorie dei rivoluzionari di Francia. La scuola
delle scienze morali e politiche italiane seguiva altri
princípi. Chiunque avea ripiena la sua mente delle idee di
Machiavelli, di Gravina, di Vico, non poteva né prestar fede
alle promesse né applaudire alle operazioni de' rivoluzionari
di Francia, tostoché abbandonarono le idee della monarchia
costituzionale. Allo stesso modo la scuola antica di Francia, quella
per esempio di Montesquieu, non avrebbe applaudito mai alla
rivoluzione. Essa rassomigliava all'italiana, perché ambedue
rassomigliavan molto alla greca e latina.
In una rivoluzione è necessitá distinguere le
operazioni dalle massime. Quelle sono figlie delle circostanze, le
quali non sono mai simili presso due popoli; queste sono sempre
piú diverse di quelle, perché il numero delle idee
è sempre molto maggiore di quello delle operazioni ed, in
conseguenza, piú facile la diversitá, piú
difficile la rassomiglianza. Non vi è popolo il quale non
conti nella sua storia molte rivoluzioni: quando se ne paragonano le
operazioni, esse si trovan somiglianti: paragonate le idee e le
massime, si trovano sempre diversissime.
Chiunque vede una rivoluzione in uno Stato vicino deve temere o
delle operazioni o delle idee. I mezzi per opporsi alle operazioni
sono tutti militari: qualunque sieno le idee che due popoli seguono,
vincerá quello che saprá meglio far la guerra; e
quello la fará meglio, che avrá migliori ordini,
piú amor di patria, piú valore e piú
disciplina. Il mezzo per opporsi al contagio delle idee (lo
dirò io?) non è che un solo: lasciarle conoscere e
discutere quanto piú sia possibile. La discussione
fará nascere le idee contrarie: è effetto dell'amor
proprio: due uomini sono sempre piú concordi al principio
della discussione che alla fine. Nate una volta queste massime
contrarie, prenderanno il carattere di massime nazionali;
accresceranno l'amor della patria, perché quelle nazioni
piú ne hanno che piú differiscono dalle altre:
accresceranno l'odio contro le nazioni straniere, la fiducia nelle
proprie forze, l'energia nazionale; non solamente si eviterá
il contagio delle opinioni, ma si riparerá anche alla forza
delle operazioni. Mi si dice che il marchese del Gallo, quando ebbe
letto l'elenco di coloro che trovavansi arrestati per cospiratori,
ridendone al pari di tutti i buoni, propose al re di mandarli
viaggiando. - Se son giacobini - egli diceva, - mandateli in
Francia: ne ritorneranno realisti.- Questo consiglio è pieno
di ragione e di buon senso, e fa onore al cuore ed alla mente del
marchese del Gallo. Vince una rivoluzione colui che meno la teme. I
sovrani colla persecuzione fanno diventar sentimenti le idee, ed i
sentimenti si cangiano in sètte: il loro timore li tradisce,
e cadono talora vittime delle stesse loro precauzioni eccessive. Si
proibirono in Napoli tutti i fogli periodici: si voleva che il
popolo non avesse neanche novella de' francesi. Cosí un
oggetto, che, osservato da vicino, avrebbe destato pietá o
riso, fu come il fascio di sarmenti di Esopo, che dall'alto mare
sembrava un vascello. Un'indomabile curiositá ne spinge a
voler conoscere ciò che ci si nasconde, e l'uomo suppone
sempre piú belle e piú buone quelle cose che sono
coperte da un velo.
Ma io immagino talora, invece de' nostri re, nelle crisi attuali
dell'Europa, Filippo di Macedonia. La Grecia a' di lui tempi era
divisa tra i spartani ed ateniesi, i quali facevano la guerra per
opinioni di governo ed uniti ai filosofi, che in quell'epoca
discutevano le costituzioni greche, come appunto oggi li nostri
filosofi discutono le nostre, stancavano i greci con guerre
sanguinose e con cavillose dottrine. Cosí sempre suole
avvenire: tra le varie rivoluzioni si obbliano le antiche idee, si
perdono i costumi e, ridotte una volta le cose a tale stato, gli
intriganti, tra' quali i potenti tengono il primo luogo, guadagnano
sempre, perché alla fine i popoli si riducono a seguir quelli
che loro offrono maggiori beni sul momento; e cosí il massimo
amore della libertá, producendo l'esaltazione de'
princípi, ne accelera la distruzione e rimena una piú
dura servitú. Filippo con tali mezzi acquistò l'impero
della Grecia.
È una disgrazia pel genere umano quando la guerra porta seco
il cambiamento o della forma di governo o della religione: allora
perde il suo oggetto vero, che è la difesa di una nazione, ed
ai mali della guerra esterna si aggiungono i mali anche piú
terribili dell'interna. Allora lo spirito di partito rende la
persecuzione necessaria, e la persecuzione fomenta nuovo spirito di
partito; allora sono que' tempi crudeli anche nella pace. L'alta
Italia ci ha rinnovati gli stessi esempi di Sparta ed Atene, quando
le sue repubbliche, invece di restringersi a difender la loro
costituzione, sotto il nome or di guelfi or di ghibellini, vollero
riformare l'altrui; e gli stessi errori ebbero nell'Italia gli
stessi effetti. Scala, Visconti, Baglioni, ecc., rinnovarono gli
esempi di Filippo.
Tali epoche politiche sono meno contrarie di quello che si crede ai
sovrani che sanno regnare. Ma in tali epoche vince sempre il
piú umano, ed io oso dire il piú giusto. Oggi i
repubblicani sono piú generosi e perdonano ai realisti; i re
con una stolta crudeltá non dánno veruna tregua ai
repubblicani: questo fará sí che essi avranno in breve
freddi amici ed accaniti nemici. Quando l'armata del pretendente
scese in Inghilterra, faceva impiccare tutt'i prigionieri di
Hannover; Giorgio liberava tutt'i prigionieri del pretendente:
questo solo fatto, dice molto bene Voltaire, basta a far decidere
della giustizia de' due partiti, pronosticare la loro sorte
futura(10).
VIII
AMMINISTRAZIONE
Mentre da una parte con tali arti si avviliva e si opprimeva la
nazione, dall'altra si ammiseriva col disordine in tutt'i rami di
amministrazione pubblica. La nazione napolitana dalla venuta di
Carlo terzo incominciava a respirare dai mali incredibili che per
due secoli di governo viceregnale avea sofferti. Fu abbassata
l'autoritá de' baroni, che prima non lasciava agli abitanti
né proprietá reale né personale. Si resero
certe le imposizioni ordinarie con un nuovo catasto, il quale, se
non era il migliore che si potesse avere, era però il
migliore che fino a quel tempo si fosse avuto, e si abolí
l'uso delle imposizioni straordinarie che, sotto il nome di
«donativi», avean tolte somme immense alla nazione,
passate senza ritorno nella Spagna(11). Libera la nazione dalle
oppressioni de' baroni, dalle avanie del fisco, dalla perenne
estrazione di denaro, incominciò a sviluppare la sua
attivitá: si vide risorgere l'agricoltura, animarsi il
commercio; la sussistenza divenne piú agiata, i spiriti
piú colti, gli animi piú dolci. L'esserci noi separati
dalla Spagna, e l'essersi la Spagna tolta alla famiglia di Austria e
data a quella di Borbone, ed il patto di famiglia avean reso alla
nostra nazione quella pace di cui avevamo bisogno per ristorarci dai
mali sofferti; e la neutralitá, che ci fu permessa di serbare
nell'ultima guerra tra la Spagna, la Francia e l'Inghilterra per le
colonie americane, prodotto avea nella nostra nazione un aumento
considerabile di ricchezze. In cinquant'anni avevamo fatti progressi
rapidissimi, e vi era ragione di sperare di doverne fare anche di
piú.
La nostra nazione passava, per cosí dire, dalla fanciullezza
alla sua gioventú. Ma questo stato di adolescenza politica
è appunto lo stato piú pericoloso e quello da cui
piú facilmente si ricade nel languore e nella desolazione. Le
nazioni escono dalla barbarie accrescendo le loro forze e rendendo
cosí la sussistenza sicura: non passano alla coltura se non
accrescendo i loro bisogni. Ma i bisogni si sviluppano piú
rapidamente delle forze, tra perché essi dipendono dalle sole
nostre idee, tra perché le altre nazioni, senza comunicarci
le loro forze, ci comunicano volontieri le idee, i loro costumi, gli
ordini ed i vizi loro, il che per noi diventa sorgente di nuovi
bisogni; e, se allora, crescendo questi, non si pensa anche ad
accrescer le nostre forze, noi non avremo mai quell'equilibrio di
forze e di bisogni, nel che solo consiste la sanitá
degl'individui e la prosperitá delle nazioni: i passi che
faremo verso la coltura non faranno che renderci servi degli
stranieri, ed una coltura precoce e sterile diventerá per noi
piú nociva della barbarie. Uno Stato che non fa tutto
ciò che può fare è ammalato. Tale era lo stato
di tutta l'Italia; e questo stato era piú pericoloso per
Napoli, perché piú risorse avea dalla natura e
piú estesa era la sfera della sua attivitá.
Ma il governo di Napoli avea perduto gran parte delle sue forze,
sopprimendo lo sviluppo delle facoltá individuali
coll'avvilimento dello spirito pubblico: tutto rimaneva a fare al
governo, ed il governo non sapea far nulla, né potea far
tutto.
Le nazioni ancora barbare amano di essere sgravate dai tributi,
perché non hanno desidèri superflui; le nazioni colte
si contentano di pagar molto, purché quest'aumento di tributo
accresca la forza e migliori la sussistenza nazionale. Il segreto di
una buona amministrazione è di far crescere la riproduzione
in proporzione dell'esazione: non è tanto la somma de'
tributi, quanto l'uso de' medesimi per rapporto alla nazione, quello
che determina lo stato delle sue finanze(12).
Un governo savio ed attivo avrebbe corretti gli antichi abusi di
amministrazione, avrebbe sviluppata l'energia nazionale, ci avrebbe
esentati dai vettigali che pagavamo agli esteri per le loro
manifatture, avrebbe protette le nostre arti, migliorate le nostre
produzioni, esteso il nostro commercio: il governo sarebbe divenuto
piú ricco e piú potente, e la nazione piú
felice. Questo era appunto quello che la nazione bramava(13).
L'epoca in cui giunse Acton era l'epoca degli utili progetti: qual
«progettista» egli si spacciò e qual
«progettista» fu accolto; ma i suoi progetti,
ineseguibili o non eseguiti o eseguiti male, divennero cagioni di
nuove ruine, perché cagioni di nuove inutili spese.
Acton ci voleva dare una marina. La natura avea formata la nazione
per la marina, ma non aveva formato Acton per la nazione. La marina
dovea prima di tutto proteggere quel commercio che allora avevamo,
il quale, essendo di derrate e quasi tutte privative del Regno, o
poca o niuna gelosia dar potea alle altre nazioni, le quali per lo
piú un commercio aveano di manifatture. I nostri nemici erano
i barbareschi, contro i quali non valeva tanto la marina grande
quanto la piccola marina corsara, che Acton distrusse(14). La marina
armata dovea crescere in proporzione della marina mercantile e del
commercio, senza di cui la marina guerriera è inutile e non
si può sostenere. Acton, invece di estendere il nostro
commercio, lo restrinse coi suoi errori diplomatici, col suo genio
dispotico, colla sua mala fede, colla viltá con cui
sposò gl'interessi degli stranieri in pregiudizio de' nostri.
Acton non conosceva né la nazione né le cose. Voleva
la marina, ed intanto non avevamo porti, senza de' quali non vi
è marina: non seppe nemmeno riattare quei di Baia e di
Brindisi, che la natura istessa avea formati, che un tempo erano
stati celebri e che poteano divenirlo di nuovo con piccolissima
spesa, se, invece di seguire il piano delle creature di Acton, si,
fosse seguíto il piano dei romani, che era quello della
natura.
La marina, come Acton l'avea immaginata, era un gigante coi piedi di
creta. Era troppo piccola per farci del bene, troppo grande per
farci del male: eccitava la rivalitá delle grandi potenze,
senza darci la forza necessaria, non dico per vincere, ma almeno per
poter resistere. Senza marina, saremmo rimasti in una pace profonda:
con una marina grande, avremmo potuto vincere; ma, con una marina
piccola, dovevamo, o presto o tardi, siccome poi è avvenuto,
esser trascinati nel vortice delle grandi potenze, soffrendo tutt'i
mali della guerra, senza poter mai sperare i vantaggi della
vittoria.
Lo stesso piano Acton seguí nella riforma delle truppe di
terra. Carlo terzo ne avea fissato il numero a circa trentamila
uomini; ma, come sempre suole avvenire nei piccoli Stati, i quali
godono lunghissima pace, gli ordini di guerra si erano rilasciati, e
di truppe effettive non esistevano piú di quindicimila
uomini. Noi mancavamo assolutamente di artiglieria. Questa fu
organizzata in modo da non lasciarci nulla da invidiare agli esteri.
Ma il numero delle altre truppe fu accresciuto solo in apparenza,
per ricoprire un'alta malversazione ed una profusione la quale non
avea né leggi né limiti. Acton piú degli altri
ministri vi si era prestato; e questa non fu l'ultima delle ragioni
per cui meritò tanta protezione sí potente e sí
lunga.
Dalla morte di Iaci(15) incominciarono le riforme di abiti e di
tattica. Veniva ogni anno dalla Spagna, dalla Francia, dalla
Germania, dalla Svizzera un nuovo generale, il quale ora rialzava di
due pollici il cappello, ora raccorciava di due dita l'uniforme,
ora... Il soldato fremeva, vedendosi sottoposto a tante
novitá, che un anno dopo sapeva doversi dichiarare
inutili(16).
Questi generali conducevan sempre seco loro degli stranieri, i quali
occupavano i primi gradi della truppa. Gli altri erano accordati
agli allievi del collegio militare, dove la gioventú era
invero bene istruita nelle cognizioni militari, ma non acquistava
certamente né quel coraggio né quella sofferenza delle
fatiche, che si acquista solo coll'etá e coi lunghi servigi.
Il genio e le cognizioni debbono formare i generali: ma il coraggio
e l'amor della fatica formano gli uffiziali. Il gran principio: che
in tempo di pace l'anzianitá debba esser la norma delle
promozioni, non era confacente al genio di Acton, il quale, quando
non avesse avuto il dispotismo nel cuore, l'avea nella testa. Si
videro vecchi capitani, abbandonati alla loro miseria, dover
ubbidire a giovanetti inesperti e deboli, i quali non sapevano altro
che la teoria, ed a molti altri (poiché, tolta una volta la
norma sensibile del giusto, si apre il campo al favore ed
all'intrigo), i quali non sapevano neanche la teoria, ma che, a
forza di danaro, di spionaggio e di qualche titolo anche piú
infame dello spionaggio, erano stati elevati a quel grado. I gradi,
che non si potevano occupare da costoro, rimasero vuoti, e si videro
de' reggimenti interi mancare della metá degli officiali,
mentre coloro che dovevan esser promossi domandavano invano il
premio delle loro fatiche. Acton rispondeva a costoro che
«aspettassero la pubblicazione del loro piano»; piano
ammirabile, che costò ad Acton venti anni di meditazione e
che, senza esser mai stato pubblicato, ha disorganizzata la truppa,
disgustata la nazione, dissipato l'erario dello Stato!
Tutto nel regno di Napoli era malversazione o progetti chimerici
piú nocivi della malversazione; ed intanto ciò che era
necessario non si faceva. Noi avevamo bisogno di strade: il marchese
della Sambuca ne vide la necessitá, fu posta una imposizione
di circa trecentomila ducati all'anno: l'opera fu incominciata, se
ne fecero taluni spezzoni; ma poco di poi l'opera fu sospesa e la
contribuzione convertita ad un altro uso. Province intere chiesero
il permesso di costruirsi le strade a loro spese, promettendo
intanto di continuare a pagare alla corte, sebbene giá
convertita ad altro uso, l'imposizione che era addetta alle strade;
promettendo pagarla per sempre, ancorché, quando s'impose, si
fosse promesso di dover finire colla costruzione delle strade. Si
crederebbe che questo progetto fosse stato rifiutato? Si può
immaginare nazione piú ragionevole e piú buona e
ministero piú stolidamente scellerato? Vi erano nel regno di
Napoli alcuni errori nelle massime ed alcuni vizi
nell'organizzazione, i quali impedivano i progressi della pubblica
felicitá. Avean data origine ai medesimi altri tempi ed altre
circostanze: le circostanze e i tempi eransi cangiati, ma gli errori
ed i vizi sussistevano ancora.
Simile a tutt'i governi i quali hanno un impero superiore alle
proprie forze, il governo di Spagna, ne' tempi della dinastia
austriaca, avea procurato di distruggere ciò che non poteva
conservare. Si era estinto ogni valor militare. A contenere una
nobiltá generosa e potente, il primo de' viceré
spagnuoli, Pietro di Toledo, credette opportuno invilupparla tra i
lacci di una giurisprudenza cavillosa la quale, nel tempo istesso
che offriva facili ed abbondanti ricchezze a coloro che non ne
avevano, spogliava quegli che ne abbondavano e moltiplicava oltre il
dovere una classe di persone pericolose in ogni Stato, perché
potevano divenir ricche senza esser industriose o, ciò che
val lo stesso, senza che la loro industria producesse nulla. Tutti
gli affari del Regno si discussero nel fòro, e nel
fòro si disputò sopra tutti gli affari. Derivaron da
ciò molti mali. Tutto ciò che non era materia di
disputa forense fu trascurato: agricoltura, arti, commercio, scienze
utili, tutto ciò fu considerato piuttosto come oggetto di
sterile o voluttuosa curiositá che come studi utili alla
prosperitá pubblica e privata. Si è letto per qualche
secolo sulla porta delle nostre scuole un distico latino, nel quale
la goffaggine dello stile eguagliava la stoltezza del pensiero, e
che diceva: «Galeno dá le ricchezze, Giustiniano
dá gli onori; tutti gli altri non dánno che
paglia». E, se mai taluno, ad onta della mancanza di
istruzione, concepiva qualche idea di pubblica utilitá, non
poteva eseguirla senza prima soggettarsi ad un esame, il quale,
perché fatto innanzi a giudici e con tutte le formole
giudiziarie, diventava litigio. Si voleva fare un ponte? si dovea
litigare. Si voleva fare una strada? si dovea litigare. Ciascuno del
popolo ha in Napoli il diritto di opporsi al bene che voi volete
fare.
Carlo terzo fece grandissimi beni al Regno: egli riordinò
l'amministrazione della giustizia, tolse gli abusi della
giurisdizione ecclesiastica, frenò quelli della feudale,
protesse le arti e l'industria; e piú bene avrebbe fatto, se
il suo regno fosse stato piú lungo e se molti de' ministri,
che lo servivano, non avessero ancora seguite in gran parte le
massime dell'antica politica spagnuola. Tanucci, per esempio, il di
lui amico, quello tra' suoi ministri a cui piú deve il Regno,
errava credendo che il regno di Napoli non dovesse esser mai un
regno militare. È nota la risposta che egli soleva dare a
chiunque gli parlava di guerra: - Principoni, armate e cannoni;
principini, ville e casini. - La sua massima era falsa,
perché né il re di Napoli poteva chiamarsi
«principino», né i principini sono dispensati
della cura della propria difesa. Tanucci, piú diplomatico che
militare, confidava piú ne' trattati che nella propria forza;
ignorava che la sola forza è quella che fa ottener
vantaggiosi trattati; ignorava la forza del Regno che amministrava
ed, invece di un'esistenza propria e sicura, gliene dava una
dipendente dall'arbitrio altrui ed incerta.
Continuò Tanucci a confondere il potere amministrativo ed il
giudiziario, ed il fòro continuò ad esser il centro di
tutti gli affari. Il potere giudiziario tende, per sua intrinseca
natura, a conservar le cose nello stato nel quale si trovano;
l'amministrativo tende a sempre cangiarle, perché tende
sempre a migliorarle: il primo pronunzia sempre sentenze
irrevocabili; il secondo non fa che tentativi, i quali si possono e
talora si debbono cangiare ogni giorno. Se questi due poteri, per
loro natura tanto diversi, li riunite, corrompete l'uno e l'altro.
Tutto in Napoli si dovea fare dai giudici e per vie giudiziarie; e
da questo ne veniva che tutte le operazioni amministrative eran
lente e riuscivan male. Il governo era tanto lontano dalle vere idee
di amministrazione, che i vari oggetti della medesima o non erano
affidati a nessuno o erano commessi agli stessi giudici; quindi
l'utile amministrazione o non avea chi la promovesse o era promossa
languidissimamente da coloro che avean tante altre cose da fare.
L'altro difetto, che vi era nell'organizzazione del governo di
Napoli, era la mancanza di un centro comune, al quale, come tanti
raggi, andassero a finir tutti i rami dell'amministrazione. Questo
centro avrebbe dovuto essere il Consiglio di Stato. Ma Consiglio di
Stato in Napoli non vi era se non di nome. Ciascun ministro era
indipendente. I regolamenti generali, i quali avrebbero dovuto
essere il risultato della deliberazione comune di tutt'i ministri,
ciascun ministro li faceva da sé: in conseguenza, ciascun
ministro li faceva a suo modo; i regolamenti di un ministro eran
contrari a quelli di un altro, perché la principal cura di
ogni ministro era sempre quella di usurpar quanto piú poteva
l'autoritá de' suoi colleghi e distruggere le operazioni del
suo antecessore. Cosí non vi era nelle operazioni del governo
né unitá né costanza: il ministro della guerra
distruggeva ciò che faceva il ministro delle finanze, e
quello delle finanze distruggeva ciò che faceva il ministro
della guerra. Tra tanti ministri eravi sempre (e questo era
inevitabile) uno piú innanzi di tutti gli altri nel favor del
sovrano, e questo ministro era quegli che dava, come suol dirsi, il
«tono» ed il «carattere» a tutti gli affari;
tono e carattere che un momento di poi cangiava, perché
cangiava il favore. Né valeva, ad assicurar la durata di un
regolamento o di una legge, la ragionevolezza della medesima. Vi fu
mai legge piú giusta di quella che obbligava i giudici a
ragionar le loro sentenze, onde esse fossero veramente sentenze e
non capricci? Tanucci avea imposta questa obbligazione ai giudici:
Simonetti ne li sciolse. Si può credere che Simonetti
pensasse di buona fede che i giudici non fossero obbligati a
ragionare e ad ubbidire alla legge? Simonetti dunque tradí la
sua propria coscienza, tradí il re, perché la legge,
che egli abolí, non era opera sua, ma bensí di
Tanucci.
Gli esempi di simili cose sarebbero infiniti di numero, ma io mi son
limitato a questo solo, perché, siccome esso urta
evidentemente il senso comune, basta a dimostrare che i difetti di
organizzazione de' quali parliamo erano spinti tanto innanzi, da non
rispettar piú neanche il senso comune. Si aggiunga a
ciò che tutt'i ministri erano ministri di giustizia,
imperciocché l'amministrazione della giustizia non era
ordinata in modo che seguisse la natura delle cose o delle azioni,
ma seguiva ancora, come avveniva presso i barbari del Settentrione,
nostri antenati, la natura delle persone: la giustizia era diversa
pel militare, pel prete, per l'uomo che possedeva una greggia, per
l'uomo che non ne possedeva, ecc. ecc. Si eran moltiplicate in
Napoli le corti giudicatrici piú che non furono moltiplicati
in Roma gl'iddii ai tempi di Cicerone, per cui questo grand'uomo si
doleva di non potersi fare un passo senza timore di urtare qualche
divinitá; e, nel contrasto continuo tra tanti tribunali,
spesso era ben difficile sapere da qual di essi uno dovesse esser
giudicato. Io ho degli esempi di «quistioni di
tribunale», le quali han durato diciotto anni.
Nuovi disordini, e maggiori. In una monarchia, quello che nella
giurisprudenza romana chiamavasi «rescritto del
principe» deve avere vigore di legge; ma i principi saggi
fanno pochissimi rescritti e non mai per altro che per alcuni casi
particolari, onde è che in tutte le monarchie trovasi, per
legge quasi fondamentale dello Stato, stabilito che il rescritto non
debba mai trasportarsi da un caso all'altro. Nel regno di Napoli i
rescritti eransi moltiplicati all'infinito: ciascun ministro ne
faceva, e ciascun ministro faceva rescritti invece di leggi. Come
sempre suole avvenire, i rescritti eran l'opera de' commessi, e vi
è stato tra essi taluno il quale per molti anni è
stato il vero, il solo legislatore di tutto il Regno.
Io mi trattengo molto sopra queste che sembran picciole cose,
perché da esse dipendono le grandi. Cambiate le prime, ed
imaginate che Tanucci avesse compresa tutta la potenza del Regno e
vi avesse stabiliti ordini ed educazione militare; che il potere
amministrativo fosse stato diviso dal giudiziario, e divenuto quello
piú attivo, questo piú regolare; che tutte le parti
dell'amministrazione avessero avuto un centro comune, un Consiglio
permanente, alla testa del quale fosse stato il re; e che i
ministri, non piú indipendenti l'uno dall'altro e tutti
rivali, fossero stati costretti ad operare dietro un piano uniforme
e costante; imaginate, insomma, che il re, invece di lasciar
preponderare or questo or quell'altro ministro, avesse voluto esser
veramente re; e tutto allora sarebbe cambiato. Imperciocché
io son persuaso che, nello stato presente delle idee e de' costumi
dell'Europa, rarissimo e forse impossibile a trovarsi sia un re il
quale non voglia il bene del suo regno: ma questo bene non si fa
produrre, perché deve farsi dai ministri, i quali amano
piú il posto che il regno e piú la persona propria che
il posto. È necessitá dunque costringerveli colla
forza degli ordini pubblici, il vero fine de' quali, per chi
intende, non è altro che garantire il re contro la negligenza
e la mala volontá de' ministri. Con picciolissime riforme voi
producete un grandissimo bene, e tutte le riforme di uno Stato
tendono ad un sol fine, cioè che il re sia veramente re. Ma,
per questa ragione, a tali riforme i ministri si oppongono sempre;
onde poi i mali diventano maggiori, ed inevitabili quelle
grandissime crisi, per le quali spesso s'immolano dieci generazioni
per rendere forse felice l'undecima. Veritá funesta e per i
principi e per i popoli! Le rovine di quelli e di questi per
l'ordinario sono l'effetto de' ministri e di coloro che si
millantano amici dei re(17).
IX
FINANZE
Chi paragona la somma de' tributi che noi pagavamo con quella che
pagavano le altre nazioni di Europa, crederá che noi non
eravamo i piú oppressi. Chi paragona la somma delle
imposizioni che noi pagavamo ai tempi di Carlo terzo con quella che
poscia pagammo ai tempi di Ferdinando, vedrá forse che la
differenza tra quella e questa non era grandissima. Ma intanto i
bisogni della nazione eran cresciuti, erano cresciuti i bisogni
della corte: quella veniva a pagare piú, perché in
realtá avea meno superfluo; questa veniva ad esiger meno. Il
poco che esigeva era malversato; non si pensava a restituire alla
nazione ciocché da lei si prendeva; era facile il prevedere
che tra poco le rendite non erano bastanti, ed il bisogno delle
nuove imposizioni sarebbe stato tanto maggiore nella corte quanto
maggiore sarebbe stata nel popolo l'impotenza di pagarle.
S'incominciò dal cangiare per specolazione taluni dazi
indiretti, i quali sembravano gravosi (tali erano, per esempio,
quelli sul tabacco e sulla manna), e furono commutati in dazi
diretti, che rendevano quasi il doppio. S'impose un dazio sulla
caccia, che fino a quell'epoca era stata libera; ma non si
pensò a regolarla, perché il dazio interessava la
corte ed il regolamento interessava la nazione. S'impose un dazio
sull'estrazione de' nostri generi, mentre se ne doveva imporre uno
sull'introduzione de' generi esteri. Si ricorse finanche alla
risorsa della «crociata», di cui non credo che vi possa
essere risorsa piú vile, o che il governo creda o che non
creda esser dell'onore della divinitá de' cattolici che in
taluni giorni dell'anno si mangino solo alcuni cattivi cibi che ci
vendono gli eretici.
Si ricercarono per tutto il Regno i fondi che due, tre, quattro,
dieci secoli prima erano stati posseduti dal fisco, e si aprí
una persecuzione contro le cose non meno crudele di quella contro le
persone. Finché questa persecuzione fu contro i soli
feudatari ed ecclesiastici, fu tollerabile; ma gli agenti del fisco,
dopo che ebbero assicurato il dominio, come essi dicevano, del re,
annullarono spietatamente tutt'i contratti e, beffandosi di ogni
buona fede, turbarono il povero colono, il quale fu costretto a
ricomprarsi con una lite o col danaro quel terreno che era stato
innaffiato dal sudore de' suoi maggiori e che formar dovea l'unica
sussistenza de' figli suoi.
Forse un giorno non si crederá che il furore delle revindiche
era giunto a segno che i cavalieri dell'ordine costantiniano,
immaginando non so qual parentela tra Ferdinando quarto, gran
maestro dell'ordine, e sant'Antonio abate, diedero a credere al re
che tutt'i beni, i quali nel Regno fossero sotto l'invocazione di
questo santo, si appartenessero a lui; ed egli, in ricompensa del
consiglio e delle cure che mettevano i cavalieri in ricercare tali
beni ovunque fossero, credette utile allo Stato, ed in conseguenza
giusto, toglier tali beni a coloro che utilmente li coltivavano, e
darli ad altri, i quali, essendo cavalieri costantiniani, avevano il
diritto di vivere oziosi.
Le municipalitá presso di noi avevano molti fondi pubblici,
che le stesse popolazioni amministravano, la rendita de' quali
serviva a pagare i pubblici pesi. Molti altri ve n'erano, sotto nome
di «luoghi pii», addetti alla pubblica beneficenza, fin
da que' tempi ne' quali la sola religione, sotto nome di
«caritá», potea indurre gli uomini a far un'opera
utile a' loro simili ed il solo nome di un santo potea raffrenar gli
europei ancora barbari dall'usurparli. Mille abusi ivi erano, e
nell'oggetto e nell'amministrazione di tali fondi; ma essi intanto
formavano parte della ricchezza nazionale, ed il privarne la
nazione, senza che altronde avesse avuto niun accrescimento di arti
e di commercio onde supplirvi, era lo stesso che impoverirla. Il
tempo, che tutt'i mali riforma meglio dell'uomo, avrebbe corretto
anche questo.
Una parte di questi fondi pubblici fu occupata dalla corte, e questo
non fu il maggior male; l'altra, sotto pretesto di essere male
amministrata dalle popolazioni, fu fatta amministrare dalla Camera
de' conti e da un tribunale chiamato «misto», ma che,
nella miscela de' suoi subalterni, tutt'altro avea che gente onesta.
L'amministrazione dalle mani delle comuni passò in quelle de'
commessi di questi tribunali, i quali continuarono a rubare
impunemente, e tutto il vantaggio, che dalle nuove riforme si
ritrasse, fu che si rubò da pochi, dove prima si rubava da
molti; si rubò dagli oziosi, dove prima si rubava
dagl'industriosi; il danaro fu dissipato tra i vizi ed il lusso
della capitale, dove che prima s'impiegava nelle province; la
nazione divenne piú povera, e lo Stato non divenne piú
ricco.
Lo stesso era avvenuto per i fondi allodiali e gesuitici(18). Tutto
nel regno di Napoli tendeva alla concentrazione di tutt'i rami di
amministrazione in una sola mano. Ma questa mano, non potendo tutto
fare da sé, dovea per necessitá servirsi di agenti non
fedeli, e la nazione allora cade in quel deplorabile stato, in cui
dagl'impieghi sperasi non tanto l'onore di servir la patria quanto
il diritto di spogliarla. Allora la nazione è inondata da
quelle «vespe» giudicatrici, che tanto ci fanno ridere
sulle scene di Aristofane.
La nostra capitale incominciava ad essere affollata da
quest'insetti, i quali, colla speranza di un miserabile impiego
subalterno, trascurano ogni fatica: intanto i vizi ed i capricci
crescono coll'ozio, ed, il miserabile soldo che hanno non crescendo
in proporzione, sono costretti a tenere nell'esercizio del loro
impiego una condotta la quale accresca la loro fortuna a spese della
fortuna dello Stato e del costume della nazione. Io giudico della
corruzione di un governo dal numero di coloro che domandano un
impiego per vivere: l'onesto cittadino non dovrebbe pensare a servir
la patria se non dopo di avere giá onde sussistere. Roma,
nell'antica santitá de' suoi costumi, non concedeva ad altri
quest'onore. Cosí il disordine dell'amministrazione è
la piú grande cagione di pubblica corruzione.
Sul principio il disordine nelle finanze attaccò i piú
ricchi; ma, siccome la loro classe formava anche la classe
degl'industriosi, e da questi il rimanente del popolo viveva,
cosí il disordine attaccò l'anima dello Stato, e tra
poco tutte le membra doveano risentirsene egualmente.
Nulla bastava alla corte di Napoli. Non bastò il danaro
ritratto dallo spoglio delle Calabrie; si rimisero in uso i
«donativi»; non passò anno senza che ve ne fosse
uno. Finalmente neanche i «donativi» furono sufficienti,
ed incominciaron le operazioni de' banchi.
I banchi di Napoli erano depositi di danaro di privati, ai quali il
governo non prestava altro che la sua protezione. Erano sette corpi
morali, che tutti insieme possedevano circa tredici milioni di
ducati ed ai quali la nazione ne avea affidati ventiquattro. Le loro
carte godevano il massimo credito, tra perché ipotecate sopra
fondi immensi, tra perché un corpo morale si crede superiore
a quegli accidenti a cui talora va soggetto un privato, tra
perché tenevano sempre i banchi il danaro di cui si
dichiaravano per depositari e che non potevano convertire in altro
uso. Fino al 1793 essi furono riputati sacri.
La regina pensò da banchi privati farli diventar banchi di
corte. Il primo uso che ne fece fu di gravarli di qualche pensione
in beneficio di qualche favorito; il secondo fu di costringerli a
far degl'imprestiti a qualche altro favorito meno vile o piú
intrigante; il terzo, di far contribuire grosse somme per i progetti
di Acton, che si chiamavano «bisogni dello Stato», quasi
che il danaro dei banchi non fosse danaro di quegl'istessi privati
ch'erano stati giá tassati. Indi incominciarono le operazioni
segrete. Si fecero estrazioni immense di danaro: quando non vi fu
piú danaro, si fecero fabbricar carte, onde venderle come
danaro. Le carte circolanti giungevano a circa trentacinque milioni
di ducati, de' quali non esisteva un soldo.
Allora incominciò un agio fino a quel tempo ignoto alla
nazione, e che in breve crebbe a segno di assorbire due terzi del
valore della carta. La corte, lungi dal riparare al male
allorché era sul nascere, l'accrebbe, continuando tutto
giorno a metter fuori delle carte vuote e facendole convertire in
contanti per mezzo de' suoi agenti a qualunque agio ne venisse
richiesto. Si vide lo stesso sovrano divenir agiotatore: se avesse
voluto far fallire una nazione nemica, non potea fare altrimenti.
L'agio era tanto piú pesante quanto che non si trattava di
biglietti di azione, non di biglietti di corte, la sorte de' quali
avesse interessati soli pochi renditieri; si trattava di attaccare
in un colpo solo tutto il numerario e di rovesciar tutte le
proprietá, tutto il commercio, tutta la circolazione di una
nazione agricola, la quale di sua natura ha sempre la circolazione
piú languida delle altre. La corte si scosse quando il male
era irreparabile. Diede i suoi allodiali per ipoteca delle carte
vuote; ma né que' fondi potean ritrovare cosí
facilmente compratori, né, venduti, riparato avrebbero alla
mala fede. Conveniva persuadere al popolo che di carte vuote non se
ne sarebbero piú fatte, cioè conveniva persuadere o
che la corte non avrebbe avuto piú bisogno o che, avendo
bisogno, non avrebbe adoperato l'espediente di far nuove carte. Lo
stato delle cose avrebbe fatto temere il bisogno, la condotta della
corte faceva dubitar della sua fede. Come fidarsi di una corte, la
quale, avendo giá incominciata la vendita de' beni
ecclesiastici, invece di lacerar due milioni e mezzo di carte
ritratte dalla vendita, li rimise di nuovo in circolazione?
Cosí questa porzione di debito pubblico venne a duplicarsi,
poiché rimasero a peso della nazione le carte e si
alienò l'equivalente de' fondi.
Non manca taluno, il quale ha creduto la vendita de' beni
ecclesiastici essere stata effetto, non giá di cura che si
avesse di riempire il vuoto de' banchi, ma bensí di timore
che essi servissero di pretesto e di stimolo ad una rivoluzione.
Quanto meno vi sará da guadagnare, dicevasi, tanto minore
sará il numero di coloro che desiderano una rivoluzione.
L'uomo che si dice autor di questo consiglio conosceva egli la
rivoluzione, gli uomini, la sua patria?
X
Continuazione. - COMMERCIO
Il disordine de' banchi, quindici anni prima, forse o non vi sarebbe
stato o sarebbe stato piú tollerabile, perché la
nazione avea allora un erario sufficiente a riempire il vuoto che
ne' banchi si faceva, o almeno a mantenervi sempre tanto danaro
quanto era necessario per la circolazione. È una
veritá riconosciuta da tutti, che ne' pubblici depositi
può mancare una porzione del contante senza che perciò
la carta perda il suo credito; ma conviene che la circolazione sia
in piena attivitá e che, mentre una parte della nazione
restituisce le sue carte, un'altra depositi nuovi effetti. Ora, in
Napoli da alcuni anni era cessata del tutto l'introduzione delle
nuove specie, poiché estinta era ogni industria nazionale, e
quei rapporti di commercio che soli ci eran rimasti colle altre
nazioni erano tutti passivi. I tremuoti del 1783 e, piú de'
tremuoti, l'economia distruttiva della corte avean desolate le
Calabrie; due delle piú fertili province eran divenute
deserte. Il disseccamento delle paludi Pontine e la coltura che Pio
sesto vi aveva introdotta ci avean tolto o almeno diminuito un ramo
utilissimo di esportazione de' nostri grani. Noi avevamo altre volte
un commercio lucrosissimo colla Francia, e quello che sulla Francia
guadagnavamo compensava ciò che perdevamo cogli inglesi,
cogli olandesi e coi tedeschi. La rivoluzione di Francia,
distruggendo le manifatture di Marsiglia e di Lione, fece decadere
il nostro commercio d'olio e di sete. Conveniva dare maggiore
attivitá alle nostre manifatture di seta ed istituir delle
fabbriche di sapone: esse sarebbero divenute quasi privative per
noi, ed avremmo ritratto almeno questo vantaggio dalla rivoluzione
francese(19). Ma quest'oggetto non importava ad Acton. Conveniva
serbare un'esatta neutralitá, la quale, ne' primi anni della
rivoluzione francese, avrebbe dato un immenso smercio de' nostri
grani. Ma Acton e la regina credevano poter far morire i francesi di
fame. Intanto i francesi destarono i ragusei ed i levantini, dai
quali ebbero il grano, e non morirono di fame: noi perdemmo allora
tutto il lucro che potevamo ragionevolmente sperare, ed oggi ci
troviamo di aver acquistati in questo ramo di commercio de'
concorrenti, tanto piú pericolosi in quanto che abitano un
suolo egualmente fertile e sono piú poveri di noi. Ci si
permise il solo commercio cogl'inglesi, poiché il commercio
di Olanda era anche nelle mani dell'Inghilterra, cioè ci si
permise quel solo commercio che ci si avrebbe dovuto vietare: anzi,
siccome l'opinione della corte era venduta agl'inglesi, cosí
l'opinione della nazione lo fu egualmente; e non mai le brillanti
bagatelle del Tamigi hanno avuta tanta voga sul Sebeto, non mai noi
siamo stati di tanto debitori agl'inglesi, quanto nel tempo appunto
in cui meno potevamo pagare. Questo disquilibrio di commercio ha
tolto in otto o nove anni alla nazione napolitana quasi dieci
milioni di suo danaro effettivo, oltre tanto, e forse anche
piú, che avrebbe dovuto e che avrebbe potuto guadagnare, se
il vero interesse della nazione si fosse preferito al capriccio di
chi la governava.
A tutti questi mali erasi aggiunto quello di una guerra immaginata e
condotta in modo che distruggeva il Regno, senza poterci far sperare
giammai né la vittoria né la pace. Si manteneva da
quattro anni un esercito di sessantamila uomini ozioso nelle
frontiere, ed il suo mantenimento costava quanto quello di qualunque
esercito attivo in campagna. Per conservar, come si dicea, la pace
del Regno, la quale si dovea fondar solo sulla buona fede del re, si
richiesero nuovi soccorsi al popolo; e si ottennero. Si richiese non
solo l'argento delle chiese, ma anche quello de' privati, dando loro
in prezzo delle carte che non avevano alcun valore; e si
ottenne(20). S'impose una decima su tutti i fondi del Regno, la
quale produceva quasi il quarto di tutti gli altri tributi che
giá si pagavano. Ma tutte queste risorse, che non furono
piccole, si dissiparono, si perdettero, passando per mani negligenti
o infedeli.
Si spogliarono le campagne di cavalli, di muli, di bovi, che parte
morirono per mancanza di cibo, parte si rivendettero da
quegl'istessi che ne avean fatta la requisizione.
Si tolsero nella prima leva le migliori braccia all'agricoltura,
allo Stato la piú utile gioventú, che, strappata dal
seno delle loro famiglie, fu condotta a morire in San Germano, Sessa
e Teano: l'aria pestilenziale di que' luoghi e la mancanza di tutte
le cose necessarie alla vita, in una sola estate, ne distrussero
piú di trentamila. Una disfatta non ne avrebbe fatto perdere
tanti.
Allora si vide quanto la nazione napolitana era ragionevole, amante
della sua patria, ma nel tempo istesso nemica di opressioni e
d'ingiustizie. Erano due anni da che si era ordinata una leva di
sedicimila uomini, ma questa leva, commessa ad agenti venali, non
era stata eseguita: la nazione vi aveva opposti tanti ostacoli, che
pochissime popolazioni appena aveano inviato il contingente delle
loro reclute. Gli abitanti delle province del regno di Napoli non
amavano di fare il soldato mercenario, servo de' capricci di un
generale tedesco, che non conosce altra ordinanza che il suo
bastone. La corte vide il male; la nuova leva fu commessa alle
municipalitá o sia alle stesse popolazioni, ed i nuovi
coscritti furon dichiarati «volontari», da dover servire
alla difesa della patria fino alla pace. Al nome di
«patria», al nome di «volontari», tutti
corsero, e si ebbe in pochissimi giorni quasi il doppio del numero
ordinato colla leva. Ma questi stessi, un anno dopo, disgustati dai
cattivi trattamenti della corte, e piú dalla sua mala fede,
per la maggior parte disertarono. Essi erano volontari da servir
fino alla pace; la pace si era conchiusa, ed essi chiesero il loro
congedo. Un governo savio l'avrebbe volentieri accordato, sicuro di
riaverli al nuovo bisogno; ma il governo di Napoli non conosceva il
potere della buona fede e della giustizia: anziché esserne
amato, credeva piú sicuro esser temuto dai suoi popoli, e ne
fu odiato. Tanti disertori, per evitare il rigore delle
persecuzioni, si dispersero per le campagne: il Regno fu pieno di
ladri e le frontiere rimasero prive di soldati.
I cortigiani diedero torto ai soldati, perché volevano adular
la corte(21); gli esteri diedero torto ai soldati, perché
volevano avvilir la nazione; e molti tra' nostri, che pure hanno
fama di pensatori, diedero torto ai soldati, perché non
conoscevano la nazione ed adulavano gli esteri. Questi piccoli
tratti caratterizzano le nazioni, gli uomini che le governano e
quelli che le giudicano.
XI
GUERRA
Tale era lo stato del Regno sul cadere dell'estate del 1798, quando
la vittoria di Nelson ne' mari di Alessandria(22), lo scarso numero
della truppa francese in Italia, le promesse venali di qualche
francese, la nuova alleanza colla Russia e, piú di tutto,
gl'intrighi del gabinetto inglese, fecero credere al re di Napoli
esser venuto il momento opportuno a ristabilire le cose d'Italia.
Da una parte, la repubblica romana, teatro delle prime operazioni
militari, piú che di uno Stato, presentava l'apparenza di un
deserto, i pochi uomini abitatori del quale, invece di opporsi
all'invasore, dovean ricevere chiunque loro portasse del pane.
Dall'altra, l'imperatore di Germania rivolgeva di nuovo pensieri di
guerra: né egli né il Direttorio volevan piú la
pace; e si osservava che, mentre i plenipotenziari delle due potenze
stavano inutilmente in Rastadt, i francesi occupavano la Svizzera ed
i russi marciavano verso il Reno.
Il re di Napoli, per completare il suo esercito, ordinò una
leva di quarantamila uomini, la quale fu eseguita in tutto il Regno
in un giorno solo. In tal modo sulle frontiere, al cader di ottobre,
trovaronsi riuniti circa settantamila uomini.
Mancava a queste truppe un generale, e, credendosi che non si
potesse trovare in Napoli, si chiese alla Germania. Mack giunse come
un genio tutelare del Regno.
Il piano della guerra era che il re di Napoli avrebbe fatto avanzar
le sue truppe nel tempo stesso che l'imperatore avrebbe aperta la
campagna dalla sua parte. Il duca di Toscana ed il re di Sardegna
doveano avere anch'essi parte nell'operazione, ed a tale oggetto
facevano delle leve segrete ne' loro Stati; e si erano inviati dalla
corte di Napoli settemila uomini sotto il comando del general
Naselli, il quale occupò Livorno ed a tempo opportuno doveva,
insieme colle truppe toscane, marciar sopra Bologna e riunirsi alla
grande armata. Si era creduto necessario, sotto apparenza di difesa,
occupare militarmente la Toscana, perché quel governo era,
tra tutti i governi italiani, il piú sinceramente alieno dai
pensieri di guerra; e questo avea reso il ministero toscano tanto
odioso al governo di Napoli, che poco mancò che non si
vedessero dei corpi di truppa spedirsi da Napoli in Livorno a solo
fine di obbligare il granduca a deporre Manfredini. In tal modo i
francesi, circondati ed attaccati in tutti i punti, dovevano
sloggiar dall'Italia.
Ma l'imperatore intanto non si movea, tra perché forse
opportuna non era ancora la stagione, tra perché aspettava i
russi che non erano giunti ancora. Il Consiglio di Vienna avea
risoluto di non aprir la campagna prima del mese di aprile. Non si
sa come, si ottennero lettere piú autorevoli delle
risoluzioni del Consiglio, le quali permettevano all'esercito
napolitano di muoversi prima; e queste lettere erano state chieste
ed ottenute con tanta segretezza, che il ministero istesso di Vienna
non le seppe se non nello stesso giorno nel quale seppe e la marcia
delle truppe e la disfatta. Amarissimi rimproveri ne ebbe chi allora
risedeva in Vienna per la corte di Napoli. Il ministro Thugut diceva
che questa corte avea tradita la causa di tutta l'Europa e che
meritava di esser abbandonata al suo destino. La protezione
dell'imperatore Paolo primo, presso il quale principal mediatrice fu
la granduchessa Elena Paolowna, allora arciduchessa palatina,
salvò la corte dagli effetti di questa minaccia.
L'ambasciatore napolitano si giustificò, mostrando ordini in
faccia ai quali quelli del Consiglio dovean tacere. Ma rimase e
rimarrá sempre incerto e disputabile perché mai,
contro gli stessi propri interessi, da Napoli si chiedevano e da
Vienna si davano ordini segreti, contrari al piano pubblicamente
risoluto, da tutti accettato, da tutti riconosciuto per piú
vantaggioso. Intendevasi, con ciò, ingannar l'inimico o se
stesso?
È probabile che la corte di Napoli ardesse di soverchia
impazienza di discacciar i francesi dall'Italia. È probabile
ancora che tanta impazienza non nascesse da solo odio, ma anche da
desiderio di trarre da una vittoria, la quale credevasi sicura, un
profitto, che forse l'Austria non avrebbe volentieri conceduto, ma,
trovandolo giá preso, lo avrebbe tollerato. Siccome nelle
leghe non si dá mai piú di quello che uno si prende,
cosí de' collegati ciascuno si affretta a prendere quanto
piú può e quanto piú presto è possibile;
la vicendevole gelosia genera la comune mala fede e, mentre ciascuno
pensa a sé, si obbliano gl'interessi di tutti. Ma, in tale
ipotesi, perché mai l'Austria acconsentí alla dimanda
di Napoli? Non è neanche inverosimile che Mack, sempre
fertile in progetti, credesse facile discacciar i francesi; e,
sicuro de' primi successi (e chi non l'avrebbe creduto, quando Mack
non si conosceva ancora?), amava piú d'invitare l'imperatore
a goderne i frutti che dividerne la gloria.
