Fascismo

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Enciclopedia del Novecento (1977)


di Renzo De Felice

Sommario: 1. Origini del fascismo italiano. 2. Il regime fascista italiano. 3. La Repubblica Sociale Italiana. 4. Il fenomeno fascista.

1. Origini del fascismo italiano

La prima guerra mondiale determinò trasformazioni e crisi decisive in tutta l'Europa, che assunsero dimensioni e significati diversi a seconda dei paesi, ma che ebbero somiglianze e caratteri comuni e che investirono tutti i campi, quello economico come quello etico, quello sociale come quello politico. Le origini del fascismo sono connesse in modo inscindibile con le trasformazioni e le crisi che si verificarono in Italia. In sede storica, se si perde il punto di riferimento della prima guerra mondiale si perde anche la possibilità di comprendere veramente il fascismo e di cogliere le ragioni, il significato della sua affermazione. Con ciò non si vuol dire che nell'Italia prebellica, nel suo sviluppo economico-sociale, nella pratica politica, in certi atteggiamenti psicologici e culturali e persino in certe manifestazioni pratiche (già nel 1908, in occasione delle agitazioni nel parmense, e nel 1914, in occasione della ‛settimana rossa', si ebbero casi di proteste per l'eassenteismo, dello Stato e persino di ‛autodifesa' contro le violenze proletarie) non si possano scorgere ‛anticipazioni' del fascismo; si vuole però sottolineare che a queste ‛anticipazioni' non è assolutamente possibile dare quel valore di ‟semi fascisti destinati a germogliare nel dopoguerra" che qualcuno ha loro dato. Senza la guerra, infatti, nulla autorizza ad affermare che essi sarebbero germogliati e, anzi, molti elementi inducono a ritenere il contrario. Quanto poi alla guerra, più che mettere l'accento sul modo con cui fu realizzato l'intervento italiano o sulla psicosi bellica da essa determinata (che rispetto alle origini del fascismo furono componenti, in definitiva, secondarie), bisogna insistere soprattutto sulle sue conseguenze - interne e internazionali - a tutti i livelli, quali esse si manifestarono nell'immediato dopoguerra, determinando, accelerando o esasperando una serie di trasformazioni e di motivi di crisi, in un paese come l'Italia che, se, per un verso, aveva dato prova - proprio con la guerra - della vitalità del suo organismo politico-nazionale, per un altro verso aveva mostrato quanto tale organismo fosse rispondente ai valori etici, alle aspirazioni e agli interessi di una sola parte della società nazionale (quella che si può definire di estrazione risorgimentale), ma non corrispondesse a quelli di tutta un'altra parte di essa (quella non solo quantitativamente più importante, ma, ciò che più conta, che era stata mobilitata socialmente e politicamente dalla guerra) che lo considerava, sia pure con diverse motivazioni e prospettive non di rado tra loro antitetiche, arcaico, ingiusto e - almeno sotto il profilo della partecipazione al potere - antidemocratico.
Per comprendere la natura del fascismo e il motivo della sua affermazione è necessario cercare di stabilire i vari aspetti della crisi italiana del dopoguerra e soprattutto in che misura essi influirono nel determinare quella situazione grazie alla quale in meno di quattro anni il fascismo pervenne al potere.

Sul piano economico il dopoguerra fu caratterizzato da una grave crisi determinata soprattutto dalla dura prova che l'economia italiana aveva dovuto affrontare durante la guerra, dalle trasformazioni (non di rado patologiche) che essa aveva subito in quegli stessi anni e dalle difficoltà - in parte comuni anche agli altri paesi - alle quali doveva ora far fronte: ridotta produzione agricola, che aveva ripercussioni immediate e assai pesanti sulla bilancia commerciale e che, quando la tendenza si capovolse, si trasformò in una crisi di sovraproduzione che portò ad una crisi dei prezzi agricoli e, per riflesso, anche di quelli industriali; forti immobilizzi in industrie (e sempre maggior fusione tra interessi industriali e bancari) i cui impianti erano spesso invecchiati e la cui riconversione esigeva grandi capitali; capacità produttiva superiore alla domanda interna e difficilmente orientabile verso l'estero; perdurare di un sistema di vincoli e regolamentazioni statali che rendeva la gestione economica macchinosa e poco produttiva; basso rendimento della mano d'opera; vastissima disoccupazione. Da qui un periodo di gravi difficoltà economiche che ebbe rovinose conseguenze specialmente per alcuni grandi complessi industriali e per alcune grandi banche e a cui, soprattutto, corrispose un periodo di eccezionale mobilitazione primaria che si tradusse in un enorme rafforzamento dell'organizzazione di classe contadina e proletaria e in un altrettanto enorme sviluppo della lotta di classe, che si manifestò - specie nel 1919-1920 - con un gran numero di agitazioni (anche violente), scioperi, occupazioni di terre e di fabbriche, ecc. e si concretizzò in un forte aumento dei salari reali (specie operai) che dall'indice 100 del 1913 salirono nel 1921 a 127 (limite non più raggiunto sino al 1949). E ciò mentre gli stipendi crescevano molto più lentamente e i redditi fissi subivano una flessione assai grave.

Sul piano sociale questa eccezionale mobilitazione pri- maria fu caratterizzata da una fortissima politicizzazione e domanda di partecipazione e di direzione politica a tutti i livelli della vita del paese da parte dei settori della popolazione fino allora quasi marginali o del tutto esclusi, delle quali beneficiarono (grazie anche alla introduzione al posto del sistema elettorale uninominale di quello proporzionale, che riduceva il peso dei notabili tradizionali e favoriva i partiti di massa) soprattutto i partiti fuori del sistema politico tradizionale, che si presentavano rispetto ad esso o completamente eversivi (socialisti e comunisti) o duramente critici e rinnovatori (popolari) ed erano espressione di valori e tradizioni che nulla avevano in comune con quelli di estrazione risorgimentale ai quali si rifaceva la classe dirigente. Un fatto altrettanto importante e che spesso viene invece dimenticato o frainteso (quando lo si riduce a mera manifestazione di settori ‛discendenti' in crisi di proletarizzazione e di ‛spostati') fu poi costituito dal contemporaneo verificarsi di un analogo fenomeno di mobilitazione secondaria. Anche alla sua radice era una forte domanda di partecipazione e di direzione politica, solo che a manifestarla non erano le masse popolari sino allora marginali o del tutto escluse, ma settori non trascurabili già integrati della media e soprattutto della piccola borghesia (specialmente di recente formazione e in fase emergente) che si sentivano minacciati (e al tempo stesso respinti) dalla crescita dei ceti ad essi inferiori e, ancor più, che erano insoddisfatti sia per lo scarsissimo peso politico che veniva loro lasciato dalla classe politica tradizionale e dai suoi meccanismi di allargamento quasi esclusivamente per cooptazione, sia per l'incapacità che questa aveva dimostrato durante la guerra e ancor più dimostrava ora a tutelare il loro status materiale e morale di fronte all'ascesa delle masse popolari, sia per la sempre più evidente tendenza della classe politica e delle forze tradizionali che essa rappresentava a scaricare su di loro buona parte del prezzo che erano costrette a pagare alle masse popolari. In questa situazione, la caratteristica più immediata della crisi sociale del dopoguerra fu un moltiplicarsi e un accentuarsi delle sfasature tra lo Stato e le sue istituzioni da un lato e la sensibilità popolare e l'opinione pubblica da un altro lato e un estendersi di esse anche ai rapporti tra lo Stato e le sue istituzioni, specialmente quelle più periferiche e di recente creazione.

Sul piano morale e culturale, la crisi del dopoguerra è bene indicata, per un verso, dalla sempre più diffusa reazione al positivismo e, per un altro verso, dalla fortuna che incontrarono le tendenze scettico-relativistiche, irrazionalistiche, attivistiche, elitistiche, ecc. Due fenomeni sono però anche più importanti e significativi: la forte ideologizzazione delle masse e, quindi, della lotta sociale e politica, sino ad arrivare a forme di vera e propria mitizzazione delle soluzioni prospettate (tipiche quella della Rivoluzione bolscevica e, su tutt'altra sponda, quella della Nazione) e l'entrata in crisi dei modelli culturali tradizionali e, quindi, della loro autorità. Da qui una diffusa contestazione non solo dei valori tradizionali, ma anche e soprattutto dell'assetto sociale che essi rappresentavano, che - sia pure in forme diverse e contrastanti - accomunava la protesta ‛bolscevica' a quella di vasti settori della media e soprattutto piccola borghesia. E per questi ultimi è da notare il loro progressivo radicalizzarsi via via che fallivano o si mostravano intrinsecamente inadeguati i tentativi di dar vita a nuove soluzioni alternative ma non eversive rispetto al sistema (quale quella combattentistica e, in definitiva, quella popolare). Contemporaneamente aumentavano la sfiducia e lo scetticismo nell'efficacia e nella funzionalità della democrazia parlamentare, sotto il profilo sia della sua capacità di far fronte alle necessità politiche di un esecutivo efficiente sia di realizzare un effettivo rinnovamento sociale, e con essi la propensione verso soluzioni di tipo autoritario (i cui modelli ideologici e psicologici non erano rintracciati solo a ‛destra', ma, spesso, nel pensiero e nell'azione più squisitamente democratici del rivoluzionarismo giacobino).

Sul piano politico, infine, la sintesi di tutte queste crisi, aggiungendosi e operando da moltiplicatore di quella già da tempo latente che si usava riassumere nella scissione tra ‛paese reale' e ‛paese legale', acquistò dimensioni via via più drammatiche e che si possono ricondurre attorno a tre poli: 1) a livello parlamentare, un ‛anarchico regime d'assemblea' incapace di esercitare il potere e di esprimere sia effettive maggioranze sia opposizioni coeretiti al sistema e capaci di costituire un'alternativa; 2) a livello governativo, una serie di ministeri senza prestigio e senza capacità di effettiva iniziativa legislativa e, al tempo stesso, di far rispettare ed eseguire dai loro stessi organi periferici le proprie disposizioni e di dar loro la certezza di non essere lasciati scoperti o addirittura puniti per averle eseguite; 3) a livello del sistema, una instabilità cronica, forse più soggettiva che oggettiva, dato che in effetti le forze dichiaratamente antisistema erano messe fuori giuoco dalla diversità degli interessi che rappresentavano e dalla loro stessa ‛incapacità di trovare una conciliazione di essi che non fosse quella di un massimalismo tanto minaccioso ed esaltante nella forma quanto vuoto e autoritario nella sostanza (il che spiega perché, quando entrò in crisi, lo scoraggiamento e le tendenze centrifughe furono cosi forti) e dato che il sistema in realtà - nonostante la sua indubbia crisi - era ancora sufficientemente robusto, poteva fare affidamento su alcune istituzioni più tradizionali e omogenee (come le forze armate e la magistratura) e potenzialmente aveva la possibilità di autorinnovarsi attraverso la propria democratizzazione e un allargamento della partecipazione ai settori più moderati delle masse sino allora marginali o escluse è insufficientemente integrate.

In questo contesto soltanto è possibile comprendere veramente le origini del fascismo e la sua affermazione. Sorti a Milano il 23 marzo 1919 su una base (e un gruppo dirigente) che si riconnetteva sostanzialmente ad alcune prospettive minoritarie del sovversivismo irregolare prebellico, quali erano maturate tra la crisi determinata dal fallimento della ‛settimana rossa' e la sua proiezione nell'‛interventismo rivoluzionario', i Fasci di Combattimento rimasero sino alla fine del 1920 e ai primi del 1921 un fenomeno quantitativamente e politicamente irrilevante, partecipe di tutta una serie di caratteri ambigui e contraddittori, di ‛destra' e di ‛sinistra', non diverso in ultima analisi da altri espressi in quel medesimo tempo dal malessere e dal confuso rivoluzionarismo della ex sinistra interventista e di certo ex combattentismo (con la differenza, rispetto a questi, di avere a capo un politico abile e spregiudicato come Mussolini).

A cavallo del 1920-1921 il fascismo prese però improvvisamente quota quantitativamente e politicamente e, pur dovendo fare i conti con la gravissima crisi interna determinata dal ‛patto di pacificazione', in due anni pervenne al potere. Sino allora il fascismo era stato un fenomeno non solo irrilevante, ma squisitamente urbano. In contrasto con questa sua fisionomia, il decollo lo ebbe nelle grandi zone agricole, nella pianura padana, in Toscana e in Puglia. Il successo nei centri urbani non immediatamente determinati economicamente e socialmente dal contado agricolo venne successivamente, così come l'espansione (del resto limitata) fuori dalle regioni suddette.

Per comprendere questa dinamica bisogna considerare vari fattori, in parte concomitanti, in parte determinatisi in successione di tempo. Innanzitutto il clima politico-sociale del momento. Storici e sociologi sono oggi pressoché concordi nell'affermare che alla fine del 1920 la tensione e la mobilitazione delle masse popolari e con esse la combattività e la capacità egemonica dei ‛bolscevichi' cominciavano a scemare, sicché - aggiungono i secondi - lo scatenarsi del fascismo avrebbe in pratica interrotto un processo di integrazione analogo a quello che si ebbe in altri paesi. In questa prospettiva la reazione fascista, oltre che ‛inutile' e ‛dannosa', sarebbe stata in pratica nulla più che una sorta di ‛vendetta' contro coloro che per due anni avevano fatto vivere la borghesia italiana nell'incubo della rivoluzione, l'avevano vilipesa e ferita moralmente e materialmente. Che nello squadrismo ci sia stato anche questo stato d'animo è fuori dubbio; è però difficile affermare che esso ne sia stata la molla. Alla fine del 1920 il declino del ‛bolscevismo' era assai meno percepibile di quanto non lo sia oggi per noi. Il fallimento dell'occupazione delle fabbriche, a parte la paura suscitata, non faceva pensare che la prova di forza non potesse essere ritentata. Quanto alla demobilitazione delle masse, essa era appena agli inizi e fenomeni come quello degli Arditi del popolo facevano sì che quasi non fosse avvertita. Il nodo decisivo della questione è per noi un altro. La molla del fascismo, a livello della lotta di classe, non fu tanto la paura di una rivoluzione ‛bolscevica', quanto il fatto che la classe lavoratrice, le sue organizzazioni sindacali ed economiche, i suoi partiti erano pur sempre in grado di sconvolgere quelle che, a torto o a ragione, erano considerate le regole economiche del mercato e di imporre limitazioni del diritto di proprietà e della libertà di contratto ritenute non solo illegittime ma insostenibili.

Né il discorso può essere limitato a livello della lotta di classe pura e semplice. Se lo squadrismo poté operare ed estendersi ciò non fu dovuto infatti solo all'essersi fatto difensore degli interessi economici lesi dal movimento dei lavoratori e, specie nelle zone agricole, di essersi messo addirittura al soldo di tali interessi. Oltre agli interessi materiali, per due anni erano stati lesi anche molti interessi e valori morali, che invano si era sperato fossero tutelati dallo Stato. Il primo entroterra (il secondo e più vasto sarebbe derivato dalla sempre più diffusa stanchezza e dal desiderio di ‛ordine' e di ‛pace' interni) al fascismo venne da coloro che - mettendo in primo piano questi interessi e valori - videro in esso una forza sostitutiva di quella dello Stato ‛assente' e in grado di porre fine a questo tipo di violenze. Senza questo consenso, in parte pieno in parte critico (le botte fasciste ‛mal date' ma ‛ben ricevute'), il fascismo sarebbe rimasto squadrismo, non avrebbe raccolto tante simpatie, connivenze, aiuti, avrebbe fatto meno proseliti, in una parola, non sarebbe diventato un fatto politico, sostanzialmente capace di non perdere la propria autonomia, di non ridursi a mera guardia bianca di determinati interessi materiali, che, in quanto tali, erano sentiti meno vivamente dai non diretti interessati e non di rado non erano indenni da critiche anche a livello borghese.

Un altro fattore da considerare è la particolare violenza che la lotta di classe aveva avuto nelle zone agricole nelle quali il fascismo si affermò rispetto a quella che si era svolta nei centri operai. Per un verso, resa più dura dai danni maggiori che produceva e dalle minori riserve dei proprietari, da certe sue forme iugulatorie e dalle difficoltà dell'agricoltura, essa toccava, coinvolgeva una parte molto maggiore della popolazione che non nei centri industriali, specie laddove il ferreo sistema delle leghe era riuscito a monopolizzare o a condizionare gran parte delle attività direttamente o indirettamente collegate con l'agricoltura, e una sua attenuazione avrebbe significato poco se non si fosse accompagnata ad una eliminazione di alcune delle conquiste non immediatamente economiche ottenute dai lavoratori e ad un allentamento del sistema leghistico. Per un altro verso, essa, dati i suoi caratteri particolari, aveva coinvolto le varie componenti della società agraria in misure e forme diverse, che possono essere così riassunte: mentre i proprietari, i datori di lavoro avevano subito pressoché tutti un danno comune, tra i lavoratori i benefici (specie dove le leghe erano più forti) erano stati invece diversi a seconda delle categorie e ciò, almeno potenzialmente, costituiva un elemento di forza per gli uni e di debolezza per gli altri, in quanto, all'occasione, poteva sprigionare (come sprigionò sotto i colpi dello squadrismo) una serie di tendenze centrifughe.

Questa diversità spiega perché il fascismo decollò in campagna e non in città, perché ebbe l'unanime appoggio e il sostegno economico degli agrari e della borghesia legata all'agricoltura, mentre il mondo industriale (non solo più moderno e politicamente più lungimirante di quello agrario, ma meno profondamente ferito dallo scontro di classe del ‛biennio rosso', economicamente e giuridicamente più in grado di riprendere l'espansione e con molte minori possibilità di puntare alla divisione del fronte di classe) fu verso di esso assai più cauto, sicché i casi di collegamento organico furono relativamente scarsi, limitati assai spesso alle industrie (soprattutto minori) in gravi difficoltà economiche, e, ciò che più conta, la dirigenza industriale sino alla ‛marcia su Roma' non puntò mai sulla carta di un governo fascista e anche dopo non ne sposò completamente la politica.

L'ultimo importante fattore da considerare è quello della composizione dei Fasci, quale venne a delinearsi con il 1920-1921. Ingrossando le fila, il fascismo si aperse indubbiamente un po' a tutti i ceti sociali, non escluso un certo numero di operai e, ancor più, di lavoratori dei campi (anche se proporzionalmente questi erano in minoranza e se, in parte, erano reclutati nelle zone dove lo squadrismo aveva vinto e dove i passaggi al fascismo un po' erano sinceri, un po' strumentali); il suo nerbo, sia quantitativamente sia in particolare per quel che concerneva i quadri e gli elementi più attivi politicamente e militarmente, si caratterizzò però subito chiaramente in senso piccolo borghese, dando a tutto il movimento e al successivo partito il carattere di un fenomeno che aveva degli aspetti di classe (il che spiega la sua scarsa penetrazione nelle regioni più tradizionali, nelle quali la piccola borghesia non era di tipo moderno e, quindi, era più integrata). Un carattere, questo, che il PNF avrebbe conservato a lungo (almeno sino all'epurazione turatiana della seconda metà degli anni venti) e che gli diede la possibilità, per un verso, di costituire il più importante punto di riferimento e di attrazione per quei settori della piccola borghesia che - come si è detto - aspiravano ad una propria maggior partecipazione e direzione della vita sociale e politica nazionale, non riconoscevano più alla classe dirigente tradizionale e a quella politica in specie né la capacità né la legittimità di governare e, sia pur confusamente, contestavano anche l'assetto sociale che essa rappresentava e, per un altro verso, di salvare la propria autonomia politica rispetto alle altre forze politiche con le quali venne a contatto, anche quando, sgombrato il campo dal ‛bolscevismo', queste avrebbero voluto cooptarlo nel sistema e stemperarlo progressivamente in esso sino a ridurlo ad una sua componente, non diversa sostanzialmente da tante altre.

Oltre che per la sua caratterizzazione sociale, il fascismo non si esaurì nello squadrismo anche per l'abilità e il tempismo politici di Mussolini. Nell'estate del 1922, dopo il fallimento dello ‛sciopero legalitario', a livello sociale il fascismo aveva vinto. A livello parlamentare la sua forza era però irrilevante e molti sintomi lasciavano prevedere che il suo consenso politico più che ad allargarsi avrebbe teso a restringersi, dato che - nel clima sempre più accentuato di generale demobilitazione e di stanchezza che caratterizzava il momento - l'irrequietezza e le violenze della sua base rischiavano di farne agli occhi della borghesia il vero perturbatore della pace sociale e, quindi, di favorire una collaborazione di tipo tradizionale tra i partiti liberaldemocratici, il partito popolare e le forze riformiste, ormai in procinto di staccarsi dai massimalisti. E ciò proprio nel momento in cui il fascismo aveva il problema di dare concreta soddisfazione alle masse che erano affluite nelle sue file, per evitare che, deluse, si allontanassero da esso, ma era ancora guardato dalla maggioranza della classe dirigente tradizionale come un elemento importante del quadro politico e sociale, contro il quale non era possibile governare. Un elemento che, volenti o nolenti, era opportuno integrare nel sistema, per rinsanguare questo e, al tempo stesso, costituzionalizzare quello, privandolo così della sua carica antisistema. Integrare nel sistema, si badi bene, non cedergli il potere e neppure dargli un peso troppo rilevante nel governo.

