[Mat. Bibl.:
Vita e Opere (Treccani);
Vita e Opere (Enciclopedia Europea);
Vita e Opere (www.filosofico.net)
Cronologia delle Opere (con analisi di alcune di esse)
Txt:
Materialismo storico ed economia marxistica
Storia economico-politica e storia etico-politica
Teoria e storia della storiografia
Mat. Bibl.: Dizionario di filosofia (Treccani)]
Storiografia
§61 Punti per un saggio critico sulle due Storie del Croce: d’Italia e d’Europa. Rapporto storico tra lo Stato moderno francese nato dalla Rivoluzione e gli altri Stati moderni dell’Europa continentale. Il confronto è di importanza vitale, purché non sia fatto in base ad astratti schemi sociologici. Esso può risultare dall’esame di questi elementi: 1) esplosione rivoluzionaria in Francia con radicale e violenta mutazione dei rapporti sociali e politici; 2) opposizione europea alla Rivoluzione francese e alla sua diffusione per i «meati» di classe; 3) guerra della Francia, con la Repubblica e con Napoleone, contro l’Europa, prima per non essere soffocata, poi per costituire una egemonia permanente francese con la tendenza a formare un impero universale; 4) riscosse nazionali contro l’egemonia francese e nascita degli Stati moderni europei per piccole ondate riformistiche successive, ma non per esplosioni rivoluzionarie come quella originaria francese. Le «ondate successive» sono costituite da una combinazione di lotte sociali, di interventi dall’alto di tipo monarchia illuminata e di guerre nazionali, con prevalenza di questi ultimi due fenomeni.
Il periodo della «Restaurazione» è il più ricco di sviluppi da questo punto di vista: la restaurazione diventa la forma politica in cui le lotte sociali trovano quadri abbastanza elastici da permettere alla borghesia di giungere al potere senza rotture clamorose, senza l’apparato terroristico francese. Le vecchie classi feudali sono degradate da dominanti a «governative», ma non eliminate, né si tenta di liquidarle come insieme organico: da classi diventano «caste» con determinati caratteri culturali e psicologici, non più con funzioni economiche prevalenti.
La concezione dello Stato secondo la funzione produttiva delle classi sociali non può essere applicata meccanicamente all’interpretazione della storia italiana ed europea dalla Rivoluzione francese fino a tutto il secolo XIX. Sebbene sia certo che per le classi fondamentali produttive (borghesia capitalistica e proletariato moderno) lo Stato non sia concepibile che come forma concreta di un determinato mondo economico, di un determinato sistema di produzione, non è detto che il rapporto di mezzo e fine sia facilmente determinabile e assuma l’aspetto di uno schema semplice e ovvio a prima evidenza.
È vero che conquista del potere e affermazione di un nuovo mondo produttivo sono inscindibili, che la propaganda per l’una cosa è anche propaganda per l’altra e che in realtà solo in questa coincidenza risiede l’unità della classe dominante che è insieme economica e politica; ma si presenta il problema complesso dei rapporti delle forze interne del paese dato, del rapporto delle forze internazionali, della posizione geopolitica del paese dato.
In realtà la spinta al rinnovamento rivoluzionario può essere originata dalle necessità impellenti di un paese dato, in circostanze date, e si ha l’esplosione rivoluzionaria della Francia, vittoriosa anche internazionalmente; ma la spinta al rinnovamento può essere data dalla combinazione di forze progressive scarse e insufficienti di per sé (tuttavia ad altissimo potenziale perché rappresentano l’avvenire del loro paese) con una situazione internazionale favorevole alla loro espansione e vittoria.
La quistione può essere impostata così: essendo lo Stato la forma concreta di un mondo produttivo ed essendo gli intellettuali l’elemento sociale da cui si trae il personale governativo, è proprio dell’intellettuale non ancorato fortemente a un forte gruppo economico, di presentare lo Stato come un assoluto: così è concepita come assoluta e preminente la stessa funzione degli intellettuali, è razionalizzata astrattamente la loro esistenza e la loro dignità storica. Questo motivo è basilare per comprendere storicamente l’idealismo filosofico moderno ed è connesso al modo di formazione degli Stati moderni nell’Europa continentale come «reazione‑superamento nazionale» della Rivoluzione francese che con Napoleone tendeva a stabilire una egemonia permanente (motivo essenziale per comprendere il concetto di «rivoluzione passiva», di «restaurazione‑rivoluzione» e per capire l’importanza del confronto hegeliano tra i principii dei giacobini e la filosofia classica tedesca).
§41 XIV Le origini «nazionali» dello storicismo crociano. È da ricercare cosa significa esattamente e come è giustificata in Edgar Quinet la formula dell’equivalenza di rivoluzione‑restaurazione nella storia italiana.
È da vedere se la formula del Quinet può essere avvicinata a quella di «rivoluzione passiva» del Cuoco; esse forse esprimono il fatto storico dell’assenza di una iniziativa popolare unitaria nello svolgimento della storia italiana e l’altro fatto che lo svolgimento si è verificato come reazione delle classi dominanti al sovversivismo sporadico, elementare, disorganico delle masse popolari con «restaurazioni» che hanno accolto una qualche parte delle esigenze dal basso, quindi «restaurazioni progressive» o «rivoluzioni‑restaurazioni» o anche «rivoluzioni passive». Si potrebbe dire che si è sempre trattato di rivoluzioni dell’«uomo del Guicciardini» (nel senso desanctisiano), in cui i dirigenti hanno sempre salvato il loro «particulare»: il Cavour avrebbe appunto «diplomatizzato» la rivoluzione dell’uomo del Guicciardini ed egli stesso si avvicinava come tipo al Guicciardini.
Lo storicismo del Croce sarebbe quindi niente altro che una forma di moderatismo politico, che pone come solo metodo d’azione politica quello in cui il progresso, lo svolgimento storico, risulta dalla dialettica di conservazione e innovazione. Nel linguaggio moderno questa concezione si chiama riformismo.
§41 XVI È da vedere se, a suo modo, lo storicismo crociano non sia una forma, abilmente mascherata, di storia a disegno, come tutte le concezioni liberali riformistiche. Se si può affermare, genericamente, che la sintesi conserva ciò che è vitale ancora della tesi, superata dall’antitesi, non si può affermare, senza arbitrio, ciò che sarà conservato, ciò che a priori si ritiene vitale, senza cadere nell’ideologismo, senza cadere nella concezione di una storia a disegno.
Concepire lo svolgimento storico come un gioco sportivo col suo arbitro e le sue norme prestabilite da rispettare lealmente, è una forma di storia a disegno, in cui l’ideologia non si fonda sul «contenuto» politico ma sulla forma e sul metodo della lotta.
È un’ideologia che tende a snervare l’antitesi, a spezzettarla in una lunga serie di momenti, cioè a ridurre la dialettica a un processo di evoluzione riformistica «rivoluzione-restaurazione», in cui solo il secondo termine è valido, poiché si tratta di rabberciare continuamente dall’esterno un organismo che non possiede internamente la propria ragion di salute. Del resto si potrebbe dire che un simile atteggiamento riformistico è un’«astuzia della Provvidenza» per determinare una maturazione più rapida delle forze interne tenute imbrigliate dalla pratica riformistica.
§59 II Come occorre intendere l’espressione «condizioni materiali» e l’«insieme» di queste condizioni? Come il «passato», la «tradizione», concretamente intesi, obbiettivamente constatabili e «misurabili» con metodi di accertamento «universalmente» soggettivi, cioè appunto «oggettivi». Il presente operoso non può non continuare, sviluppandolo, il passato, non può non innestarsi nella «tradizione». Ma come riconoscere la «vera» tradizione, il «vero» passato ecc.? Cioè la storia reale, effettiva e non la velleità di fare nuova storia che cerca nel passato una sua giustificazione tendenziosa, di «superstruttura»?
È passato reale la struttura appunto, perché essa è la testimonianza, il «documento» incontrovertibile di ciò che è stato fatto e continua a sussistere come condizione del presente e dell’avvenire. Si potrà osservare che nell’esame della «struttura» i singoli critici possono sbagliare, affermando vitale ciò che è morto, o non è germe di nuova vita da sviluppare, ma il metodo stesso non può essere confutato perentoriamente. Che esista possibilità di errore è ammissibile senz’altro, ma sarà errore dei singoli critici (uomini politici, statisti) non errore di metodo.
Ogni gruppo sociale ha una «tradizione», un «passato» e pone questo come il solo e totale passato. Quel gruppo che comprendendo e giustificando tutti questi «passati», saprà identificare la linea di sviluppo reale, perciò contraddittoria, ma nella contraddizione passibile di superamento, commetterà «meno errori», identificherà più elementi «positivi» su cui far leva per creare nuova storia.
Politologia
§5 Scienza della politica. Cosa significa l’accusa di «materialismo» che spesso il Croce fa a determinate tendenze politiche? Si tratta di un giudizio di ordine teorico, scientifico, o di una manifestazione di polemica politica in atto? Materialismo, in queste polemiche, pare significhi «forza materiale», «coercizione», «fatto economico» ecc. Ma forse che la «forza materiale», la «coercizione», il «fatto economico» sono «materialistici»? Cosa significherebbe «materialismo» in questo caso? Cfr Etica e Politica, p. 341: «Vi sono tempi nei quali ecc.».1
§7 Identificazione di individuo e Stato. Per mostrare il verbalismo delle nuove enunciazioni di «economia speculativa» del gruppo Spirito e C. basta ricordare che l’identificazione di individuo e Stato è anche l’identificazione di Stato e individuo; un’identità non muta se un termine è primo o secondo nell’ordine grafico e fonico, evidentemente. Perciò dire che occorre identificare individuo e Stato è meno che nulla, è puro vaniloquio, se le cose stessero in questi termini. Se individuo significa «egoismo» in senso gretto, «sordidamente ebraico», la identificazione non sarebbe che un modo metaforico di accentuare l’elemento «sociale» dell’individuo, ossia di affermare che «egoismo» in senso economico significa qualcosa di diverso da «grettamente egoista». Mi pare che anche in questo caso si tratta della assenza di una chiara enunciazione del concetto di Stato, e della distinzione in esso tra società civile e società politica, tra dittatura ed egemonia, ecc.
§41 III L’avvicinamento dei due termini etica e politica per indicare la più recente storiografia crociana è l’espressione delle esigenze in cui si muove il pensiero storico crociano: l’etica si riferisce all’attività della società civile, all’egemonia; la politica si riferisce all’iniziativa e alla coercizione statale‑governativa. Quando c’è contrasto tra etica e politica, tra esigenze della libertà ed esigenze della forza, tra società civile e Stato‑governo c’è crisi e il Croce giunge ad affermare che il vero «Stato», cioè la forza direttiva dell’impulso storico, occorre talvolta cercarlo non là dove si crederebbe, nello Stato giuridicamente inteso, ma nelle forze «private» e anche nei così detti rivoluzionari.
