da
Gramsci
le sue idee nel nostro tempo
Editrice l'Unità, Roma 1987
Consenso
Per intendere la portata e il limite del pensiero di Gramsci attorno
ai problemi del consenso e della democrazia politica occorre innanzi
tutto considerare la tradizione storica entro la quale si muove
Gramsci. Egli ha di fronte un'Italia nella quale un suffragio
allargato è introdotto soltanto dal 1919 e ha già
avuto la terribile risposta del fascismo. Per altro verso egli
riflette sull'esperienza della rottura rivoluzionaria dell'Ottobre
che è stata bloccata dallo stalinismo principalmente per
mancanza di tradizioni e istituzioni democratiche.
Fra le due guerre mondiali la democrazia è in declino in
tutto il continente europeo e sul piano teorico subisce
contestazioni di varia natura: Weber è morto sognando una
democrazia plebiscitaria che leghi carismaticamente i capi alle
masse, Lukâcs e Schmitt — suoi allievi — chiedono regimi
«nuovi» ispirati al mito della classe operaia e del suo
partito oppure al mito della efficienza di un leader- dittatore.
Anche nella sinistra è profondamente penetrata la cultura di
un attivismo «rivoluzionario» sostanzialmente nichilista
e protestatario, cui fa riscontro la tendenza all'accettazione
del «male minore». Da una parte si pensa che la macchina
dello Stato è soltanto forza, cui va opposta la violenza
«rivoluzionaria»; dall'altra si sottintende che non
c'è sostanzialmente niente altro da fare che lasciarsi
trainare dalle «forze dirigenti».
In questo quadro assume un forte significato rinnovatore l'idea
gramsciana della egemonia. Secondo Gramsci la supremazia di un
gruppo sociale si manifesta in due modi: come dominio (coazione) e
come «direzione intellettuale e morale» (consenso). Lo
Stato non è dunque mai pura forza, né la
trasformazione può esser pura violenza. Quindi un gruppo
dominante non è per ciò stesso dirigente e un gruppo
dominato non è votato alla subalternità.
La possibilità di dissaldare la forza dal consenso si affida
all'elemento creativo e mobile di una politica capace di scavalcare
gli interessi ristretti (corporativi) di una classe per realizzare
una più vasta aggregazione di consensi attorno a un nucleo di
interessi più generali, radicati nella comunità
nazionale. Questa possibilità è legata tanto alla
capacità di cogliere gli interessi durevoli della classe
lavoratrice e la loro convergenza con gli interessi della
società nazionale, quanto alla dignità culturale di
una politica che si sente responsabile della guida di un popolo e di
una nazione. La capacità chiama in causa l'analisi delle
tendenze fondamentali che sospingono i processi sociali in corso,
mentre la dignità culturale sospinge la politica a farsi
erede e continuatrice della storia nazionale: «politica-
storia». Da qui la confluenza in Gramsci di un antidogmatico
spirito di ricerca delle prospettive con una approfondita indagine
sulla storia della nazione e della sua cultura.
Su questa linea Gramsci reagisce sia contro l'elitismo di chi
teorizza l'inevitabile e permanente scissione fra rappresentanti e
rappresentati, sia contro la denigrazione della democrazia
rappresentativa come regime dominato dal «numero».
In realtà, ragiona Gramsci, una coerente democrazia politica
«tende a far coincidere governanti e governati» e ha
quindi per modello un autogoverno generale, la crescita culturale di
tutti. D'altra parte «la numerazione dei voti è la
manifestazione terminale di un lungo processo», nel quale
vengono collaudate le proposte e le capacità della
élite di risolvere i problemi generali. Non si tratta affatto
di sostituire alla élite eletta una «élite per
decreto». Si tratta invece di immettere ne\V élite
eletta una cultura fatta di responsabilità nazionale e umana
nei confronti del proprio popolo e degli elettori-persone.
Così si allargherà il consenso attorno a chi
sarà in grado di proporre soluzioni più ragionevoli e
più umane.
Mentre sull'Europa e sul mondo si addensavano le nubi della seconda
guerra mondiale, nel carcere di Turi Gramsci non si accodava alle
scetticheggianti critiche portate alla democrazia
rappresentativa e cercava invece di orientarla a modelli
più atti a radicarla nelle grandi masse emergenti. Egli
concorreva così a determinare la rinascita democratica della
lotta antifascista, che sarebbe in certo modo culminata — in Italia
— con la conquista del suffragio universale e della Repubblica
democratica fondata sul lavoro.
Umberto Cerroni
docente di scienza della politica all'Università di Roma
«La Sapienza»