Questa nel 1922 fu la logica e la prospettiva di tutte le operazioni politiche che in quei mesi vennero imbastite: un governo Giolitti o Salandra o Orlando o Facta o persino Nitti con la partecipazione dei fascisti, non un governo Mussolini. E questa fu anche la prospettiva lungo la quale si mossero le grandi forze economiche. L'abilità di Mussolini fu duplice: capire che ‛in quel momento' egli poteva ancora: 1) giocare sulla componente eversiva e sull'entusiasmo per i successi sin lì conseguiti dal fascismo per una ‛dimostrazione di forza' che, se fosse veramente arrivata agli estremi, si sarebbe certamente conclusa in un clamoroso insuccesso, ma che, se mantenuta nei limiti di una minaccia, avrebbe fatto precipitare la situazione a suo vantaggio; 2) mettere le varie componenti della classe politica le une contro le altre e far leva sulle non ancora completamente sopite paure di una ripresa della guerra civile dalla quale sarebbero potute uscire rivitalizzate le sinistre e indebolito il sistema. Da qui la ‛marcia su Roma', un bluff sul piano militare, un successo sul piano politico, poiché persino di fronte ad essa larga parte della classe dirigente e in primo luogo il sovrano (che, dopo l'esperienza fiumana, doveva temere più di ogni altra cosa di mettere a repentaglio l'unità dell'esercito) continuarono a non capire la vera natura del fascismo e ad illudersi che, una volta arrivato al potere - sia pure in prima persona - esso si sarebbe alla fine costituzionalizzato.

Oggi questa incomprensione e questa illusione possono apparire assurde. Obiettivamente, bisogna però constatare che allora pochissimi si sottrassero a questo duplice atteggiamento (e non solo a livello della classe dirigente tradizionale) e domandarsi, quindi, quale fu il vero fondamento di esso. Se - come riconobbe Togliatti nel 1935 nelle sue Lezioni sul fascismo (p. 20) - ‟è un grave errore il credere che il fascismo sia partito dal 1920, oppure dalla marcia su Roma, con un piano prestabilito, fissato in precedenza, di regime di dittatura, quale questo regime si è poi organizzato", è logico domandarsi se i destini del fascismo e dell'Italia più che il 28 ottobre 1922 non furono decisi successivamente, nello scontro tra la componente potenzialmente costituzionalizzabile del fascismo e quella più legata ad una prospettiva eversivo-piccolo borghese. È evidente, infatti, che in questo caso l'atteggiamento della classe dirigente del 1922, se non diventa scusabile, appare però più comprensibile.

2. Il regime fascista italiano

Il ventennio fascista fu un fatto unitario e rispose ad una logica precisa. In esso si debbono però distinguere almeno quattro fasi successive che è necessario individuare nei loro aspetti caratteristici se si vuole, appunto, coglierne la logica complessiva e non ridursi ad una interpretazione che - identificando praticamente la conclusione con la premessa - finisce per rendere impossibile la comprensione dei suoi nessi con la realtà italiana e delle sue particolarità rispetto agli altri fascismi. Queste quattro fasi corrispondono ai periodi 1922-1925, 1925-1929, 1929-1936 e 1936-1943.

La prima fase, dalla ‛marcia su Roma' al discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925, vide la stabilizzazione del potere fascista e fu caratterizzata dal costituirsi di un determinato tipo di rapporti tra il fascismo e la classe dirigente e le istituzioni tradizionali: lo stesso che, sostanzialmente, diede al successivo regime i suoi caratteri peculiari, anche se, allora come poi, nessuna delle componenti del regime li considerò definitivi.

L'andata al potere di Mussolini nell'ottobre 1922 fu il frutto di un compromesso tra fascismo e classe dirigente tradizionale: da qui, tra l'altro, il carattere di coalizione che sino al 1925 ebbe il governo Mussolini e, soprattutto, la cura gelosa che la seconda (attraverso la corona) mise nell'impedire al fascismo di mettere le mani sulle istituzioni più solide e che essa considerava necessarie a controbilanciare il potere politico che il fascismo si era assicurato (soprattutto le forze armate). Questo compromesso fu ribadito e rafforzato ai primi del 1925, quando gran parte della classe dirigente tradizionale preferì (dopo la crisi determinata dal delitto Matteotti) continuare a sostenere Mussolini pur di evitare il pericolo di un ‛salto nel buio' e di una prova di forza da essa ritenuta troppo rischiosa e tale da provocare una serie di imprevedibili reazioni a catena. Per la classe dirigente tradizionale, via via sempre più identificabile con i cosiddetti ‛fiancheggiatori', sia esterni sia interni, del fascismo, questo praticamente avrebbe dovuto innovare ben poco nel sistema: doveva soprattutto rafforzarlo e ridinamizzarlo, non sovvertirlo. Per i più la soluzione ideale sarebbe stata quella che il fascismo - in cambio di un allargamento della base del sistema e dell'inserimento della sua élite a livello dirigente - attuasse un rafforzamento dell'esecutivo e un depotenziamento delle forme di democrazia realizzate negli ultimi anni (in altri termini una specie di attuazione ammodernata del sonniniano ‟ritorno allo Statuto").

Questa prospettiva era però inaccettabile per il fascismo, almeno per la gran parte del vecchio fascismo (quello che era affluito nei Fasci prima dell'andata al potere), che non solo aspirava ad una partecipazione più ampia, ma si poneva, rispetto alla classe dirigente tradizionale e soprattutto a quella politica, in posizione alternativa e anche socialmente contestava molti aspetti del sistema di cui, a modo suo, avrebbe voluto una democratizzazione a proprio vantaggio. Da qui, per tutta questa prima fase, una sorda contrapposizione tra ‛intransigenti' (che volevano la ‛seconda ondata') e ‛fiancheggiatori' (che volevano la ‛normalizzazione'), che creò molte difficoltà a Mussolini, rese difficile la realizzazione dei suoi propositi di un progressivo svuotamento dei vecchi centri di potere e dei partiti tradizionali borghesi e del partito popolare (e, possibilmente, del socialismo riformista) e di un parallelo travaso di essi nel partito fascista, gli alienò la fiducia e le simpatie di buona parte della classe dirigente tradizionale, ma finì per salvarlo politicamente, dato che in occasione della crisi Matteotti il vecchio intransigentismo fu la sola forza reale che gli rimase fedele e - rendendo così difficile e pericoloso per le forze liberal-democratiche assumerne la successione - indusse gran parte della classe dirigente tradizionale a preferire di continuare sulla strada del compromesso realizzato due anni prima. Tra il ‛salto nel buio', che in una misura o in un'altra avrebbe inevitabilmente compromesso le loro posizioni morali, politiche ed economiche, e Mussolini, i ‛fiancheggiatori' - preoccupati soprattutto di salvaguardare queste loro posizioni e, quindi, le strutture portanti del sistema tradizionale del quale erano espressione e che ormai non erano più in grado di difendere da soli contro l'attacco che veniva loro mosso dagli altri settori della società italiana - scelsero Mussolini, cercando di ripetere su un altro piano l'operazione che era loro fallita tra la ‛marcia su Roma' e il delitto Matteotti: allora avevano cercato di rivitalizzarsi con un fascismo che invano avevano sperato di costituzionalizzare e di assorbire nel sistema; ora cercarono almeno di salvare le strutture essenziali di questo sistema, sperando di fagocitare in esso Mussolini e una parte del fascismo, in cambio della rinuncia alla gestione immediatamente politica del potere.

Da qui prese le mosse la seconda fase, che andò dal discorso di Mussolini del 3 gennaio alla Conciliazione e al ‛plebiscito' del 1929, durante la quale il regime fascista venne progressivamente prendendo corpo a tutti i livelli. Momenti essenziali della costruzione del regime furono lo scioglimento di tutti i partiti e organizzazioni non fascisti, le ‛leggi eccezionali', la ‛costituzionalizzazione' del Gran Consiglio del Fascismo, l'introduzione del sistema elettorale a collegio unico nazionale e a lista unica, i provvedimenti in materia sindacale e, infine, la conclusione dei Trattati del Laterano con la S. Sede. Altrettanto essenziali furono però anche la liquidazione politica del partito fascista, lo ‛sbloccamento' della Confederazione nazionale dei sindacati fascisti e la politica di ‛quota novanta'. Solo se si tiene conto di tutti questi elementi è infatti possibile capire veramente il carattere che in questi anni assunse il regime, la parte che in esso ebbero le sue varie componenti e la funzione di Mussolini.

Se si guarda ai caratteri più evidenti di questo nuovo assetto e alla conclusione dell'esperienza fascista nel 1943, si potrebbe concludere che se nella forma il fascismo fascistizzò i ‛fiancheggiatori', nella sostanza questi riuscirono a derivoluzionarizzare il fascismo, a renderlo in buona parte un loro strumento e a farlo rientrare in larga misura nell'alveo della tradizione conservatrice. Nel ‛regime fascista' che andò progressivamente prendendo forma la sostanza fu così il ‛regime', che in effetti rimase - anche nelle ipocrisie e nei formalismi pseudocostituzionali - il vecchio regime tradizionale, sia pure in camicia nera e con tutta una serie di trasformazioni in senso autoritario (ma di un autoritarismo ancora sostanzialmente ‛classico', nel quale gli innesti demagogico-sociali più tipicamente moderni non sarebbero stati per il momento sufficienti a caratterizzarlo come un vero totalitarismo); mentre il fascismo non fu in buona parte che la forma, una forma oppressiva, avvilente, spesso pesante anche per i ‛fiancheggiatori', ma che solo tardi e sempre in misura relativamente modesta sarebbe riuscito ad incidere sulla sostanza. Sicché in pratica chi dal rinnovato e rafforzato compromesso (che avrebbe raggiunto la sua massima estensione con la Conciliazione e nella fase successiva) finì per trarre i maggiori vantaggi furono i ‛fiancheggiatori', la vecchia classe dirigente e i ceti sociali che la esprimevano (entrati in massa nel partito fascista), mentre per il fascismo l'operazione si ridusse in gran parte alla gestione per la sua élite dell'equilibrio di una serie di interessi conservatori (quelli contro i quali all'inizio si era appuntata la rivolta piccolo-borghese del fascismo rivoluzionario). Una gestione, certo, dorata sotto tutti i punti di vista, ma estremamente precaria, sia per la spinta che veniva dal basso, dai ceti sociali esclusi dalla gestione del potere e condannati a pagare le spese della conservazione del vecchio sistema, sia per la difficoltà - subito chiara a tutti - di dare al fascismo una ragione e una sostanza di sopravvivenza al di là della vita fisica di Mussolini (l'unico uomo politico espresso dal fascismo in grado di giustificare e di gestire il compromesso e di assicurare, col suo prestigio personale, l'accettazione di esso da parte delle masse), sia - infine - per la instabilità dell'equilibrio stesso affidato alla gestione del fascismo.

In una società in transizione, quale - nonostante i ritardi e gli ostacoli frapposti dalle vecchie strutture e dai vecchi interessi - era pur sempre l'Italia, questo equilibrio non poteva non diventare via via sempre più difficile e non rivelare in sé contraddizioni e scontri di interessi sempre più difficili a sanarsi col sistema del compromesso o, addirittura, del mero rinvio; specie se fosse venuto meno il superficiale cemento che teneva insieme tutto il laborioso ma vieppiù debole edificio del ‛regime fascista': il mito-abitudine del capo e la fiducia (alla quale contribuiva largamente l'ancora viva tradizione patriottica risorgimentale) nella capacità del ‛duce' a conseguire la ‛grandezza' dell'Italia. Sicché tutto l'equilibrio era destinato a rompersi alla prima crisi di questa ‛grandezza' e a liberare tutte le forze centrifughe più o meno latenti, sopite o compresse. E ciò sarebbe avvenuto, appunto, il 25 luglio 1943, quando, di fronte alla sconfitta militare, il ‛regime fascista' crollò d'un colpo e con esso il fascismo e se qualcosa sopravvisse furono, da un lato, con la Repubblica Sociale Italiana, il vecchio fascismo rivoluzionario e intransigente che si illuse di poter tornare alla ribalta riallacciandosi al programma sociale del 1919 e che cercò di vendicarsi dei suoi nemici ‛fiancheggiatori' e, da un altro lato, buona parte del vecchio regime che, toltasi la camicia nera, cercò, e in parte riuscì, a scaricare le proprie pesanti responsabilità sul fascismo, presentandosi nelle vesti di una delle sue numerose vittime.

Una visione così superficiale e fattuale sarebbe però parziale. Alcuni elementi della realtà del regime già nella seconda fase e soprattutto il loro accentuarsi durante la terza (dal ‛plebiscito' del 1929 alla conclusione della vicenda etiopica nell'estate 1936) dimostrano infatti che, nonostante tutto, il compromesso e gli equilibri su di esso stabilitisi andarono (specie con gli anni trenta) via via incrinandosi e squilibrandosi a favore del fascismo. Sino ad autorizzare una duplice ipotesi: 1) che, senza il fatto esterno e determinante della seconda guerra mondiale, il regime fascista non sarebbe crollato; 2) che la sua evoluzione sarebbe stata in senso populistico e che ciò avrebbe portato ad un lento esautoramento della vecchia classe dirigente a vantaggio della nuova élite fascista e ad un assetto sociale caratterizzato dalla prevalenza - pur nel quadro di un'economia privatistica - dell'iniziativa dello Stato su quella dei privati e, quindi, al formarsi di una nuova classe dirigente sempre meno simile alla precedente, anche se assai diversa da quella che il fascismo avrebbe voluto creare.

La liquidazione politica del PNF e la sua trasformazione (con la seconda metà degli anni venti) da un partito nel senso proprio del termine in una grande organizzazione di inquadramento, controllo e guida (direttamente o attraverso le altre organizzazioni ‛di categoria' da esso dipendenti) delle masse fu dettata a Mussolini dalla necessità di farla finita con il vecchio fascismo e con la sua cronica irrequietezza e di dare soddisfazione ai ‛fiancheggiatori' e a tutti coloro che volevano da lui soprattutto ordine e disciplina. Egli era mosso però anche da un'altra logica, quella di avere a propria disposizione uno strumento che gli permettesse di permeare dello Stato (a cui il PNF fu rigidamente sottoposto e trasformato in un canale di trasmissione a senso unico della sua politica e della sua concezione) tutta la società, di organizzare il consenso e di formare le nuove generazioni, sottraendole ad ogni altra influenza (in primo luogo quella della Chiesa).

Contrariamente ai regimi conservatori-autoritari (che hanno sempre teso a demobilitare le masse e ad escluderle dalla partecipazione attiva alla vita politica, offrendo loro dei valori e un modello sociale già sperimentati nel passato e ai quali viene attribuita la capacità di impedire gli inconvenienti e gli errori di qualche recente parentesi rivoluzionaria), per il fascismo (come per tutti i sistemi politici di massa moderni) il consenso e la partecipazione al regime non dovevano infatti essere passivi. Le masse dovevano sentirsi integrate nel regime e mobilitate, sia perché in ‛rapporto diretto' col capo (tale perché capace di farsi interprete e traduttore in atto delle loro aspirazioni e, quindi, dotato di una carica di tipo chiaramente carismatico) sia perché psicologicamente partecipi di un processo ‛rivoluzionario', da cui traevano il soddisfacimento di alcuni bisogni concreti e di alcune aspirazioni morali e soprattutto la ‛fede' in un futuro migliore della comunità nazionale. Solo così esse potevano infatti sentirsi parte di una ‛comunità morale', con propri ideali, propri modelli di comportamento, proprie gerarchie e il regime poteva diventare un ‛potere legittimo', che non aveva più bisogno per affermare la propria autorità di far ricorso alla coercizione e che, ad ogni modo, in caso di necessità era legittimato a ricorrervi, poiché chi incorreva nei suoi rigori si era posto fuori della comunità morale. In questa prospettiva l'aspetto di massa della politica fascista (specie in riferimento alle nuove generazioni per le quali il fascismo era, per così dire, sempre più la ‛normalità', dato che esse non conoscevano altri sistemi politici) e i suoi strumenti (scuola, organizzazioni ‛di categoria', assistenziali e per il ‛tempo libero', propaganda, partito) diventavano il fulcro del sistema fascista, la premessa perché esso potesse in prospettiva svincolarsi dalle pastoie del compromesso con la classe dirigente tradizionale e, intanto, potesse rendere il suo potere politico sempre più autonomo e via via prevalente rispetto a quello economico, sempre saldamente in mano ai ‛fiancheggiatori'. E soprattutto - dato che a livello del consenso di massa nella prima metà degli anni trenta il fascismo conseguì indubbiamente dei grossi successi, grazie sia a come fronteggiò la ‛grande crisi' sia alla conclusione vittoriosa della guerra d'Etiopia - perché potesse affrontare quella che, sui tempi medi, sarebbe stata la sua prova più difficile e decisiva: la successione di Mussolini, superata la quale sul piano interno non vi sarebbero stati per esso più ostacoli per molto tempo.

Alla luce di quanto ora detto bisogna, a nostro avviso, vedere tutte le più importanti iniziative politiche fasciste del periodo 1929-1936 ed ancor più quelle degli anni successivi. A ben vedere, tutte, infatti, si ricollegano ai problemi dei quali abbiamo parlato, anche quando, apparentemente, sembrano tra loro in contraddizione.

Per il periodo 1929-1936 (ma anche per il successivo, dato che la crisi del 1938 non fu connessa solo all'adozione da parte del fascismo della politica razziale, ma anche e ancor prima al riprendere quota della Gioventù d'Azione Cattolica), è chiaro che la crisi del 1931 con la S. Sede per l'Azione Cattolica fu determinata dalla necessità per il fascismo di non farsi sfuggire il monopolio della formazione della gioventù e, in via subordinata, di ridimensionare in qualche misura le conseguenze politiche della Conciliazione, ora che questa, per un verso, aveva per esso perso di importanza (dato che gran parte dei cattolici erano stati ormai stabilmente integrati nel regime) e, per un altro verso, sembrava a Mussolini meno importante, dopo che gli avvenimenti spagnoli sfociati nella caduta della monarchia lo avevano convinto che in realtà l'appoggio della Chiesa non costituiva di per sé un fattore decisivo del consenso e che non si poteva fare in ogni modo affidamento sicuro su di essa. Allo stesso modo, la politica di ‛ruralizzazione' avviata nel 1929 (inizialmente con ambizioni e propositi che, al limite, si potrebbero definire non molto lontani dall'avvio di un nuovo modello di sviluppo economico) appare chiaramente ispirata da due preoccupazioni: quella di stimolare il consenso del mondo contadino e della piccola borghesia e quella di frenare il potere economico della grande industria.

Né, pur tenendo in tutto il debito conto le necessità oggettive del difficilissimo momento economico e le numerose contropartite contemporaneamente date agli interessi del padronato, ci pare sia possibile non vedere nella sempre più esplicita politica di intervento statale nell'economia, avviata con la prima metà degli anni trenta, un'altra manifestazione di questa seconda preoccupazione. Per non dire, infine, della guerra d'Etiopia, il cui nesso con la politica del consenso è così evidente che non sarebbe il caso di insistervi se ciò non fosse indispensabile per chiarire la problematica di fondo della realtà fascista del terzo e del quarto periodo.

