ROBESPIERRE L' INCORRUTTIBILE.
IL TERRORE IN NOME DELLA LIBERTÀ
di Renzo Paternoster
www.storiain.net/arret/num119/artic5.asp
L'anno 1789 è una linea che divide la storia politica
dell'Europa. Con i moti rivoluzionari francesi nasce il mito solare
della Rivoluzione. Il 5 settembre 1793, invece, il sogno della
rivoluzione si trasforma nell'incubo del terrore.
La Rivoluzione Francese fu una vera e propria "rivoluzione sociale",
smisuratamente più radicale di qualunque equivalente
sollevazione. Fu la sola fra tutte le rivoluzioni contemporanee ad
essere veramente universale: le sue soldatesche popolari si levarono
per rivoluzionare il mondo, le sue idee lo rivoluzioneranno
veramente. Nella stessa Costituzione del 1795, nel Preambolo - noto
come "Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino" -
ritroviamo riassunti gli ideali rivoluzionari, poi condensati
nell'espressione: "Liberté, Égalité,
Fraternité".
La prima parola del motto repubblicano, Liberté, fu concepita
secondo l'idea liberale. Essa, nella "Dichiarazione dei diritti
dell'uomo e del cittadino", fu definita in questo modo: "La
libertà consiste nel potere di fare ciò che non nuoce
ai diritti altrui". "Vivere liberi o morire" fu la grande massima
repubblicana. L'Uguaglianza, invece, ha un alto valore morale,
poiché con il termine Égalité si voleva
assegnare alla legge un valore democratico: tutti divenivano uguali
e le differenze per nascita o condizione sociale dovevano essere
abolite. Ognuno, quindi, aveva il dovere di contribuire alle spese
dello Stato in proporzione a quanto possedeva, tutti divenivano
uguali dinanzi alla legge. Il terzo motto repubblicano,
Fraternité, fu infine definito così: "Non fate agli
altri ciò che non vorreste fosse fatto a voi". In pratica,
"fate costantemente agli altri il bene che vorreste ricevere".
Del valore esclusivo della rivoluzione in Francia n'è
convinto anche uno dei suoi maggior rappresentanti, Maximilien Marie
Isidore Robespierre: "Le rivoluzioni che, sino a noi, avevano
cambiato la faccia degli imperi non avevano avuto per oggetto che un
cambiamento di dinastia o il passaggio del potere da un uomo solo a
più persone. La Rivoluzione francese è la prima che
sia stata fondata sulla teoria dei diritti dell'umanità e sui
principi della giustizia. Le altre rivoluzioni esigevano soltanto
dell'ambizione; la nostra impone delle Virtù".
Virtù, dunque, e con la "V" maiuscola, come si scriveva
all'epoca. In questo periodo non c'è concetto che sia stato
tanto abusato come quello di "Virtù". Esso fu utilizzato sia
dai sanculotti, che esaltavano la "Virtù repubblicana", sia
da parte degli aristocratici che difendevano la "Virtù
monarchica".
Ma se la "Virtù repubblicana" cresceva giorno per giorno, lo
stesso non può dirsi di quella monarchica che, per un errore
di valutazione politica, divenne essa stessa una delle principali
cause del Terrore rivoluzionario. Infatti, proprio con la fuga di
Varennes, quando il 10 agosto del 1791 il re Luigi XVI e la sua
famiglia ripararono all'estero, furono poste le radici del Terrore
rivoluzionario. Il re, lo ricordiamo, scappò non tanto per
sottrarsi ad un pericolo in ogni caso reale, quanto per trovare
alleati, Austria e Prussia in particolare, pronti ad offrire
assistenza e difesa alla "Virtù monarchica" francese. La fuga
di re Luigi XVI e della sua famiglia, dunque, fu intesa
dall'opinione pubblica francese (anche da quella parte ostile, o
quanto meno indifferente, alla rivoluzione) come un alto tradimento
verso la Patria e, grazie a questo "errore" di calcolo politico, il
patriottismo rivoluzionario si alimentò crescendo a
dismisura.
Insomma, la "Virtù repubblicana", minacciata ora dalle armate
straniere schierate accanto al re traditore, diede la sua
giustificazione morale nobilitando l'utilizzo del terrore.
Secondo i contemporanei coinvolti negli avvenimenti della
rivoluzione in Francia, anche il "Terrore" che scaturì dai
moti rivoluzionari andava giudicato essenzialmente secondo il metro
della Virtù. Il "Terrore" riferì Robespierre nel suo
celebre discorso "Sui principi della morale politica" esposto alla
Convenzione nazionale, come vedremo più avanti, "non è
altro che la giustizia severa e inflessibile, ossia l'emanazione
della Virtù".
All'apice della Rivoluzione francese troviamo quindi il "Terrore"
come necessità, che mise a soqquadro la Francia. Esso fu la
naturale conclusione di un movimento che, per accelerazioni
progressive, volle fare terra bruciata del passato religioso,
culturale e civile della Francia, e praticò sistematicamente,
come metodo di lotta politica, l'annichilamento dell'avversario
esercitando il potere in modo totalitario.
Entra in scena la ghigliottina. Durante tutto il periodo
rivoluzionario esiste un binomio terrificante:
"Rivoluzione-patibolo". Esso si precisa meglio con l'assimilazione
del patibolo con una nuova macchina: la ghigliottina. Anche se
già inventata nel 1790, il suo uso è introdotto da un
voto dell'Assemblea Legislativa nel 1792. La "macchina per
ammazzare" è inventata da Joseph Ignace Guillotin, un ex
gesuita uscito dalla Compagnia di Gesù nel 1763 per studiare
la medicina del corpo anziché quella dell'anima. Nel 1789
entra negli Stati Generali (poi trasformatisi in Assemblea
Nazionale) come rappresentante del Terzo Stato di Parigi, la
città dove esercita l'arte medica.