Questa proposizione del Croce è molto importante per intendere appieno la sua concezione della storia e della politica. Sarebbe utile analizzare in concreto queste tesi nei libri di storia del Croce in quanto vi sono incorporate concretamente.
§41 V Deve essere criticata l’impostazione che il Croce fa della scienza politica. La politica, secondo il Croce, è l’espressione della «passione». A proposito del Sorel il Croce ha scritto (Cultura e vita morale, 2a ed., p. 158): «Il “sentimento di scissione” non l’aveva garantito (il sindacalismo) abbastanza, forse anche perché una scissione teorizzata è una scissione sorpassata; né il “mito” lo scaldava abbastanza, forse perché il Sorel, nell’atto stesso di crearlo, lo aveva dissipato, dandone la spiegazione dottrinale». Ma il Croce non si è accorto che le osservazioni fatte al Sorel si possono ritorcere contro il Croce stesso: la passione teorizzata non è anch’essa sorpassata? La passione di cui si dà una spiegazione dottrinale, non è anch’essa «dissipata»?
Né si dica che la «passione» del Croce sia cosa diversa dal «mito» soreliano, che la passione significhi la categoria, il momento spirituale della pratica, mentre il mito sia una determinata passione che come storicamente determinata può essere sorpassata e dissipata senza che perciò si annichili la categoria che è un momento perenne dello spirito; l’obbiezione è vera nel solo senso che Croce non è Sorel, cosa ovvia e banale.
Se la teoria del Croce fosse reale, la scienza politica dovrebbe essere niente altro che una nuova «Medicina» delle passioni e non è da negare che una gran parte degli articoli politici del Croce sia proprio una intellettualistica e illuministica Medicina delle passioni, così come finisce con l’essere comica la sicurezza del Croce d’aver ammazzato vasti movimenti storici nella realtà perché crede d’averli «sorpassati e dissolti» in idea.
La volontà politica deve avere qualche altra molla oltre la passione, una molla di carattere anch’essa permanente, ordinata, disciplinata ecc. Non è detto che la lotta politica, come la lotta militare, si risolvano sempre sanguinosamente, con sacrifizi personali che giungono fino al sacrifizio supremo della vita.
La diplomazia è appunto quella forma di lotta politica internazionale (e non è detto che non esista una diplomazia anche per le lotte nazionali fra partiti) che influisce per ottenere vittorie (che non sono sempre di poco momento) senza spargimento di sangue, senza guerra. Il solo paragone «astratto» fra le forze militari e politiche (alleanze ecc.) di due Stati rivali, convince il più debole a fare delle concessioni. Ecco un caso di «passione» ammaestrata e ragionevole.
Nel caso dei capi e dei gregari, avviene che i capi e i gruppi dirigenti suscitano le passioni delle folle artatamente e le conducono alla lotta e alla guerra, ma in questo caso non la passione è causa e sostanza della politica ma la condotta dei capi che si mantengono freddamente ragionatori.
L’ultima guerra ha poi mostrato che non la passione manteneva le masse militari in trincea, ma o il terrore dei tribunali militari o un senso del dovere freddamente ragionato e riflessivo.
§56 Punti per un saggio su B. Croce. Passione e politica. Che il Croce abbia identificato la politica con la passione può spiegarsi col fatto che egli si è avvicinato seriamente alla politica, interessandosi all’azione politica delle classi subalterne, che «essendo costrette», «sulla difensiva», trovandosi in caso di forza maggiore, cercando di liberarsi da un male presente (sia pure presunto ecc.) o come altrimenti si vuol dire, realmente confondono politica con passione (anche nel senso etimologico).
Ma la scienza politica non solo (secondo il Croce) deve spiegare una parte, l’azione di una parte, ma anche l’altra parte, l’azione dell’altra parte. Ciò che si deve spiegare è l’iniziativa politica, sia essa «difensiva», quindi «appassionata», ma anche «offensiva» cioè non diretta ad evitare un male presente (sia pure presunto, poiché anche il male presunto fa soffrire e in quanto fa soffrire è un male reale).
Insomma non può esserci «passione» senza antagonismo ed antagonismo tra gruppi d’uomini, perché nella lotta tra l’uomo e la natura la passione si chiama «scienza» e non «politica». Si può dire pertanto che nel Croce il termine di «passione» è uno pseudonimo per lotta sociale.
§58 Punti per un saggio su B. Croce. Passione e politica. Può nascere passione dalla preoccupazione del prezzo che può assumere la sugna di porco? Una vecchia signora che ha venti servitori può sentir passione dal pensiero di doverli ridurre a diciannove? Passione può essere un sinonimo di economia, nel senso non di produzione economica o di ricerca dell’ofelimità, ma nel senso di continuo studio perché un determinato rapporto non muti sfavorevolmente, anche se lo sfavore sia «utilità generale», libertà generale; ma allora «passione» ed «economia» significano «personalità umana» determinata storicamente in una certa società «gerarchica».
§57 Punti di meditazione sull’economia. Impostare il problema se può esistere una scienza economica e in che senso. Può darsi che la scienza economica sia una scienza sui generis, anzi unica nel suo genere. Si può vedere in quanti sensi è impiegata la parola scienza, dalle varie correnti filosofiche, e se qualcuno di questi sensi si possa applicare alle ricerche economiche.
A me pare che la scienza economica stia a sé, cioè sia una scienza unica, poiché non si può negare che sia scienza e non solo nel senso «metodologico», cioè non solo nel senso che i suoi procedimenti sono scientifici e rigorosi. Mi pare anche che non possa avvicinarsi l’economia alla matematica, sebbene tra le varie scienze la matematica forse si avvicini più di tutte all’economia. In ogni modo l’economia non può essere ritenuta una scienza naturale (qualunque sia il modo di concepire la natura o il mondo esterno, soggettivistico od oggettivistico) né una scienza «storica» nel senso comune della parola, ecc.
Non è da credere che essendo sempre esistita una «vita economica» debba sempre essere esistita la possibilità di una «scienza economica», così come essendo sempre esistito un movimento degli astri è sempre esistita la «possibilità» di un’astronomia, anche se gli astronomi si chiamavano astrologi ecc. Nell’economia l’elemento «perturbatore» è la volontà umana, volontà collettiva, diversamente atteggiata a seconda delle condizioni generali in cui gli uomini vivevano, cioè diversamente «cospirante» o organizzata.
§15 Noterelle di economia. La discussione intorno al concetto di «homo oeconomicus» è diventata una delle tante discussioni sulla così detta «natura umana». Ognuno dei disputanti ha una sua «fede», e la sostiene con argomenti di carattere prevalentemente moralistico.
L’«homo oeconomicus» è l’astrazione dell’attività economica di una determinata forma di società, cioè di una determinata struttura economica. Ogni forma sociale ha il suo «homo oeconomicus», cioè una sua attività economica. Sostenere che il concetto di homo oeconomicus scientificamente non ha valore non è che un modo di sostenere che la struttura economica e la sua attività conforme è radicalmente mutata, oppure che la struttura economica è talmente mutata che necessariamente deve mutare il modo di operare economico, perché diventi conforme alla nuova struttura. Ma appunto in ciò è dissenso, e non tanto dissenso scientifico obbiettivo, ma politico. Cosa significherebbe del resto un riconoscimento scientifico che la struttura economica è mutata radicalmente e che deve mutare l’operare economico per conformarsi alla nuova struttura? Avrebbe un significato di stimolo politico, nulla più.
Tra la struttura economica e lo Stato con la sua legislazione e la sua coercizione sta la società civile, e questa deve essere radicalmente trasformata in concreto e non solo sulla carta della legge e dei libri degli scienziati; lo Stato è lo strumento per adeguare la società civile alla struttura economica, ma occorre che lo Stato «voglia» far ciò, che cioè a guidare lo Stato siano i rappresentanti del mutamento avvenuto nella struttura economica. Aspettare che, per via di propaganda e di persuasione, la società civile si adegui alla nuova struttura, che il vecchio «homo oeconomicus» sparisca senza essere seppellito con tutti gli onori che merita, è una nuova forma di retorica economica una nuova forma di moralismo economico vacuo e inconcludente.
§27 Punti di meditazione per lo studio dell’economia. A proposito del così detto homo oeconomicus, cioè dell’astrazione dei bisogni dell’uomo, si può dire che una tale astrazione non è per nulla fuori della storia, e quantunque si presenti sotto l’aspetto delle formulazioni matematiche, non è per nulla della stessa natura delle astrazioni matematiche.
L’homo oeconomicus è l’astrazione dei bisogni e delle operazioni economiche di una determinata forma di società, così come l’insieme delle ipotesi poste dagli economisti nelle loro elaborazioni scientifiche non è altro che l’insieme delle premesse che sono alla base di una determinata forma di società.
§20 Punti per lo studio dell’economia. Polemica Einaudi ‑ Spirito sullo Stato. È da connettere con la polemica Einaudi‑Benini (Cfr Riforma Sociale di settembre-ottobre 1931).
§23 Punti di meditazione per lo studio dell’economia. Dove batte specialmente l’accento nelle ricerche scientifiche dell’economia classica e dove invece in quelle dell’economia critica, e per quali ragioni, cioè in vista di quali fini pratici da raggiungere, o in vista di quali determinati problemi teorici e pratici da risolvere?
Per l’economia critica, pare basti fissare il concetto di «lavoro socialmente necessario» per giungere al concetto di valore, perché si vuol partire dal lavoro di tutti i lavoratori per giungere a fissare la loro funzione nella produzione economica e giungere a fissare il concetto astratto e scientifico di valore e plusvalore e la funzione di tutti i capitalisti come insieme.
Per l’economia classica invece ha importanza non il concetto astratto e scientifico di valore (al quale cerca di giungere per altra via, ma solo per fini formali, di sistema armonico logicamente‑verbalmente, e vi giunge, o crede di giungervi, attraverso ricerche psicologiche, con l’utilità marginale), ma quello concreto e più immediato di profitto individuale o d’azienda; ha perciò importanza lo studio della dinamica del «lavoro socialmente necessario», che assume varie impostazioni teoriche, – di teoria dei costi comparati, di equilibrio economico statico e dinamico.
Per l’economia critica il problema interessante comincia dopo che il «lavoro socialmente necessario» è stato già stabilito in una formula matematica; per l’economia classica invece tutto l’interesse è nella fase dinamica della formazione del «lavoro socialmente necessario» locale, nazionale, internazionale, e nei problemi che le differenze dei «lavori analitici» pongono nelle varie fasi di tali lavori. È il costo comparato, cioè la comparazione del lavoro «particolare» cristallizzato nelle varie merci, che interessa l’economia classica.