Sopra ogni altra congettura però è verosimile che la
corte di Napoli operasse spesso senza l'intelligenza dell'imperatore
di Germania, perché, mentre da una parte prestava il suo nome
alla lega che si era stretta nel Nord e della quale era il centro
principale in Vienna, dall'altra manteneva un suo ambasciatore in
Parigi, il quale, quando la pace fu giá rotta, potette
ottenere dal Direttorio ordini tali al generale in capo dell'armata
d'Italia, che gl'impedivano d'invadere il regno di Napoli e
limitavano le sue operazioni militari a respingere solamente
l'aggressione. Il corriere che portava tali ordini fu, non si sa
bene per quale accidente, assassinato nel Piemonte. Ora, ordini di
tale natura, quando anche s'ignorino le trattative precedenti,
è certo che non si possono ottenere senza supporre o che il
Direttorio ignorasse interamente i disegni ed i movimenti del
gabinetto di Napoli, il che è incredibile, o che avesse
risoluto d'abbandonar l'Italia, talché la corte di Napoli,
piú che sugli aiuti degli alleati, fondasse le speranze de'
suoi vantaggi sull'abbandono del governo francese, e volesse
perciò procurarseli da sé sola, onde non esser
costretta a dividerli cogli altri. È certo che la guerra con
Napoli fu fatta contro gli ordini del Direttorio; che Championnet
non ebbe altri che lo autorizzasse a farla se non il generale in
capo Joubert, e che in faccia al Direttorio dovette scusarsi colla
ragione di quella necessitá, che spesso spinge un generale
oltre i limiti delle istruzioni superiori; e fu assoluto,
perché facilmente si giustifica ogni audacia che abbia
ottenuto prospero successo.
Ma tutte queste cose agitavansi nel segreto del gabinetto, né
a tutti i ministri del re erano confidate. Miserabile condizione di
tempi, ne' quali la sorte de' popoli dipende piú dall'intrigo
che dal valor vero, e vedesi un governo, il quale poteva tutto
ragionevolmente sperare dalle forze proprie e
dall'opportunitá delle circostanze, avvilirsi a cercar la
vittoria dai capricci e dalle promesse degli uomini, meno stabili
della stessa fortuna! Se la corte di Napoli, consultando le proprie
forze e la propria ragione, anziché la guerra, l'avesse
guerreggiata, ne avrebbe ottenuti successi o piú felici o
meno disastrosi. Difatti il maggior numero de' consiglieri del re,
sia che ignorassero le segrete ragioni sulle quali si fondavano
tutte le speranze del buon successo, sia che non vi mettessero molta
fede, rimasero fermi nel parere della pace. Ma Acton ebbe cura di
allontanarli. Quando si decise la guerra, non intervennero molti
degli antichi consiglieri. Il marchese De Marco, il generale
Pignatelli, il marchese del Gallo eran per la pace. Per la pace
furono il maresciallo Parisi ed il general Colli, chiamati in
Consiglio, sebbene non consiglieri. Ma la regina, Mack, Acton,
Castelcicala formarono la pluralitá e strascinarono l'animo
del re.
- Che vi pare di questa guerra giá risoluta? - domandò
molti giorni dipoi la regina ad Ariola, che era ministro di guerra e
che intanto non ne sapeva ancor nulla. Ariola, che avrebbe voluto
tacere, spronato a parlare, le disse che da tal guerra vi era
piú da temere che da sperare.
- Il re potrebbe - disse Ariola - sostener con vantaggio una guerra
difensiva, ma tutto gli manca per l'offensiva. Egli non combatte ad
armi eguali. I francesi, pochi di numero, son tutti soldati avvezzi
alla guerra ed alla fatica; l'esercito nostro è per
metá composto di reclute strappate appena da un mese dal seno
delle loro famiglie, ed il loro numero maggiore non servirá
che ad imbarazzare i buoni veterani che son tra loro, ed a rendere
piú sensibile la mancanza in cui siamo di buoni officiali, il
numero de' quali non abbiam potuto raddoppiare in un momento, come
abbiam raddoppiato quello della truppa. Perché non si aspetta
che queste truppe si disciplinino? Perché non si aspetta che
l'imperatore si muova il primo? Tanta fretta si ha dunque di
vincere, che non si ha cura neanche di render sicura la vittoria?
Tanto certo è della vittoria Mack, che si avvia senza neanche
pensare alla possibilitá di un rovescio? Si apre una guerra
nelle frontiere, è necessario che uno de' due Stati
immediatamente sia invaso; ed intanto niuna cura egli si ha preso
della difesa dell'interno del Regno, che tutto è aperto, ed,
al primo rovescio che noi avremo, il nemico sará nel cuore
de' nostri Stati. A noi non sará molto facile, soli e senza
il soccorso dell'imperatore, discacciar l'inimico dall'Italia, e,
finché ciò non si ottenga, nulla si potrá dir
fatto. Molte vittorie bisognano a noi: una sola basta all'inimico.
Quanto piú l'inimico si avanzerá, tanto piú
facile troverá la strada alla vittoria; ma quando piú
ci avanzeremo noi, tanto maggiori e piú numerosi ostacoli
incontraremo: la sorte dell'inimico si decide in un momento; la
nostra, sebbene prospera, avrá bisogno di molto tempo.
Intanto Mack, quasi potesse terminar la guerra in pochi giorni, si
avvia verso un paese desolato, ove è penuria di tutto, senza
aver prima pensato a provvedersi, ed in una stagione in cui
difficili sono i trasporti ed i generi non abbondanti. Egli si avvia
a conquistare il territorio altrui e forse a perdere il proprio. -
Quale fu l'effetto di questo discorso? Mack ed Acton se ne offesero,
Acton minacciò Ariola, Ariola se ne dolse col re e, mentre il
re gli dava ragione, Acton in sua presenza gli tolse il portafoglio.
Pochi giorni dipoi, l'esperimento confermò la veracitá
de' suoi pronostici. Il re, fuggito da Roma, giunse a Caserta: si
ricorda di Ariola e lo invoca come l'unico suo liberatore. Ariola
parte pel campo onde concertare con Mack i mezzi di difendere il
Regno da un'invasione. Trova lo stato maggiore in Terracina, ma Mack
non vi era, né alcuno sapeva indicare ove mai si trovasse.
Intanto vede ritornar l'esercito tutto disperso. Crede necessario
tornare in Caserta e non perder tempo. Poche ore dopo la di lui
partenza, Mack arriva. Scrive al re che il ministro della guerra era
un vile, il quale avea abbandonato il suo posto. Ed Ariola è
arrestato. Né è improbabile che a questa disgrazia di
Ariola abbia prestata la sua mano anche Acton, se è vero
ciò che taluni dicono, che, accusato egli di aver mal diretti
alcuni preparativi militari, abbia voluto farne creder colpevole
Ariola ed abbia afferrata potentemente l'occasione di poter far
sequestrare le di lui carte, onde non si venisse mai in chiaro del
vero autore. Credeva egli con un delitto di cortigiano conservar la
fama di generale?
XII
Continuazione.
La guerra fu risoluta. Si pubblica un proclama, col quale il re di
Napoli, con equivoche parole, dichiara che egli voleva conservar
l'amicizia che aveva colla repubblica francese, ma che si credeva
oltraggiato per l'occupazione di Malta, isola che apparteneva al
regno di Sicilia, e non poteva soffrire che fossero invase le terre
del papa, che amava come suo antico alleato e rispettava come capo
della Chiesa; che avrebbe fatto marciare il suo esercito per
restituire il territorio romano al legittimo sovrano (si lascia in
dubbio se questo sovrano fosse o no il papa); ed invita qualunque
forza armata a ritirarsi dal territorio romano, perché, in
altro caso, se le sarebbe dichiarata la guerra. Simile proclama non
si era veduto in nessun secolo della diplomazia, a meno che i romani
non ne avessero formato uno, allorché ordinarono agli altri
greci di non molestar gli acarnanii, perché tra i popoli
della Grecia erano stati i soli che non avevano inviate truppe
all'assedio di Troia.
Questo proclama fu pubblicato a' 21 novembre. A' 22 tutto l'esercito
partí e, diviso in sette colonne, per sette punti diversi
entrò nel territorio romano. Le colonne che mossero da San
Germano e da Gaeta si avanzarono rapidissimamente. Né la
stagione dirottamente piovosa, né i fiumi che s'incontrarono
pel cammino, né la difficoltá de' trasporti di
artiglieria e viveri in cammini impraticabili per profondissimo
fango, fecero arrestar gli ordini di Mack. Egli non faceva che
correre: si lasciava indietro l'artiglieria, cominciavano a mancare
i viveri, il soldato era privo di tutto, avea bisogno di riposo; e
Mack correva. Le colonne di Micheroux e di Sanfilippo erano state
giá battute negli Apruzzi. La voce pubblica di questo
rovescio incolpò i generali; ma è certo che
posteriormente la condotta di Micheroux è stata esaminata da
un Consiglio di guerra ed è stata trovata irreprensibile. Di
Sanfilippo non sappiamo nulla. Ma la voce pubblica in questi casi
non merita mai intera fede, perché il popolo giudica per
l'ordinario dall'esito e spesso dá piú lode e
piú biasimo di quello che taluno merita. Mack, il quale non
avea pensato mai a stabilire una ferma comunicazione tra i diversi
corpi del suo esercito ed un concerto tra le varie loro operazioni,
non seppe se non tardi un avvenimento il quale dovea cangiar tutto
il suo piano, ed intanto continuava a correre. Giunse a' 27 di
novembre in Roma. S'impiegarono cinque giorni in un cammino che ne
avrebbe richiesto quindici. Non si concessero che cinque ore di
riposo sotto le armi alla truppa, e fu costretta di nuovo a correre
a Civita Castellana. Per la strada i viveri mancarono del tutto: i
provvisionieri dell'esercito chiedevano invano a Mack ove dovessero
inviarli; gli ordini del generale erano tanto rapidi, che, mentre si
eseguiva il primo, si era giá dato il secondo, il terzo, il
quarto, il quinto; i viveri si perdevano inutili per le strade, ed i
soldati e i cavalli intanto morivano di fame. Quando giunsero a
Civita Castellana, i nostri da tre giorni non avean veduto pane.
Essi erano nell'assoluta impossibilitá di poter reggere a
fronte di un nemico fresco, che conosceva il luogo e che distrusse
il nostro esercito, raggirandolo qua e lá per siti ove il
maggior numero era inutile.
Mack non seppe ispirar coraggio ad una truppa nuova, esercitandola
con piccole scaramucce contro i piccoli corpi nemici che
incontrò da Terracina a Roma e che, messi per insensato
consiglio in libertá, produssero due mali gravissimi: il
primo de' quali fu quello di non avvezzare le truppe sue alla
vittoria quando questa era facile e sicura; il secondo, di accrescer
il numero de' nemici nel momento delle grandi e pericolose azioni.
Non seppe Mack far battere due colonne nello stesso tempo: furon
tutte disfatte in dettaglio. Mack ignorava i luoghi dove si trovava
e, sull'orlo del precipizio, credeva e faceva credere al re che le
cose andavano prospere. Per la resistenza che i francesi avean fatta
all'esercito del re delle Due Sicilie, costui dichiarò loro
la guerra a' 7 dicembre, cioè quando la guerra per le
disfatte ricevute era giá terminata, e dovea pensarsi alla
pace. Dopo due altri giorni, tutto l'esercito fu in rotta, e Mack
non trovò altra risorsa che correre indietro, come prima avea
corso in avanti. In meno di un mese, Ferdinando partí, corse,
arrivò, conquistò il regno altrui, perdette uno de'
suoi e, poco sicuro dell'altro, fu quasi sul punto di fuggire fino
al terzo suo regno di Gerusalemme per ritrovare un asilo.
Io non sono un uomo di guerra: gli altri leggeranno la storia di
tali avvenimenti nelle Memorie di Bonamy ed in quelle del nostro
Pignatelli, che vide i fatti e che era capace di giudicarne. Mack ha
pubblicato anch'egli la sua Memoria. Egli calunnia la nazione e
l'esercito. Ma l'esercito, alla testa del quale fu battuto, non era
quello stesso esercito col quale, mentre taluno lo consigliava a
procedere piú adagio, egli avea detto di voler conquistare
l'Italia in quindici giorni?(23).
Quest'uomo, che un momento prima sfidava tutte le potenze della
terra, al primo rovescio perdette tutto il suo genio. Sebbene
battuto, pure conservava tuttavia forze infinitamente superiori; e,
se non poteva vincere, poteva almeno resistere: cogli avanzi del suo
esercito poteva fermarsi a Velletri oppure al Garigliano, ove potea
per lungo tempo contendere il passo: potea salvar Gaeta e salvare il
Regno. Ma egli, che nella sua fortuna non avea fatto altro che
correre, nella disgrazia non seppe far altro che fuggire; né
si fermò se non giunse a Capua, dove pensava difendersi e
dove non si trattenne che un momento.
Capua si poteva facilmente difendere e di lá forse si potea
con migliori auspíci ritentar di nuovo la sorte delle armi.
Ad un proclama che si pubblicò per la leva in massa, tutto il
Regno fu sulle armi. Gli apruzzesi si opposero alla divisione di
Rusca e, se non riuscirono ad impedirgli il passo, fecero
però sí che gli costasse molto caro. Tra le montagne
impraticabili della provincia dell'Aquila non si pervenne mai ad
estinguere l'insorgenza, e la stessa capitale della provincia non fu
che per pochi giorni in poter de' francesi, ridotti a doversi
difendere entro il castello. L'altra divisione, che venne per
Terracina e Gaeta, si avanzò fino a Capua, ma non potette
impedire l'insorgenza, che era scoppiata ad Itri e Castelforte; e
gl'insorgenti, che cedettero per poco le pianure, si rifuggirono
nelle loro montagne, donde tornarono poco dopo ad infestare la coda
dell'esercito francese, che vide rotta ogni comunicazione coll'alta
Italia. Un corpo di truppe difendeva con valore e con felice
successo il passo di Caiazzo. Capua avea quasi dodicimila uomini di
guarnigione. Tutti gli abitanti delle contrade di Nola e di Caserta
eransi levati in massa, ed eravi ancora un corpo di truppe intatto
comandato da Gams.
Io dirò cosa che ai posteri sembrerá inverosimile, ma
che intanto mi è stata giurata da quasi tutt'i capuani. Se
Capua non fu presa per sorpresa non fu merito di Mack, ma di un
semplice tamburo o cannoniere che fosse stato, il quale di proprio
movimento die' fuoco ad un cannone de' posti avanzati verso San
Giuseppe e fece sí che i francesi si arrestassero. Mack
certamente non avea data alcuna disposizione di difesa.
Io lo ripeto: non sono uomo di guerra, né imprendo ad
esaminar ad una ad una le operazioni e gli accidenti della campagna.
Ma io credo che gli accidenti debbano mettersi a calcolo e che la
somma finale dell'esito dipenda meno dagli accidenti che dal piano
generale. Mack peccò naturalmente nell'estender troppo la
linea delle sue operazioni, talché il minimo urto
dell'inimico gliela ruppe. Ebbe piú cura dell'inimico che gli
stava a fronte che di quello che gli stava sui fianchi, mentre forse
questo era sempre piú terribile di quello; quindi è
che egli si avanzò sempre rapidissimamente, e questa stessa
rapiditá, che alcuni chiaman vittoria, fu la cagione
principale delle sue inopinate irreparabili disfatte. Battuto in un
punto, Mack fu battuto in tutta la linea, perché tutta la
linea gli fu rotta. Quando Mack preparava un piano tanto vasto per
combattere un inimico debolissimo, molti dissero che Mack era un
gran generale, perché molti sono quelli che misurano la
grandezza di una mente dalla grandezza delle forze che move: io
dissi che era poco savio, perché la saviezza consiste nel
produrre il massimo effetto col minimo delle forze. Mack è un
generale da brillare in un gabinetto, perché in un gabinetto
appunto, e prima dell'azione, predomina nelle menti del maggior
numero l'errore di confonder la grandezza della macchina colla
grandezza dell'artefice. Non manca Mack di quelle cognizioni
teoretiche della scienza militare che impongono tanto facilmente al
maggior numero. È sicuro di ottenere in suo favore la
pluralitá de' voti un generale il quale vi parli sempre di
matematica, geografia, storia, che vi rammenta i nomi antichi di
tutt'i sciti, vi enumera tutte le grandi battaglie che gli hanno
illustrati ed, a confermar ogni evoluzione che gli vien fatta
d'immaginare, vi adduce l'esempio di Eugenio, di Montecuccoli, di
Cesare, di Annibale e di Scipione. Il buon senso per altro pare che
ci dovrebbe indurre a diffidare dei piani di campagna troppo
eruditi: essi per necessitá son troppo noti anche
all'inimico, ed in conseguenza inutili. Tutto il vero segreto della
guerra, dice Macchiavelli, consiste in due cose: fare tutto
ciò che l'inimico non può sospettar che tu faccia,
lasciargli fare tutto ciò che tu hai previsto che egli voglia
fare: col primo precetto renderai inutile ogni sua difesa, col
secondo ogni offesa. Questi capitani soverchiamente sistematici
hanno anche un altro difetto, ed è quello di dar un nesso,
una concatenazione troppo stretta alle loro idee: si mandano il loro
piano a memoria e, se avviene che una volta la fortuna della guerra
lo tocchi, rassomigliano i fanciulli che han perduto il filo della
loro lezione e son costretti ad arrestarsi. Vuoi conoscere a segni
infallibili uno di questi capitani? Soffre pochissimo la
contraddizione ed i consigli altrui: il criterio della veritá
è per lui, non giá la concordanza tra le sue idee e le
cose, ma bensí tra le sue idee medesime. Prima dell'azione
sono audacissimi, timidissimi dopo l'azione: audacissimi,
perché non pensano che le cose possan esser diverse dalle
idee loro; timidissimi, perché, non avendo prevista questa
diversitá, non vi si trovan preparati. Affettano ne' loro
discorsi estrema esattezza; ma questa è inesattissima,
perché trascurano tutte le differenze che esistono nella
natura. Numerano gli uomini e non li valutano: piú che
nell'uomo confidan nell'esercito, piú che nella virtú
dell'animo confidano in quella del corpo e piú che nel valore
confidan nella tattica. Questi duci piú potenti in parole che
in opere prevalgon sempre, per disgrazia delle nazioni, o quando gli
ordini militari di uno Stato sono tali che tutta l'esecuzione di una
guerra dipenda da un'assemblea e da un Consiglio, o quando coloro
che reggono la somma delle cose non sono esenti da ogni spirito di
partito; e questo non è certamente il minore de' mali che lo
spirito di partito e gli ordini mal congegnati soglion produrre.
XIII
FUGA DEL RE
I governi son simili agli uomini: tutte le passioni sono utili al
saggio e forman la rovina dello stolto. Il timore che la corte di
Napoli ebbe de' francesi, invece d'ispirarle una prudente cautela,
fu cagione di rovinosa viltá. A forza di temerli, li rese
piú terribili di quello che erano.
Una persona di corte mi diceva, pochi giorni prima di dichiararsi la
guerra, esser prudente consiglio non far sapere al soldato che egli
andava a battersi contro i francesi e, con tale idea, l'essersi
imaginato quel gergo equivoco col quale fu scritto il proclama e col
quale si ottenne di tener celato fino al momento dell'attacco il
vero oggetto della spedizione. - Ebbene! - dissero i soldati quando
lo seppero - ci si era detto che noi non avevamo guerra coi
francesi! - Questa non è stata una delle ultime cagioni per
cui in Napoli hanno mostrato piú coraggio le leve in massa
che le truppe regolari, ed il coraggio, invece di scemar colle
disfatte, è andato crescendo. E sarebbe cresciuto anche
dippiú, se il generale non fosse stato Mack. Vi è
della differenza tra l'avvezzare un popolo a disprezzare il nemico
ed il fargli credere che non ne abbia: il primo produce il coraggio,
il secondo la spensieratezza, cui nel pericolo succede lo
sbalordimento. Cesare i suoi soldati, spaventati talora dalla fama
delle forze nemiche, non confortava col diminuirla, ma
coll'accrescerla. Una volta che si temeva vicino l'arrivo di Iuba,
ragunati a concione i soldati: - Sappiate - loro disse - che tra
pochi giorni sará qui il re con dieci legioni, trentamila
cavalli, centomila armati alla leggiera e trecento elefanti. Cessate
quindi di piú vaneggiare per saper quali sieno le sue forze.
- Cesare accrebbe il pericolo reale, che, sebben grande, ha
però un limite, per toglier quello della fantasia, che non ha
limite alcuno. Cosí voglion esser governati tutt'i popoli.
Lo stesso timore, che la corte ebbe ne' primi rovesci, le
ispirò il consiglio di una leva in massa. Si pubblicò
un proclama, col quale s'invitarono i popoli ad armarsi e difendere
contro gl'invasori i loro beni, le loro famiglie, la religione de'
padri loro: fu la prima volta che fu udito rammentare ai nostri
popoli ch'essi erano sanniti, campani, lucani e greci. Fu commesso
ai preti di risvegliare tali sentimenti in nome di Dio. Queste
operazioni non mancano mai di produrre grandi effetti. Il fermento
maggiore fu in Napoli, dove un popolaccio immenso, senza verun
mestiere e verun'educazione, non vive che a spese de' disordini del
governo e de' pregiudizi della religione.
Ma questo istesso fermento, che doveva e che potea conservare il
Regno, divenne, per colpa di Acton e per timore della corte, la
cagione principale della sua rovina. Il popolo corse in folla al
palazzo reale ad offerirsi per la difesa del Regno. Un re, che
avesse avuto mente e cuore, non aveva a far altro che montare a
cavallo e profittare del momento di entusiasmo: egli sarebbe andato
a sicura vittoria. Acton lo ritenne. Il popolo voleva vederlo. Egli
non si volle mostrare, ed in sua vece fece uscire il generale
Pignatelli ed il conte dell'Acerra. Tra le tante parole che in tale
occasione ciascuno può immaginare essersi dette, uno del
popolo disse: i mali del Regno esser nati tutti dagli esteri che
erano venuti a far da ministri; prima godersi profonda pace e
generale abbondanza, da quindeci anni in qua tutto esser cangiato;
gli esteri esser tutti traditori: quindi, o per un sentimento di
patriottismo, di cui il popolo napolitano non è privo, o per
ispirito di adulazione verso due cavalieri popolari, soggiunse: -
Perché il re non fa primo ministro il general Pignatelli e
ministro di guerra il conte dell'Acerra? - Queste parole, raccolte
da' satelliti di Acton e riferite a lui, mossero il di lui animo
sospettoso ad accelerare la partenza. Da che mai dipende la salute
di un regno!
Fu facile trarre a questo partito la regina. A trarvi anche il re,
si fece crescere l'insurrezione del popolo. Gli agenti di Acton lo
spinsero la mattina seguente ad arrestare Alessandro Ferreri,
corriere di gabinetto, il quale portava un plico a Nelson:
moltissimi hanno ragioni di credere che costui fosse una vittima
giá da lungo tempo designata, perché conscio del
segreto delle lettere di Vienna alterate in occasione della guerra.
Io non oso affermar nulla. Sia caso, sia effetto della politica del
ministro o della vendetta di qualche suo inimico privato, fu
arrestato sul molo nel punto in cui s'imbarcava per passare sul
legno di Nelson, fu ucciso, ed il cadavere sanguinoso fu strascinato
fin sotto il palazzo reale e mostrato al re in mezzo alle grida di
«Morano i traditori!», «Viva la santa
fede!», «Viva il re!». Il re era alla finestra;
vide l'imponente forza del popolo e, diffidando di poterla reggere,
incominciò a temerla. Allora la partenza fu risoluta.
Furono imbarcati sui legni inglesi e portoghesi i mobili piú
preziosi de' palazzi di Caserta e di Napoli e le raritá
piú pregevoli de' musei di Portici e Capodimonte, le gioie
della corona e venti milioni e forse piú di moneta e metalli
preziosi non ancora coniati, spoglio di una nazione che rimaneva
nella miseria. La corte di Napoli avea tanti tesori inutili, ed
intanto avea ruinata la nazione con un disordine generale
nell'amministrazione, con un vuoto nelle finanze e ne' banchi; avea
ruinata la nazione, mentre potea accrescer la sua potenza,
rendendola piú felice: la corte di Napoli dunque avea sempre
pensato piú a fuggire che a restare! S'imbarcò di
notte, come se fuggisse il nemico giá alle porte; e la
mattina seguente (21 dicembre) si lesse per Napoli un avviso, col
quale si faceva sapere al popolo napolitano che il re andava per
poco in Sicilia per ritornare con potentissimi soccorsi, ed intanto
lasciava il general Pignatelli suo vicario generale fino al suo
ritorno.
Il popolo mostrò quella tacita costernazione, la quale vien
meno dal timore che dalla sorpresa di un avvenimento non previsto.
Ne' primi giorni che il re per tempo contrario si trattenne in rada,
tutti corsero a vederlo ed a pregarlo perché si restasse; ma
gl'inglesi, i quali giá lo consideravano come lor
prigioniere, allontanavano tutti come vili e traditori. Il re non
volle o non gli fu mai permesso di mostrarsi. Questi duri e non
meritati disprezzi, la memoria delle cose passate, la perdita di
tante ricchezze nazionali, i mali presenti, passati e futuri diedero
luogo alla riflessione e scemarono la pietá. Il popolo lo
vide partire a' 23 dicembre senza dispiacere e senza gioia.
XIV
ANARCHIA DI NAPOLI ED ENTRATA DE' FRANCESI
Nella storia dell'Italia, gli avvenimenti della fine del secolo
decimottavo somiglian quelli della fine del secolo decimoquinto. In
ambedue le epoche gli stessi avvenimenti furon prodotti dalle stesse
cagioni e seguíti dai medesimi effetti. In amendue le epoche
il Regno fu perduto per opera di picciolissime forze inimiche: nel
decimoquinto secolo, i partiti che dividevano il Regno vi attirarono
la guerra; nel decimottavo, la guerra e la disfatta vi suscitarono i
partiti: in quello, il re avea tentato tutt'i mezzi per evitar la
guerra; in questo, tutti li avea messi in opera per suscitarla: lo
scoraggiamento, dopo la disfatta, eguale e nel re aragonese e nel
borbonico; ma prima della guerra questi ha dimostrato coraggio
maggiore di quello. In ambedue le epoche però il Regno fu
perduto quando il fatto posteriore ha dimostrato che era facile il
conservarlo, poiché è impossibile credere che non si
avesse potuto facilmente conservare quel Regno, che, anche dopo la
perdita fattane, si è potuto tanto facilmente ricuperare. In
ambedue le epoche ha preceduta la perdita del Regno una vicendevole
e funesta diffidenza tra il re ed i popoli, non irragionevole
nell'epoca degli Aragonesi, priva però di ogni ragione ne'
tempi nostri. Ferdinando di Aragona avea trattati crudelmente i
baroni, i quali avean tramata una congiura e guerreggiata una guerra
civile; Vanni avea punita una congiura che ancora non si era tramata
ed il pensiero di una ribellione che non si poteva eseguire. In
amendue le epoche alla difesa del Regno è mancata l'energia
piuttosto ne' consigli del re che nelle azioni de' popoli.
Finalmente in ambedue le epoche il Regno è stato abbandonato
dai vincitori, perché costretti a ritirar le loro forze
nell'Italia superiore.
Io vorrei che, ogni qual volta succede un simile avvenimento, si
rileggesse la seguente, non saprei dir se dottrina o profezia di
Macchiavelli: «Credevano - dice egli - i nostri principi
italiani, prima che essi assaggiassero i colpi delle oltramontane
guerre, che ai principi bastasse sapere negli scritti pensare una
cauta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne' detti e
nelle parole arguzia e prontezza, saper tessere una fraude, ornarsi
di gemme e di oro, dormire e mangiare con maggior splendore che gli
altri, tenere assai lascivie intorno, governarsi coi sudditi
avaramente, superbamente, marcirsi nell'ozio, dare i gradi della
milizia per grazia, disprezzare se alcuno avesse dimostrato loro
alcuna lodevole via, volere che le parole loro fossero responsi di
oracoli; né si accorgevano i meschini che si preparavano ad
esser preda di qualunque gli assaltava. Di qui nacquero nel 1494 i
grandi spaventi, le subite fughe e le miracolose perdite; e
cosí tre potentissimi Stati, che erano in Italia, sono stati
piú volte saccheggiati e guasti». Non è
meraviglia che gli stessi errori abbiano avuti nel 1798 gli stessi
effetti e che un potentissimo regno sia rovinato nel tempo stesso,
in cui, con ordini piú savi, tale era lo stato politico di
Europa, dovea ingrandirsi. «La meraviglia è - continua
Macchiavelli - che quelli che restano» anzi quegli stessi che
han sofferto il male, «stanno nello stesso errore, e vivono
nello stesso disordine».
La Cittá(24) avea assunto il governo municipale di Napoli:
erasi formata una milizia nazionale per mantenere il buon ordine. Il
popolo ne' primi giorni riconosceva l'autoritá della
Cittá; tutto in apparenza era tranquillo: ma il fuoco ardeva
sotto le ceneri fallaci. Pignatelli avrebbe dovuto avvedersi che il
pericoloso onore, a cui era stato destinato, era forse l'ultimo
tratto del suo rivale Acton per perderlo. Egli avrebbe potuto
vendicarsi del suo rivale, render al suo re uno di quei servigi
segnalati e straordinari, per i quali un uomo acquista quasi il nome
ed i diritti di fondator di una dinastia, renderne un altro
egualmente grande alla patria; avrebbe potuto o vincere la guerra o
finirla, risparmiando l'anarchia e tutti i mali dell'anarchia: le
circostanze nelle quali trovavasi erano straordinarie, ma egli non
seppe concepire che pensieri ordinari.
Si disse che la regina, partendo, gli avesse lasciate istruzioni
segrete di sollevare il popolo, di consegnargli le armi, di produrre
l'anarchia, di far incendiare Napoli, di non farvi rimanere anima
vivente «da notaro in sopra»... Sia che queste voci
fossero vere, sia che fossero state immaginate, quasi inevitabili
conseguenze dell'insurrezione che la regina, partendo, organizzava,
è certo però che queste voci furono da tutti ripetute,
da tutti credute; e, nell'osservare le vicende di una rivoluzione,
meritano eguale attenzione le voci vere e le false, perché,
essendo, a differenza de' tempi tranquilli, l'opinione del popolo
grandissima cagione di tutti gli avvenimenti, diviene egualmente
importante e ciò che è vero e ciò che si crede
tale.
Pochi giorni dopo si videro i primi funesti effetti degli ordini
della regina nell'incendio de' vascelli e delle barche cannoniere,
che non eransi potute, per la troppo precipitevole fuga, trasportare
in Sicilia. Poche ore bastarono a consumare ciò che tanti
anni e tanti tesori costavano alla nostra nazione. Il conte Thurn da
un legno portoghese dirigea e mirava tranquillamente l'incendio; ed
allo splendore ferale di quelle fiamme parve che il popolo
napolitano vedesse al tempo stesso e tutti gli errori del governo e
tutte le miserie del suo destino.
Il popolo non amava piú il re, non volea neanche udirlo
nominare; ma, ripiena la mente delle impressioni di tanti anni,
amava ancora la sua religione, amava la patria e odiava i francesi.
Da queste sue disposizioni si avrebbe potuto trarre un utile
partito. Insursero delle gare tra la Cittá ed il vicario
generale. Questi volea usurparsi dritti che non avea, quasi che
allora non fosse stato piú utile ed anche piú glorioso
cedere tutti quelli che avea: quella si ricordava che tra' suoi
privilegi eravi anche quello di non dover mai esser governata dai
viceré. La Cittá allora spiegò molta energia.
Perché dunque allora non surse la repubblica? Il popolo
avrebbe senza dubbio seguíto il partito della Cittá.
Ma, tra coloro che la reggevano, alcuni pendevano per una
oligarchia, la quale non avrebbe potuto sostenersi a fronte delle
province, dove l'odio contro i baroni era la caratteristica comune
di tutte le popolazioni; e, nello stato in cui trovavansi gli animi
e le cose, volendo stabilirsi un'oligarchia, sarebbe stato
necessario rinunciare alla feudalitá. Altri non osavano; e vi
fu anche chi propose di doversi offrire il Regno ad un figlio di
Spagna, quasi che questo progetto fosse allora, non dico lodevole,
ma eseguibile. Ne' momenti di grandissima trepidazione, quando
discordi sono le idee e molti i partiti, difficile è sempre
ritrovar la via di mezzo e, piú che altrove, era
difficilissimo in Napoli, dove il maggior numero credeva i francesi
indispensabili a fondare repubbliche.
Intanto Capua si difendeva ed il popolo applaudiva alla sua difesa.
Si era anche lusingato di maggiori vantaggi, poiché facile
è sempre il popolo a sperare e non mai manca chi fomenti le
sue speranze. Ai 12 però di gennaio lesse affisso per Napoli
l'armistizio conchiuso tra il generale francese ed il vicario
Pignatelli, per lo quale i francesi venivano ad acquistare tutto
quel tratto del Regno che giace a settentrione di una linea tirata
da Gaeta per Capua fino all'imboccatura dell'Ofanto; ed inoltre, per
ottener due mesi di armistizio, il vicario si obbligava pagar tra
pochi giorni la somma di due milioni e mezzo di franchi.
Non mai vicario alcuno di un re conchiuse un simile armistizio. La
gloria gli consigliava a contrastare sulle mura di Capua il passo ai
francesi ed a morirvi; la prudenza gli consigliava a cedere tutto e
salvar la sua patria da nuove inutili sciagure. Che poteva sperarsi
da un breve armistizio di due mesi? Non vi era neanche ragione di
poter sperare un trattato. Il funesto consiglio per cui il re erasi
messo in mano degl'inglesi, lo metteva nella dura necessitá
di perdere o il Regno di Napoli o quello di Sicilia. Avea il re
commesso lo stesso errore pel quale erasi perduto l'ultimo dei re
della dinastia aragonese, quello cioè di mettersi in braccio
di uno de' due che si disputavano il di lui Regno; quell'errore dal
quale il savio Guicciardini ripete l'ultima rovina di quella
famiglia, poiché per esso le fu impedito di profittar delle
occasioni che ne' tempi posteriori la fortuna le offrí a
ricuperare il trono. Perché dunque il vicario volle frappor
del tempo tra la cessione ed il possesso, e lasciar libero lo sfogo
all'odio che il popolaccio avea contro i francesi, quando questi
erano abbastanza vicini per destarlo e non ancora tanto da poterlo
frenare? Volea la guerra civile, l'anarchia? Tali erano gli ordini
della regina?
Il popolo si credette tradito dal vicario, dalla Cittá, dai
generali, dai soldati, da tutti. La venuta de' commissari francesi,
spediti ad esigere le somme promesse, accrebbe i suoi sospetti ed il
suo furore. Il giorno seguente, corse ai castelli a prender le armi;
i castelli furono aperti, la truppa non si oppose, perché non
avea ordine di opporsi. Il vicario fuggí come era fuggito il
re; il popolaccio corse a Caivano(25) per deporre Mack, il quale,
sebbene alla testa delle truppe, non seppe far altro che
fuggire(26). Ogni vincolo sociale fu rotto. Orde forsennate di
popolaccio armato scorrevano minaccianti tutte le strade della
cittá, gridando «Viva la santa fede!»,
«Viva il popolo napolitano!». Si scelsero per loro capi
Moliterni e Roccaromana, giovani cavalieri che allora erano gl'idoli
del popolo, perché avean mostrato del valore a Capua ed a
Caiazzo contro i francesi. Riuscirono costoro a frenar per poco i
trascorsi popolari, ma la calma non durò che due giorni. I
francesi erano giá quasi alle porte di Napoli.
S'inviò al loro quartier generale una deputazione composta
da' principali demagoghi, perché rinunciassero al pensiero di
entrare in Napoli, offerendo loro e quello che era stato promesso
coi patti dell'armistizio e qualche somma di piú. La risposta
de' francesi fu negativa, qual si dovea prevedere, ma non qual dovea
essere: qualche nostro emigrato, mentre moltissimi convenivano della
ragionevolezza della dimanda, aggiunse alla negativa le minacce e
l'insulto; e ciò finí d'inferocire il popolo.
Non mancavano agenti della corte che lo spingevano a nuovi furori,
non mancava quello spirito di rapina che caratterizza tutt'i popoli
della terra, non mancavano preti e monaci fanatici, i quali,
benedicendo le armi di un popolo superstizioso in nome del Dio degli
eserciti, accrescevano colla speranza l'audacia e coll'audacia il
furore. La Cittá, che sino a quel giorno avea tenute delle
sessioni, piú non ne tenne. Il popolo si credette abbandonato
da tutti, e fece tutto da sé. La cittá intera non
offrí che un vasto spettacolo di saccheggi, d'incendi, di
lutto, di orrori e di replicate immagini di morte. Tra le vittime
del furore popolare meritano di non essere obbliati il duca della
Torre e Clemente Filomarino, suo fratello, rispettabili per i loro
talenti e le loro virtú e vittime miserabili della perfidia
di un domestico scellerato.
Alcuni repubblicani, ed allora erano repubblicani in Napoli tutti
coloro che avevan beni e costume, impedirono mali maggiori,
rimescolandosi col popolo e fingendo gli stessi sentimenti per
dirigerlo. Altri, colla cooperazione di Moliterni e di Roccaromana,
s'introdussero nel forte Sant'Elmo, sotto vari pretesti e finti
nomi, e riuscirono a discacciarne i lazzaroni che ne erano i
padroni. Championnet avea desiderato che, prima ch'ei si movesse
verso Napoli, fosse stato sicuro di questo castello, che domina
tutta la cittá. Molti altri corsero ad unirsi coi francesi e
ritornarono combattendo colle loro colonne.
Tutt'i buoni desideravano l'arrivo de' francesi. Essi erano
giá alle porte. Ma il popolo, ostinato a difendersi, sebbene
male armato e senza capo alcuno, mostrò tanto coraggio, che
si fece conoscer degno di una causa migliore. In una cittá
aperta trattenne per due giorni l'entrata del nemico vincitore, ne
contrastò a palmo a palmo il terreno: quando poi si accorse
che Sant'Elmo non era piú suo, quando si avvide che da tutt'i
punti di Napoli i repubblicani facevan fuoco alle sue spalle, vinto
anziché scoraggito, si ritirò, meno avvilito dai
vincitori che indispettito contro coloro ch'esso credeva traditori.
XV
PERCHÉ NAPOLI DOPO LA FUGA DEL RE NON SI ORGANIZZÒ A
REPUBBLICA?
Il re era partito, il popolo non lo desiderava piú. Egli avea
spinto fino al furore l'amor d'indipendenza nazionale, che altri
credeva attaccamento all'antica schiavitú. Quando il popolo
napolitano spedí la deputazione a Championnet, non volle dir
altro che questo: - La repubblica francese avea guerra col re di
Napoli, ed ecco che il re è partito; la nazione francese non
avea guerra colla nazione napolitana, ed intanto perché mai i
soldati francesi voglion vincere coloro che offrono volontari la
loro amicizia? - Questo linguaggio era saggio, ed i napolitani,
senza saperne il nome, erano meno di quel che si crede lontani dalla
repubblica.
Ma, siccome in ogni operazione umana vi si richiede la forza e
l'idea, cosí per produrre una rivoluzione è necessario
il numero e sono necessari i conduttori, i quali presentino al
popolo quelle idee, che egli talora travede quasi per istinto, che
molte volte segue con entusiasmo, ma che di rado sa da se stesso
formarsi. Piú facili sono le rivoluzioni in un popolo che da
poco abbia perduta una forma di governo, perché allora le
idee del popolo son tratte facilmente dall'abolito governo, di cui
tuttavia fresca conserva la memoria. Perciò «ogni
rivoluzione - al dir di Macchiavelli - lascia l'addentellato per
un'altra». Quanto piú lunga è stata
l'oppressione da cui si risorge, quanto maggiore è la
diversitá tra la forma del governo distrutto e quella che si
vuole stabilire, tanto piú incerte, piú instabili sono
le idee del popolo, e tanto piú difficile è ridurlo
all'uniformitá, onde avere e concerto ed effetto nelle sue
operazioni. Questa è la ragione per cui e piú
sollecito e piú felice fine hanno avuto le rivoluzioni di
quei popoli, ne' quali o vi era ancor fresca memoria di governo
migliore, o i rivoluzionari attaccati si sono ad alcuni dritti (come
la Gran carta, che è stata la bussola di tutte le rivoluzioni
inglesi) o a talune magistrature e taluni usi (come fecero gli
olandesi), che essi aveano conservati quasi a fronte del dispotismo
usurpatore.
Le idee della rivoluzione di Napoli avrebbero potuto esser popolari,
ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della nazione. Tratte
da una costituzione straniera, erano lontanissime dalla nostra;
fondate sopra massime troppo astratte, erano lontanissime da' sensi,
e, quel ch'è piú, si aggiungevano ad esse, come leggi,
tutti gli usi, tutt'i capricci e talora tutt'i difetti di un altro
popolo, lontanissimi dai nostri difetti, da' nostri capricci, dagli
usi nostri. Le contrarietá ed i dispareri si moltiplicavano
in ragione del numero delle cose superflue, che non doveano entrar
nel piano dell'operazione, e che intanto vi entrarono.
Quanto maggiore è questa varietá, tanto maggiore
è la difficoltá di riunire il popolo e tanto maggior
forza ci vuole per vincerla. Se le idee fossero uniformi, potrebbero
tutti agire senza concerto, perché tutti agirebbero
concordemente alle loro idee; ma, quando sono difformi, è
necessario che agisca uno solo. Di rado avviene che una rivoluzione
si possa condurre a fine se non da una persona sola: la stessa
libertá non si può fondare che per mezzo del
dispotismo. Il popolo ondeggia lungo tempo in partiti: diresti quasi
che la nazione vada a distruggersi, ne vedi giá scorrere il
sangue; finché una persona si eleva, acquista dell'ascendente
sul popolo, fissa le idee, ne riunisce le forze: col tempo, o costui
forma la felicitá della patria o, se vuole opprimerla, talora
ne rimane oppresso. Ma egli ha giá indicata la strada, ed
allora il popolo può agire da sé.
Quest'uomo non si trova se non dopo replicati infelici esperimenti,
dopo lungo ondeggiar di vicende, quando i suoi fatti medesimi lo
abbiano svelato: le guerre civili mettono ciascuno nel posto che gli
conviene. Se taluno si voglia far conoscere e seguire dal popolo ne'
primi moti di una rivoluzione, a meno che la rivoluzione sia
religiosa, non basta che abbia egli gran mente e gran cuore: convien
che abbia gran nome; e questo nome ben spesso si ha per tutt'altro
che pel merito.
Il modo piú certo e piú efficace per guadagnar la
pubblica opinione è una regolaritá di giurisdizione,
che taluno ancora conservi nel passar dagli ordini antichi ai nuovi.
La Cittá era nelle circostanze di poter farsi seguire da
tutto il popolo; dopo la Cittá, poteva Moliterni: ma
né Moliterni ebbe idea di far nulla, né la
Cittá, ondeggiando tra tante idee, quasi tutte chimeriche,
seppe determinarsi a quelle che il tempo richiedeva.
Parve che in Napoli niuno si fosse preparato a questo avvenimento;
e, quando si videro in mezzo al vortice, tutti si abbandonarono in
balía delle onde. Non è molto onorevole a dirsi per lo
genere umano, ma pure è vero: quasi tutte le nazioni, nelle
loro crisi politiche, allora sono giunte piú facilmente al
loro termine quando si è trovato tra loro un uomo
profondamente ambizioso, il quale, prevedendo da lontano gli
avvenimenti, vi si sia preparato e, riunendo tutte le forze a
proprio vantaggio, abbia prodotto poi il vantaggio della nazione:
poiché, o è stato saggio e virtuoso, ed ha fondata la
sua grandezza sulla felicitá della patria; o è stato
uno stolto, uno scellerato, ed è caduto vittima de' suoi
progetti. Ma allora, lo ripeto, egli avea giá insegnata la
strada.
In Napoli Pignatelli, viceré, non ebbe neanche il pensiero di
far nulla; la Cittá non seppe risolversi; Moliterni non
ardí; niun altro si mostrò; tra' repubblicani molti,
che menavan piú rumore, erano piú francesi(27) che
repubblicani, ed ai veri repubblicani allora una folla infinita si
era rimescolata di mercatanti di rivoluzione, che desideravano per
calcolo un cangiamento. Era giá passato il primo momento:
troppo innanzi era trascorso il popolo; gli stessi saggi disperavano
di poterlo piú frenare, gli stessi buoni desideravano una
forza esterna che lo contenesse.
Forse i francesi istessi eran giá troppo vicini.
Quell'operazione che avrebbe potuto riuscire a' 25 di dicembre,
allorché la Cittá la fece da re, facendo aprir di suo
ordine le cacce del sovrano giá partito, difficilmente potea
eseguirsi allorché i francesi erano a Capua. Per quanto
disinteressata fosse stata la Cittá nelle sue operazioni e
lontana dalle sue idee di oligarchia, volendo però formar la
felicitá della nazione, non potea né dovea
allontanarsi dalle idee nazionali; e troppo queste idee sarebbero
state lontane dall'idee di molti altri. Ora i piú leggeri
dispareri si conciliano con difficoltá, quando vi sia una
forza esterna pronta a sostenere un partito. I partiti non cedono se
non per diseguaglianza di forza o per vicendevole stanchezza di
combattere: molte offese si tollerano e, tollerando, molti mali si
evitano, sol perché non possiamo sul momento farne vendetta;
e la concordia tra gli uomini è meno effetto di saviezza che
di necessitá. Le potenze estere, pronte in tutt'i tempi a
prender parte, prima nelle gare tra fazione e fazione di una
medesima cittá, indi nelle dispute tra uno Stato e l'altro,
hanno distrutta prima la libertá e poscia l'indipendenza
dell'Italia. Niuna nazione piú della napolitana ne ha provati
gl'infelici effetti. Tra le tante potenze estere che vantavano un
titolo su quel regno, ogni gara che sorgeva tra' cittadini, vi era
un estero che vi prendeva parte: talora gli esteri stessi
fomentavano le gare; i cittadini, per essere piú forti,
univano i loro disegni a quelli dell'estero, simili al cavallo che,
per vendicarsi del cervo, si donò ad un padrone; e
cosí quel regno è stato per cinque secoli (quanti se
ne contano dall'estinzione della dinastia de' Normanni fino allo
stabilimento di quella dei Borboni) l'infelice teatro d'infinite
guerre civili, senza che una di esse abbia potuto giammai produrre
un bene alla patria.
Io forse non faccio che pascermi di dolci illusioni. Ma, se mai la
repubblica si fosse fondata da noi medesimi; se la costituzione,
diretta dalle idee eterne della giustizia, si fosse fondata sui
bisogni e sugli usi del popolo; se un'autoritá, che il popolo
credeva legittima e nazionale, invece di parlargli un astruso
linguaggio che esso non intendeva, gli avesse procurato de' beni
reali e liberato lo avesse da que' mali che soffriva; forse allora
il popolo, non allarmato all'aspetto di novitá contro delle
quali avea inteso dir tanto male, vedendo difese le sue idee ed i
suoi costumi, senza soffrire il disagio della guerra e delle
dilapidazioni che seco porta la guerra; forse... chi sa?... noi non
piangeremmo ora sui miseri avanzi di una patria desolata degna di
una sorte migliore.
XVI
STATO DELLA NAZIONE NAPOLITANA
L'armata francese entrò in Napoli a' 22 di gennaio. La prima
cura di Championnet fu quella d'«istallare» un governo
provvisorio, il quale, nel tempo stesso che provvedeva ai bisogni
momentanei della nazione, doveva preparar la costituzione permanente
dello Stato. Una cura tanto importante fu affidata a venticinque
persone, le quali, divise in sei «comitati», si
occupavano de' dettagli dell'amministrazione ed esercitavano quello
che chiamasi «potere esecutivo»; riunite insieme,
formavano l'assemblea legislativa.