In tale veste, nel novembre dello stesso 1789, egli presenta un
progetto di legge checomprendeva, fra l'altro, l'introduzione di un
nuovo sistema di morte democratico e indolore. L'articolo 6 del suo
progetto recitava: «Il criminale sarà decapitato: lo
sarà per effetto di un semplice meccanismo». In
pratica, secondo la mente contorta di Guillotin, estendere la
decapitazione a tutti e sopprimendo l'impiccagione, si eliminava un
privilegio nobiliare: in questo modo si rendeva tutti i cittadini
uguali, anche di fronte alla morte legale. Ma il progetto è
accantonato (in questo periodo lo stesso Robespierre si dichiara
favorevole all'abolizione della pena di morte).
Successivamente l'infernale macchina inventata da Guillotin, per
volere dell'Assemblea Legislativa, è messa a punto per
risolvere un piccolo problema: chi poteva assicurare che la vittima
fosse stata ferma nel momento dell'esecuzione? L'incarico è
assegnato a dottor Louis, il segretario a vita dell'Accademia di
Chirurgia. Il medico la mette a punto con il "blocca testa".
Così trasformato, il nuovo strumento di morte è
inaugurato il 25 aprile 1792, con l'esecuzione di un bandito da
strada, tale Nicolas Jacques Pelletier. Il nome che si pensa di
assegnare al nuovo strumento rivoluzionario è quello di
Louison o di Louisette.
Il popolo che assiste alle prime esecuzioni rimane in ogni modo
deluso per la brevità del terribile spettacolo, ma la
funzione della nuova macchina di morte è più
importante d'ogni considerazione popolare: essa sopprime ogni
possibilità di riscatto dell'anima del condannato attraverso
le sofferenze del corpo. Scrive Daniel Arasse nel suo "La
ghigliottina e l'immaginario del Terrore":
«Folgorante, essa proibisce ogni appello, essa è una
risposta: risposta laica della Legge al Crimine». In occasione
della messa a morte del re Luigi XVI, il 21 gennaio 1793, è
inaugurato anche un cerimoniale per le sentenze capitali. Infatti
c'è la convinzione che l'esecuzione del re doveva incarnare
da quel momento non solo l'abolizione della stessa monarchia ma
doveva rappresentare, secondo le parole di Robespierre, anche il suo
«carattere solenne di una vendetta pubblica»:
«Luigi deve morire perchè la Nazione deve
vivere». Il re, quindi, è giustiziato con
quell'infernale marchingegno per evidenziare l'uguaglianza di tutti
davanti alla legge : «Io non posso oltraggiare la ragione e la
giustizia, considerando la vita di un despota come se avesse maggior
valore di quella di un semplice cittadino», asserisce il
rivoluzionario Robespierre nel suo intervento del 21 gennaio 1793
dinanzi alla Convenzione riunita per il processo al re.
La storia della Francia di questo periodo è strettamente
legata proprio al nome di Maximilien Marie Isidore Robespierre (o de
Robespierre). E' in lui che s'incarna lo spirito della sollevazione,
arrivando da cittadino in una rivoluzione in cui gli altri sono
ancora sudditi. Egli, durante tutto il periodo rivoluzionario, per
sconfiggere i suoi rivali politici, si attribuì il ruolo di
"strumento della Verità", "sacerdote della sana
Virtù", "difensore della Democrazia", "eroe della Patria
francese". La sua probità è incontestabile tra i suoi
contemporanei: egli è per tutti l'Incorruttibile.
L'essere stato il più celebre dei primi grandi capi della
democrazia francese, Maximilien Marie Isidore Robespierre lo deve,
senza dubbio, al filosofo Jean-Jacques Rousseau, ma anche alla sua
origine, oltre che al suo carattere.
Robespierre nasce il 6 maggio 1758 ad Arras, città nella
Francia settentrionale, capoluogo del dipartimento del
Pas-de-Calais, sul fiume Scarpe. Suo padre è un ventiseienne
avvocato, figlio di un avvocato, mentre sua madre è
Jacqueline Carrault, figlia di un birraio.
A sette anni Maximilien Marie Isidore, rimasto orfano di madre e con
un padre che scompare di scena per motivi sconosciuti, entra nel
collegio della cittadina di Arras. A 11 anni, grazie al vescovo del
Paese che gli concede una borsa di studio, passa quindi al collegio
Louis-le-Grand di Parigi, una delle migliori scuole di Francia. La
sua buona condotta scolastica gli permette di ricevere, tra il 1771
e il 1776, tre secondi premi e sei menzioni. Nel 1775 fu scelto per
leggere un messaggio in latino a re Luigi XVI in occasione del suo
passaggio nei pressi dell'istituto. Nel 1781, a 23 anni, lascia il
collegio con la qualifica di avvocato. Per la sua "buona condotta
durata dodici anni e i successi conseguiti negli studi", la scuola
Louis-le-Grand lo congeda con un premio di 600 livres.
Ritornato da Parigi è subito ammesso a patrocinare presso il
Consiglio dell'Artois. Nel marzo 1782 il vescovo lo chiama a
succedere al decano del tribunale del suo Paese, come uno dei cinque
giudici del tribunale vescovile.
Nel 1783 Nel 1783, grazie ad un'abile e brillante difesa dei
parafulmini, di cui non è neppure l'autore, raccoglie il
successo assaporando una grandissima notorietà. Difatti
è ricevuto dalla "buona società" nei propri salotti,
mentre l'accademia di Arras gli apre le porte, nominandolo nel 1786
direttore. Nel giugno 1787 entrò nel circolo letterario
Rosati, formato da una quindicina di iscritti aspiranti poeti.
Nel 1788 si unisce ai suoi colleghi del tribunale vescovile nella
condanna della riforma giudiziaria introdotta dal governo francese.
La sua attività di avvocato inizia con una causa
all'apparenza banale: deve difendere un cordaio accusato di furto da
un monaco preoccupato di coprire le proprie scelleratezze.
Robespierre ottiene facilmente soddisfazione e, non contento di
limitarsi a questo, reclama anche un indennizzo economico per il suo
cliente. Per l'occasione redige un memoriale assai violento che
presenta al giudice, in cui denuncia le disuguaglianze davanti alla
legge e censura i costumi ambigui del religioso. Un po' per invidia,
un po' perché poco sensibili al suo fervore nel difendere
gente povera, i colleghi del tribunale disapprovano il metodo
"dell'infame libello" che Robespierre, contrariamente ad ogni
usanza, stampa e presenta prima d'ogni sentenza.