Ma non interessa questa ricerca anche l’economia critica? Ed è «scientifico» che in un lavoro come il Précis non siano trattati anche questi nessi di problemi?
L’economia critica ha diverse fasi storiche e in ognuna di esse è naturale che l’accento cada sul nesso teorico e pratico storicamente prevalente. Quando gestore dell’economia è la proprietà, l’accento cade sull’«insieme» del lavoro socialmente necessario, come sintesi scientifica e matematica, perché praticamente si vuole che il lavoro diventi consapevole del suo insieme, del fatto che è specialmente un «insieme» e che come «insieme» determina il processo fondamentale del movimento economico (invece alla proprietà interessa ben poco il lavoro socialmente necessario, anche ai fini della propria costruzione scientifica; importa il lavoro particolare, nelle condizioni determinate da un dato apparato tecnico e da un dato mercato di viveri immediato, e da un dato ambiente immediato ideologico e politico, per cui, dovendosi fondare un’azienda si ricercherà di identificare queste condizioni più conformi al fine del massimo profitto «particolare» e non si ragionerà per «medie» socialmente necessarie).
§25 Punti di meditazione per lo studio dell’economia. Quando si può parlare di un inizio della scienza economica? (cfr Luigi Einaudi, Di un quesito intorno alla nascita della scienza economica, nella Riforma Sociale, marzo‑aprile 1932, a proposito di alcune pubblicazioni di Mario De Bernardi su Giovanni Botero). Se ne può parlare da quando si fece la scoperta che la ricchezza non consiste nell’oro (e quindi tanto meno nel possesso dell’oro) ma consiste nel lavoro.
Se questo è il punto di partenza della scienza economica e se in tal modo è stato fissato il concetto fondamentale dell’economia, ogni ulteriore ricerca non potrà che approfondire teoricamente il concetto di «lavoro», che intanto non potrà essere annegato nel concetto più generico di industria e di attività, ma dovrà invece essere fissato in quella attività umana che in ogni forma sociale è ugualmente necessaria. Questo approfondimento è stato compiuto dall’economia critica.
Sarà da vedere La Storia delle dottrine economiche (Das Mehrwert); del Cannan, A Review of economic Theory.
§30 Punti di meditazione per lo studio dell’economia. Osservazioni sui Principî di economia pura di M. Pantaleoni (nuova edizione 1931, Treves‑Treccani-Tumminelli).
3) La filosofia del Pantaleoni è il sensismo del secolo XVIII, sviluppato nel positivismo del secolo XIX: il suo «uomo» è l’uomo in generale, nelle premesse astratte, cioè l’uomo della biologia, un insieme di sensazioni dolorose e piacevoli, che però diventa l’uomo di una determinata forma sociale ogni qualvolta dall’astratto si passa al concreto, cioè ogni qualvolta si parla di economia e non di scienza naturale in genere. Il libro del Pantaleoni è quello che si può chiamare un’«opera materialistica» in senso «ortodosso» e scientifico!
4) Questi economisti «puri» pongono l’origine della scienza economica nella scoperta fatta da Cantillon che la ricchezza è il lavoro, è l’industria umana. Quando però cercano di fare scienza essi stessi, dimenticano le origini e affogano nell’ideologia che prima sviluppò, secondo i suoi metodi, la scoperta iniziale. Delle origini essi sviluppano non il nucleo positivo, ma l’alone filosofico legato al mondo culturale del tempo, quantunque questo mondo sia stato criticato e superato dalla cultura successiva.
5) Cosa dovrebbe sostituirsi al così detto «postulato edonistico» dell’economia «pura» in un’economia critica e storicistica? La descrizione del «mercato determinato», cioè la descrizione della forma sociale determinata, del tutto in confronto della parte, del tutto che determina, in quella determinata misura, quell’automatismo e insieme di uniformità e regolarità che la scienza economica cerca di descrivere col massimo di esattezza e precisione e completezza. Si può dimostrare che una tale impostazione della scienza economica è superiore a quella dell’economia «pura»? Si può dire che il postulato edonistico non è astratto, ma generico: infatti esso può essere premesso non alla sola economia, ma a tutta una serie di operazioni umane, che possono chiamarsi «economiche» solo allargando e genericizzando enormemente la nozione di economia fino a renderla empiricamente vuota di significato o a farla coincidere con una categoria filosofica, come infatti ha cercato di fare il Croce.
§32 Punti di meditazione per lo studio dell’economia. Intorno ai Principî di Economia Pura del Pantaleoni.
II. Occorre fissare il concetto di mercato determinato. Come viene assunto nell’economia «pura» e come nell’economia critica. Mercato determinato nell’economia pura è una astrazione arbitraria, che ha un valore puramente convenzionale ai fini di un’analisi pedantesca e scolastica. Mercato determinato per l’economia critica sarà invece l’insieme delle attività economiche concrete di una forma sociale determinata, assunte nelle loro leggi di uniformità, cioè «astratte», ma senza che l’astrazione cessi di essere storicamente determinata.
Si astrae la molteplicità individuale degli agenti economici della società moderna quando si parla di capitalisti, ma appunto l’astrazione è nell’ambito storico di una economia capitalistica e non di una generica attività economica che astragga nelle sue categorie tutti gli agenti economici apparsi nella storia mondiale riducendoli genericamente e indeterminatamente all’uomo biologico.
III. Si può domandare se l’economia pura sia una scienza oppure se essa sia «un qualche cosa d’altro» che però si muove con un metodo che in quanto metodo ha un suo rigore scientifico.
Del resto già nei cosiddetti economisti puri non c’è grande compattezza. Per alcuni è economia pura solo quella ipotetica, che imposta le sue dimostrazioni con un «supposto che», cioè è economia pura anche quella che rende astratti ossia generalizza tutti i problemi economici storicamente posti. Per altri invece è economia pura solo quella che si può dedurre dal principio economico o postulato edonistico, che cioè astrae completamente da ogni storicità e presuppone solo una generica «natura umana» uguale nel tempo e nello spazio. Ma se si tiene conto della lettera aperta dell’Einaudi a Rodolfo Benini, pubblicata nei «Nuovi Studi» qualche tempo fa, si vede che la posizione degli economisti puri è tentennante e mal sicura.
§37 Punti di meditazione per lo studio dell’economia.
I Nell’esame della quistione del metodo di ricerca economica e del concetto di astrazione, è da vedere se l’appunto critico che il Croce fa all’economia critica di procedere attraverso «una continua mescolanza di deduzione teorica e di descrizione storica, di nessi logici e di nessi di fatto» (MSEM 4a, p. 160) non sia invece uno dei tratti caratteristici della superiorità dell’economia critica sull’economia pura e una delle forze che la rendono più feconda per il progresso scientifico. Del resto sono da notare le manifestazioni dell’insoddisfazione e del fastidio da parte dello stesso Croce per i procedimenti più comuni dell’economia pura, coi suoi bizantinismi e la sua mania scolastica di rivestire di un pomposo mantello scientifico le più triviali banalità di senso comune e le più vuote generalità.
L’economia critica ha cercato un giusto contemperamento tra il metodo deduttivo e il metodo induttivo, cioè di costruire ipotesi astratte non sulla base indeterminata di un uomo in generale, storicamente indeterminato e che da nessun punto di vista può essere riconosciuto astrazione di una realtà concreta, ma sulla realtà effettuale, «descrizione storica», che dà la premessa reale per costruire ipotesi scientifiche, cioè per astrarre l’elemento economico o quelli tra gli aspetti dell’elemento economico su cui si vuole attrarre l’attenzione ed esercitare l’esame scientifico.
In tal modo non può esistere l’homo oeconomicus generico, ma può astrarsi il tipo di ognuno degli agenti o protagonisti dell’attività economica che si sono successi nella storia; il capitalista, il lavoratore, lo schiavo, il padrone di schiavi, il barone feudale, il servo della gleba. Non per nulla la scienza economica è nata nell’età moderna, quando il diffondersi del sistema capitalistico ha diffuso un tipo relativamente omogeneo di uomo economico, cioè ha creato le condizioni reali per cui un’astrazione scientifica diveniva relativamente meno arbitraria e genericamente vacua di quanto fosse prima possibile.
II. È da riflettere su questo punto: come potrebbe e dovrebbe essere compilato modernamente un sommario di scienza critica economica che riproducesse il tipo rappresentato nel passato e per le passate generazioni dai compendi del Cafiero, del Deville, del Kautsky, dell’Aveling, del Fabietti,
Si osserva:
7) che l’esposizione deve essere critica e polemica, nel senso che deve rispondere, sia pure implicitamente e per sottinteso, all’impostazione che dei problemi economici è data, nel paese determinato, dalla cultura economica più diffusa e dagli economisti ufficiali e in auge.
8) il compendio di scienza economica non può andare disgiunto da un corso di storia delle dottrine economiche. Il così detto IV volume della Critica dell’Economia politica è appunto una storia delle dottrine economiche e con questo titolo appunto è stato tradotto in francese. Tutta la concezione dell’economia critica è storicistica (ciò che non vuol dire che essa debba confondersi con la così detta scuola storica dell’economia) e la sua trattazione teorica non può scompagnarsi da una storia della scienza economica, il cui nucleo centrale oltre che nel detto IV volume può ricostruirsi in parte almeno da accenni contenuti dispersamente in tutta l’opera degli scrittori originari;
9) così non si può fare a meno di una sia pur breve introduzione generale che sulla traccia della prefazione alla 2a edizione del I volume dia un’esposizione riassuntiva della filosofia della prassi e dei principi metodologici più importanti ed essenziali, estraendoli dall’insieme delle opere economiche, dove sono incorporati nella trattazione o dispersi e accennati quando se ne presenta l’opportunità concreta.
Txt: C. Cafiero - Compendio del Capitale
Mat. Bibl.: G. Lunghini - Postfazione (Croce, Gramsci e l'economia)
§53 Punti di meditazione sull’economia. Distribuzione delle forze umane di lavoro e di consumo. Si può osservare come vadano sempre più crescendo le forze di consumo in confronto a quelle di produzione. La popolazione economicamente passiva e parassitaria. Ma il concetto di «parassitario» deve essere ben precisato. Può avvenire che una funzione parassitaria intrinsecamente si dimostri necessaria date le condizioni esistenti: ciò rende ancor più grave tale parassitismo. Appunto quando un parassitismo è «necessario», il sistema che crea tali necessità è condannato in se stesso. Ma non solo i puri consumatori aumentano di numero, aumenta anche il loro tenore di vita, cioè aumenta la quota di beni che da essi è consumata (o distrutta).
