da

Dominique Grisoni, Robert Maggiori
Guida a Gramsci
BUR, Milano 1975

 SOCIOLOGIA

Il punto di vista gramsciano nei confronti della sociologia vuole essere critico nei confronti della concezione contenuta nel Manuale popolare di Bucharin e si collega al progetto di fare del marxismo una filosofia integrale e autonoma, nel senso che non può esserci sociologia che non coincida con la filosofia della prassi. Il rifiuto opposto da Gramsci alle posizioni del Manuale popolare è prima di tutto rifiuto della sociologia positivistica e non potrebbe applicarsi altrettanto efficacemente alla sociologia come si è oggi sviluppata.

La sociologia si è costituita come «così detta scienza esatta (cioè positivista) dei fatti sociali, cioè della politica e della storia» (MS, EI p. 125, ER p. 147) e in questo il suo tentativo sembra somigliare a quello della filosofia della prassi: ma, contrariamente a quest'ultima, la sociologia ha mutuato i propri principi da una filosofia preesistente, il «positivismo evoluzionistico» e ne è diventata una «tendenza», una sorta di embrione di filosofia. Dice Gramsci che essa è diventata «la filosofia dei non filosofi, un tentativo di descrivere e classificare schematicamente fatti storici e politici secondo criteri costruiti sul modello delle scienze naturali» (ivi); è proprio questa illegittima estensione dei metodi delle scienze naturali che Gramsci critica, bollando il «tentativo» di ricavare «sperimentalmente» le leggi di evoluzione della società umana in modo da «prevederne» l'avvenire «con la stessa certezza con cui si prevede che da una ghianda si svilupperà una quercia» (ivi). Alla base di questa sociologia sta infatti l'evoluzionismo che disconosce sistematicamente «il principio dialettico col passaggio dalla quantità alla qualità» (ivi), che, secondo Gramsci, turba e spezza l'armonia e la continuità uniforme di ogni «evoluzione». L'illegittimità di tale posizione si rende evidente perché la «conoscenza-coscienza umana» non può essere confusa con la «spontaneità naturalistica»: l'evoluzione sociale è dovuta a fattori tanto «coscienti», tanto artificiali, volontari e indirizzabili che è quasi impossibile fissarli in «leggi» di evoluzione e di previsione.

Gramsci nega la possibilità, da parte della sociologia, di stabilire leggi generali, assolute, «onnivalenti» (e quindi extrastoriche) o «costanti generiche e astratte», ma non esclude «l'utilità pratica di identificare certe "leggi di tendenza" più generali che corrispondono nella politica alle leggi statistiche o dei grandi numeri che hanno servito a far progredire alcune scienze naturali» (MS, EI p. 127, ER p. 149). In altri termini, Gramsci ammette, nell'ambito della filosofia della prassi, la costituzione di una «scienza della società», intesa come «scienza della storia e della politica» che, rifiutando gli schematismi classificatori, possa favorire la formazione di tecniche per il controllo dei fenomeni sociali e isolare i caratteri, più o meno ricorrenti, specifici del loro sviluppo storico. Non si tratta di ridurre la filosofia della prassi a una «sociologia», ciò significherebbe ridurre una «concezione del mondo a un formulario meccanico che dà l'impressione di avere tutta la storia in tasca» (MS, EI p. 127, ER p. 148), né di individuare una legge metafisica «deterministica o causale». Si tratta, secondo Gramsci, di «rilevare come nello svolgimento storico si costituiscano delle forze relativamente "permanenti" che operano con una certa regolarità e automatismo» (MS, EI p. 100, ER p. 117). Gramsci rifiuta dunque soltanto la sociologia positivistica e non una sociologia «scientifica» che elabori concetti di analogia, correlazione, regolarità relativa, e che sia in grado di cogliere, con «esattezza matematica», l'evoluzione delle forze materiali e di dar luogo a «osservazioni e criteri di carattere sperimentale e quindi alla ricostruzione di un robusto scheletro del divenire storico» (MS, EI p. 161, ER p. 190). Ma una sociologia di questo tipo, depurata da ogni «esperimentismo» scientistico si identifica con la filosofia della prassi nella sua accezione di metodologia generale della storia.