Isolato dai suoi colleghi, Robespierre si allontana volontariamente
dall'accademia, prendendo posizione contro il malcostume dell'alto
clero e dei notabili. Anche se il vescovato non gli perdona le sue
accuse, trova sostegno presso i parroci, che diventano i suoi
propagandisti. La corporazione più povera di Arras, quella
degli zoccolai, lo sceglie come proprio deputato.
La convocazione degli Stati Generali in Francia cambia la vita di
Robespierre, ma non i suoi modi. Ad esempio niente lo induce a
rinunciare all'abbigliamento meticoloso: quando la Convenzione si
affollerà di sanculotti, egli continuerà ad ostentare
cravatta e parrucca incipriata.
Robespierre è e resta sino alla fine un piccolo borghese, e
questo sarà in parte la causa della sua popolarità.
Infatti, la piccola borghesia francese che costituisce la parte
più numerosa del partito giacobino e sanculotto,
rintraccerà in lui la dinamicità politica,
l'onestà nei modi, la moralità esteriore, la
dignità di costumi, la contrarietà verso l'eccessiva
ricchezza e il lusso smodato.
Nella primavera del 1789 Maximilien Marie Isidore è eletto
tra i dodici rappresentanti del Terzo Stato all'assemblea della
città di Arras, diventando poi il quattordicesimo degli
eletti tra i ventiquattro rappresentanti della città. Infine
si piazza al decimo posto tra i centottantaquattro membri del
baillage di Arras. Il 26 maggio 1789 riesce a farsi eleggere al
quinto posto sugli otto disponibili per i rappresentanti del Terzo
Stato della provincia di Artois. Si trasferisce a Parigi dove abita
in rue Saintonge nel Marais, presso un certo Humbert, e prende parte
all'Assemblea Costituente dal 5 maggio 1789 al settembre 1791,
sedendosi all'estrema sinistra.
Nell'autunno del 1790 è nominato presidente del nuovo
tribunale di Versailles. Ma rifiuta per dedicarsi alla politica a
Parigi. Nel giugno 1791 è nominato pubblico ministero del
tribunale penale di Parigi con uno stipendio di 8.000 livres (in
pratica non esercita mai la funzione). Nel frattempo è uno
dei soci fondatori del Club dei Giacobini, diventandone il
presidente il 24 marzo 1790. In Francia diventa uno dei leader
riconosciuti della rivoluzione.
Nel marzo 1791 Robespierre fa stampare ed inviare ad ogni
società affiliata al Club dei Giacobini un testo che si
concludeva così: "L'eterna Provvidenza grazie alle
circostanze quasi miracolose che le è piaciuto creare ha
chiamato i francesi ad essere gli unici dopo l'origine del mondo, a
ristabilire sulla terra l'impero della Giustizia e della
Libertà".
Grazie alla sua attività politica, nell'aprile 1791 è
nominato rappresentante del Club giacobino di Marsiglia presso
l'Assemblea Costituente. A Parigi diviene subito molto popolare tra
i sanculotti e i cittadini "passivi", ossia quelli privi di voto,
specialmente dopo che il 9 maggio 1791 presenta una petizione per il
loro diritto di voto. Durante la presentazione della petizione egli
concluse l'arringa con la seguente frase ad effetto: «Dio
accoglie le preghiere di tutti».
E' durante i lavori dell'Assemblea che viene fuori un Robespierre
altamente motivato a fare piazza pulita quanto di "vecchio" e marcio
la Francia offriva in quel periodo. Le sue grandi battaglie in seno
all'Assemblea riguardano la richiesta del suffragio universale per
la nuova Costituzione, la pretesa di solide garanzie per l'istituto
della rappresentanza, l'ostilità totale alla guerra, nociva
per le verità fondamentali della Rivoluzione.
La presa di posizione di Robespierre contro la limitazione del
suffragio, in particolare contro il marco d'argento richiesto per la
eleggibilità all'Assemblea Legislativa, è precisa e
inflessibile. Lo si capisce dai discorsi che lo stesso Robespierre
fa all'Assemblea Costituente:
«Tutti i cittadini, di qualunque condizione essi siano, hanno
diritto di rappresentanza» (22 ottobre 1789); «Nulla e
più conforme alla vostra Dichiarazione dei diritti, di fronte
alla quale deve scomparire ogni privilegio, ogni distinzione, ogni
eccezione. La Costituzione stabilisce che la sovranità
risiede nel popolo. Ogni individuo ha pertanto diritto di concorrere
alla formazione della legge cui e sottoposto e all'amministrazione
della cosa pubblica che e sua, altrimenti non sarà vero che
tutti gli uomini sono eguali nei diritti, che ogni uomo e un
cittadino» (25 gennaio 1790). Un'altra dissertazione
sull'argomento non è pronunciata dinanzi all'Assemblea,
così Robespierre la fa stampare e distribuire. In essa si
legge: «La legge è forse l'espressione della
volontà generale, quando il maggior numero di coloro per i
quali essa è fatta non possono concorrere, in nessun modo,
alla sua formazione? No. Tuttavia proibire a coloro che non pagano
un tributo uguale a tre giornate di lavoro il diritto stesso di
scegliere gli elettori destinati a nominare i membri dell'assemblea
legislativa, che cos'altro è se non rendere la maggior parte
dei francesi assolutamente estranei alla formazione della legge?
[...] Si, a dispetto di tutta la vostra prevenzione a favore delle
virtù che darebbe la ricchezza, oso credere che ne trovereste
altrettante nella classe dei cittadini meno agiati che in quella dei
più opulenti. Credete forse veramente che una vita dura e
laboriosa generi più vizi che la mollezza, il lusso e
l'ambizione? E avete meno fiducia nella probità dei nostri
artigiani e dei nostri contadini, i quali secondo la vostra tariffa
non saranno quasi mai cittadini attivi, che in quella dei
trafficanti, dei cortigiani, di coloro che chiamavate gran signori e
che, in base alla stessa tariffa, lo sarebbero seicento volte?