Se si osserva bene si deve giungere alla conclusione che l’ideale di ogni elemento della classe dirigente è quello di creare le condizioni in cui i suoi eredi possano vivere senza lavorare, di rendita: come è possibile che una società sia sana quando si lavora per essere in grado di non lavorare più? Poiché questo ideale è impossibile e malsano, significa che tutto l’organismo è viziato e malato. Una società che dice di lavorare per creare dei parassiti, per vivere sul così detto lavoro passato (che è metafora per indicare il presente lavoro degli altri) in realtà distrugge se stessa.
§39 Punti di riferimento per un saggio sul Croce. Nota su Luigi Einaudi. Non pare che Einaudi abbia studiato direttamente le opere di Economia critica e di filosofia della praxis; si può anzi dire che egli ne parla, specialmente della filosofia della praxis, da orecchiante, per sentito dire, spesso di terza o quarta mano.
Data la innegabile influenza intellettuale dell’Einaudi su un largo strato di intellettuali, varrebbe la pena di fare una ricerca di tutte le note in cui egli accenna alla filosofia della praxis. È inoltre da ricordare l’articolo necrologico su Piero Gobetti pubblicato dall’Einaudi nel «Baretti», che spiega l’attenzione con cui l’Einaudi rimbecca ogni scrittura dovuta a liberali in cui si riconoscono alla filosofia della praxis l’importanza e l’influsso avuti nello svolgimento della cultura moderna. È anche da ricordare a questo proposito il brano sul Gobetti nel Piemonte di Giuseppe Prato.
§55 Punti di meditazione sull’economia. Le idee di Agnelli. (Cfr Riforma Sociale, gennaio‑febbraio 1933).
Le polemiche tipo Agnelli‑Einaudi fanno pensare al fenomeno psicologico che durante la fame si pensa di più all’abbondanza di cibo: sono ironiche, per dire il meno. Intanto la discussione è sbagliata psicologicamente, perché tende a far credere che l’attuale disoccupazione sia «tecnica», mentre ciò è falso. La disoccupazione «tecnica» è poca cosa in confronto della disoccupazione generale. Inoltre. Il ragionamento è fatto come se la società fosse costituita di «lavoratori» e di «industriali» (datori di lavoro in senso stretto, tecnico), ciò che è falso e porta a ragionamenti illusori. Se così fosse, dato che l’industriale ha bisogni limitati, la quistione sarebbe semplice realmente: la quistione di ricompensare l’industriale con plus salari o premi di capacità sarebbe cosa da nulla e che nessun uomo sensato rifiuterebbe di prendere in considerazione: il fanatismo dell’eguaglianza non nasce dai «premi» che vengono dati agli industriali valenti.
Il fatto è questo: che, date le condizioni generali, il maggior profitto creato dai progressi tecnici del lavoro, crea nuovi parassiti, cioè gente che consuma senza produrre, che non «scambia» lavoro con lavoro, ma lavoro altrui con «ozio» proprio (e ozio nel senso deteriore).
Il fatto che la «società industriale» non è costituita solo di «lavoratori» e di «imprenditori», ma di «azionisti» vaganti (speculatori) turba tutto il ragionamento di Agnelli: avviene che se il progresso tecnico permette un più ampio margine di profitto, questo non sarà distribuito razionalmente ma «sempre» irrazionalmente agli azionisti e affini.
Né oggi si può dire che esistano «imprese sane». Tutte le imprese sono divenute malsane, e ciò non si dice per prevenzione moralistica o polemica, ma oggettivamente. È la stessa «grandezza» del mercato azionario che ha creato la malsania: la massa dei portatori di azioni è così grande che essa ormai ubbidisce alle leggi di «folla» (panico, ecc. che ha i suoi termini tecnici speciali nel «boom», nel «run» ecc.) e la speculazione è diventata una necessità tecnica, più importante del lavoro degli ingegneri e degli operai.
L’osservazione sulla crisi americana del 1929 appunto questo ha messo in luce: l’esistenza di fenomeni irrefrenabili di speculazione, da cui sono travolte anche le aziende «sane» per cui si può dire che «aziende sane» non ne esistono più: si può pertanto usare la parola «sana» accompagnandola da un riferimento storico: «nel senso di una volta», cioè quando esistevano certe condizioni generali che permettevano certi fenomeni generali non solo in senso relativo, ma anche in senso assoluto. (Su molte note di questo paragrafo è da vedere il libro di Sir Artur Salter: Ricostruzione: come finirà la crisi, Milano, Bompiani, 1932, pp. 398, L. 12).
Introduzione allo studio della filosofia
§54 Introduzione allo studio della filosofia. Che cosa è l’uomo? È questa la domanda prima e principale della filosofia. Come si può rispondere. La definizione si può trovare nell’uomo stesso; e cioè in ogni singolo uomo. Ma è giusta? In ogni singolo uomo si può trovare che cosa è ogni «singolo uomo». Ma a noi non interessa che cosa è ogni singolo uomo, che poi significa che cosa è ogni singolo uomo in ogni singolo momento. Se ci pensiamo, vediamo che ponendoci la domanda che cosa è l’uomo vogliamo dire: che cosa l’uomo può diventare, se cioè l’uomo può dominare il proprio destino, può «farsi», può crearsi una vita. Diciamo dunque che l’uomo è un processo e precisamente è il processo dei suoi atti.
Se ci pensiamo, la stessa domanda: cosa è l’uomo? non è una domanda astratta, o «obbiettiva». Essa è nata da ciò che abbiamo riflettuto su noi stessi e sugli altri e vogliamo sapere, in rapporto a ciò che abbiamo riflettuto e visto, cosa siamo e cosa possiamo diventare, se realmente ed entro quali limiti, siamo «fabbri di noi stessi», della nostra vita, del nostro destino. E ciò vogliamo saperlo «oggi», nelle condizioni date oggi, della vita «odierna» e non di una qualsiasi vita e di un qualsiasi uomo. La domanda è nata, riceve il suo contenuto da speciali, cioè determinati modi di considerare la vita e l’uomo: il più importante di questi modi è la «religione» ed una determinata religione, il cattolicismo.
In realtà, domandandoci: «cos’è l’uomo», quale importanza ha la sua volontà e la sua concreta attività nel creare se stesso e la vita che vive, vogliamo dire: «è il cattolicismo una concezione esatta dell’uomo e della vita? essendo cattolici, cioè facendo del cattolicismo una norma di vita, sbagliamo o siamo nel vero?»
Dal punto di vista «filosofico» ciò che non soddisfa nel cattolicismo è il fatto che esso, nonostante tutto, pone la causa del male nell’uomo stesso individuo, cioè concepisce l’uomo come individuo ben definito e limitato. Tutte le filosofie finora esistite può dirsi che riproducono questa posizione del cattolicismo, cioè concepiscono l’uomo come individuo limitato alla sua individualità e lo spirito come tale individualità. È su questo punto che occorre riformare il concetto dell’uomo.
Cioè occorre concepire l’uomo come una serie di rapporti attivi (un processo) in cui se l’individualità ha la massima importanza, non è però il solo elemento da considerare. L’umanità che si riflette in ogni individualità è composta di diversi elementi: 1) l’individuo; 2) gli altri uomini; 3) la natura. Ma il 2° e il 3° elemento non sono così semplici come potrebbe apparire. L’individuo non entra in rapporti con gli altri uomini per giustapposizione, ma organicamente, cioè in quanto entra a far parte di organismi dai più semplici ai più complessi.
Così l’uomo non entra in rapporto con la natura semplicemente, per il fatto di essere egli stesso natura, ma attivamente, per mezzo del lavoro e della tecnica. Ancora. Questi rapporti non sono meccanici. Sono attivi e coscienti, cioè corrispondono a un grado maggiore o minore d’intelligenza che di essi ha il singolo uomo. Perciò si può dire che ognuno cambia se stesso, si modifica, nella misura in cui cambia e modifica tutto il complesso di rapporti di cui egli è il centro di annodamento. In questo senso il filosofo reale è e non può non essere altri che il politico, cioè l’uomo attivo che modifica l’ambiente, inteso per ambiente l’insieme dei rapporti di cui ogni singolo entra a far parte.
Se la propria individualità è l’insieme di questi rapporti, farsi una personalità significa acquistare coscienza di tali rapporti, modificare la propria personalità significa modificare l’insieme di questi rapporti. Ma questi rapporti, come si è detto, non sono semplici. Intanto, alcuni di essi sono necessari, altri volontari. Inoltre averne coscienza più o meno profonda (cioè conoscere più o meno il modo con cui si possono modificare) già li modifica. Gli stessi rapporti necessari in quanto sono conosciuti nella loro necessità, cambiano d’aspetto e d’importanza. La conoscenza è potere, in questo senso.
Ma il problema è complesso anche per un altro aspetto: che non basta conoscere l’insieme dei rapporti in quanto esistono in un momento dato come un dato sistema, ma importa conoscerli geneticamente, nel loro moto di formazione, poiché ogni individuo non solo è la sintesi dei rapporti esistenti ma anche della storia di questi rapporti, cioè è il riassunto di tutto il passato. Si dirà che ciò che ogni singolo può cambiare è ben poco, in rapporto alle sue forze. Ciò che è vero fino a un certo punto. Poiché il singolo può associarsi con tutti quelli che vogliono lo stesso cambiamento e, se questo cambiamento è razionale, il singolo può moltiplicarsi per un numero imponente di volte e ottenere un cambiamento ben più radicale di quello che a prima vista può sembrare possibile.
Società alle quali un singolo può partecipare: sono molto numerose, più di quanto può sembrare. È attraverso queste «società» che il singolo fa parte del genere umano. Così sono molteplici i modi con cui il singolo entra in rapporto colla natura, poiché per tecnica, deve intendersi non solo quell’insieme di nozioni scientifiche applicate industrialmente che di solito s’intende, ma anche gli strumenti «mentali», la conoscenza filosofica.
Che l’uomo non possa concepirsi altro che vivente in società è luogo comune, tuttavia non se ne traggono tutte le conseguenze necessarie anche individuali: che una determinata società umana presupponga una determinata società delle cose e che la società umana sia possibile solo in quanto esiste una determinata società delle cose è anche luogo comune. È vero che finora a questi organismi oltre individuali è stato dato un significato meccanicistico e deterministico (sia la societas hominum che la societas rerum): quindi la reazione.
Bisogna elaborare una dottrina in cui tutti questi rapporti sono attivi e in movimento, fissando ben chiaro che sede di questa attività è la coscienza dell’uomo singolo che conosce, vuole, ammira, crea, in quanto già conosce, vuole, ammira, crea ecc. e si concepisce non isolato ma ricco di possibilità offertegli dagli altri uomini e dalla società delle cose, di cui non può non avere una certa conoscenza. (Come ogni uomo è filosofo, ogni uomo è scienziato ecc.).