I sei comitati erano: 1° centrale, 2° dell'interno, 3°
di guerra, 4° di finanza, 5° di giustizia e di polizia,
6° di legislazione. Le persone elette al governo furono:
Abamonti, Albanese, Baffi, Bassal francese, Bisceglia, Bruno,
Cestari, Ciaia, De Gennaro, De Filippis, De Rensis, Doria, Falcigni,
Fasulo, Forges, Laubert, Logoteta, Manthoné, Pagano,
Paribelli, Pignatelli-Vaglio, Porta, Riari, Rotondo.
Ma l'immaginare un progetto di costituzione repubblicana non
è lo stesso che fondare una repubblica. In un governo in cui
la volontá pubblica, o sia la legge, non ha e non dee avere
altro sostegno, altro garante, altro esecutore che la volontá
privata, non si stabilisce la libertá se non formando uomini
liberi. Prima d'innalzare sul territorio napolitano l'edificio della
libertá, vi erano, nelle antiche costituzioni,
negl'invecchiati costumi e pregiudizi, negl'interessi attuali degli
abitanti, mille ostacoli, che conveniva conoscere, che era
necessario rimuovere. Ferdinando guardava bieco la nostra nascente
libertá e da Palermo moveva tutte le macchine per
riacquistare il regno perduto. Egli avea de' potenti alleati, i
quali erano per noi nemici terribili, specialmente gl'inglesi,
padroni del mare ed, in conseguenza, del commercio di Sicilia e di
Puglia, senza di cui una capitale immensa, qual è Napoli, non
potea che difficilmente sussistere.
Dall'epoca de' romani in qua, la sorte dell'Italia meridionale
dipende in gran parte da quella della Sicilia. I romani ridussero
l'Italia a giardino, il quale ben presto si cangiò in
deserto. Dopo le grandi conquiste de' romani, s'incominciò ad
udire per la prima volta che la Sicilia era il granaio dell'Italia;
detto quanto glorioso per la prima tanto ingiurioso per la seconda.
Non si sarebbe ciò detto prima del quinto secolo di Roma,
quando l'Italia bastava sola ad alimentare trenta milioni di uomini
industriosi e guerrieri, di costumi semplici e magnanimi. Ne' secoli
di mezzo, chiunque fu padrone della Sicilia turbò a suo
talento l'Italia. Dalla Sicilia Belisario distrusse il regno de'
goti; dalla Sicilia i saraceni la infestarono per tre secoli,
finché i normanni la riunirono di nuovo al regno di Napoli,
al quale rimase unita fino all'epoca di Carlo primo d'Angiò.
E chi potrebbe negare che quella separazione non abbia influito a
ritardare nel regno di Napoli il progresso di quella civiltá,
la quale, prima che in ogni regione d'Italia, vi avevan destata il
gran Federico di Svevia e la sventurata sua progenie? I due regni
furon riuniti sotto la lunga dominazione della casa Austriaca di
Spagna. In que' tempi appunto Napoli incominciò ad
ingrandirsi, ed è divenuta una capitale immensa, la quale per
sussistere ha bisogno del formento e piú dell'olio delle
province lontane che bagna l'Adriatico, ed il commercio delle quali
non si può comodamente esercitare, né la capitale
potrebbe comodamente sussistere, senza il libero passaggio per lo
stretto di Messina. E si aggiunga che di quello stretto il vero
padrone è colui che possiede la Sicilia, poiché egli
vi tiene in Messina ampio e comodo porto, mentre dalla parte delle
Calabrie non vi sono che picciole e mal sicure rade.
Avea il re nel Regno stesso non pochi partigiani, i quali amavano
l'antico governo in preferenza del nuovo; ed in qual rivoluzione non
si trovano tali uomini? Vi erano molte popolazioni in aperta
controrivoluzione, perché non ancora avean deposte quelle
armi che avean prese, invitate e spinte da' proclami del re; altre
pronte a prendere, tostoché, rinvenute una volta dallo
stupore che loro ispirava una conquista sí rapida ed accorte
della debolezza della forza francese, avessero ritrovato un
intrigante per capo ed un'ingiustizia, anche apparente, del nuovo
governo per pretesto di una sollevazione.
Il numero di coloro che eran decisi per la rivoluzione, a fronte
della massa intera della popolazione, era molto scarso; e, tosto che
l'affare si fosse commesso alla decisione delle armi, era per essi
inevitabile soccombere. Eccone un esempio nella provincia di Lecce,
dove la sollevazione fu prodotta da un accidente che, per la sua
singolaritá, merita d'esser ricordato.
Trovavansi in Taranto sette emigrati còrsi, che si erano
colá portati a causa di procurarsi un imbarco per la Sicilia.
I continui venti di scirocco, che impediscono colá l'uscita
dal porto, impedirono la partenza de' còrsi, i quali loro
malgrado furono presenti allorché fu in Taranto proclamata la
repubblica. E, dubitando di poter essere arrestati e cader nelle
mani dei francesi, sen partirono la notte degli 8 febbraio 1799 e si
diressero per Brindisi, sperando di trovar un imbarco per
Corfú o per Trieste. Dopo varie miglia di viaggio a piedi, si
fermarono ad un villaggio chiamato Monteasi: qui furono alloggiati
da una vecchia donna, alla quale, per esser ben serviti, dissero che
vi era tra essi loro il principe ereditario. Ciò bastò
perché la donna uscisse e corresse da un suo parente chiamato
Bonafede Girunda, capo contadino del villaggio. Costui si
recò immediatamente dai còrsi, si inginocchiò
al piú giovane e gli protestò tutti gli atti di
riverenza e di vassallaggio. I còrsi rimasero sorpresi, e,
dubitando di maggiori guai, appena partito il Girunda,
senz'aspettare il giorno, se ne scapparono immediatamente. Avvertito
il Girunda dalla vecchia istessa della partenza del supposto
principe ereditario, montò tosto a cavallo per raggiungerlo;
ma tenne una strada diversa. E, non avendolo incontrato, domandando
a tutti se visto avessero il principe ereditario col suo
séguito, sparse una voce, che tosto si diffuse, e
bastò per far mettere in armi tutti i paesi per dove
passò e per far correre le popolazioni ad incontrarlo. Il
supposto principe fu raggiunto a Mesagne e fu obbligato dalle
circostanze del momento a sostener la parte comica incominciata; ma,
non credendosi sicuro in Mesagne, si ritirò sollecitamente in
Brindisi. Qui, rinchiusosi nel forte, cominciò a spedire
degli ordini. Uno dei dispacci conteneva che, dovendo egli partire
per la Sicilia a raggiungere il suo augusto genitore, lasciava suoi
vicari nel Regno due suoi generali in capo, che il popolo dipoi
credé due altri principi del sangue. Questi due impostori,
uno cognominato Boccheciampe e l'altro De Cesare, si misero tosto
alla testa degl'insurretti. Il primo restò nella provincia di
Lecce ed il secondo si diresse per quella di Bari, conducendo seco
il Girunda, che dichiarò generale di divisione.
Con questa truppa, che fu fatta composta di birri, degli uomini
d'armi dei baroni, dei galeotti e carcerati fuggiti dalle case di
forza e dai tribunali, e di tutti i facinorosi delle due province,
riuscí loro facile l'impadronirsi di tutti i paesi che
proclamata avevano la repubblica e di sottomettere con un assedio
Martina ed Acquaviva, le quali cittá giurato avevano
piuttosto morire che riconoscer gl'impostori. Audaci per i buoni
successi avuti, tentarono di provarsi coi francesi, i quali erano
giá padroni di una buona porzione della provincia di Bari;
ma, incontratisi con un piccolo distaccamento francese nel bosco di
Casamassima, furono essi intieramente disfatti e sen fuggirono, il
Boccheciampe in Brindisi ed il De Cesare in Francavilla. Il primo
però cadde nelle mani dei francesi; ma il secondo, piú
astuto, se ne scappò, dopo la nuova della prigionia del suo
compagno, in Torre di mare, l'antico Metaponto, e andiede ad unirsi
al cardinal Ruffo nelle vicinanze di Matera.
La nostra rivoluzione essendo una rivoluzione passiva, l'unico mezzo
di condurla a buon fine era quello di guadagnare l'opinione del
popolo. Ma le vedute de' patrioti(28) e quelle del popolo non erano
le stesse: essi aveano diverse idee, diversi costumi e finanche due
lingue diverse. Quella stessa ammirazione per gli stranieri, che
avea ritardata la nostra coltura ne' tempi del re, quell'istessa
formò, nel principio della nostra repubblica, il piú
grande ostacolo allo stabilimento della libertá. La nazione
napolitana si potea considerare come divisa in due popoli, diversi
per due secoli di tempo e per due gradi di clima. Siccome la parte
colta si era formata sopra modelli stranieri, cosí la sua
coltura era diversa da quella di cui abbisognava la nazione intera,
e che potea sperarsi solamente dallo sviluppo delle nostre
facoltá. Alcuni erano divenuti francesi, altri inglesi; e
coloro che erano rimasti napolitani e che componevano il massimo
numero, erano ancora incolti. Cosí la coltura di pochi non
avea giovato alla nazione intera; e questa, a vicenda, quasi
disprezzava una coltura che non l'era utile e che non intendeva(29).
Le disgrazie de' popoli sono spesso le piú evidenti
dimostrazioni delle piú utili veritá. Non si
può mai giovare alla patria se non si ama, e non si
può mai amare la patria se non si stima la nazione. Non
può mai esser libero quel popolo in cui la parte che per la
superioritá della sua ragione è destinata dalla natura
a governarlo, sia coll'autoritá sia cogli esempi, ha venduta
la sua opinione ad una nazione straniera: tutta la nazione ha
perduta allora la metá della sua indipendenza. Il maggior
numero rimane senza massime da seguire, gli ambiziosi ne profittano,
la rivoluzione degenera in guerra civile, ed allora tanto gli
ambiziosi che cedono sempre con guadagno, quanto i savi che scelgono
sempre i minori tra' mali, e gl'indifferenti i quali non calcolano
che sul bisogno del momento, si riuniscono a ricever la legge da una
potenza esterna, la quale non manca mai di profittare di simili
torbidi o per se stessa o per ristabilire il re discacciato.
Quell'amore di patria, che nasce dalla pubblica educazione e che
genera l'orgoglio nazionale è quello che solo ha fatto
reggere la Francia, ad onta di tutt'i mali che per la sua
rivoluzione ha sofferti, ad onta di tutta l'Europa collegata contro
di lei: mille francesi si avrebbero di nuovo eletto un re, ma non vi
è nessuno che lo abbia voluto ricevere dalla mano de'
tedeschi o degl'inglesi. Niuno piú di Pitt dagli esempi
domestici ne avrebbe dovuto esser convinto, se mai la vendetta dei
diritti borbonici fosse stata la cagione e non giá il
pretesto della lega, che una tal guerra, col pretesto di rimettere
un re, era inutile.
La nazione napolitana, lungi dall'avere questa unitá
nazionale, si potea considerar come divisa in tante diverse nazioni.
La natura pare che abbia voluto riunire in una picciola estensione
di terreno tutte le varietá: diverso è in ogni
provincia il cielo, diverso è il suolo; le avanie del fisco,
che ha sempre seguite tali varietá per ritrovar ragioni di
nuove imposizioni ovunque ritrovasse nuovi benefíci della
natura, ed il sistema feudale, che ne' secoli scorsi, tra l'anarchia
e la barbarie, era sempre diverso secondo i diversi luoghi e le
diverse circostanze, rendevano da per tutto diverse le
proprietá ed, in conseguenza, diversi i costumi degli uomini,
che seguon sempre la proprietá ed i mezzi di sussistenza.
Conveniva, tra tante contrarietá, ritrovare un interesse
comune, che chiamare e riunir potesse tutti gli uomini alla
rivoluzione. Quando la nazione si fosse una volta riunita, invano
tutte le potenze della terra si sarebbero collegate contro di noi.
Se lo stato della nostra nazione presentava grandi ostacoli,
offriva, dall'altra parte, grandi risorse per menare avanti la
nostra rivoluzone.
Si avea una popolazione, la quale, sebbene non avrebbe mai fatta la
rivoluzione da sé, era però docile a riceverla da
un'altra mano. I partiti decisi erano ambedue scarsi: la massima
parte della nazione era indifferente. Che altro vuol dir questo se
non che essa non era mossa da verun partito, non era animata da
veruna passione? Giudice imparziale e perciò giusto de' due
pretendenti, avrebbe seguíto quello che maggiori vantaggi le
avesse offerto. Un tal popolo s'illude difficilmente, ma facilmente
si governa.
Esso non ancora comprendeva i suoi diritti, ma sentiva però
il suo bene. Credeva un sacrilegio attentare al suo sovrano, ma
credeva che un altro sovrano potesse farlo, usando di quello stesso
diritto pel quale agli Austriaci eran succeduti i Borboni; e, quando
questo nuovo sovrano gli avesse restituiti i suoi diritti, esso ne
avrebbe ben accettato il dono.
Le insorgenze ardevano solamente in pochi luoghi, i quali,
perché erano stati il teatro della guerra, erano ancora
animati dai proclami del re, dalla guerra istessa, che, a forza di
farci finger odio, ci porta finalmente alla necessitá di
odiare da vero, e dalla condotta di taluni officiali francesi, i
quali, armati e vincitori, non sempre si ricordavano del giusto. La
gran massa della nazione intese tranquillamente la rivoluzione e
stette al suo luogo: le insorgenze non iscoppiarono che molto tempo
dopo.
Vi furono anche molte popolazioni, le quali spinsero tanto avanti
l'entusiasmo della libertá, che prevennero l'arrivo de'
francesi nella capitale e si sostennero colle sole loro forze contro
tutte le armi mosse dal re, anche dopo che la capitale si era resa.
Tutte queste forze riunite insieme avrebbero potuto formare una
forza imponente, se si avesse saputo trarne profitto.
La popolazione immensa della capitale era piú istupidita che
attiva. Essa guardava ancora con ammirazione un cangiamento, che
quasi avea creduto impossibile. In generale, dir si poteva che il
popolo della capitale era piú lontano dalla rivoluzione di
quello delle province, perché meno oppresso da' tributi e
piú vezzeggiato da una corte che lo temeva. Il dispotismo si
fonda per lo piú sulla feccia del popolo, che, senza cura
veruna né di bene né di male, si vende a colui che
meglio soddisfa il suo ventre. Rare volte un governo cade che non
sia pianto dai pessimi; ma deve esser cura del nuovo di far
sí che non sia desiderato anche dai buoni. Ma forse il
soverchio timore, che si concepí di quella popolazione, fece
sí che si prendesse troppo cura di lei e si trascurassero le
province, dalle quali solamente si doveva temere, e dalle quali si
ebbe infatti la controrivoluzione.
XVII
IDEE DE' PATRIOTI
Quali dunque esser doveano le operazioni da farsi per spingere
avanti la rivoluzione del regno di Napoli?
Il primo passo era quello di far sí che tutti i patrioti
fossero convenuti nelle loro idee, o almeno che per essi vi fosse
convenuto il governo.
Tra i nostri patrioti (ci si permetta un'espressione che conviene a
tutte le rivoluzioni e che non offende i buoni) moltissimi aveano la
repubblica sulle labbra, moltissimi l'aveano nella testa, pochissimi
nel cuore. Per molti la rivoluzione era un affare di moda, ed erano
repubblicani sol perché lo erano i francesi; alcuni lo erano
per vaghezza di spirito; altri per irreligione, quasi che per
esentarsi dalla superstizione vi bisognasse un brevetto di governo;
taluno confondeva la libertá colla licenza, e credeva
acquistar colla rivoluzione il diritto d'insultare impunemente i
pubblici costumi; per molti finalmente la rivoluzione era un affare
di calcolo. Ciascuno era mosso da quel disordine che piú lo
aveva colpito nell'antico governo. Non intendo con ciò
offendere la mia nazione: questo è un carattere di tutte le
rivoluzioni; ma, al contrario, qual altra può, al pari della
nostra, presentare un numero maggiore o anche eguale di persone che
solo amavano l'ordine e la patria?
Si prendeva però, come suol avvenire, per oggetto principale
della riforma ciò che non era che un accessorio, ed
all'accessorio si sagrificava il principale. Seguendo le idee de'
patrioti, non si sapeva né donde incominciare né dove
arrestarsi.
Che cosa è mai una rivoluzione in un popolo? Tu vedrai mille
teste, delle quali ciascuna ha pensieri, interessi, disegni diversi
delle altre. Se a costoro si presenta un capo che li voglia riunire,
la riunione non seguirá giammai. Ma, se avviene che tutti
abbiano un interesse comune, allora seguirá la rivoluzione ed
andrá avanti solo per quell'oggetto che è comune a
tutti. Gli altri oggetti rimarranno forse trascurati? No; ma
ciascuno adatterá il suo interesse privato al pubblico, la
volontá particolare seguirá la generale, le riforme
degli accessorii si faranno insensibilmente dal tempo, e tutto
camminerá in ordine.
Non vi è governo il quale non abbia un disordine che produce
moltissimi malcontenti; ma non vi è governo il quale non
offra a molti molti beni e non abbia molti partigiani. Quando colui
che dirige una rivoluzione vuol tutto riformare, cioè vuol
tutto distruggere, allora ne avviene che quelli istessi, i quali
braman la rivoluzione per una ragione, l'aborrono per un'altra:
passato il primo momento dell'entusiasmo ed ottenuto l'oggetto
principale, il quale, perché comune a tutti, è sempre
per necessitá con piú veemenza desiderato e prima
degli altri conseguito, incomincia a sentirsi il dolore di tutti gli
altri sacrifici che la rivoluzione esige. Ciascuno dice prima a se
stesso e poi anche agli altri: - Ma per ora potrebbe bastare... Il
di piú, che si vuol fare, è inutile..., è
dannoso. - Comincia ad ascoltarsi l'interesse privato; ciascuno
vorrebbe ottener ciò che desidera al minor prezzo che sia
possibile; e, siccome le sensazioni del dolore sono in noi
piú forti di quelle del piacere, ciascuno valuta piú
quello che ha perduto che quello che ha guadagnato. Le
volontá individuali si cangiano, incominciano a discordar tra
loro; in un governo, in cui la volontá generale non deve o
non può avere altro garante ed altro esecutore che la
volontá individuale, le leggi rimangono senza forza, in
contraddizione coi pubblici costumi, i poteri caderanno nel
languore; il languore o menerá all'anarchia, o, per evitar
l'anarchia, sará necessitá affidare l'esecuzione delle
leggi ad una forza estranea, che non è piú quella del
popolo libero; e voi non avrete piú repubblica.
Ecco tutto il segreto delle rivoluzioni: conoscere ciò che
tutto il popolo vuole, e farlo; egli allora vi seguirá:
distinguere ciò che vuole il popolo da ciò che
vorreste voi, ed arrestarvi tosto che il popolo piú non
vuole; egli allora vi abbandonerebbe. Bruto, allorché
discacciò i Tarquini da Roma, pensò a provvedere il
popolo di un re sagrificatore: conobbe che i romani, stanchi di
avere un re sul trono, lo credevano però ancor necessario
nell'altare.
La mania di voler tutto riformare porta seco la controrivoluzione:
il popolo allora non si rivolta contro la legge, perché non
attacca la volontá generale, ma la volontá
individuale. Sapete allora perché si segue un usurpatore?
Perché rallenta il rigore delle leggi; perché non si
occupa che di pochi oggetti, che li sottopone alla volontá
sua, la quale prende il luogo ed il nome di «volontá
generale», e lascia tutti gli altri alla volontá
individuale del popolo. «Idque apud imperitos 'humanitas'
vocabatur, cum pars servitutis esset». Strano carattere di
tutti i popoli della terra! Il desiderio di dar loro soverchia
libertá risveglia in essi l'amore della libertá contro
gli stessi loro liberatori.
XVIII
RIVOLUZIONE FRANCESE
Io credeva di far delle riflessioni sulla rivoluzione di Napoli, e
scriveva intanto la storia della rivoluzione di tutt'i popoli della
terra, e specialmente della rivoluzione francese. Le false idee che
i nostri aveano concepite di questa non han poco contribuito ai
nostri mali.
Hanno voluto imitare tutto ciò che vi era in essa: vi era
molto di bene e molto di male, di cui i francesi stessi si sarebbero
un giorno avveduti; ma non hanno i nostri voluto aspettare i giudizi
del tempo, né han saputo indovinarli. Si è creduto che
la rivoluzione francese fosse l'opera della filosofia, mentre la
filosofia aveva fatto poco men che guastarla. Ne giudicavano sullo
stato attuale, senza ricordarsi qual era stata e senza preveder
quale sarebbe un giorno divenuta.
La rivoluzione francese aveva un'origine quasi legale, che mancava
alla nostra. Il suo primo scopo fu quello di rimediare ai mali della
nazione, sui quali eran concordi egualmente il popolo ed il re; ed
il popolo riconobbe la legittima autoritá degli Stati
generali e poscia delle assemblee, non altrimenti che venerava
quella del re, per di cui comando, o almeno col di cui
consentimento, tanto gli Stati generali quanto le assemblee erano
state convocate.
Quello stesso stato politico della Francia, che faceva preveder ai
saggi da tanto tempo inevitabile una rivoluzione, produsse la
disunione degli Stati generali; si formò l'Assemblea
nazionale, ed il re fu dalla parte dell'Assemblea. Che vi sia stato
solo in apparenza e costretto dal timore, ciò importa poco:
fin qui non vi è ancora rivoluzione.
Essa incominciò allorché il re si separò
dall'Assemblea: allora incominciò la guerra civile, ed il
partito dell'Assemblea seppe guadagnare il popolo coll'idea della
giustizia.
E fin qui il popolo francese fece sempre operazioni al livello,
diciamo cosí, delle sue idee. I Stati generali gli sembravano
giusti, tra perché la Francia conservava ancor fresca la
memoria di altri Stati generali, tra perché erano convocati
dall'autoritá del re, che egli credeva legittima. Il re
stesso autorizzò l'Assemblea nazionale; il re
contrattò con la medesima, allorché divenne re
costituzionale; quando fu condannato, lo fu pel pretesto di aver
mancato al proprio patto, a cui il popolo intero era stato
spettatore. E quale era questo patto? Quello con cui avea egli
stesso riconosciuta la sovranitá della nazione ed aveva
giurata la sua felicitá. Il popolo, seguendo il partito
dell'Assemblea, credette seguire il partito della giustizia e del
suo interesse. Quando io paragono la rivoluzione inglese del 1649
alla francese del 1789, le trovo piú simili che non si pensa:
s'incomincia la riforma in nome del re; il re è arrestato,
è giudicato, è condannato quasi dal re istesso; il
popolo passa per gradi dalle antiche idee alle nuove, e sempre le
nuove sono appoggiate alle antiche.
Le operazioni de' popoli van soggette ad un metodo, non altrimenti
che le idee degli uomini. Se invertite, se turbate l'ordine e la
serie delle medesime, se volete esporre nell'Ottantanove le idee del
Novantadue, il popolo non le comprenderá; ed invece di veder
rovesciato un trono, vedrete esiliato un mezzo sapiente o venale
declamatore. Al pari che l'uomo lo è nelle idee, un popolo
è nelle sue operazioni servo delle forme esterne onde son
rivestite; l'esattezza esterna di un sillogismo ne fa bever, senza
avvedersene, un errore; l'esterna solennitá delle formole
sostiene un'operazione manifestamente ingiusta. Incominciate per
inavvertenza o per malizia da un leggerissimo errore: quanto
piú vi inoltrerete, tanto piú vi discosterete da
quella retta nella quale sta il vero; e vi inoltrerete tanto, che
talora conoscerete l'errore, ma ignorerete la strada di ritornare
indietro. Allora pochi ambiziosi dichiareranno giustizia e pubblica
necessitá quello che non è se non capriccio ed
ambizione loro; ed il delitto si consumerá non perché
il popolo lo approvi, ma perché ignora le vie di poterlo
legittimamente impedire. Quando l'errore vien da un metodo fallace,
il ricredersene è piú difficile, perché
è necessitá ritornar indietro fino al punto, spesso
lontano, in cui la linea delle fallacie si separa da quella della
veritá; ma, ricreduti una volta gli animi, per cagion di un
solo errore distruggeranno tutto il sistema. La Convenzione
nazionale condannò Luigi decimosesto contro tutte quelle
leggi che essa istessa avea proclamate. I faziosi ragionarono allora
come avea ragionato Virginio quando Appio appellava al popolo; ed
è cosa «di cattivissimo esempio in una repubblica -
dice Macchiavelli - fare una legge e non la osservare, e tanto
piú quando la non è osservata da chi l'ha
fatta». Tutto il bene che poteva produrre la rivoluzione di
Francia fu distrutto colla stessa sentenza che condannò
l'infelice Luigi decimosesto.
Nell'epoca istessa in cui la Francia credette acquistar piena
libertá, incominciarono anche quelle riforme che noi chiamiam
superflue. Qual effetto produssero queste riforme? Vi fu una
continua lotta tra partiti e partiti; finalmente i partiti non si
intendevano piú tra loro, ed il popolo non ne intendeva
nessuno. Si correva dietro una parola, che indicava una persona
piú che una cosa, e talora non indicava né una cosa
né una persona; e le controversie, che non potevano decidersi
colla ragione, si decisero colla forza. Robespierre surse; ebbe una
forza maggiore e contenne tutte le altre col timore.
Robespierre ritenne le parole per perdere i suoi rivali, ma
attaccò a queste parole delle cose sensibili, sebbene tutte
diverse, per guadagnar il popolo. Il popolo non intendeva né
Robespierre né Brissot; ma sapeva che Robespierre gli
accordava piú licenza degli altri, e scannava tutti quelli
che Robespierre voleva scannati. Robespierre non poteva durar molto
tempo, per la ragione che i suoi fatti non avean verun rapporto
colle sue idee e si potevano conservar le cose senza conservar le
idee. Che volle significare infatti quella parola di «oltre
rivoluzionario», che i suoi rivali inventarono per
caratterizzarlo e perderlo?
Robespierre salvò la Francia, facendo rivoltare tutt'i
partiti contro di lui ed, in conseguenza, riunendoli(30); ma
Robespierre non salvò né potea salvare la sua persona,
le sue idee, la costituzione sua.
Le idee erano giunte all'estremo e doveano retrocedere. Si era
riformato piú di quello che il popolo volea; e, siccome
queste riforme superflue non aveano in favor loro il pubblico
costume, cosí conveniva farle osservare col terrore e colla
forza: le leggi sono sempre tanto piú crudeli quanto
piú son capricciose. Il sistema de' moderati rimenava le cose
al loro stato naturale e non dava loro altra importanza che quella
che il popolo istesso lor dava; cosí il suo rigore e la sua
dolcezza erano il rigore e la dolcezza del popolo.
L'uomo è di tale natura, che tutte le sue idee si cangiano,
tutt'i suoi affetti, giunti all'estremo, s'indeboliscono e si
estinguono: a forza di voler troppo esser libero, l'uomo si stanca
dello stesso sentimento di libertá. «Nec totam
libertatem, nec totam servitutem pati possumus», disse Tacito
del popolo romano: a me pare che si possa dire di tutt'i popoli
della terra. Or che altro avea fatto Robespierre, spingendo
all'estremo il senso della libertá, se non che accelerarne il
cambiamento?
La vita e le vicende de' popoli si possono misurare e calcolare
dalle loro idee. Vi è tra l'estrema servitú e la
libertá estrema uno stadio che tutt'i popoli corrono, e si
può dire che in questo corso appunto consiste la vita di
tutt'i popoli. La plebe romana era serva addetta alle glebe di pochi
patrizi, non aveva proprietá di beni né di persona.
Incominciò dal reclamar leggi certe; ottenne la sicurezza
delle persone e de' beni, ma rimaneva ancora senza nozze, senza
auspíci, senza magistrature; chiese ed ottenne la
partecipazione a tutte queste cose, ma le chiese con temperanza, le
furon concesse con moderazione; e ciò non solo
prolungò la vita della repubblica, ma la rese, per la
vicendevole emulazione delle parti che la componevano, piú
energica e piú gloriosa. Pervenute le cose a quella che
chiamar si potrebbe «eguaglianza di diritto», i tribuni
pretesero anche l'eguaglianza di fatto: s'incominciò a parlar
di leggi agrarie, e la repubblica perí. Si era giunto a
quell'estremo oltre del quale era impossibile progredire. Nel primo
anno della rivoluzione francese, non si pensava che a stabilire
quella eguaglianza di diritto, alla quale tendevano
irresistibilmente gli ordini pubblici di tutta l'Europa; nel terzo
però si pretendeva l'eguaglianza di fatto: in tre anni voi
passate dall'etá di Menenio Agrippa a quella de' Gracchi. Che
dico io mai? Nell'etá de' Gracchi, mentre si pretendeva
eguagliare i beni, si riconosceva la legittimitá del dominio
civile. Il rispetto, che il popolo ancora serbava per la legge delle
doti, lo trattenne dall'eseguire la divisione de' beni. In Francia
le idee eran corse molto piú innanzi: erasi messa in dubbio
la legittimitá delle doti, quella de' testamenti, l'istessa
legge fondamentale del dominio, senza la quale non vi è
proprietá. Le idee della rivoluzione francese erano un secolo
piú innanzi di quelle de' Gracchi: ed ecco perché,
contando da quest'epoca, la repubblica francese ha avuto un secolo
meno di vita della romana.
Quando le pretensioni di eguaglianza si spingono oltre il confine
del diritto, la causa della libertá diventa la causa degli
scellerati. La legge, diceva Cicerone, non distingue piú i
patrizi dai plebei: perché dunque vi sono ancora dissensioni
tra i plebei ed i patrizi? Perché vi sono ancora e vi saranno
sempre i pochi e i molti: pochi ricchi e molti poveri, pochi
industriosi e moltissimi scioperati, pochissimi savi e moltissimi
stolti.
Le idee di Robespierre non potevano star insieme né colle
altre idee della nazione francese né con quelle delle altre
nazioni di Europa. Togliendo, se però era possibile, alla sua
nazione le arti, il commercio e la marina, avrebbe fatti de'
francesi tanti Galli: li avrebbe resi piú guerrieri, ma meno
capaci di sostener la guerra; avrebbe potuto in un momento invadere
tutta la terra, ma a capo di qualche tempo la terra tutta si sarebbe
vendicata e la nazione francese sarebbe stata distrutta. Di un
antico si diceva che o doveva esser Cesare o pazzo; di Robespierre
si avrebbe potuto dire che o doveva essere il dittatore del mondo o
pazzo.
Ho cercato nella storia un uomo a cui Robespierre si potesse
assomigliare. Alcuni de' suoi amici ed anche de' suoi nemici lo han
paragonato a Silla; ma convien dire che i primi non conoscessero
Robespierre ed i secondi non conoscessero Silla. Robespierre ha
molta somiglianza con Appio. Differivano nelle massime che
predicavano; non so se differissero nello scopo che si avean
prefisso, perché per me è ben lontano dall'esser
evidente che Robespierre, predicando libertá, non tendesse al
dispotismo; ma ambedue egualmente ambiziosi e, nella loro ambizione,
egualmente crudeli, egualmente imbecilli. Ambedue volevano stabilir
colle leggi quel dispotismo, il quale non è altro che la
forza distruttrice della legge. Ambedue ebbero
quell'autoritá, che Macchiavelli chiama
«pericolosissima», libera nel potere, limitata nel
tempo, onde nell'uomo nasce brama di perpetuarla, né gli
mancano i mezzi; ma questi, non essendosi dati dalle leggi a quel
fine al quale egli li indirizza, debbono per necessitá
divenir tirannici. Né l'uno né l'altro comprese la
massima o di non offender nessuno, o di fare le offese ad un tratto
e dipoi rassicurare gli uomini e dar loro cagioni di quietare e
fermare l'animo; ma rinfrescavano ogni giorno ne' cittadini, con
nuove crudeltá, nuovi timori, e rendevan feroce quel popolo
che volevan dominare. Ambedue volevan stabilire l'impero col
terrore; non eran militari, né soffrivano la milizia della
quale temevano, ma aveano alla medesima sostituita l'inquisizione ed
una prostituzione di giudizi, che è piú crudele di
ogni milizia, perché è costretta a punire i delitti
che questa previene ed accresce i sospetti che questa minora. Questa
specie di tirannide, che chiamar si potrebbe
«decemvirale», è la piú terribile di
tutte, ma per buona sorte è la meno durevole.
Per gli uomini che riflettevano, il «moderantismo» non
era che uno stato intermedio, il quale ne dovea produrre un altro.
La nazione respirava dopo la lotta che avea sostenuta con
Robespierre, ma non ancora avea scelto il punto del suo riposo. Un
eccesso di energia ne dovea produrre un altro di rilasciatezza. La
guerra contro Robespierre era stata desiderata dalla nazione; ma era
stata fatta da un partito, il quale poi, come suol avvenire, avea
affidata la somma delle cose a mani perfide e sciagurate. La nazione
sotto Robespierre fu costretta a salvar la sua libertá: sotto
il Direttorio la sua indipendenza(31).
Questo è il corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per
lungo tempo il popolo si agita senza saper ove fermarsi: corre
sempre agli estremi e non sa che la felicitá è nel
mezzo. Guai se, come avvenne altre volte al popolo fiorentino, esso
non ritrova mai questo punto!
XIX
QUANTE ERANO LE IDEE DELLA NAZIONE?
Il male, che producono le idee troppo astratte di libertá,
è quello di toglierla mentre la vogliono stabilire. La
libertá è un bene, perché produce molti altri
beni, quali sono la sicurezza, l'agiata sussistenza, la popolazione,
la moderazione dei tributi, l'accrescimento dell'industria e tanti
altri beni sensibili; ed il popolo, perché ama tali beni,
viene poi ad amare la libertá. Un uomo, il quale, senza
procurare ad un popolo tali vantaggi, venisse a comandargli di amare
la libertá, rassomiglierebbe l'Alcibiade di Marmontel, il
quale voleva esser amato «per se stesso».
La nazione napolitana bramava veder riordinate le finanze,
piú incomode per la cattiva distribuzione che per la gravezza
de' tributi; terminate le dissensioni che nascevan dalla
feudalitá, dissensioni che tenevano la nazione in uno stato
di guerra civile; divise piú equamente le immense terre che
trovavansi accumulate nelle mani degli ecclesiastici e del fisco.
Questo era il voto di tutti: quest'uso fecero della loro
libertá quelle popolazioni, che da per loro stesse si
democratizzarono, e dove o non pervennero o sol pervennero tardi gli
agenti del governo e de' francesi.
Molte popolazioni si divisero i terreni, che prima appartenevano
alle «cacce regie»(32). Molti si revindicarono le terre
litigiose del feudo. Ma io non ho cognizione di tutti gli
avvenimenti, né importerebbe ripeterli, essendo tutti gli
stessi. In Picerno, appena il popolo intese l'arrivo de' francesi,
corse, seguendo il suo paroco, alla chiesa a render grazie al
«Dio d'Israele, che avea visitato e redento il suo
popolo». Dalla chiesa passò ad unirsi in parlamento, ed
il primo atto della sua libertá fu quello di chieder conto
dell'uso che per sei anni si era fatto del pubblico danaro. Non
tumulti, non massacri, non violenze accompagnarono la revindica de'
suoi diritti: chi fu presente a quell'adunanza udí con
piacere ed ammirazione rispondersi dal maggior numero a taluno, che
proponeva mezzi violenti: - Non conviene a noi, che ci lagniamo
dell'ingiustizia degli altri, il darne l'esempio. - Il secondo uso
della libertá fu di rivendicare le usurpazioni del
feudatario. E quale fu il terzo? Quello di far prodigi per la
libertá istessa, quello di battersi fino a che ebbero
munizioni, e, quando non ebbero piú munizioni, per aver del
piombo, risolvettero in parlamento di fondersi tutti gli organi
delle chiese... - I nostri santi - si disse - non ne hanno bisogno.
- Si liquefecero tutti gli utensili domestici, finanche
gl'istrumenti piú necessari della medicina; le femmine,
travestite da uomini onde imporre al nemico, si batterono in modo da
ingannarlo piú col loro valore che colle vesti loro.
Non son questi gli estremi dell'amore della libertá? Ed a
questo stesso segno molte altre popolazioni pervennero; e pervenute
vi sarebbero tutte, poiché tutte aveano le stesse idee, i
bisogni medesimi ed i medesimi desidèri.
Ma, mentre tutti avean tali desidèri, moltissimi desideravano
anche delle utili riforme, che avessero risvegliata
l'attivitá della nazione, che avessero tolto l'ozio de'
frati, l'incertezza delle proprietá, che avessero assicurata
e protetta l'agricoltura, il commercio; e questi formavano quella
classe che presso di tutte le nazioni è intermedia tra il
popolo e la nobiltá. Questa classe, se non è potente
quanto la nobiltá e numerosa quanto il popolo, è
però dappertutto sempre la piú sensata. La
libertá delle opinioni, l'abolizione de' culti, l'esenzione
dai pregiudizi era chiesta da pochissimi, perché a pochissimi
interessava. Quest'ultima riforma dovea seguire la libertá
giá stabilita; ma, per fondarla, si richiedeva la forza, e
questa non si potea ottenere se non seguendo le idee del maggior
numero. Ma si rovesciò l'ordine, e si volle guadagnar gli
animi di molti, presentando loro quelle idee che erano idee di
pochi.
Che sperare da quel linguaggio che si teneva in tutt'i proclami
diretti al nostro popolo? «Finalmente siete liberi»...
Il popolo non sapeva ancora cosa fosse libertá: essa è
un sentimento e non un'idea; si fa provare coi fatti, non si
dimostra colle parole. «Il vostro Claudio è fuggito,
Messalina trema»... Era obbligato il popolo a saper la storia
romana per conoscere la sua felicitá? «L'uomo
riacquista tutt'i suoi diritti»... E quali? «Avrete un
governo libero e giusto, fondato sopra i princípi
dell'uguaglianza; gl'impieghi non saranno il patrimonio esclusivo
de' nobili e de' ricchi, ma la ricompensa de' talenti e della
virtú»... Potente motivo per il popolo, il quale non si
picca né di virtú né di talenti, vuol esser ben
governato, e non ambisce cariche! «Un santo entusiasmo si
manifesti in tutt'i luoghi, le bandiere tricolori s'innalzino, gli
alberi si piantino, le municipalitá, le guardie civiche si
organizzino»... Qual gruppo d'idee che il popolo o non intende
o non cura! «I destini d'Italia debbono adempirsi».
«Scilicet id populo cordi est: ea cura quietos sollicitat
animos». «I pregiudizi, la religione, i
costumi»... Piano! mio caro declamatore; finora sei stato
solamente inutile, ora potresti esser anche dannoso(33).
Il corso delle idee è quello che deve dirigere il corso delle
operazioni e determinare il grado di forza negli effetti. Le prime
idee che si debbono far valere sono le idee di tutti; quindi le idee
di molti; in ultimo luogo le idee di pochi. E, siccome coloro che
dirigono una rivoluzione sono sempre pochi di numero ed hanno
piú idee degli altri, perché veggono piú mali e
comprendono piú beni, cosí molte volte è
necessario che i repubblicani per istabilir la repubblica si
scordino di loro stessi. Molti mali soffrí per lungo tempo
Bruto, moltissimi ne previde, ma, finché fu solo a soffrire
ed a prevedere, tacque; molti ne soffrirono i patrizi prima che si
lagnasse il popolo; finalmente il fatto di Lucrezia fece ricordare
ad ognuno che era marito: allora Bruto parlò prima al popolo
e lo mosse, poscia parlò al senato, e, quando la rivoluzione
fu compíta, ascoltò se stesso. Tutto si può
fare: la difficoltá è sola nel modo. Noi possiamo
giugnere col tempo a quelle idee alle quali sarebbe follia voler
giugner oggi: impresso una volta il moto, si passa da un avvenimento
all'altro, e l'uomo diventa un essere meramente passivo. Tutto il
segreto consiste in saper donde si debba incominciare.
Non si può mai produrre una rivoluzione, a meno che non sia
una rivoluzione religiosa, seguendo idee troppo generali, né
seguendo un piano unico. Mille ostacoli tu incontrerai ad ogni
passo, che non si erano preveduti; mille contraddizioni d'interessi,
che, non potendosi distruggere, è necessitá
conciliare. Il popolo è un fanciullo, e vi fa spesso delle
difficoltá alle quali non siete preparato. Molte nostre
popolazioni non amavano l'albero perché non ne intendevano
l'oggetto, e talune, che s'indispettivano per non intenderlo, lo
biasimavano come magico; molte, invece dell'albero, avrebbero voluto
un altro emblema. È indifferente che una rivoluzione abbia un
emblema o un altro, ma è necessario che abbia quello che il
popolo intende e vuole.
In molte popolazioni eravi un male da riparare, un bene da procurare
per poter allettare il popolo: le stesse risorse non vi erano in
altre popolazioni; né potevano la legge o il governo
occuparsi di tali oggetti se non dopo che la rivoluzione era
giá compiuta. Le rivoluzioni attive sono sempre piú
efficaci, perché il popolo si dirige subito da se stesso a
ciò che piú da vicino l'interessa. In una rivoluzione
passiva conviene che l'agente del governo indovini l'animo del
popolo e gli presenti ciò che desidera e che da se stesso non
saprebbe procacciarsi.
Talora il bene generale è in collisione cogl'interessi de'
potenti. L'abolizione de' feudi, per esempio, reca un danno notabile
al feudatario; ma, piú del feudatario, sono da temersi coloro
che vivono sul feudo. Il popolo trae ordinariamente la sussistenza
da costoro; comprende che, dopo un anno, senza il feudatario
vivrebbe meglio, ma senza di lui non può vivere un anno: il
bisogno del momento gli fa trascurare il bene futuro, quantunque
maggiore. Il talento del riformatore è allora quello di
rompere i lacci della dipendenza, di conoscer le persone egualmente
che le cose, di far parlare il rispetto, l'amicizia, l'ascendente
che taluno, o bene o male, gode talora su di una popolazione.
Spesse volte ho visto che una popolazione ama una riforma
anziché un'altra. Molte popolazioni desideravano la
soppressione de' monasteri, molte non la volevano ancora:
piucché la superstizione, influiva sul loro spirito il
maggiore o minor bisogno in cui erano de' terreni. Non urtate la
pubblica opinione; crescerá col nuovo ordine di cose il
bisogno, e voi sarete sollecitato a distruggere ciò che un
momento prima si voleva conservare.
Basta dar avviamento alle cose; di molte non si comprende oggi la
necessitá o l'utile, e si comprenderá domani:
cosí avrete il vantaggio che farete far dal popolo quello che
vorreste far voi.
Non vi curate degli accessorii, quando avete ottenuto il principale.
Io, che ho voluto esaminar la rivoluzione piú nelle idee de'
popoli che in quelle de' rivoluzionari, ho visto che il piú
delle volte il malcontento nasceva dal volersi fare talune
operazioni senza talune apparenze e senza talune solennitá
che il popolo credeva necessarie. Avviene nelle rivoluzioni come
avviene nella filosofia, dove tutte le controversie nascono meno
dalle idee che dalle parole. I riformatori chiamano «forza di
spirito» l'audacia colla quale attaccano le solennitá
antiche; io la chiamo «imbecillitá» di uno
spirito che non sa conciliarle colle cose nuove.
Il gran talento del riformatore è quello di menare il popolo
in modo che faccia da sé quello che vorresti far tu. Ho visto
molte popolazioni fare da per loro stesse ciò che, fatto dal
governo, avrebbero condannato. «Volendo - dice Macchiavelli -
che un errore non sia favorito da un popolo, gran rimedio è
fare che il popolo istesso lo abbia a giudicare». Ma a questo
grande oggetto non si perviene se non da chi ha giá vinto
tanto la vanitá de' fanciulli di preferir le apparenze alle
cose reali, quanto la vanitá anche di quegli uomini
doppiamente fanciulli, che non conoscono la vera gloria e che la
fanno consistere nel far tutto da loro stessi.
Siccome nelle rivoluzioni passive il gran pericolo è quello
di oltrepassare il segno in cui il popolo vuole fermarsi e dopo del
quale vi abbandonerebbe, cosí il miglior partito, il
piú delle volte, è di restarsene al di qua. Il governo
avea ordinata la soppressione istantanea di molti monasteri; e
questa, commessa a persone non sempre fedeli, non avea prodotto que'
vantaggi che se ne speravano. Si poteano i conventi far rimanere, ma
colla legge di non ricever piú nuovi monaci; i loro fondi,
con altra legge, si dichiaravano censiti a coloro che ne erano
affittuali, colla libertá di acquistarne la proprietá;
e cosí si otteneva la ripartizione de' terreni, l'abolizione
del monistero a capo di pochi anni, e frattanto ai monaci si avrebbe
potuto vender anche caro questo prolungamento di esistenza. Il voler
far in un momento tutto ciò che si può fare non
è sempre senza pericolo, perché non è senza
pericolo che il popolo non abbia piú né che temere
né che sperare da voi.
Il popolo è ordinariamente piú saggio e piú
giusto di quello che si crede. Talora le sue disgrazie istesse lo
correggono de' suoi errori. Ho veduto delle popolazioni diventar
repubblicane ed armarsi, perché nella loro indifferenza erano
state saccheggiate dagl'insorgenti. In Caiazzo taluni della
piú vile feccia del popolo insursero ed attaccarono le
autoritá costituite; tutti gli altri erano spettatori
indolenti: gl'insorgenti soli furono i piú forti, vollero
rapinare, e questo ruppe il letargo degli altri. Allora
gl'insorgenti non furono piú soli: tutta la popolazione
difese le autoritá costituite; ed, istruita dal pericolo,
Caiazzo divenne la popolazione piú attaccata alla repubblica.
Da tutto si può trar profitto: tutto può esser utile
ad un governo attivo, che conosca la nazione e non abbia sistemi.
Tutt'i popoli si rassomigliano; ma gli effetti delle loro
rivoluzioni sono diversi, perché diversi sono coloro che le
dirigono. Molti avvenimenti io potrei narrare in prova di ciò
che ho detto; ma si potrebbe dir tutto senza una noia mortale? Agli
esteri bastano i risultati; i nazionali, quando vogliano, possono
applicare a ciascuno di essi i fatti ed i nomi che giá sanno.
XX
PROGETTO DI GOVERNO PROVVISORIO
Nello stato in cui era la nazione napolitana, la scelta delle
persone che formar doveano il governo provvisorio era piú
importante che non si pensa. Noi riferiremo a questo proposito
ciò che taluno propose a Championnet ed a coloro che
consigliavano Championnet.
«Il primo passo in una rivoluzione passiva è quello di
guadagnar l'opinione del popolo; il secondo è quello
d'interessare nella rivoluzione il maggior numero delle persone che
sia possibile. Queste due operazioni, sebbene in apparenza diverse,
non sono però in realtá che una sola; poiché
quello istesso che interessa nella rivoluzione il maggior numero
delle persone vi fa guadagnare l'opinione del popolo, il quale, non
potendo giudicar mai di una rivoluzione e di un governo per
princípi e per teorie, non potendo ne' primi giorni
giudicarne dagli effetti, deve per necessitá giudicarne dalle
persone, ed approvare quel governo che vede commesso a persone che
egli è avvezzo a rispettare.
«Tra gl'impiegati del re di Napoli molti ve ne sono, i quali
non hanno giammai fatta la guerra alla rivoluzione; amici della
patria perché amanti del bene, ed attaccati al governo del re
sol perché quel governo dava loro un mezzo onesto di
sussistenza. Molti di costoro meritano di esser impiegati per i loro
talenti e possono guadagnare alla rivoluzione l'opinione di molte
classi del popolo.
«Il fòro ne somministra moltissimi; e la classe del
fòro, una volta guadagnata, strascina seco il quinto della
popolazione. Moltissimi ne somministra la classe degli
ecclesiastici, e vi è da sperare altrettanto di bene: il
resto si avrebbe dalla nobiltá (uso per l'ultima volta questa
parola per indicare un ceto che piú non deve esistere, ma che
ha esistito finora) e dalla classe de' negozianti. I nobili si
crederanno meno offesi, quando si vedranno non del tutto obbliati;
ed i negozianti, finora disprezzati da' nobili, saranno superbi di
un onore che li eguaglia ai loro rivali, e può la nazione
sperar da loro aiuti grandissimi ne' suoi bisogni. In Napoli questa
è la classe amica del popolo, poiché da questa classe
dipende e vive quanto in Napoli vi sono pescatori, marinai, facchini
e di altri tali, che formano quella numerosa e sempre mobile parte
del popolo che chiamansi 'lazzaroni'. Utili anche sarebbero molti
ricchi proprietari delle province, i quali possono colá
ciò che possono i negozianti in Napoli, e potranno dare al
governo quei lumi che non ha e che non può avere altrimenti
sulle medesime.