Voglio una volta per sempre vendicare coloro che chiamate popolo da
queste sacrileghe calunnie [...].
Fate bene attenzione: coloro che vi hanno scelto, coloro in funzione
dei quali voi esistete, non erano certo contribuenti per un marco
d'argento, per tre, per dieci giornate d'imposte dirette; erano
tutti i francesi, cioè tutti gli uomini nati e domiciliati in
Francia, o naturalizzati, paganti una qualsiasi imposta. Lo stesso
dispotismo non aveva osato imporre altre condizioni ai cittadini che
convocava».
Per quanto riguarda il concetto di sovranità popolare, il
discorso di Robespierre, coerentemente con la concezione
rousseauiana, si sostanzia nel voler circondare di garanzie e di
restrizioni l'istituto della rappresentanza: essa deve quindi essere
temporanea, soggetta a continui controlli del popolo sovrano, che
deve stare in guardia contro la corruttibilità dei suoi
mandatari, deve inoltre assicurarne l'indipendenza da costrizioni,
deve vegliare contro la falsità politica.
La guerra, infine, anche se già sulla fine del 1791 è
presentata come necessaria dai capi rivoluzionari, è per
Robespierre contrastante agli interessi della Rivoluzione: «la
nazione non rifiuta affatto la guerra se essa è necessaria
per conquistare la liberta; ma essa vuole la libertà e la
pace, se è possibile, e respinge ogni progetto di guerra che
sarebbe proposto per annientare la liberta e la Costituzione, anche
sotto il pretesto di difenderle» (dal discorso ai Giacobini
fatto il 18 dicembre 1791).
L'attivismo di Robespierre in questo periodo è illimitato.
Dinanzi all'Assemblea Costituente presentò molte petizioni,
tra le quali quella per cui nessun deputato poteva diventare
ministro o avere incarichi pubblici per quattro anni a partire dallo
scioglimento dell'Assemblea (la proposta passò con l'appoggio
della destra) e quella della non eleggibilità e di
auto-esclusione dei deputati di quel congresso in future assemblee
(anche questa volta la destra votò per la proposta di
Robespierre). Quando il 30 settembre 1791 l'Assemblea concluse i
propri lavori, Robespierre e il sindaco di Parigi Pétion
furono inneggiati dal popolo al momento della loro uscita dalla sede
dell'Assemblea.
Quando l'Assemblea Legislativa si riunì il 1° ottobre
1791, in forza della propria proposta di auto-esclusione,
Robespierre non si presentò alle elezioni, continuando
però la sua attività politica nel Club dei Giacobini.
Ritornato ad essere un cittadino come gli altri riprese il lavoro di
pubblico ministero, ma il 10 aprile 1792 Maximilien Marie Isidore fu
costretto alle dimissioni, poiché il giudice che presiedeva
il tribunale riteneva Robespierre un assenteista, in quanto non
aveva discusso nemmeno una causa.
Rimasto senza l'indennità di deputato e senza lavoro vive con
la rendita di circa 600 lire derivante da due piccole
proprietà che possiede insieme al fratello Augustin ad Arras.
Nel frattempo egli inizia ad affidare molte delle sue idee a due
fogli periodici, il " Defenseur de la Constitution" (maggio-agosto
1792) e le "Lettres a ses commettans " (ottobre 1792-aprile 1793).
Il secondo periodico ci ha lasciato un vero e proprio scritto di
teoria politica nei suoi Fragments d'institutions Republicaines.
In occasione delle elezioni alla Convenzione, Maximilien si presenta
in due circoscrizioni: nel Pas-de-Calais, che comprendeva Arras, e a
Parigi. Il 5 settembre 1792 Robespierre è eletto ed entra
nella Convenzione. Dopo aver sostituito la Convenzione con
un'Assemblea legislativa, la monarchia è abolita e viene
proclamata la repubblica. Poco dopo, il 10 marzo 1793, si
istituiscono anche il "Tribunale Rivoluzionario"e, in ogni comune e
in ogni sezione delle principali città, i "Comités
Révolutionnaires".
Il 6 aprile la Convenzione istituisce il "Comitato di Salute
Pubblica", i cui poteri dovevano essere rinnovati ogni mese. Nel
giugno 1793, su proposta Maximilien Marie Isidore, la Convenzione
istituisce una Commissione per l'istruzione nominando lo stesso
Robespierre presidente.
Il 10 luglio è eletto il nuovo Comitato di Salute Pubblica,
ma Robespierre rifiuta di entrarvi. Più tardi, su richiesta
di Saint-Just e Couthon, decide però di farvi parte.
Il 17 piovoso anno II, secondo il calendario rivoluzionario, il 5
febbraio 1794 per la storia, Robespierre tiene un discorso alla
Convenzione in cui si evince la giustificazione teorica del governo
del Terrore, assieme alle sue motivazioni insieme politiche e morali
di tale regime. E' il celebre discorso intitolato "Sui principi di
morale e politica che devono guidare la Convenzione nazionale
nell'Amministrazione interna della Repubblica", in cui il giacobino
valuta l'utilizzo del Terrore secondo il metro della Virtù:
«Noi vogliamo adempiere ai voti della natura, compiere i
destini dell'umanità, mantenere le promesse della filosofia,
assolvere la provvidenza dal lungo regno del crimine e della
tirannia. [.]. La grande purezza dei fondamenti della Rivoluzione
francese, la sublimità stessa del suo oggetto, è
precisamente ciò che ha fatto la nostra forza e la nostra
debolezza. La nostra forza, perché ci dà la
superiorità della verità sopra l'impostura e dei
diritti dell'interesse pubblico sopra quelli degli interessi
particolari. La nostra debolezza perché allea contro di noi
gli uomini viziosi, tutti coloro che meditavano nel loro cuore di
spogliare il popolo e tutti quelli che vorrebbero averlo potuto
spogliare impunemente; sia quelli che hanno respinto la
libertà come una calamità personale, sia quelli che
hanno abbracciato la Rivoluzione come un mestiere e la Repubblica
come una preda. Da qui la defezione di tante persone ambiziose o
avide, le quali, dopo la partenza ci hanno abbandonato lungo il
cammino, per il motivo che non avevano iniziato il viaggio con il
nostro medesimo scopo. Si direbbe quasi che i due geni contrari, che
abbiamo rappresentato come disputantisi il dominio della natura,
combattano in questa grande epoca della storia umana per fissare
definitivamente i destini del mondo, e che proprio la Francia sia il
teatro di questa terribile lotta.