§52 Introduzione allo studio della filosofia. Posto il principio che tutti gli uomini sono «filosofi», che cioè tra i filosofi professionali o «tecnici» e gli altri uomini non c’è differenza «qualitativa» ma solo «quantitativa» (e in questo caso «quantità» ha un significato suo particolare, che non può essere confuso con somma aritmetica, poiché indica maggiore o minore «omogeneità», «coerenza», «logicità» ecc., cioè quantità di elementi qualitativi), è tuttavia da vedere in che consista propriamente la differenza.
Così non sarà esatto chiamare «filosofia» ogni tendenza di pensiero, ogni orientamento generale ecc. e neppure ogni «concezione del mondo e della vita». Il filosofo si potrà chiamare «un operaio qualificato» in confronto ai manovali, ma neanche questo è esatto, perché nell’industria, oltre al manovale e all’operaio qualificato c’è l’ingegnere, il quale non solo conosce il mestiere praticamente, ma lo conosce teoricamente e storicamente.
Il filosofo professionale o tecnico non solo «pensa» con maggior rigore logico, con maggiore coerenza, con maggiore spirito di sistema degli altri uomini, ma conosce tutta la storia del pensiero, cioè sa rendersi ragione dello sviluppo che il pensiero ha avuto fino a lui ed è in grado di riprendere i problemi dal punto in cui essi si trovano dopo aver subito il massimo di tentativo di soluzione ecc. Hanno nel campo del pensiero la stessa funzione che nei diversi campi scientifici hanno gli specialisti.
Tuttavia c’è una differenza tra il filosofo specialista e gli altri specialisti: che il filosofo specialista si avvicina più agli altri uomini di ciò che avvenga per gli altri specialisti. L’avere fatto del filosofo specialista una figura simile, nella scienza, agli altri specialisti, è appunto ciò che ha determinato la caricatura del filosofo. Infatti si può immaginare un entomologo specialista, senza che tutti gli altri uomini siano «entomologhi» empirici, uno specialista della trigonometria, senza che la maggior parte degli altri uomini si occupino di trigonometria ecc. (si possono trovare scienze raffinatissime, specializzatissime, necessarie, ma non perciò «comuni»), ma non si può pensare nessun uomo che non sia anche filosofo, che non pensi, appunto perché il pensare è proprio dell’uomo come tale (a meno che non sia patologicamente idiota).
§9 Introduzione allo studio della filosofia. Immanenza speculativa e immanenza storicistica o realistica. Si afferma che la filosofia della praxis è nata sul terreno del massimo sviluppo della cultura della prima metà del secolo XIX, cultura rappresentata dalla filosofia classica tedesca, dall’economia classica inglese, e dalla letteratura e pratica politica francese. All’origine della filosofia della praxis sono questi tre momenti culturali. Ma in che senso occorre intendere questa affermazione? Che ognuno di questi movimenti ha contribuito a elaborare rispettivamente la filosofia, l’economia, la politica della filosofia della praxis? Oppure che la filosofia della praxis ha elaborato sinteticamente i tre movimenti, cioè l’intera cultura dell’epoca, e che nella sintesi nuova, in qualsiasi momento la si esamini, momento teorico, economico, politico, si ritrova come «momento» preparatorio ognuno dei tre movimenti? Così appunto a me pare.
E il momento sintetico unitario mi pare da identificare nel nuovo concetto di immanenza, che dalla sua forma speculativa, offerta dalla filosofia classica tedesca, è stato tradotto in forma storicistica coll’aiuto della politica francese e dell’economia classica inglese. Per ciò che riguarda i rapporti di identità sostanziale tra il linguaggio filosofico tedesco e il linguaggio politico francese cfr le note contenute sparsamente nei diversi quaderni. Ma una ricerca delle più interessanti e feconde mi pare debba essere fatta a proposito dei rapporti tra filosofia tedesca, politica francese e economia classica inglese.
In un certo senso mi pare si possa dire che la filosofia della praxis è uguale a Hegel + Davide Ricardo. Il problema è da presentare inizialmente così: i nuovi canoni metodologici introdotti dal Ricardo nella scienza economica sono da considerarsi come valori meramente strumentali (per intendersi, come un nuovo capitolo della logica formale) o hanno avuto un significato di innovazione filosofica? La scoperta del principio logico formale della «legge di tendenza», che porta a definire scientificamente i concetti fondamentali nell’economia di «homo oeconomicus» e di «mercato determinato» non è stata una scoperta di valore anche gnoseologico? Non implica appunto una nuova «immanenza», una nuova concezione della «necessità» e della libertà ecc.? Questa traduzione mi pare appunto abbia fatto la filosofia della praxis che ha universalizzato le scoperte di Ricardo estendendole adeguatamente a tutta la storia, quindi ricavandone originalmente una nuova concezione del mondo.
§10 Introduzione allo studio della filosofia. 1) Una serie di concetti da approfondire è anche quella di: empirismo ‑ realismo storicistico ‑ speculazione filosofica.
§12 Introduzione allo studio della filosofia. La proposizione contenuta nell’introduzione alla Critica dell’economia politica che gli uomini prendono coscienza dei conflitti di struttura nel terreno delle ideologie deve essere considerata come un’affermazione di valore gnoseologico e non puramente psicologico e morale.
Da ciò consegue che il principio teorico‑pratico dell’egemonia ha anche esso una portata gnoseologica e pertanto in questo campo è da ricercare l’apporto teorico massimo di Ilici [Lenin ndc] alla filosofia della praxis. Ilici avrebbe fatto progredire effettivamente la filosofia come filosofia in quanto fece progredire la dottrina e la pratica politica.
La realizzazione di un apparato egemonico, in quanto crea un nuovo terreno ideologico, determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza, è un fatto di conoscenza, un fatto filosofico. Con linguaggio crociano: quando si riesce a introdurre una nuova morale conforme a una nuova concezione del mondo, si finisce con l’introdurre anche tale concezione, cioè si determina una intera riforma filosofica.
§13 Introduzione allo studio della filosofia. Nel brano sul «materialismo francese nel secolo XVIII» (Sacra Famiglia) è abbastanza bene e chiaramente accennata la genesi della filosofia della praxis: essa è il «materialismo» perfezionato dal lavoro della stessa filosofia speculativa e fusosi con l’umanismo. È vero che con questi perfezionamenti del vecchio materialismo rimane solo il realismo filosofico.
Altro punto da meditare è questo: se la concezione di «spirito» della filosofia speculativa non sia una trasformazione aggiornata del vecchio concetto di «natura umana» proprio sia della trascendenza che del materialismo volgare, se cioè nella concezione dello «spirito» non ci sia altro che il vecchio «Spirito santo» speculativizzato. Si potrebbe allora dire che l’idealismo è intrinsecamente teologico.
§17 Introduzione allo studio della filosofia. Principi e preliminari. (Cfr quad. I, p. 63 bis). Cosa occorra intendere per filosofia, per filosofia di un’epoca storica, e quale sia l’importanza e il significato delle filosofie dei filosofi in ognuna di tali epoche storiche. Assunta la definizione che B. Croce dà della religione, cioè di una concezione del mondo che sia diventata norma di vita, poiché norma di vita non si intende in senso libresco ma attuata nella vita pratica, la maggior parte degli uomini sono filosofi in quanto operano praticamente e nel loro pratico operare (nelle linee direttive della loro condotta) è contenuta implicitamente una concezione del mondo, una filosofia.
La storia della filosofia come si intende comunemente, cioè la storia delle filosofie dei filosofi, è la storia dei tentativi e delle iniziative ideologiche di una determinata classe di persone per mutare, correggere, perfezionare le concezioni del mondo esistenti in ogni determinata epoca e per mutare quindi le conformi e relative norme di condotta, ossia per mutare la attività pratica nel suo complesso.
Dal punto di vista che a noi interessa, lo studio della storia e della logica delle diverse filosofie dei filosofi non è sufficiente. Almeno come indirizzo metodico, occorre attirare l’attenzione sulle altre parti della storia della filosofia: cioè sulle concezioni del mondo delle grandi masse, su quelle dei più ristretti gruppi dirigenti (o intellettuali) e infine sui legami tra questi vari complessi culturali e la filosofia dei filosofi.
La filosofia di un’epoca non è la filosofia di uno o altro filosofo, di uno o altro gruppo di intellettuali, di una o altra grande partizione delle masse popolari: è una combinazione di tutti questi elementi che culmina in una determinata direzione, in cui il suo culminare diventa norma d’azione collettiva, cioè diventa «storia» concreta e completa (integrale).
La filosofia di un’epoca storica non è dunque altro che la «storia» di quella stessa epoca, non è altro che la massa di variazioni che il gruppo dirigente è riuscito a determinare nella realtà precedente: storia e filosofia sono inscindibili in questo senso, formano «blocco». Possono però essere «distinti» gli elementi filosofici propriamente detti, e in tutti i loro diversi gradi: come filosofia dei filosofi, come concezione dei gruppi dirigenti (cultura filosofica) e come religioni delle grandi masse, e vedere come in ognuno di questi gradi si abbia a che fare con forme diverse di «combinazione» ideologica.
§21 Introduzione allo studio della filosofia. Filosofia «scientifica» e filosofia intesa nel senso volgare di insieme di idee e opinioni. Ma possono essere disgiunte? – Si dice «prender le cose con filosofia», «avere della filosofia», «prenderla filosoficamente», ecc. (Si potrebbero raggruppare i modi di dire popolari e le espressioni degli scrittori di carattere popolare – prendendole dai grandi vocabolari – in cui entrano le espressioni filosofia e filosoficamente, che hanno un significato molto preciso, di un superamento delle passioni elementari e bestiali in una concezione delle cose «ragionata», per cui, rendendosi conto della loro razionalità e necessità, non ci si abbandona ad escandescenze e ad atti impulsivi e irrazionali, ma si dà al proprio operare una direzione consapevole).
§24 Introduzione allo studio della filosofia. Nell’impostazione dei problemi storico‑critici, non bisogna concepire la discussione scientifica come un processo giudiziario, in cui c’è un imputato e c’è un procuratore che, per obbligo d’ufficio, deve dimostrare che l’imputato è colpevole e degno di essere tolto dalla circolazione. Nella discussione scientifica, poiché si suppone che l’interesse sia la ricerca della verità e il progresso della scienza, si dimostra più «avanzato» chi si pone dal punto di vista che l’avversario può esprimere un’esigenza che deve essere incorporata, sia pure come momento subordinato, nella propria costruzione.
Comprendere e valutare realisticamente la posizione e le ragioni dell’avversario (e talvolta è avversario tutto il pensiero passato) significa appunto essersi liberato dalla prigione delle ideologie (nel senso deteriore, di cieco fanatismo ideologico), cioè porsi da un punto di vista «critico», l’unico fecondo nella ricerca scientifica.