La chiave di questa problematica è costituita dal carattere e dai limiti del consenso di cui godette il fascismo. Anche se non mancarono ‛zone d'ombra' e incrinature (che si andarono estendendo con la seconda metà degli anni trenta, in connessione con la politica sempre più pronazista attuata dal fascismo e con la progressiva totalitarizzazione del regime), il consenso fu sin quasi alla vigilia della catastrofe militare del 1942 assai vasto a tutti i livelli, anche a quello operaio e, ancor più, contadino, specie tra i giovani. Né la cosa può meravigliare se si considera l'atmosfera nella quale viveva il paese e il lento (ma non per questo inoperante sul piano del consenso) sviluppo sociale della società italiana in quegli anni; sviluppo sociale che si traduceva a sua volta nella formazione di una nuova classe politica e burocratica composta in buona parte da elementi di origine proletaria e piccolo borghese, la cui promozione sociale era avvenuta grazie al loro inserimento nelle organizzazioni del regime, in una maggiore integrazione nazionale e socializzazione delle masse e in una diffusa convinzione che i progressi conseguiti fossero da attribuirsi direttamente al fascismo. Detto questo, vanno però messi in luce anche altri tre aspetti caratteristici di questo consenso. Primo, che esso toccò il suo apice alla metà degli anni trenta, mentre nel periodo successivo in alcuni ambienti subì una flessione, in altri sfumò spesso in una sorta di rassegnata indifferenza e un po' in tutti non riuscì più a crescere ulteriormente. Secondo, che sempre più nettamente la sua molla, il suo elemento caratterizzante e catalizzatore divennero la figura e l'opera del ‛duce' (al cui prestigio molto giovavano tra le masse la sua origine popolare e il suo modo di fare sicuro, energico e soprattutto così diverso da quello dei ‛signori'), mentre persero di prestigio e di credibilità sia il regime sia il fascismo, sempre più spesso visti come qualche cosa di diverso, in negativo, da Mussolini. Terzo, che, dati la natura del regime, i rapporti di forza e gli equilibri tra le sue componenti e la situazione internazionale (resa sempre più dinamica e instabile dall'affermazione del nazionalsocialismo in Germania), era praticamente impossibile per il fascismo operare un rilancio e un ulteriore allargamento di esso sul terreno della politica interna. Da qui per Mussolini e per il fascismo la duplice necessità (che caratterizzò il terzo periodo e ancor più il quarto) di rendere progressivamente più totalitario il regime, in maniera da forzare al massimo il meccanismo del consenso (anche a costo di dover ricorrere alla coercizione verso quei settori della società che avrebbero risposto negativamente al giro di vite totalitario) e da bruciare i tempi del processo di fascistizzazione delle masse, e di ricorrere a questo scopo alla molla della politica estera, facendo di essa il fulcro di tutto e giocando su di essa il consenso morale e culturale dei ceti piccolo e medio borghesi e quello economico e sociale delle masse popolari. Solo così, infatti, il fascismo avrebbe potuto sopravvivere e vincere la sua partita con la classe dirigente tradizionale: se fosse potuto giungere al traguardo per lui decisivo del ‛dopo Mussolini' con un consenso così vasto e con un ‛proprio' carisma tali da compensare la scomparsa del capo carismatico, le possibilità della classe dirigente tradizionale di riuscire a riassumere nelle proprie mani il potere politico sarebbero state minime.

Ridurre la guerra d'Etiopia alla sola logica della politica del consenso è certamente eccessivo e unilaterale. Essa rispose infatti altrettanto certamente anche ad altre motivazioni e in specie alla particolare concezione che Mussolini si era fatta dei rapporti internazionali, del ruolo che in essi doveva avere l'Italia e dei mezzi con i quali esercitarlo. Ciò non toglie per altro che il nesso tra la politica del consenso e la guerra d'Etiopia sia chiarissimo. E lo stesso si può dire per la successiva politica estera fascista, anche se tra i due momenti - quello etiopico e quello successivo - vi fu una netta differenza, sia sotto il proffio della resa sia sotto quello della sostanza. La resa, sul piano del consenso, della guerra d'Etiopia fu per il fascismo eccezionalmente positiva: essa riuscì infatti ad attivizzare tutto il paese, facendo leva su una serie di motivazioni assai vasta e tale da coinvolgere tutte le sue componenti sociali. Minore e via via decrescente fu invece quella delle successive iniziative internazionali fasciste. Sia per i rischi sempre maggiori che vi venivano scorti, sia per la maggior difficoltà di dare loro una prospettiva economico-sociale, sia perché - nonostante la crisi dei rapporti con l'Inghilterra e. la Francia provocata dalla guerra d'Etiopia - le diffidenze e le ostilità verso la Germania e il nazismo erano troppo vive perché la politica estera fascista divenisse veramente popolare. Quanto poi alla sostanza, anch'essa fu molto diversa.

Nel 1935-1936 il dinamismo della politica italiana era stato - grazie alla congiuntura internazionale particolarmente favorevole alla strategia mussoliniana del ‛peso determinante' - un fatto reale. Negli anni successivi, venuta meno questa congiuntura, esso fu tale quasi solo in apparenza. E, ciò che più conta, i margini di manovra della politica estera fascista si ridussero sempre più. Sicché Mussolini si venne a trovare sempre più legato alla Germania, anche se ciò non corrispondeva né ai suoi veri desideri né ai suoi interessi, sia di politica estera sia di politica interna, dato che - come si è detto - a questo secondo livello i sempre più stretti legami con Hitler e il pericolo di un conflitto intereuropeo indebolivano piuttosto che accrescere il consenso popolare verso il regime; mentre al primo la presenza sempre più decisiva della Germania nazionalsocialista sulla scena europea dava inevitabilmente alla politica internazionale una carica ideologica che sino allora non aveva avuto (o che non aveva avuto un peso decisivo) e a cui la politica estera fascista non poteva sottrarsi, dato che (tralasciamo altri motivi secondari) il fascismo doveva - come si è pure detto - ricorrere per sopravvivere alla totalitarizzazione del proprio potere e ciò comportava necessariamente una sempre maggiore ideologizzazione del fascismo stesso che, a sua volta, lo portava ad identificarsi vieppiù con il nazismo e a perdere quindi la propria posizione speciale tra i due blocchi contrapposti. Quanto abbiamo detto spiega le incertezze di Mussolini nel 1939-1940, quando Hitler diede inizio alla seconda guerra mondiale, la ‛non belligeranza' e, alla fine, la decisione dell'intervento (e, se si vuole, anche la formula della ‛guerra parallela' che egli cercò di realizzare in un primo tempo), solo quando sembrò che la Germania avesse ormai praticamente vinto e sorse in lui il timore di venire escluso dalla risistemazione politico-territoriale postbellica, di perdere quindi qualsiasi ruolo e credibilità internazionali e di rimanere esposto al risentimento di Hitler per il mancato rispetto dell'alleanza senza nessuna possibilità di poterne fronteggiare la potenza politica e militare.

E ancora più in generale, quanto abbiamo detto a proposito del terzo e soprattutto del quarto periodo del fascismo, ci pare dimostri che (come per tutti i moderni sistemi totalitari di destra e di sinistra) l'elemento determinante delle scelte di fondo del fascismo non scaturiva tanto dal rapporto fra economia e politica e tanto meno dalla preminenza della prima sulla seconda (come nei sistemi democratici) ma - come giustamente ha messo in rilievo F. Neumann - dalla pura politica o, almeno, dalla preminenza delle ragioni di questa su quelle dell'economia. E, egualmente, che la molla della politica estera del fascismo (apparentemente l'elemento caratterizzante della politica fascista via via che gli anni passavano) non era determinata tanto dalla logica dell'espansionismo quanto da quella della sua sopravvivenza come realtà politica.

3. La Repubblica Sociale Italiana

Sotto il profilo storico-politico è difficile porre la R.S.I. in un netto rapporto tanto di continuità quanto di frattura rispetto al precedente fascismo. E ciò specie se si tengono presenti, oltre alle sue vicende particolari, due circostanze che indubbiamente ne condizionarono in modo decisivo l'esistenza e il suo stesso significato: quella di essere nata e vissuta sino alla fine in una sostanziale mancanza di autonomia rispetto ai Tedeschi (che la considerarono un loro strumento volto ad alleggerire le loro forze armate da alcuni oneri in Italia e, come tale, in effetti qualche cosa di contingente), da cui la pressoché totale irrilevanza pratica e la mancanza di effettivo valore rispetto al suo futuro - anche nel caso di una vittoria tedesca della guerra - di tutte le sue iniziative non immediatamente militari (e cioè antipartigiane); e quella che le derivava dalla particolarissima posizione che in essa aveva Mussolini. Se si pensa al ruolo decisivo che il ‛duce' aveva avuto nel fascismo sino al 25 luglio 1943 e a quello assai ridotto che ebbe (e in buona parte volontariamente) nella R.S.I., è impossibile non convenire infatti che se al fascismo repubblicano, per un verso, mancò quasi completamente il capo, politico e carismatico, che era stato così determinante per il fascismo del ventennio, per un altro verso, la presenza, in buona parte nominale, alla sua testa di Mussolini finì per costituire per esso un elemento di ambiguità e in definitiva di ulteriore mancanza di chiarezza e di prospettiva politiche. Infatti tale presenza rendeva ancora più difficile un vero bilancio del passato e un chiaro confronto tra le varie posizioni in presenza e, al tempo stesso, condizionava tuttora l'evoluzione del fascismo con una serie di iniziative che assai spesso trovavano la loro origine profonda più nel dramma psicologico personale di Mussolini che in una coerente e fredda scelta politica.

Premesso ciò, è forse più utile cercare di individuare cosa del fascismo repubblicano si possa riportare al denominatore della continuità e cosa invece costituisca un elemento sostanzialmente nuovo rispetto al fascismo del ventennio. Un elemento di continuità fu certamente costituito da un certo tipo di nazionalismo, cbe in molti fascisti repubblicani - soprattutto più giovani - ebbe però un carattere particolare, poiché, in genere, assunse caratteri elementari e coloriture romantico-cavalleresche (il richiamo all'onore nazionale, alla fedeltà ai patti, al cameratismo con i compagni d'arme tedeschi, alla coerenza per la coerenza, ecc.) e si nutriva di una serie di motivazioni tipiche del nazionalismo italiano e soprattutto di quello fascista, quale era venuto prendendo corpo con la guerra d'Etiopia e successivamente ad essa: da qui la sua carica essenzialmente antinglese, alla quale quasi sempre si univa un'altrettanto forte carica antiamericana e assai di rado, invece, antirussa.

Per capire queste ultime due varianti bisogna rifarsi ad altri elementi di continuità e in particolare a tre, due molto vivi e uno secondario ma non sottovalutabile. Il primo è quello dell'antidemocrazia, tipico del fascismo in tutte le sue manifestazioni e in tutti i suoi periodi, sicché è inutile dilungarci su di esso. Il secondo (quello secondario) è quello che potremmo chiamare il mito dei ‛popoli giovani', per il quale ‛vecchi' erano l'Inghilterra e per estensione anche gli Stati Uniti, mentre ‛giovane' era la Russia. Il terzo - e più importante - infine è quello costituito dal vecchio rivoluzionarismo tipicamente piccolo borghese del primo fascismo. All'origine tanto antiproletario quanto anticapitalistico, questo rivoluzionarismo si era visto negli anni del regime, da un lato esaltato sul piano ideologico attraverso la presentazione del corporativismo come terza via tra capitalismo e comunismo e interpretato sul piano pratico dal fascismo-governo attraverso la sua politica di intervento nell'economia, ma, da un altro lato, sacrificato politicamente da Mussolini ai ‛fiancheggiatori' e assai spesso addirittura estromesso o emarginato. Il 25 luglio era stato pertanto per esso un dramma ma anche una vittoria morale, nel senso che lo aveva confermato nella sua convinzione che i veri nemici del fascismo, quelli che avevano prima ingannato e strumentalizzato e poi tradito Mussolini, erano i fiancheggiatori: la monarchia, i capi militari, la vecchia classe dirigente, i capitalisti; mentre le masse popolari avevano mostrato nel complesso una maggiore tendenza ad integrarsi nella nazione e nel fascismo. Da qui il loro ritorno alla ribalta politica con la R.S.I., il loro riallacciarsi al programma fascista del 1919, la loro volontà di vendetta sui ‛fiancheggiatori' di tutte le specie. Da qui, ancora, per tornare al discorso sul nazionalismo, il loro guardare, in genere, all'URSS in maniera diversa che alle due grandi potenze anglosassoni; sia perché socialmente più vicina al ‛fascismo rivoluzionario' delle ‛demoplutocrazie', sia perché, al fondo, considerata una sorta di loro futura vendicatrice postuma su di esse, nata per di più dallo stesso travaglio ‛rinnovatore' da cui era nato il fascismo e in contrapposizione alla soluzione parlamentaristica liberal-democratica. Un travaglio al quale, oltre tutto, lo stesso Mussolini mostrava di volersi ricollegare e nel nome del quale la R.S.I. raccoglieva anche adesioni di ex sovversivi e di ex antifascisti che, in quel momento, assumevano un carattere tutto particolare.

Questi, a nostro avviso, i quattro elementi più significativi di continuità, ma, al tempo stesso, di una continuità che, specie nei più giovani, si presentava con alcuni innesti di novità non insignificanti, almeno sotto il profilo ideologico-politico.

Lo stesso discorso ci pare si debba fare per quegli elementi che, rispetto alla tradizione italiana del ventennio, rappresentano invece una novità, frutto della frattura determinata dalla sconfitta militare del regime e dalla consapevolezza che, anche nella eventualità sempre meno credibile di una vittoria tedesca, il fascismo così come era stato concepito e idealizzato nel ventennio era comunque sconfitto. A parte ogni altra considerazione, perché aveva irrimediabilmente perduto il rapporto col paese e - se mai l'aveva avuto - ogni forma di carisma. Anche in questi elementi vi è una radice preesistente; gli innesti nuovi sono però tali da dare loro un significato di frattura che, a nostro avviso, è quello che, in prosieguo di tempo, distinguerà il neofascismo post seconda guerra mondiale dal fascismo storico. Tra essi è, per esempio, l'acquisto di una dimensione europea del fascismo, non più intesa nei termini del ‛fascismo universale' degli anni trenta e neppure nei termini egemonici che essa aveva assunto nel nazismo, ma in quelli di una effettiva unità dei ‛credenti' e dei ‛combattenti' per la sopravvivenza dell'Europa e della sua civiltà contro le forze ‛non europee' e ‛antieuropee'. Soffermarsi su questi elementi è però, in questa sede, inutile. Ciò che importa è chiarire da cosa essi presero le mosse, quale cioè fu il fatto nuovo che li determinò.
G. L. Mosse e T. Kunnas, i due più acuti studiosi dell'intima sostanza dell'ideologia fascista e - soprattutto il primo - delle sue radici sociali e culturali, hanno bene messo in luce i rapporti esistenti tra questa ideologia e la crisi, morale, culturale e esistenziale dell'Europa tra le due guerre mondiali. In particolare essi hanno posto l'accento sull'anelito a ricostruire '‛uomo totale' e sulle componenti di fondo della mentalità fascista nella sua aspirazione a superare l'‛anonimato del presente', a contrastare la crisi della civiltà europea e a recuperare nell'autocoscienza nazionale il senso della comunità. Nei vari fascismi storici e in alcuni intellettuali fascisti isolati questo anelito e queste componenti si sono presentate in forme e misure diverse, prefigurando futuri diversi. In essi il futuro era però un dato di fatto che - pure in una visione di ottimismo vitalistico o tragico, a seconda dei casi - era prospettato come una realtà contrapposta a quella rappresentata dalla crisi della civiltà europea. Gli sbocchi potevano essere diversi: il millennio ciclico del nazionalsocialismo, l'intima capacità dei popoli giovani di trovare in se stessi e nella propria peculiare tradizione la forza morale di un rinascimento nel fascismo. Un futuro però c'era e con esso, quindi, qualche cosa per cui valesse la pena di lottare. Con la sconfitta militare e politica del fascismo questo stato d'animo, questa mentalità mutarono profondamente, sino a trasformarsi nel loro contrario, nella convinzione che la civiltà europea fosse ormai inevitabilmente condannata alla degenerazione. Da qui un pessimismo tragico senza il quale non si capisce veramente l'intima realtà della R.S.I. e le sue suggestioni (ed elaborazioni culturali più significative) successive sul neofascismo. Un pessimismo tragico i cui sbocchi furono o una sorta di imperante ‛senso della morte', individuale e collettivo, o, come si è detto, una sorta di odio-amore verso lo Stato sovietico, visto, per un verso, come vendicatore del fascismo e, per un altro verso, come ultimo, anche se inidoneo, freno momentaneo alla degenerazione della civiltà europea.

4. Il fenomeno fascista

Sino agli inizi degli anni trenta pochi furono coloro che videro nel fascismo un fenomeno potenzialmente non solo italiano. Se si prescinde dai marxisti e specialmente dalla III Internazionale, che videro nel fascismo l'ultima forma reazionaria di potere del capitalismo senescente, i più lo spiegarono sulla base della specifica realtà italiana: la debolezza della tradizione e delle istituzioni liberal-democratiche, le deficienze della classe politica, i caratteri particolarmente aspri del dopoguerra in Italia sotto il profilo politico-sociale; né mancarono coloro che si appellarono al ‛temperamento' degli Italiani, intrisi di forti ma incostanti passioni e bisognosi, data la loro scarsa coscienza politico-sociale, di un governo forte. Al massimo qualcuno accennò alla possibilità che l'esempio italiano potesse esercitare una certa suggestione in alcuni paesi dell'Europa orientale, privi di una salda tradizione liberale e di un efficiente sistema parlamentare e poco sviluppati economicamente e socialmente. Di un ‛fenomeno' fascista si cominciò a parlare sempre più diffusamente nella prima metà degli anni trenta. Dopo che il nazionalsocialismo si fu affermato in Germania, movimenti e partiti fascisti o parafascisti sorsero in moltissimi paesi e anche a livello culturale vi fu chi cominciò a considerare il fascismo come un modello politico-sociale che tendeva a superare le contraddizioni e le disfunzioni dei regimi capitalistici (rese più evidenti dalla ‛grande crisi') senza cadere nel comunismo.

La guerra civile spagnola, il ‛patto d'acciaio' e la seconda guerra mondiale completarono l'opera. Dissoltesi le illusioni di coloro che, come si è detto, avevano guardato al fascismo come a una sorta di ‛terza via', la tendenza sempre più accentuata fu quella a generalizzare, a mettere l'accento sugli elementi comuni ai vari fascismi - spesso con toni di tipo demonologico -, a insistere soprattutto su quelli nazionalistico, coercitivo-terroristico (risolvendo in esso il problema del consenso) e di reazione di classe, e a sottovalutare e a ignorare le differenze. Per un quindicennio il fascismo fu così essenzialmente un problema etico-politico, attorno al quale, per di più, fu combattuta la guerra più distruttiva dell'età moderna. Ciò spiega bene perché, conclusosi il secondo conflitto mondiale e scomparsi con esso tutti i regimi fascisti o parafascisti (salvo quello spagnolo, che, per altro, nel nuovo clima internazionale attenuò rapidamente molti dei suoi caratteri più tipicamente fascisti per trasformarsi in un regime sempre più di tipo conservatore-autoritario), il discorso sul fascismo in un primo tempo sia rimasto largamente condizionato da tutta una serie di valutazioni-interpretazioni politico-ideologiche contrastanti, che, praticamente, erano le stesse nel nome delle quali era stato combattuto, e in un secondo tempo abbia registrato un processo di differenziazione estremamente netto. Da un lato il fascismo è diventato una categoria onnicomprensiva, sempre più priva di effettivo riferimento ai fascismi storici, che a livello politico di massa è servita a definire e a squalificare a priori qualsiasi avversario politico; da un altro lato, a livello scientifico, il fenomeno fascista è stato studiato in una serie di prospettive nuove, sempre meno condizionate sia dalle interpretazioni ‛classiche' sia dalle altre fiorite nell'immediato dopoguerra, che hanno in genere portato ad una valorizzazione delle peculiarità nazionali dei singoli fascismi e ad una revisione in senso riduttivo di molti degli elementi che in un primo tempo erano sembrati comuni a tutti i fascismi.

Nelle interpretazioni ‛classiche' è facile riscontrare l'influenza determinante di come negli anni tra le due guerre mondiali il fascismo fu visto a livello tanto culturale quanto politico da liberali, radicali e comunisti e di come queste forze si posero di fronte al problema del postfascismo.