Al di fuori tutti i tiranni vi circondano, all'interno tutti gli
amici della tirannia cospirano: cospirano finché al crimine
non sia tolta perfino la speranza. Bisogna soffocare i nemici
interni ed esterni della Repubblica, oppure perire con essa. Ora, in
questa situazione, la massima principale della vostra politica
dev'essere quella di guidare il popolo con la ragione, e i nemici
del popolo con il Terrore. Se la forza del governo popolare in tempo
di pace è la Virtù, la forza del governo popolare in
tempo di Rivoluzione è ad un tempo la Virtù e il
Terrore. La Virtù, senza la quale il Terrore è cosa
funesta; il Terrore, senza il quale la Virtù è
impotente. Il Terrore non è altro che la giustizia pronta,
severa, inflessibile. Esso è dunque una emanazione della
Virtù. È molto meno un principio contingente, che non
una conseguenza del principio generale della democrazia applicata ai
bisogni più pressanti della patria. Si è detto da
alcuni che il Terrore era la forza del governo dispotico. Il vostro
Terrore rassomiglia dunque al dispotismo? Sì, ma come la
spada che brilla nelle mani degli eroi della libertà
assomiglia a quella della quale sono armati gli sgherri della
tirannia. Che il despota governi pure con il Terrore i suoi sudditi
abbrutiti. Egli ha ragione, come despota. Domate pure con il Terrore
i nemici della libertà: e anche voi avrete ragione, come
fondatori della Repubblica. Il governo della Rivoluzione è il
dispotismo della libertà contro la tirannia. La forza non
è dunque fatta che per proteggere il crimine? E non è
forse per colpire le teste orgogliose che il fulmine è
destinato?
La natura impone a ogni essere fisico o morale la legge di
provvedere alla propria conservazione. Il crimine uccide l'innocenza
per regnare, e l'innocenza si dibatte con tutte le forze nelle mani
del crimine. Che la tirannia regni un giorno soltanto e l'indomani
non resterà più un solo patriota. Ma fino a quando il
furore dei despoti sarà chiamato giustizia, e la giustizia
del popolo barbarie o ribellione? Come si è teneri verso gli
oppressori e inesorabili verso gli oppressi! Nulla di più
naturale: chiunque non odia il crimine non può amare la
Virtù. Tuttavia, occorre che l'uno o l'altra soccomba.
"Indulgenza verso i realisti! - gridano certuni. - Grazia per gli
scellerati!" No: grazia per l'innocenza, grazia per i deboli, grazia
per gli infelici, grazia per l'umanità!
La protezione sociale è dovuta solo ai cittadini pacifici e
nella Repubblica non vi sono altri cittadini se non i repubblicani.
I realisti, i cospiratori, non sono che stranieri, per essa, o
piuttosto dei nemici. Questa guerra terribile che la libertà
sta sostenendo contro la tirannia non è forse indivisibile? I
nemici dell'interno non sono forse alleati con i nemici dell'estero?
E gli assassini che lacerano la patria all'interno, gli intriganti
che comprano le coscienze dei mandatari del popolo, i traditori che
le vendono, i libellisti mercenari che sono assoldati per disonorare
la causa del popolo, per far morire la Virtù pubblica, per
attizzare il fuoco delle discordie civili e per preparare la
controrivoluzione politica per mezzo della controrivoluzione morale:
tutti questi individui sono forse meno colpevoli o meno pericolosi
dei tiranni di cui stanno al servizio?».
Virtù, dunque, con la "V" maiuscola, dalla quale scaturisce
la "giustizia pronta, severa ed inflessibile". La Virtù
diviene così il principio di una discriminante politica e
sociale, quel principio che per portare alle accentuazioni
egualitarie nella nuova Francia deve necessariamente cassare dal
potere tutti coloro che appaiono alleati di un ordine corrotto di
disuguaglianza e d'ingiustizia. Non c'è concetto che sia
stato tanto abusato all'epoca come quello di virtù: i
sanculotti esaltavano la "Virtù repubblicana", mentre gli
aristocratici difendevano la "Virtù monarchica". Secondo i
contemporanei coinvolti negli eventi della Rivoluzione, il "terrore"
che scaturì dai moti rivoluzionari andava giudicato
essenzialmente secondo il metro della Virtù. E le parole di
Robespierre alla Convenzione nazionale davano il giusto peso: "il
terrore non è altro che la giustizia severa e inflessibile,
ossia l'emanazione della Virtù".
Prima della Rivoluzione in Francia, l'unico sostenitore del terrore
è stato Niccolò Machiavelli, affascinato dai metodi di
governo di Cesare Borgia, tanto da arrivare ad esporne i crimini a
giovamento dei futuri prìncipi. Nei Discorsi sulla prima deca
di Tito Livio, Machiavelli ricordava che per «ripigliare lo
Stato» [ossia per conservare il potere] fosse necessario
periodicamente «mettere quel terrore e quella paura negli
uomini che vi avevano messo nel pigliarlo».
Il "terrorismo francese" del periodo rivoluzionario nasce in
definitiva come un'estrema degenerazione dell'idea stessa di
rivoluzione, volto all'eliminazione fisica d'ogni fattore
d'opposizione, reale o presunta, e all'instaurazione di un nuovo
ordine politico e sociale. Gli stessi giacobini avevano usato il
termine terrorismo in senso positivo, riferendolo a se stessi. Solo
più tardi il vocabolo terrorista si evolse in un'espressione
disonorante, con l'approssimato significato di "criminale".
Per Robespierre la fedeltà alla rivoluzione non si poteva
comunicare unicamente con una manifesta adesione ad un programma.