§28 Introduzione allo studio della filosofia. 1) Cfr Pietro Lippert, S. J., Visione Cattolica del Mondo (Die Weltanschauung des Katholizismus), traduzione di Ernesto Peternolli. Prefazione di M. Bendiscioli («Il pensiero cattolico moderno», n° 4), Brescia, «Morcelliana», 1931, pp. 190, L. 10. È da leggere, sia per il testo del padre Lippert, che è uno dei più noti scrittori gesuiti tedeschi, sia per la prefazione del Bendiscioli. Il libro è apparso nella collezione «Metaphysik und Weltanschauung» diretta dal Driesch e dallo Schingnitz.
Il Lippert, come i gesuiti tedeschi, si preoccupa di dare una soddisfazione alle esigenze che erano alla base del modernismo, ma senza cadere nelle deviazioni dall’ortodossia che furono caratteristiche del modernismo perché in questa impostazione del problema cattolico non vi è traccia di immanentismo; il Lippert e i gesuiti tedeschi non si allontanano dai dogmi sistemati dalla Chiesa coi sussidi logici e metafisici della filosofia aristotelico‑tomistica e neppure li interpretano in modo nuovo, ma intendono tradurli per l’uomo moderno nella terminologia della filosofia moderna, «rivestire realtà eterne di forme mutevoli» dice letteralmente il Lippert.
§35 Introduzione allo studio della filosofia. Si può osservare il parallelo svolgersi della democrazia moderna e di determinate forme di materialismo metafisico e di idealismo. L’uguaglianza è ricercata dal materialismo francese del secolo XVIII nella riduzione dell’uomo a categoria della storia naturale, individuo di una specie biologica, distinto non per qualificazioni sociali e storiche, ma per doti naturali; in ogni caso essenzialmente uguale ai suoi simili. Questa concezione è passata nel senso comune, che ha come affermazione popolare che «siamo nati tutti nudi» (se pure l’affermazione di senso comune non è precedente alla discussione ideologica degli intellettuali).
Nell’idealismo si ha l’affermazione che la filosofia è la scienza democratica per eccellenza in quanto si riferisce alla facoltà di ragionare comune a tutti gli uomini, cosa per cui si spiega l’odio degli aristocratici per la filosofia e le proibizioni legali contro l’insegnamento e la cultura da parte delle classi del vecchio regime.
§42 Appendice. La conoscenza filosofica come atto pratico, di volontà. Si può studiare questo problema specialmente nel Croce, ma in generale nei filosofi idealisti, perché essi insistono specialmente sulla vita intima dell’individuo‑uomo, sui fatti e sull’attività spirituale.
§43 Introduzione allo studio della filosofia. È da vedere, a questo proposito, l’opera di Vincenzo Gioberti, intitolata appunto: Introduzione allo studio della Filosofia, seconda edizione, riveduta e corretta dall’autore, Bruxelles, dalle stampe di Meline, Caus e compagnia, 1844, 4 voll., in‑8°.
Idealismo
§59 IV L’idealismo attuale fa coincidere verbalmente ideologia e filosofia (ciò che, in ultima analisi, non è altro che uno degli aspetti dell’unità superficiale postulata da esso fra reale e ideale, fra teoria e pratica ecc.) ciò che rappresenta una degradazione della filosofia tradizionale rispetto all’altezza cui l’aveva portata il Croce con la cosiddetta dialettica dei «distinti».
Tale degradazione è visibilissima negli sviluppi (o involuzioni) che l’idealismo attuale mostra nei discepoli del Gentile: i «Nuovi Studi» di Ugo Spirito e A. Volpicelli sono il documento più vistoso di questo fenomeno. L’unità di ideologia e filosofia, quando è affermata in questa forma, crea una nuova forma di sociologismo, né storia né filosofia, cioè, ma un insieme di schemi verbali astratti, sorretti da una fraseologia tediosa e pappagallesca.
La filosofia di Benedetto Croce
Alcuni criteri generali metodici per la critica della filosofia del Croce.
§1 Come si può impostare per la filosofia del Croce il problema di «rimettere l’uomo sulle proprie gambe», di farlo camminare coi piedi e non con la testa? È il problema dei residui di «trascendenza, di metafisica, di teologia» nel Croce, è il problema della qualità del suo «storicismo». Il Croce afferma spesso e volentieri di aver fatto ogni sforzo per espungere dal suo pensiero ogni traccia residua di trascendenza, di teologia, di metafisica, fino a rifiutare in filosofia ogni idea di «sistema» e di «problema fondamentale». Ma è però esatto che ci sia riuscito?
Il Croce si afferma «dialettico» (sebbene introduca nella dialettica una «dialettica dei distinti», oltre alla dialettica degli opposti, che non è riuscito a dimostrare cosa sia dialettica o cosa sia esattamente) ma il punto da chiarire è questo: nel divenire vede egli il divenire stesso o il «concetto» di divenire? Questo mi pare il punto da cui occorre partire per approfondire: 1) lo storicismo del Croce, e in ultima analisi, la sua concezione della realtà, del mondo, della vita, cioè la sua filosofia «tout court»; 2) il suo dissenso dal Gentile e dall’idealismo attuale; 3) la sua incomprensione del materialismo storico, accompagnata dall’ossessione del materialismo storico stesso.
§2 Identità di storia e filosofia. L’identità di storia e filosofia è immanente nel materialismo storico (ma, in un certo senso, come previsione storica di una fase avvenire). Ha preso il Croce l’abbrivo dalla filosofia della praxis di Antonio Labriola? In ogni modo questa identità è diventata, nella concezione del Croce, ben altra cosa da quella che è immanente nel materialismo storico: esempio gli ultimi scritti di storia etico‑politica del Croce stesso. La proposizione che il proletariato tedesco è l’erede della filosofia classica tedesca contiene appunto l’identità tra storia e filosofia; così la proposizione che i filosofi hanno finora solo spiegato il mondo e che ormai si tratta di trasformarlo.
§4 Croce e Hegel. Dall’articolo di Guido Calogero, Il neohegelismo nel pensiero italiano contemporaneo, Nuova Antologia, 16 agosto 1930 (si tratta della relazione letta in tedesco dal Calogero al l° Congresso internazionale hegeliano, tenutosi all’Aja dal 21 al 24 aprile 1930):
§41 IV Si potrebbe dire che il Croce è l’ultimo del Rinascimento e che esprime esigenze e rapporti internazionali e cosmopoliti. Ciò non vuol dire che egli non sia un «elemento nazionale», anche nel significato moderno del termine, vuol dire che anche dei rapporti ed esigenze nazionali egli esprime specialmente quelli che sono più generali e coincidono con nessi di civiltà più vasti dell’area nazionale: l’Europa, quella che suole chiamarsi civiltà occidentale ecc. Il Croce è riuscito a ricreare nella sua personalità e nella sua posizione di leader mondiale della cultura quella funzione di intellettuale cosmopolita che è stata svolta quasi collegialmente dagli intellettuali italiani dal Medio Evo fino alla fine del 600.
D’altronde, se nel Croce sono vive le preoccupazioni di leader mondiale, che lo inducono ad assumere sempre atteggiamenti equilibrati, olimpici, senza impegni troppo compromettenti di carattere temporaneo ed episodico, è anche vero che egli stesso ha inculcato il principio che in Italia, se si vuole sprovincializzare la cultura e il costume (e il provincialismo ancora permane come residuo del passato di disgregazione politica e morale) occorre elevare il tono della vita intellettuale attraverso il contatto e lo scambio di idee col mondo internazionale (era questo il programma rinnovatore del gruppo fiorentino della «Voce»), quindi nel suo atteggiamento e nella sua funzione è immanente un principio essenzialmente nazionale.
La funzione del Croce si potrebbe paragonare a quella del papa cattolico e bisogna dire che il Croce, nell’ambito del suo influsso, talvolta ha saputo condursi più abilmente del papa: nel suo concetto di intellettuale, del resto, c’è qualcosa di «cattolico e clericale», come può vedersi dalle sue pubblicazioni del tempo di guerra e come risulta anche oggi da recensioni e postille; in forma più organica e stringata la sua concezione dell’intellettuale può avvicinarsi a quella espressa da Julien Benda nel libro La trahison des clercs.
Dal punto di vista della sua funzione culturale non bisogna tanto considerare il Croce come filosofo sistematico quanto alcuni aspetti della sua attività: 1) il Croce come teorico dell’estetica e della critica letteraria ed artistica (l’ultima edizione dell’Enciclopedia Britannica ha affidato al Croce la voce «Estetica», trattazione pubblicata in Italia fuori commercio col titolo Aestethica in nuce; il Breviario d’Estetica è stato compilato per gli Americani. In Germania sono molti i seguaci dell’Estetica crociana); 2) il Croce come critico della filosofia della praxis e come teorico della storiografia; 3) specialmente il Croce come moralista e maestro di vita, costruttore di principii di condotta che astraggono da ogni confessione religiosa, anzi mostrano come si può «vivere senza religione».
Quello del Croce è un ateismo da signori, un anticlericalismo che aborre la rozzezza e la grossolanità plebea degli anticlericali sbracati, ma si tratta sempre di ateismo e di anticlericalismo; si domanda perciò perché il Croce non si sia messo a capo, se non attivamente, almeno dando il suo nome e il suo patrocinio, a un movimento italiano di Kulturkampf, che avrebbe avuto un’enorme importanza storica (per l’atteggiamento ipocrita dei crociani verso il clericalismo è da vedere l’articolo di G. Prezzolini La paura del prete nel volume Mi pare... stampato dalla casa editrice Delta di Fiume).
continua (riportato in Religione §41 IV)
Si pone il problema di chi rappresenti più adeguatamente la società contemporanea italiana dal punto di vista teorico e morale: il papa, Croce, Gentile; cioè: 1) chi abbia più importanza dal punto di vista dell’egemonia, come ordinatore dell’ideologia che dà il cemento più intimo alla società civile e quindi allo Stato; 2) chi all’estero rappresenti meglio l’influsso italiano nel quadro della cultura mondiale. Il problema non è di facile risoluzione, perché ognuno dei tre domina ambienti e forze sociali diverse.
Il papa come capo e guida della maggioranza dei contadini italiani e delle donne, e perché la sua autorità e influsso operano con tutta una organizzazione accentrata e bene articolata, è una grande, la più grande forza politica del paese dopo il governo; ma è la sua una autorità diventata passiva e accettata per inerzia, che anche prima del Concordato era, di fatto, un riflesso dell’autorità statale. Per questa ragione è difficile fare un paragone tra l’influsso del papa e quello di un privato nella vita culturale.