«Per effetto della nostra mal diretta educazione pubblica, la
cognizione delle nostre cose si trova riunita al potere ed alla
ricchezza: coloro che hanno per loro porzione il sapere, per lo
piú, tutto sanno fuorché ciò che saper si dee.
Allevati colla lettura de' libri inglesi e francesi, sapranno le
manifatture di Birmingham e di Manchester, e non quelle del nostro
Arpino; vi parleranno dell'agricoltura della Provenza, e non
sapranno quella della Puglia; non vi è tra loro chi non
sappia come si elegga un re di Polonia o un imperatore dei romani, e
pochi sapranno come si eleggono gli amministratori di una nostra
municipalitá; tutti vi diranno il grado di longitudine e di
latitudine d'Othaiti: se domandate il grado di Napoli, nessuno
saprá dirlo. Un tempo i nostri si occuparono di tali cose, ed
ebbimo scrittori di questi oggetti prima che le altre nazioni di
Europa ancora vi pensassero. Oggi ciascuno sdegna di occuparsene,
vago di una gloria straniera, quasi che si potesse meritare maggior
stima dagli altri popoli ripetendo loro male ciò che essi
sanno bene, che dicendo loro ciò che ancora non sanno. Queste
cognizioni intanto sono necessarie, e, per averle, o convien
ricorrere ai libri senza ordine e senza gusto scritti due secoli fa,
o convien dipendere da coloro i quali, per avere maneggiati gli
affari del Regno e viste diverse nostre regioni, conoscono e gli
uomini e lo stato degli uomini. Per difetto della nostra educazione,
la scienza che noi abbiamo è inutile, e siam costretti a
mendicare le utili dagli altri.
«Ma, affinché le cognizioni delle cose patrie non siano
scompagnate dai lumi della filosofia universale di Europa, ed
affinché coloro de' quali abbiam bisogno per opinione non
diventino i nostri padroni per necessitá, affinché gli
antichi interessi (se pure costoro avessero interesse per l'antico
governo) non opprimano i nuovi, a costoro si unirá un doppio
numero di savi e virtuosi patrioti: cosí avremo il vantaggio
del patriotismo nelle decisioni, ed il patriotismo avrá il
vantaggio delle cognizioni patrie nell'esame e dell'opinione
pubblica nell'esecuzione.
«Invece di fare l'assemblea, che chiamar si potrebbe
'costituente', di venticinque persone, far si potrebbe di ottanta, e
combinare in tal modo insieme tutti questi vantaggi. Un'assemblea
provvisoria di ottanta non è troppo grande per una nazione
che dee averne una costituzionale piú che doppia:
all'incontro una di venticinque può sembrare troppo piccola,
specialmente non essendosi ancora pubblicata la costituzione. Il
popolo potrá credere che si voglia prender giuoco di lui e
che si pensi ad escluderlo da tutto. Un generale estero, che venisse
egli solo a darci la legge, si tollererebbe come un re
conquistatore, e l'oppressione, in cui ciascuno vedrebbe gli altri
tutti, gli renderebbe tollerabile la propria; ma, subito che
chiamate a parte della sovranitá la nazione, conviene che
usiate piú riguardi: o conviene dar a tutti o a nessuno; i
consigli di mezzo non tolgono l'oppressione e vi aggiungono
l'invidia».
Si passava ad indicare, in tutte le classi, de' veri patrioti, i
quali, senza esser ascritti a verun club, amavano la patria ed
avrebbero saputo renderla felice... Ma i nomi di costoro sarebbe ora
colpevole imprudenza rivelare.
XXI
MASSIME CHE SI SEGUIRONO
Io prego tutti coloro i quali leggeranno questo paragrafo a non
credere che io intenda scrivere la satira de' patrioti. Se il
patriota è l'uomo che ama la patria, non sono io stesso un
patriota? Come potrei condannare un nome che onora tanti amici, de'
quali or piango la lontananza o la perdita? Noi possiamo esser
superbi che in Napoli la classe de' patrioti sia stata la classe
migliore: ivi, e forse ivi solamente, la rivoluzione non è
stata fatta da coloro che la desideravano sol perché non
avevano che perdere. Ma in una grande agitazione politica è
impossibile che i scellerati non si rimescolino ai buoni, come
appunto, agitando un vaso, è impossibile che la feccia non si
rimescoli col fluido. Il grande oggetto delle leggi e del governo
è di far sí che, ad onta de' nomi comuni de' quali si
vogliono ricoprire, si possano sempre distinguere i buoni dai
cattivi, e che si riconosca per patriota solo colui che è
degno di esserlo. Allora i cattivi non corromperanno l'opera de'
buoni. Allora il governo de' patrioti sará il migliore de'
governi, perché sará il governo di coloro che amano la
patria. Ma tale è la dura necessitá delle cose umane,
che spesso le maggiori avvertenze, che si prendono per far prevalere
i buoni, non fanno che allontanarli e verificare l'antico adagio:
che nelle rivoluzioni trionfano sempre i pessimi.
Nelle altre rivoluzioni i rivoluzionari non buoni han fatto sorgere
princípi pessimi. In quella di Napoli princípi non
nostri e non buoni fecero perdere gli uomini buoni. Nulla di
migliore degl'individui che avevamo, perché i princípi
loro individuali erano retti: se le operazioni politiche non
corrisposero alle loro idee, ciò avvenne perché i
princípi pubblici non erano di essi ed erano fallaci. Questi
princípi politici per necessitá doveano corromper
tutto.
Alcuni falsi patrioti o maligni speculatori, ai quali né la
classe de' buoni né un solo del governo aderí mai,
dicevano che tutti gli aristocratici, che tutt'i vescovi, tutt'i
preti, tutt'i ricchi dovevano essere distrutti. Non erano contenti
che fossero eguagliati agli altri. La repubblica fiorentina operava
una volta cogli stessi principi; e la repubblica fiorentina fu
perciò in una continua guerra civile, che finalmente produsse
la sua morte. Questo avviene inevitabilmente tutte le volte che la
repubblica non è fondata sopra la giustizia; e non lo
è mai ogni qual volta, dopo aver distrutta la classe,
continua a perseguitar l'individuo, non perché ami le
distinzioni della classe giá estinta, ma solo perché
le apparteneva un giorno. I romani si contentarono di far che i
plebei potessero ascendere a tutte le cariche: questo era il giusto
e formava la libertá; se essi avessero voluto escluderne i
patrizi sol perché erano patrizi, sarebbe stato lo stesso che
voler rimettere il patriziato dopo averlo distrutto e voler far
nascere la guerra civile.
Pretendevano non doversi impiegar nessuno di coloro che aveano ben
servito il re. Era giusto che non s'impiegassero coloro, se mai ve
ne erano, che lo aveano servito nei suoi capricci, nelle sue
dissolutezze, nelle sue tirannie; che doveano l'onore di servire
all'infamia onde si eran ricoperti. Ma molti, servendo il re, avean
servita la patria; e molti altri, al contrario, non aveano potuto
servire il re, perché non meritavano servir la patria:
l'escluder quelli, l'ammetter questi, sol perché quelli
aveano servito il re e questi non giá, non era lo stesso che
tradire la patria e farla servire da coloro che non sapeano
servirla?
Chi dunque dovea impiegarsi? Coloro solamente che erano patrioti. La
repubblica napolitana fu considerata come una preda, la di cui
divisione spettar dovea a pochissimi; e questo fu il segnale,
né poteva esserlo diversamente, della guerra civile tra la
parte numerosa della nazione e la parte debole.
Questo fece mancare tutt'i buoni agenti della repubblica: se un uomo
di genio e da bene è raro in tutto il genere umano, come mai
può ritrovarsi poi facilmente in una classe poco numerosa?
È vero che i clamori della folla né esprimevano il
voto de' buoni né eran di norma al governo; ma, in
circostanze precipitose ed incerte, quando la curiositá
pubblica è grandissima ed ignote sono ancora le massime di un
governo nuovo, né vi è tempo e modo da paragonare le
voci ai fatti, i clamori, sebben falsi, producono un male reale,
perché il popolo li crede massime del governo e se ne
offende. Il piú difficile, in tali tempi, è il far
sorgere una opinione che dir si possa pubblica; fare che nel tempo
istesso e parlassero molti, perché le voci riunite producono
effetto maggiore, e le parole fossero concordi, onde l'effetto, per
contrasto delle medesime, non venisse distrutto. Questo, per altro,
era in Napoli piú difficile ad ottenersi che altrove; tra
perché la rivoluzione non era attiva, ma passiva, né
vi era, in conseguenza, un'opinione predominante, ma si imitavano
quelle di Francia, le quali erano state molte e diverse, onde
è che vi erano alcuni «terroristi», altri
«moderati», ecc.; tra perché le opinioni non eran
libere, e spesso prevaleva per effetto di forza quella che non era
la piú comune; tra perché finalmente il tempo fu
brevissimo, e l'opinione pubblica, ovunque non vi è forza che
possa dirigerla, ha bisogno di tempo lunghissimo.
È un'osservazione costante che il popolo non s'inganna mai
ne' particolari; ma una fazione s'inganna, e molto piú una
fazione la quale riduce le virtú ed i talenti tutti ad un
solo nome, di cui usa egualmente e Catilina e Catone. Il vero
«patriotismo» è l'amor della patria, ed ama la
patria chi vuole il suo bene ed ha i talenti per procurarlo. Se lo
separate da queste idee sensibili, allora formate del patriotismo
una parola chimerica, la quale apre il campo alla calunnia ed
impedisce all'uomo da bene, che non è fazioso, di accostarsi
al governo; allora si sostituisce al merito reale un merito di
opinione che ciascuno può fingere, ed il merito reale rimane
sempre dietro a quello dei ciarlatani.
Con questi mezzi abbiam veduti allontanati dal corpo legislativo il
virtuoso Vincenzio Russo ed alcuni altri, tra' quali uno che, in
quelle circostanze, avrebbe potuto esser utile alla patria.
Se la nostra rivoluzione fosse stata attiva, i nostri patrioti si
sarebbero conosciuti nell'azione precedente, il che non avrebbe
lasciato luogo alla impostura, e si sarebbero conosciuti per quello
che ciascun valea. Si è detto realmente che le guerre civili
fanno sviluppare i geni di una nazione, non perché li
facciano nascere, ma perché li fanno conoscere; perché
ciascuno nell'azione si mette al posto che il suo genio gli assegna,
e la scelta per lo piú suole riuscir buona, perché si
giudica dell'uomo dai suoi fatti.
Presso di noi l'uomo era riputato patriota da che apparteneva ad un
club. Ma, quando anche questa invenzione inglese di club fosse stata
atta a produrre un giorno una rivoluzione, pure, non avendola
prodotta, non potea far giudicare degli uomini se non dalle parole.
I nostri clubs non avean ancora superata la prima prova delle
congiure, che è quella di conservare il segreto tra il
numero: composti sulle prime da pochi individui, allorché
incominciò la persecuzione, si sciolsero. Quando venne la
rivoluzione, si trovarono moltissimi, i quali non aveano fatto altro
che dare il loro nome negli ultimi tempi, uomini che non si
conoscevano neanche tra loro, e tra costoro fu facile a qualunque
audace rimescolarsi e dichiararsi patriota.
Cosí la patria fu in pericolo di esser vittima dell'ambizione
de' privati, poiché non si trattava di soddisfar questa con
servigi resi alla patria medesima, ma bensí con quelli che
taluno forsi voleva renderle; non si esaminava chi sapeva, chi
potea, ma si cercava chi voleva; ed in tale gara il piú
audace mentitore, il piú sfacciato millantatore doveano
vincere il merito e la virtú sempre modesta.
XXII
ACCUSA DI ROTONDO - COMMISSIONE CENSORIA
S'incominciò dai primi giorni della repubblica a fare una
guerra a tutti gl'impiegati: accuse sopra accuse, deputazioni sopra
deputazioni: chi ambiva una carica non dovea far altro che mettersi
alla testa di un certo numero di patrioti e far dello strepito.
Siccome tutto si aggirava su parole vaghe che niuno intendeva,
cosí la ragione non poteva aver luogo e dovean vincere il
numero e lo strepito, prima forza che gli uomini usano nelle gare
civili, finché passino ad usarne un'altra piú efficace
e piú crudele. All'uomo ragionevole e dabbene non rimaneva
che involgersi nel suo mantello e tacere.
Prosdocimo Rotondo, eletto rappresentante, offese l'invidia di
qualche suo nemico. Si mosse Nicola Palomba ad accusarlo: Nicola
Palomba, che non conosceva Rotondo, ma, entusiasta ed in conseguenza
poco saggio, credea che ei fosse indegno della carica, sol
perché qualche suo amico lo credeva tale. Un'accusa di tale
natura non avrebbe dovuto ammettersi, poiché
l'indegnitá di taluno potrá far sí che il
sovrano non lo elegga; ma, eletto che l'abbia, perché sia
deposto prima del tempo stabilito dalla legge, vi è bisogno
di un delitto. Ammessa però una volta l'accusa, conveniva
esaminarla: nella repubblica deve esser libera l'accusa, ma punita
la calunnia. Io non so se Rotondo fosse reo: so però ch'egli
insisteva perché fosse giudicato; so che, dimesso dalla
carica, pubblicò il conto della sua amministrazione, e tutti
tacquero. Il presidente allora del comitato centrale vedea in questo
affare, in apparenza privato, quanto importasse conservarsi il
rispetto alla legge, senza di cui non vi è governo, ed
intendeva bene che una folla di patrioti poteva diventar fazione,
subito che non fosse piú nazione. Ma, poco di poi, alcuni,
disperando di farsi amare e rendersi forti colla nazione, vollero
adular la fazione, e non si permise che dell'affare di Rotondo
piú si parlasse. Palomba partí pel dipartimento del
quale era stato nominato commissario. Gli fu data, è vero, la
facoltá di proseguir l'accusa anche per mezzo de' suoi
procuratori: ma non si trattava di dargli una facoltá; era
necessario imporgli un'obbligazione. Palomba non avrebbe dovuto
partire, se prima non adempiva al dovere che gl'imponeva l'accusa.
In un governo giusto l'accusatore è nel tempo istesso
accusato; e, mentre si disputava se Rotondo era degno o no di seder
tra i legislatori, Palomba non avea diritto di esser nominato
commissario. Dispiacque a Rotondo ed a tutt'i buoni un silenzio che
sacrificava il governo alla fazione e la fazione all'individuo.
Il segreto, una sola volta svelato, tolse ogni freno all'intrigo.
Napoli si vide piena di adunanze patriotiche, che incominciarono a
censurare le operazioni e le persone del governo. Ma non si
contentavano di mettere cosí un freno alla condotta di coloro
che potevano abusare della somma delle cose, ottimo effetto che la
libertá de' partiti produce nella repubblica; non si
contentavano di osservarsi a vicenda: voleano combattersi, voleano
vincersi; le loro censure voleano che avessero la forza di accuse, e
cosí lo studio delle parti dovea degenerare in guerra civile.
Non vi fu piú uno il quale non fosse accusato; ma, siccome le
accuse non erano dirette dall'amore della patria, cosí non
erano fondate sulla ragione: motivi personali le facevano nascere,
gli stessi motivi le facevano abbandonare. Si aggiugneva a
ciò che, il piú delle volte, le contese decidevansi
per autoritá degli esteri. Sebbene le loro decisioni talora
fossero giuste, non potevano però mai esser legali,
perché, anche quando si eseguiva la legge, parlava l'uomo.
Cosí gli uomini non si avvezzavano mai a credere che a
soddisfare i loro desidèri non vi fosse altra via che quella
della legge; e, senza questa intima e profonda persuasione, non vi
è repubblica. Il costume pubblico si corrompe; le
sètte non servono piú la patria, ma bensí
l'uomo che esse credono superiore alla legge, e quest'uomo fomenta
in segreto una divisione che assoda il suo imperio. I partiti
corrompono l'uomo, e l'uomo corrompe la nazione. Gl'intriganti
prendono le loro misure, i buoni si vedono senza alcuna difesa, i
faziosi (importa poco di qual partito essi siano: è fazioso
chiunque non è del partito della patria) trionfano; e,
siccome l'unico mezzo di acquetarli è quello di dar loro una
carica, cosí si vedono elevati molti che la nazione non vuole
e che ruinano poi la nazione.
Male funesto, non ultima causa della nostra ruina, e che i buoni non
debbono giammai obbliare, onde esser piú cauti ad accordare
la loro confidenza ai pessimi, che la forza della rivoluzione spinge
sempre in alto! Essi divengono assai piú terribili in una
rivoluzione di opinione, nella quale un sentimento che non si vede,
un nome che si può fingere, tengono spesso il luogo delle
vere virtú e del merito reale; in una rivoluzione prodotta da
armi straniere, in cui è inevitabile la sconsigliata
profusione delle cariche: tra il conquistatore, il quale spesso non
sa ciò che dona né a chi dona, ma sa solo che
ciò che dona non è suo; e tra i primi da lui
impiegati, i quali rammentano piú i bisogni di un amico che
quelli di uno Stato che odiavano, e, pieni ancora dell'impazienza di
obbedire, di rado sanno temperarsi nell'uso di comandare.
Il governo, per acquetare un poco i rumori, istituí una
commissione di cinque persone per esaminare coloro che doveano
impiegarsi: non erano impiegati se non quei tali che dalla
commissione venissero approvati; chi era riprovato veniva escluso
per sempre.
Questa istituzione fu effetto delle circostanze. Le accuse, i
reclami erano infiniti; il tempo era breve; il bisogno di ben
conoscere le persone urgente. La commissione della quale parliamo,
fu imaginata a fine di bene; le furon date istruzioni limitatissime,
quasi private: ma essa divenne, contro la mente del governo, una
magistratura che avea ed esercitava giurisdizione regolare,
manteneva un officio, riceveva petizioni, faceva decreti.
L'istituzione cangiò natura, e questo avvien sempre in tutte
le istituzioni simili. Se, invece di istituire una commissione, si
fosse obbligato Palomba a proseguire l'accusa; se fosse stato
condannato, come era di giustizia, o Palomba o Rotondo, quattro
quinti de' clamori sarebbero cessati, ed il governo avrebbe
conosciuto meglio le persone e le cose. Accaduto una volta un
disordine, specialmente ne' primi giorni di un governo nuovo, di
rado il popolo conosce la vera cagione del medesimo, e tutto
attribuisce al governo: male inevitabile e gravissimo, il quale deve
persuaderci che non tutto ciò di cui il popolo si doleva era
sempre cagionato dal governo; che le intenzioni eran sempre pure, ma
non eran sempre buone le istituzioni; e queste non eran sempre
buone, perché li princípi, dalli quali dipendevano,
eran fallaci; e finalmente che in un governo nuovo è
necessitá far quanto meno si possa d'istituzioni tali che
possino divenir arbitrarie. Tutto deve esser potentemente afferrato
dalla mano di chi governa.
XXIII
LEGGI - FEDECOMMESSI
Io seguo il corso delle mie idee anziché quello de' tempi.
Tanti avvenimenti si sono accumulati e quasi addensati in sí
breve tempo, che essi, invece di succedersi, s'incrocicchiano tra
loro, né se ne può giudicar bene se non osservandone i
loro rapporti.
Il momento della rivoluzione in un popolo è come un momento
di tumulto in un'assemblea: i dispareri, il calore della disputa,
destano tanti e sí vari rumori, che impossibile riesce far
ascoltare la voce della ragione. Se allora un uomo rispettabile per
la sua prudenza e pel suo costume si mostra, gli animi si acchetano,
tutti l'ascoltano: il suo nome gli guadagna l'attenzione di tutti,
egli può far udire la voce della ragione. Nel primo momento
l'opinione è necessaria per dar luogo alla ragione; ma nel
secondo conviene che la ragione sostenga e confermi l'opinione.
Que' fatti che finora abbiam riferiti aveano per iscopo il
guadagnare la confidenza del popolo prima che il governo avesse
agito; ma il governo dovea finalmente agire e dovea colle opere
meritarsi quella confidenza che avea giá guadagnata... Esso
si occupò dell'abolizione de' fedecommessi e della
feudalitá, che formavano presso di noi i piú grandi
ostacoli all'eguaglianza ed al governo repubblicano.
L'istituzione de' fedecommessi porta seco lo spirito di conservar i
beni nelle famiglie, spirito non compatibile coll'eguaglianza nelle
repubbliche ben ordinate. Forse, cosí in Roma come in Sparta,
l'amor dell'eguaglianza avea fatto nascere lo spirito della
conservazione de' beni. Ma i nostri fedecommessi non aveano di
romano altro che il nome e le formole esterne di ciò che
chiamasi «sostituzione»: queste antiche istituzioni,
unite alle idee di nobiltá ereditaria e di successione
feudale, avean prodotto presso di noi un mostro, di cui a torto
incolperemmo i romani. Nel regno di Napoli, ove tutte le ricchezze
sono territoriali, si erano i fedecommessi moltiplicati all'estremo,
e moltiplicato avevano ancora il numero de' celibi, degli oziosi,
de' poveri, de' litiganti, ecc.
La riforma fu semplice e ragionevole. Non si distrusse la
volontá de' testatori che fino a quel tempo aveano ordinato
de' fedecommessi, tra perché una legge nuova non deve mai
annullare i fatti precedenti, tra perché la riforma della
proprietá non deve distruggerne il fondamento, il quale altro
non è che il possesso autorizzato dal costume pubblico(34).
Ma i beni de' fedecommessi rimanendo liberi in mano de' possessori e
la legge proibendo di ordinarne de' nuovi, una sola generazione
sarebbe stata sufficiente a produrre quella divisione che si
desiderava, ma che, ordinata dalla pubblica autoritá, si
sarebbe mal volentieri accettata.
A' secondogeniti ed a' legatari fu disposto darsi il capitale di
quella parte del fedecommesso di cui godevano la rendita:
cosí ebbero anche essi una proprietá da trasmettere ai
loro figli. Il calcolo de' capitali fu ordinato farsi sulla rendita
alla ragione del tre per cento; e cosí, in una nazione ove i
fondi sono in commercio alla ragione non minore del cinque e del sei
per cento, le porzioni de' legatari venivano indirettamente a
duplicarsi, e si correggeva, senza violenza, quella disuguaglianza
che lo spirito di primogenitura avea introdotta nelle porzioni de'
figli di uno stesso padre.
Questa legge fu saggia e ben accetta a tutti: i possessori stessi
de' fedecommessi non perdevano tanto colla cessione ai legatari,
quanto guadagnavano coll'acquistar la libera proprietá de'
loro beni in una nazione che incominciava a sviluppare qualche
attivitá. I legami de' fedecommessi erano giá mal
tollerati, e da' dissipatori che volean abusare dei loro beni, e da'
saggi i quali voleano usarne in bene.
Forse sarebbe stato giusto aggiugnere alla legge la condizione
aggiuntavi dall'imperatore Leopoldo, allorché fece la riforma
dei fedecommessi di Toscana. Giudicando questo ottimo sovrano che
manca alla giustizia chiunque priva del diritto alla successione un
uomo nato e nodrito con esso, riserbò la capacitá di
succedere ai fedecommessi non solo ai possessori, ma anche ai
chiamati giá nati o da nascere da matrimoni contratti prima
della legge, molti de' quali eransi fatti colla speranza di una
successione fedecommessaria.
Rimanevano ancora alcuni altri oggetti da determinarsi: rimaneva a
prendersi delle misure sui tanti e sí ricchi monti di
maritaggi che vi sono in Napoli e che altro in realtá poi non
sono che fedecommessi di famiglia e di gente... Ma tali oggetti
dipendevano dalla legge testamentaria, dallo stato della nazione e
da tante altre considerazioni, che era meglio aspettare tempo
piú opportuno. Di rado nella rivoluzione francese ed in
quelle che sono scoppiate in conseguenza, di rado si è
peccato per soverchia lentezza in far le leggi: spessissimo per
soverchia precipitanza.
XXIV
LEGGE FEUDALE
La legge feudale richiedeva piú lungo esame e presentava
interessi piú difficili a conciliarsi. Quella dei
fedecommessi toglieva poco ai possessori dei medesimi, e quel poco
davalo ai figli ed ai fratelli loro: la legge dei feudi toglieva ai
feudatari moltissimo, e questo passava agli estranei, che talvolta
erano i loro nemici. Intanto, l'abolizione dei feudi era il voto
generale della nazione. Gli abitanti delle province ardevano di
tanta impazienza, che aveano quasiché strascinato il re a
dare alla feudalitá de' colpi, i quali sentivano piú
di democrazia che di monarchia. Io dico ciò per un modo di
dire, ma non son certo che la feudalitá convenga piú
all'una che all'altra di queste due forme di governo. La forma di
governo a cui la feudalitá meglio conviene è
l'aristocrazia: aristocratici erano i governi di tutta l'Europa
nell'epoca in cui la feudalitá prevaleva. Le monarchie
presenti dell'Europa eransi elevate sulle rovine della medesima: ove
essa era rimasta intatta, il governo era rimasto aristocratico,
siccome in Polonia; ove era stata temperata, ma non distrutta, era
surto una specie di governo misto, come in Inghilterra e nella
Svezia: ove era stata interamente distrutta, era surto un governo
aristocratico, come in una grandissima parte dell'Europa, e
specialmente in quella parte che altre volte componeva l'immensa
monarchia di Spagna, essa era rimasta in uno stato singolare, dove,
avendo perduti tutt'i diritti che rappresentava in faccia al
sovrano, avea conservati tutti quelli che una volta avea sul popolo.
Prendendo per punto di paragone un vassallo degl'imperatori svevi,
un pari della Gran Bretagna gli somiglia molto piú che un
napolitano quando è nel parlamento, il napolitano gli
somiglia molto piú dell'inglese quando è nelle sue
terre.
Ma i primi diritti sono gloriosi al feudatario e posson esser
utilissimi ed al sovrano ed allo Stato; i secondi sono al feudatario
vergognosi, perché non è mai glorioso tutto ciò
che è oppressivo e nocivo allo Stato, al sovrano, agli stessi
baroni, perché tendono a distruggere l'industria, dalla quale
solamente dipende la vera prosperitá di una nazione. Questi
diritti sono i diritti dei popoli barbari. Ovunque si sviluppa
l'industria, essi vanno a cadere in obblio, ed è interesse
degli stessi feudatari che ciò succeda. In Russia gli stessi
grandi possessori di terra hanno incominciato a dar libertá e
proprietá agli uomini che le abitano: con questa sola
operazione, han quasi triplicato il valore delle terre loro.
I feudatari prevedevano che la rivoluzione li avrebbe obbligati a
nuovi sacrifici, e bramavano che fossero i minori possibili. Taluni
repubblicani troppo ardenti avrebbero voluto loro toglier tutto. Tra
questi due estremi il mezzo era difficile a rinvenirsi. Non vi era
neanche un esempio da seguire: la Francia, ove i grandi feudatari
eran rimasti distrutti dalla guerra civile, non ebbe bisogno di
leggi dopo l'opera delle armi(35). Giuseppe secondo nella Lombardia
avea da lungo tempo eguagliata la condizione de' beni.
Molte popolazioni incominciarono dal fatto, prendendo il possesso di
tutti i beni de' baroni: se tutte avessero fatto lo stesso, la legge
sarebbe stata men difficile a concepirsi. La forza autorizza molte
cose che la ragione non deve ordinare, ed il popolo stesso ama di
veder approvati molti trascorsi che fremerebbe vedendo comandati.
La discussione del progetto di legge fu interessante. Le due parti
contendenti seguivano opinioni diverse, secondo i loro diversi
interessi; i princípi erano opposti, e, come suole avvenire
allorché si va agli estremi, né sempre veri né
sempre atti alla quistione.
I feudatari credevano che la conquista potesse essere un diritto; i
repubblicani la credevano sempre una forza, e, quando anche avesse
potuto diventar diritto, dicevano che, se un tempo i baroni aveano
conquistata la nazione, ora la nazione avea conquistati i baroni:
una nuova conquista potea spogliare gli usurpatori nel modo stesso e
collo stesso diritto con cui essi spogliato aveano altri usurpatori
piú antichi.
I feudatari credevano legittimi tutti i titoli che dipendevano
dall'antico governo, che essi riputavano del pari legittimo: i
patrioti credevano illegittimo tutto ciò che non era stato
fatto da una repubblica. Se si udivano i feudatari, tutto dovea
conservarsi; se si udivano i patrioti, tutto dovea distruggersi,
poiché, dichiarato una volta illegittimo un governo, non vi
era ragione per cui parte dei suoi atti si dovesse abolire e parte
conservare.
Questo era lo stesso che far la causa degli usurpatori e dei governi
e non dell'umanitá e della nazione, che eran tradite per
soverchio zelo dai loro stessi difensori. Oggi si dice: - Un re non
potea far questo; - domani un re avrebbe detto: - Questo non si
potea far da una repubblica. - Quando prenderemo noi per principio
la salute del popolo ed esamineremo, non ciò che un governo
potea, ma solo ciò che dovea fare?
Voler ricercare un titolo di proprietá nella natura è
lo stesso che voler distruggere la proprietá: la natura non
riconosce altro che il possesso, il quale non diventa
proprietá se non per consenso degli uomini. Questo consenso
è sempre il risultato delle circostanze e dei bisogni nei
quali il popolo si trova. Tutto ciò che la salute pubblica
imperiosamente non richiede, non può senza tirannia esser
sottomesso a riforma, perché gli uomini, dopo i loro bisogni,
nulla hanno e nulla debbono aver di piú sacro che i costumi
dei loro maggiori. Se si riforma ciò che non è
necessario riformare, la rivoluzione avrá molti nemici e
pochissimi amici.
La feudalitá presso di noi presentava una massa immensa di
possessi, di proprietá, di esazioni, di preminenze, di
diritti, acquistati, ricevuti, usurpati da diverse mani ed in tempi
diversi. I feudatari non furono in origine che semplici possessori
di fondi coll'obbligo della fedeltá, e, colla legge della
devoluzione, essi non differivano dagli altri proprietari se non per
aver ricevute dalla mano di un uomo quelle terre che altri ricevute
avea dalla sorte. Ma i grandi feudatari erano nel tempo istesso
grandi officiali della corona, ed, in tempi di anarchia o di
debolezza, quei rappresentanti della sovranitá, potenti ed
inamovibili, fecero obbliar la sovranitá che rappresentavano:
quei diritti, che essi esercitavano come officiali della corona,
divennero prima diritti del feudatario, indi della sua famiglia,
finalmente del feudo. In tempi di continue guerre civili, i pochi
uomini liberi che eran rimasti nelle nostre regioni, non avendo
né sicurezza né proprietá, chiesero la
protezione dei potenti e l'ottennero a prezzo di libertá.
Grandi erano certamente questi abusi; ma tale era
l'infelicitá dei tempi, tale la condizione degli uomini, tale
la desolazione delle nostre contrade, che essi dovettero sembrar
tollerabili effetti, e talora, giunti all'estremo, produssero il
ritorno del bene. Gli uomini moltiplicati dovettero estendere la
loro industria e reclamarono la loro libertá civile: è
questo il primo passo che le nazioni fanno verso la coltura. Un re
di spirito generoso, che voleva elevarsi, si rese forte col favore
del popolo, che egli difese contro gli altri tiranni minori, e le
monarchie di Europa sorsero dalle rovine dell'aristocrazia feudale.
Noi vediamo nella nostra storia tutti i passi dati dal popolo, le
opposizioni de' baroni, l'ondeggiar perpetuo de' sovrani a seconda
che temevano o de' baroni o de' popoli, e la rapacitá del
fisco, eterno traditore de' baroni, de' popoli e dei re. La storia
indica la strada da seguire uniforme alle idee de' popoli; le stesse
leggi feudali indicano la riforma della feudalitá; quella
riforma, che i popoli bramano, che i baroni non possono impugnare.
Non bastava una legge che dichiarasse abolita la feudalitá:
questa legge sarebbe stata piú pomposa che utile. Poco
rimaneva presso di noi che avesse l'apparenza feudale: il difficile
era riconoscer la feudalitá anche dove parea che non vi
fosse. I feudatari aveano de' diritti acquistati come officiali
della corona e come protettori de' popoli: tali diritti non doveano
piú esistere in una forma di governo, in cui la
sovranitá veniva restituita al popolo ed il cittadino non
dovea aver altro protettore che la legge. I baroni possedevano delle
terre: non bastava che queste fossero eguagliate alla condizione
delle altre. Se la riforma fosse rimasta a questi termini, i baroni,
sgravati dall'adoa e dalla devoluzione, divenuti proprietari di
terre libere, avrebbero guadagnato molto piú di quello che
loro dava l'esazione de' diritti incerti, vacillanti ed odiosi: il
popolo non avrebbe guadagnato nulla. In una nazione, in cui
l'industria è attiva, sará vantaggio del feudatario
far coltivare le sue terre dall'uomo libero, anziché dallo
schiavo. Una nazione oziosa e povera chiede esser sgravata dai
tributi: una nazione ricca ed industriosa è contenta di
pagare, purché abbia mezzi di accrescer la sua industria.
Nell'immensa estensione di terreni che i baroni possedevano, non vi
erano che pochi i quali appartenessero al feudo: negli altri voi
vedevate un cumulo di diritti diversi accatastati l'uno sopra
l'altro ed appartenenti a persone diverse, tra le quali era facile
il riconoscere che il piú potente dovea esser l'usurpatore.
Quindi veniva restituita alle popolazioni gran parte di quella massa
di terreni feudali, chiamati «demaniali de' feudi» e che
ne formavano la maggior parte; i boschi doveano per necessitá
divenire oggetti di pubblica ispezione; ai feudatari veniva a
rimaner pure tanto di terreno da esser ricchi, quando all'ozio
avessero sostituita l'industria; e la nazione, senza legge agraria,
avrebbe avuta, se non la perfetta eguaglianza, almeno quella
moderazione di beni, che in una gran nazione è piú
utile, meno pericolosa e piú vicina alla vera eguaglianza.
Non mai si vide piú chiaramente quanto il freddo e costante
esame sia piú pericoloso agli usurpatori che il caldo e
momentaneo entusiasmo. I baroni avrebbero mille volte amato
ritornare ai princípi della «conquista» e della
«legittimitá», che, sebbene in apparenza
piú distruttivi, erano piú facili a combattersi,
piú facili ad eludersi nell'esecuzione. Ma come combattere
princípi evidenti, che essi stessi aveano riconosciuti anche
nell'abolito governo?
Ad onta di tutto ciò, il progetto non passò senza
grandi dispareri: la spirante feudalitá avea tuttavia molti
difensori. Talun legislatore credeva nulla potersi decidere sulla
feudalitá, perché nulla avea deciso la Francia:
invincibile argomento per un rappresentante di una nazione libera ed
indipendente! Pagano credeva non esser giunto ancora il tempo di
decidere la controversia: egli riconosceva necessarie e giuste le
abolizioni de' diritti, ma voleva che non si toccassero i terreni,
quasi che un popolo non dovesse esser oppresso, ma potesse essere
legittimamente misero. Taluno volea che l'affare si fosse commesso
ad un tribunale, che si sarebbe di ciò incaricato; ma, se le
leggi sono fatte pel popolo, i giudizi sono fatti per i potenti, i
quali, col possesso, coi cavilli e talora colla prevaricazione,
riacquistano coi giudizi tutto ciò che il popolo avea
guadagnato colle leggi.
Tanto importa che le idee del legislatore sieno a livello con quelle
della nazione e che i progetti di legge contengano quelle idee
medie, che tutti gli uomini sentono ed a cui tutti convengono! Se si
fosse rimasto agli estremi, la legge non si sarebbe avuta o avrebbe
prodotta una guerra civile; essa avrebbe portata con sé
l'apparenza dell'ingiustizia. Fondata su princípi che nessuno
poteva negare, gli stessi baroni piú avversi alla rivoluzione
l'avrebbero sofferta, se non con indifferenza (poiché chi
potrebbe pretendere che taluno resti indifferente alla perdita di
tante ricchezze?), almeno con decoro.
Ma, nel tempo appunto in cui il governo era occupato della
discussione del progetto di questa legge, Championnet fu richiamato,
e Magdonald, che a lui successe, fu ben lontano dal voler sanzionare
ciò che il governo avea fatto. Si dovette aspettare Abrial,
il quale fu ragionevole e giusto. Ma intanto il tempo era scorso, ed
il timore di disgustar diecimila potenti fece perdere ai francesi ed
alla repubblica l'occasione di guadagnar gli animi di cinque
milioni.
È degna di osservazione la differenza che passa tra la
discussione che sulla feudalitá vi fu in Francia e quella che
vi è stata tra noi. Parlando della prima, Anquetil dice che
la discussione dell'Assemblea incominciò da una proposizione
fatta per render sicura l'esazione delle rendite a coloro che ne
possedevano i diritti, e, passando da idea in idea, si finí
coll'abolizione di tutti i diritti. In Francia s'incominciò
dalle massime moderate e si passò alle esagerate; in Napoli
da queste si ritornò a quelle. Ed era ciò nell'ordine
della natura, perché noi riprendevamo le idee dal punto
istesso nel quale le avean lasciate i francesi. Quindi è che
tra noi furono piú esagerate le opinioni de' privati che le
idee del governo. Il governo seguí la massima che le leggi
sulle proprietá hanno una giustizia propria, la quale
consiste nel far sí che ciascuno perda il meno che sia
possibile; e, nel caso della riforma feudale, si può far in
modo che guadagnino ambedue i partiti. Io per me son sicuro che i
feudatari potrebbero guadagnar piú con una legge nuova che
colle antiche. I diritti feudali si sostengono pel solo uso del
fòro. Da che fu imposto tra noi l'obbligo ai giudici di
dettar le loro sentenze sul testo espresso della legge, i diritti
feudali sono stati di giorno in giorno aboliti, e col tempo lo
saranno tutti. Ma una legge nuova dovea considerarsi piuttosto come
una transazione che come un decreto; ed il lunghissimo possesso
poteva per essa acquistar forza di titolo. La nuova legge feudale
non dovea aver per iscopo né chimerica eguaglianza di beni
né revindica di domíni, ma solamente di liberare il
popolo da tutto ciò che turbava l'esercizio
dell'autoritá pubblica, comprimeva e distruggeva l'industria
ed impediva la libera circolazione delle proprietá.
XXV
RELIGIONE
Oggi le idee de' popoli di Europa sono giunte a tale stato, che non
è possibile quasi una rivoluzione politica senza che
strascini seco un'altra rivoluzione religiosa, doveché prima
la rivoluzione religiosa era quella che per lo piú produceva
la politica. Da ciò forse nasce che le rivoluzioni moderne
abbiano meno durata delle antiche?(36).
In Francia la parte della rivoluzione religiosa dovette esser
violenta, perché violento era lo stato della nazione a questo
riguardo. Si riunivano in Francia tutti gli estremi. Essa avea
innalzata in Europa l'autoritá papale; essa era stata la
prima a scuoterne il giogo, ma scuotendolo non l'avea rotto come si
era fatto in Inghilterra, ma le antiche idee erano rimaste per
materia di eterne dispute su degli oggetti che conviene solamente
credere. Il clero era continuamente alle prese con Roma; i
parlamenti lo erano col clero; la corte ondeggiava tra il clero, i
parlamenti e Roma. La nazione non si potea arrestare ai primi passi,
una volta dati: l'incredulitá venne dietro all'esame; ma,
nata in mezzo ai partiti, risvegliar dovette la gelosia dei potenti,
e si vide in Francia la massima tolleranza ne' filosofi e la massima
intolleranza nel governo e nella nazione. Poche nazioni di Europa
possono, in questo pregio di barbara intolleranza, contendere coi
colti ed umani francesi.
La nazione napolitana trovavasi in uno stato meno violento. La
religione era un affare individuale; e, siccome esso non interessava
né il governo né la nazione, cosí le ingiurie
fatte agli dèi si lasciavano agli dèi istessi. Il
popolo napolitano amava la sua religione, ma la religione del popolo
non era che una festa, e, purché la festa se gli fosse
lasciata, non si curava di altro. In Napoli non vi era da temere
nessuno de' mali che l'abuso della religione ha persuasi a tanti
popoli della terra.
Il fondo della religione è uno, ma veste nelle varie regioni
forme diverse a seconda della diversa indole dei popoli. Essa
rassomiglia molto alla favella di ciascuno di essi. In Francia, per
esempio, al pari della lingua, è piú didascalica che
in Italia; in Italia è piú poetica, cioè
piú liturgica, che in Francia. In Francia la religione
interessa piú lo spirito che il cuore ed i sensi; in Napoli,
piú i sensi ed il cuore che lo spirito.
Qual altra nazione di Europa si può vantare di non aver mai
prodotta una setta di eresia e di essersi sempre ribellata ogni
volta che le si è parlato di Sant'officio e d'Inquisizione?
La nazione che ha eretto un tribunale nazionale indipendente dal re
contro questa barbara istituzione, che tutte le altre nazioni di
Europa hanno almen per qualche tempo riconosciuta e tollerata, deve
essere la piú umana di tutte.
In Napoli era facile far delle riforme sulle ricchezze del clero
tanto secolare quanto regolare. Una gran parte della nazione era in
lite col medesimo per ispogliarlo delle sue rendite, né il
rispetto per la religione e per i suoi ministri l'arrestava.
Perché dunque, quando queste riforme si vollero tentare dalla
repubblica, furono odiate? Perché i nostri repubblicani,
seguendo sempre idee troppo esagerate, voleano far due passi nel
tempo in cui ne doveano far uno: l'altro avrebbe dovuto venir da
sé, e sarebbe venuto. Ma essi, mentre voleano spogliare i
preti, volean distruggere gli dèi; si uní l'interesse
dei primi e dei secondi, e si rese piú forte la causa dei
primi. Ritorniamo sempre allo stesso principio: si volea fare
piú di quello che il popolo volea, e conveniva retrocedere;
si potea giugnere alla mèta, ma se ne ignorava la strada.
Conforti credeva che una religione non si possa riformare se non per
mezzo di un'altra religione. La religione cristiana ridotta a poco a
poco alla semplicitá del Vangelo; riformate nel clero le
soverchie ricchezze di pochi e la quasi indecente miseria di molti;
diminuito il numero dei vescovati e dei benefici oziosi; tolte
quelle cause che oggi separan troppo gli ecclesiastici dal governo e
li rendono quasi indipendenti, sempre indifferenti e spesso anche
nemici, ecc. ecc.: è la religione che meglio di ogni altra si
adatta ad una forma di governo moderato e liberale(37). Nessun'altra
religione tra le conosciute fomenta tanto lo spirito di
libertá. La pagana avea per suo dogma fondamentale la forza:
produceva degli schiavi indocili e dei padroni tirannici. La
religion cristiana ha per base la giustizia universale: impone dei
doveri ai popoli egualmente che ai re, e rende quelli piú
docili, questi meno oppressori. La religione cristiana è
stata la prima che abbia detto agli uomini che Iddio non approva la
schiavitú: per effetto della religione cristiana, abbiamo
nell'Europa moderna una specie di libertá diversa
dall'antica; ed è probabile che i primi cristiani, nella loro
origine, altro non fossero che persone le quali volevano, in tempi
corrottissimi, ridurre la piú superstiziosa idolatria alla
semplicitá della pura ed eterna ragione, ed il piú
orribile dispotismo che mai abbia oppresso la cervice del genere
umano (tale era quello di Roma) alle norme della giustizia.
Ma gli uomini (diceva Conforti) corrono sempre agli estremi. La
filosofia, dopo aver predicata la tolleranza, è diventata
intollerante(38), senza ricordarsi che, se non è degno della
religione il forzar la religione, non è degno neanche della
filosofia. Non è ancora dimostrato che un popolo possa
rimaner senza religione: se voi non gliela date, se ne
formerá una da se stesso. Ma, quando voi gliela date, allora
formate una religione analoga al governo, ed ambedue concorreranno
al bene della nazione: se il popolo se la forma da sé, allora
la religione sará indifferente al governo e talora nemica.
Cosí tutti gli abusi della religione cristiana sono nati da
quegli stessi mezzi che si voglion prendere oggi per ripararli.
Conforti credeva che la Francia istessa si sarebbe un giorno
ricreduta de' suoi princípi, e che, quando si credeva di aver
distrutti i preti, altro non avea fatto che accrescerne il
desiderio, e che avrebbe dovuto renderli di nuovo, contentandosi il
governo di potersi restringere a quelle riforme alle quali si
sarebbe dovuto arrestare.
Ma gli altri erano lontani dall'avere le idee di Conforti, né
seppero mai determinarsi a prendere su tale oggetto un espediente
generale(39). Ondeggiando tra lo stato della nazione e gli esempi
della rivoluzion di Francia, abbandonarono quest'oggetto importante
alla condotta degli agenti subalterni; e questo fu il peggior
partito a cui si potessero appigliare. Un atto di forza avrebbe
fatto odiare e temere il governo: questa indolenza lo fece odiare e
disprezzare nel tempo istesso.
Il popolo si stancò tra le tante opinioni contrarie degli
agenti del governo, e provò tanto maggior odio contro i
repubblicani quanto che vedeva le loro operazioni essere effetti
della sola loro volontá individuale. L'odio contro
gl'individui che governano, odio che poco può in un governo
antico, è pericolosissimo in un governo nuovo; perché,
siccome il governo nuovo è tale quale lo formano gl'individui
che lo compongono, il popolo contro gl'individui niun soccorso
aspetta da un governo che conosce, e l'odio contro di quelli diventa
odio contro di questo.
È un carattere indelebile dell'uomo quello di sostener con
piú calore le opinioni proprie che le altrui, piú le
opinioni che crede nuove e particolari che le antiche e comuni. Io
credo, e fermamente credo, che, se le operazioni che taluni agenti
si permisero contro i preti fossero state ordinate dal governo, il
loro zelo sarebbe stato minore. La legge nulla determinava: il suo
silenzio proteggeva le persone ed i beni degli ecclesiastici; quindi
quei pochi agenti del governo, che voleano dare sfogo alle loro idee
proprie, si doveano restringere agl'insulti. Or gl'insulti ricadono
piú direttamente contro gli dèi, e le operazioni
contro gli uomini. La condotta di molti repubblicani era tanto
piú pericolosa quanto che si restringeva alle sole parole:
mentre si minacciavano i preti, si lasciavano; ed essi ripetevano al
popolo che gli agenti del governo l'aveano piú colla
religione che coi religiosi, perché, mentre si lasciavano i
beni, si attaccavano le opinioni. Si avrebbe dovuto far precisamente
il contrario, ed allora tutto sarebbe stato nell'ordine.
Il governo si avvide, ma tardi, dell'errore: volle emendarsi e fece
peggio. Il popolo comprese che il governo operava piú per
timore che per interna persuasione; e, quando ciò si è
compreso, tutto è perduto.
XXVI
TRUPPA
Un governo nuovo ha piú bisogno di forza che un governo
antico, perché l'esecuzione della legge, per quanto sia
giusta, non può esser mai con sicurezza affidata al pubblico
costume: gli scellerati, che non mancano giammai, hanno campo
maggiore di calunniarla e di eluderla; ed i deboli sono piú
facilmente sedotti o trascinati nell'ondeggiar dubbioso tra le
antiche opinioni e le nuove.
I francesi impedirono però ogni organizzazione di forza nella
repubblica napolitana. Il primo loro errore fu quello di temer
troppo la capitale; il secondo, di non temere abbastanza le
province. Essi non aveano truppa per inviarvene, e di ciò non
poteano esser condannati; ma essi non permisero che si organizzasse
truppa nazionale che vi potesse andare in loro vece, e di ciò
non possono esser scusati.
Dagli avanzi dell'esercito del re di Napoli si potea formare sul
momento un corpo di trentamila uomini, di persone che altro non
chiedevano che vivere. Essi formavano il fiore dell'esercito del re,
poiché erano quelli appunto che erano stati gli ultimi a
deporre le armi. Tra questi, per il loro coraggio, si distinsero i
«camisciotti»: contesero a palmo a palmo il terreno fino
al castello del Carmine. Ciò dovea farli stimare, e li fece
odiare. Furono fatti tutti prigionieri: conveniva o assoldarli per
la repubblica o mandarli via. Si lasciarono liberi per Napoli, e
furono stipendiati da coloro che in segreto macchinavano la
rivoluzione. Si tennero cosí i controrivoluzionari nel seno
istesso della capitale.
S'incominciò a raccogliere i soldati del re in Capua, indi
un'altra volta in Portici. La repubblica napolitana era in istato di
mantenerli; essi avrebbero potuto salvar la patria, salvar l'Italia:
ma, appena si vide incominciare l'operazione, che fu proibita. A
quei pochissimi soldati che si permise di ritenere non si
accordarono se non a stento le armi, che erano tutte nei castelli in
potere dei francesi.