Essa doveva essere prima di tutto una disposizione alla
Virtù, che doveva permeare il buon rivoluzionario in tutti i
suoi pensieri, oltre che nelle sue azioni. Egli stesso vive come
un'asceta, senza vizi e senza neppure una casa propria, affittando
una stanza presso amici. E lì, virtuosissimo, senza bere
alcolici, senza frequentare donne, senza avere la debolezza del
gioco, pensa a come realizzare il "Regno della Virtù". Non a
caso era chiamato "l'Incorruttibile".
L'esaltazione della Virtù repubblicana diviene un
indispensabile stimolo e un'essenziale motivazione morale della
Rivoluzione. E' ossessiva, quindi, la sua predicazione a tutti i
rivoluzionari francesi d'obbedienza incondizionata verso l'unico
ideale costruttivo: tutto il popolo doveva divenire "virtuoso". Non
solo, per Robespierre la rivoluzione, considerata la difesa delle
libertà del popolo francese, doveva divenire una fonte di
stimolo per gli altri popoli. Per questo Robespierre fa subito suo
il pensiero del giacobino Louis-Antoine-Léon de Saint-Just,
che sulla rivoluzione aveva idee precise: «Coloro che operano
le rivoluzioni a metà, non fanno altro che scavarsi la
tomba» (continua Saint-Just: «gli incorreggibili
sostenitori della tirannia non sognano altro che la nostra perdita,
e ogni giorno creano nuovi nemici della libertà [...].
Epurate dunque la patria dai suoi nemici dichiarati [...]. Non si
può sperare prosperità finché il nemico della
libertà respirerà. Voi dovete punire non soltanto i
traditori, ma anche gli indifferenti dovete pulire chiunque e
passivo nella Repubblica e non fa nulla per essa; perché dopo
che il popolo francese ha manifestato la sua volontà, tutto
ciò che le si oppone è fuori del corpo sovrano, e
tutto ciò che è fuori del corpo sovrano è
nemico [...]. Bisogna governare col ferro con coloro che non possono
essere governati con la giustizia: bisogna opprimere i
tiranni»).
Secondo Robespierre, l'unico rimedio per portare la Francia ad un
ordine naturale è quello di rovesciare quel mondo corrotto,
purgare il corpo sociale, restaurare un "Regno della Virtù":
in pratica accendere il fuoco rivoluzionario per purificare la
Francia e porre fine, una volta per tutte allo scandalo del Male
proveniente dall'aristocrazia e dai falsi francesi.
In Robespierre ritroviamo quindi la sublimazione dell'amore per la
rivoluzione in una sorta di nuova religiosità, che avrebbe
dovuto animare tutto il popolo: «Cittadini», avrebbe
detto alla Convenzione il 27 marzo 1793, «solo l'energia
repubblicana e la Virtù possono salvare lo Stato. Da dove
vengono i nostri pericoli? Non solo dagli aristocratici dichiarati,
che abbiamo vinto e respinto ben lontano dal nostro territorio, ma
da questa moltitudine di uomini deboli, ipocriti, che nascondono il
loro attaccamento ai principi nobiliari sotto un aspetto di
moderazione e di patriottismo [.] i nostri pericoli vengono
dall'impunità accordata a tutti i funzionari pubblici
prevaricatori, a tutti i capi dei nostri eserciti, di fronte ai
quali si son visti piegare gli stessi rappresentanti del popolo
francese».
Lo stesso Terrore, considerato da Robespierre un rimedio doloroso ma
giustificato dallo stato di necessità della rivoluzione in
corso, trova la sua collocazione nell'ambito della "salute pubblica"
della nuova comunità democratica. Scriveva nel foglio
periodico "Lettres a ses commettans ", il 28 dicembre 1792:
«La prima fra tutte le leggi è la salute pubblica. Io
ho sempre avuto per principio che un popolo, il quale si slancia
verso la libertà, deve essere inesorabile verso i
cospiratori; che in tal caso la debolezza è crudele,
l'indulgenza è barbara, e che una giusta severità
è imperiosamente ordinata dall'umanità stessa».
Alla Convenzione, nella seduta dell'8 maggio 1793, Robespierre
precisò ulteriormente il contenuto politico-sociale
dell'azione rivoluzionaria, individuando i nemici da abbattere:
«Colui che non è per il popolo è contro il
popolo, colui che ha delle culottes dorate è il nemico di
tutti i sanculotti. Esistono due partiti, quello degli uomini
corrotti e quello degli uomini virtuosi. Non distinguete gli uomini
in base alla loro fortuna e al loro stato, ma in base al loro
carattere. Vi sono soltanto due classi d'uomini, gli amici della
libertà e dell'uguaglianza, i difensori degli oppressi, gli
amici dell'indulgenza e i fautori dell'opulenza ingiusta e
dell'aristocrazia tirannica».
Il 18 piovoso, dell'anno II, Robespierre declama alla Convenzione
nazionale i principi di morale politica che la devono guidare
nell'amministrazione interna della Repubblica: «[.] Qual
è lo scopo a cui tendiamo? Il pacifico godimento della
libertà e dell'uguaglianza; il regno di quella giustizia
eterna le cui leggi sono state incise non già sul marmo o
sulla pietra, ma nel cuore di tutti gli uomini, anche in quello
dello schiavo che le dimentica e del tiranno che le nega. Vogliamo
un ordine di cose nel quale ogni passione bassa e crudele sia
incatenata, nel quale ogni passione benefica e generosa sia
ridestata dalle leggi; nel quale l'ambizione sia il desiderio di
meritare la gloria e di servire la patria; ove le distinzioni non
nascano altro che dalla stessa uguaglianza; nel quale il cittadino
sia sottomesso al magistrato, e il magistrato al popolo, e il popolo
alla giustizia; nel quale la Patria assicuri il benessere a ogni
individuo, e nel quale ogni individuo goda con orgoglio della
prosperità e della gloria della Patria; nel quale tutti gli
animi si ingrandiscano con la continua comunione dei sentimenti
repubblicani, e con l'esigenza di meritare la stima di un grande
popolo; nei quale le arti siano gli ornamenti della libertà
che le nobilita, il commercio sia la fonte della ricchezza pubblica
e non soltanto quella dell'opulenza mostruosa di alcune case.