Un paragone più razionale può farsi tra il Croce e il Gentile, ed è subito evidente che l’influsso del Croce, nonostante tutte le apparenze, è di molto superiore a quello del Gentile.
L’influsso del Croce è meno rumoroso di quello del Gentile ma più profondo e radicato; Croce è realmente una specie di papa laico, ma la morale del Croce è troppo da intellettuali, troppo del tipo Rinascimento, non può diventare popolare, mentre il papa e la sua dottrina influenzano masse sterminate di popolo con massime di condotta che si riferiscono anche alle cose più elementari.
§41 X L’importanza che hanno avuto il machiavellismo e l’antimachiavellismo in Italia per lo sviluppo della scienza politica e il significato che in questo svolgimento hanno avuto recentemente la proposizione del Croce sull’autonomia del momento politico‑economico e le pagine dedicate al Machiavelli. Si può dire che il Croce non sarebbe giunto a questo risultato senza l’apporto culturale della filosofia della praxis? È da ricordare in proposito che il Croce ha scritto di non poter capire come mai nessuno abbia pensato di svolgere il concetto che il fondatore della filosofia della praxis ha compiuto, per un gruppo sociale moderno, la stessa opera compiuta dal Machiavelli al suo tempo.
Da questo paragone del Croce si potrebbe dedurre tutta l’ingiustizia dell’attuale suo atteggiamento culturale, anche perché il fondatore della filosofia della praxis ha avuto interessi molto più vasti del Machiavelli e dello stesso Botero (che per il Croce integra Machiavelli nello svolgimento della scienza politica, sebbene ciò non sia molto esatto, se del Machiavelli non si considera solo il Principe ma anche i Discorsi) non solo, ma in lui è contenuto in nuce anche l’aspetto etico‑politico della politica o la teoria dell’egemonia e del consenso, oltre all’aspetto della forza e dell’economia.
La quistione è questa: dato il principio crociano della dialettica dei distinti (che è da criticare come soluzione puramente verbale di una reale esigenza metodologica, in quanto è vero che non esistono solo gli opposti, ma anche i distinti) quale rapporto che non sia quello di «implicazione nell’unità dello spirito» esisterà tra il momento economico‑politico e le altre attività storiche? È possibile una soluzione speculativa di questi problemi, o solo una soluzione storica, data dal concetto di «blocco storico» presupposto dal Sorel?
C’è una esigenza reale nel distinguere gli opposti dai distinti, ma c’è anche una contraddizione in termini, perché dialettica si ha solo degli opposti. Vedere le obbiezioni non verbalistiche presentate dai gentiliani a questa teoria crociana e risalire allo Hegel? È da vedere se il movimento da Hegel a Croce‑Gentile non sia stato un passo indietro, una riforma «reazionaria». Non hanno essi reso più astratto Hegel? Non ne hanno tagliato via la parte più realistica, più storicistica? e non è invece proprio di questa parte che solo la filosofia della praxis, in certi limiti, è una riforma e un superamento? E non è stato proprio l’insieme della filosofia della praxis a far deviare in questo senso il Croce e il Gentile, sebbene essi di questa filosofia si siano serviti per dottrine particolari? (cioè per ragioni implicitamente politiche?) Tra Croce‑Gentile ed Hegel si è formato un anello tradizione Vico‑Spaventa‑(Gioberti). Ma ciò non significò un passo indietro rispetto ad Hegel?
Hegel non può essere pensato senza la Rivoluzione francese e Napoleone con le sue guerre, senza cioè le esperienze vitali e immediate di un periodo storico intensissimo di lotte, di miserie, quando il mondo esterno schiaccia l’individuo e gli fa toccare la terra, lo appiattisce contro la terra, quando tutte le filosofie passate furono criticate dalla realtà in modo così perentorio? Cosa di simile potevano dare Vico e Spaventa? (Anche Spaventa che partecipò a fatti storici di portata regionale e provinciale, in confronto a quelli dall’89 al 1815 che sconvolsero tutto il mondo civile d’allora e costrinsero a pensare «mondialmente»? Che misero in movimento la «totalità» sociale, tutto il genere umano concepibile, tutto lo «spirito»? Ecco perché Napoleone può apparire ad Hegel lo «spirito del mondo» a cavallo!) A quale movimento storico di grande portata partecipa il Vico?
Quantunque la sua genialità consista appunto nell’aver concepito un vasto mondo da un angoletto morto della «storia» aiutato dalla concezione unitaria e cosmopolita del cattolicismo... In ciò la differenza essenziale tra Vico ed Hegel, tra dio e la provvidenza e Napoleone ‑ spirito del mondo, tra una astrazione remota e la storia della filosofia concepita come sola filosofia, che porterà all’identificazione sia pure speculativa tra storia e filosofia, del fare e del pensare, fino al proletariato tedesco come solo erede della filosofia classica tedesca.
§41 XI La biografia politico‑intellettuale del Croce non è raccolta tutta nel Contributo alla critica di me stesso. Per ciò che riguarda i suoi rapporti con la filosofia della praxis, molti elementi e spunti essenziali sono disseminati in tutte le opere.
§46 Introduzione allo studio della filosofia. La quistione della «oggettività esterna del reale» in quanto è connessa col concetto della «cosa in sé» e del «noumeno» kantiano. Pare difficile escludere che la «cosa in sé» sia una derivazione dell’«oggettività esterna del reale» e del così detto realismo greco‑cristiano (Aristotele ‑ S. Tomaso) e ciò si vede anche dal fatto che tutta una tendenza del materialismo volgare e del positivismo ha dato luogo alla scuola neokantiana o neo‑critica. Cfr a proposito della kantiana «cosa in sé» ciò che è scritto nella Sacra Famiglia.
§48 Introduzione allo studio della filosofia.
I. Il senso comune o buon senso. In che consiste esattamente il pregio di quello che suol chiamarsi «senso comune» o «buon senso»? Non solamente nel fatto che, sia pure implicitamente, il senso comune impiega il principio di causalità, ma nel fatto molto più ristretto, che in una serie di giudizi il senso comune identifica la causa esatta, semplice e alla mano, e non si lascia deviare da arzigogolature e astruserie metafisiche, pseudo‑profonde, pseudo‑scientifiche ecc.
Il «senso comune» non poteva non essere esaltato nei secoli XVII e XVIII, quando si reagì al principio di autorità rappresentato dalla Bibbia e da Aristotele: si scoprì infatti che nel «senso comune» c’era una certa dose di «sperimentalismo» e di osservazione diretta della realtà, sia pure empirica e limitata. Anche oggi, in rapporti simili, si ha lo stesso giudizio di pregio del senso comune, sebbene la situazione sia mutata e il «senso comune» odierno abbia molta più limitatezza nel suo pregio intrinseco.
La quistione è sempre la stessa: cos’è l’uomo? cos’è la natura umana? Se si definisce l’uomo come individuo, psicologicamente e speculativamente, questi problemi del progresso e del divenire sono insolubili o rimangono di mera parola. Ma se si concepisce l’uomo come l’insieme dei rapporti sociali, intanto appare che ogni paragone tra uomini nel tempo è impossibile, perché si tratta di cose diverse, se non eterogenee. D’altronde, poiché l’uomo è anche l’insieme delle sue condizioni di vita, si può misurare quantitativamente la differenza tra il passato e il presente, poiché si può misurare la misura in cui l’uomo domina la natura e il caso.
La possibilità non è la realtà, ma è anch’essa una realtà: che l’uomo possa fare una cosa o non possa farla, ha la sua importanza per valutare ciò che realmente si fa. Possibilità vuol dire «libertà». La misura delle libertà entra nel concetto d’uomo. Che ci siano le possibilità obbiettive di non morire di fame, e che si muoia di fame ha la sua importanza, a quanto pare. Ma l’esistenza delle condizioni obbiettive, o possibilità o libertà non è ancora sufficiente: occorre «conoscerle» e sapersene servire. Volersene servire.
L’uomo, in questo senso, è volontà concreta, cioè applicazione effettuale dell’astratto volere o impulso vitale ai mezzi concreti che tale volontà realizzano. Si crea la propria personalità: 1) dando un indirizzo determinato e concreto («razionale») al proprio impulso vitale o volontà; 2) identificando i mezzi che rendono tale volontà concreta e determinata e non arbitraria; 3) contribuendo a modificare l’insieme delle condizioni concrete che realizzano questa volontà nella misura dei propri limiti di potenza e nella forma più fruttuosa.
L’uomo è da concepire come un blocco storico di elementi puramente individuali e soggettivi e di elementi di massa e oggettivi o materiali coi quali l’individuo è in rapporto attivo. Trasformare il mondo esterno, i rapporti generali, significa potenziare se stesso, sviluppare se stesso. Che il «miglioramento» etico sia puramente individuale è illusione ed errore: la sintesi degli elementi costitutivi dell’individualità è «individuale», ma essa non si realizza e sviluppa senza un’attività verso l’esterno, modificatrice dei rapporti esterni, da quelli verso la natura a quelli verso gli altri uomini in vari gradi, nelle diverse cerchie sociali in cui si vive, fino al rapporto massimo, che abbraccia tutto il genere umano. Perciò si può dire che l’uomo è essenzialmente «politico», poiché l’attività per trasformare e dirigere coscientemente gli altri uomini realizza la sua «umanità», la sua «natura umana».
Mat. Bibl.: Giacomo Pezzano -Ripensare (con) Marx: la natura umana tra filosofia, scienza e capitale
§59 III Vedere se il principio di «distinzione», cioè quella che il Croce chiama «dialettica dei distinti» non sia stato determinato dalla riflessione sul concetto astratto di «homo oeconomicus» proprio dell’economia classica. Posto che tale astrazione ha una portata e un valore puramente «metodologici» o addirittura di tecnica della scienza (cioè immediato ed empirico), è da vedere come il Croce abbia elaborato tutto il sistema dei «distinti».
§50 Introduzione allo studio della filosofia. I. È da vedere il libretto di Paul Nizan Les chiens de garde, Paris, Rieder, 1932; polemica contro la filosofia moderna, pare in sostegno della filosofia della prassi.
continua (riportato in Concetti filosofici §50)
Punti di riferimento per un saggio su Croce
§11 Punti di riferimento per un saggio su B. Croce. Per comprendere l’atteggiamento del Croce nel secondo dopoguerra
§14 Punti di riferimento per un saggio su B. Croce. La posizione relativa del Croce nella gerarchia intellettuale della classe dominante è mutata dopo il Concordato e l’avvenuta fusione in una unità morale dei due tronconi di questa stessa classe. Occorre una doppia opera di educazione da parte dei responsabili: educazione del nuovo personale dirigente da «trasformare» e assimilare e educazione della parte cattolica, che per lo meno dovrà essere subordinata (anche subordinare è educare, in certe condizioni).