Per la cultura liberale (soprattutto europea, si pensi a Croce, Meinecke, Ritter, G. Mann, Kohn) il fascismo sarebbe stato una sorta di ‛malattia morale', uno smarrì- mento delle coscienze che colpì tutta l'Europa e tutte le classi sociali (anche se il suo impatto fu maggiore in alcuni paesi e a livello dei ceti medi) e che aveva radici lontane: nella mobilitazione delle masse provocata dalla Rivoluzione francese e dalla rivoluzione industriale, nelle illusioni e nelle aspirazioni alla felicità, al guadagno, alla potenza da esse suscitate, nella dissoluzione dei tradizionali vincoli sociali, nel disprezzo della ragione e nell'esaltazione della vita e della forza praticata da tutto un settore della filosofia e della cultura contemporanee. Ricollegandosi a queste radici più o meno remote, la crisi e il travaglio causati dalla guerra 1914-1918 e dal dopoguerra avrebbero provocato il fascismo. Per la cultura radicale (Vermeil, Viereck, Mack Smith, ecc.) il fascismo, invece, sarebbe stato la logica e inevitabile conseguenza di una serie di tare caratteristiche dello sviluppo storico di alcuni paesi. Tare connesse soprattutto al ritardo, alla fragilità e alla esasperazione con i quali in questi paesi si sarebbero realizzati lo sviluppo economico, l'unificazione e l'indipendenza nazionali: la borghesia di questi paesi non sarebbe riuscita a svilupparsi altro che in forme patologiche e avrebbe perciò dovuto ricorrere sempre ad alleanze conservatrici e a forme di potere politico illiberali e antidemocratiche per affermare il proprio predominio, con la conseguenza di escludere qualsiasi effettiva partecipazione morale e materiale delle masse popolari al processo di unificazione nazionale e al governo del paese; sicché il fascismo non sarebbe stato che il logico e necessario portato di questa politica reazionaria e antipopolare e, quindi, tra esso e la tradizione autoritaria e imperialista dei paesi nei quali si è affermato esisterebbe una ben precisa continuità. Per larga parte dei marxisti e per i comunisti, infine, il fascismo sarebbe stato un prodotto della società capitalistica, la concreta manifestazione a livello di massa della reazione antiproletaria alla quale il capitalismo era costretto a ricorrere nel vano tentativo di salvarsi. Va per altro anche detto che, nell'ambito di questa interpretazione, il discorso è stato articolato (a seconda dei momenti e dei gruppi) in forme diverse, spesso assai meno schematiche (si pensi a Trotzki, a Löwenthal, a Togliatti), tanto è vero che esso è stato più o meno largamente recepito anche dalla storiografia non marxista.

A queste interpretazioni principali si deve aggiungere, per l'importanza che ha avuto negli Stati Uniti e soprattutto nella Germania occidentale, quella che ha voluto vedere nel fascismo (così come nel comunismo, specialmente nella fase stalinista) una manifestazione di un fenomeno assai più vasto e strettamente connesso all'atomizzazione e alla individualizzazione della società contemporanea determinate dalla disgregazione sociale causata dalla prima guerra mondiale e dall'affermarsi di una nuova società caratterizzata dal ruolo decisivo che in essa hanno per un verso le masse e per un altro verso la moderna tecnologia: il ‛totalitarismo', inteso come una nuova forma di potere, volta a ricostruire, appunto, il tessuto sociale, creando, con l'aiuto di una ideologia elementare e del terrore, un nuovo senso della comunità e nuove forme di organizzazione della vita economica e sociale più adatte ad una società di massa e ai suoi bisogni morali e materiali.

A queste interpretazioni (e a quelle minori, ad esse per un verso o per un altro tutte ricollegabili) nell'ultimo trentennio se ne sono venute affiancando e contrapponendo altre, elaborate soprattutto nell'ambito delle scienze sociali, che - assolutamente minoritarie all'inizio - hanno acquistato via via sempre più credito (specie nella cultura anglosassone) e tendono oggi a porre il discorso sul fascismo su un terreno sempre più diverso da quello tradizionale o, almeno, ad integrarlo con tutto una serie di suggestioni e di ipotesi di ricerca nuove. All'origine di esse sono spesso opere e ipotesi interpretative elaborate negli anni trenta-quaranta (si pensi agli studi di Reich, Fromm, Mannheim, ovvero a quelli sulla ‛personalità autoritaria'), sia in sede scientifica sia ad opera dei servizi psicologici e di propaganda delle forze armate statunitensi negli anni della guerra. In genere, queste interpretazioni si rifanno però soprattutto alle più recenti teorie psicosociali, sociologiche e socioeconomiche. Da qui la duplicità del loro apporto al discorso sul fascismo: positivo, laddove esse contribuiscono a mettere in luce l'inscindibile rapporto che lega il fascismo al formarsi di società di massa e, quindi, il tipo particolare di motivazioni che determinarono l'atteggiamento e l'evoluzione del comportamento delle varie componenti del corpo sociale rispetto ai movimenti e ai regimi di tipo fascista; negativo, laddove, invece, esse pretendono di offrire delle interpretazioni onnicomprensive del fascismo e di costruire dei ‛emodelli' di esso più o meno disancorati dalla concreta realtà del momento storico e dei singoli paesi. Tipico in questo senso è il caso di quei sociologi e politologi che (riprendendo tutti più o meno esplicitamente la teoria di Rostow sugli stadi dello sviluppo economico) hanno calato il discorso particolare sul fascismo in quello più ampio sulla ‛modernizzazione', col risultato di sganciare quasi completamente i fascismi storici dal loro specifico contesto geografico; culturale e storico e di costruire un modello fascista in cui rientrerebbero esperienze e regimi diversissimi, tra cui molti di quelli dei paesi in via di sviluppo dell'America Latina e del Terzo Mondo.

Per importante che sia il contributo che le scienze sociali hanno dato al discorso sul fenomeno fascista con tutta una serie di suggestioni e di spunti sia a livello d'interpretazione generale sia di definizione di singoli aspetti di esso, l'apporto maggi9re al discorso sul fascismo è però venuto in questi anni essenzialmente dal sistematico lavoro di ricerca e di approfondimento storico della realtà dei singoli fascismi fatto soprattutto in Germania Occidentale; negli Stati Uniti e in Italia. Grazie a questi studi (in genere tanto più importanti quanto più ampia è diventata la possibilità di accedere alle fonti e minori si sono fatte le preoccupazioni di origine immediatamente politica degli storici e, dunque, si è accresciuta la loro capacità di estendere l'orizzonte delle ricerche a campi sino a pochi anni or sono ritenuti estranei alla tematica del fascismo) il discorso sul fenomeno fascista tende oggi a definirsi in termini piuttosto univoci e parzialmente diversi da quelli nei quali era stato impostato nel ventennio precedente il nostro. Da un lato, essi hanno confermato la validità di un discorso storico che continui a considerare il fascismo come un fenomeno complessivamente unitario, sia perché definibile entro confini cronologicamente (il periodo tra le due guerre mondiali) e geograficamente (l'Europa) precisi, sia perché strettamente connesso a determinate condizioni e trasformazioni socioeconomiche, ad una particolare temperie culturale delle élites e soprattutto delle masse e ad una certa concezione (e all'oggettiva possibilità di attuarla) dei rapporti di forza all'interno delle nazioni e tra gli Stati. Da un altro lato, essi hanno però sempre più chiaramente messo in luce due fatti nuovi e che contrastano in genere con quanto affermato in passato. Primo: che - al di là di quanto or ora detto - nei singoli fascismi le peculiarità nazionali e in primo luogo il grado di nazionalizzazione delle masse (fondamentali sono a questo proposito gli studi di G. L. Mosse, non solo per quello che dicono sulla Germania e sul nazionalsocialismo, ma per le possibilità che offrono di comprendere le differenze di fondo che sotto questo profilo vi erano tra Germania e Italia e, quindi, tra nazionalsocialismo e fascismo) furono a tutti i livelli decisivi, tali da rendere improponibile, sia per i partiti e i movimenti sia per i regimi, un discorso di tipo assolutamente unitario. Secondo: che le radici storiche del fascismo non possono essere ricercate solo nella tradizione politica e culturale della destra, ma, al contrario, vanno ritrovate assai spesso in quella di un certo radicalismo di sinistra nato con la Rivoluzione francese; il che marca ulteriormente (e a monte) le profonde differenze che fanno dei regimi fascisti di massa una realtà assai diversa dai regimi autoritari e conservatori tradizionali e del fascismo un ‛nuovo stile politico' che - come ha dimostrato compiutamente G. L. Mosse per il nazionalsocialismo, ma il discorso vale anche per il fascismo italiano, sempre che si tengano presenti le differenze tra i due regimi - se si serviva di una tradizione precedente, si poneva però obiettivi completamente nuovi: trasformare le folle in masse organizzandole in un movimento politico con caratteri di religione laica.

Enciclopedia delle Scienze Sociali (1994)

di Roberto Vivarelli e Edda Saccomani


Storia
di Roberto Vivarelli

Sommario: 1. Definizione. 2. Storia: a) origini (1919-1922); b) primo periodo di governo (1922-1925); c) trasformazione in regime (1925-1929); d) esperienza corporativa (1929-1935); e) svolta della guerra di Etiopia (1935-1939); f) la guerra (1939-1943); g) epilogo (1943-1945). 3. Il fascismo fuori d'Italia: a) Germania; b) Portogallo e Spagna; c) Francia; d) Inghilterra; e) Belgio; f) Romania; g) Ungheria. 4. Le interpretazioni. 5. Questioni aperte: a) il ruolo della Grande guerra; b) la tradizione conservatrice e il nazionalismo; c) il Duce; d) le origini culturali e la dottrina del fascismo; e) l'antifascismo. □ Bibliografia.

1. Definizione

A differenza di altri ismi contemporanei (ad esempio, liberalismo, socialismo, comunismo) il termine fascismo deriva da un sostantivo, 'fascio', il quale di per sé non possiede nessuna connotazione qualitativa. 'Fascio' significa infatti un insieme di elementi quali che siano e solo assai relativamente affini tra loro. Nel linguaggio politico il termine ricorre con frequenza già nel corso del XIX secolo per indicare una qualsivoglia coalizione di forze. Ne deriva che nella vita pubblica il termine 'fascio' assume un significato puramente strumentale e l'azione che esso è chiamato a svolgere acquista un contenuto solo rispetto al fine particolare che il 'fascio', via via, si propone di perseguire. Nella storia d'Italia precedente la prima guerra mondiale l'esempio più noto è quello dei Fasci siciliani (1892-1894). Rispetto a questi caratteri generali la concreta esperienza storica che chiamiamo fascismo, e che occupa il quadro europeo tra le due guerre mondiali, non fa eccezione.

I Fasci di combattimento, cioè il movimento politico fondato a Milano da Benito Mussolini il 23 marzo 1919 e che rimarrà in vita sino all'aprile 1945, cioè sino all'uccisione di Mussolini stesso, è un movimento di reazione nel senso letterale del termine. Esso nasce, sulla spinta di un patriottismo esasperato dai pregiudizi di un diffuso nazionalismo, non per affermare ma per negare, cioè per opporsi con la forza a quella che si riteneva una svalutazione della vittoria e una mortificazione delle vaghe ma intense speranze che la guerra aveva sollevato. Anche in un secondo momento, quando l'azione fascista sarà soprattutto azione antisindacale, non perciò verranno meno le motivazioni iniziali, in quanto i fascisti continueranno a identificare nei loro avversari i nemici della nazione. In questo senso l'elemento più caratteristico del fascismo è uno stato d'animo, comune a tutti coloro, per altri aspetti ben diversi tra loro, che aderi scono ai Fasci; stato d'animo che ha la sua matrice nella guerra, senza la cui esperienza non sarebbe spiegabile. Se, tuttavia, oltre queste relativamente chiare finalità negative, si ricerchi nell'azione fascista quali concreti obiettivi politici essa si proponesse di raggiungere, subito emergeranno gravi ostacoli dovuti alle contraddizioni e alle ambiguità che caratterizzano i programmi fascisti.
Ed è proprio il carattere ambiguo del movimento fascista, il suo prestarsi a fungere da centro di aggregazione di forze disparate e a divenire il contenitore di programmi diversi, i quali mutano nel tempo a seconda dei cangianti obiettivi politici che il suo fondatore via via si pone, a fare di questo movimento soprattutto lo strumento di azione di Mussolini. Attraverso il quale prima egli assume nella vita pubblica italiana un ruolo di primo piano, poi conquista il potere, e successivamente attua un vero e proprio regime politico, di cui non esisteva in precedenza nessun progetto definito ma che del fascismo dichiarerà di essere l'attuazione.

Giustamente, perciò, è stato suggerito (v. De Felice, 1975) che nell'insieme del fenomeno fascista vadano distinte due componenti: il movimento e il regime. Ma il rapporto tra queste due componenti pone dei problemi. Di per sé il regime fascista ha una rilevanza storica ben maggiore che non il semplice movimento, sicché, in prospettiva, nel fascismo si riconosce soprattutto quel sistema di potere, che Mussolini costruisce col suo governo a partire dall'ottobre 1922; e tuttavia, nel suo corso storico, il regime è stato strettamente dipendente dal movimento fascista, che ne ha consentito la nascita e condizionato l'immagine. D'altra parte, anche se il movimento fascista in quanto tale ha avuto una sua particolare storia e sembra quindi mantenere una sua autonomia, indipendentemente dal regime, si tratta di una autonomia più apparente che reale in quanto, al pari del regime, anche il movimento fascista è stato in gran parte frutto della volontà del suo fondatore, che nel fascismo occupa dunque una posizione chiave. In realtà nell'insieme del fenomeno fascista il Duce, il movimento, il regime, rappresentano i tre elementi costitutivi, che si sovrappongono e si intrecciano secondo combinazioni le quali variano nel tempo. E, come in un caleidoscopio, proprio queste diverse combinazioni rendono l'immagine del fascismo così varia e sfuggente.Questo cangiante aspetto del fenomeno fascista, che è riconoscibile solo a chi abbia la pazienza di ripercorrerne la storia, è un indice della sua complessità, ed è anche ciò che talvolta induce chi lo osservi troppo sommariamente a errate valutazioni.

2. Storia

Nel ripercorrere la storia del fascismo sul terreno suo proprio, che è quello italiano, converrà suddividerla in sette periodi.

a) Origini (1919-1922)

Per comprendere che cosa significasse la fondazione dei Fasci di combattimento (23 marzo 1919), cioè del primo nucleo del movimento, occorre porla in relazione sia con la biografia di Benito Mussolini, sia con il contesto della storia d'Italia in quel particolare momento. Dopo la rottura traumatica, nell'ottobre del 1914, sul tema della guerra, con il Partito Socialista, di cui come direttore dell'"Avanti!" era l'effettivo leader, Mussolini aveva continuato a occupare un certo spazio nella vita pubblica italiana con il suo nuovo quotidiano, "Il Popolo d'Italia", che aveva iniziato le pubblicazioni nel novembre 1914, e che rimarrà suo personale strumento sino al luglio 1943. Dalle colonne di questo giornale egli aveva prima svolto una energica campagna a favore dell'intervento dell'Italia in guerra, raccogliendo intorno a sé le diverse voci di coloro che, pur militando nelle file della sinistra, non si riconoscevano nel neutralismo. Poi, tra il maggio 1915 e il novembre 1918, il quotidiano di Mussolini aveva sostenuto lo sforzo del paese in guerra, esortando i governi al massimo rigore per mantenere unito il fronte interno, gradualmente accostandosi, specialmente a partire dalla fine del 1917, alle posizioni di un vario nazionalismo. Un indizio di questa metamorfosi era stato, nell'agosto del 1918, il mutamento del sottotitolo del giornale da "quotidiano socialista" a "quotidiano dei combattenti e dei produttori". Ma il terreno sul quale le posizioni assunte da Mussolini nell'ultimo anno di guerra emergevano con maggiore chiarezza fu quello della politica estera e della dibattuta questione dei nostri confini orientali, dove contro le aspirazioni, peraltro ugualmente eccessive, della nascente Iugoslavia, Mussolini verrà gradualmente a schierarsi a favore del più estremo programma di espansione (patto di Londra più Fiume), quello stesso che, pochi mesi dopo la fine della guerra, porterà al disastro diplomatico dell'Italia alla Conferenza di pace di Parigi, e al drammatico precipitare della questione adriatica. Proprio queste posizioni venivano da Mussolini riconfermate con sempre maggiore enfasi nella prima metà del 1919. Non sorprende perciò che alla loro nascita i Fasci si presentassero come una delle molte iniziative del tempo per esaltare le più estreme aspirazioni nazionali, nate nel crogiolo della guerra, e per opporsi anche con la violenza alla montante offensiva dei socialisti, che sempre più suggestionati dagli sviluppi della Rivoluzione russa dichiaravano di volerne seguire l'esempio, assumendo posizioni apertamente eversive e antipatriottiche. Pochi mesi dopo, quando D'Annunzio occuperà Fiume alla testa di reparti militari italiani, i Fasci si schiereranno al fianco di D'Annunzio, di cui Mussolini esalterà la figura e l'opera.

Le cose muteranno nel corso del 1920 quando, in conseguenza delle elezioni politiche del novembre 1919 (che segneranno per Mussolini una cocente sconfitta), la politica interna riprenderà il sopravvento. Per la sua variegata composizione e il prevalere di forze politiche nuove o rinnovate (popolari e socialisti) tra loro inconciliabili, la nuova Camera era incapace di garantire la stabilità di un qualsiasi governo. Intanto, tra la fine del 1919 e per tutto il corso del 1920, il paese, sia nelle industrie che nelle campagne, era scosso da agitazioni sociali, senza precedenti per numero e per intensità, le quali, accompagnandosi alla sempre più minacciosa offensiva dei socialisti, turbavano profondamente l'ordine, producevano negli animi dei cittadini e nella pubblica opinione grande impressione, e sembravano talora mettere in pericolo la stessa stabilità delle istituzioni. Il definitivo superamento della questione adriatica si ebbe nel novembre del 1920 con la firma del trattato di Rapallo. Poche settimane più tardi le forze militari italiane costringevano D'Annunzio ad abbandonare Fiume. Ma, a eccezione di alcuni dissidenti che rimarranno fedeli alla causa dannunziana, in questi mesi Mussolini e i Fasci si erano già assestati su nuove posizioni. Si veniva preparando quella nuova stagione del movimento fascista che fu lo squadrismo, e che imprimerà ai Fasci quel carattere nuovo che rimarrà come una delle loro note più originali.Lo squadrismo fascista nasce come reazione antisindacale e soprattutto antisocialista. Reazione armata, che si organizza appunto in squadre, seguendo gli schemi di un elementare ordinamento militare e mettendo a frutto le esperienze della guerra. Le squadre nascono dapprima là dove le lotte sociali hanno assunto maggiore asprezza. Di esse si era avuto un precedente, sin dall'estate, nella Venezia Giulia, ma si era trattato di una situazione particolare, legata ai conflitti di nazionalità tra Italiani e Slavi e alla questione di Fiume.
Nel resto d'Italia una accelerazione allo squadrismo viene semmai dalle elezioni amministrative dell'autunno 1920, nelle quali molte amministrazioni locali sono conquistate dai socialisti all'insegna di un programma antinazionale e fortemente provocatorio.

Il primo episodio squadristico di rilevanza nazionale sarà costituito appunto dai fatti di Bologna del novembre 1920, dove le squadre fasciste si scontrano con la manifestazione socialista, indetta per l'insediamento del nuovo consiglio comunale. Il cruento conflitto che ne seguì, con numerose vittime, portò allo scioglimento del consiglio comunale stesso, segnando quindi una vittoria fascista. Dopo di allora il modello squadristico si diffonderà in tutte le regioni dell'Italia settentrionale e centrale, e in molte zone dell'Italia meridionale. Alla guida delle squadre fasciste si formerà una struttura gerarchica, in genere su base provinciale, all'interno della quale emergeranno uomini nuovi, capaci di esercitare un forte potere locale e perciò ben presto denominati ras. Così a Bologna Dino Grandi, a Ferrara Italo Balbo, a Cremona Roberto Farinacci, a Pavia Cesare Forni, a Firenze Dino Perrone Compagni, a Bari Giuseppe Caradonna, ecc. Anche se la nascita delle squadre fu spesso il frutto di iniziative locali, Mussolini seppe abilmente coordinare l'insieme del movimento inquadrandolo in una struttura nazionale, e farsene il capo, anzi, come ben presto si disse, il 'Duce'.

Tra la fine del 1920 e la prima metà del 1921 lo sviluppo del nuovo movimento fascista fu impetuoso, e i Fasci diventarono in breve una delle più consistenti forze politiche del paese. In essi, e specialmente nelle prime formazioni squadriste, erano certamente confluiti uomini ai margini della delinquenza, avventurieri, o comunque persone specialmente votate alla violenza. Di questa componente i Fasci manterranno a lungo il segno; e tuttavia essa diverrà ben presto secondaria. Con il loro crescere, le file del movimento fascista acquistavano una composizione assai varia: molti gli ex combattenti, molti gli studenti, ma si può dire che complessivamente nessuna categoria sociale vi rimaneva estranea, anche se la prevalenza era di ceti medi.