Noi vogliamo sostituire, nel nostro Paese, la morale all'egoismo,
l'onestà all'onore, i principi alle usanze, i doveri alle
convenienze, il dominio della ragione alla tirannia della moda, il
disprezzo per il vizio al disprezzo per la sfortuna, la fierezza
all'insolenza, la grandezza d'animo alla vanità, l'amore
della gloria all'amore del denaro, le persone buone alle buone
compagnie, il merito all'intrigo, l'ingegno al bel esprit, la
verità all'esteriorità, il fascino della
felicità al tedio del piacere voluttuoso, la grandezza
dell'uomo alla piccolezza dei "grandi"; e un popolo magnanimo,
potente, felice ad un popolo "amabile", frivolo e miserabile;
cioè tutte le virtù e tutti i miracoli della
Repubblica a tutti i vizi e a tutte le ridicolaggini della
monarchia. Noi vogliamo, in una parola, adempiere ai voti della
natura, compiere i destini dell'umanità, mantenere le
promesse della filosofia, assolvere la provvidenza dal lungo regno
del crimine e della tirannia. Ecco la nostra ambizione: ecco il
nostro scopo.
Quale tipo di governo può mai realizzare questi prodigi?
Solamente il governo democratico, ossia repubblicano. Queste due
parole sono sinonimi, malgrado gli equivoci del linguaggio comune:
poiché infatti l'aristocrazia non è repubblica
più di quanto non lo sia la monarchia. La democrazia non
è già uno Stato in cui il popolo - costantemente
riunito - regola da se stesso tutti gli affari pubblici: e ancor
meno è quello in cui centomila fazioni del popolo, con misure
isolate, precipitose e contraddittorie, decidono la sorte
dell'intera società. Un simile governo non è mai
esistito, né potrebbe esistere se non per ricondurre il
popolo verso il dispotismo. La democrazia è uno Stato in cui
il popolo sovrano, guidato da leggi che sono il frutto della sua
opera, fa da se stesso tutto ciò che può far bene, e
per mezzo dei suoi delegati tutto ciò che non può fare
da se stesso.
É dunque nei principi del governo democratico che dovrete
ricercare le regole per la vostra condotta politica. [.]. Ora, qual
è mai il principio fondamentale del governo democratico o
popolare, cioè la forza essenziale che lo sostiene e che lo
fa muovere? È la Virtù. Parlo di quella Virtù
pubblica che operò tanti prodigi nella Grecia e in Roma, e
che ne dovrà produrre altri, molto più sbalorditivi,
nella Francia repubblicana. Di quella Virtù che è in
sostanza l'amore della patria e delle sue leggi. Ma, dato che
l'essenza della Repubblica, ossia della democrazia, è
l'uguaglianza, ne consegue che l'amore della patria comprende
necessariamente l'amore dell'uguaglianza. [.]. Non soltanto la
Virtù è l'anima della democrazia, ma addirittura essa
può esistere solo in quella forma di governo. [.]. Soltanto
in un regime democratico lo Stato è veramente la patria di
tutti gli individui che lo compongono e può contare tanti
difensori interessati della sua causa, quanti sono i cittadini che
esso contiene. Ecco qui la fonte della superiorità dei popoli
liberi su tutti gli altri popoli. Se Atene e Sparta hanno trionfato
sui tiranni dell'Asia, e gli svizzeri sui tiranni di Spagna e
d'Austria, non occorre affatto cercare altra causa. [.]».
Con il Terrore la Rivoluzione iniziò a divorare i suoi stessi
figli. L'infrastruttura indispensabile alla "Repubblica del Terrore"
era costituita dal "Comitato di Salute Pubblica", dal "Comitato di
Sicurezza Generale", dal "Tribunale Rivoluzionario", dal "Comitato
di Sorveglianza". Quest'ultimo era diffuso su tutto il territorio
nazionale, ed aveva poteri di polizia che prevedevano l'arresto di
tutti quei cittadini ritenuti "nemici della Repubblica e della
libertà".
Il "Comitato di Salute Pubblica" come organo della repubblica nasce
il 6 aprile 1793, in sostituzione del "Comitato di Difesa generale".
Esso nasce come organo di sorveglianza ma diventa di fatto organo di
governo della Francia rivoluzionaria.
Il 27 luglio 1793 Robespierre entra nel Comitato, per sostituire
Georges-Jacques Danton, da sempre schierato su posizioni più
moderate, accusato con il gruppo detto degli "indulgenti" di essere
un "nemico della Repubblica".
Nel "Comitato di Salute Pubblica" Robespierre tentò di
riformare la Francia secondo i concetti di umanitarismo, idealismo
sociale e patriottismo. Nello sforzo di istituire una "Repubblica
della Virtù", egli enfatizzò la devozione alla Nazione
e alla vittoria, combattendo corruzione e ribellione. Egli, che era
un seguace convinto di Rousseau, riteneva come il filosofo che gli
uomini fossero buoni di natura, ma corrotti dalla società,
decise quindi che andava intrapresa la riforma della
collettività per sradicare il vizio. Robespierre spesso con
nostalgia evocava Rousseau: «Ah! Se fosse stato testimone di
questa rivoluzione di cui fu il precursore e che lo ha portato al
Panthéon, chi può dubitare che la sua anima generosa
avrebbe abbracciato con trasporto la causa della giustizia e
dell'uguaglianza?». Le condanne a mor¬te, perciò,
non erano espressione di crudeltà, bensì necessarie
amputazioni di parti della società incancrenite che potevano
infettare tutto il resto. Robespierre tuttavia non si rese mai conto
che questo "metodo di cura" rischiava, prima o poi, di isolarlo ma
soprattutto di diffondere un terrore permanente per tenere a bada
tutto il popolo francese.
Così tra il Regno della Virtù e quello degli ideali
patriottici, c'è il Regno della Storia, un elenco lungo
quarantamila nomi di persone morte o giustiziate in nome della
rivoluzione.