Intanto si volea disarmare la popolazione. Come farlo senza forze?
Ma i francesi temeano egualmente le popolazioni ed i patrioti; e
questo loro soverchio timore fece dipoi che le popolazioni si
trovassero armate per offenderli, ed i patrioti per difendersi
disarmati. Si ordinava il disarmo, ed intanto i custodi francesi
delle armi, non conoscendo gli uomini e le cose in un paese per essi
nuovo, le vendevano; e ne compravano egualmente tanto il governo
repubblicano, a cui era giusto restituirle senza paga, quanto i
traditori, a cui era ingiusto darle anche con paga. I mercenari, che
avrebbero potuto diventar nostri amici, non avendo onde vivere,
passarono a raddoppiar la forza dei nemici nostri.
Oltre di una truppa di linea, si avrebbe potuto sollecitamente
organizzare una gendarmeria: allora quando ordinossi a tutt'i baroni
di licenziare le loro genti d'armi, costoro sarebbero passati
volentieri al servizio della repubblica; essi non sapevano far altro
mestiere: abbandonati dalla repubblica, si riunirono agl'insorgenti.
Essi avrebbero potuto formare un corpo di cinque in seimila uomini,
e tutti valorosi.
Si ordinò congedarsi gli armigeri baronali, e non si
pensò alla loro sussistenza; si soppressero i tribunali
provinciali, e non si pensò alla sussistenza di tanti
individui che componevano le loro forze e che ascendevano ad un
numero anche maggiore degli armigeri... - Essi sono dei scellerati -
diceva taluno, il quale voleva anche i gendarmi eroi. Ma questi
scellerati continuarono ad esistere, poiché era impossibile
ed inumano il distruggerli, ed esistettero a danno della repubblica.
Erasi obbliato il gran principio che «bisogna che tutto il
mondo viva».
L'avea del tutto obbliato De Rensis, allorché pubblicò
quel proclama con cui diceva agli uffiziali del re che «a
chiunque avesse servito il tiranno nulla a sperar rimanea da un
governo repubblicano». Questo linguaggio, in bocca di un
ministro di guerra, dir volea a mille e cinquecento famiglie, che
aveano qualche nome e molte aderenze nella capitale: - Se volete
vivere, fate che ritorni il vostro re. - Questo proclama
segnò l'epoca della congiura degli uffiziali. Il proclama fu
corretto dal governo col fatto, poiché molti uffiziali del re
furono dalla repubblica impiegati. Ben si vide dalle persone che
avean senno esser stato esso piuttosto feroce nelle parole che nelle
idee, effetto di quella specie di eloquenza che allora predominava,
e per la quale la parola la piú energica si preferiva sempre
alla piú esatta; ma, io lo ripeto, nelle rivoluzioni passive,
quando le opinioni sono varie ed ancora incerte, le parole poco
misurate posson produrre gravissimi mali. Le eccezioni, le quali si
reputan sempre figlie del favore, non distruggevano le impressioni
prodotte una volta dalla legge generale: molti rimasero ancora
ondeggianti; moltissimi si trovavano giá aver dati passi
irretrattabili contro un governo che credevano ingiusto. La durata
della nostra repubblica non fu che di cinque mesi: nei primi gli
uffiziali non poterono ottener gradi; negli ultimi non vollero
accettarne.
Si vuole dippiú? Degli stessi insorgenti si avrebbero potuto
formare tanti amici. Essi seguivano un capo, il quale per lo
piú non era che un ambizioso: questo capo, quando non avesse
potuto estinguersi, si poteva guadagnare, e le sue forze si
sarebbero rivolte a difendere quella repubblica, che mostrava di
voler distruggere.
XXVII
GUARDIA NAZIONALE
Il nostro governo erasi ridotto a fondar tutte le speranze della
patria sulla guardia nazionale. Ma la guardia nazionale dev'essere
la forza del popolo, e non mai quella del governo.
Tutto fu ruinato in Francia, quando il governo credette non dover
avere altra forza: la Vandea non fu mai ridotta, gli assassini
ingombrarono tutte le strade, non vi fu piú sicurezza
pubblica ed invece della tranquillitá si ebbero le sedizioni.
Il primo difetto di ogni guardia nazionale è l'esser
piú atta all'entusiasmo che alla fatica; il secondo è
che, quando non difende la nazione intera, quando a buon conto una
parte della nazione è armata contro dell'altra, è
impossibile evitare che ciascun partito non abbia tra le forze
dell'altro dei seguaci, degli amici, i quali impediscano o almeno
ritardino le operazioni.
La vera forza della guardia nazionale risulta dall'uniformitá
dell'opinione: ove non siasi giunto ancora a tale uniformitá,
convien usare molta scelta nella sua formazione. Non si debbono
ammettere se non quelli i quali si presentino per volontario
attaccamento alla causa, o che abbiano nella loro educazione
princípi di onestá e nel loro stato civile una cautela
di responsabilitá. Quei tali che Aristotile direbbe formare
in ogni cittá la classe degli ottimi, se non sono entusiasti,
di rado almeno saranno traditori.
Io parlo sempre de' princípi di una rivoluzione passiva. Nei
primi giorni della nostra repubblica infiniti furono quelli che
diedero il loro nome alla milizia nazionale: rispettabili
magistrati, onestissimi cittadini, i principali tra i nobili, quanto
insomma vi era di meglio nella cittá, disperando dell'abolito
governo, voleva farsi un merito col nuovo. Conveniva ammetterli: si
sarebbe ottenuto il doppio intento di compromettere molta gente e di
guadagnare l'opinione del popolo: in ogni evento infelice, il libro
che conteneva i loro nomi avrebbe forse potuto formar la salute di
molti. Ma si volle spinger la parzialitá anche nella
formazione della guardia nazionale: allora il maggior numero si
ritirò, e non si ebbe l'avvertenza neanche di conservare il
libro che conteneva i loro nomi.
Si formarono quattro compagnie di patrioti: essi erano tutti
entusiasti, tutti bravi. Ma quattro compagnie erano poche. Si
dovette ritornare al punto donde si era partito, ed ammettere coloro
che si erano esclusi. Ma essi non ritornavano piú. Si
ordinò che nessuno potesse essere ammesso a cariche civili e
militari, se prima non avesse prestato il servizio nella guardia
nazionale. Ciò era giusto e dovea bastare. Ma si volle
ordinare che tutti si ascrivessero, e nel tempo stesso si
ordinò un'imposizione per coloro che volessero essere
esentati: dico «volessero», perché i motivi di
esenzione erano tali, che ciascuno potea fingerli, ciascuno potea
ammetterli, senza timore di poter essere smentito se li fingeva, o
rimproverato se gli ammetteva. Che ne avvenne? Coloro che poteano
esser mossi dal desiderio delle cariche erano senza dubbio i
migliori del paese, ma essi per lo piú erano ricchi, e
comprarono l'esenzione: furono costretti ad ascriversi coloro che
non aveano né patriottismo né onestá né
beni, e cosí la legge fece passar le armi nelle mani dei
nostri nemici.
Si volle sforzar la nazione, che solo si dovea invitare.
L'imposizione riuscí gravosissima per le province. Il governo
era passato da un estremo all'altro: prima non volea nessuno, poi
voleva tutti. Era però da riflettersi che questa misura fu
presa quando giá incominciava a vedersi lo stato intero delle
cose volgersi ad inevitabile rovina. Allora, siccome in chi opera
non vi è luogo a calcolo, cosí in chi giudica non deve
predominar il sistema. Il governo allora giuocava, come suol dirsi,
tutto per tutto. Trista condizione di tempi, nei quali taluno, per
non aver potuto far ciò che voleva, è poi costretto a
volere ciò che non può! Altre massime, altra direzione
nelle prime operazioni avrebbero fatta evitar la necessitá di
dover fondare tutte le speranze della patria nella guardia
nazionale; e forse la patria sarebbesi salvata.
Se la guardia nazionale in Francia erasi sperimentata inutile, in
Napoli dovea prevedersi inevitabilmente nociva, perché,
essendo la rivoluzione passiva, la massima parte della nazione dovea
supporsi almeno indifferente ed inerte. Avendo io osservato le
guardie nazionali in molti luoghi delle province, ho sempre trovata
piú diligente ed energica quella dove o erasi sofferto o
temevasi danno dalle insorgenze. L'amor di sé ridestava
l'amor della patria. Pure, ad onta di tutto ciò, la guardia
nazionale non produsse in noi alcuno sconcerto, e nella capitale fu
piú numerosa e piú attiva di quello che si avrebbe
potuto sperare. Insomma, né il governo mancava di rette
intenzioni, né il popolo di buona volontá: l'errore
era tutto nelle massime e nella prima direzione data agli affari. A
misura che ci avviciniamo al termine di questo Saggio, vediamo i
mali moltiplicarsi: son come tanti fiumi, e tutti diversi, ma che
intanto derivano dalla stessa sorgente; ed il maggior utile, che
trar si possa dalla osservazione di questi avvenimenti, io credo che
sia appunto quello di vedere quanti generi di mali posson derivare
da un solo errore. Gli uomini diventeranno piú saggi, quando
conosceranno tutte le conseguenze che un picciolo avvenimento
può produrre.
XXVIII
IMPOSIZIONI
Championnet, entrando coll'armata vittoriosa in Napoli, impose una
contribuzione di due milioni e mezzo di ducati da pagarsi tra due
mesi. Tale imposizione era assolutamente esorbitante per una sola
cittá giá desolata dalle immense depredazioni che il
passato governo vi avea fatte. Championnet avrebbe potuto esigere il
doppio a poco a poco, in piú lungo spazio di tempo. Quando
Championnet se ne avvide, si pentí e mostrò pentirsi
del fatto, ma non lo ritrattò; anzi stabilí quindici
milioni per le province, a suo tempo.
Ma chi potrebbe esporre il modo, quasi direi capriccioso, col quale
un'imposizione per se stessa smoderata fu ripartita? Nulla era
piú facile che seguire il piano della decima che giá
esigeva il re, e proporzionare cosí la nuova imposizione alla
quantitá dei beni che nell'officio della decima trovavasi
giá liquidata. Si videro famiglie milionarie tassate in pochi
ducati, e tassate in somme esorbitantissime quelle che nulla
possedeano: ho visto la stessa tassa imposta a chi avea sessantamila
ducati all'anno di rendita, a chi ne avea dieci, a chi ne avea
mille. Le famiglie dei patrioti si vollero esentare, mentre forse
era piú giusto che dassero le prime l'esempio di contribuire
con generositá ai bisogni della patria. Si cangiarono tutte
le idee: ciò che era imposizione fu considerato come una
pena, e non si calcolarono tanto i beni quanto i gradi di
aristocrazia che taluno avea nel cuore. - Noi tassiamo l'opinione -
risposero i tassatori ad una donna che si lagnava della tassa
imposta a suo marito, il quale, non avendo altro che il soldo di
uffiziale, fuggendo il re, avea perduto tutto. Si tenne da coloro ai
quali il governo avea commesso l'affare una massima che appena si
sarebbe tollerata in un generale di un'armata vittoriosa e nemica.
Una tassa imposta sul pensiero apriva tutto il campo all'arbitrio.
Questo è il male che producono le imposizioni male immaginate
e mal dirette; quando anche evitate l'ingiustizia, non potete
evitare il sospetto che producono sul popolo gli effetti medesimi
dell'ingiustizia.
Difatti non vi era in Napoli tanto danaro da pagar l'imposizione. Fu
permesso di pagarla in metalli preziosi ed in gioie. Chi era
incaricato a riceverle ne fu nel tempo istesso il tesoriere, il
ricevitore, l'apprezzatore; ed il popolo credette che tutto fosse
trafficato non colla bilancia dell'equitá, ma con quella
dell'interesse dell'esattore. Io non intendo affermare ciò
che il popolo credeva. Il governo, per dar fine ai tanti reclami,
nominò una commissione composta di persone superiori ad ogni
sospetto.
Mentre in Napoli si esigeva una tale imposizione, le province erano
vessate per un ordine del nuovo governo, con cui si obbligavano le
popolazioni a pagar anche l'attrasso di ciò che doveano
all'antico. Quest'ordine fatale dovette esser segnato in qualche
momento d'inconsideratezza e per ragion di pratica. Si seguí
l'antico stile, lo stile di tutt'i governi: difatti fu un solo dei
membri componenti il governo quegli che sottoscrisse il decreto, ed
io so per cosa certa che non lo credette di tanta importanza da
meritare una discussione cogli altri suoi compagni. Non
avvertí che quello stile non conveniva ad una rivoluzione.
Poco tempo prima, il governo avea abolito un terzo della decima, ed
avea fatta sperare l'abolizione intera. La decima interessava
piú la capitale che le province, e di quella piú che
di queste, per eterna fatalitá, si occupò sempre il
nostro governo. Ma le province si doveano aspettar mai questo
linguaggio da un governo nuovo, che avea bisogno di guadagnar la
loro affezione?
In Ostuni Giuseppe Ayroldi, uno de' principali della cittá e
che conosceva gli uomini, si oppose alla pubblicazione ed
all'esecuzione dell'ordine. Egli ne prevedeva le funeste
conseguenze. Il governo non si rimosse; e quale ne fu l'effetto?
Ostuni si rivoltò, ed Ayroldi fu la prima vittima del furore
popolare.
Esse nel tempo stesso erano tormentate dalle requisizioni arbitrarie
di taluni commissari e generali. Mali inevitabili in ogni guerra, ma
maggiori sempre quando la nazione vincitrice non ha quell'energia di
governo, che tutto attira a sé e fa sí che le passioni
dei privati non turbino l'unitá delle pubbliche operazioni.
L'esercito di una repubblica, se non è composto dei
piú virtuosi degli uomini, cagionerá sempre maggiori
mali dell'esercito di un re. Questi mali portano sempre seco loro il
disgusto de' popoli verso colui che ha vinto, e impongono al
vincitore verso l'umanitá l'obbligo di un compenso infinito,
che solo può assicurare la conquista e quasi render legittima
la forza.
XXIX
FAIPOULT(40)
Finalmente venne Faipoult. Egli con un editto, in cui si ripeteva un
decreto del Direttorio esecutivo, dichiarò tutto ciò
che la conquista avea dato alla nazione francese. Si parlava di
conquista dopo che si era tante volte promessa la libertá; e,
per conciliar la promessa e l'editto, si chiamava «frutto
della conquista» tutto ciò che apparteneva al fuggito
re.
Ma quali erano i beni del re, che non fossero della nazione? Si
chiamava «fondo del re» la reggia, che suo padre non
avea al certo condotto da Spagna; si chiamavano «beni del
re» i fondi dell'ordine di Malta e dell'ordine costantiniano,
i quali erano certamente de' privati(41); i monasteri, che erano de'
monaci e che, ove non vi fossero piú monaci, non
perciò diventavano beni del re; gli allodiali, de' quali il
re non era che amministratore; e si spinse la cosa fino al segno di
dichiarar beni del re i banchi, deposito del danaro de' privati, la
fabbrica della porcellana e gli avanzi di Pompei, nascosti ancora
nelle viscere della terra. Il re istesso, ne' momenti della maggior
ebbrezza del suo potere, non avea giammai tenuto un simile
linguaggio, e forse in bocca di un re sarebbe stato meno dannoso
alla nazione e meno strano: meno dannoso, perché, per quanto
ei si prendesse, tutto rimaneva alla nazione, tra la quale egli
stesso restava; meno strano, perché egli era realmente il
capo di quel governo, e non vi era nei suoi detti la contraddizione
che si osservava nell'editto di Faipoult.
Tale editto potea far rivoltar la nazione: Championnet lo previde e
lo soppresse; Faipoult si oppose, e Championnet discacciò
Faipoult.
O Championnet, tu ora piú non esisti; ma la tua memoria
riceva gli omaggi dovuti alla fermezza ed alla giustizia tua. Che
importa che il Direttorio abbia voluto opprimerti? Egli non ti ha
però avvilito. Tu diventasti allora l'idolo della nazione
nostra.
Il richiamo di Championnet fu un male per la repubblica napolitana.
Io non voglio decidere del suo merito militare: ma egli era amato
dal popolo di Napoli; e questo era un merito ben grande.
XXX
PROVINCE - FORMAZIONE DI DIPARTIMENTI
Ma quale intanto era lo stato delle province? Esse finalmente
doveano richiamar l'attenzione del governo, forse, fino a quel
punto, troppo occupato della sola capitale. Il miglior partito
sarebbe stato di farvi le minori novitá possibili; ma, come
sempre suole avvenire, s'incominciò dal farsene le piú
grandi e le meno necessarie. Il maggior numero delle rivoluzioni ha
avuto un esito infelice per la soverchia premura di cangiare i nomi
delle cose.
S'incominciò dalla riforma dei dipartimenti. Volle
incaricarsi di quest'opera Bassal, francese, che era venuto in
compagnia di Championnet. Qual mania è mai quella di molti di
voler far tutto da loro! Quest'uomo, il quale non avea veruna
cognizione del nostro territorio, fece una divisione ineseguibile,
ridicola. Un viaggiatore, che dalla cima di un monte disegni di
notte le valli sottoposte che egli non abbia giammai vedute, non
può far opera piú inetta(42).
La natura ha diviso essa istessa il territorio del regno di Napoli:
una catena non interrotta di monti lo divide da Occidente ad Oriente
dagli Apruzzi fino all'estremitá delle Calabrie; i fiumi, che
da questi monti scorrono ai due mari che bagnano il nostro
territorio a settentrione ed a mezzogiorno, formano le suddivisioni
minori. La natura dunque indicava i dipartimenti: la popolazione, i
rapporti fisici ed economici di ciascuna cittá o terra
doveano indicare le centrali ed i cantoni. Invece di ciò, si
videro dipartimenti che s'incrociavano, che si tagliavano a vicenda;
una terra, che era poche miglia discosta dalla centrale di un
dipartimento, apparteneva ad un'altra da cui era lontana cento
miglia; le popolazioni della Puglia si videro appartenere agli
Apruzzi; le centrali non furono al centro, ma alle circonferenze;
alcuni cantoni non aveano popolazione, mentre moltissimi ne aveano
soverchia, perché sulla carta si vedevano notati i nomi dei
paesi e non le loro qualitá. Si vuol di piú? Molte
centrali di cantoni non erano terre abitate, ma o monti o valli o
chiese rurali, ecc. ecc., che aveano un nome sulle carte; molte
terre, avendo un doppio nome, si videro appartenere a due cantoni
diversi.
Dopo un mese, il governo, che non avea potuto impedire l'opera del
cittadino Bassal, la dovette solennemente abolire, e fu
necessitá ricorrere a quel metodo col quale avrebbe dovuto
incominciare, cioè d'incaricare di un'opera geografica i
geografi nostri. Frattanto si comandò che si conservasse
l'antica divisione delle province, la quale, sebbene difettosa, era
però tollerabile. Ma intanto si crede forsi picciolo male che
il governo (poiché il popolo non conosceva né era
obbligato a conoscere Bassal), con ordini male immaginati,
ineseguibili, strani, perda nell'animo della popolazione quella
opinione di saviezza che sola può ispirare la confidenza?
XXXI
ORGANIZZAZIONE DELLE PROVINCE
Forse il miglior metodo per organizzare le province era quello di
far uso delle autoritá costituite che giá vi erano.
Tutte le province aveano di giá riconosciuto il nuovo
governo: le antiche autoritá o conveniva distruggerle tutte,
o tutte conservarle. Non so quale di questi due mezzi sarebbe stato
il migliore: so che non si seguí né l'uno né
l'altro, ed i consigli mezzani non tolsero i nemici né
accrebbero gli amici.
Con un proclama del nuovo governo si ordinò a tutte le
antiche autoritá costituite delle province che rimanessero in
attivitá fino a nuova disposizione. Intanto s'inviarono da
per tutto dei «democratizzatori», i quali urtavano ad
ogni momento la giurisdizione delle autoritá antiche; e,
siccome queste erano ancora in attivitá, rivolsero tutto il
loro potere a contrariar le operazioni dei democratizzatori novelli.
In tal modo si permise loro di conservar il potere, per rivolgerlo
contro la repubblica, quando ne fossero disgustati; e s'inviarono i
democratizzatori, perché avessero un'occasione di
disgustarsi.
Quale strana idea era quella dei democratizzatori? Io non ho mai
compreso il significato di questa parola. S'intendea forse parlar di
coloro che andavano ad organizzar un governo in una provincia? Ma di
questi non ve ne abbisognava al certo uno per terra. S'intendeva di
colui che andava, per cosí dire, ad organizzare i popoli e
render gli animi repubblicani? Ma questa operazione né si
potea sperare in breve tempo né richiedeva un commissario del
governo. Le buone leggi, i vantaggi sensibili che un nuovo governo
giusto ed umano procura ai popoli, le parole di pochi e saggi
cittadini, che, vivendo senz'ambizione nel seno delle loro famiglie,
rendonsi per le loro virtú degni dell'amore e della
confidenza dei loro simili, avrebbero fatto quello che il governo da
sé né dovea tentare né potea sperare.
Quando voi volete produrre una rivoluzione, avete bisogno di
partigiani; ma, quando volete sostenere o menare avanti una
rivoluzione giá fatta, avete bisogno di guadagnare i nemici e
gl'indifferenti. Per produrre la rivoluzione, avete bisogno della
guerra, che sol colle sètte si produce; per sostenerla, avete
bisogno della pace, che nasce dall'estinzione di ogni studio di
parti. A persuadere il popolo sono meno atti, perché
piú sospetti, i partigiani che gl'indifferenti. Quindi
è che, in una rivoluzione passiva, voi dovete far piú
conto di coloro che non sono dalla vostra che di quelli che
giá ci sono; e, siccome fu un errore e l'istituzione della
commissione censoria e la prima pratica seguíta per la
formazione della guardia nazionale, perché tendevano a
ristringer le cose tra coloro soli che eran dichiarati per la buona
causa, cosí fu anche un errore, e fu frequente presso di noi,
l'impiegare colui che volontariamente si offeriva, in preferenza di
colui che volea esser richiesto, ed il servirsi dell'opera dei
giovani anziché di quella degli uomini maturi. Non quelli che
con facilitá, ma bensí che con difficoltá
guadagnar si possono, sono coloro che piú vagliono sugli
animi del popolo. I giovani non vi mancano mai nella rivoluzione;
Russo li credeva perciò piú atti alla medesima: se
egli con ciò volea intendere che erano piú atti a
produrla, avea ragione; se poi credeva che fossero perciò
piú atti a sostenerla, s'ingannava. I giovani possono molto
ove vi è bisogno di moto, non dove vi è bisogno di
opinione.
Giovanetti inesperti, che non aveano veruna pratica del mondo,
inondarono le province con una «carta di
democratizzazione», che Bisceglia, allora membro del comitato
centrale, concedeva a chiunque la dimandava. Essi non erano
accompagnati da verun nome; fortunati quando non erano preceduti da
uno poco decoroso! Non aveano veruna istruzione del governo:
ciascuno operava nel suo paese secondo le proprie idee; ciascuno
credette che la riforma dovesse esser quella che egli desiderava:
chi fece la guerra ai pregiudizi, chi ai semplici e severi costumi
dei provinciali, che chiamò «rozzezze»:
s'incominciò dal disprezzare quella stessa nazione che si
dovea elevare all'energia repubblicana, parlandole troppo altamente
di una nazione straniera, che non ancora conosceva se non
perché era stata vincitrice; si urtò tutto ciò
che i popoli hanno di piú sacro, i loro dèi, i loro
costumi, il loro nome. Non mancò qualche malversazione, non
mancò qualche abuso di novella autoritá, che
risvegliava gli spiriti di partito, non mai estinguibili tra le
famiglie principali dei piccioli paesi. Gli animi s'inasprirono. Il
secondo governo vide il male che nasceva dall'errore del primo:
Abamonti specialmente richiamò quanti ne potette di questi
tali democratizzatori. Ma il male era giá troppo inoltrato;
il vincolo sociale dei dipartimenti erasi giá rotto,
poiché si era giá tolta l'uniformitá della
legge e la riunione delle forze: non mancava che un passo per la
guerra civile, ed infatti poco tardò a scoppiare.
Come no? Una popolazione scosse il giogo del giovanetto; le altre la
seguirono: le popolazioni che eran repubblicane, cioè che
aveano avuta la fortuna di non aver democratizzatori o di averli
avuti savi si armarono contro le insorgenti. Ma queste aveano idee
comuni, poiché quelle dell'antico governo eran comuni a
tutte; s'intendevano tra loro; le loro operazioni erano concertate.
Nessuno di questi vantaggi avevano le popolazioni repubblicane. Le
antiche autoritá costituite, che conservavano tuttavia molto
potere, erano, almeno in segreto, per le prime. Qual meraviglia se,
dopo qualche tempo, le popolazioni insorgenti, sebbene sulle prime
minori di numero e di forze, oppressero le repubblicane?
Si volle tenere una strada opposta a quella della natura. Questa
forma le sue operazioni in getto, ed il disegno del tutto precede
sempre l'esecuzione delle parti: da noi si vollero fare le parti
prima che si fosse fatto il disegno.
XXXII
SPEDIZIONE CONTRO GL'INSORGENTI DI PUGLIA
La nazione napolitana non era piú una: il suo territorio si
potea dividere in democratico ed insorgente. Ardeva l'insorgenza
negli Apruzzi e comunicava con quella di Sora e di Castelforte.
Queste insorgenze si doveano in gran parte all'inavvertenza ed al
picciol numero dei francesi, i quali, spingendo sempre innanzi le
loro conquiste né avendo truppa sufficiente da lasciarne
dietro, non pensarono ad organizzarvi un governo. Che vi lasciarono
dunque? L'anarchia. Questa non è possibile che duri
piú di cinque giorni. Che ne dovea avvenire? Dopo qualche
giorno, dovea sorgere un ordine di cose, il quale si accostasse
piú all'antico governo, che i popoli sapeano, piuttosto che
al nuovo, che essi ignoravano; e l'idea dei nuovi conquistatori
dovea associarsi negli animi loro alla memoria di tutti i mali che
avea prodotti l'anarchia.
Il cardinal Ruffo, il quale ai primi giorni di febbraio avea
occupata la Calabria dalla parte di Sicilia, spingeva un'altra
insorgenza verso il settentrione e veniva a riunirsi alle altre
insorgenze in Matera. Il governo troppo tardi avea spedito nelle
Calabrie due commissari, tali appunto quali gli abitanti non gli
voleano: per che, senza forze, erano stati costretti a fuggire, e fu
fortunato chi salvò la vita. Monteleone, ricca e popolata
cittá, ripiena di spirito repubblicano, avea opposta una
resistenza ostinata a Ruffo; ma, sola, senza comunicazione, era
stata costretta a cedere. E nello stesso modo cedettero tutte le
altre popolazioni di Calabria.
Tutte le popolazioni repubblicane delle altre province, isolate,
circondate, premute da per tutto dagl'insorgenti, si vedevano
minacciate dello stesso destino. Si aggiungeva a ciò che le
popolazioni insorgenti saccheggiavano, manomettevano tutto; le
popolazioni repubblicane erano virtuose. Ma, quando, per effetto dei
partiti, gli scellerati non si possono tenere a freno, essi si
dánno a quel partito i di cui princípi sono piú
conformi ai loro propri, e forzano, per cosí dire, gli
dèi a non essere per quella causa che approva Catone.
Si vollero distruggere le insorgenze della Puglia e della Calabria
come le piú pericolose, come le piú lontane e le
piú difficili a vincere, perché le piú vicine
alla Sicilia. Partirono da Napoli due picciole colonne, una
francese, che prese il cammino di Puglia, l'altra di napolitani,
comandata da Schipani, che prese quello di Calabria per Salerno. Ma
la colonna di Puglia dovea anch'essa per l'Adriatico ed il Ionio
passar nella Calabria e riunirsi alla colonna di Schipani.
Il comandante della colonna francese, aiutato dai patrioti e soldati
che conduceva Ettore Carafa e dai patrioti di Foggia, distrusse la
formidabile insorgenza di Sansevero; indi, spingendosi piú
oltre, prese Andria e poi Trani, e fu egli che distrusse l'armata
dei còrsi nelle vicinanze di Casamassima. Ma egli
abusò della sua forza. Prese settemila ducati che trasportava
il corriere pubblico, e che avrebbero dovuti esser sagri; e, quando
gliene fu chiesto conto, non potette dimostrare che essi erano
degl'insorgenti. Il troppo zelo di punir questi forsi lo
ingannò! Non seppe distinguere gli amici dagl'inimici, ed,
ove si trattava d'imposizioni, la condizione dei primi non fu
migliore di quella dei secondi. Bari, in una provincia tutta
insorta, avea fatti prodigi per difendersi. Quando egli vi giunse,
dovette liberarla da un assedio strettissimo, che sosteneva da
quarantacinque giorni: vi entra e, come se fosse una cittá
nemica, le impone una contribuzione di quarantamila ducati. La
stessa condotta tenne in Conversano, cui, ad onta di esser stata
assediata dagl'insorgenti, impose la contribuzione di ottomila
ducati. Nella provincia di Bari non vi restò un paio di
fibbie d'argento. Tutto fu dato per pagar le contribuzioni imposte.
Le prime armi di una rivoluzione virtuosa doveano esser la prudenza
e la giustizia; ed i nostri traviati fratelli meritavano piú
di esser corretti che distrutti. Facendo altrimenti, si credevano
vinti, mentre non erano che fugati. Trani fu saccheggiata; questa
bella, popolosa e ricca cittá fu distrutta; ma gl'insorgenti
di Trani rimanevano ancora: essi, all'avvicinarsi dei francesi, si
erano tutt'imbarcati, pronti a ritornare piú feroci, tosto
che i francesi avessero abbandonate le loro case.
Lo dirò io? Le tante vittorie ottenute contro gl'insorgenti
hanno distrutti piú uomini da bene che scellerati. Questi,
consci del loro delitto, pensano sempre per tempo alla loro
salvezza. L'uomo dabbene è còlto all'improvviso ed
inerme: la sua casa è saccheggiata del pari e forse anche
prima di quella dell'insorgente, perché l'uomo dabbene
è quasi sempre il piú ricco, e, quando l'insorgente
ritorna, lo ritrova disgustato di colui da cui ha sofferto il
saccheggio.
Un buon governo vuole esser forte ma non crudele, severo ma non
terrorista. Le insorgenze di Napoli si poteano ridurre a calcolo.
Pochi erano i punti centrali delle medesime, e chiunque conosceva i
luoghi vedeva essere quegl'istessi che nell'antico governo erano
ripieni di uomini i piú oziosi e piú corrotti e, per
tal ragione, piú miserabili e piú facinorosi. Nei
luoghi dove in tempo del re vi eran piú ladri,
contrabbandieri ed altra simile genia, in tempo della repubblica vi
furono piú insorgenti. Erano luoghi d'insorgenza Atina,
Isernia, Longano, le colonie albanesi del Sannio, Sansevero, ecc.
Nei luoghi ove la gente era industriosa ed, in conseguenza, agiata e
ben costumata, si potea scommettere cento contro uno che vi sarebbe
stata una eterna tranquillitá.
I primi motori dell'insorgenza furon coloro che avean tutto perduto
colla ruina dell'antico governo, e che nulla speravano dal nuovo: se
questi furon molti, gran parte della colpa ne fu del governo
istesso, che non seppe far loro nulla sperare, e che fece temere che
il governo repubblicano fosse una fazione. Eppure la repubblica avea
tanto da dare, che era pericolosa follia credere di poter sempre
dare ai repubblicani!
Grandi strumenti di controrivoluzione furono tutte le milizie dei
tribunali provinciali, tutti gli armigeri dei baroni, tutt'i soldati
veterani che il nuovo ordine di cose avea lasciati senza pane, tutti
gli assassini che correvano con trasporto dietro un'insorgenza, la
quale dava loro occasione di poter continuare i loro furti e quasi
di nobilitarli. Luoghi di grande insorgenza furono perciò
quasi tutte le centrali delle province, come Lecce, Matera, Aquila,
Trani, dove la residenza delle autoritá provinciali, delle
loro forze e di quanto nelle province eravi di scellerati, che ivi
si trovavano in carcere e che, nell'anarchia che accompagnò
il cangiamento del governo, furono tutti scapolati, riuniva
piú malcontenti e piú facinorosi. Costoro
strascinarono tutti gli altri esseri pacifici e meramente passivi,
intimoriti egualmente dall'audacia dei briganti e dalla debolezza
del governo nuovo.
Contro tali insorgenze non vale tanto una spedizione militare che
distrugga, quanto una forza sedentaria che conservi: gl'insorgenti
fuggivano alla vista di un esercito: tostoché l'esercito era
passato, una picciola forza, ma permanente, loro avrebbe impedito di
riunirsi e di agire. Il soldato non soffre le stazioni: brama la
guerra ed ama che il nemico si renda forte a segno di meritare una
spedizione, onde aver l'occasione di misurarsi, la gloria di
vincerlo ed il piacere di spogliarlo.
Il comandante francese padrone di Trani fu chiamato da Palomba,
commissario del dipartimento della Lucania, perché marciasse
sopra Matera ad impedire che vi si formasse un'insorgenza, che potea
divenir pericolosa per quel dipartimento. Ma, Matera non essendo
ancora rivoltata, non vi andò, perché non avrebbe
potuto farla saccheggiare. E, quando, premurato dalle reiterate
istanze di Palomba, s'incaminò con tutte le forze che aveva,
fu richiamato in Napoli. L'insorgenza, che in Matera era tutta
pronta e solo compressa dal timore della vicinanza delle forze
superiori, quando queste furono lontane, scoppiò e si
riuní a quella della Calabria.
Ma perché non marciò Palomba istesso colle sue forze
sopra Matera? Perché Palomba, come commissario, non avea
saputo trovare i mezzi di riunirle e di sostenerle; perché il
suo generale Mastrangiolo tutt'altro era che generale. Caldi ambidue
del piú puro zelo repubblicano, colle piú pure
intenzioni, ma privi di quella pubblica opinione, che sola riunisce
le forze altrui alle nostre, e di quel consiglio, senza di cui non
vagliono mai nulla né le forze nostre né le altrui,
tutti e due non sapeano far altro che gridare «Viva la
repubblica!», ed intanto aspettare che i francesi la
fondassero, come se fosse possibile fondare una repubblica colle
forze di un'altra nazione! Nel dipartimento il piú
democratico della terra, colle forze imponenti di Altamura, di
Avigliano, di Potenza, di Muro, di Tito, Picerno, Santofele, ecc.
ecc., Mastrangiolo perdette il suo tempo nell'indolenza. I bravi
uffiziali, che aveva attorno, lo avvertirono invano del pericolo che
lo premeva: l'insorgenza crebbe e lo costrinse a fuggire.
XXXIII
SPEDIZIONE DI SCHIPANI
Schipani rassomiglia Cleone di Atene e Santerre di Parigi. Ripieno
del piú caldo zelo per la rivoluzione, attissimo a far sulle
scene il protagonista in una tragedia di Bruto, fu eletto comandante
di una spedizione destinata a passar nelle Calabrie, cioè
nelle due province le piú difficili a ridursi ed a governarsi
per l'asprezza dei siti e per il carattere degli abitanti. Non avea
seco che ottocento uomini, ma essi erano tutti valorosi e di poco
inferiori di numero alla forza nemica.
Schipani marcia: prende Rocca di Aspide, prende Sicignano. A
Castelluccia trova della gente riunita e fortificata in una terra
posta sulla cima di un monte di difficilissimo accesso.
Vi erano però mille strade per ridurla. Castelluccia era una
picciola terra, che potea senza pericolo lasciarsi dietro. Egli
dovea marciare diritto alle Calabrie, ove eranvi diecimila patrioti
che lo attendevano; ove Ruffo non era ancora molto forte, ed andava
tentando appena una controrivoluzione, di cui forse egli stesso
disperava; e, discacciato una volta Ruffo, tutte le insorgenze della
parte meridionale della nostra regione andavano a cedere. Ma
Schipani non seppe conoscere il nemico che dovea combattere,
né seppe, come Scipione, trascurare Annibale per vincere
Cartagine.
Tutt'i luoghi intorno a Castelluccia erano ripieni di amici della
rivoluzione. Campagna, Albanella, Controne, Postiglione, Capaccio,
ecc., potevano dare piú di tremila uomini agguerriti: il
commissario del Cilento ne avea giá pronti altri
quattrocento, ed anche di piú, se avesse voluto, ne avrebbe
potuto riunire. Se Schipani avesse avuto piú moderato
desiderio di combattere e di vincere, e se prima di distruggere i
nemici avesse pensato a rendersi sicuro degli amici, che gli
offerivano i loro soccorsi, avrebbe potuto facilmente formare una
forza infinitamente superiore a quella che dovea combattere.
Avrebbe potuto ridurre Castelluccia per fame, poiché non avea
provvisioni che per pochi giorni: avrebbe potuto prenderla
circondandola e battendola dalla cima di un monte che la domina; e
questo consiglio gli fu suggerito dai cittadini di Albanella e della
Rocca, che si offrirono volontari a tale impresa. Qual disgrazia che
tal consiglio non sia nato da se stesso nella mente di Schipani!
Egli avea un'idea romanzesca della gloria, e riputava viltá
il seguire un consiglio che non fosse suo.
Questo suo carattere fece sí che ricusasse l'offerta dei
castelluccesi, i quali volean rendersi, a condizione però che
la truppa non fosse entrata nella terra; e l'altra, offertagli da
Sciarpa, capo di tutta quella insorgenza, di voler unire le sue
truppe alle truppe della repubblica, purché gli si fosse dato
un compenso(43). Schipani rispose come Goffredo:
Guerreggio in Asia, e non vi cambio o merco.
Questo stesso carattere gli fece immaginare un piano d'assalto della
Castelluccia da quel lato appunto per lo quale il prenderla era
impossibile. I nostri fecero prodigi di valore. Il nemico, forte per
la sua situazione, distrusse la nostra truppa colle pietre. Schipani
fu costretto a ritirarsi; e, cadendo in un momento dall'audacia
nella disperazione, la sua ritirata fu quasi una fuga.
La spedizione diretta da Schipani dovea esser comandata dal valoroso
Pignatelli di Strongoli. È stata una disgrazia per la nostra
repubblica che Pignatelli, per malattia sopravvenutagli, non
poté allora prestarsi agli ordini del governo ed al desiderio
dei buoni.
Dopo questa operazione, Schipani fu inviato contro gl'insorgenti di
Sarno. Giunse a Palma, incendiò due ritratti del re e della
regina, che per caso vi si ritrovarono, arringò al popolo e
se ne ritornò indietro. Vi andarono i francesi,
saccheggiarono ed incendiarono Lauro, donde tutti gli abitanti erano
fuggiti, e non uccisero un solo insorgente. Cosí
gl'insorgenti di Lauro e di Sarno, non vinti, ma solo irritati, si
unirono a quelli di Castelluccia e delle contrade di Salerno,
giá vincitori.
XXXIV
CONTINUAZIONE DELL'ORGANIZZAZIONE DELLE PROVINCE
In tale stato erano le cose, quando le autoritá
dipartimentali, giá inviate ne' dipartimenti, incominciarono
l'opera della organizzazione delle municipalitá.
Per una rivoluzione non vi è oggetto piú importante
della scelta de' munícipi. Dipende da essi che la forza del
governo sia applicata convenientemente in tutt'i punti; dipende da
essi di far amare o far odiare il governo. Il popolo non conosce che
il municipe, e giudica da lui di coloro che non conosce.
Per eleggere i munícipi in una nazione, la quale giá
anche nell'antica costituzione avea un governo municipale, si volle
seguire il metodo di un'altra che non conosceva municipalitá
prima della rivoluzione; e cosí, mentre si promettevano nuovi
diritti al popolo, se gli toglievano gli antichi. Era quasi
fatalitá seguire le idee, sebbene indifferenti, de' nostri
liberatori!
L'elezione de' munícipi fu affidata ad un collegio di
elettori, che furono scelti dal governo. - Qual è dunque
questa libertá e questa sovranitá che ci promettete? -
dicevano le popolazioni. - Prima i munícipi erano eletti da
noi; abbiam tanto sofferto e tanto conteso per conservarci questo
diritto contro i baroni e contro il fisco! Oggi non lo abbiamo
piú. Prima i munícipi rendevano conto a noi stessi
delle loro operazioni; oggi lo rendono al governo. Noi dunque colla
rivoluzione, anziché guadagnare, abbiam perduto? - Si volea
spiegar loro il sistema elettorale; si volea far comprendere come
continuavano a dirsi eletti da loro quelli che erano eletti dai suoi
elettori: ma le popolazioni non credevano né erano obbligate
a credere ad una costituzione che ancora non si era pubblicata. Si
diceva che gli elettori dovessero un giorno esser eletti dal popolo;
ma intanto il popolo vedeva che erano eletti dal governo: il fatto
era contrario alla promessa. Quando anche la costituzione fosse
stata giá pubblicata, i popoli credevan sempre superfluo
formar un corpo elettorale per eleggere coloro che prima in modo
piú popolare eleggevano essi stessi, e riputavano sempre
perdita il passare dal diritto dell'elezione immediata a quello di
una semplice elezione mediata.
Ho osservato in quella occasione che le scelte de' munícipi
fatte dal popolo furono meno cattive di quelle fatte dai collegi
elettorali, non perché i collegi fossero intenzionati a far
il male, ma perché erano nell'impossibilitá di fare il
bene, perché non conoscevano le persone che eleggevano e
perché spesso eleggevano persone che il popolo non conosceva.
Io ripeto sempre lo stesso: nella nostra rivoluzione gli uomini eran
buoni, ma gli ordini eran cattivi. Io comprendo l'utilitá di
un collegio elettorale dipartimentale, che elegga o proponga que'
magistrati che soprastano alla repubblica intera; ma un collegio
dipartimentale che discenda ad eleggere i magistrati municipali mi
sembra un'istituzione antilogica, per la quale dalle idee delle
specie, invece di risalire a quella del genere, si voglia discendere
a quella degl'individui, che debbon precedere l'idea della specie.
È vero che in taluni momenti si richieggono negli uomini
pubblici molte qualitá che il popolo o non conosce o non
apprezza; ma voi, che avete il governo della nazione, sapete molto
poco, quando non sapete far sí che l'elezione cada sulle
persone degne della vostra confidenza, senza alterare l'apparenza
della libertá.
Che ne avvenne? I collegi elettorali distrussero le elezioni fatte
dal popolo, disgustarono il popolo e gli uomini popolari che il
popolo avea eletto. Se il collegio elettorale chiedeva degli uomini
probi, questi erano piú noti al popolo, coi quali
convivevano, che a sei persone inviate da Napoli, le quali non
conoscevano il popolo né erano conosciute dal medesimo; se
chiedeva degli uomini utili alla rivoluzione, quali potevano esser
mai questi se non quegl'istessi che il popolo amava e che il popolo
rispettava?
Questa parola «popolo», in tutt'i luoghi ed in tutt'i
tempi, altro non dinota che quattro, tre, due e talvolta una sola
persona, che, per le sue virtú, pe' suoi talenti, per le sue
maniere, dispone degli animi di una popolazione intera: se non si
guadagnano costoro, invano si pretende guadagnare il popolo, e non
senza pericolo talora uno si lusinga di averlo guadagnato.
Dopo qualche tempo i collegi elettorali furono aboliti; ma non si
restituí l'antico diritto alle popolazioni. Si credette male
degli uomini il male che nasceva dalle cose. S'inviarono de'
commissari organizzatori, cui si diedero tutte le facoltá del
corpo elettorale; si commise ad un solo quel diritto che prima
almeno esercitavano sei; e, con ciò, l'esercizio, sebbene
fosse piú giusto, parve piú tirannico e piú
capriccioso. Diverso sarebbe stato il giudizio del popolo, se questi
commissari fossero stati inviati prima. La loro istituzione era
piú conforme alla natura, alle antiche idee de' popoli, ai
bisogni della rivoluzione.
XXXV
MANCANZA DI COMUNICAZIONE
Ma il governo, mentre si occupava della organizzazione apparente,
trascurava o, per dir meglio, era costretto a trascurare, la parte
piú essenziale dell'organizzazione vera, che consiste nel
mantener libera la comunicazione tra le diverse parti di una
nazione. Sarebbe stato inescusabile il governo, se questa
trascuratezza fosse stata volontaria; ma essa era una conseguenza
inevitabile della scarsezza e della non buona direzione delle forze.
Se poca forza, ben ripartita, la quale avesse agito continuamente
sopra tutt'i punti, o almeno sopra i punti principali, sarebbe stata
bastante a prevenire, ad impedire, a togliere ogni male; molta, che
agiva per masse e per momenti in un punto solo, non potea produrre
che un debole effetto e passeggiero.
Le province ignoravano ciò che si ordinava nella capitale; la
capitale ignorava ciò che avveniva nelle province. Si
crederebbe? Non si pubblicavano neanche le leggi. Due mesi dopo la
pubblicazione in Napoli della legge feudale, non fu questa
pubblicata in tutto il dipartimento del Volturno, vale a dire nel
dipartimento piú vicino; e la legge feudale era tutto nella
nostra rivoluzione.
Questa legge, che dovea esser nota ai popoli ai quali giovava, fu
nota ai soli baroni che offendeva, perché questi soli erano
nella capitale. Questa sola circostanza avrebbe di molto accelerata
la controrivoluzione, se una parte non piccola della primaria
nobiltá non fosse stata per sentimento di virtú
attaccata alla repubblica, ad onta de' non piccoli sacrifici che le
costava.
Intanto circolavano per i dipartimenti tutte le carte che potevano
denigrare il nuovo ordine di cose, e passavano per le mani de'
realisti, i quali accrescevano colle loro insidiose interpretazioni
i sospetti che ogni popolo ha per le novitá.
Questa mancanza di comunicazione fu quella che favorí
l'impostura dei còrsi Boccheciampe e De Cesare nella
provincia di Lecce; e di questa profittarono il cardinal Ruffo e
tutti gli altri capi sollevatori, e riuscí loro facile il far
credere che in Napoli era ritornato il re e che il governo
repubblicano erasi sciolto. Essi erano creduti, perché il
governo nelle province era muto, né piú si udiva la
sua voce. Ruffo dava a credere alle province che fosse estinta la
repubblica: il Monitore repubblicano, al contrario, dava a credere
alla capitale che fosse morto Ruffo. Ma l'errore di Ruffo spingeva
gli uomini all'azione, e quello de' repubblicani gli addormentava
nell'indolenza; ed a Ruffo giovavano egualmente e l'errore de'
realisti e quello de' repubblicani.
XXXVI
POLIZIA
I realisti aveano piú libera e piú estesa
comunicazione pel nostro territorio che lo stesso governo
repubblicano. Le Calabrie erano loro aperte; aperto era tutto il
littorale del Mediterraneo da Castelvolturno fino a Mondragone,
cosicché gl'insorgenti di quei luoghi erano confortati ed
aveano armi e munizioni dagl'inglesi, padroni de' mari; aperto avea
il mare anche Proni(44), che comandava l'insorgenza degli Apruzzi.
Tutte queste insorgenze si andavano stringendo intorno Napoli, ed in
Napoli stessa aveano delle corrispondenze segrete, che loro davano
nuove sicure dell'interna debolezza.
Nulla fu tanto trascurato quanto la polizia nella capitale. In primo
luogo non si pensò a guadagnar quelle persone che sole
potevano mantenerla. La polizia, al pari di ogni altra funzione
civile, richiede i suoi agenti opportuni, poiché non tutti
conoscono il paese e sanno le vie, per lo piú tortuose ed
oscure, che calcano gl'intriganti e gli scellerati. Felice quella
nazione ove le idee ed i costumi sono tanto uniformi agli ordini
pubblici, che non vi sia bisogno di polizia. Ma, dovunque essa vi
è, non è e non deve esser altro che il segreto di
saper render utili pochi scellerati, impiegandoli ad osservare e
contenere i molti. Ma in Napoli gli scellerati e gl'intriganti
furono odiati, perseguitati, abbandonati. I nuovi agenti della
polizia repubblicana erano tutti coloro che aveano educazione e
morale, perché essi erano quelli che soli amavano la
repubblica. Or le congiure si tramavano tra il popolaccio e tra
quelli che non aveano né costume né educazione,
perché questi soli avea potuto comprar l'oro di Sicilia e
d'Inghilterra. Quindi le congiure si tramavano quasi in un paese
diverso, di cui gli agenti della polizia non conoscevano né
gli abitanti né la lingua; e la morale de' repubblicani,
troppo superiore a quella del popolo, è stata una delle
cagioni della nostra ruina.