L'obiettivo che i Fasci ben presto si prefissero fu quello di una sistematica occupazione del territorio, spazzando via le forze avversarie, organizzazioni sindacali e amministrazioni locali, attraverso incursioni (le cosiddette spedizioni punitive) che muovevano per lo più da un centro urbano e miravano alla devastazione di sedi e alla intimidazione di uomini. Il successo di questi metodi violenti non sarebbe stato possibile senza talora il concorso, spesso la connivenza, quantomeno la tolleranza dei pubblici poteri. Una quasi naturale intesa si ebbe, intanto, tra Fasci e forze militari; anche forze di polizia e carabinieri mostrarono spesso simpatia per le azioni dei fascisti rivolte proprio contro coloro che dalla fine della guerra si erano presentati come i nemici dell'ordine; la stessa magistratura, in più di una occasione, dimostrerà verso i fascisti grande indulgenza. Tutto ciò era in gran parte il frutto di uno spontaneo consenso, che accompagnò il sorgere della reazione fascista per più di una ragione. Ma si trattò anche di un problema politico, cioè dell'atteggiamento del governo. Nei primi mesi del 1921, cioè nello stesso momento in cui maturava l'offensiva squadrista, sperando di riuscire in tal modo a risolvere la paralisi parlamentare, il presidente del Consiglio Giolitti decise di sciogliere la Camera e indire nuove elezioni. Per evitare il frazionamento delle forze costituzionali, il governo promosse liste di coalizione (i cosiddetti blocchi) nelle quali furono accolti anche i candidati fascisti. Pertanto i Fasci venivano a essere considerati alleati del governo.

Alle elezioni del maggio 1921 furono eletti 35 deputati fascisti, tra cui Mussolini. Da quel momento il suo problema fu quello di gestire la nuova forza politica fascista, emersa in modo inaspettato e assai squilibrata tra Camera e paese, quali obiettivi generali porle, quale immagine dare del fascismo stesso. Un tentativo, nell'estate, di limitare la violenza squadrista attraverso un patto di pacificazione che avrebbe dovuto normalizzare la situazione, fallì clamorosamente portando anzi ad una momentanea rottura tra Mussolini e una parte del movimento fascista.

La crisi fu superata al Congresso di Roma (novembre 1921), nel quale il movimento si trasformava in Partito Fascista; questo incorporava al suo interno le squadre armate, dando il primo esempio, nel quadro di istituzioni rappresentative, di un partito politico che ufficialmente faceva della violenza un metodo di lotta. Mussolini era riconfermato il Duce del fascismo. La questione di che cosa il nuovo partito si proponesse di fare era più che mai aperta.
Il fatto stesso che si consentisse ad un partito politico di avere una sua forza armata significava che il paese era senza governo. In effetti le elezioni del 1921 non avevano affatto risolto quella paralisi parlamentare che privava ogni governo in carica della necessaria autorità. In questa situazione la violenza fascista, che dall'autunno del 1921 era ripresa su ancor più larga scala, procedeva ormai incontrastata. Se un anno prima i nemici dell'ordine erano potuti apparire i socialisti, sicché la reazione fascista era sembrata restauratrice, ora la situazione si era rovesciata. La legalità veniva sistematicamente infranta dall'azione delle squadre fasciste, che non incontrava più alcuna resistenza. Così, nel corso del 1922, impotenza parlamentare e violenza squadrista venivano a svolgere ruoli complementari per consegnare il governo nelle mani di Mussolini. Da un lato, infatti, non trovando più sulla sua strada alcun serio ostacolo, era naturale che l'offensiva fascista si ponesse obiettivi sempre più ambiziosi, sino alla conquista del potere. Dall'altro lato, una classe politica ormai allo sbando sempre più si veniva convincendo che, per riportare il paese alla normalità e ristabilire l'ordine, l'unico modo fosse quello di dare ai fascisti stessi responsabilità di governo. In questo clima matura, alla fine di ottobre, la cosiddetta marcia su Roma, cioè la ripetizione in scala maggiore del modello di spedizione squadrista, contro la stessa capitale del regno. Essa fece precipitare una crisi politica già in atto, per uscire dalla quale il re decise di affidare allo stesso Mussolini l'incarico di formare un nuovo governo.

b) Primo periodo di governo (1922-1925)

Mussolini formò un gabinetto al quale oltre a tre fascisti (Aldo Oviglio, Alberto De Stefani, Giovanni Giuriati), a un nazionalista (Luigi Federzoni) e a un indipendente (Giovanni Gentile), partecipavano sia alcuni tra i più alti gradi militari (Armando Diaz, Paolo Thaon de Revel), sia i rappresentanti di quelle stesse forze politiche che avevano composto i governi precedenti. Indi si presentò ai due rami del parlamento per ottenere la fiducia e i pieni poteri in materia finanziaria e amministrativa, e l'una e gli altri gli furono concessi con ampia maggioranza, nonostante le sprezzanti parole pronunciate alla Camera ("Potevo fare di questa aula sorda e grigia un bivacco di manipoli"). Da un punto di vista formale, perciò, non vi fu violazione della legalità istituzionale. Tuttavia è dubbio che dopo il 28 ottobre 1922 si possa ancora parlare per lo Stato italiano di regime liberale. Intanto, la violenza che aveva accompagnato la conquista del potere da parte di Mussolini non cessò affatto, come mostrarono già i sanguinosi fatti di Torino del dicembre e una miriade di episodi successivi. All'inizio del 1923, inoltre, Mussolini varò due provvedimenti che trasformavano di fatto la natura dello Stato. Il primo fu la costituzione del Gran Consiglio del Fascismo. Questo nuovo organo riuniva insieme uomini detentori di cariche pubbliche e uomini detentori di cariche all'interno del Partito Fascista, trasformando quest'ultimo da associazione privata in pubblica istituzione. Il secondo provvedimento costituì all'interno dello Stato una nuova forza armata, la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN), nella quale confluivano le squadre fasciste. In tal modo, dopo la conquista del governo, Mussolini si apprestava alla conquista fascista dello Stato, presentando se stesso e il suo movimento non come rappresentanti di una parte politica, ma della nazione tutta. La facilità con cui Mussolini conseguì questi risultati senza incontrare alcun serio ostacolo richiede qualche spiegazione.Non si trattò soltanto di forza, bensì anche di un vasto e assai diffuso consenso.

Le ragioni di questo consenso furono assai varie. Posto che nessuno dei contemporanei era allora in grado di sapere che cosa il fascismo fosse e dove avrebbe condotto il paese, queste ragioni furono in parte negative, in parte positive. Le prime consistevano soprattutto nel disgusto per le forze politiche presenti sulla scena parlamentare le quali, sia al governo sia all'opposizione, si erano mostrate assolutamente incapaci di gestire la cosa pubblica o di suggerire credibili vie alternative. La necessità di un radicale ricambio della classe politica era perciò fortemente sentita e assai paventata l'ipotesi di un qualsiasi ritorno al precedente malgoverno. Le seconde ragioni consistevano soprattutto nelle simpatie che il movimento di Mussolini era riuscito a guadagnarsi tra molti strati di cittadini, e specialmente tra i ceti medi, non tanto per la difesa da esso assunta di interessi materiali offesi, quanto e soprattutto presentandosi come il legittimo erede della tradizione nazionale. Ciò era stato in gran parte facilitato dal fatto che ambedue i maggiori partiti politici italiani, il socialista e il popolare, sia per scelta sia per i modi della propria storia, erano forze estranee, se non ostili, all'eredità risorgimentale. Inoltre, poiché l'insieme della tradizione nazionale era apparso riassunto nella guerra, e poiché la stessa esperienza fascista era maturata sul terreno della difesa della guerra, di quella tradizione il fascismo poteva facilmente presentarsi come il legittimo erede. Questa apparenza nascondeva il fatto che, dall'interventismo in avanti, i sostenitori della guerra, e cioè l'insieme di quelle forze che sembravano rappresentare la tradizione nazionale, lungi dall'essere uniti tra loro si erano sempre più divisi intorno alla questione dei fini della guerra, distinguendosi in nazionalisti e democratici. E in realtà il fascismo non rappresentava affatto l'insieme di quelle forze politiche che la guerra aveva voluto e sostenuto; di esse, esso rappresentava soltanto la parte nazionalista, e cioè solo quella parte che ben poco aveva a che fare con i principî ispiratori del Risorgimento.

La pretesa del fascismo di ergersi a erede della tradizione nazionale era pertanto priva di fondamento e costituiva una vera appropriazione indebita, cioè un inganno. Tuttavia, ben difficilmente questo inganno sarebbe stato possibile se già in precedenza, e specialmente a partire dal 1887, non si fosse consumata nello spirito pubblico del paese una vera e propria metamorfosi, secondo la quale i valori della tradizione risorgimentale si erano venuti gradualmente a scolorire, il patriottismo trasformandosi in nazionalismo. Non sorprende perciò che nel febbraio del 1923 il movimento nazionalista venisse ufficialmente assorbito nelle file del Partito Fascista.

Oltre quelle iniziative con le quali egli aveva mirato a consolidare il suo potere, venendo con ciò a conferire al fascismo stesso una più precisa definizione, Mussolini seppe imprimere all'opera del suo governo un ritmo nuovo. Assunto direttamente il controllo, con il dicastero degli Interni, dell'ordine pubblico, il governo Mussolini si distinse sul piano interno soprattutto per aver proseguito, con il ministro De Stefani, l'opera di restaurazione finanziaria dei precedenti gabinetti, risanando il bilancio, e per aver attuato, con il ministro Gentile, una significativa riforma della scuola. Sul piano internazionale l'esordio di Mussolini, che deteneva anche il dicastero degli Esteri, fu meno convincente, dimostrando già nell'estate del 1923, in occasione di un incidente con la Grecia, la sua propensione all'avventurismo (occupazione di Corfù). Malgrado gli indubbi successi e una consistente misura di consenso, Mussolini avvertiva il pericolo della sua debolezza parlamentare. Perciò, attraverso la cosiddetta legge Acerbo, egli si propose di correggere il meccanismo elettorale eliminando la frantumazione della rappresentanza prodotta dalla proporzionale e introducendo un forte premio di maggioranza, tale da assicurare la stabilità del governo.

Le resistenze della Camera all'approvazione di questa legge furono vinte sia con l'intimidazione, sia grazie all'intervento della Curia volto a superare l'opposizione del Partito Popolare con il forzato allontanamento del suo segretario, don Luigi Sturzo. Le nuove elezioni si tennero nell'aprile 1924. Anche se la campagna elettorale fu condotta in un clima di violenza e gli arbitri commessi furono innumerevoli, la misura del successo fascista (64,9% dei voti), raggiunto per lo più con una lista di forze coalizzate dove la vecchia classe politica si mescolava con le nuove leve fasciste (il cosiddetto listone), dimostrò quanto quella violenza fosse in gran parte gratuita. Ma essa era parte costitutiva e del carattere di Mussolini e del suo movimento. Pochi giorni dopo l'apertura della nuova Camera (24 maggio), il deputato socialista Giacomo Matteotti, uomo di grande coraggio fisico e integrità morale, che aveva denunciato le violenze elettorali dei fascisti e promesso di produrre ancor più ampia documentazione, fu rapito da una squadra fascista e ucciso. Il rapimento avvenne il 10 giugno, il corpo martoriato fu ritrovato soltanto il 16 agosto; ma fu subito chiaro che si trattava di un crimine e di che parte fossero gli autori. L'emozione nel paese fu fortissima, sicché per alcune settimane parve che il governo Mussolini potesse essere rovesciato. Ma l'insipienza dimostrata, ancora una volta, dalle opposizioni e il sostegno che continuarono a dargli le forze istituzionali, Corona, Senato, Camera dei deputati, consentirono a Mussolini di superare anche questo momento di crisi, certamente il più grave da quando aveva assunto il potere e sino al luglio 1943. A sostegno di Mussolini si rinnovò nel paese la mobilitazione delle squadre fasciste, riprendendo e gradualmente accentuando il clima di violenza e di intimidazione contro tutti gli oppositori. Ogni incertezza venne poi definitivamente superata con il discorso parlamentare di Mussolini, il 3 gennaio 1925, in cui egli si assumeva ogni responsabilità politica e morale di quanto avvenuto, sfidando gli oppositori, se ne erano capaci, a porlo in stato di accusa.

c) Trasformazione in regime (1925-1929)

Con il 3 gennaio 1925 inizia la vera e propria dittatura fascista. Essa si verrà attuando prima sul piano dei fatti, con una drastica riduzione dei poteri del Parlamento, con l'impedire ogni libertà di stampa, col costringere al silenzio ogni voce di opposizione, con ciò mettendo fine alla stessa vita politica. Ma di lì a poco la dittatura acquistò una veste legale, attraverso una serie di leggi che da un lato ponevano fine a quelle libertà, di parola, di stampa, di associazione, sancite dallo Statuto albertino, che pur rimaneva formalmente in vigore, sicché i cittadini venivano riportati allo stato di sudditi; e che, dall'altro lato, accrescevano smisuratamente il potere di Mussolini. Questo processo di trasformazione dello Stato si protrasse nel tempo e subì, almeno sino alla guerra, una serie di correzioni, ma le basi del nuovo regime vennero solidamente poste tra il 1925 e il 1926. Le sue tappe fondamentali furono: la legge 24 dicembre 1925, sulle attribuzioni e prerogative del capo del governo, con la quale non solo si sottraeva il potere esecutivo al controllo parlamentare, ma istituendo la nuova figura del capo del governo si concentravano nelle sue mani pressoché tutti i poteri, limitando anche l'iniziativa legislativa del Parlamento e perciò rimettendo di fatto nelle sue mani anche la facoltà di fare le leggi; la legge sulla stampa, del 31 dicembre 1925, che introduceva su tutto quanto si pubblicasse un pesante controllo politico; nel corso del 1926, le leggi che ponevano fine alle elezioni per la formazione delle amministrazioni locali e istituivano a capo dei comuni la figura del podestà di nomina governativa. Il ciclo si chiuse, in un certo senso, con la legge 25 novembre 1926 per la difesa dello Stato. Essa non solo rendeva illegale ogni manifestazione di dissenso, ma consentiva di privare della libertà personale in base al semplice sospetto, istituiva nuove pene detentive quali il confino di polizia, e sottraeva il giudizio dei reati politici alla magistratura ordinaria affidandolo sia alle autorità di polizia, sia al nuovo Tribunale speciale, il quale poteva anche applicare la pena di morte.

Perciò, a partire dalla fine del 1926, lo Stato fascista sarà anche formalmente uno Stato di polizia. La dittatura troverà il suo completamento nella legge elettorale del 17 maggio 1928, la quale introduceva la lista unica, sostituendo con ciò alla libera scelta elettorale il sistema plebiscitario.Nel corso di quei due fatidici anni (1925 e 1926), l'unica lotta politica di cui in Italia si possa parlare fu combattuta all'interno del fascismo stesso. Si trattò di uno scontro molto significativo, che ebbe come contendenti da una parte Roberto Farinacci, il quale dal febbraio 1925 era il segretario nazionale del Partito Fascista, dall'altra alcuni personaggi di un fascismo per così dire revisionista (Giuseppe Bottai, Camillo Pellizzi, Ermanno Amicucci); e mentre alle spalle del primo stavano alcuni tra i più irriducibili ras squadristi, alle spalle dei secondi stava lo stesso Mussolini. La posta in gioco era il ruolo del Partito Fascista nella gestione del potere, e cioè la parte che il movimento fascista stesso era chiamato a svolgere all'interno del nuovo regime.

Sommariamente i termini della partita si misuravano all'interno di ciascuna provincia nel confronto tra il potere del segretario federale fascista, espressione del partito, e i poteri del prefetto, espressione dell'amministrazione statale. Ma le implicazioni generali erano più vaste, giungendo, ad esempio, ad investire la questione del rapporto tra milizia fascista ed esercito regio. In un certo senso, ed è un punto della massima importanza, il contrasto riguardava il rapporto stesso tra il movimento fascista e Mussolini. Questi sin dal 1923 (c'è una sua circolare ai prefetti, del 13 giugno) aveva chiaramente mostrato la sua preferenza, nella gestione del potere da poco conquistato, a servirsi piuttosto dei tradizionali organi dello Stato che non dei meno affidabili capi fascisti. Tra il 1924 e il 1925, tuttavia, la situazione era cambiata, perché l'intervento del rinato squadrismo aveva avuto una parte considerevole nel permettere a Mussolini di superare indenne la crisi Matteotti. La nomina alla segreteria del Partito di Farinacci, uno dei più estremisti tra i capi fascisti e sostenitore di una sorta di 'rivoluzione permanente', era il riconoscimento di questo debito.

Per oltre un anno il terreno della contesa fu la libertà di iniziativa delle squadre fasciste, che continuarono a imperversare, e poiché dal giugno 1924 Mussolini aveva lasciato il dicastero degli Interni, l'interlocutore diretto di Farinacci fu il nuovo ministro Federzoni. Questi, anche se poco dopo fu messo da parte, ebbe di fatto partita vinta. Ma il vincitore vero fu Mussolini. Nel novembre 1926, una volta che con le nuove leggi il suo potere personale si era rinsaldato, egli riprendeva nelle sue mani le redini di quel dicastero degli Interni, che era una posizione chiave per la gestione di un potere largamente basato sulla repressione. Frattanto, il 30 aprile 1926, Farinacci veniva rimosso dalla segreteria del partito e al suo posto veniva nominato un ben più docile personaggio, Augusto Turati. Da allora in poi il ruolo del Partito e di tutte le organizzazioni fasciste, che si estenderanno in una rete capillare il cui fine era quello di coinvolgere il maggior numero possibile di persone, sarà sempre più limitato al compito di mediatore del consenso, attraverso opere di assistenza, iniziative culturali e sportive, attività ricreative, gestione della propaganda, e tutte quelle manifestazioni coreografiche nelle quali si incarnava l'immagine del fascismo. All'insegna del motto "credere, obbedire, combattere", il movimento fascista perdeva così ogni originario attivismo per assumere come propria virtù cardinale quella di una sottomessa disciplina. L'iniziativa politica restava intera nelle mani di Mussolini e il potere di imporre le regole della dittatura nelle mani della polizia di Stato.

In tal modo Mussolini riuscì abilmente a costruire il suo regime con una nuova e assai radicale operazione di trasformismo. Rimanendo il re capo dello Stato, rimanendo le strutture della pubblica amministrazione formalmente invariate, Mussolini poté facilmente far credere che la cosiddetta rivoluzione fascista si fosse limitata a correggere, nei rapporti tra potere legislativo e potere esecutivo, quelle storture che avevano impedito allo Stato risorgimentale di essere un vero Stato nazionale. E nel quadro di questo regime, ben oltre i limiti angusti dell'originario movimento, il termine fascista si dilatava sino a includere tutti coloro disposti a riconoscere quale bene supremo l'interesse nazionale, cioè di fatto quanto Mussolini stesso indicava come tale. Lungo questa strada, che mirava a raccogliere sotto le ali del fascismo ogni qualsivoglia componente significativa di una storia nazionale che prendeva le mosse dall'Impero romano, Mussolini, allargando quanto più possibile la sfera del consenso, si propose il riavvicinamento alla Chiesa, cioè il superamento anche formale della questione romana e la sistemazione dei rapporti tra Curia e Stato italiano. Fu la cosiddetta riconciliazione, sancita dagli accordi sottoscritti l'11 febbraio 1929. Anche l'Italia cattolica veniva in tal modo fascistizzata.