La mostruosità, in questo modo, si fece legale con la legge
del 22 Pratile (il 10 giugno 1794), che inaugurò il periodo
del "Grande Terrore", una legge voluta dalla seconda anima di
Robespierre, Georges Couthon, il quale, a giustificazione della
stessa legge, riferì al Comitato: «Niente più
difensori nei processi contro i traditori. Difendere i traditori
vuol significare cospirare contro la Patria. Abolite gli
interrogatori preliminari, abolite le testimonianze scritte, i
testimoni stessi. La prova morale è sufficiente».
Il mese di Messidoro, che precede immediatamente la reazione
termidoriana e la fine del Terrore, vide dunque le ceste dei boia
riempirsi di teste.
Nelle regioni della Francia, infatti, dove era ancora forte la
disapprovazione verso la rivoluzione, e dove vi era un aperto
sostegno al re e ai nobili, centinaia di titolati e borghesi,
appartenenti ai partiti della Gironda, degli Indulgenti e degli
Hebertisti, furono arrestati, processati e giustiziati. Nel
Tribunale Rivoluzionario i giudici potevano condannare a morte,
anche sulla base di semplici "prove morali". Anzi, le innumerevoli
soffiate stavano portando il sistema penale ad un collasso, per
questo arrivò una riforma: il 10 giugno 1794 per rendere
più efficiente il tribunale, si decise che i testimoni della
difesa non sarebbero stati più ascoltati (a meno che
l'interrogatorio potesse servire a smascherare altri
controrivoluzionari), le deposizioni divenivano solo orali e non
più scritte. L'unica pena prevista era la morte.
La fine di Robespierre arriva nel pomeriggio del 28 luglio (il 10
termidoro) 1794 sul palco della ghigliottina, quella stessa
infernale macchina che tante teste dei nemici della rivoluzione
aveva tagliato. La paura e il sospetto dominavano la Francia. Fu
così che Robespierre fu schiacciato dal suo stesso potere.
Due giorni prima, il 26 luglio, Robespierre aveva tenuto un
violentissimo discorso dove attaccò tutti e tutto. Il giorno
dopo, durante l'ennesima seduta della Convenzione, gli venne negata
la parola. In questa drammatica seduta della Convenzione, l'ex Prete
Fouchè e l'ex visconte Barras investirono violentemente
Robespierre, accusandolo di volersi fare "Tiranno della Francia" e
di alimentare il culto della sua personalità. Gli oppositori
di Robespierre ottennero il suo arresto: la congiura si
trasformò in un colpo di Stato controrivoluzionario (chiamato
dagli storici "termidoriano", dal nome del mese di luglio mutato in
Termidoro, secondo il nuovo calendario repubblicano). Il giorno
seguente, il 28 luglio, nonostante l'opposizione della Comune di
Parigi, si riuscì a condannare alla morte per ghigliottina
sia Robespierre sia i dirigenti del governo giacobino, senza alcuna
forma di processo. Quello stesso giorno Robespierre, assieme ad
altri ventidue suoi fedelissimi, fu condotto dapprima alla
Conciergerie per un formale atto di riconoscimento e poi avviati
alla ghigliottina ed immediatamente giustiziati.
In pratica, quando cessò il pericolo esterno (le invasioni
delle potenze straniere) e quello interno (le rivolte delle province
monarchiche), i francesi che volevano godere i frutti dei mutamenti
avvenuti, trovarono inaccettabile la "Dittatura della Virtù"
proposta ed attuata da Robespierre e si accordarono per eliminarlo.
Quando la testa di Robespierre cade nel paniere del boia, molti
tirano un sospiro di sollievo. Ma la morte di Robespierre è
stata la morte della Rivoluzione. Molti storici, infatti, sono
d'accordo nel riabilitare la figura di Maximilien Marie Isidore de
Robespierre, presentandolo, al di là del suo essere un
filosofo o un politico, come l'incarnazione stessa
dell'individualità rivoluzionaria più pura. Molti
hanno messo ingiustamente Robespierre alla sbarra degli imputati
della storia, quale il massimo ispiratore e responsabile del "regime
del Terrore". Ma nel "Comitato di Salute Pubblica" Robespierre
entrò - lo ricordiamo - solo il 27 luglio 1793. Qui, tra
l'altro, egli aveva un ruolo di secondo piano. Egli, non solo non
capiva niente di cose militari, ma era lontano anche dal comprendere
gli affari economici. Lo stesso Comitato lo guardava con sospetto, e
alla prima occasione non solo lo esautorò, ma lo fece
arrestare e giustiziare. Egli era dunque un politico, il "sacerdote
della Virtù", il patriota della speranza popolare, l'unico
contemporaneo che arriva da cittadino in una rivoluzione in cui gli
altri sono ancora sudditi. Questo è confermato dallo stesso
Robespierre, quando dirà all'avvocato e politico girondino
Jacques-Pierre Brissot, «io non sono il difensore del popolo
[.] sono parte del popolo, non sono mai stato altro che questo, non
voglio essere che questo. Disprezzo chiunque abbia la pretesa di
voler essere qualcosa di più». Egli stesso si aspetta
una morte prematura e violenta per le sue idee.
Per questo nella celebre dedica a Rousseau scriveva: un
«trapasso prematuro» è il prezzo che deve pagare
l'«uomo virtuoso» (anche l'assassinio del capo del club
parigino dei giacobini Jean-Paul Marat, ucciso nel 1793 da Carlotta
Corday, è un presagio di morte per lo stesso Robespierre:
«Gli onori del pugnale saranno riservati anche a me»,
ebbe a dire dopo la notizia dell'uccisione).
Robespierre esecrava il Terrore, detestava le macabre esecuzioni di
piazza, anche se ne riconosceva la necessità contingente e la
validità nel nuovo corso della storia della Francia.
Per molti storici la morte dell’Incorruttibile Robespierre divenne
subito la morte della Rivoluzione, quella vera, mentre quella di
tutti gli altri che lo precedettero o lo seguirono una conseguenza
degli avvenimenti che li ha ingoiati.