La seconda cagione fu che il gran numero de' repubblicani si
separò soverchio dal popolo; onde ne avvenne che il popolo
ebbe sempre dati sicuri per saper da chi guardarsi. Questo fece
sí che fosse ben esercitata quella parte della polizia che si
occupa della tranquillitá, perché per essa bastava il
timore; mal esercitata fu l'altra che invigila sulla sicurezza,
perché per essa è necessaria la confidenza. Il popolo,
temendo, era tranquillo; ma, diffidando, non parlava: cosí si
sapeva ciò che esso faceva e s'ignorava ciò che esso
macchinava.
I francesi forse temettero piú del dovere un popolo sempre
vivo, sempre ciarliero; credettero pericoloso che questo popolo, per
necessitá di clima e per abitudine di educazione, prolungasse
i suoi divertimenti fino alle ore piú avanzate della notte.
Il popolo si vide attraversato nei suoi piaceri, che credeva e che
erano innocenti; cadde nella malinconia (stato sempre pericoloso in
qualunque popolo e precursore della disperazione; e non vi furono
piú quei luoghi dove, tra l'allegrezza e tra il vino, il
piú delle volte si scoprono le congiure. Il carattere e le
intenzioni dei popoli non si possono conoscere se non se quando essi
sono a lor agio: in un popolo oppresso le congiure sono piú
frequenti a macchinarsi e piú difficili a scoprirsi.
È indubitato che in Napoli erasi ordita una gran congiura,
uno dei grandi agenti della quale fu un certo Baccher. Baccher fu
arrestato in buon punto: le fila dei congiurati non furono scoperte;
ma intanto la congiura rimase priva di effetto.
XXXVII
PROCIDA - SPEDIZIONE DI CUMA - MARINA
Il primo progetto dei congiurati era quello che gl'inglesi dovessero
occupar Ischia e Procida, come difatti l'occuparono, onde aver
maggior comoditá di mantenere una corrispondenza in Napoli e
di prestare a tempo opportuno la mano alle altre operazioni. Questo
inconveniente fu previsto; ma il governo non avea forze sufficienti
per custodir Procida: i francesi non compresero il pericolo di
perderla.
Gl'inglesi, padroni di Procida, tentarono uno sbarco nel littorale
opposto di Cuma e Miseno. Un distaccamento di pochi nostri, che
occupò il littorale, lo impedí; e la corte di Sicilia
dovette piú di una volta fremere per le disfatte dei suoi
superbi alleati.
Forse sarebbe riuscito anche di discacciarli dall'isola. Ma la
nostra marina era stata distrutta dagli ultimi ordini del re; e nei
primi giorni della nostra repubblica le spese sempre esorbitanti,
che seco porta un nuovo ordine di cose, avean tolto ogni modo di
poter far costruire anche una sola barca cannoniera. I pochi e
miseri avanzi della marina antica furono per indolenza di
amministrazione militare dissipati; e si vide vendere pubblicamente
il legno, le corde e finanche i chiodi dell'arsenale.
Caracciolo, ritornato dalla Sicilia(45) e restituito alla patria, ci
rese le nostre speranze. Caracciolo valeva una flotta. Con pochi,
mal atti e mal serviti barconi, Caracciolo osò affrontar
gl'inglesi: l'officialitá di marina, tutta la marineria era
degna di secondar Caracciolo. Si attacca, si dura in un
combattimento ineguale per molte ore; la vittoria si era dichiarata
finalmente per noi, che pure eravamo i piú deboli: ma il
vento viene a strapparcela dalle mani nel punto della decisione; e
Caracciolo è costretto a ritirarsi, lasciando gl'inglesi
malconci, e si potrebbe dire anche vinti, se l'unico scopo della
vittoria non fosse stato quello di guadagnar Procida. Un altro
momento, e Procida forse sarebbe stata occupata. Quante grandi
battaglie, che sugl'immensi campi del mare han deciso della sorte
degl'imperi, non si possono paragonare a questa picciola azione per
l'intelligenza e pel coraggio de' combattenti!
Il vento, che impedí la riconquista di Procida, fu un vero
male per noi, perché tratanto i pericoli della patria si
accrebbero. Le disgrazie diluviavano: dopo due o tre giorni, si
ebbero altri mali a riparare piú urgenti di Procida; e la
nostra non divisibile marina fu costretta a difendere il cratere
della capitale.
XXXVIII
IDEE DI TERRORISMO
La storia di una rivoluzione non è tanto storia dei fatti
quanto delle idee. Non essendo altro una rivoluzione che l'effetto
delle idee comuni di un popolo, colui può dirsi di aver
tratto tutto il profitto dalla storia, che a forza di replicate
osservazioni sia giunto a saper conoscer il corso delle medesime.
Nell'individuo la storia dei fatti è la stessa che la storia
delle idee sue, perché egli non può esser in
contraddizione con se stesso. Ma, quando le nazioni operano in massa
(e questo è il vero caso della rivoluzione), allora vi sono
contraddizioni ed uniformitá, simiglianze e dissimiglianze; e
da esse appunto dipende il tardo o sollecito, l'infelice o felice
evento delle operazioni.
La congiura di Baccher, l'occupazione di Procida, i rapidi progressi
dell'insorgenza aveano scossi i patrioti, e, nella notte profonda in
cui fino a quel punto avean riposati tranquilli sulle parole dei
generali francesi e del governo, videro finalmente tutto il pericolo
onde erano minacciati. Il primo sentimento di un uomo che sia o che
tema di esser offeso è sempre quello della vendetta, la
quale, se diventa massima di governo, produce il terrorismo.
Il governo napolitano, quantunque composto di persone che tanto
avean sofferto per l'ingiusta persecuzione sotto la monarchia,
credette viltá vendicarsi, allorché, avendo il sommo
potere nelle mani, una vendetta non costava che il volerla. Pagano
avea sempre in bocca la bella lettera che Dione scrisse ai suoi
nemici allorché rese la libertá a Siracusa, ed il
divino tratto di Vespasiano, quando, elevato all'impero,
mandò a dire ad un suo nemico che egli ormai non avea
piú che temere da lui. Noi incontriamo sempre i nostri
governanti, allorché ricerchiamo la morale individuale.
Ma molti patrioti accusarono il governo di un
«moderantismo» troppo rilasciato, a cui si attribuivano
tutt'i mali della repubblica. Siccome in Francia al
«terrorismo» era succeduta una rilasciatezza letargica e
fatale di tutt'i princípi, cosí il terrorismo era
rimasto quasi in appannaggio alle anime piú ardentemente
patriotiche. Forse ciò avvenne anche perché il cuore
umano mette l'idea di una certa nobiltá nel sostenere un
partito oppresso, per vendicarsi cosí del partito trionfante
che invidia: forse in Napoli si eran vedute salve talune persone,
che la giustizia, la pubblica opinione, la salute pubblica voleano
distrutte o almeno allontanate.
Ma vi era un mezzo saggio tra i due estremi. Il terrorismo è
il sistema di quegli uomini che vogliono dispensarsi dall'esser
diligenti e severi; che, non sapendo prevenire i delitti, amano
punirli; che, non sapendo render gli uomini migliori, si tolgono
l'imbarazzo che dánno i cattivi, distruggendo indistintamente
cattivi e buoni. Il terrorismo lusinga l'orgoglio, perché
è piú vicino all'impero; lusinga la pigrizia naturale
degli uomini, perché è molto facile. Ma richiede
sempre la forza con sé: ove questa non vi sia, voi non farete
che accelerare la vostra ruina. Tale era lo stato di Napoli.
In Napoli le prime leggi marziali de' generali in capo erano
terroristiche, perché tali son sempre e tali forse debbono
essere le leggi di guerra: esse non poteano produrre e non
produssero alcuno effetto, imperocché come eseguite voi la
legge, come l'applicate, quando tutta la nazione è congiurata
a nascondervi i fatti e salvare i rei? Robespierre avea la nazione
intera esecutrice del terrorismo suo. Quando le pene non sono
livellate alle idee de' popoli, l'eccesso stesso della pena ne rende
piú difficile l'esecuzione e, per renderle piú
efficaci, convien renderle piú miti.
Negli ultimi tempi si eresse in Napoli un «tribunale
rivoluzionario», il quale procedeva cogli stessi
princípi e colla stessa tessitura di processo del terribile
comitato di Robespierre. Forse quando si eresse era troppo tardi, ed
altro non fece che tingersi inutilmente del sangue degli scellerati
Baccher nell'ultimo giorno della nostra esistenza civile, quando la
prudenza consigliava un perdono, che non potea esser piú
dannoso. Ma, quand'anche un tal tribunale si fosse eretto prima, la
legge stessa, colla quale se ne ordinava l'erezione, sarebbe stato
un avviso alla nazione perché si fosse posta in guardia
contro il tribunale eretto.
Il terrorismo cogl'insorgenti si provò sempre inutile.
«E che? - scrivea la saggia e sventurata Pimentel - quando un
metodo di cura non riesce, non se ne saprá tentare un
altro?».
Difatti si accordò un'amnistia agl'insorgenti: non a tutti,
perché sarebbe stata inutile; ma a coloro che il governo ne
avesse creduti degni, onde cosí ciascuno si fosse affrettato
a meritarla, e questo desiderio avesse fatto nascere il sospetto e
la divisione tra tutti. Ma tale perdono dovea farsi valere per mezzo
di persone sagge ed energiche, le quali avessero potuto penetrare ed
eseguire gli ordini del governo in tutt'i punti del nostro
territorio. Io lo ripeto: la mancanza delle comunicazioni tra le
diverse parti dello Stato e la mancanza delle forze diffuse in molti
punti per mantener tale comunicazione, la mancanza a buon conto
della diligenza e della severitá erano l'origine di tutti i
nostri mali e facevan credere necessario ad alcuni un terrorismo, il
quale non avrebbe fatto altro che accrescerli.
XXXIX
NUOVO GOVERNO COSTITUZIONALE
Forse con piú ragione domandavano i patrioti la riforma del
governo. Tralasciando i motivi privati, che spingevano taluni a
declamare piú di quello che conveniva, era sicuro però
che si voleva una riforma. Abrial finalmente giunse commissario
organizzatore del nostro Stato, e si accinse a farla.
Ma vi erano nell'antico governo molti che godevano la pubblica
confidenza, o perché la meritassero, o perché
l'avessero usurpata; e questi secondi (pochissimi per altro di
numero) erano, come sempre suole avvenire, piú accetti,
piú illustri de' primi, perché le lodi che loro si
davano non rimanevano senza premio. - Questi sono i primi che io
toglierei - diceva acutamente, ma invano, in una societá
patriotica il cittadino Mazziotti. Un governo formato da
un'assemblea si riduce a cinque o sei teste, le quali dispongono
delle altre: se queste rimangono, voi inutilmente cangiate tutta
l'assemblea.
Le intenzioni di Abrial erano rette: Abrial fu quello che piú
sinceramente amava la nostra felicitá e quello di cui
piú la nazione è rimasta contenta. Le sue scelte
furono molto migliori delle prime; e, se non furono tutte ottime,
non fu certo sua colpa, poiché né poteva conoscere il
paese in un momento, né vi dimorò tanto tempo quanto
era necessario a conoscerlo.
Abrial divise i poteri che Championnet avea riuniti. Il governo da
lui formato fu il seguente: nella commissione esecutiva, Abamonti;
Agnese, napolitano, ma che aveva dimorato da trent'anni in Francia,
ove avea i beni e famiglia; Albanese; Ciaia; Delfico, il quale non
potette per le insorgenze di Apruzzo mai venire in Napoli. I
ministri furono: 1° dell'interno, De Filippis; 2° di
giustizia e polizia, Pigliacelli; 3° di guerra, marina ed affari
esteri, Manthoné; 4° di finanze, Macedonio. Tra i membri
della commissione legislativa vi furono sempre Pagano, Cirillo,
Galanti, Signorelli, Scotti, De Tommasi, Colangelo, Coletti,
Magliani, Gambale, Marchetti... Gli altri si cambiarono spesso, e
noi non li riferiremo; tanto piú che, nello stato in cui era
allora la nostra nazione, poco potea il potere legislativo, e tutto
il bene e tutto il male dipendeva dall'esecutivo.
Con ciò Abrial volle darci la forma della costituzione prima
di avere una costituzione, e con ciò rese i poteri inattivi,
e discordi i poteri dei cittadini. Questo involontario errore fu
cagione di non piccoli mali, perché la divisione de' poteri
ci diede la debolezza nelle operazioni in un tempo appunto in cui
avevamo bisogno dell'unitá e dell'energia di un dittatore;
ch'egli per altro non poteva darci, perché, incaricato di
eseguire le istruzioni del Direttorio francese, avrebbe ben potuto
modificare in parte gli ordini che si trovavano in Francia
stabiliti, ma non mai cangiarli intieramente. Talché tutti i
fatti ci conducono sempre all'idea, la quale dir si può
fondamentale di questo Saggio: cioè che la prima norma fu
sbagliata, ed i migliori architetti non potevano innalzar edifizio
che fosse durevole.
XL
SALE PATRIOTICHE
Taluni credevano che col mezzo delle sale patriotiche si potesse
«attivare» la rivoluzione; e furono perciò
stabilite. Ma come mai ciò si potea sperare? Io non veggo
altro modo di attivare una rivoluzione che quello d'indurci il
popolo: se la rivoluzione è attiva, il popolo si unisce ai
rivoluzionari; se è passiva, convien che i rivoluzionari si
uniscano al popolo, e, per unirvisi, convien che si distinguano il
meno che sia possibile. Le sale patriotiche, e nell'uno e nell'altro
caso, debbono essere le piazze.
Qual bene hanno mai esse prodotto in Francia? Hanno, direbbe
Macchiavelli, fatto degenerare in sètte lo spirito di
partito, che sempre vi è nelle repubbliche, e, come sempre
suole avvenire, hanno spinto i princípi agli estremi, hanno
fatto cangiar tre volte la costituzione, hanno a buon conto
ritardata l'opera della rivoluzione e forse l'hanno distrutta. Senza
societá patriotiche, le altre nazioni di Europa aveano
dirette le loro rivoluzioni con princípi piú saggi ad
un fine piú felice.
Ma l'abuso delle sale per attivare la rivoluzione dipendeva da un
principio anche piú lontano. L'oggetto della democrazia
è l'eguaglianza; e, siccome in ogni societá vi
è una disuguaglianza sensibilissima tra le varie classi che
la compongono, cosí si giunge al governo regolare o
abbassando gli ottimati al popolo, o innalzando il popolo agli
ottimati. Ma, siccome gli ottimati, insieme coi diritti e colle
ricchezze, hanno ancora princípi e costumi, cosí,
quando le cose si spingono all'estremo, non solo si sforzano a
cedere i loro diritti e divider le loro ricchezze (il che sarebbe
giusto), ma anche a rinunciare ai loro costumi.
Si volea fraternizzare col popolo, e per «fraternizzare»
s'intendeva prendere i vizi del popolaccio, prender le sue maniere
ed i suoi costumi; mezzi che possono talora riuscire in una
rivoluzione attiva, in cui il popolo, in grazia dello spirito di
partito, perdona l'indecenza, ma non mai in una rivoluzione passiva,
in cui il popolo, libero da passioni tumultuose, è piú
retto giudice del buono e dell'onesto. Doveasi perciò
disprezzare il popolo? No, ma bastava amarlo per esserne amato,
distruggere i gradi per non disprezzarlo, e conservar l'educazione
per esserne stimato e per poter fargli del bene(46).
Ammirabile e fortunata è stata per questo la repubblica
romana, in cui i patrizi, mentre cedevano ai loro diritti, forzavano
il popolo ad amarli ed a rispettarli pei loro talenti e per le loro
virtú: il popolo cosí divenne libero e migliore. Nella
repubblica fiorentina tutte le rivoluzioni erano dirette da quella
«fraternizzazione», che s'intendeva in Firenze come
s'intese un tratto in Francia; e perciò la repubblica
fiorentina ondeggiò tra perpetue rivoluzioni, sempre agitata
e non mai felice: il popolo, o presto o tardi, si annoiava dei
conduttori, che non aveano ottenuto il suo favore se non
perché si erano avviliti, ed, annoiato dei suoi capi, si
annoiava del governo, ch'esso di rado conosce per altro che per
l'idea che ha di coloro che governano(47).
Si condussero taluni lazzaroni del Mercato nelle sale; ma questi
erano per lo piú comperati e, come è facile ad
intendersi, non servivano che a discreditare maggiormente la
rivoluzione. Non sempre, anzi quasi mai, l'uomo del popolo è
l'uomo popolare.
Le sale patriotiche attivavano la rivoluzione, attirando una folla
di oziosi, che vi correva a consumar cosí quella vita di cui
non sapeva far uso. I giovani sopra tutti corrono sempre ove
è moto, e ripetono semplici tutto ciò che loro si fa
dire. Intanto pochi abili ambiziosi si prevalgono del nome di
conduttori e di moderatori di sale per acquistarsi un merito; e
questo merito appunto, perché troppo facile, perché
inutile alla nazione, un governo saggio non deve permettere o
(ciò che val lo stesso) non deve curare: senza di ciò,
i faziosi se ne prevaleranno per oscurare, per avvilire, per
opprimere il merito reale. Taluni buoni, i quali vedevano l'abuso
che delle sale si potea fare, credettero bene di opporre una sala
all'altra e, se fosse stato possibile, riunirle tutte a quella ove
lo spirito fosse piú puro ed i princípi fossero
piú retti; ed il desiderio della medicina fu tanto, che si
credette poter aver la salute dallo stesso male. Ma io lo ripeto:
quando l'istituzione è cattiva, rende inutili gli uomini
buoni, perché o li corrompe o li fa servire, illusi
dall'apparenza del bene, ai disegni dei cattivi.
«I vostri maggiori - diceva il console Postumio al popolo di
Roma - vollero che, fuori del caso che il vessillo elevato sul
Tarpeio v'invitasse alla coscrizione di un esercito, o i tribuni
indicessero un concilio alla plebe, o talun altro dei magistrati
convocasse tutto il popolo alla concione, voi non vi dobbiate riunir
cosí alla ventura ed a capriccio: essi credevano che,
dovunque vi fosse moltitudine, ivi esser vi dovesse un legittimo
rettore della medesima». In Francia le societá
popolari, rese costituzionali da Robespierre, che avea quasi voluto
render costituzionale l'anarchia, o non produssero sulle prime molti
mali, o i mali che produssero non si avvertirono, perché,
quando una nazione soffre moltissimi mali, spesso un male serve di
rimedio all'altro. In Napoli, dove, per la natura della rivoluzione,
le sale erano meno necessarie, si corruppero piú
sollecitamente(48).
Chi è veramente patriota non perde il suo tempo a ciarlare
nelle sale; ma vola a battersi in faccia all'inimico, adempie ai
doveri di magistrato, procura rendersi utile alla patria coltivando
il suo spirito ed il suo cuore: voi lo ritrovate ov'è il
bisogno della patria, non dove la folla lo chiama; e, quando non ha
verun dovere di cittadino da adempire, ha quelli di uomo, di padre,
di marito, di figlio, di amico. Il governo non lo vede; ma guai a
lui se non sa riconoscerlo e ritrovarlo! Il solo governo buono
è quello agli occhi del quale ogni altro uomo non si
può confondere con questo, né può usurpare la
stima che se gli deve, se non facendo lo stesso; per cui la prima
parte di un ottimo governo è quella di far sí che non
vi sieno altre classi, altre divisioni che quelle della
virtú, ed evitare a quest'oggetto tutte le istituzioni che
potrebbero riunire i virtuosi a coloro che non lo sono, tutti i nomi
finanche che potessero confonderli.
Io non confondo colle sale patriotiche quei «circoli
d'istruzione», ove la gioventú va ad istruirsi, a
prepararsi al maneggio negli affari, ad ascoltare le parole dei
vecchi ed accendersi di emulazione ai loro esempi, a rendersi utile
ai loro simili ed acquistare dai suoi coetanei quella stima che un
giorno meriterá dalla patria e dal governo. In Napoli se ne
era aperto uno, e con felici auspíci: il suo spirito era
quello di proporre varie opere di beneficenza che si esercitavano in
favore del popolo: si soccorsero indigenti, si prestarono senza
mercede all'infima classe del popolo i soccorsi della medicina e
dell'ostetricia. Questa era l'istituzione che avrebbe dovuto
perfezionarsi e moltiplicarsi(49).
XLI
COSTITUZIONE - ALTRE LEGGI
Tali erano le idee del popolo. Le cure della repubblica erano ormai
divise da che si eran divisi i poteri; e la commissione legislativa,
sgravata dalle cure del governo, si era tutta occupata della
costituzione, il di cui progetto, formato dal nostro Pagano, era
giá compíto. Ma di questo si dará giudizio
altrove, come di cosa che, non essendosi né pubblicata
né eseguita, niuna parte occupa negli avvenimenti della
nostra repubblica.
Altri bisogni piú urgenti richiamavano l'attenzione della
commissione legislativa.
Volle occuparsi a riparare al disordine dei banchi. Fin dai primi
giorni della rivoluzione, la prima cura del governo fu di
rassicurare la nazione, incerta ed agitata per la sorte del debito
dei banchi, da cui pendeva la sorte di un terzo della nazione. Un
tal debito fu dichiarato debito nazionale. Tale operazione fu da
taluni lodata, da altri biasimata, secondo che si riguardava
piú il vantaggio o la difficoltá dell'impresa: tutti
però convenivano che una semplice promessa potea tutt'al
piú calmare per un momento la nazione, ma che essa sarebbe
poi divenuta doppiamente pericolosa, quando non si fossero ritrovati
i mezzi di adempirla. Allora tutta la vergogna e l'odiositá
di un fallimento sarebbe ricaduta sul nuovo governo, e si sarebbe
intanto perduto il solo momento favorevole, quale era quello di una
rivoluzione, in cui la colpa e l'odio del male si avrebbe potuto
rivolgere contro il re fuggito, e gli uomini l'avrebbero piú
pazientemente tollerato, come uno di quegli avvenimenti inseparabili
dal rovescio di un impero, effetto piú del corso
irresistibile delle cose che della scelleraggine de' governanti.
Cosí il governo non fece allora che una promessa, e rimaneva
ancora a far la legge.
Ma, quando volle occuparsi della legge, non era forse il tempo
opportuno. La nazione era oppressa da mille mali, le opinioni erano
vacillanti, tutto era inquietezza ed agitazione. In tale stato di
cose il far delle leggi utili e forti è ottimo consiglio:
sgravasi cosí la somma de' mali che opprimono il popolo e si
scema il motivo del malcontento; il farne delle inutili e delle
inefficaci è pericoloso, perché al malcontento, che
giá si soffre per il male, l'inutilitá del rimedio
aggiunge la disperazione. Se non potete fare il bene, non fate
nulla: il popolo si lagnerá del male e non del medico.
La commissione legislativa altro non fece (e, per dire il vero,
allora che potea far di piú?) che rinnovare per i beni,
ch'eran divenuti nazionali, quella ipoteca che giá il re avea
accordata sugli stessi beni, quando erano regi. Gli esempi passati
poteano far comprendere che questa operazione sola era inutile.
Questi beni non poteano mai esser in commercio, perché
riuniti in masse immense in pochi punti del territorio napolitano;
ed i possessori delle carte monetate erano molti, divisi in tutt'i
punti e non voleano fare acquisti immensi e lontani. Quando furono
esposti in vendita, in tempo del re, i fondi ecclesiastici, i quali
non aveano questo inconveniente, si ritrovarono piú
facilmente i compratori. Si aggiungeva a ciò l'incertezza
della durata della repubblica, la quale alienava maggiormente gli
animi dei compratori; l'incertezza della sorte dei beni che davansi
in ipoteca, quasi contesi tra la nazione ed il francese: per eseguir
le vendite in tanti pericoli, conveniva offerire ai compratori
vantaggi immensi, e cosí tutt'i fondi nazionali non sarebbero
stati sufficienti a soddisfare una picciola parte del debito
pubblico(50).
Il debito nazionale in Napoli non era tale che non si avesse potuto
soddisfare. Era piú incomodo che gravoso. Conveniva una
piú regolata amministrazione, e questa vi fu(51): infatti, in
cinque mesi di repubblica, il governo, colle rendite di sole due
province, tolse dalla circolazione un milione e mezzo di carte. Con
tanta moralitá nel governo, si potea far quasi a meno della
legge per un male che si avrebbe potuto forsi guarire col solo
fatto, e che si sarebbe guarito senza dubbio, se le circostanze
interne ed esterne della nazione fossero state meno infelici. Ma
conveniva, nel tempo istesso, che tutta la nazione avesse
soddisfatto il debito nazionale; conveniva che questo debito avesse
toccato la nazione in tutt'i punti; e, dove prima gravitava solo
sulla circolazione, si fosse sofferto in parte dall'agricoltura e
dalla proprietá: cosí il debito, diviso in tanti,
diveniva leggiero a ciascuno.
La nazione napolitana è una nazione agricola. In tali nazioni
la circolazione è sempre piú languida che nelle
nazioni manifatturiere o commercianti; ed il danaro, o presto o
tardi, va a colare, senza ritorno, nelle mani dei possessori dei
fondi. Difatti in Napoli, e specialmente nelle province, non mancava
il danaro: ma questo danaro era accumulato in poche mani,
mentreché per la circolazione non vi erano che carte.
Conveniva attivare tutta la nazione, ed offerire ai proprietari di
fondi delle occasioni di spendere quel danaro che tenevano
inutilmente accumulato. Conveniva... Ma io non iscrivo un trattato
di finanze: scrivo solo ciò che può far conoscere la
mia nazione.
XLII
ABOLIZIONE DEL TESTATICO, DELLA GABELLA DELLA FARINA E DEL PESCE
Per giudicare rettamente di un legislatore, conviene che ei sia
indipendente; per far che le sue leggi abbiano tutto l'effetto,
conviene che egli sia libero. Quando o altri uomini o le cose
tendono a frenare i suoi pensieri e le sue mani, quando la
sovranitá è divisa, pretenderete invano veder quel
legislatore, nelle di cui mani è il cuore delle nazioni: i
consigli son timidi, le misure mezzane; tra l'imperiosa
necessitá e l'occasione precipitosa, spesso il miglior
consiglio non è quello che si può seguire, o solo si
segue quando l'occasione è giá passata, e di tutte le
operazioni voi altro non potete rilevare che la puritá del
cuore e la rettitudine dei suoi pensieri.
Cosí, non altrimenti che la legge sui banchi, riuscirono
inutili quasi tutte le altre leggi immaginate per isgravare i popoli
dai pesi che nell'antico governo sofferiva. Io non ne eccettuo che
la sola legge colla quale si abolí la gabella del pesce;
legge che produsse un effetto immediato, e trasse alla repubblica
gli animi di quasi tutti i marinai ed i pescatori della capitale.
Quando si abolí la gabella sulla farina, non si ottenne
l'intento di far ribassare il prezzo de' grani in Napoli, dove, per
le insorgenze che aveano giá chiuse tutte le strade delle
province, non potevano ivi piú entrar grani nuovi, e quei che
esistevano erano pochi ed avean giá pagato il dazio. Il
popolo napolitano disse allora: che «la gabella si era tolta
quando non vi era piú farina».
Dal 1764 era in Napoli molto cresciuto il prezzo del grano; e,
sebbene questo aumento fosse in parte effetto della maggior
ricchezza della nazione, non si poteva però mettere in
controversia che l'aumento del prezzo degli altri generi non era
proporzionato all'aumento di quello del grano(52). Questo non era
alterato, quando si paragonava al prezzo del grano nelle altre
nazioni di Europa; ma era alteratissimo, allorché si
paragonava al prezzo degli altri generi presso la stessa nazione
napolitana. Tutto il male nasceva da che l'industria, ed in
conseguenza la ricchezza, non si era risvegliata e diffusa
equabilmente sopra tutt'i generi ed in tutte le persone. Il male era
tollerabile nelle province, ma insoffribile nella capitale, non
perché il grano mancasse, non perché il prezzo ne
fosse molto piú caro che nelle province; ma perché
Napoli conteneva un numero immenso di renditieri, di oziosi o di
persone che, senza essere oziose, nulla producevano e che non
partecipavano dell'aumento dell'industria e della ricchezza
nazionale. Per rendere il popolo napolitano contento sull'articolo
del pane, o conveniva migliorarlo e renderlo cosí piú
attivo e piú ricco, o conveniva render piú misere le
province: la prima operazione avrebbe reso il popolo napolitano
contento dei nuovi prezzi; la seconda avrebbe fatto ritornar gli
antichi(53). La sola abolizione della gabella era nella capitale
un'operazione piú pomposa che utile.
Guardiamola nelle province. Essa dovette esser inutile in quei
luoghi nei quali non si pagava, e questi formavano il numero
maggiore; in quelli nei quali si pagava, dovette riuscire piuttosto
dannosa. Il ritratto della gabella serviva a pagare le pubbliche
imposizioni: proibir quella e pretender queste era un
contradditorio; rinunciare a queste era impossibile tra i tanti
urgentissimi bisogni dai quali era allora il governo premuto;
obbligare le popolazioni a sostituire all'antico metodo un nuovo, ed
obbligarle a sostituirlo di loro autoritá (giacché
colla legge non si era preveduto questo caso), era pericoloso in un
tempo in cui lo spirito di partito né fa conoscere il giusto
né lo fa amare. Un dio solo avrebbe potuto persuadere alle
popolazioni che una novitá non fosse stata allora una
ingiustizia patriotica. Infatti molte popolazioni, che per la
vicinanza alla capitale erano nello stato di portar i loro reclami
al governo(54), chiesero che la gabella sulla farina si
ristabilisse.
Nella costituzione antica del regno di Napoli, ove si trattava
d'imposizioni dirette, il sovrano quasi altro non faceva che imporre
il tributo: la ripartizione era determinata da una legge quasi che
fondamentale dello Stato, ed il modo di esigerlo era in arbitrio di
ciascuna popolazione. Non si esigeva dappertutto nello stesso modo:
una popolazione avea una gabella, un'altra ne avea un'altra; chi non
avea gabelle e pagava la decima sul raccolto del grano, chi pagava
sui fondi, chi in un modo, chi in un altro, secondo le sue
circostanze, i suoi prodotti, i suoi bisogni, i suoi costumi e
talora i pregiudizi suoi. Questo metodo di amministrazione avea i
suoi inconvenienti; ma questi inconvenienti si potean correggere, e
conservare un metodo, il quale, se non toglieva il male, lo rendeva
però meno sensibile.
Questo stato della nazione fece sí che inutile riuscisse
anche la legge sull'abolizione del testatico. «Nessun
testatico, nessuna imposizione personale avrá luogo nella
nazione napolitana». Questo stesso, e colle stesse parole, era
stato detto quasi tre secoli prima: quella legge era tuttavia in
vigore nel Regno; ed intanto, ad onta della medesima, si pagava
l'imposizione personale. In pochi luoghi si esigeva ancora sotto il
nome di «testatico»; in molti si pagava ricoperta del
nome d'«industria»; in moltissimi si pagava pagando un
dazio indiretto sui generi di prima necessitá, che si
consumano egualmente da chi possiede e da chi non possiede: ove in
un modo, ove in un altro, il testatico si pagava dappertutto e non
era in verun luogo nominato. La legge esisteva; ma l'abuso,
cangiando le parole, faceva una frode alla legge.
Prima di riformare l'antico sistema delle nostre finanze, conveniva
conoscerlo: la riforma dovea essere simultanea ed intera. Tutte le
parti di un sistema di finanze hanno stretti rapporti tra loro e
collo stato intero della nazione. Ma la maggior parte degli Stati di
Europa erano nati, non dalle unioni spontanee, ma dalla conquista:
il signore di un piccolo Stato avea oppressi gli altri con diversi
mezzi ed in diversi tempi; per lo piú si erano transatti
colle popolazioni, che avean conservati i loro usi, i dazi loro, i
loro costumi. Una gran nazione non fu che l'aggregato di tante
piccole nazioni, che si consideravano come estranee tra loro; ed il
sovrano si considerava estraneo a tutte. Invece di leggi, si
chiedevano «privilegi»; il sistema delle finanze non era
che un'unione di diversi pezzi fatti da mani e in tempi diversi; i
bisogni del momento, non essendo mai quelli della nazione, facevano
sí che, invece di correggersi gli antichi abusi, se ne
aggiugnessero dei nuovi; e tutto ciò produceva quell'orribile
caos di finanze, in cui, al dir di Vauban, era grande quell'uomo che
sapesse immaginar nuovi nomi per poter imporre un nuovo tributo
senza alterare gli antichi.
Era venuta l'epoca fortunata della riforma; ma questa riforma
né dovea esser fatta con leggi particolari, le quali o presto
o tardi si sarebbero contraddette, né in un momento. Era
l'opera di molto tempo. Sulle prime, per contentare il popolo, il
quale fra le novitá è sempre impaziente di veder segni
sensibili di utile, bastava dire che si pagassero solo due terzi
delle antiche imposizioni. Questa diminuzione di un terzo di tutt'i
tributi avrebbe attirato alla rivoluzione maggior numero di persone;
mentre colla sola abolizione del testatico e della gabella della
farina non si giovava che ai poveri. In séguito, quando il
favore dei ricchi non era piú tanto necessario e l'odio loro
tanto pericoloso, i poveri si sarebbero del tutto sgravati. Un
governo stabilito deve esser giusto; un governo nuovo deve farsi
amare: quello deve dare a ciascuno ciò che è suo;
questo deve dare a tutti. Una commissione a quest'oggetto stabilita
avrebbe fatto in séguito conoscere le antiche finanze, i
nuovi bisogni dello Stato, e si sarebbe formato un sistema generale
e durevole, su di cui si sarebbe potuta fondare la felicitá
della nazione.
XLIII
RICHIAMO DE' FRANCESI
Ma eccoci alfine ai giorni infelici della nostra repubblica: i mali
da tanto tempo trascurati, ormai ingigantiti, ci soverchiano e
minacciano di opprimerci. Le Calabrie si erano interamente perdute,
e gl'insorgenti delle Calabrie comunicavano di giá
cogl'insorgenti di Salerno e di Cetara e si stendevano fino a
Castellamare. Questa stessa cittá fu occupata dagl'inglesi, e
si vide la bandiera dei superbi britanni sventolar vincitrice in
faccia della stessa capitale.
I francesi ripresero Castellamare e Salerno; Cetara fu distrutta.
Ma, pochi giorni dopo, i francesi furon costretti ad abbandonare il
territorio napolitano, richiamati nell'Italia superiore; e, sebbene
tentassero colorire con pomposi proclami la loro ritirata,
gl'insorgenti ben ne compresero il motivo e ne trassero audacia
maggiore. Salerno fu di nuovo occupata: a Castellamare
s'inviò da Napoli una forte guarnigione, la quale però
fu ridotta a dover difendere la sola cittá, quasi assediata
dalle insorgenze che la circondavano.
Magdonald, partendo, lasciò una guarnigione di settecento
uomini in Sant'Elmo; circa duemila rimasero a difender Capua, e
quasi altri settecento in Gaeta. Egli avea promesso lasciar una
forte colonna mobile; ma questa poi in effetti altro non fu che una
debole colonna di quattrocento uomini, i quali, distaccati dalla
guernigione di Capua, venivano a Sant'Elmo, donde altri quattrocento
uomini partivano alternativamente per Capua.
Questa forza sarebbe stata superflua presso di noi, se da principio
ci fosse stato permesso di organizzar la forza nazionale.
Poiché il far questo ci era stato tolto, la forza rimasta era
insufficiente.
I rovesci d'Italia mostravano giá lo stato di languore, in
cui la rilassatezza del governo direttoriale avea gittata la
Francia. La Francia diminuiva di forze in proporzione che cresceva
di volume; le nuove repubbliche organizzate in Italia, che avrebbero
dovuto essere le sue alleate, furono le sue province; invece di
esserne amati, i francesi ne furono odiati, perché essi,
invece di amarle, le temettero.
I romani, di cui i francesi volevano esser imitatori, ritraevano
forza dagli alleati. Gli spagnuoli tennero una condotta diversa, ed
avvilirono quelle nazioni che doveano esser loro amiche. Ma
ciò che potea ben riuscire per qualche tempo agli spagnuoli,
per lo stato in cui allora si ritrovava l'Europa, non poteva
riuscire al Direttorio, che avea da per tutto governi regolari e
potenti ai loro confini.
Quando, in séguito di una conquista, si vuole organizzare una
repubblica, l'operazione è sempre piú difficile che
quando conquista un re. Un re deve avvezzare i popoli ad ubbidire,
perché egli non deve far altro che schiavi; un conquistatore,
che far voglia dei cittadini, deve avvezzarli ad ubbidire e a
comandare. Ma non si avvezzano i popoli a comandare senza dar loro
l'indipendenza, la quale richiede un sacrifizio, per lo piú
doloroso, di autoritá per parte di colui che conquista. E
quindi è che quasi sempre vana riesce la libertá che
si riceve in dono dagli altri popoli, perché, non essendovi
chi sappia comandare, non vi sará nemmeno chi sappia
ubbidire, ed, invece di saggi ordini di governo, non si hanno che le
volontá momentanee di coloro che comandano la forza
straniera; volontá che sono tanto piú ruinose quanto
il comando è piú vacillante e poco o nulla vale a
prolungarlo il merito della buona condotta. La libertá
invidia e la legge toglie gl'impieghi anche agli ottimi.
Questi cangiamenti ne produssero degli altri ugualmente rapidi nel
governo delle nuove repubbliche. Quasi ogni mese si cangiavano i
governanti nella repubblica romana. Come sperare quella
stabilitá di princípi, quella costanza di operazioni,
che solo può rendere le repubbliche ferme e vigorose?
Talora, oltre dei governanti, si violentava anche la costituzione; e
quello stesso Direttorio, che avea violata la costituzione francese,
rovesciò anche la cisalpina. Si trovarono delle anime
eroiche, che seppero resistere agl'intrighi ed alla forza, e
preferirono la libertá del loro giuramento al favore del
conquistatore. In Napoli, quando si temeva che le idee del
Direttorio potessero non esser quelle dell'indipendenza e
felicitá della nazione, tutt'i governanti giurarono di
deporre la carica. Non vi fu uno che esitò un momento. Ma
possiamo noi contare sopra un popolo di eroi? Il maggior numero
è sempre debole; ed il popolo intero come può amar una
costituzione che non si abbia scelta da se stesso e che non possa
conservare né distruggere se non per volere altrui?
Si aggiunga a ciò che il principio fondamentale delle
repubbliche, che è il rispetto e l'amore pe' suoi cittadini,
mentre rende un governo repubblicano attentissimo ad ogni
ingiustizia che si commetta tra' suoi, lo rende negligente sulla
sorte degli esteri: un proconsolo era giudicato in Roma da coloro
che erano suoi eguali e che temevano piú di lui che delle
province desolate. Le repubbliche italiane segnavano l'etá
con sempre nuovo languore invece di rassettarsi cogli anni, quanto
piú vivevano piú si accostavano alla morte; e le altre
repubbliche d'Italia, dopo quattro anni di libertá, si
trovarono tanto deboli quanto la nostra lo era al principio della
sua politica rivoluzione.
Se i francesi avessero permesso alla repubblica cisalpina di
organizzare una forza regolare, se lo avessero permesso alla
repubblica romana, avrebbero potuto piú lungo tempo
contrastare in Italia contro le forze austro-russe: se non
impedivano l'organizzazione delle forze napolitane, queste avrebbero
assicurata la vittoria al partito repubblicano. Ma il voler
difendere la repubblica cisalpina, la romana, la napolitana colle
sole proprie forze; il voler temere egualmente il nemico e gli
amici, era la massima di un governo che vuol crescer il numero dei
soggetti senza aumentar la forza(55).
Si parla tanto del tradimento di Scherer: Scherer tradí il
governo, ma la condotta di quel governo avea di giá tradita
una gran nazione.
La rivoluzione di Napoli potea solo assicurar l'indipendenza
d'Italia, e l'indipendenza d'Italia potea solo assicurar la Francia.
L'equilibrio tanto vantato di Europa non può esser affidato
se non all'indipendenza italiana; a quell'indipendenza, che tutte le
potenze, quando seguissero piú il loro vero interesse che il
loro capriccio, dovrebbero tutte procurare. Chiunque sa riflettere
converrá meco che, nella gran lotta politica che oggi agita
l'Europa, quello dei due partiti rimarrá vincitore che
piú sinceramente favorirá l'indipendenza italiana(56).
Il destino avea finalmente fatto pervenire i momenti; ma il governo
che allora avea la Francia non fu buono per eseguire gli ordini del
destino, ed i prodirettoriali governi d'Italia non seppero
comprenderne le intenzioni.
Dura necessitá ci costrinse a trascurare tutti gli esterni
rapporti che avrebbero potuto salvar la nostra esistenza politica.
Noi ignoravamo ciò che si faceva nel rimanente dell'Europa, e
l'Europa non sapeva la nostra rivoluzione se non per bocca dei
nostri nemici. Dalla stessa Cisalpina, dalla stessa armata francese
non avevamo che gazzette o rapporti piú frivoli di una
gazzetta e piú mendaci. I generali francesi ci scrivean
sempre vittorie, perché questo loro imponeva la ragion della
guerra: ma il nostro interesse era di saper anche le disfatte; e
l'ignoranza in cui rimase il governo e le false lusinghe che gli
furon date di prossimo soccorso accelerarono la perdita, se non
della repubblica, almeno dei repubblicani. Napoli avrebbe potuto
salvar l'Italia; ma l'Italia cadde, ed involse anche Napoli nella
sua ruina.
XLIV
RICHIAMO DI ETTORE CARAFA DALLA PUGLIA
I francesi dovettero aprirsi la ritirata colle armi alla mano, ed
all'isola di Sora e nelle gole di Castelforte perdettero non poca
gente. Appena essi partirono, nuove insorgenze scoppiarono in molti
luoghi.
Roccaromana suscitò l'insorgenza nelle sue terre alle mura di
Capua. Egli divenne l'istrumento piú grande della
nobiltá, a cui apparteneva, e del popolo, tra cui avea un
nome. Il governo lo avea disgustato, lo avea degradato forsi per
sospetti troppo anticipati; ma non seppe osservarlo, ritrovarlo reo
e perderlo: offendendo, non seppe metterlo nella
impossibilitá di far male. Luigi de Gams organizzò
nello stesso tempo una insorgenza in Caserta. Queste insorgenze,
unite a quelle di Castelforte e di Teano, ruppero ogni comunicazione
tra Capua e Gaeta e tra il governo napolitano ed il resto
dell'Italia.
La ritirata dei francesi dalla provincia di Bari fece insorgere di
nuovo quella provincia di Lecce. In Puglia eravi ancora Ettore
Carafa colla sua legione, ed, oltre la legione, avea un nome e molti
seguaci; ma, sia imprudenza, sia, come taluni vogliono, gelosia del
governo, Carafa fu richiamato da una provincia dove poteva esser
utile ed inviato a guernire la fortezza di Pescara. La ritirata di
Carafa fu un vero male per quelle province e per la repubblica
intera. A questo male si sarebbe in parte riparato, se riusciva a
Federici di penetrare in Puglia ed a Belpulsi nel contado di Molise;
ma le spedizioni di questi due, ritardate soverchio, non furono
intraprese se non dopo la partenza delle truppe francesi, quando
cioè era impossibile eseguirle.
Cosí sopra tutta la superficie del territorio napolitano
rimanevano appena dei punti democratici. Ma questi punti contenevano
degli eroi. Nel fondo della Campania era Venafro, che sola avea
resistito per lungo tempo a Mammone(57), comandante dell'insorgenza
di Sora: con poco piú di forza, avrebbe potuto prendere la
parte offensiva. I paesi della Lucania fecero prodigi di valore,
opponendosi all'unione di Ruffo con Sciarpa; e, se il fato non
faceva perire i virtuosi e bravi fratelli Vaccaro, se il governo
avesse inviati loro non piú che cento uomini di truppa di
linea, qualche uffiziale e le munizioni da guerra che loro
mancavano, forse la causa della libertá non sarebbe perita.
Gli stessi esempi di valore davano le popolazioni repubblicane del
Cilento, le quali per lungo tempo impedirono che l'insorgenza delle
Calabrie non si riunisse a quella di Salerno. Foggia finalmente era
una cittá piena di democratici: essa avea una guardia
nazionale di duemila persone; era una cittá che, per lo stato
politico ed economico della provincia, potea trarsi dietro la
provincia intera; e da Foggia una linea quasi non interrotta
prendeva pel settentrione verso gli Apruzzi, dove si contavano
Serracapriola, Casacalenda, Agnone, Lanciano... Dall'altra parte,
per Cirignola e Melfi, Foggia comunicava colle tante popolazioni
democratiche della provincia di Bari e della Lucania. Noi vorremmo
poter nominare tutte le popolazioni e tutti gl'individui; ma
né tutto distintamente sappiamo, né tutto senza
imprudenza apertamente si può dire: un tempo forse si
saprá, e si potrá loro rendere giustizia.
Ma che fare? A tutte queste forze mancava la mente, mancava la
riunione tra tutti questi punti, mancava un piano comune per le loro
operazioni. Non si crederá, ma intanto è vero: una
delle cagioni, che piú hanno contribuito a rovesciar la
nostra repubblica, è stata quella di non aver avute nelle
province delle persone che riunissero e dirigessero tutte le
operazioni: gl'insorgenti aveano tutti questi vantaggi.
XLV
CARDINAL RUFFO
Ruffo intanto trionfava in Calabria. Dalla Sicilia, ove era fuggito
seguendo la corte, era ritornato quasiché solo nella
Calabria; ma le terre nelle quali si era fermato erano appunto le
terre di sua famiglia. Quivi il suo nome gli diede qualche seguace:
a questi si aggiunsero tutti quelli che si trovavan condannati nelle
isole della Sicilia, ai quali fu promesso il perdono; tutt'i
scellerati banditi, fuorusciti delle Calabrie, ai quali fu promessa
l'impunitá. A Ruffo si unirono il preside della provincia,
Winspeare, e l'uditore Fiore. L'impunitá, la rapina, il
saccheggio, le promesse facili, il fanatismo superstizioso(58);
tutto concorse ad accrescergli seguaci. Incominciò con
picciole operazioni, piú per tentare gli animi e le cose che
per invadere. Ma, vinte una volta le forze repubblicane
perché divise e mal dirette, superata Monteleone,
attaccò e prese Catanzaro, capitale della Calabria ulteriore,
e, passando quindi alla citeriore, attaccò e prese Cosenza,
sede di antico ed ardente repubblicanismo. Cosenza cadde vittima
degli errori del governo, perché disgustò il basso
popolo coll'ordine di doversi pagare anche gli arretrati delle
imposizioni dovute al re, perché vi costituí
comandante della guardia nazionale il tenente De Chiara, profondo
scellerato ed attaccato all'antico governo. Quando Ruffo era
giá vicino a Cosenza, De Chiara era alla testa di sette in
ottomila patrioti, risoluti di vincere o di morire. Ruffo aveva
appena diecimila uomini. Quando queste truppe furono a vista, De
Chiara ordinò la ritirata; intanto ad un segno concertato
scoppiò la sollevazione dentro Cosenza: cosicché i
repubblicani si trovarono tra due fuochi; ma, ciò non
ostante, riguadagnano la cittá e si difendono tre giorni.
Labonia e Vanni corrono a radunar gente nelle loro patrie. Ma,
quando il soccorso giunse, Cosenza era giá caduta. Essi si
ridussero a dover fare prodigi di valore nella difesa di Rossano. Ma
Rossano, rimasta sola, cadde anch'essa: cadde Paola, una delle
piú belle cittá di Calabria, incendiata dal barbaro
vincitore, indispettito da un valore che avrebbe dovuto ammirare. La
fama del successo ed il terrore che ispirava lo resero padrone di
tutte le Calabrie fino a Matera, dove incontrò il
còrso De Cesare, di cui parlammo nel paragrafo
decimosesto(59).
Il disegno di Ruffo era di penetrar nella Puglia. Altamura formava
un ostacolo a questo disegno. Ruffo l'assedia; Altamura si difende.