Dopo questa svolta poté tanto più sembrare che i due termini 'italiano' e 'fascista' fossero sinonimi.Nasceva su queste basi lo Stato 'totalitario' che, a differenza di quanto avveniva o avverrà altrove, ebbe in Italia un carattere particolare. La sua istanza fondamentale era che la vita privata venisse quanto più possibile assorbita in quella pubblica, e che la vita pubblica si svolgesse interamente nell'ambito dello Stato fascista. In realtà la vita privata mantenne un suo margine di autonomia e anche quella pubblica un suo margine di indipendenza, se non di libertà, almeno in alcuni settori, come quello della stampa. Se, infatti, i quotidiani erano rigidamente controllati, su libri e periodici la censura fascista non fu priva di indulgenza. Dove lo Stato fascista condusse con successo una sistematica occupazione di tutti gli spazi fu nel tessuto della società civile. Istituzioni culturali e ricreative, organizzazioni professionali, settori chiave dell'apparato produttivo del paese, enti sanitari e assistenziali, in aggiunta naturalmente a tutti quegli organismi, come la scuola in tutti i suoi gradi, che direttamente o indirettamente già erano o verranno a cadere sotto il controllo pubblico, tutto doveva gravitare nell'orbita del fascismo. Ciò significava che sia sul piano dell'occupazione sia su quello del prestigio e dell'ascesa sociale, nessuno era in grado di farsi strada senza un atto di sottomissione al fascismo. Una sottomissione per lo più soltanto formale, che non implicava necessariamente una partecipazione attiva alla vita del regime e un'adesione sincera al suo credo; ma una sottomissione che quanto meno sembrava onerosa in termini di impegno personale, tanto più era esigente in termini di ossequio formale. Malgrado la formula del giuramento fascista recitasse che ogni iscritto al Partito si impegnava a servire la causa della rivoluzione fascista con tutte le sue forze e se necessario col suo sangue, nello Stato totalitario mussoliniano il prototipo del fascista non fu affatto l''uomo nuovo', il milite fedele all'idea e agli ordini del Duce: il prototipo del fascista fu in realtà il conformista.

d) Esperienza corporativa (1929-1935)

La riprova del successo raggiunto, il quale mostrava l'effettivo consolidamento del regime fascista all'interno non del solo Stato ma anche della società italiana, fu data dai risultati delle elezioni che si tennero, secondo la nuova legge, il 24 marzo 1929: vi parteciparono l'89,63% degli aventi diritto al voto, e i 'sì' furono 8.506.574 (94,4%), contro 136.198 'no' (1,6%). Il plebiscito voluto da Mussolini aveva dato gli attesi frutti. E tuttavia le condizioni di vita degli Italiani erano tutt'altro che rosee. Oltre all'antica piaga della disoccupazione, per la quale il fascismo non aveva saputo offrire alcun rimedio nuovo, la politica economica fortemente deflazionistica imposta da Mussolini e riassunta nella formula della cosiddetta 'quota novanta' (cioè il valore di cambio della sterlina non doveva superare le novanta lire), aveva effettivamente stabilizzato la nostra moneta e perciò rafforzato il nostro credito sui mercati finanziari internazionali; ma, al tempo stesso, aveva reso più difficili le nostre esportazioni, scoraggiato gli investimenti e prodotto una diminuzione di salari e stipendi alla quale non aveva corrisposto una eguale diminuzione dei prezzi. D'altra parte, modi per far sentire voci di protesta non esistevano più. Sciolte le antiche organizzazioni sindacali, i nuovi sindacati fascisti erano divenuti organi dello Stato e perciò, impegnati ad evitare vistosi conflitti, disponevano di mezzi assai limitati per premere sulla parte padronale. Rimosso il concetto di lotta di classe, impedito lo sciopero, ogni contrasto doveva riuscire a comporsi senza turbare l'armonia sociale e la produzione nazionale. I termini di questa nuova visione collaborazionistica erano stati sanciti dalla legge 3 aprile 1926, per la disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro, le cui vertenze venivano rimesse a una speciale magistratura del lavoro.

Ciò corrispondeva alla nuova idea di 'corporazione', cioè di un organismo che raccogliesse unitariamente tutti coloro che operavano in un determinato settore produttivo, non importa con quale grado e con quale funzione. Nel luglio 1926 era stato creato il Ministero delle Corporazioni e al suo fianco il Consiglio Nazionale delle Corporazioni, anche se in realtà le corporazioni stesse non esistevano ancora. Il 21 aprile 1927 le nuove regole e i principî a cui queste erano improntate venivano enunciati ufficialmente nella Carta del lavoro. Si trattava di un insieme di provvedimenti i quali, a parole, costituivano, come scrisse lo storico fascista Gioacchino Volpe, "l'opera più originale della rivoluzione fascista". "Si partiva - così continua Volpe - dal concetto che la nazione italiana è un'unità morale politica economica che si realizza nello Stato; che i cittadini sono necessariamente solidali nella nazione; che il lavoro non è un diritto ma un dovere e come tale viene tutelato dallo Stato; che la produzione nazionale è unitaria e unitari i suoi obiettivi, cioè lo sviluppo della potenza nazionale [...]; che le forze produttive nazionali, organizzate nei sindacati, se non si vuole che, operando fuori dello Stato, siano contro lo Stato, debbono essere dentro lo Stato [...]. Individuo e Stato, finora disgiunti o non bene e organicamente congiunti, sono da collegare meglio e quasi compenetrare l'uno nell'altro, per il tramite del sindacato e dei corpi sindacali, organi di diritto pubblico, operanti nell'ambito e sotto il controllo dello Stato" (v. Volpe, 1943², pp. 139-140). Era, come ben si vede, una concezione dello Stato opposta a quella liberale.

Ma, al tempo stesso, rimaneva del tutto impreciso in che modo, all'interno delle corporazioni, all'armonia sociale imposta dal potere si potesse accompagnare un'armonia effettiva, distribuendo equamente tra le parti oneri e profitti.

La prova comunque fu rimandata nel tempo, perché per alcuni anni i pur già enunciati principî corporativi e i pur già creati organi rimasero in letargo. A risvegliarli provvide la grande crisi del 1929 che, sconvolgendo l'intero sistema economico del mondo occidentale, provocò anche in Italia effetti funesti. Per porvi in qualche modo rimedio, si rese necessario l'intervento dello Stato. In esso Mussolini vide l'occasione per rilanciare la formula dello Stato corporativo, la quale consentiva ora di presentare sulla scena internazionale il fascismo come il portatore di una dottrina che, tra lo statalismo radicale del comunismo russo e la eccessiva permissività privatistica del capitalismo occidentale, era in grado di indicare all'economia moderna una terza via. Tuttavia si trattava assai più di parole che di fatti.
Lo Stato corporativo si assunse effettivamente l'onere della gestione diretta di molti settori disastrati e di pagarne le forti perdite; ma nella coesistenza di pubblico e di privato, che rinnovava l'esperienza già fatta negli anni di guerra dell'economia associata, i ruoli rimanevano assai squilibrati, sia nei rapporti tra datori di lavoro e lavoratori dipendenti, sia rispetto al potere di avanzare e imporre scelte di indirizzo generale, cioè di attuare una vera programmazione economica. Di fatto, proprio in questi anni, si stabiliva quella prassi, destinata ad una larga e assai prolungata fortuna, riassunta nella formula "socializzazione delle perdite, privatizzazione dei profitti". Semmai, l'indicazione che la politica economica fascista seppe effettivamente far valere nel sistema produttivo italiano, fu quella dell'autarchia: si riprendeva così uno dei motivi classici del nazionalismo, e cioè il mito della indipendenza economica. Del resto, su questa strada si era già posta la politica agricola del fascismo che, a partire dal 1925, con la battaglia del grano, si era proposta di raggiungere l'autosufficienza nazionale nella produzione di questo fondamentale cereale. I risultati raggiunti furono positivi, ma in buona parte illusori. Le assai accresciute rese (nel 1933 il grano prodotto fu quasi sufficiente a coprire il fabbisogno nazionale) nascondevano il fatto che solo in parte queste erano il frutto di accresciuta produttività del suolo o della messa a coltura di nuove terre, rese fertili dalle bonifiche (come la giustamente nota bonifica dell'Agro Pontino).

Per lo più si trattava invece di un fenomeno indotto da artificiosi incentivi, per cui si continuava o si estendeva la coltura granicola su terreni inadatti e che sarebbe stato economicamente assai più vantaggioso destinare a diverso uso. Ma illusioni ancor maggiori la politica autarchica era destinata a produrre sul piano industriale, in un paese come l'Italia del tutto povero di materie prime.Con queste scelte, avendo il fascismo imboccato una strada del tutto incapace di condurre a un aumento effettivo della produttività del paese, era poco probabile che esso riuscisse ad alleviare i rigori della perdurante questione sociale e a trovare una risposta adeguata alla crescente disoccupazione (1.158.418 disoccupati, nel gennaio 1934, secondo le fonti ufficiali notoriamente assai inferiori al vero: v. Salvatorelli e Mira, 1956, p. 538). E ciò nonostante il regime si impegnò in una insistente campagna di propaganda per favorire l'aumento delle nascite, ponendo tra i propri fini quello dell'incremento demografico del paese. I problemi di fondo rimanevano perciò privi di soluzione e lo Stato corporativo si mostrava per quello che effettivamente era: una pura formula di propaganda. È difficile dire in che misura la delusione destinata a seguire questo grossolano inganno avrebbe potuto incidere sulla stabilità del regime, offuscandone l'immagine. Il tempo della resa dei conti non era ancora giunto. Altre frecce aveva ancora al suo arco la politica di Mussolini per stimolare le emozioni degli Italiani e distogliere la loro attenzione dalla dura realtà delle cose.

e) Svolta della guerra di Etiopia (1935-1939)

Nel luglio del 1932 Mussolini aveva ripreso nelle proprie mani la direzione del dicastero degli Esteri, alla cui guida dal settembre del 1929 aveva lasciato che facesse la sua prova uno dei più noti e intelligenti capi fascisti, Dino Grandi. Questo cambio della guardia coincideva con l'aprirsi in Europa di un periodo di gravi sconvolgimenti, alla cui origine era la crisi della Repubblica di Weimar e l'avvento al potere in Germania di Adolf Hitler (30 gennaio 1933). Sino a questa data, malgrado non fossero mancate provocazioni verbali, qualche atto sconsiderato (come Corfù), e manifestazioni propagandistiche attraverso le quali Mussolini aveva denunciato la perdurante insoddisfazione dell'Italia per la 'vittoria mutilata' e perciò la sua insoddisfazione per l'ordine europeo e l'assetto mediterraneo raggiunti dopo la fine della guerra, la politica estera fascista era rimasta sostanzialmente legata a quella degli alleati europei di guerra (Francia e Inghilterra) e aveva dato la sua collaborazione alla Società delle Nazioni. I fini di questa politica avrebbero dovuto essere quelli di garantire la sicurezza europea attraverso il rispetto dei trattati, la stipulazione di nuovi accordi suggeriti dalle circostanze, e la limitazione degli armamenti.

Tuttavia al leale perseguimento di questa linea politica ostavano sia il carattere di Mussolini e i suoi pregiudizi, sia le esigenze di una macchina propagandistica la quale, per garantire il consenso, doveva costantemente trovare pretesti per eccitare gli animi. Da un lato, perciò, Mussolini non poteva né concepire né desiderare una pace stabile. Egli condivideva pienamente quei presupposti nazionalistici i quali, accogliendo suggestioni darwiniane, ritenevano legge imprescindibile della vita dei popoli una sorta di lotta permanente, ciascuno di essi mirando alla propria espansione. Questa rozza concezione della vita internazionale, che assumeva l'imperialismo e la guerra come propri cardini, si coniugava spontaneamente con il naturale cinismo di Mussolini, predisponendolo a ogni forma di intrigo e ogni tipo di avventura, dai quali egli credesse di potersi ripromettere un qualche immediato guadagno. Dall'altro lato, il successo della propaganda fascista essendo in gran parte legato all'immagine di un'Italia nuova che, grazie all'azione e alla sapienza del Duce, aveva raggiunto sulla scena internazionale una posizione di prestigio e ottenuto di essere riconosciuta alla pari tra le grandi potenze, occorreva periodicamente rinnovare quelle occasioni di prova, nelle quali questo artifizio potesse riproporsi. In questo contesto l'assopita ma non mai deposta speranza di una nuova impresa africana era destinata a ridestarsi.

Ironia della sorte, l'occasione per una ripresa di iniziativa in Africa fu data a Mussolini dalla situazione di pericolo creatasi in Europa dopo l'avvento al potere di Hitler. Mussolini riteneva infatti, non infondatamente, che Francia e Inghilterra avessero ora più che mai bisogno di un'Italia amica e che non avrebbero perciò ostacolato un'impresa coloniale italiana verso l'unica regione africana ancora libera dalla dominazione europea, l'Etiopia. D'altra parte, adiacenti a questa regione l'Italia aveva già due colonie, la Somalia e l'Eritrea, che rendevano plausibili i progetti di un'ulteriore espansione.

Dopo una laboriosa fase di preparazione, sia militare che diplomatica, durante la quale Mussolini ritenne di avere ottenuto un consenso esplicito almeno dalla Francia (colloqui romani col ministro degli Esteri francese Pierre Laval, gennaio 1935), ai primi di ottobre di quello stesso anno l'Italia fascista iniziava una guerra di aggressione contro il vecchio Impero etiopico, nonostante esso fosse uno Stato membro della Società delle Nazioni. Come era prevedibile, data la disparità di forze, la campagna militare si risolse abbastanza rapidamente a favore delle truppe italiane che, dopo pochi mesi di operazioni, il 5 maggio occupavano la capitale Addis Abeba. Mussolini poté così annunciare al popolo italiano, in un commosso discorso, che l'Italia fascista aveva ridato vita a un Impero romano e Vittorio Emanuele III assumeva da allora il titolo di re e imperatore. Il tripudio nazionale fu grande. Ben pochi tra gli Italiani si resero allora conto che, con la guerra di Etiopia, il fascismo aveva voltato pagina. Da allora esso si avviava sulla strada di un'alleanza con la Germania nazista, verso una nuova guerra europea.

Quella svolta non fu intenzionale. Ancora un anno avanti, alla Conferenza di Stresa (aprile 1935), di fronte al pericolo del riarmo tedesco, Mussolini aveva confermato di voler rimanere al fianco di Francia e Inghilterra; ma, contrariamente alle sue aspettative, alla notizia dell'aggressione italiana all'Etiopia, le reazioni nei due paesi formalmente amici furono di dura condanna. Da Ginevra, la Società delle Nazioni impose contro l'Italia sanzioni economiche, e l'Inghilterra decise di spostare nel Mediterraneo una parte della sua Home fleet. Erano segni inequivocabili di ostilità.

Tutto ciò giovò enormemente alla propaganda fascista, suscitando un'ondata largamente spontanea di indignazione patriottica, che rafforzò il fronte interno ed ebbe una plateale manifestazione nella pubblica offerta dell'oro, soprattutto le fedi nuziali, alla patria. Inoltre, mentre sino ad allora Mussolini aveva ostentato l'amicizia dell'Italia per l'Inghilterra, da questo momento prenderà piede una violenta campagna propagandistica anti-inglese, destinata a durare ininterrotta sino alla guerra. E mentre sino a questa data la politica estera fascista non aveva fatto eccessivo spazio all'ideologia, se non per uso interno, da ora in avanti le cose cambiano. Divisi tra loro i tradizionali garanti della sicurezza europea, la Germania nazista subito ne approfitta per dare corso ai suoi propositi aggressivi e nel marzo 1936 occupa militarmente la Renania senza colpo ferire. Le democrazie occidentali accettano il fatto compiuto senza reagire. Quel primo fortunato esempio farà scuola.

Pochi mesi più tardi le divisioni ideologiche dell'Europa troveranno nuovo terreno di scontro nella guerra civile che si scatena in Spagna a partire dal luglio 1936. Quel conflitto si protrarrà per tre anni e in esso, sia l'Italia di Mussolini, sia la Germania di Hitler si schiereranno al fianco del generale Franco, partecipando militarmente alla sua campagna. In quello stesso triennio la Germania porterà avanti con pieno successo i suoi primi progetti espansionistici, mostrando chiaramente al mondo di che tempra fosse la dittatura nazista.

Malgrado alcune effettive affinità e una generica simpatia che Hitler aveva sempre provato per il Duce, il fascismo italiano e lo stesso Mussolini inizialmente non avevano seguito con alcun favore la crescita del movimento nazista e la sua vittoria. Neppure più tardi, del resto, mancarono in ambienti fascisti sospetti nei confronti del regime hitleriano e riserve verso una politica di avvicinamento alla Germania, la quale si ebbe soprattutto per volontà di Mussolini. Le tappe di questo avvicinamento furono l'intesa italo-tedesca dell'ottobre 1936 (il cosiddetto 'asse Roma-Berlino'), la visita di Hitler in Italia nel maggio 1938 e, atto finale, l'inaspettata stipulazione di una formale alleanza politica e militare, il cosiddetto 'patto d'acciaio', il 22 maggio 1939. A quella data la volontà di Mussolini di seguire le orme di Hitler si era già rivelata, con la decisione di introdurre anche in Italia una politica razzista e una legislazione antiebraica. Le cosiddette leggi per la difesa della razza furono promulgate a partire dal settembre 1938, precedute e accompagnate da una velenosa campagna di stampa. Si trattava di misure del tutto inattese, sia perché in Italia, per ragioni storiche e anche per il modesto numero di cittadini ebrei, una questione ebraica non esisteva; sia perché, sino ad allora, il fascismo non aveva mai fatte proprie posizioni razzistiche, e non erano pochi gli ebrei che militavano nelle file fasciste. Malgrado nessun dissenso di rilievo si sia neppure allora manifestato, il nuovo corso impresso al fascismo aveva certamente alienato a Mussolini molte simpatie, sicché è da ritenere che la sua popolarità nel paese fosse in declino. Ma, ancora una volta, tutto dipendeva dalla capacità di Mussolini di presentare al suo pubblico uno di quei successi, poco importa se reali od effimeri, capaci di mantenere lucente l'immagine del regime.

f) La guerra (1939-1943)

L'aggressione della Germania alla Polonia, il 1° settembre 1939, e il successivo allargarsi di quel conflitto che chiamiamo seconda guerra mondiale, non determinarono un automatico intervento dell'Italia. Al contrario, malgrado l'alleanza da poco contratta, per molti mesi fu possibile credere che Mussolini preferisse mantenere una posizione neutrale. Tale scelta, del resto, avrebbe corrisposto non solo all'ormai predominante sentimento pubblico, ma a una prova di saggezza: esposta su molti fronti, data la propria posizione geografica e la dislocazione delle proprie colonie, logorata dalle guerre tanto di recente combattute, assai povera di materie prime, l'Italia tra il 1939 e il 1940 aveva una preparazione militare del tutto inadeguata all'impegno richiesto dal conflitto in corso. Naturalmente, la neutralità era contraria al carattere stesso di Mussolini. Inoltre, un regime la cui immagine aveva fatto tanto largo posto alle virtù militari, nel quale uno dei fini primari dell'educazione era stato quello di fare di ogni giovane un potenziale soldato, difficilmente poteva sottrarsi ad entrare in campo. La decisione di intervenire fu affrettata dal rapido susseguirsi delle vittorie tedesche e dall'improvviso tracollo della Francia. Di fronte alla possibilità che l'Italia fascista non avesse titolo per assidersi al 'banchetto del vincitore' e quindi si ritrovasse a mani vuote, il 10 giugno 1940 Mussolini rompeva gli indugi e presentava a Francia e Inghilterra la dichiarazione di guerra.

Si iniziava così un'avventura, nella quale l'Italia si poneva ormai a rimorchio della iniziativa tedesca e Mussolini vedeva il suo ruolo di Duce sempre più relegato in secondo piano, all'ombra del Führer germanico. Troppa, infatti, tra le due potenze alleate, era la disparità nella quantità e nella qualità dei mezzi bellici, nelle risorse produttive, e anche nella perizia dei comandanti. Si aggiunga che, alleandosi alla Germania di Hitler, Mussolini aveva accettato di condividere fini di guerra che né gli erano noti, né corrispondevano agli affermati interessi della stessa Italia fascista. In realtà, di tappa in tappa e attraverso imprese azzardate e clamorosi insuccessi, sul duro terreno del confronto militare l'Italia fascista mostrò subito tutte le proprie debolezze e quanto in quel regime le parole poco corrispondessero ai fatti.
Ciò malgrado, finché la poderosa macchina da guerra tedesca riuscì a macinare successi, anche le falle italiane vennero tamponate. Quando, con il progressivo allargarsi del conflitto, neanche le forze tedesche furono più sufficienti per assicurare la vittoria, l'Italia fu la prima a cedere. A partire dai primi mesi del 1943 le sconfitte, in Russia, in Africa, si succedettero con ritmi crescenti, mentre le città italiane erano sempre più esposte ai bombardamenti alleati. Perduto in Africa l'ultimo lembo di terra, nel luglio 1943 gli Alleati sbarcavano in Sicilia. Pochi giorni dopo, il 25 luglio, in una drammatica seduta del Gran Consiglio del Fascismo e di concerto con il re, Mussolini veniva deposto e successivamente messo agli arresti. Al suo posto, come capo del governo, subentrava il maresciallo d'Italia Pietro Badoglio. Nelle piazze delle città italiane, quelle stesse che sino a poco tempo prima avevano accolto folle di cittadini plaudenti ad ascoltare la parola del Duce, quella notizia veniva ora accolta con giubilo e la gente si scagliava contro ogni visibile segno del fascismo. Era la fine del regime fascista.

g) Epilogo (1943-1945)

La storia del fascismo, tuttavia, ebbe un più drammatico epilogo. Dall'ottobre 1922 al luglio 1943, essa si identifica con la storia d'Italia e, più precisamente, con la storia del Regno d'Italia, nato nel 1861. Si potrà dire che il fascismo non ne era un erede legittimo, si potrà credere che l'eredità risorgimentale più autentica continuasse a vivere tra alcuni pochi uomini che, esuli all'estero o stranieri in patria (e per lo più in prigione), contro il fascismo avevano preso aperta posizione. Ma, sul piano dei fatti, a livello istituzionale, tra prima e dopo l'ottobre 1922 non c'è soluzione di continuità, come mostra la permanenza a capo dello Stato dello stesso sovrano. Anche le più rilevanti decisioni che avevano legato il destino dell'Italia a quello della Germania, e le leggi più infami che ne erano conseguite (come quelle razziali), avevano sempre ricevuto il debito assenso del re. A partire dal 25 luglio 1943 questo sodalizio viene sciolto e l'Italia ufficiale pretende di poter continuare la sua strada libera dall'ingombro fascista. Non era una cosa semplice, sia perché troppe erano le comuni responsabilità e le passate complicità, sia perché rimaneva sempre in vita l'alleanza con la Germania, anche se ormai priva del sostegno ideologico.