Per ritrovare esempi di difesa piú ostinata, bisogna
ricorrere ai tempi della storia antica. Ma Altamura non avea
munizioni bastanti: a difendersi impiegarono i suoi abitanti i ferri
delle loro case, le pietre, finanche la moneta convertirono in uso
di mitraglia; ma finalmente dovettero cedere. Ruffo prese Altamura
di assalto, giacché gli abitanti ricusarono sempre di
capitolare; e, dove prima nelle altre sue vittorie avea usato
apparente moderazione, in Altamura, sicuro giá da tutte le
parti, stanco di guadagnar gli animi che potea ormai vincere, volle
dare un esempio di terrore. Il sacco di Altamura era stato promesso
ai suoi soldati: la cittá fu abbandonata al loro furore; non
fu perdonato né al sesso né all'etá. Accresceva
il furore dei soldati la nobile ostinazione degli abitanti, i quali,
in faccia ad un nemico vincitore, col coltello alla gola, gridavano
tuttavia: - Viva la repubblica! - Altamura non fu che un mucchio di
ceneri e di cadaveri intrisi di sangue.
Dopo la caduta di Altamura, Sciarpa soggiogò i bravi abitanti
di Avigliano, Potenza, Muro, Picerno, Santofele, Tito, ecc. ecc., i
quali si erano uniti per la difesa comune. La stessa mancanza di
provvisioni di guerra, che avea fatta perdere Altamura, li costrinse
a cedere a Sciarpa; ma, anche cedendo al vincitore, conservarono
tanto di quell'ascendente che il valore dá sul numero, che
fecero una capitolazione onorevole, colla quale, riconoscendo di
nuovo il re, le loro persone e le cose rimaner dovessero salve. Ben
poche nazioni possono gloriarsi di simili esempi di valore.
Intanto Micheroux fece nell'Adriatico uno sbarco di russi, che
occuparono Foggia. L'occupazione, sia caso, sia arte, avvenne ne'
giorni in cui la fiera richiamava colá gli abitanti di tutte
le altre province del Regno; e cosí la nuova dell'invasione,
sparsa sollecitamente, portò negli altri luoghi il terrore
anche prima delle armi.
Chi non sarebbesi rivoltato allora contro il governo repubblicano,
dopo i funesti esempi di coloro che eran rimasti vittima del suo
partito, vedendo dappertutto il nemico vincitore e niuna difesa
rimaner a sperarsi dagli amici? Si era giá nel caso che i
repubblicani, ridotti a picciolissimo numero, sembravano essi esser
gl'insorgenti. Eppure l'amore per la repubblica era cosí
grande, che faceva ancora amare il governo, e tutt'i repubblicani
morirono con lui.
Un poco di truppa francese e patriotica che era in Campobasso fu
costretta ad abbandonarla. Si perdette anche il contado di Molise.
Non si era pensato a guadagnar le posizioni di Monteforte,
Benevento, Cerreto ed Isernia, onde impedire le comunicazioni di
queste insorgenze tra loro. Ribollí l'insorgenza di Nola,
comunicando con quella di Puglia; e Napoli fu quasi che assediata.
XLVI
MINISTRO DELLA GUERRA
Si era esposto mille volte al ministro della guerra tutto il
pericolo che si correva per le insorgenze troppo trascurate; ma egli
credeva ed avea fatto credere al governo non esser ciò altro
che voci di allarmisti. Si giunse a promulgare una legge severissima
contro i medesimi; ma la legge dovea farsi perché gli
allarmisti non ingannassero il popolo, e non giá
perché il governo fosse ingannato dagli adulatori.
Il governo era su questo oggetto molto mal servito da' suoi agenti
tanto interni che esterni, poiché per lo piú eransi
affidati gli affari a coloro i quali altro non aveano che
l'entusiasmo; ed essi piú del pericolo temevano la fatica di
doverlo prevedere.
I popoli non erano creduti. Si chiesero de' soccorsi al governo per
frenare l'insorgenza scoppiata nel Cilento. Si proponeva al ministro
che s'inviassero i francesi. - I francesi - si rispondeva - non sono
buoni a frenare l'insorgenza; - e si diceva il vero(60). - Vi
anderanno dunque i patrioti? - I patrioti faranno peggio. - Ma
intanto il pessimo di tutt'i partiti fu quello di non prenderne
alcuno; ed il piú funesto degli errori fu quello di credere
che il tempo avesse potuto giovare a distruggere l'insorgenza.
Il ministro della guerra diceva sempre al governo che egli si
occupava a formare un piano, che avrebbe riparato a tutto. Prima
parte però di ogni piano avrebbe dovuto esser quella di far
presto.
Si disse al ministro che avesse occupata Ariano, e non curò
di farlo; se gli disse che avesse occupata Monteforte, e non
curò di farlo. Manthoné credeva che il nemico non
fosse da temersi. Fino agli ultimi momenti ei lusingò se
stesso ed il governo: credeva che i russi, i quali erano sbarcati in
Puglia, non fossero veramente russi, ma galeoti che il re di Napoli
avea spediti abbigliati alla russa. Gl'insorgenti erano giá
alla Torre, lo stesso Ruffo co' suoi calabresi era in Nola,
Micheroux co' russi era al Cardinale, Aversa era insorta ed aveva
rotta ogni comunicazione tra Napoli e Capua; ed il ministro della
guerra, a cui tutto ciò si riferiva, rispondeva non esser
altro che pochi briganti, i quali non avrebbero ardito di attaccar
la capitale. Quale stranezza! Una centrale immensa, aperta da tutt'i
lati, il di cui popolo vi è nemico, a cui dopo un giorno si
toglie l'acqua e dopo due giorni il pane!...
XLVII
DISFATTA DI MARIGLIANO
Ma chi potea smuovere il ministro della guerra dall'idea di
difendere la repubblica nella centrale? Egli volle anche difenderla
in un modo tutto suo. Non impiegò se non picciolissime forze,
le quali, se prima sarebbero state bastanti ad impedire che
l'insorgenza nascesse, non erano poi sufficienti a combatterla.
Egli avea fatto credere al governo ed alla nazione che potea
disporre di ottomila uomini di truppe di linea; ma questa colonna,
colla quale si avrebbe potuto formare un campo per difendere Napoli,
non si vide mai intera. Molti credettero che si avrebbe potuto
riunire gran numero di patrioti, se si dichiarasse la patria in
pericolo; ma, sia timore, sia soverchia confidenza, questo
linguaggio franco non si volle mai adottare dal governo, e solo si
ridusse ad ordinare che ad un tiro designato di cannone tutti della
milizia nazionale dovessero condursi ai loro posti, e gli altri del
popolo ritirarsi nelle loro case, né uscirne, sotto pena
della vita, prima del nuovo segno. Misura piú allarmante di
qualunque dichiarazione di pericolo, poiché, non
dichiarandolo, lasciava libero il capo alla fantasia alterata
d'immaginarlo piú grande di quello che era; misura che non
dovea usarsi se non negli estremi casi e che, essendosi usata
imprudentemente la prima volta, quando bisogno non vi era, fece
sí che si fosse usata quasi che inutilmente, quando poi vi fu
bisogno(61).
Intanto le infinitesimali colonne spedite da Manthoné furono
ad una ad una distrutte. Quella comandata da Spanò fu battuta
a Monteforte; l'altra, comandata da Belpulsi, che dovea esser per lo
meno di mille e duecento uomini, vanguardia di un corpo piú
numeroso, e che poi si trovò essere in tutto di
duecentocinquanta, fu costretta a retrocedere da Marigliano, ove non
potea piú reggere in faccia a tutta la forza di Ruffo. La
sola colonna di Schipani resse nella Torre dell'Annunziata,
perché era composta di numero maggiore, perché non
poteva esser circondata se prima non si guadagnava Marigliano e
perché finalmente era sotto la protezione delle barche
cannoniere, le quali allontanavano l'inimico dalla strada che va
lungo il mare. La nostra marina continuò a ben meritare della
patria e, finché vi rimase il minimo legno, tenne sempre
lontani gl'inglesi. E chi mai demeritò della patria,
all'infuori di coloro che alla patria non appartenevano?
Ma finalmente Ruffo, padrone di Nola e di Marigliano, si
avanzò da quella via verso Portici, tagliando cosí la
ritirata alla colonna di Schipani e togliendole ogni comunicazione
con Napoli. Tra Portici e Napoli vi era il picciol forte di
Vigliena, difeso da pochi patrioti; e, ad onta delle forze
infinitamente superiori di Ruffo, sostennero oltre ogni credere il
forte: quando furono ridotti alla necessitá di cederlo,
risolverono di farlo saltar per aria. L'autore di questa ardita
risoluzione fu Martelli.
Non minor valore dimostrò la colonna di Schipani: si
aprí per sei miglia la strada in mezzo ai nemici, prese de'
cannoni, giunse a Portici. Le nuove che si aveano di Napoli, la
quale si credeva giá presa, indussero alcuni vili a gridar
«viva il re» e costrinsero gli altri a rendersi
prigionieri di guerra.
XLVIII
CAPITOLAZIONE
Ma Napoli non era presa ancora. I nostri si eran battuti con sorte
infelice nel dí 13 giugno al ponte della Maddalena, e furono
costretti a ritirarsi nei castelli. Il governo si era giá
ritirato nel Castello nuovo. Il solo castello del Carmine, il quale
altro non è che una batteria di mare e che per la via di
terra non si può difendere, era caduto nelle mani
degl'insorgenti.
E quale castello di Napoli, all'infuori di Sant'Elmo si può
difendere? Il partito migliore sarebbe stato quello di abbandonar la
cittá, e, fatta una colonna di patrioti, che allora forse per
la necessitá sarebbe divenuta numerosissima, guadagnar Capua
per la via di Aversa o di Pozzuoli. Questo era stato il progetto di
Girardon, che comandava in Capua le poche forze francesi rimaste nel
territorio della repubblica napolitana. Se questo progetto fosse
stato eseguito, Napoli non sarebbe divenuta, come addivenne, teatro
di stragi, d'incendi, di scelleraggini e di crudeltá; ed ora
non piangeremmo la perdita di tanti cittadini.
Durante l'assedio dei castelli il popolo napolitano, unito
agl'insorgenti, commise delle barbarie che fan fremere:
incrudelí financo contro le donne, alzò nelle
pubbliche piazze dei roghi, ove si cuocevano le membra
degl'infelici, parte gittati vivi e parte moribondi. Tutte queste
scelleraggini furono eseguite sotto gli occhi di Ruffo ed alla
presenza degl'inglesi.
I due castelli Nuovo e dell'Uovo, difesi dai patrioti, fecero
intanto per qualche giorno la piú vigorosa resistenza. Se i
patrioti avessero avuto un poco piú di forza, avrebbero
potuto riguadagnar Napoli: ma essi non erano che appena cinquecento
uomini atti alle armi; e Mégeant, che comandava in Sant'Elmo,
non permise piú ai suoi francesi di unirsi ai nostri.
Si sono tanto ammirati i trecento delle Termopili, perché
seppero morire; i nostri fecero anche dippiú: seppero
capitolare coll'inimico e salvarsi; seppero almeno una volta far
riconoscere la repubblica napolitana.
La capitolazione fu sottoscritta nella fine di giugno. Si promise
l'amnistia; si diede a ciascuno la libertá di partire o di
restare, come piú gli piaceva; e tanto a coloro che
partissero quanto a coloro che restassero si promise la sicurezza
delle persone e degli averi. La capitolazione fu sottoscritta da
Ruffo, vicario generale del re di Napoli; da Micheroux, generale
delle sue armi; dall'ammiraglio russo; dal comandante delle forze
turche; da Food, comandante i legni inglesi che si trovarono
all'azione; e da Mégeant, il quale, in nome della repubblica
francese, entrò garante della napolitana. Furon dati per
parte di Ruffo degli ostaggi per la sicurezza dell'esecuzione del
trattato, e questi furon consegnati a Mégeant(62).
Per eseguire il trattato fu stabilito un armistizio, ma
nell'armistizio si preparò il tradimento. Appena che la
regina seppe l'occupazione di Napoli, inviò da Palermo milady
Hamilton a raggiungere Nelson. - Voglio prima perdere - avea detto
la regina ad Hamilton - tutti e due i regni che avvilirmi a
capitolar coi ribelli. - Che Hamilton si prestasse a servir la
regina, era cosa non insolita; essa finalmente non disponeva che
dell'onor suo: ma che Nelson, il quale avea trovata la capitolazione
giá sottoscritta, prostituisse ad Hamilton l'onor suo, l'onor
delle sue armi, l'onor della sua nazione; questo è ciò
che il mondo non aspettava, e che il governo e la nazione inglese
non dovea soffrire(63).
Nelson col resto della sua flotta giunse nella rada di Napoli
durante l'armistizio, e dichiarò che un trattato fatto senza
di lui, che era ammiraglio in capo, non dovea esser valido; quasi
che l'onorato e valoroso Food, che era persona legittima a ricevere
i castelli, non lo fosse poi ad osservare le condizioni della resa;
quasi che una capitolazione potesse esser legittima per una parte ed
illegittima per l'altra, e, non volendo mantener le promesse fatte
alla repubblica napolitana, non fosse necessario restituire ai suoi
agenti tutto ciò che per tali promesse aveano giá
consegnato. Acton diceva e faceva dire al re, che era a bordo dei
vascelli inglesi, circondato però dalle creature di Carolina:
che «un re non capitola mai coi suoi ribelli»(64). Egli
infatti era padrone di non capitolare; ma si poteva domandare se
mai, quando un re abbia capitolato, debba o no mantenere la sua
parola!
Intanto i patrioti per Napoli erano arrestati; la partenza di quei
che eransi imbarcati si differiva; Mégeant che avea gli
ostaggi nelle sue mani, Mégeant che avea ancora forza per
resistere, che poteva e doveva essere il garante della
capitolazione, Mégeant dormiva. Nel tempo dell'armistizio
permise che i nemici erigessero le batterie sotto il suo forte. Fu
attaccato, fu battuto, non fece una sortita, appena sparò un
cannone, fu vinto, si rese.
Segnò una capitolazione vergognosissima al nome francese.
Quando dovea rimaner solo per ricoprirsi di obbrobrio, perché
non capitolò insieme cogli altri forti? Restituí gli
ostaggi, ad onta che vedesse i patrioti non ancora partiti e ad onta
che resistesse ancora Capua, ove gli ostaggi si poteano conservare.
Promise di consegnare i patrioti che erano in Sant'Elmo, e li
consegnò. Fu visto scorrere tra le file dei suoi soldati, e
riconoscere ed indicare qualche infelice che si era nascosto alle
ricerche, travestito tra quei bravi francesi, coi quali avea sparso
il suo sangue. Neanche Matera, antico ufficiale francese, fu
risparmiato, ad onta dell'onor nazionale che dovea salvarlo e del
diritto di tutte le genti. Fu imbarcato colla sua truppa,
partí solo colla sua truppa, e non domandò neanche dei
napolitani.
E vi è taluno il quale ardisce di mettere in dubbio che
Mégeant sia un traditore? E quest'uomo intanto ancora
«disonora, portandolo, l'uniforme francese», che
è l'uniforme della gloria e dell'onore?(65). Bravi ed onorati
militari destinati a giudicarlo, avvertite: il giudizio, che voi
pronuncerete sopra di lui, sará il giudizio che cinque
milioni di uomini pronunzieranno sopra di voi!
XLIX
PERSECUZIONE DE' REPUBBLICANI
Dopo la partenza di Mégeant, si spiegò tutto l'orrore
del destino che minacciava i repubblicani.
Fu eretta una delle solite Giunte di Stato nella capitale; ma
giá da due mesi un certo Speziale, spedito espressamente da
Sicilia, avea aperto un macello di carne umana in Procida, ove
condannò a morte un sartore perché avea cuciti gli
abiti repubblicani ai munícipi, ed anche un notaro, il quale
in tutto il tempo della durata della repubblica non avea mai fatto
nulla e si era rimasto nella perfetta indifferenza. - Egli è
un furbo - diceva Speziale: - è bene che muoia. - Per suo
ordine morirono Spanò, Schipani, Battistessa. Quest'ultimo
non era morto sulla forca; dopo esservi stato sospeso per
ventiquattro ore, allorché si portò in chiesa per
seppellirlo, fu osservato che dava ancora qualche languido segno di
vita. Si domandò a Speziale che mai si dovea fare di lui: -
Scannatelo - egli rispose.
Ma la Giunta che si era eretta in Napoli si trovò per
accidente composta di uomini dabbene, che amavano la giustizia ed
odiavano il sangue. Ardirono dire al re esser giusto e ragionevole
che la capitolazione si osservasse: giusto, perché, se prima
della capitolazione si poteva non capitolare, dopo aver capitolato
non rimaneva altro che eseguire; ragionevole, perché non
è mai utile che i popoli si avvezzino a diffidare della
parola di un re, e perché si deturpa cosí la causa di
ogni altro sovrano e si toglie ogni mezzo di calmare le rivoluzioni.
Allora fu che Acton disse che, se non avea luogo la capitolazione,
poteva averlo la clemenza del re. Ma qual clemenza, qual
generositá sperare da chi non osservava un trattato? La prima
caratteristica degli uomini vili è quella di mostrarsi
superiori al giusto e di voler dare per capriccio ciò che
debbono per legge: cosí sotto l'apparenza del capriccio
nascondono la viltá, e promettono piú di quel che
debbono per non osservare quello che hanno promesso. Rendasi
giustizia a Paolo primo. Egli conobbe quando importasse che i popoli
prestassero fede alle parole dei sovrani, ed il di lui gabinetto fu
sempre per la capitolazione. Il maggior numero degli officiali della
flotta inglese compresero quanta infamia si sarebbe rovesciata sulla
loro nazione, giacché il loro ammiraglio era il vero, l'unico
autore di tanta violazione del diritto delle genti; e si misero in
aperta sedizione.
La Giunta intanto rammentava al governo le leggi della giustizia; ed
invitata a formare una classificazione di trentamila persone
arrestate (poiché non meno di tante ve ne erano in tutte le
carceri del Regno), disse che doveano esser posti in libertá,
come innocenti, tutti coloro i quali non fossero accusati di altro
che di un fatto avvenuto dopo l'arrivo dei francesi. La rivoluzione
in Napoli non potea chiamarsi «ribellione», i
repubblicani non eran ribelli, ed il re non potea imputare a delitto
azioni commesse dopo che egli non era piú re di Napoli, dopo
che per un diritto tanto legittimo quanto quello della conquista,
cioè quanto lo stesso diritto di suo padre e suo, aveano i
francesi occupato il di lui regno. Che se i repubblicani avean
professate massime le quali parevan distruttrici della monarchia,
ciò neanche era da imputarsi loro a delitto, perché
eran le massime del vincitore, a cui era dovere ubbidire. Essi avean
professata democrazia, perché democrazia professavano i
vincitori: se i vincitori si fossero governati con ordini
monarchici, i vinti avrebbero seguite idee diverse. L'opinione
dunque non dovea calcolarsi, perché non solamente non era
volontaria, ma era necessaria e giusta, perché era giusto
ubbidire al vincitore. Il voler stabilire la massima contraria, il
pretendere che un popolo dopo la legittima conquista ritenghi ancora
le antiche affezioni e le antiche idee, è lo stesso che voler
fomentare l'insubordinazione, e coll'insubordinazione voler eternare
la guerra civile, la mutua diffidenza tra i governi ed i popoli, la
distruzione di ogni morale pubblica e privata, la distruzione di
tutta l'Europa. Al ministero di Napoli ciò dispiaceva,
perché nella guerra era rimasto perdente; ma, se fosse stato
vincitore, se invece di perderlo avesse conquistato un regno, gli
sarebbe piaciuto che i nuovi suoi sudditi avessero conservato troppo
tenacemente e fino alla caparbietá l'affezione alle antiche
massime ed agli ordini antichi? Non avrebbe punito come ribelle
chiunque avesse troppo manifestamente desiderato l'antico sovrano?
La vera morale dei principi deve tendere a render facile la
vittoria, e non giá femminilmente dispettosa la disfatta.
I princípi della Giunta eran quelli della ragione, e non
giá della corte. In questa i partiti eran divisi. Dicesi che
la regina non volesse la capitolazione, ma che, fatta una volta, ne
volesse l'osservanza: difatti era inutile coprirsi di obbrobrio per
perdere due o trecento infelici. Ruffo, autor della capitolazione,
voleva lo stesso, e divenne perciò inviso ed alla regina, che
non avrebbe voluta la capitolazione, ed agli altri, ai quali non
dispiaceva che si fosse fatta, ma non volevano che si osservasse. Le
istruzioni, che furon date alla Giunta, da persone degne di fede si
assicura che furono scritte da Castelcicala. In esse stabilivasi,
come massima fondamentale, esser rei di morte tutti coloro i quali
avean seguíta la repubblica: bastava che taluno avesse
portata la coccarda nazionale. Per avere una causa di vendetta,
ammetteva che il re era partito; ma, per averne una ragione,
asseriva che, ad onta della partenza, era rimasto sempre presente in
Napoli. Il Regno si dichiarava un regno di conquista, quando si
trattava di distruggere tutt'i privilegi della Cittá e del
Regno, i quali si chiamano quasi in tutta l'Europa
«privilegi», mentre dovrebbero esser diritti,
perché fondati sulle promesse dei re; ma, quando si trattava
di dover punire i repubblicani, il Regno non era mai stato
perduto(66). Tale fu la logica di Caligola, quando condannava a
morte egualmente e chi piangeva e chi gioiva per la morte di
Drusilla.
Nelson, unico autore dell'infrazione del trattato, quell'istesso
Nelson che avea condotto il re in Sicilia, lo ricondusse in Napoli,
ma sempre suo prigioniero; né mai, partendo o ritornando,
ebbe mai la minima cura dell'onor di lui: giacché, partendo,
lo tenne in mostra al popolo quasi uom che disprezzasse ogni segno
di affezione che questo gli dava; tornando, quasi insultasse ai mali
che soffriva. Egli vide dal suo legno i massacri e i saccheggi della
capitale. Poco di poi con suo rescritto avvisò i magistrati
che egli avea perdonato ai lazzaroni il saccheggio del proprio
palazzo, e sperava che gli altri suoi sudditi, dietro il di lui
esempio, perdonassero egualmente i danni che avean sofferti! Tutti
gl'infelici che il popolo arrestava eran condotti e presentati a
lui, tutti pesti, intrisi di polvere e di sangue, spirando quasi
l'ultimo respiro. Non s'intese mai da lui una sola parola di
pietá. Era quello il tempo, il luogo ed il modo in cui un re
dovea mostrarsi al popolo suo? Egli era in mezzo ai legni pieni
d'infelici arrestati, che morivano sotto i suoi occhi per la
strettezza del sito, per la mancanza di cibi e dell'acqua, per
gl'insetti, sotto la piú ardente canicola, nell'ardente clima
di Napoli. Egli avea degl'infelici ai ferri finanche nel suo legno.
Con tali princípi, la corte dovea stancarsi, e si
stancò ben presto, delle noiose cure che la Giunta si
prendeva per la salute dell'umanitá. Gli uomini dabbene, che
la componevano, furono allontanati: non rimase altro che Fiore, il
quale da piccioli princípi era pervenuto alla carica di
uditore provinciale in Catanzaro, donde, fuggiasco pel taglione in
tempo della repubblica, era ritornato in Napoli, come Mario in Roma,
spirando stragi e vendette. Ritornò Guidobaldi, seco menando,
come in trionfo, la coorte delle spie e dei delatori, che erano
fuggiti con lui. A questi due furono aggiunti Antonio La Rossa e tre
siciliani: Damiani, Sambuti ed, il piú scellerato di tutti,
Speziale.
La prima operazione di Guidobaldi fu quella di transigersi con un
carnefice. Al numero immenso di coloro che egli volea impiccati, gli
parve che fosse esorbitante la mercede di sei ducati per ciascuna
operazione, che per antico stabilimento il carnefice esigeva dal
fisco; credette poter procurare un gran risparmio, sostituendo a
quella mercede una pensione mensuale. Egli credeva che almeno per
dieci o dodici mesi dovesse il carnefice esser ogni giorno occupato.
La storia ci offre mille esempi di regni perduti e poscia colle armi
ricuperati: in nessuno però si ritrovano eguali esempi di
tale stolta ferocia. Silla fece morire centomila romani non per
altro che per la sua volontá: Augusto depose la sua ferocia
colle armi.
Un altro re di Napoli, Ferdinando primo di Aragona, capitolò
egualmente coi suoi sudditi, e poscia sotto specie di amicizia li
fece tutti assassinare. Ma, mentre commetteva il piú orribile
tradimento di cui ci parli la storia, mostrò almeno di
rispettare l'apparenza della santitá dei trattati. Mostrarono
almeno gli alleati, che li avean garantiti, di reclamarne
l'esecuzione. Il nostro storico Camillo Porzio attribuisce a questa
scelleraggine le calamitá, che poco dopo oppressero e
finalmente distrussero la famiglia aragonese in Napoli.
La vera gloria di un vincitore è quella di esser clemente: il
voler distruggere i suoi nemici per la sola ragione di esser
piú forte è facile, e nulla ha con sé che il
piú vile degli uomini non possa imitare. Una vendetta rapida
e forte è simile ad un fulmine che sbalordisce; ma porta seco
qualche carattere di nobiltá. Il deliziarsi nel sangue, il
gustare a sorsi tutto il calice della vendetta, il prolungarla al di
lá del pericolo e dell'ira del momento, che sola può
renderla, se non lodevole, almeno scusabile, il vincer la ferocia
del popolo e lo stesso terrore dei vinti, e far tutto ciò
prostituendo le formole piú sacre della giustizia; ecco
ciò che non è né utile né giusto
né nobile. La storia ha dato un luogo distinto tra i tiranni
ai geni cupi e lentamente crudeli di Tiberio e di Filippo secondo,
ai fatti dei quali la posteritá aggiungerá gli orrori
commessi in Napoli.
Si conobbe finalmente la legge di maestá, che dovea esser di
norma alla Giunta nei suoi giudizi; legge terribile, emanata dopo il
fatto e da cui neanche gl'innocenti si potevan salvare. Eccone li
principali articoli, quali si sono potuti raccogliere dalle voci
piú concordi tra loro e piú consone alle sentenze
pronunziate dalla Giunta, poiché è da sapersi che
questa legge, colla quale si sono giudicati quasi trentamila
individui, non è stata pubblicata giammai.
«Sono dichiarati rei di lesa maestá in primo capo (e
perciò degni di morte) tutti coloro che hanno occupato i
primari impieghi della sedicente repubblica». Per
«primari impieghi» s'intendevano le cariche della
rappresentanza nazionale, del direttorio esecutivo, dei generali,
dell'alta commissione militare, del tribunale rivoluzionario(67).
Egualmente erano rei «tutti coloro che fossero cospiratori
prima della venuta dei francesi». Sotto questo nome andavano
compresi tutti coloro che aveano occupato Sant'Elmo e tutti coloro
che erano andati ad incontrare i francesi in Capua ed in Caserta; ad
onta che la cessione di Capua fosse stata fatta da autoritá
legittima; ad onta che tra i privilegi della cittá di Napoli,
riconosciuti dal re, vi fosse quello che, giunto il nemico a Capua,
la cittá di Napoli potesse, senza taccia di ribellione,
prendere quegli espedienti che volesse, ed invitare anche il nemico;
ad onta che, essendo legittima la cessione di Capua e di tutte le
province del Regno a settentrione della linea di demarcazione, un
numero infinito di persone, che dimoravano nella capitale, ma che
intanto aveano la cittadinanza in quelle province, fossero divenuti
legittimamente cittadini francesi; ad onta finalmente che, dopo la
resa di Capua, in Napoli fosse cessata ogni autoritá
legittima: niun re, niun vicario regio, niun generale, nessuna forza
pubblica; tutto era nell'anarchia ed a ciascuno nell'anarchia era
permesso di salvar come meglio poteva la propria vita.
Intanto, ad onta di tutto ciò, furon dichiarati rei
«tutti coloro che nelle due anarchie avessero fatto fuoco sul
popolo dalle finestre»; cioè tutti coloro i quali non
avessero sofferto che la piú scellerata feccia del popolo tra
la licenza dell'anarchia li assassinasse.
«Tutti coloro che avevano continuato a battersi in faccia alle
armi del re, comandate dal cardinal Ruffo, o a vista del re, che
stava a bordo degl'inglesi». Questo articolo avrebbe portate
alla morte per lo meno ventimila persone, tra le quali eranvi tutti
coloro che si trovavan rifugiati a Sant'Elmo, i quali, neanche
volendo, poteano piú separarsi dai francesi.
«Tutti coloro che avessero assistito all'innalzamento
dell'albero nella piazza dello Spirito santo (perché in
quell'occasione si atterrò la statua di Carlo terzo) o alla
festa nazionale in cui si lacerarono le bandiere reali ed inglesi,
prese agl'insorgenti».
«Tutti coloro che durante il tempo della repubblica aveano, o
predicando o scrivendo, offeso il re o l'augusta sua
famiglia». La legge del Regno esentava dalla pena di morte
chiunque non avea fatto altro che parlare. La legge diceva:
«Se è stato mosso da leggerezza, nol curiamo; se da
follia, lo compiangiamo; se da ragione, gli siam grati; e, se da
malizia, lo perdoniamo, a meno che dalle parole non ne possa nascere
un attentato piú grave». Una legge posteriore a questa
condannò a morte tutti coloro i quali avean parlato o scritto
in un'epoca, nella quale forse nessuno poteva render ragione di
ciò che avea fatto. Si vide allora che non bastava non aver
offese le leggi per esser sicuro.
«Finalmente tutti coloro i quali in modo deciso avessero
dimostrata la loro empietá verso la sedicente caduta
repubblica». Quest'ultimo comprendeva tutti.
Per questo articolo infatti fu condannata a morte la sventurata
Sanfelice. Essa non avea altro delitto che quello di aver rivelato
al governo la congiura di Baccher, quando era sul punto di
scoppiare. Niuna parte avea avuta né nella rivoluzione
né nel governo. Questa operazione le fu ispirata dalla
piú pura virtú. Non poté reggere all'idea del
massacro, dell'incendio e della ruina totale di Napoli, che i
congiurati avean progettata. Questa generosa umanitá,
indipendente da ogni opinione di governo e da ogni spirito di
partito, le costò la vita; e fu spinta la ferocia al segno di
farla entrare tre volte in «cappella», ad onta della
consuetudine del Regno, la quale ragionevolmente volea che chi
avesse una volta sofferta la «cappella» aver dovesse la
grazia della vita. Non ha sofferta infatti la pena della morte colui
che per ventiquattr'ore l'ha veduta inevitabile ed imminente?
Eppure, rompendosi ogni legge di pietá, ogni consuetudine del
Regno, la sventurata Sanfelice, dopo un anno, fu decollata senza
delitto!
«Coloro che erano ascritti alla sala patriotica, benché
colle loro mani istesse avessero segnata la loro sentenza di morte
(non si comprende perché: un'adunanza patriotica è un
delitto in una monarchia, perché è rivoluzionaria; in
un governo democratico, è un'azione indifferente), pure Sua
Maestá, per la sua innata clemenza, li condanna all'esilio in
vita colla perdita de' beni, se abbiano prestato il giuramento;
quelli che non l'hanno prestato, sono condannati a quindici anni di
esilio».
«Finalmente coloro, i quali avessero avute cariche subalterne
e non avessero altri delitti, saranno riserbati all'indulto che Sua
Maestá concederá». Questo indulto fu immaginato
per due oggetti: il primo era quello di far languire un anno nelle
carceri coloro che non aveano alcun delitto. - Mio figlio è
innocente - diceva una sventurata madre a Speziale. - Ebbene -
rispondeva costui, - se è innocente, avrá l'onore di
uscir l'ultimo. - Il secondo oggetto era quello di condannare almeno
nell'opinione pubblica, con un perdono, anche coloro che per la loro
innocenza doveano essere assoluti.
Non avea forse ragione la regina, quando, se è vero
ciò che si dice, si opponeva a questa prostituzione di
giudizi?
Io vorrei che si esaminassero li giudizi della Giunta e di coloro
che dirigevan la Giunta, non colle massime della ragione e della
giustizia naturale, non colle massime della stessa giustizia civile,
poiché neanche con queste si troverebbe ragion di condannar
come ribelli coloro i quali non avean fatto altro che ubbidire ad
una forza legittima e superiore, alla quale era stato costretto a
cedere lo stesso re; ma colle massime dell'interesse del re. Io non
dirò che la giustizia è il primo interesse di un re:
ammetto anzi che l'interesse del re è la norma della
giustizia. Ed anche allora, chi potrebbe assolver molti (io dico
«molti», e sono ben lontano dal dir «tutti»:
sono ben lontano dal credere tutt'i membri della Giunta simili a
Speziale, e forse taluno non ha altra colpa che quella di non esser
stato abbastanza forte contro i tempi); chi potrebbe, dico, assolver
molti di aver non solo conculcata la giustizia, ma anche tradito il
re?
Quando Silla fece scannare seimila sanniti, disse al senato,
allarmato da' gemiti e dalle grida di quest'infelici: - Ponete mente
agli affari: son pochi sediziosetti che si correggono per ordine
mio. - Silla era piú grande e forse anche men crudele.
Se coloro che consigliavano il re gli avessero parlato il linguaggio
della saviezza e gli avessero fatto scrivere un editto, in cui si
fosse ai popoli parlato cosí: «Coloro i quali han
seguíto il partito della repubblica, ora che questo partito
è caduto, han pensato di aver bisogno di una capitolazione
per la loro salvezza. Se essi avessero conosciuto il mio cuore,
avrebbero compreso che questa capitolazione era superflua. Questo
errore è stato la causa di tutt'i loro traviamenti. Obblio
tutto. Possano cessare tutt'i partiti e riunirsi a me per il vero
bene della patria! Possa questa generositá far loro
comprendere il mio cuore e rendermi degno del loro amore! Possano le
tante vicende e le tante sventure sofferte renderli piú
saggi! Se, ad onta di tutto ciò, vi è taluno a cui il
nuovo ordine di cose non piaccia, siagli permesso partire. Ma, o che
parta o che resti, i suoi beni, la sua persona, la sua famiglia
saranno intatte, ed in me non troverá che un padre»; in
quel momento,... momento forsi di disinganno... un proclama di
questa natura avrebbe riuniti tutti gli animi. La nazione non
sarebbe stata distrutta da una guerra civile;... l'amor del popolo
avrebbe prodotta la sicurezza del re e la forza del Regno...
Se oggi il regno di Napoli si trova diviso, desolato, pieno di odii
intestini, quasi sul punto di sciogliersi, perché il re non
dice ai suoi ministri e suoi consiglieri: - Voi siete stati tanti
traditori! voi colpate alla mia rovina! -?
L'esecuzione di questa legge spaventò finanche gli stessi
carnefici della Giunta. Essa avrebbe fatto certamente rivoltare il
popolo. La stessa crudeltá rese indispensabile la
moderazione. Vennero da Palermo le note de' proscritti; ma rimase la
legge, affinché si potesse loro apporre un delitto.
Le sentenze erano fatte prima del giudizio. Chi era destinato alla
morte dovea morire, ancorché il preteso reo fosse minore.
Tutti li mezzi si adoperavano per ritrovare il delitto; nessuno se
ne ammetteva per difendere l'innocenza. Il nome del re
dispensò a tutte le formole del processo, quasi che si
potesse dispensare alla formola senza dispensare alla giustizia.
Ventiquattro ore di tempo si accordavano alla difesa: i testimoni
non si ammettevano, si allontanavano, si minacciavano, si
sbigottivano, talora anche si arrestavano; il tempo intanto
scorreva, e l'infelice rimaneva senza difesa. Non confronto tra i
testimoni, non ripulse di sospetti, non ricognizione di scritture si
ammettevano; non debolezza di sesso, non imbecillitá di anni
potevan salvare dalla morte. Si son veduti condannati a morte
giovinetti di sedici anni; giudicati, esiliati fanciulli di dodici.
Non solo tutt'i mezzi della difesa erano tolti, ma erano spenti
tutt'i sensi di umanitá.
Se la Giunta, per invincibile evidenza d'innocenza, è stata
talora quasi costretta ad assolvere suo malgrado un infelice, si
è veduto da Palermo rimproverarsi di un tal atto di
giustizia, e condannarsi per arbitrio chi era stato o assoluto o
condannato a pena molto minore. Dal processo di Muscari nulla si
rilevava che potesse farlo condannare; ma troppo zelo avea mostrato
Muscari per la repubblica, e si voleva morto. La Giunta, dicesi,
ebbe ordine di sospender la sentenza assolutoria e di non decidere
la causa finché non si fosse ritrovata una causa di morte. A
capo di due mesi è facile indovinare che questa causa si
trovò. Pirelli, uno dei migliori uomini che avesse la patria,
uno dei migliori magistrati che avesse lo Stato, anche in tempo del
re, fu dalla Giunta assoluto: i trenta di Atene quasi arrossirono di
condannare Focione. Pirelli era però segnato tra le vittime,
e da Palermo fu condannato ad un esilio perpetuo. Michelangiolo Novi
era stato condannato all'esilio; la sentenza era stata giá
eseguita, si era giá imbarcato, il legno era per far vela:
giunge un ordine da Palermo, e fu condannato al carcere perpetuo
nella Favignana. Gregorio Mancini era stato giá giudicato,
era stato giá condannato a quindici anni di esilio; di
giá prendeva commiato dalla moglie e dai figli: un ordine di
Speziale lo chiama, e lo conduce... dove?... alla morte. Altre volte
si era detto che le leggi condannavano ed i re facevano le grazie:
in Napoli si assolveva in nome della legge e si condannava in nome
del re.
Intanto Speziale, a cui venivano particolarmente commesse le persone
che si volevan perdute, nulla risparmiava né di minacce
né di suggestioni né d'inganni per servire alla
vendetta della corte. Nicola Fiani era suo antico amico; Nicola
Fiani era destinato alla morte, ma non era né convinto
né confesso. Speziale si ricorda della sua antica amicizia:
dal fondo di una fossa, ove il povero Fiani languiva tra' ferri, lo
manda a chiamare; lo fa condurre sciolto, non giá nel luogo
delle sedute della Giunta, ma nelle sue stanze. Nel vederlo gli
scorrono le lagrime; lo abbraccia: - Povero amico! a quale stato ti
veggo io ridotto! Io sono stanco di piú fare la figura di
boia. Voglio salvarti. Tu non parli ora al tuo giudice; sei
coll'amico tuo. Ma, per salvarti, convien che tu mi dica ciò
che hai fatto. Queste sono le accuse contro di te. In Giunta fosti
saggio a negare; ma ciò che dirai a me non lo saprá la
Giunta... - Fiani presta fede alle parole dell'amicizia; Fiani
confessa... - Bisogna scriverlo; servirá per memoria... -
Fiani scrive. È inviato al suo carcere, e dopo due giorni va
alla morte.
Speziale interrogò Conforti. Dopo avergli domandato il suo
nome e la carica che nella repubblica avea ottenuto, lo fa sedere.
Gli fa sperare la clemenza del re; gli dice che egli non avea altro
delitto che la carica, ma che una carica eminente era segno di
«patriotismo», e perciò delitto in coloro che
erano stati, senza merito e senza nome, elevati per solo favore di
fazione rivoluzionaria. Conforti era tale, che ogni governo sarebbe
stato onorato da lui. Indi gli parla delle pretensioni che la corte
avea sullo Stato romano. - Tu conosci - gli dice - profondamente
tali interessi. - La corte ha molte memorie mie - risponde Conforti.
- Sí, ma la rivoluzione ha fatto perdere tutto. Non saresti
in grado di occupartici di nuovo? - E, cosí dicendo, gli fa
quasi sperare in premio la vita. Conforti vi si occupa; Speziale
riceve il lavoro del rispettabile vecchio; e, quando ne ebbe
ottenuto l'intento, lo mandò a morire(68).
Qual mostro era mai questo Speziale! Non mai la sua anima atroce ha
conosciuto altro piacere che quello di insultar gl'infelici. Si
dilettava passar quasi ogni giorno per le prigioni a tormentare,
opprimere colla sua presenza coloro che non poteva uccidere ancora.
Se avea il rapporto di qualche infelice morto di disagio o
d'infezione, inevitabile in carceri orribili, dove gli arrestati
erano quasiché accatastati, questo rapporto era per lui
l'annunzio di «un incomodo di meno». Un soldato
insorgente uccise un povero vecchio, che per poco si era avvicinato
ad una finestra della sua carcere a respirare un'aria meno infetta:
gli altri della Giunta volean chieder conto di questo fatto: - Che
fate voi? - disse Speziale; - costui non ha fatto altro che
toglierci l'incomodo di fare una sentenza. - La moglie di Baffa gli
raccomanda il suo marito... - Vostro marito non morrá - gli
diceva Speziale; - siate di buon animo: egli non avrá che
l'esilio. - Ma quando? - Al piú presto. - Intanto scorsero
molti giorni: non si avea nuova della causa di Baffa. La moglie
ritorna da Speziale, il quale si scusa che non ancora avea, per
altre occupazioni, potuto disbrigar la causa del marito; e la
congeda confermandole le stesse speranze che altra volta le avea
date. - Ma perché insultare questa povera infelice? - gli
disse allora uno che era presente al discorso... Baffa era stato
giá condannato a morte; ma la sentenza s'ignorava dalla
moglie. Chi può descrivere la disperazione, i lamenti, le
grida, i rimproveri di quella moglie infelice? Speziale con un
freddo sorriso le dice: - Che affettuosa moglie! Ignora finanche il
destino di suo marito. Questo appunto io voleva vedere. Ho capito:
sei bella, sei giovine, vai cercando un altro marito. Addio. -
Sotto la direzione di un tale uomo, ciascuno può comprendere
quale sia stata la maniera con cui sieno stati tenuti i carcerati.
Quante volte quegli infelici hanno desiderata ed invocata la
morte!... Ma la mia mente è stanca di piú occuparsi
de' mali dell'umanitá... Il mio cuore giá freme!
L
TALUNI PATRIOTI
Dopo la caduta della repubblica, Napoli non presentò che
l'immagine dello squallore. Tutto ciò che vi era di buono, di
grande, d'industrioso, fu distrutto; ed appena pochi avanzi de' suoi
uomini illustri si possono contare, scampati quasi per miracolo dal
naufragio, erranti, senza famiglia e senza patria, sull'immensa
superficie della terra.
Si può valutare a piú di ottanta milioni di ducati la
perdita che la nazione ha fatto in industrie; quasi altrettanto ha
perduto in mobili, in argenti, in beni confiscati: il prodotto di
quattro secoli è stato distrutto in un momento. Si son veduti
de' monopolisti inglesi mercanteggiare i nostri capi d'opera di
pittura, che il saccheggio avea fatti passare dagli antichi
proprietari nelle mani del popolaccio, il quale non ne conosceva
né il merito né il prezzo.
La rovina della parte attiva della nazione ha strascinata seco la
rovina della nazione intera: tutto il popolo restò senza
sussistenza, perché estinti furono o dispersi coloro che ne
mantenevano o che ne animavano l'industria; e gli stessi
controrivoluzionari piangono ora la perdita di coloro che essi
stessi hanno spinti a morte.
Aggiungete a questi danni la perdita di tutt'i princípi, la
corruzione di ogni costume, funeste ed inevitabili conseguenze delle
vicende di una rivoluzione; una corte che da oggi in avanti riguarda
la nazione come estranea e crede ritrovar nella di lei miseria e
nella di lei ignoranza la sicurezza sua; e l'uomo che pensa
vedrá con dolore una gran nazione respinta nel suo corso
politico allo stato infelice in cui era due secoli fa.
Salviamo da tanta rovina taluni esempi di virtú: la memoria
di coloro che abbiamo perduti è l'unico bene che ci resta,
è l'unico bene che possiamo trasmettere alla
posteritá. Vivono ancora le grandi anime di coloro che
Speziale ha tentato invano di distruggere; e vedranno con gioia i
loro nomi, trasmessi da noi a quella posteritá che essi tanto
amavano, servir di sprone all'emulazione di quella virtú che
era l'unico oggetto de' loro voti.
Noi abbiamo sofferti gravissimi mali; ma abbiam dati anche
grandissimi esempi di virtú. La giusta posteritá
obblierá gli errori che, come uomini, han potuto commettere
coloro a cui la repubblica era affidata: tra essi però
ricercherá invano un vile, un traditore. Ecco ciò che
si deve aspettare dall'uomo, ed ecco ciò che forma la loro
gloria.
In faccia alla morte nessuno ha dato un segno di viltá. Tutti
l'han guardata con quell'istessa fronte con cui avrebbero condannati
i giudici del loro destino. Manthoné, interrogato da Speziale
di ciò che avesse fatto nella repubblica, non rispose altro
che: - Ho capitolato. - Ad ogni interrogazione non dava altra
risposta. Gli fu detto che preparasse la sua difesa: - Se non basta
la capitolazione, arrossirei di ogni altra. -
Cirillo, interrogato qual fosse la sua professione in tempo del re,
rispose: - Medico. - Nella repubblica? - Rappresentante del popolo.
- Ma in faccia a me che sei? - riprese Speziale, che pensava
cosí avvilirlo(69). - In faccia a te? Un eroe. -
Quando fu annunziata a Vitagliani la sua sentenza, egli suonava la
chitarra; continuò a suonarla ed a cantare finché
venne l'ora di avviarsi al suo destino. Uscendo dalle carceri, disse
al custode: - Ti raccomando i miei compagni: essi sono uomini, e tu
potresti esser infelice un giorno al pari di loro. -
Carlomagno, montato giá sulla scala del patibolo, si rivolse
al popolo e gli disse: - Popolo stupido! tu godi adesso della mia
morte. Verrá un giorno, e tu mi piangerai: il mio sangue
giá si rovescia sul vostro capo e, se voi avrete la fortuna
di non esser vivi, sul capo de' vostri figli. -
Granalè dall'istesso luogo guardò la folla
spettatrice: - Vi ci riconosco - disse - molti miei amici:
vendicatemi! -
Nicola Palomba era giá sotto al patibolo: il commesso del
fisco gli dice che ancora era a tempo di rivelare de' complici. -
Vile schiavo! - risponde Palomba - io non ho saputo comprar mai la
vita coll'infamia. -
- Io ti manderò a morte - diceva Speziale a Velasco. - Tu?...
Io morirò, ma tu non mi ci manderai. - Cosí dicendo,
misura coll'occhio l'altezza di una finestra che era nella stanza
del giudice, vi si slancia sotto i suoi occhi, e lascia lo
scellerato sbalordito alla vista di tanto coraggio ed indispettito
per aver perduto la vittima sua.
Ma, se vi vuole del coraggio per darsi la morte, non se ne richiede
uno minore per non darsela, quando si è certo di averla da
altri. A Baffa(70), giá certo del suo destino, fu offerto
dell'oppio. Egli lo ricusò; e, morendo, dimostrò che
non l'avea ricusato per viltá. Era egli, al pari di Socrate,
persuaso che l'uomo sia posto in questo mondo come un soldato in
fazione e che sia delitto l'abbandonar la vita, non altrimenti che
lo sarebbe l'abbandonare il posto.
Questo sangue freddo, tanto superiore allo stesso coraggio, giunse
all'estremo nella persona di Grimaldi. Era giá condannato a
morte; era stato trattenuto dopo la condanna piú di un mese
tra' ferri; finalmente l'ora fatale arriva: di notte, una compagnia
di russi ed un'altra di soldati napolitani lo trasportano dalla
custodia al luogo dell'esecuzione. Egli ha il coraggio di
svincolarsi dalle guardie; si difende da tutti i soldati, si libera,
si salva. La truppa lo insiegue invano per quasi un miglio;
né lo avrebbe al certo raggiunto, se, invece di fuggire, non
avesse creduto miglior consiglio nascondersi in una casa, di cui
trovò la porta aperta. La notte era oscura e tempestosa; un
lampo lo tradí e lo scoperse ad un soldato, che l'inseguiva
da lontano. Fu raggiunto. Disarmò due soldati, si difese,
né lo potettero prendere se non quando, per tante ferite, era
giá caduto semivivo.
Quante perdite dovrá piangere, e per lungo tempo, la nostra
nazione! Io vorrei poter rendere ai nomi di tutti quell'onore che
meritano, e spargere sul loro cenere quei fiori che forse chi sa se
essi avranno giammai! Ma chi potrebbe rammentarli tutti?
Io non posso render a tutti quella giustizia che meritano, tra
perché non ho potuto sapere tutto ciò ch'è
avvenuto ne' diversi luoghi del Regno, tra perché nella mia
emigrazione non ho avuta altra guida che la mia memoria, la quale
non ha potuto tutto ritenere. Mi sia perciò permesso
trattenermi un momento sopra taluni piú noti.