La decisione del re e del maresciallo Badoglio di rompere unilateralmente questa alleanza e passare all'altra sponda, annunciata agli Italiani l'8 settembre 1943, creava una situazione drammatica e del tutto nuova, nella quale accanto alla guerra sui fronti si apriva una guerra civile. Il teatro di questa guerra civile fu quella parte del territorio nazionale che rimaneva ancora in mano all'esercito tedesco e che solo gradualmente (dal settembre 1943 all'aprile 1945) verrà occupata dagli eserciti alleati. In questa parte del paese, che sino al giugno 1944 comprese la stessa Roma e dall'estate di quello stesso anno si ridusse ai soli territori posti a nord della cosiddetta linea gotica, fu rimesso in piedi un governo (la Repubblica Sociale Italiana, più nota come Repubblica di Salò), retto ancora da Mussolini, che i Tedeschi erano riusciti a liberare. Fu ricostituito anche un Partito Fascista che assumeva il titolo di 'repubblicano'. Contro questo nuovo governo e contro i Tedeschi che lo sostenevano, si organizzò in questi territori una resistenza armata, che solo in parte si ricollegava a una precedente e mai del tutto estinta opposizione al fascismo, e che alimentò appunto la guerra civile. Volgendo la guerra al suo termine con la completa disfatta della Germania, anche questo rinato movimento fascista fu estinto. Alla fine dell'aprile 1945 Mussolini e i principali capi fascisti furono catturati e fucilati. I loro corpi furono portati a Milano ed esposti a piazzale Loreto al pubblico ludibrio.

Si è talvolta detto che in quest'ultima esperienza fascista si sarebbero ritrovati fermenti di un genuino fascismo originario, che più tardi il regime avrebbe in buona parte tradito. Ma è ipotesi poco convincente, sia per l'ambiguità di questi pretesi caratteri originari, sia perché i termini del tutto eccezionali della situazione che si crea in Italia dopo l'8 settembre 1943 non consentono di trarre da questa estrema esperienza elementi qualificanti atti a comporre una specifica tipologia fascista.

3. Il fascismo fuori d'Italia

Un fenomeno tanto direttamente legato a circostanze particolari, tanto strettamente dipendente dall'immaginazione e dall'iniziativa di un uomo, e che traeva gran parte della sua forza dal riuscire a presentarsi come l'interprete della tradizione nazionale, non sembrava potersi facilmente trapiantare su terreni diversi da quello italiano dove era nato. Tuttavia, il fascismo possedette anche caratteri in grado di suggerire forme di imitazione, sia come movimento che come regime. Come movimento esso fornì il modello di un partito armato, uno dei cui compiti essenziali era quello di opporsi al bolscevismo nel nome dei valori nazionali, il cui apparato seguiva nuovi esempi di coreografia politica, capaci di esercitare una grande suggestione. Come regime, sul piano politico esso aveva rivalutato il cesarismo e con esso la figura del capo carismatico, guida dell'intero popolo, in opposizione ai tradizionali sistemi rappresentativi; sul piano economico, con la formula dello Stato corporativo, esso aveva preteso di risolvere le contraddizioni del capitalismo senza cadere negli estremi del collettivismo. Perciò la lezione fascista poté fare la sua strada anche fuori d'Italia. Si giunse addirittura, ma si trattò di una velleitaria operazione propagandistica, a tentare la formazione di una Internazionale fascista, che tenne un congresso a Montreux nel 1934. Esaminando le particolari esperienze di un fascismo fuori d'Italia, si dovrà comunque distinguere fra quelle situazioni in cui, senza l'intervento esterno, si ebbero regimi dittatoriali, e le altre situazioni in cui le tracce di fascismo si trovano soltanto sotto forma di movimento.

a) Germania

Il caso della Germania è quello che più comunemente, e per ragioni evidenti, viene considerato nel quadro di una tipologia fascista. Che molti dei caratteri, per lo più esteriori, del movimento nazionalsocialista derivino dall'esempio del fascismo italiano o comunque lo ripetano, è considerazione del tutto ovvia. Ugualmente è pacifico che Adolf Hitler abbia subito il fascino di Mussolini e ne abbia, almeno in parte, seguito le orme, sia nelle forme esteriori impresse al movimento e al regime nazista, sia nello stile di governo. Tuttavia è da ritenersi pienamente accettabile il giudizio (v. De Felice, 1975) volto a sottolineare come, ben oltre le apparenti analogie, esistessero tra fascismo italiano e nazismo tedesco diversità talmente profonde, di metodo e di sostanza, da rendere ogni equiparazione improponibile. Del resto, le radicali differenze nel modo come, in Italia e in Germania, si era raggiunta l'unificazione nazionale, e il fatto che a quelle tanto diverse tradizioni sia il fascismo che il nazismo insistentemente si richiamassero, sono ragioni sufficienti per mettere in guardia contro affrettate generalizzazioni.

b) Portogallo e Spagna

La tesi di un 'fascismo mediterraneo' (Charles F. Delzell), che includerebbe accanto all'Italia i due Stati della penisola iberica, non è convincente. Sia il Portogallo che la Spagna, intanto, nel periodo di vita del fascismo, continuano a vivere ai margini dell'Europa, ritardando sul piano sociale la trasformazione da società rurali a società industriali e, sul piano politico, l'adozione di istituzioni liberaldemocratiche (la Spagna rimase anche del tutto estranea alla prima guerra mondiale). Nel caso del Portogallo, la dittatura militare che prese il potere nel maggio 1926 nulla aveva a che vedere con il fascismo di Mussolini. Anche le successive esperienze che nel 1932 consentirono ad Antonio de Oliveira Salazar di diventare capo del governo, in una posizione in qualche modo analoga a quella di Mussolini (il capo dello Stato rimaneva il presidente della Repubblica, generale Antonio Oscar de Fragoso Carmona), si svolgeranno in un contesto particolare, il quale rende assai dubbia la proprietà del termine 'fascista' per la dittatura fondata da Salazar. Infatti, anche se sono presenti alcune analogie, per lo più comuni a ogni dittatura, il partito di Salazar (União Nacional, fondata nel luglio 1930) ben poco aveva a che vedere con il movimento fascista, e la sua stessa idea di Stato corporativo derivava assai più dall'esperienza del pensiero sociale cattolico che non dall'esempio del regime di Mussolini.
Anche l'esperienza della Spagna rimane assai più in linea con i modelli tradizionali delle dittature militari che con la nuova esperienza fascista. Prima della guerra civile, di un vero e proprio movimento fascista spagnolo non si può parlare. La Falange, fondata nell'ottobre 1933 da José Antonio Primo de Rivera (il figlio del generale Miguel Primo de Rivera, che dal 1923 al 1930 era stato il capo di una dittatura militare), del fascismo riprendeva solo alcuni generici spunti programmatici. Soprattutto, la Falange non riuscì a ottenere consenso sufficiente da permetterle di avere un ruolo effettivo nella guerra civile, quando questa incominciò nel luglio 1936; e ciò non soltanto per l'uccisione dello stesso Primo de Rivera, il 20 novembre 1936, ma per la debolezza del movimento. Dopo di allora la Falange fu di fatto assorbita dai militari, che se ne servirono specialmente in funzione propagandistica, cioè per accreditare una corrispondenza tra il loro operato e l'esperienza fascista. Di fatto, anche rispetto alla dittatura del generale Franco, che seguì la fine della guerra civile (aprile 1939), il ruolo della Falange rimase marginale. E di per sé, malgrado alcuni tratti esteriori come il fatto che Franco si sia voluto presentare come duce, il Caudillo, la dittatura franchista rimase un'esperienza profondamente legata alle tradizioni della Spagna e influenzata dalla Chiesa cattolica, sicché essa rappresenta un caso di fascismo molto sui generis.

c) Francia

Il caso della Francia è assai interessante e anche particolarmente controverso. Nel fascismo francese, infatti, accanto a quelli italiano e tedesco, si è voluto vedere l'esempio di un fascismo classico (Ernst Nolte, Zeev Sternhell), nel quale, anzi, si ritroverebbero le più lontane e autentiche origini dell'intero fenomeno. La tesi è suggestiva, ma confonde cose diverse. Sommariamente i fatti sono i seguenti. Un regime fascista in Francia non è mai esistito, perché l'esperienza di Vichy, per il fatto stesso di essere conseguente alla sconfitta militare e all'occupazione tedesca, non può in senso proprio definirsi tale. Tuttavia, dopo il giugno 1940 e all'ombra del governo di Vichy, emergono fenomeni particolari che siamo soliti ritenere tipici del fascismo: così l'antisemitismo e le persecuzioni contro gli Ebrei, che precedettero ogni iniziativa germanica e ne furono indipendenti.

Ugualmente è un fatto che nel periodo tra le due guerre, e con particolare intensità dopo il 1934, la Francia conobbe un certo numero di movimenti politici i quali, sia per l'esplicito richiamo al fascismo degli uomini che li guidarono, sia per le forme di organizzazione e di azione che assunsero, e anche per gli obiettivi politici che si posero, possono ritenersi movimenti fascisti. Tali a esempio, la Croix de Feu, del colonnello conte Casimir de la Rocque; i Francistes, di Marcel Bucard; la Solidarité Française, di François Coty; e, soprattutto, il Parti Populaire Français, di Jacques Doriot; il Comité Secret d'Action Révolutionnaire (CSAR o Cagoulard), di Eugène Delonde; e il gruppo di neosocialisti di Marcel Déat, il quale fonderà nel 1941 il Rassemblement National Populaire. È ancora un fatto che lungo tutto il corso del XIX secolo, e più specialmente dopo il 1870, la Francia conosce una tradizione politica di forte resistenza ai portati del 1789 e, più tardi, di violenta opposizione alla Terza Repubblica. All'interno di questa opposizione, già tra la fine del secolo e la guerra, maturano sia un acceso antisemitismo, sia forme di radicalismo eversivo, che assumono per lo più veste nazionalista. Il caso più noto è quello dell'Action Française, fondata da Charles Maurras nel 1899.

L'insieme di queste forme di resistenza, e cioè di reazione, costituiscono un fenomeno di grande importanza, il quale investe tutta la tradizione politica europea. Tuttavia, definire questo fenomeno come una forma di fascismo significa dilatare il termine fascista al punto da smarrirne ogni specificità. Così facendo si finisce per ignorare la storia effettiva del fascismo, il suo luogo di nascita, il ruolo determinante che su di esso ebbe l'esperienza della guerra, e il fatto che, con l'eccezione della parte comunque marginale che vi possa aver avuto Georges Sorel, nessuna influenza diretta vi ebbe l'esperienza politica della Francia. Perciò sembra ragionevole riconoscere quali forme di un fascismo francese solo quei movimenti e quegli uomini che all'esperienza fascista effettivamente si richiamarono e che da essa trassero suggestioni documentabili; senza peraltro dimenticare che in Francia era già ben presente, e da lunga data, un vasto retroterra di radicata tradizione antiliberale, del tutto distinta dal fascismo.

d) Inghilterra

L'esperienza fascista in Inghilterra è legata ad una persona, sir Oswald Mosley. Già laburista e membro del governo, Mosley aveva ritenuto insufficienti sia sul piano dei fatti che delle idee le misure prese per fronteggiare la crescente disoccupazione, perciò nel 1931 aveva lasciato il Partito Laburista per dare vita ad un nuovo gruppo, il New Party. Dopo un viaggio in Italia nel 1932, Mosley ritenne che il regime di Mussolini offrisse la risposta migliore alle questioni sociali più urgenti. Perciò, al suo ritorno, egli fondò la British Union of Fascists (BUF), un movimento che adottava gli emblemi e le uniformi dei Fasci. Il successo fu scarso, e le simpatie che Mosley aveva raccolto tanto più declinarono quando, dopo il 1934, egli parve accostarsi al regime di Hitler. Nel 1936 una legge (Public order act) vietava l'uso politico delle uniformi e consentiva alla polizia di impedire cortei e manifestazioni di piazza, ponendo di fatto fine alle pubbliche dimostrazioni del BUF. Nel 1940, dopo l'inizio della guerra, Mosley fu internato, ma a quella data nulla più rimaneva del suo movimento.

e) Belgio

In Belgio la presenza di due gruppi etnici, rispettivamente di lingua francese e di lingua fiamminga, produceva risentimenti nazionalistici e tensioni, che vennero accentuandosi a partire dalla guerra. L'ostilità dei Fiamminghi nei confronti del gruppo rivale culturalmente egemone, i Valloni, portò alla formazione di alcuni gruppi politici, dai quali emerse nel 1921 Joris Van Severen, che assunse per un certo tempo la leadership dei nazionalisti fiamminghi. Suggestionato dagli esempi sia di Maurras che di Mussolini, nel 1929 Van Severen fondò una milizia di tipo fascista, e nel 1931 dette vita al Verbond van Dietsche Nationaal-Solidaristen (VERDINASO), che si proponeva l'unione politica con l'Olanda nel quadro di un governo di tipo fascista. Ma su questo stesso terreno Van Severen trovò presto dei concorrenti, che lo superarono per estremismo. Nell'ottobre 1933 il deputato Staf de Clecq fondava infatti la Vlaamsch Nationaal Verbond (VNV), un gruppo che si proponeva un'organizzazione di tipo fascista, ma che guardava più all'esempio tedesco che a quello italiano. I due movimenti procedettero paralleli e raccolsero un certo seguito. Ma mentre Van Severen venne prendendo le distanze dal regime di Hitler e dal suo antisemitismo, la VNV rimase filonazista sino e durante la guerra.Anche le regioni di lingua francese produssero in Belgio un movimento che presenta analogie con quelli fascisti. Esso si raccolse sotto la guida di un leader, Léon Degrelle, ugualmente sensibile agli esempi del nazionalismo francese e del fascismo italiano. Profondamente cattolico, nel 1931 Degrelle fondò un movimento che si richiamava a Christus Rex e si chiamò perciò rexismo. Nel 1936 egli pubblicò un programma assai critico sia nei confronti dei regimi parlamentari che del sistema capitalistico. Forte di consensi nel mondo cattolico, il movimento di Degrelle conobbe un certo successo alle elezioni del 1936, ma declinò rapidamente negli anni seguenti, anche per le crescenti simpatie manifestate da Degrelle nei confronti della Germania hitleriana. Alla vigilia della guerra il rexismo era virtualmente finito.

f) Romania

Il movimento rumeno che si suole considerare fascista fu la creazione di un singolare personaggio, Corneliu Zelia Codreanu, in cui si mescolavano passioni politiche e fanatismo religioso. La base del movimento, che si articolò successivamente in altre forme di organizzazione, fu la Guardia di ferro, un gruppo nato nel 1920 tra gli studenti e che divenne ben presto una formazione armata, dedita al terrorismo e all'assassinio politico. Nel 1927 Codreanu fondava la Confraternita della Croce, che avrebbe dovuto essere una sorta di corpo mistico della Guardia di ferro, e contemporaneamente la Legione dell'Arcangelo Michele. Nessuno di questi gruppi aveva un vero programma politico, se non il forte antisemitismo e l'odio per i regimi rappresentativi. Negli anni trenta la Guardia di ferro venne affermandosi come una delle più importanti forze politiche della Romania, ma i rapporti con il governo di re Carol non furono mai buoni. Nel 1933 la Guardia di ferro fu dichiarata fuori legge e sciolta; come risposta, tre studenti uccisero il primo ministro Ion G. Duca. Più tardi il movimento si riprese, ma accentuandosi il carattere dittatoriale della monarchia, lo stesso Codreanu decideva nel 1938 di sciogliere la Guardia di ferro. Ciò non bastò a evitare il suo arresto, insieme a molti dei suoi seguaci, la sua condanna in un pubblico processo e infine, con il pretesto di un tentativo di fuga, la sua uccisione. La morte del suo fondatore non significò la fine della Guardia di ferro, che continuò clandestinamente a seminare violenze. Dopo lo scoppio della guerra e specialmente dopo l'abbandono della scena politica da parte di re Carol (settembre 1940) e l'arrivo al suo posto del generale Ion Antonescu, che della Guardia di ferro era sempre stato un ammiratore, questa riapparve al fianco dei tedeschi. Tuttavia neppure Antonescu poté convivere con questo movimento, che dopo avere occupato importanti posizioni di governo voleva avere completa mano libera per sfogare il proprio fanatismo. Gli arbitri della partita erano ormai i tedeschi. Certo del loro appoggio, nel febbraio 1941 Antonescu sconfiggeva sul campo la Guardia di ferro e ne scioglieva tutte le organizzazioni.

g) Ungheria

Alla fine della guerra la situazione ungherese era assai particolare. Dissoltosi l'Impero asburgico, di cui essa era stata parte, l'Ungheria conobbe nel giro di un anno un breve esperimento di governo democratico (Mihály Károlyi), seguito da un ancor più breve esperimento bolscevico (Béla Kun), condotto con metodi terroristici. Al tempo stesso, l'Ungheria era pesantemente penalizzata al tavolo della pace, dove il suo territorio e la sua popolazione venivano drasticamente ridotti soprattutto a vantaggio di Romania e Cecoslovacchia. Queste traumatiche esperienze produssero i seguenti risultati: un profondo risentimento nazionalista e il desiderio di riacquistare comunque i territori perduti; sfiducia e sospetto per le potenze vincitrici, soprattutto per la Francia, e per i regimi politici di cui offrivano esempio; un radicale anticomunismo e una conseguente intolleranza verso ogni programma politico che apparisse di sinistra; inoltre, poiché Kun e gli altri capi comunisti erano ebrei, un assai accentuato antisemitismo. In questo contesto furono poste le basi di un vasto movimento di reazione, che spesso si richiamò agli esempi del fascismo italiano, come più tardi del nazismo tedesco, ma che fu sempre caratterizzato da una grande frammentazione e che non riuscì mai a diventare forza di governo.

Inizialmente la base della reazione fu l'esercito, al cui interno sin dal 1919 si costituirono gruppi e unità speciali, che dettero vita a un vero e proprio terrore bianco. A partire dal 1920, quando con la sua nomina a reggente l'ammiraglio Miklós Horthy divenne capo dello Stato e di fatto il gerente di una forma di dittatura militare, il rappresentante di queste forze fu il capitano Gjula Gömbös, che sostenuto dai militari divenne prima ministro della Difesa e poi capo del governo. In tale veste egli introdusse alcune note esteriori di un regime fascista. Dopo la sua morte (1936), all'interno di questo variegato movimento guadagnò terreno il gruppo delle cosiddette Croci frecciate, guidato da Ferenc Szálasi. Il programma delle Croci frecciate, oltre a ripetere i tradizionali motivi propri a tutti gli altri gruppi, faceva anche posto ad alcune rivendicazioni sociali, mutuate dall'esempio del corporativismo fascista. Lo sviluppo di questo movimento, che raccoglieva consensi anche in ambienti operai, allarmò il governo. Nel 1938 Szálasi fu arrestato e dopo un sommario processo condannato. Tuttavia, nelle elezioni del 1939 le Croci frecciate ottennero un notevole successo. Il movimento continuò a vivere anche dopo lo scoppio della guerra, che anzi favorì la liberazione di Szálasi (settembre 1940). Verso la fine della guerra e dopo che i tedeschi avevano occupato l'Ungheria ponendo fine al regime di Horthy, Szálasi e le sue Croci frecciate conobbero un effimero successo occupando posizioni di governo.Altri movimenti di tipo fascista sorsero in vari paesi europei: così la Heimwehr in Austria, il movimento Lapua in Finlandia, il Nasjonal Samling in Norvegia. Essi furono legati a circostanze locali e non presentarono note di particolare originalità.