Caracciolo Francesco. Era, senza contraddizione, uno de' primi geni
che avesse l'Europa. La nazione lo stimava, il re lo amava; ma che
poteva il re? Egli fu invidiato da Acton, odiato dalla regina, e
perciò sempre perseguitato. Non vi fu alcuna specie di
mortificazione a cui Acton non lo avesse assoggettato; si vide ogni
giorno posposto... Caracciolo era uno di quei pochi che al
piú gran genio riuniva la piú pura virtú. Chi
piú di lui amava la patria? Che non avrebbe fatto per lei?
Diceva che la nazione napolitana era fatta dalla natura per avere
una gran marina, e che questa si avrebbe potuto far sorgere in
pochissimo tempo; avea in grandissima stima i nostri marinari. Egli
morí vittima dell'antica gelosia di Thurn e della
viltá di Nelson... Quando gli fu annunziata la morte, egli
passeggiava sul cassero, ragionando della costruzione di un legno
inglese che era dirimpetto, e proseguí tranquillamente il suo
ragionamento. Intanto un marinaro avea avuto l'ordine di preparargli
il capestro: la pietá glielo impediva... Egli piangeva sulla
sorte di quel generale, sotto i di cui ordini aveva tante volte
militato. - Sbrigati - gli disse Caracciolo: - è ben grazioso
che, mentre io debbo morire, tu debbi piangere. - Si vide Caracciolo
sospeso come un infame all'antenna della fregata
«Minerva»; il suo cadavere fu gittato in mare. Il re era
ad Ischia, e venne nel giorno susseguente, stabilendo la sua dimora
nel vascello dell'ammiraglio Nelson. Dopo due giorni il cadavere di
Caracciolo apparve sotto il vascello, sotto gli occhi del re... Fu
raccolto dai marinari, che tanto l'amavano, e gli furono resi gli
ultimi offici nella chiesa di Santa Lucia, che era prossima alla sua
abitazione; offici tanto piú pomposi quantoché senza
fasto veruno e quasi a dispetto di chi allora poteva tutto, furono
accompagnati dalle lagrime sincere di tutt'i poveri abitanti di quel
quartiere, che lo riguardavano come il loro amico ed il loro padre.
Simile a Caracciolo era Ettore Carafa. Quest'eroe, unitamente al suo
bravo aiutante Ginevra, sostenne Pescara anche dopo le capitolazioni
di Capua, Gaeta e Sant'Elmo. Caduto nelle mani di Speziale,
mostrògli qual fosse il suo coraggio, ed andò a morte
con intrepidezza e disinvoltura.
Cirillo Domenico. Era uno de' primi tra i medici di una cittá
ove la medicina era benissimo intesa e coltivata; ma la medicina
formava la minor parte delle sue cognizioni, e le sue cognizioni
formavano la minor parte del suo merito. Chi può lodare
abbastanza la sua morale? Dotato di molti beni di fortuna, con un
nome superiore all'invidia, amico della tranquillitá e della
pace, senza veruna ambizione, Cirillo è uno di quei pochi,
pochi sempre, pochi in ogni luogo, che in mezzo ad una rivoluzione
non amano che il bene pubblico. Non è questo il piú
sublime elogio che si possa formare di un cittadino e di un uomo? Io
era seco lui nelle carceri; Hamilton e lo stesso Nelson, a' quali
avea piú volte prestato i soccorsi della sua scienza,
volevano salvarlo. Egli ricusò una grazia che gli sarebbe
costata una viltá.
Conforti Francesco. Si è giá detto il tratto di
perfidia che gli usò Speziale. A questo si aggiunga che
Conforti in tutto il corso della sua vita avea reso de' servigi
importanti alla corte; avea difesi i diritti della sovranitá
contro le pretensioni di Roma; avea fissati i nuovi princípi
per i beni ecclesiastici, princípi che riportavano la
ricchezza nello Stato e la felicitá nella nazione; molte
utili riforme erano nate per suo consiglio; la corte per sua opera
avea rivendicati piú di cinquanta milioni di ducati in
fondi... Conforti era il Giannone, era il Sarpi della nostra
etá; ma avea fatto piú di essi, istruendo dalla
cattedra e formando, per cosí dire, una gioventú
nuova. Pochi sono i napolitani che sanno leggere, che non lo abbiano
avuto a maestro. E quest'uomo, senza verun delitto, si mandò
a morire! Egli riuniva eminentemente tutto ciò che formava
l'uomo di lettere e l'uomo di Stato.
Pagano Francesco Mario. Il suo nome vale un elogio. Il suo Processo
criminale è tradotto in tutte le lingue, ed è ancora
uno delli migliori libri che si abbia su tale oggetto. Nella
carriera sublime della storia eterna del genere umano voi non
rinvenite che l'orme di Pagano, che vi possano servir di guida per
raggiugnere i voli di Vico.
Pimentel Eleonora Fonseca. «Audet viris concurrere
virgo». Ma essa si spinse nella rivoluzione, come Camilla
nella guerra, per solo amor della patria. Giovinetta ancora, questa
donna avea meritata l'approvazione di Metastasio per i suoi versi.
Ma la poesia formava una piccola parte delle tante cognizioni che
l'adornavano. Nell'epoca della repubblica scrisse il Monitore
napolitano, da cui spira il piú puro ed il piú ardente
amor di patria. Questo foglio le costò la vita, ed essa
affrontò la morte con un'indifferenza eguale al suo coraggio.
Prima di avviarsi al patibolo, volle bevere il caffè, e le
sue parole furono: - «Forsan haec olim meminisse
iuvabit». -
Russo Vincenzio. È impossibile spinger piú avanti di
quello che egli lo spinse l'amore della patria e della virtú.
La sua opera de' Pensieri politici è una delle piú
forti che si possano leggere. Egli ne preparava una seconda
edizione, e l'avrebbe resa anche migliore, rendendola piú
moderata. La sua eloquenza popolare era sublime, straordinaria...
Egli tuonava, fulminava: nulla poteva resistere alla forza delle sue
parole... Sarebbe stato utile che si fossero raccolte delle memorie
sulla sua condotta nel carcere. Egli fu sempre un eroe. Giunto al
luogo del supplizio, parlò lungamente con un tuono di voce e
con un calore di sentimento, il quale ben mostrava che la morte
potea distruggerlo, non mai però il suo aspetto poteva
avvilirlo. Quasi cinque mesi dopo, ho inteso raccontarmi il suo
discorso dagli uffiziali che vi assistevano, con quella forte
impressione che gli spiriti sublimi lascian perpetua in noi, e con
quella specie di dispetto con cui gli spiriti vili risentono le
irresistibili impressioni degli spiriti troppo sublimi... Oh! se la
tua ombra si aggira ancora intorno a coloro che ti furono cari,
rimira me, fin dalla piú tenera nostra adolescenza tuo amico,
che piango, non te (a te che servirebbe il pianto?), ma la patria
per cui inutilmente tu sei morto.
Federici Francesco. Era maresciallo in tempo del re; fu generale in
tempo della repubblica. Il ministro di guerra lo rese inutile,
mentre avrebbe potuto esser utilissimo. La stessa ragione lo avea
reso inutile in tempo del re. Egli sapeva profondamente l'arte della
guerra; ma insieme coll'arte della guerra egli sapeva mille altre
cose, che per lo piú ignorano coloro che sanno l'arte della
guerra. Il suo coraggio nel punto della morte fu sorprendente.
Scotti Marcello. È difficile immaginare un cuore piú
evangelico. Egli era l'autore del Catechismo nautico, opera
destinata all'istruzione de' marinai dell'isola di Procida, sua
patria, che meriterebbe di esser universale. Nella disputa sulla
«chinea» scrisse, sebben senza suo nome, l'opera della
Monarchia papale, di cui non si era veduta l'eguale dopo Sarpi e
Giannone. Nella repubblica fu rappresentante. Morí vittima
dell'invidia di taluni suoi compatrioti.
Parlando di Scotti, la mia memoria mi rammenta il virtuoso vescovo
di Vico, il rispettabile prelato Troise, e chi no? Figli della
patria! La vostra memoria è cara, perché è la
memoria della virtú. Verrá, spero, quel giorno in cui,
nel luogo istesso nobilitato dal vostro martirio, la
posteritá, piú giusta, vi potrá dare quelle
lodi che ora sono costretto a chiudere nel profondo del cuore e,
piú felice, vi potrá elevare un monumento piú
durevole della debole mia voce(71).
LI
CONCLUSIONE
Il re, strascinato da' falsi consigli, produsse la rovina della
nazione. I suoi ministri o non amavano o non curavano la nazione:
dovea perciò perdersi, e si perdette. I repubblicani, colle
piú pure intenzioni, col piú caldo amor della patria,
non mancando di coraggio, perdettero loro stessi e la repubblica, e
caddero colla patria, vittime di quell'ordine di cose, a cui
tentarono di resistere, ma a cui nulla piú si poteva fare che
cedere.
Una rivoluzione ritardata o respinta è un male gravissimo, da
cui l'umanitá non si libera se non quando le sue idee tornano
di nuovo al livello coi governi suoi; e quindi i governi diventano
piú umani, perché piú sicuri; l'umanitá
piú libera, perché piú tranquilla; piú
industriosa e piú felice, perché non deve consumar le
sue forze a lottare contro il governo. Ma talora passano de' secoli
e si soffre la barbarie, prima che questi tempi ritornino; ed il
genere umano non passa ad un nuovo ordine di beni se non a traverso
degli estremi de' mali.
Quale sará il destino di Napoli, dell'Italia, dell'Europa? Io
non lo so: una notte profonda circonda e ricopre tutto di un'ombra
impenetrabile. Sembra che il destino non sia ancora propizio per la
libertá italiana; ma sembra dall'altra parte che egli, col
nuovo miglior ordine di cose, non ne tolga ancora le speranze, e fa
che gli stessi re travaglino a preparar quell'opera che con infelice
successo hanno tentata i repubblicani. Forse la corte di Napoli,
spingendo le cose all'estremo, per desiderio smoderato di conservare
il Regno, lo perderá di nuovo; e noi, come della prima
è avvenuto, dovremo alla corte anche la seconda rivoluzione,
la quale sará piú felice, perché desiderata e
conseguíta dalla nazione intera per suo bisogno e non per
solo altrui dono.
Queste cose io scriveva sul cader del 1799, e gli avvenimenti
posteriori le hanno confermate. La corte di Napoli ha prodotto un
nuovo cangiamento politico; e questo, diretto da altre massime,
può produrre nel Regno quella felicitá che si
sperò invano dal primo.
Dal 1800 fino al 1806 abbiamo veduto la corte di Napoli seguir
sempre quelle stesse massime dalle quali tanti mali eran nati; la
Francia, al contrario, cangiar quegli ordini, da' quali, siccome da
ordini irregolarissimi, nessun bene e nessuna durevolezza di bene
poteva sperarsi; e si può dire che alla nuova
felicitá, che il gran Napoleone ora ci ha data, abbiano
egualmente contribuito e l'ostinazione della corte di Napoli ed il
cangiamento avvenuto nella Francia.
Per effetto della prima gli stessi errori han confermata ed
accresciuta la debolezza del Regno: nell'interno lo stesso languor
di amministrazione, la stessa negligenza nella milizia, la stessa
inconseguenza ne' piani, diffidenza tra il governo e la nazione,
animositá, spirito di partito piú che ragione;
nell'esterno la stessa debolezza, la stessa audacia nelle speranze e
timiditá nelle imprese, la stessa malafede: non si è
saputo né evitar la guerra né condurla; si è
suscitata, e si è rimasto perdente.
Per effetto del secondo, nella Francia gli ordini pubblici sono
divenuti piú regolari: i diversi poteri piú concordi
tra loro: il massimo tra essi piú stabile, piú sicuro;
perciò meno intento a vincer gli altri che a dirigerli tutti
al bene della patria: le idee si sono messe al livello con quelle di
tutte le altre nazioni dell'Europa; perciò minore
esagerazione nelle promesse, animositá minore ne' partiti,
facilitá maggiore dopo la vittoria di stabilire presso gli
altri popoli un nuovo ordine di cose: il potere piú
concentrato; onde meno disordine e piú concerto nelle
operazioni de' comandanti militari, abuso minore nell'esercizio de'
poteri inferiori, maggiore prudenza, perché comune a tutti e
dipendente dalla stessa natura comune degli ordini e non dalla
natura particolare degl'individui: al sistema di democratizzazione
sostituito quello di federazione, il quale assicura la pace, che
è sempre per i popoli il maggiore de' beni; e che finalmente
ha procurati all'Italia tutti que' vantaggi che non poteva avere col
sistema precedente, secondo il quale si voleva amica e si temeva
rivale; onde, non formando mai in essa uno Stato forte ed
indipendente, andava a distruggersi interamente: e finalmente, oltre
tutti questi beni, il dono grandissimo di un re che tutta l'Europa
venerava per la sua mente e pel suo cuore.
Me felice, se la lettura di questo libro potrá convincere un
solo de' miei lettori che lo spirito di partito nel cittadino
è un delitto, nel governo una stoltezza; che la sorte degli
Stati dipende da leggi certe, immutabili, eterne, e che queste leggi
impongono ai cittadini l'amor della patria, ai governi la giustizia
e l'attivitá nell'amministrazione interna, il valore, la
prudenza, la fede nell'esterna; che alla felicitá de' popoli
sono piú necessari gli ordini che gli uomini; e che noi, dopo
replicate vicende, siamo giunti ad avere al tempo istesso ordini
buoni ed un ottimo re; e che la memoria del passato deve esser per
ogni uomo, che non odia la patria e se stesso, il piú forte
stimolo per amare il presente.
Note
(1) Questo libro fu scritto nell'anno 1800, e quindi si comprende
facilmente di quale ruina si vuol parlare.
(2) Tutto ciò era stato previsto da Burke. Egli solo tra
gl'inglesi avea predetto che la guerra dovea per necessitá
riuscir funesta, che l'interesse dell'Inghilterra era quello di far
cessare la rivoluzione colla mediazione, ecc. ecc. ecc.
(3) Il lungo favore, che costui ha goduto, potrebbe forse far
credere a taluno ch'egli avesse qualche talento, almeno di corte…
Non ne ha nessuno… non ha altro che la scelleraggine. Sarebbe mille
volte caduto, se avesse avuto a fronte un altro scellerato.
(4) Un esempio. Il re una volta nominò Michele Arditi
segretario del magistrato del commercio; lo nominò di moto
proprio e senza la precedente proposta di Acton…
(5) …Omnia graecae,
cum sit nobis turpe magis nescire latine.
È un gran carattere di ogni nazione corrotta, dal tempo di
Giovenale fin oggi.
(6) Nella stessa Francia la rivoluzione è stata preceduta da
cinquant'anni di anglomania. Coloro che hanno pratica della
letteratura francese lo potranno facilmente avvertire. Da
cinquant'anni in qua i frances'istessi troppo disprezzavano le cose
loro.
(7) Giuliano a quel miserabile pazzo, il quale quasi pubblicamente
ambiva l'impero, inviò in dono una veste di porpora: Tiberio
lo avrebbe fatto impiccare.
(8) Invece di tanti luoghi comuni satirici, che ne' primi giorni
della repubblica si son pubblicati contro il governo del re, non vi
è stato un solo che abbia pensato a pubblicare un estratto
fedele de' processi della Giunta di Stato! Tanto è piú
facile declamare che raccontar fatti! Ma le declamazioni passano, ed
i fatti arrivano alla posteritá.
(9) Molti hanno predetto da queste osservazioni la rivoluzione
francese. Tra questi si conta anche Rousseau. Piú
particolarizzata è la predizione di Mercier, nel suo Anno
2240, opera che una volta fu attribuita a Rousseau, e di cui
Rousseau arrossiva quasi di cosa non degna di lui. Sembra che
Mercier fosse stato a parte del segreto rivoluzionario, come lo era
l'autore della Rimostranza da leggersi nel Consiglio privato di S.
M., il quale volle della prossima rivoluzione avvertirne il re, come
Mercier ne avea avvertito l'Europa. Tra quelli che hanno antiveduta
la rivoluzione francese prima degli altri e per le cause interne che
nascevano dallo stato della Francia, è il nostro Genovesi.
Egli vide dove tendevano e le opinioni degli scrittori ed il corto
delle cose: la sua predizione è degna di Vico... Non saprei
se il re di Prussia avesse anche egli preveduta la rivoluzione:
è certo però che ne previde il corso e la smania di
voler tutto riformare filosoficamente. I riformatori metafisici, che
ei chiama «enciclopedisti», sono da lui molto
maltrattati. Vedi il suo Dialogo tra Eugenio, Malbourough e
Liechtenstein.
(10) Quando io considero tutto ciò che i gabinetti de' re in
questi tempi avrebbero potuto e non hanno saputo fare, desidero un
libro che avesse per titolo: Storia degli errori di coloro che sono
stati grandi senza esser grandi uomini. Con questa idea è
stato scritto uno de' libri piú sensati dell'ultimo decennio
del secolo: Tutti han torto; ma molto ancora rimarrebbe ad
aggiugnere alla serie delle sue osservazioni.
(11) Montesquieu dice che la Spagna conservò l'Italia
arricchendola. Troppo inesatti doveano essere gli autori che
Montesquieu consultò sulla nostra storia.
(12) Questa veritá non seppe conoscer Necker, allorché
fece il paragone tra le finanze di Francia e quelle d'Inghilterra.
Gl'inglesi pagavano piú de' francesi, ma la loro nazione
accresceva le sue ricchezze, e la Francia, per le sue circostanze
politiche, non potea crescer dippiú. I tributi erano utili in
Inghilterra, dannosi in Francia. La Francia avea compito il suo
corso politico, era nella sua decrepitezza; donde, se non sorge un
nuovo ordine di cose, non resta che un passo alla morte. Necker
infatti non seppe trovar rimedio al male. L'esperienza mostrò
la fallacia delle sue teorie. «Se l'Inghilterra regge, molto
piú facilmente - diceva egli - potrá regger la
Francia». Intanto la Francia fallí e l'Inghilterra
regge ancora.
(13) Chi potrebbe determinare il grado di felicitá e di
potenza, a cui da un governo savio potrebbe esser condotta la
nazione napolitana? Io penso che, senza esser visionario, si possa
creder possibile anche piú di quello che si auguravano
Broggia, Genovesi e Palmieri. Ma questa nazione ha la disgrazia di
essere stata vilipesa, perché non conosciuta: i spagnuoli la
conoscevano e la temevano; solo Federico secondo imperatore la
conoscevo e l'amava. Ma i bei giorni di Federico non furono per noi
che un lampo, cui successe una notte piú tempestosa.
(14) Forse il piú efficace metodo contro i barbareschi era
quello che presero gli inglesi sotto Carlo secondo, cioè di
costruire tutt'i legni mercantili in modo da poter essere armati di
dieci cannoni, ed affidare cosí la difesa della
proprietá agli stessi proprietari. I nostri proprietari di
legni mercantili mille volte ne han chiesto il permesso: mille volte
è stato loro negato. Essi aveano del coraggio e della buona
volontá, ma Acton voleva che non ne avessero.
(15) Era il generalissimo di Carlo terzo e lo fu fino alla morte,
anche sotto il regno di Ferdinando. Godeva molta autoritá e
sapeva usarne; finché visse, si oppose ad Acton.
(16) Il soldato prima aveva la speranza di esser premiato,
poiché i bassi ufficiali avevano diritto a una promozione
regolare. Acton, invece di obbligar tutti ad esser bassi ufficiali,
tolse a costoro ogni speranza di promozione. Il sergente doveva
morir sergente, e fu obbligato a servire venti anni. Questo era lo
stesso che non voler piú né sergenti onorati né
soldati valorosi.
(17) Vedi BONNET, Art de rendre les révolutions utiles, libro
pieno di buon senso.
(18) Ecco un esempio della dissipazione che vi era
nell'amministrazione di tali beni. I gesuiti in Sicilia, quando
furono espulsi, possedeano fondi, i quali nel primo anno
dell'amministrazione regia diedero centocinquantamila ducati di
rendita, nel secondo anno ne diedero settantamila, nel terzo
quarantamila: ed a questa ragione furono calcolati allorché
si vendettero. Ab uno disce omnes.
(19) Il re aveva eretto un'ottima manifattura di seterie in Caserta;
ma le seterie si travagliavano solo in Caserta né si
sarebbero mai travagliate altrove. Chi mai poteva reggere alla
concorrenza d'un re? Il sovrano dev'essere il protettore de'
manifatturieri e non il rivale.
(20) Solamente la nazione rise un poco, leggendo, nell'editto con
cui si toglieva l'argento ai privati, che «la mente del re era
quella di rimettere in vigore le antiche leggi suntuarie, tanto
utili allo Stato». Chi fu mai il ministro che indusse il re a
prestar il sacro suo nome a menzogna tanto evidente? Ed in qual
altro caso mai è permesso ad un re di esporre ai suoi popoli
i propri bisogni, se non quando questi bisogni sono bisogni dello
Stato? Perché non si disse: «La patria è in
pericolo; i bisogni della patria sono miei e vostri: salviamo la
patria»? Quale idea dovea aver dell'onore e qual
generositá dovea aver nell'animo il ministro che poté
consigliare una simile versipelleria? Or il senso di onore e la
nobiltá e generositá delle idee de' ministri non sono
forse la piú esatta misura della vera forza di uno Stato?
(21) Si avverta una volta per sempre che, in questa storia,
«governo», «corte», ed anche
«re» e «regina», sono tutti sinonimi di
«Acton». Pochi sono i casi ne' quali convien
distinguerli.
(22) Il giubilo per questa vittoria si spinse fino all'indecenza:
non si seppe nemmeno serbar le apparenze della neutralitá. La
flotta inglese era tata chiamata dalla corte di Napoli; dalla
medesima corte, sebbene sotto nome privato, era stata
approvvisionata.
(23) Mack, per salvar la sua fama, calunnia la nazione. Bonamy
sembra piú inclinato a render giustizia a Mack che alla
nazione, perché non conosceva questa ed era suo interesse,
dopo la vittoria, lodare il generale vinto. Pare che Pignatelli,
conoscendo egualmente e la nazione ed il generale, renda a ciascuno
quella giustizia che si compete.
(24) «Cittá» si chiamava in Napoli un'unione di
sette persone, delle quali sei erano nobili ed una popolare. I
nobili erano eletti dai cinque «sedili», tra' quali era
divisa tutta la nobiltá del Regno (il sedile di Montagna ne
eliggeva due, i quali però aveano un voto solo), e questi
sedili erano succeduti alle «fratrie», in una
cittá che fino all'undecimo secolo era stata greca. Il
popolare avrebbe dovuto esser eletto dal popolo, che avea un sedile
solo, ad onta che fosse mille volte piú numeroso de' nobili;
ma era eletto dal re. Questa cittá rappresentava nel tempo
stesso e la municipalitá di Napoli ed il Regno intero. Quando
nel governo viceregnale furono aboliti i parlamenti nazionali, la
Cittá rimase depositaria de' privilegi della nazione. Ma
sotto Ferdinando quarto la Cittá era rimasta un nome del
tutto vano.
(25) Villaggio otto miglia lontano da Napoli.
(26) È noto che allora depose la divisa di generale del re di
Napoli e vestí quella di generale austriaco; si
presentò a Championnet e pretendea, qual generale austriaco,
non dover esser fatto prigioniero di guerra. Championnet non
ascoltò questo miserabile sofisma. Ma da questo fatto ben
traspariva l'uomo, il quale dieci mesi di poi avrebbe disfidato a
duello Moliterni e poi l'avrebbe egli stesso impedito. Il disfidare
non è, a creder mio, un'azione di valore: forse sará
un'azione d'imprudenza: ma il disfidare e poi ricusar di battersi
è un'azione che riunisce l'imprudenza alla viltá.
Traspariva l'uomo, che, prigioniero e libero sulla sua parola di
onore, sarebbe fuggito.
(27) Per questa espressione non s'intende indicare se non due classi
di persone: la prima, di coloro che volevano piú un
cangiamento che un buon cangiamento; la seconda, di coloro che
credevano doversi imitare in tutto la Francia, anche in quello che
non poteva e non doveva, per le differenze che vi erano tra le due
nazioni, imitarsi. La prima era la classe de' furbi, la seconda de'
fantastici. Non s'intende al certo parlare di quel ragionevole
attaccamento che anche gli uomini dabbene doveano provare per quella
nazione trionfatrice, da cui allora dipendeva la felicitá
della patria. Ma il nobile attaccamento di costoro onorava ambedue
le nazioni, mentre il vile o sciocco partegianismo de' primi era
indegno e della nazione liberata e della liberatrice.
(28) «Patriota». Che è mai un
«patriota»? Questo nome dovrebbe indicare un uomo che
ama la patria. Nel decennio scorso esso era sinonimo di
«repubblicano»; ben inteso però che non tutti i
repubblicani eran patrioti.
(29) Il fondo delle maniere e de' costumi di un popolo in origine
è sempre barbaro, ma la moltiplicazione degli uomini, il
tempo, le cure de' sapienti possono egualmente raddolcire ogni
costume, incivilire ogni maniera. Il dialetto pugliese, per esempio,
che fu il primo a scriversi in Italia, era atto, al pari del
toscano, a divenir colto e gentile: se non lo è divenuto,
è colpa de' nostri, che lo hanno abbandonato per seguire il
toscano. Noi ammiriamo le maniere degli esteri, senza riflettere che
questa ammirazione appunto ha recato pregiudizio alle nostre: esse
sarebbero state eguali, e forse superiori a quelle degli esteri, se
le avremmo coltivate. Una nazione che si sviluppa da sé
acquista una civiltá eguale in tutte le sue parti, e la
coltura diventa un bene generale della nazione. Cosí in Atene
la femminuccia parlava colla stessa eleganza di Teofrasto ed il
ciabattino giudicava Demostene. Ammirando ed imitando le nazioni
straniere, né si coltivano tutti gli uomini che compongono un
popolo, né si coltivano bene: non tutti, perché non
tutti possono vedere ed imitare gli esteri; non bene, perché
l'imitatore, per eterna legge della natura, resta sempre al disotto
del suo modello. La coltura straniera porta in una nazione divisioni
e non uniformitá, e quindi non si acquista che a spese della
forza. Quali sono oggi le nazioni preponderanti in Europa? Quelle
che non solo non imitano, ma disprezzano le altre. E noi volevamo
far la repubblica indipendente incominciando dal disprezzare la
nostra nazione!
N. B. - A scanso di ogni equivoco, questa nota, poco piú poco
meno, vale per tutta l'Italia.
(30) Robespierre operò sulla Francia come lo stimolo opera
sull'eccitabilitá umana, nel sistema di Brown.
(31) Questo punto oggi è provato.
(32) Estesissima caccia che il re teneva nella provincia di Salerno:
intorno alla medesima erano le popolazioni nominate nel testo.
(33) Questo linguaggio può star bene in bocca di un
conquistatore che voglia nobilitare le sue conquiste, di un retore
che parli ad un'adunanza di oziosi, di un filosofo che parli agli
altri filosofi; potrá esser anche il linguaggio dello storico
che trasmetta alla posteritá i risultati degli avvenimenti:
ma non deve esser mai il linguaggio di un uomo che parli al popolo e
voglia muoverlo. Noi abbiamo perduta ogni idea dell'eloquenza
popolare: la nostra non è che l'eloquenza delle scuole; e
questa è la ragione per cui piú non si veggono tra noi
ripetuti quegli effetti che appena crediamo negli antichi. Dopo
essersi or da pedanti or da eruditi or da filosofi analizzato il
meccanismo del discorso, calcolata la sua forza, fissati i
princípi per dirigerlo onde produca il massimo effetto, mi
par che ancora resti a farsi un libro in cui si calcoli la forza
dell'eloquenza non sull'individuo ma sulle nazioni, e si vegga il
rapporto che lo stato della nazione può aver sull'eloquenza,
e la natura di questa sullo stato di quella. Si conoscerebbe allora
qual differenza vi sia tra i pomposi proclami che dall'Ottantanove
inondano l'Europa, e la forza segreta ma irresistibile. Pericle
tuonava, fulminava, sconvolgeva la Grecia intera, ed i figli
d'Isacco e d'Ismaele si dividevano l'impero della terra e de'
secoli.
(34) Una legge, dice Macchiavelli, che guarda molto indietro,
è sempre tirannica.
(35) Nella Francia vi fu ne' primi giorni dalla rivoluzione una
legge feudale, ma essa non riformò che i disordini piú
orribili, i quali non vi erano piú tra noi. La
feudalitá in Francia era piú gravosa che in Napoli.
Noi dovevamo incominciare precisamente dal punto in cui eransi
arrestate le leggi francesi. Or questa seconda riforma era stata
fatta in Francia dalla guerra civile.
(36) Rousseau, domandato dall'autore de' Studi della natura
perché mai, con tanto amore per l'umanitá e tanto
disgusto per gli uomini, non avea imitato Penn e non si era ritirato
con pochi saggi a fondare una colonia in America, rispose: - Qual
differenza! Si credeva nel secolo di Penn, e non si crede piú
nel mio! -
(37) Queste idee erano giá popolari in Napoli. La disputa
sulla chinea avea istruiti tutti sulla legittimitá di un
concilio nazionale. Si era veduto un gran prelato declamare contro
l'abuso delle indulgenze e del celibato, e ciò senza
scandalo.
(38) Lo stesso cammino tenne il cristianesimo, che in origine non fu
che filosofia. Cominciò dal predicar la tolleranza: essa non
era venuta per i soli figli di Abramo, ma per tutte le genti; ma in
seguito, divenuta dominante, neanche i figli di Abramo furono da lei
risparmiati.
(39) Rendiamo giustizia ai migliori tra' nostri. Essi intendevano
l'importanza delle opinioni religiose in un popolo.
(40) Prendo il nome di Faipoult come il nome dell'esecutore, e forsi
non volontario, degli ordini del Direttorio francese. Faipoult era
un ottimo uomo, che amava e che stimava la nazione nostra: ma egli,
come commissario del suo governo, non era altro che esecutore di
ordini non suoi. Il governo che oggi ha la Francia gli avrebbe dati
al certo ordini diversi.
(41) Quando i francesi aggregarono alla nazione i beni dell'ordine
di Malta, dimostrarono che essi non erano dell'ordine, ma della
nazione. Se i beni dell'ordine di Malta in Francia eran della
nazione francese, i beni dello stesso ordine in Napoli doveano esser
dalla nazione napolitana.
(42) L'opera della divisione dei dipartimenti in Francia è
ben eseguita; ma i francesi, che hanno voluto dirigere la stessa
operazione presso le altre nazioni, hanno ben mostrato che essi non
aveano né le cognizioni né il buon senso di coloro che
l'aveano diretta in Francia. Quale stranezza infatti era quella di
dividere il territorio ligure in venti dipartimenti? Nella Cisalpina
si fecero sulle prime gli stessi errori; gli stessi nel territorio
romano.
(43) Sciarpa, uno de' piú grandi e piú funesti
controrivoluzionari, lo divenne per calcolo. Egli era uno degli
uffiziali subalterni delle milizie del tribunale di Salerno: col
nuovo ordine di cose, avrebbe potuto passare nella gendarmeria. Non
fu ammesso. Sciarpa non fu né vezzeggiato né spento.
(44) Proni era, mi si dice, un armigero del marchese del Vasto: i
suoi delitti gli avean fatta meritare la condanna alla galera, donde
era fuggito. Nell'anarchia si mise alla testa di altri assassini e
divenne, in séguito, generale. Altri dicono che fosse stato
prete.
(45) Caracciolo fu solennemente congedato dal re: il re istesso gli
permise di ritornare in Napoli.
(46) L'oggetto del fraternizzare col popolo era quello di riunirsi a
lui; e, per riunirsi, conveniva distinguersi il meno che sia
possibile, cioè far quanto meno si potesse di novitá.
Cerca egualmente a distinguersi tanto chi s'innalza troppo quanto
chi troppo si abbassa, ed il popolo si mette in guardia egualmente e
del primo e del secondo. Orléans non mostrò mai
piú chiaramente di voler innalzarsi al trono se non quando si
abbassò all'eguaglianza.
(47) Questo paragone tra la repubblica romana e la fiorentina si
è fatto da due uomini sommi d'Italia. Macchiavelli è
del nostro parere, e dice che il desiderio che in Roma i plebei
ebbero di imitare i patrizi perfezionò le istituzioni di
Roma. Campanella sostiene, al contrario, che la libertá si
perdette in Roma e conservò in Firenze, sol perché
quivi il popolo forzò i nobili a discendere dalla loro
educazione. Ecco appunto i due aspetti sotto i quali la democrazia
or da uno or da un altro si è guardata. Ma Roma ebbe, e per
lungo tempo, costumi, costituzione, milizia e potenza; Firenze non
ebbe che tumulti, rivoluzioni, licenza, debolezza. Macchiavelli ha
per sé i fatti (che son contrari a Campanella) ed il giudizio
degli uomini sensati, tra' quali non vi è alcuno che non
avrebbe amato di vivere nella repubblica romana in preferenza della
fiorentina.
(48) Mentre io era giunto a questo punto, mi è pervenuta una
memoria del cittadino Baudin sulle societá popolari. Mi sia
permesso di recarne un tratto, che descrive gli effetti che le
societá produssero in Francia e che conferma quello che
sempre ho detto, cioè che gli errori erano nei principi.
«Il desiderio di aggregarsi a queste nuove societá era
fomentato da molte cause, che le resero quasi universali. Esse
aprivano una carriera all'ambizione e davano un mezzo
all'emulazione: facevano sperare ai deboli un appoggio, che per
altro era meglio cercare solo nella protezione delle leggi: davano
ai patrioti un punto di riunione, che la conformitá
degl'interessi e dei princípi dovea far loro desiderare e che
contribuir dovea al successo della rivoluzione: ma nel tempo istesso
favorivano quel pregiudizio troppo comune tra noi ed in qualche modo
nazionale, che fa credere a moltissimi la teoria del governo essere
una scienza infusa, di cui si possa parlare senza studio e senza
esperienza...
«Noi tutti abbiamo nei trastulli della nostra fanciullezza
imitate le cerimonie del culto e le evoluzioni militari; ma non mai
è avvenuto che il vescovo ed il suo capitolo siensi veduti in
ginocchio avanti al piccolo pontefice, abbigliato di una cappa e di
una mitria di carta dorata, prestargli il giuramento di
fedeltá e rassegnargli la cura della diocesi e la collazione
dei benefici. E pure a questo segno si sono avvilite le
autoritá piú eminenti verso le societá
popolari!
«Ben tosto, le societá rinunciando alla teoria delle
quistioni politiche, sulle quali i loro membri ben poco potevan dire
di tollerabile, le sale divennero un'arena di delatori, una leva
potente che taluni destri ambiziosi facevan servire alla loro
elevazione, allettando intanto gli animi della cieca moltitudine
colle due lusinghe, dalle quali si lascian sorprendere ben spesso
anche i saggi: la speranza e l'adulazione. Ogni club fu lusingato
dai suoi oratori coll'idea di esser sovrano; ed il club bene spesso
si condusse a seconda di questa dottrina, dando ordini, distribuendo
grazie, esigendo rispetto e sommissione...».
(49) Amerei che in ogni repubblica ci fosse un circolo d'istruzione
sul modello di quella «repubblica giovanile» che era
nell'antica repubblica di Berna. Quella istituzione mi sembra
ammirabile per formar gli uomini di Stato. Non so se colla
rivoluzione della Svizzera si sia conservata.
(50) Cosa ha ritratto la Francia dalle vendite dei suoi immensi beni
nazionali? Quale orribile dissipazione ho visto io stesso! A quali
mani la salute pubblica è stata affidata! Questa infelice
risorsa, a cui un governo possa ridursi, è sempre inutile. Un
governo deve vendere i fondi nazionali (perché non deve
averne), ma deve venderli ne' tempi ne' quali non ha bisogno;
allora, se non trova compratori, deve anche donarli.
(51) Questo è il trionfo de' nostri governanti. Sfido ogni
altra nazione ad opporre un tratto di eguale moralitá ed
economia! Il re con tredici province, in tempi tranquilli,
coll'onnipotenza nelle mani, che non avrebbe mai potuto fare? E che
ha fatto? Questo è il trionfo della nostra causa.
(52) Questo fenomeno, in Napoli sensibilissimo, avrebbe meritata
attenzione maggiore per parte dei nostri economisti. Io lo ripeto da
varie cagioni: 1. Dall'esser il grano una delle poche derrate che
noi vendevamo agli esteri: l'olio per la stessa ragione era nelle
stesse circostanze ed avea sofferte le stesse alterazioni ne' suoi
prezzi. Una derrata che sia richiesta da maggior numero deve per
necessitá crescere di prezzo; e, se mai presso una nazione
avvien che essa formi tutto o grandissima parte del commercio
estero, allora diviene una specie di moneta di conto ed accresce il
suo valore, non solo per le richieste de' compratori, ma anche per
le speculazioni de' venditori. Una moneta di conto è oggi in
Sicilia il grano, e l'olio in Napoli, perché l'olio in Napoli
occupa il primo luogo tra' generi che si estraggono, ed il grano il
secondo. Questo fenomeno, non osservato da nessuno, meriterebbe di
esserlo. 2. Il consumo che la nazione napolitana fa di paste. 3. Il
monopolio che vi è nelle terre, ridotte in poche mani e
desiderate da molti, dacché non vi è altro mezzo
d'impiegare il proprio danaro né in rendite, che son poche,
né in oggetti di manifatture e di commercio. Promovendo tali
oggetti, son persuaso che le stesse avrebbero ribassato il loro
prezzo, e che questo ribasso avrebbe potuto influire anche su quello
del grano. 4. La male intesa agricoltura, la quale rende necessaria
molta estensione di terreno, ecc. ecc.
(53) Fa meraviglia come i scrittori di economia pubblica non abbiano
distinte due specie di carestia, una reale, l'altra apparente, la
quale non manca però di produrre mali reali. Quella reale si
potrebbe suddividere in mancanza di genere ed alterazione di prezzo.
Tutt'i difetti dei regolamenti annonari sono nati dall'aver voluto
riparare ad una carestia apparente come se fosse carestia reale, e
da questo primo errore ne è nato il secondo, che si è
atteso piú all'alterazione del prezzo che alla mancanza del
genere: chi conosce la storia degli stabilimenti annonari di Napoli
intende la veritá di ciò che io dico. Ma tali
stabilimenti sono simili a quelli di tutte le altre parti di Europa:
eran figli de' tempi e delle idee de' tempi: il nostro errore
è di volerli seguire anche quando i tempi e le idee son
cangiati.
(54) Palma ed altre terre.
(55) La piú chiara prova che abbia dato il primo console di
amar sinceramente la libertá d'Italia è stata quella
di aver concesso alla Cisalpina il corpo de' polacchi. Chi legge con
attenzione questo paragrafo e tutta l'opera, vedrá come gli
avvenimenti stessi giustificano il nuovo ordine di cose, desiderato
tanto dalla giustizia e dall'umanitá.
(56) Se io dovessi parlare al governo francese per l'Italia, gli
direi liberamente che o convien liberarla tutta o non toccarla.
Formandone un solo governo, la Francia acquisterebbe una
potentissima alleata; democratizzandone una sola parte, siccome
questa piccola parte né potrebbe sperar pace dalle altre
potenze né potrebbe difendersi da se sola, cosí o
dovrebbe perire abbandonata dalla Francia o dovrebbe costare alla
Francia una continua inutile guerra. Questa è la ragione per
cui Luigi decimoprimo, ad onta della sua ambizione, allorché
Genova si offerí a lui, le rispose che «si dasse al
diavolo». Questa è la ragione per cui si è detto
che gli stabilimenti in Italia non giovavano alla Francia: duecento
anni di guerra distruttiva le ha costato il possesso del Milanese.
Allora i sovrani di Francia non avean comprese due veritá, la
prima delle quali è che l'Italia è piú utile
alla Francia amica che serva, e quindi è meglio renderla
libera che provincia. Questa veritá si è compresa da
qualche anno, sebbene il Direttorio si conduceva come se non
l'avesse compresa ancora o non volesse comprenderla, e solo dal
nuovo piú giusto ordine di cose si può sperare l'utile
effetto di questa veritá. La seconda è che l'Italia
non dev'esser divisa, ma riunita: e la riunione dell'Italia dipende
dalla libertá di Napoli; paese che la Francia non
potrá giammai conservare e che ha tante risorse in sé,
che solo potrebbe disturbar tutta la tranquillitá italiana,
quando non sia in mano di un governo umano ed amico della
libertá. È l'esperienza di tutt'i secoli, la quale ci
mostra che i conquistatori dell'Alta Italia han per lo piú
rotto alle sponde del Garigliano; e la filosofia spiega la ragione
di tali avvenimenti.
(57) Mammone Gaetano, prima molinaio, indi generale in capo
dell'insorgenza di Sora, è un mostro orribile, di cui
difficilmente si ritrova l'eguale. In due mesi di comando, in poca
estensione di paese, ha fatto fucilar trecentocinquanta infelici;
oltre del doppio forse uccisi dai suoi satelliti. Non si parla de'
saccheggi, delle violenze, degl'incendi; non si parla delle carceri
orribili nelle quali gittava gl'infelici che cadevano nelle sue
mani, non de' nuovi generi di morte dalla sua crudeltá
inventati. Ha rinnovate le invenzioni di Procuste, di Mezenzio... Il
suo desiderio di sangue umano era tale, che si beveva tutto quello
che usciva dagl'infelici che faceva scannare. Chi scrive lo ha
veduto egli stesso beversi il sangue suo dopo essersi salassato, e
cercar con aviditá quello degli altri salassati che erano con
lui. Pranzava avendo a tavola qualche testa ancora grondante di
sangue; beveva in un cranio... A questi mostri scriveva Ferdinando
da Sicilia: «mio generale e mio amico».
(58) Quest'uomo ai creduli abitanti delle Calabrie si fece creder
papa. Il cardinale Zurolo, arcivescovo di Napoli, ebbe il coraggio
di anatemizzarlo.
(59) Le notizie dell'insurrezione della provincia di Lecce e delle
operazioni dei còrsi mi sono state comunicate dal mio amico
Giovanni Battista Gagliardo, il quale fu principal parte di tutto
ciò che avvenne in Taranto. Le memorie, ch'egli ha scritte
sopra gli accidenti della rivoluzione della sua patria, sono
importanti. Io ho lette molte memorie simili. È degno di
osservazione che in tutte le sollevazioni del Regno ci è
stato sempre suono di campane ed una processione del santo
protettore.
(60) Per le ragioni dette di sopra, cioè che contro
gl'insorgenti poco vale l'armata, ma si richiedono le piccole forze
e permanenti.
(61) La prima volta si radunarono moltissimi patrioti; tutta la
guardia nazionale fu al suo posto. Furono tenuti a disagio una
notte; e la mattina furon congedati senza che avessero ottenuto
neanche un ringraziamento, senza poter neanche comprendere la
cagione dell'allarme. La seconda volta la credettero o frivola o
finta come la prima; e questo fece perdere molti bravi patrioti, i
quali si ritrovarono rinchiusi nelle loro case, allorché
avrebbero potuto esser ne' castelli a difenderli.
(62) Ecco la capitolazione:
«Articolo I. Il castel Nuovo ed il castel dell'Ovo saranno
rimessi nelle mani del comandante delle truppe di S. M. il re delle
Due Sicilie e di quelle dei suoi alleati, il re d'Inghilterra,
l'imperadore di tutte le Russie e la Porta ottomana, con tutte le
munizioni da guerra e da bocca, artiglieria ed effetti di ogni
specie, esistenti nei magazzeni, di cui si formerá inventario
dai commissari rispettivi dopo la firma della presente
capitolazione.
«II. Le truppe componenti le guarnigioni conserveranno i loro
forti fino che i bastimenti, di cui si parlerá qui appresso,
destinati a trasportar gl'individui che vorranno andare a Tolone,
saranno pronti a far vela.
«III. Le guarnigioni usciranno cogli onori di guerra, armi,
bagagli, tamburo battente, bandiere spiegate, miccia accesa, e
ciascuna con due pezzi di artiglieria; esse deporranno le armi sul
lido.
«IV. Le persone e le proprietá mobili ed immobili di
tutti gl'individui componenti le due guarnigioni saranno rispettate
e garantite.
«V. Tutti gli suddetti individui potranno scegliere di
imbarcarsi sopra i bastimenti parlamentari, che saranno loro
presentati per condursi a Tolone, o di restare in Napoli, senza
essere inquietati né essi né le loro famiglie.
«VI. Le condizioni contenute nella presente capitolazione son
comuni a tutte le persone dei due sessi rinchiuse nei forti.
«VII. Le stesse condizioni avran luogo riguardo a tutt'i
prigionieri fatti sulle truppe repubblicane dalle truppe di S. M. il
re delle Due Sicilie e quelle dei suoi alleati nei diversi
combattimenti che hanno avuto luogo prima del blocco dei forti.
«VIII. I signori arcivescovo di Salerno, Micheroux, Dillon ed
il vescovo di Avellino saranno rimessi al comandante del forte
Sant'Elmo, ove resteranno in ostaggio fino a che sia assicurato
l'arrivo a Tolone degl'individui che vi si mandano.
«IX. Tutti gli altri ostaggi e prigionieri di Stato, rinchiusi
nei due forti, saranno rimessi in libertá subito dopo la
firma della presente capitolazione.
«X. Tutti gli articoli della presente capitolazione non
potranno eseguirsi se non dopo che saranno stati interamente
approvati dal comandante del forte Sant'Elmo».
(63) Un segretario di Nelson scrivea ad un suo amico a Maone:
«Noi commettiamo le piú orride scelleraggini per
rimettere sul trono il piú stupido dei re». Io ho del
ribrezzo in riferir queste parole, che pure ho letto io stesso. Oh!
come gl'inglesi sanno compatire le loro vittime!
(64) Espressione di un dispaccio.
(65) Espressione del primo console in circostanze quasi simili.
(66) Esistono ancora ambidue gli editti: col primo il Regno si
dichiara regno di conquista; col secondo si dichiara che il re non
lo avea mai perduto.
(67) Subitoché in Napoli non vi era stata ribellione, non vi
era piú differenza tra coloro che aveano occupate cariche e
coloro che avean solo riconosciuta la repubblica. Tutti doveano
essere o egualmente rei o egualmente innocenti.
(68) Questo fatto sembra tanto incredibile, che mi sarei astenuto
dal narrarlo, se non mi fosse stato contestato da moltissimi degni
di ogni fede. Ma, quando anche questi mentissero, gran Dio! quanto
odio pubblico si è dovuto meritare, prima di mover gli uomini
ad immaginare, a spacciare, a credere tali orrori!
(69) È da osservarsi che Speziale non risparmiava nessuno de'
piú vili epiteti del trivio e del bordello.
(70) Baffa era uno de' piú eruditi uomini d'Italia, era uno
de' primi per l'erudizione greca.
(71) Per riunire sotto un colpo di occhio tutto il male che in
Napoli ha prodotta la controrivoluzione, basterá fare il
seguente calcolo: Ettore Carafa, Giovanni Riari, Giuliano Colonna,
Serra, Torella, Caracciolo, Ferdinando e Mario Pignatelli di
Strongoli, Pignatelli Vaglio, Pignatelli Marsico son della prima
nobiltá d'Italia; e venti altre famiglie nobili al pari di
queste sono state quasiché distrutte. Tra le altre non vi
è chi non pianga una perdita. La rivoluzione conta trenta in
quaranta vescovi, altri venti in trenta magistrati rispettabili per
il loro grado e piú per il loro merito, molti avvocati di
primo ordine ed infiniti uomini di lettere. A quelli che abbiamo
nominati si possono aggiugnere, tra' morti, Falconieri, Logoteta,
Albanese, De Filippis, Fiorentino, Ciaia, Bagni, Neri... La
professione medica pare che sia stata presa di mira dalla
persecuzione controrivoluzionaria. Sará un giorno oggetto di
ammirazione per la posteritá l'ardore che i nostri medici
aveano sviluppato per la buona causa. I giovani medici del grande
ospedale degl'Incurabili formavano il «battaglione
sacro» della nostra repubblica. Io non parlo che della
capitale. Eguale e forse anche piú feroce è stata la
distruzione che gli emissari della Giunta, sotto nome di
«visitatori», han fatta nelle provincie. Si possono
calcolare a quattromila coloro che sono morti per furore
degl'insorgenti, come l'infelice Serao vescovo di Potenza, uomo
rispettabile per la sua dottrina e per lo suo costume; il giovine
Spinelli di San Giorgio... Tutti gli altri erano egualmente i
migliori della nazione. Dopo ciò, si calcoli il danno. La
nazione potrá rimpiazzar gli uomini, ma non la coltura. Ed
è forse esagerata l'espressione di esser essa retroceduta di
due secoli?