4. Le interpretazioni

Di per sé le interpretazioni del fascismo sono ipotesi per riportare l'insieme del fenomeno, in tutti i suoi aspetti, a un comun denominatore, tale da consentirne una lettura unitaria. D'altra parte, è facile riconoscere che le diverse forme di fascismo nacquero sul particolare terreno dei contesti nazionali e da situazioni assai diverse. Trascurare queste specificità significherebbe cadere in superficiali generalizzazioni. Ma non si deve neppure indulgere nell'eccesso opposto. "Non accettare la tesi di un unico fascismo - ha scritto Renzo De Felice (v., 1993³, p. 21) - non può voler dire negare l'esistenza di un minimo comun denominatore tra alcuni fascismi negli anni tra le due guerre. Il vero problema è quello di non restringere o di non dilatare troppo questo minimo comun denominatore".

Le prime interpretazioni sorsero, come è naturale, sulla base dell'esperienza italiana. Furono i contemporanei che, di fronte all'emergere del fenomeno e poi ai suoi sviluppi, cercarono di darne una chiave di lettura. La maggiore difficoltà stava nel fatto che la novità stessa del fascismo e la sua mancanza di precisi riferimenti dottrinari rendevano ogni giudizio e ogni previsione aleatori. Ciò nonostante, sin dal 1923 uno di questi primi interpreti, Luigi Salvatorelli (Nazionalfascismo, Torino, Gobetti), colse con grande intelligenza uno dei tratti più tipici e permanenti del fascismo, e cioè il suo stretto rapporto col nazionalismo. Dopo di allora le interpretazioni italiane del fascismo si sono per lo più orientate in tre direzioni: quella del fascismo come 'rivelazione', quella del fascismo come 'parentesi', quella del fascismo come 'reazione di classe'. La prima di queste tesi (Piero Gobetti, Giustino Fortunato) sottolinea lo stretto rapporto tra il fenomeno fascista e alcune particolari deficienze già presenti nel precedente corso della storia d'Italia; la seconda tesi (Benedetto Croce) considera invece il fenomeno come dovuto a contingenze particolari e irripetibili, perciò la sua natura estranea alla tradizione nazionale; la terza tesi (Antonio Gramsci) vede nel fascismo uno strumento della lotta di classe della borghesia capitalistica.

Queste tre interpretazioni, avanzate poco dopo che il fascismo aveva conquistato il potere, furono in più modi riprese dopo la sua caduta. Oggi, dopo alcuni decenni di rinnovati studi, nessuno sosterrebbe più la tesi della parentesi. Anche la tesi della reazione di classe, malgrado essa abbia improntato un largo numero di studi ispirati da particolari ideologie politiche, non sembra trovar più molto credito. La tesi del fascismo come rivelazione, invece, in quanto invito a considerare le interne ragioni di debolezza dello Stato liberale italiano e ad approfondire il rapporto tra storia d'Italia e fascismo, appare come l'indicazione più feconda.

Per avere proposte interpretative riguardanti l'insieme del fenomeno fascista, bisognerà attendere l'avvento del nazismo in Germania. Dopo di allora furono avanzate numerose tesi il cui fine era quello di indicare quanto vi fosse di comune tra l'esperienza italiana, quella tedesca e altre esperienze di tipo fascista che venivano via via maturando. Il terreno preferito di queste interpretazioni fu quello sociologico, nel cui ambito il fascismo fu visto soprattutto in rapporto allo sviluppo della società di massa e come reazione dei ceti medi all'emergere di un quarto stato (ad esempio Talcott Parsons, Erich Fromm, ecc.). Il limite maggiore di queste tesi, come del resto di altre più recenti ma sempre in questa chiave, è quello di elaborare teorie sulla base di una troppo scarsa e troppo superficiale conoscenza dei fatti. Ciò è specialmente vero per quello che riguarda l'esperienza italiana di cui spesso, anche per deficienze linguistiche, molti di questi studiosi sanno ben poco.

Dopo la fine della guerra le tesi interpretative generali che sono state proposte e che, per il loro valore, meritano di essere segnalate, si riducono a tre. La prima è quella del fascismo come forma particolare di un fenomeno più vasto, il totalitarismo (Hannah Arendt). La seconda tesi è quella che vede nel fascismo un fenomeno transpolitico, cioè il frutto di una crisi della coscienza europea che è in primo luogo crisi morale e religiosa (Ernst Nolte, Augusto Del Noce). La terza tesi indica nel fascismo la traduzione letterale di una dottrina politica reazionaria, che si sarebbe sviluppata soprattutto in Francia tra il 1870 e il 1914 (Zeev Sternhell). Ciascuna di queste interpretazioni offre interessanti spunti di riflessione. In particolare, la prima tesi coglie alcuni caratteri generali del nostro tempo e alcune significative analogie tra regimi politici, quello comunista e quello fascista, apparentemente antitetici, consentendo con ciò di spostare l'attenzione sul più generale sfondo della storia europea. Anche la seconda tesi presenta elementi di grande suggestione e rimanda a questioni che riguardano la natura del contesto entro il quale il fenomeno fascista si colloca.

Tuttavia questi tipi di lettura del fascismo rischiano di introdurre schemi i quali sarebbero di per sé applicabili anche là dove il fascismo ha lasciato ben scarsi segni. Il rischio, insomma, è quello di non tenere sufficiente conto del concreto andamento dei fatti e delle condizioni particolari che hanno consentito al fascismo di emergere, cioè di non tenere sufficiente conto della sua effettiva storia. Questo limite è particolarmente evidente nella terza tesi, la quale stabilisce rapporti del tutto plausibili sul piano logico, ma che non trovano poi riscontro sul piano storico.

Complessivamente, la lezione che da questo insieme di studi si può trarre è che il fascismo ha rappresentato una particolare forma di reazione a quelle trasformazioni, morali, politiche e sociali, che hanno investito l'Europa e che sono il portato di una profonda rivoluzione, per la quale il termine più appropriato sembra quello di 'liberale'. Il fine generale di questa reazione è stato quello di ostacolare queste trasformazioni o quantomeno, quando esse si dimostravano inevitabili, reciderne le radici che affondavano pur sempre in una cultura illuministica. Ma questa reazione, indipendentemente da ogni precedente proposito, fu resa possibile solo dalle particolari condizioni successive alla guerra, dalla quale perciò strettamente dipende. Al tempo stesso, uno dei più significativi caratteri di questa reazione è stato quello di sapersi sottrarre al vaglio dello spirito critico, sfruttando con un uso accorto delle grandi parole l'emotività dei singoli e delle masse. In tal modo il fascismo è riuscito a imporsi con una sapiente opera di propaganda, dando di sé una rappresentazione immaginaria. Le ragioni di questo successo rimangono ancora in gran parte da chiarire.

5. Questioni aperte

Vi sono nella storia del fascismo alcune questioni generali, che meritano particolare attenzione per la loro rilevanza e per le discussioni che hanno sollevato.

a) Il ruolo della Grande guerra

A lungo la crisi italiana e poi europea, che ha aperto la strada al fascismo, è stata vista come la conseguenza diretta della guerra. Tuttavia più di recente si è sottolineato il fatto che, negli anni successivi al 1918, sia in Italia che in Germania arrivano al pettine nodi di problemi le cui radici affondano più indietro nel tempo. Una più piena comprensione delle circostanze nelle quali le istituzioni liberali fecero fallimento e maturò il fascismo, richiede perciò che si risalga ben oltre la guerra, alla quale non si possono attribuire effetti che hanno cause ben più antiche. Questa nuova prospettiva non dovrà d'altra parte mettere in ombra due importanti aspetti della storia del fascismo, che rimangono incontrovertibili. Il primo riguarda il già ricordato stato d'animo dei fascisti, il quale dipende interamente dalle esperienze della guerra. Il secondo aspetto riguarda lo sconvolgimento che la guerra ha prodotto nella tradizione conservatrice. Sino al 1918 i conservatori potevano ancora riferirsi a una qualche forma di legittimismo, ritrovando nella tradizione la fonte dell'autorità e del potere. Dopo il 1918, cioè dopo la guerra, tale riferimento non è più possibile. Ne deriva che ogni programma conservatore dovrà da ora in poi assumere un carattere radicale. In conclusione, anche se la sola guerra non basta a spiegare come nacque il fascismo, rimane del tutto valida la tesi secondo la quale senza la guerra il fenomeno fascista non è comprensibile.

b) La tradizione conservatrice e il nazionalismo

La questione del rapporto tra il fascismo e la tradizione conservatrice è controversa, anche perché, facendo credito alla pretesa del fascismo di essere stato una rivoluzione e di aver fondato uno Stato popolare, e alla luce di alcuni tratti della biografia mussoliniana, taluni ancora ritengono plausibile l'ipotesi di una concordanza tra il fascismo e la sinistra. L'equivoco sembra aver soprattutto due cause. La prima, il non tener conto del fatto che uno dei tratti più tipici del fascismo è quello di usare le parole come strumenti atti a suscitare emozioni, senza nessun riferimento al loro significato logico. Pertanto nessun credito può essere attribuito, senza un riscontro obiettivo, alle diverse immagini che il fascismo ha saputo dare di sé e che rimangono un puro artifizio retorico. Un esame disincantato del sistema fascista mostra chiaramente come al suo interno i tradizionali ceti detentori di prestigio sociale e di potere economico abbiano trovato ampia protezione. Del resto, la stessa propaganda fascista ha sempre insistito sulla continuità tra i nuovi regimi e le precedenti tradizioni nazionali. La seconda causa consiste nel mancato riconoscimento del fatto che, come già ricordato, con la fine della guerra e la sconfitta di quei regimi che ancora rappresentavano forme di ancien régime, la tradizione conservatrice viene privata della sua stessa base, e quindi condannata a estinguersi o a trasformarsi. La strada della trasformazione era già stata tracciata dal nazionalismo. Proprio attraverso il nazionalismo, in Italia come in Germania, la tradizione conservatrice era confluita nel fascismo. Ciò spiega anche il vasto consenso e l'appoggio politico di cui il fascismo godette da parte delle forze conservatrici.

c) Il Duce

Una delle più significative differenze tra il fascismo e altri movimenti politici del nostro tempo è che in esso la figura del capo (in Italia il Duce, in Germania il Führer) ha un ruolo determinante. Si tratta di un movimento che nasce per volontà di un uomo e che dalle scelte di quest'uomo, dai suoi pregiudizi e spesso anche dai suoi umori, vede dettato il corso della sua storia. Naturalmente ciò non significa che, per l'attuazione dei suoi propositi, il Duce non dovesse fare i conti con le circostanze ambientali e con la presenza in esse di altre forze, né che, nella costruzione dei suoi progetti immaginari o reali, egli non si servisse del lavoro altrui, cioè di materiali già presenti sulla scena politica come su quella culturale. Ma pur riconosciuti questi limiti anche nella libertà d'azione di Mussolini, e accettata la possibile dipendenza dei motivi ispiratori della sua azione da fonti esterne, rimane il fatto che non vi è discordanza possibile tra il contenuto effettivo del fascismo e la volontà del Duce. Non è quindi un caso che la più articolata e documentata storia del fascismo italiano sia la biografia di Mussolini scritta da Renzo De Felice.Questa identificazione del fascismo con la figura di un uomo pone naturalmente molti problemi. Sarà opportuno segnalarne almeno due. Il primo è che, come già ricordato, in Italia tra Mussolini e il movimento fascista vi è un rapporto di subordinazione, mai di piena identificazione. Il Duce del fascismo è in realtà il Duce di un'Italia fascista che pretende di essere l'Italia tout court. In essa il Partito Fascista, malgrado il suo carattere di massa, è solo una parte. Al tempo stesso, Mussolini è anche capo del Partito Fascista, e questo deve via via aggiornarsi per corrispondere alle esigenze di una politica che Mussolini elabora e impone autonomamente. Mussolini appare quindi l'elemento di raccordo tra il fascismo-movimento e il fascismo-regime, ma i rapporti tra gli elementi di questa triade non sono semplici.

Il secondo problema riguarda il carattere stesso della politica mussoliniana. In essa alcuni studiosi ritengono si possano ritrovare le linee di un disegno, che deriverebbe da un nucleo di idee originarie. Pertanto in Mussolini sarebbero presenti i tratti di una chiara personalità intellettuale e morale, e la sua azione, pur tenendo conto delle circostanze, corrisponderebbe a uno sviluppo coerente del suo pensiero. Altri studiosi, invece, pur non negando affatto che Mussolini avesse un qualche bagaglio culturale e che fosse capace di servirsene per costruire un suo discorso politico e dare sostegno alla sua azione, non ritengono fondata la tesi di un rapporto coerente in Mussolini tra pensiero e azione, per le seguenti ragioni. In primo luogo, perché la qualità del suo pensiero, la sua sostanziale rozzezza, fanno dubitare che Mussolini avesse sufficiente senso critico per una lettura della realtà capace di superare i più volgari pregiudizi. In secondo luogo, perché l'uomo stesso ha sempre affermato di anteporre i fatti alle idee; di quest'ultime ha sempre fatto un uso consapevolmente strumentale, non preoccupandosi mai, come mostrano abbondantemente i suoi scritti, di cadere in palesi contraddizioni, anzi giovandosi di queste contraddizioni, in quanto esse gli consentivano di coltivare un accorto trasformismo e ottenere consenso in direzioni diverse. Della coerenza, insomma, Mussolini si fece sempre beffe. In terzo luogo, la biografia di Mussolini mostra consistentemente l'assenza nell'uomo di quel senso morale, che da un lato è capacità di credere, di avere cioè convinzioni profonde risalenti pur sempre a un sistema di valori; dall'altro, è disposizione a testimoniare coi fatti la serietà delle proprie convinzioni.

d) Le origini culturali e la dottrina del fascismo

È un fatto che, dopo aver conquistato il potere, il fascismo presentò una propria 'dottrina', nella cui elaborazione ebbe gran parte il filosofo Giovanni Gentile. Ugualmente è un fatto che, a sostegno della sua azione e nella complessa operazione volta ad ottenere un sempre più vasto consenso, il fascismo si servì di un'ideologia, cioè di un complesso di espressioni verbali atte a giustificare i fatti. A sua volta questa ideologia riprendeva per la più parte motivi e formule già presenti nella cultura politica prima della guerra. Sulla base di questi dati si sono talora tratte due conseguenze. La prima, che accanto e oltre il sistema di potere fascista sia identificabile una cultura fascista, cioè una dottrina corrispondente ai termini di quel sistema di potere, il quale ne sarebbe stata la coerente applicazione. A sostegno di questa tesi si sono spesso richiamati i nomi di quei molti intellettuali, alcuni di gran rilievo, che effettivamente aderirono al fascismo. La seconda conseguenza, che essendo i tratti di una cosiddetta dottrina fascista già evidenti ben prima della nascita del movimento fascista, esista tra quella dottrina e quel movimento una dipendenza diretta. Il movimento fascista avrebbe perciò avuto un suo ben definito sostegno ideologico e la sua storia segnerebbe un coerente sviluppo dalle idee ai fatti.

Queste due tesi non convincono per le seguenti ragioni. Esse, intanto, non tengono conto della storia del fascismo, dei suoi modi e dei suoi tempi, e non tengono conto che tra quel retroterra culturale e il fascismo c'è la guerra. La presenza di quel retroterra culturale è certamente un dato importante e consente di spiegare, almeno in parte, la facilità con la quale il fascismo ha guadagnato consenso e come esso sia riuscito a darsi post factum una genealogia nobilitante. Ma ciò non significa che essa sia legittima e che possa perciò parlarsi di origini culturali del fascismo, una ipotesi che lo studio dei fatti non conferma. Inoltre, la cosiddetta dottrina del fascismo, di cui esistono più versioni, è un guazzabuglio, una sorta di magazzino dei valori nazionali, dove a seconda delle circostanze e delle necessità si sono riposte le più diverse esperienze, senza alcuna pretesa di conciliarle tra loro, cioè di comporle in un quadro razionale, né di conciliarle coi fatti, cioè con l'azione politica del fascismo. Il contenuto di questo magazzino è di grande interesse, perché da esso trasse le sue armi quel formidabile strumento di potere che fu la propaganda fascista. Ma esso va visto per quello che fu e per la funzione effettiva che svolse nel sistema di potere del fascismo, nel quale la cultura non ebbe il compito di elaborare un modello ideale che servisse da guida all'azione, bensì quello di manipolare l'opinione pubblica in vista del consenso: la cultura fu uno strumento di propaganda. Infine, la constatazione dell'adesione al fascismo di molti intellettuali è un fatto del tutto irrilevante rispetto alla questione dell'identità e del carattere di una cultura fascista. Il rapporto tra la cultura e il fascismo riguarda, infatti, il contributo di pensiero, quale si concretizza in particolari opere, che gli intellettuali hanno potuto dare più o meno intenzionalmente al regime di Mussolini. Su questo piano il bilancio è scarso. Tutt'altra questione quella del rapporto tra il fascismo e le singole persone degli intellettuali, che riguarda non più il pensiero ma il comportamento, cioè non le opere ma l'etica e la biografia.

e) L'antifascismo

Di fronte all'emergere del fascismo e alla sua violenza è ben naturale che vi sia stata, sin dalle origini, una opposizione, la quale fu anzitutto costituita da coloro stessi che di quella violenza erano le vittime. Accanto alla storia del fascismo esiste dunque una storia dell'antifascismo. Questa opposizione, tuttavia, fu repressa abbastanza facilmente. A partire dal 1925 essa si ridusse per lo più o a forme di lotta clandestina, che l'efficienza dell'apparato poliziesco rese sempre più sporadiche finendo i più degli oppositori attivi al carcere o al confino; oppure alla emigrazione, sicché la storia dell'antifascismo è in gran parte una storia di fuorusciti. Pochi personaggi, e per lo più figure di elevata posizione sociale o di alta statura intellettuale, primo tra i quali Benedetto Croce, poterono rimanere in Italia e qui continuare in qualche modo la loro opera, evitando il carcere, pur essendo notoriamente antifascisti. Di fatto perciò, durante il corso del regime, il fascismo riuscì a ridurre l'antifascismo su posizioni del tutto marginali e per lo più esterne all'Italia. Le cose cambiano con la guerra e soprattutto con il 25 luglio 1943, quando l'opposizione al fascismo trova, nell'esasperazione degli Italiani di fronte alla disfatta militare e nei nuovi sentimenti antitedeschi, un nuovo terreno di lotta. Gli esiti di questa lotta sono noti. Le questioni controverse sono due.

La prima è quella del rapporto tra la resistenza al fascismo, a partire dall'estate 1943, e il precedente antifascismo degli anni in cui il regime di Mussolini sembrava saldamente affermato. Una certa continuità tra vecchio e nuovo antifascismo è facilmente riscontrabile sia sul piano per così dire istituzionale, cioè delle organizzazioni politiche, dove i partiti che compongono i CLN (Comitati di Liberazione Nazionale) sono i partiti tradizionali (con l'eccezione del nuovo Partito d'Azione); sia sul piano per così dire degli ideali, cioè delle tradizioni politiche a cui il nuovo antifascismo si richiama. Tuttavia, gli uomini del nuovo antifascismo, e tanto più coloro che partecipano alla lotta armata, sono in gran parte uomini nuovi, appartengono a una generazione che si è formata sotto il fascismo, di esso hanno spesso subito le tentazioni, e solo di fronte alla sconfitta militare gli hanno definitivamente voltato le spalle. Perciò, indipendentemente dalla onestà intellettuale e morale dei singoli, questo antifascismo si nutre di esperienze politiche ben diverse da quelle dell'antifascismo precedente.Il secondo problema consiste nel vedere contro quale forma di fascismo il nuovo antifascismo si è effettivamente indirizzato, e perciò che cosa ha significato la vittoria del 1945. La difficoltà nasce dal fatto che con il 25 luglio 1943 il regime fascista era stato messo fuori scena, e il fascismo che si era riproposto dopo l'8 settembre, e contro il quale la Resistenza ha lottato e vinto, corrispondeva assai poco al sistema di potere che aveva governato l'Italia per oltre vent'anni. La sconfitta di quest'ultimo fascismo è cosa certa, quella del fascismo che si era eretto in regime è un po' meno chiara. Se anche, con il referendum del 1946, uno dei pilastri di quel regime, la monarchia, fu effettivamente abbattuto, si ha poi l'impressione che una parte consistente di quelle strutture, e della mentalità che ne consentiva il funzionamento, sia rimasta sostanzialmente integra, malgrado la vittoria dell'antifascismo, ben oltre il 1945.