L’entrata in massa dei cattolici nella vita statale dopo il Concordato (e sono entrati questa volta come e in quanto cattolici e anzi con privilegi culturali) ha reso molto più difficile l’opera di «trasformismo» delle forze nuove d’origine democratica.
§16 Punti di riferimento per un saggio su B. Croce. Possono avere avuto importanza per il Croce gli amichevoli avvertimenti di L. Einaudi a proposito del suo atteggiamento di critico «disinteressato» della filosofia della praxis? È la stessa quistione presentata in altra forma: quanto sia l’elemento pratico immediato che spinge il Croce alla sua posizione attuale «liquidazionista». Si può osservare infatti come il Croce non intenda per nulla entrare in polemica coi filosofi della praxis, e come questa polemica lo interessi così poco da non spingerlo neppure a ricercare informazioni un po’ più abbondanti ed esatte di quelle di cui evidentemente dispone.
Si può dire che il Croce non tanto si interessi di combattere la filosofia della praxis quanto l’economismo storico, cioè l’elemento di filosofia della praxis che è penetrato nella concezione del mondo tradizionale, disgregandola e perciò rendendola meno resistente «politicamente»; non tanto si interessi di «convertire» gli avversari, quanto di rafforzare il suo campo; cioè il Croce presenta come «offensiva» una attività che è meramente «difensiva».
Se così non fosse il Croce dovrebbe (avrebbe dovuto) rivedere «sistematicamente» la sua opera specializzata sulla filosofia della praxis, confessare di essersi sbagliato completamente allora, dimostrare questi errori passati in contrasto con le convinzioni attuali ecc. In un uomo così accurato e scrupoloso come il Croce, il nessun interesse verso l’obbiettiva esigenza di giustificare logicamente quest’ultimo passaggio dei suoi modi di pensare, è per lo meno strano e non può essere spiegato altrimenti che con interessi pratici immediati.
§18 Punti di riferimento per un saggio su B. Croce. A proposito della nota precedente di questa rubrica sui rapporti tra il Croce e l’Einaudi, in una nota si potrebbe osservare come l’Einaudi non sia sempre un lettore molto attento e accurato del Croce.
§22 Punti di riferimento per un saggio su Croce.
Occorre dare il senso dell’importanza culturale che ha il Croce non solo in Italia, ma in Europa, e quindi del significato che ha la rapida e grande diffusione dei suoi più recenti libri quali sono le Storie d’Italia e d’Europa. Che il Croce si proponga l’educazione delle classi dirigenti non mi par dubbio. Ma come effettivamente viene accolta la sua opera educativa, a quali «leghe» ideologiche dà luogo? Quali sentimenti positivi fa nascere?
È un luogo comune pensare che l’Italia ha attraversato tutte le esperienze politiche dello sviluppo storico moderno e che pertanto ideologie e istituzioni conformi a queste ideologie sarebbero per il popolo italiano cavoli rifatti, repugnanti al palato. Intanto non è vero che si tratti di cavoli riscaldati: il «cavolo» è stato mangiato solo «metaforicamente» dagli intellettuali, e sarebbe riscaldato solo per questi. Non è «riscaldato» e quindi disgustoso per il popolo (a parte il fatto che il popolo, quando ha fame, mangia cavoli riscaldati anche due o tre volte). Il Croce ha un bel corazzarsi di sarcasmo per l’eguaglianza, la fratellanza, ed esaltare la libertà – sia pure speculativa –. Essa sarà compresa come eguaglianza e fratellanza e i suoi libri appariranno come l’espressione e la giustificazione implicita di un costituentismo che trapela da tutti i pori di quell’Italia «qu’on ne voit pas»1 e che solo da dieci anni sta facendo il suo apprendissaggio politico.
§26 Punti di riferimento per un saggio sul Croce. Giudizi del Croce sul libro del De Man Il superamento mostrano che nell’atteggiamento del Croce, nel periodo attuale, l’elemento «pratico» immediato soverchia la preoccupazione e gli interessi teorici e scientifici. Il De Man è infatti una derivazione della corrente psicanalitica e tutta la presunta originalità delle sue ricerche è data dall’impiego di una terminologia psicanalitica esteriore e appiccicata. La stessa osservazione si può fare per il De Ruggiero che ha recensito non solo il Superamento ma anche La gioia del lavoro e ha poi scritto una stroncatura un po’ affrettata e superficiale di Freud e della psicanalisi, senza però aver rilevato che il De Man ne dipende strettamente.
§29 Punti di riferimento per un saggio sul Croce.
I. Premesso che le due ultime storie, quella d’Italia e quella d’Europa, sono state pensate all’inizio della guerra mondiale, per concludere un processo di meditazioni e di riflessioni sulle cause di quegli avvenimenti del 1914 e 1915, si può domandare quale preciso scopo «educativo» esse abbiano. Preciso, specialmente preciso. E si conclude che non l’hanno, che anche esse rientrano in quella letteratura sul «Risorgimento» di carattere spiccatamente letterario e ideologico, che nella realtà non riuscì a interessare che ristretti gruppi intellettuali: tipico esempio il libro di Oriani sulla Lotta politica.
Sono stati notati gli interessi attuali del Croce e quindi gli scopi pratici che ne scaturiscono: si nota appunto che essi sono «generici», di educazione astratta e «metodologica», per così dire, «predicatorii» in una parola. L’unico punto preciso la quistione «religiosa», ma anche esso si può dire «preciso»? La posizione anche nel problema della religione rimane da intellettuale e sebbene non si possa negare che anche tale posizione sia importante, occorre dire che essa è insufficiente.
§31 Punti di riferimento per un saggio sul Croce. I. Nesso tra filosofia, religione, ideologia (nel senso crociano). Se per religione si ha da intendere una concezione del mondo (una filosofia) con una norma di condotta conforme, quale differenza può esistere tra religione e ideologia (o strumento d’azione) e in ultima analisi, tra ideologia e filosofia? Esiste o può esistere filosofia senza una volontà morale conforme? I due aspetti della religiosità, la filosofia e la norma di condotta, possono concepirsi come staccate e come possono essere state concepite come staccate? E se la filosofia e la morale sono sempre unitarie, perché la filosofia deve essere logicamente precedente alla pratica e non viceversa? O non è un assurdo una tale impostazione e non deve concludersi che «storicità» della filosofia significa niente altro che sua «praticità»?
Si può forse dire che il Croce ha sfiorato il problema in Conversazioni critiche, I, pp. 298‑99‑300, dove analizzando alcune delle Glosse al Feuerbach giunge alla conclusione che in esse «dinanzi alla filosofia preesistente» prendono la parola «non già altri filosofi, come si aspetterebbe, ma i rivoluzionari pratici», che il Marx «non tanto capovolgeva la filosofia hegeliana, quanto la filosofia in genere, ogni sorta di filosofia; e il filosofare soppiantava con l’attività pratica». Ma non si tratta, invece della rivendicazione, di fronte alla filosofia «scolastica», puramente teorica o contemplativa, di una filosofia che produca una morale conforme, una volontà attualizzatrice e in essa si identifichi in ultima analisi?
La tesi XI: «I filosofi hanno soltanto variamente interpretato il mondo; si tratta ora di cangiarlo», non può essere interpretata come un gesto di ripudio di ogni sorta di filosofia, ma solo di fastidio per i filosofi e il loro psittacismo e l’energica affermazione di una unità tra teoria e pratica.
Si può vedere con maggiore esattezza e precisione il significato che la filosofia della praxis ha dato alla tesi hegeliana che la filosofia si converte nella storia della filosofia, cioè della storicità della filosofia. Ciò porta alla conseguenza che occorre negare la «filosofia assoluta» astratta o speculativa, cioè la filosofia che nasce dalla precedente filosofia e ne eredita i «problemi supremi», così detti, o anche solo il «problema filosofico», che diventa pertanto un problema di storia, di come nascono e si sviluppano i determinati problemi della filosofia. La precedenza passa alla pratica, alla storia reale dei mutamenti dei rapporti sociali, dai quali quindi (e quindi, in ultima analisi, dall’economia) sorgono (o sono presentati) i problemi che il filosofo si propone ed elabora.
Che una esigenza storica sia concepita da un filosofo «individuo» in modo individuale e personale e che la particolare personalità del filosofo incida profondamente sulla concreta forma espressiva della sua filosofia, è evidente senz’altro. Che questi caratteri individuali abbiano importanza, è anche senz’altro da concedere. Ma che significato avrà questa importanza? Non sarà puramente strumentale e funzionale, dato che se è vero che la filosofia non si sviluppa da altra filosofia ma è una continua soluzione di problemi che lo sviluppo storico propone, è anche vero che ogni filosofo non può trascurare i filosofi che l’hanno preceduto e anzi di solito opera proprio come se la sua filosofia fosse una polemica o uno svolgimento delle filosofie precedenti, delle concrete opere individuali dei filosofi precedenti. Talvolta anzi «giova» proporre una propria scoperta di verità come se fosse svolgimento di una tesi precedente di altro filosofo, perché è una forza innestarsi nel particolare processo di svolgimento della particolare scienza cui si collabora.
In ogni modo appare quale sia stato il nesso teorico per cui la filosofia della praxis, pur continuando l’hegelismo, lo «capovolge», senza perciò, come crede il Croce, voler «soppiantare» ogni sorta di filosofia.
Se la filosofia è storia della filosofia, se la filosofia è «storia», se la filosofia si sviluppa perché si sviluppa la storia generale del mondo (e cioè i rapporti sociali in cui gli uomini vivono) e non già perché a un grande filosofo succede un più grande filosofo e così via, è chiaro che lavorando praticamente a fare storia, si fa anche filosofia «implicita», che sarà «esplicita» in quanto dei filosofi la elaboreranno coerentemente, si suscitano dei problemi di conoscenza che oltre alla forma «pratica» di soluzione troveranno, prima o poi, la forma teorica per opera degli specialisti, dopo aver immediatamente trovato la forma ingenua del senso comune popolare cioè degli agenti pratici delle trasformazioni storiche.
Txt.: M. Stirner - L'unico e la sua proprietà
§34 Punti di riferimento per un saggio sul Croce.
§41 Punti di riferimento per un saggio sul Croce.
I. Discorso del Croce alla sezione di Estetica del Congresso filosofico di Oxford (riassunto nella «Nuova Italia» del 20 ottobre 1930): svolge in forma estrema le tesi sulla filosofia della praxis esposte nella Storia della Storiografia italiana nel secolo XIX. Questo più recente punto di vista critico del Croce sulla filosofia della praxis (che innova completamente quello sostenuto nel suo volume MSEM) come può essere giudicato criticamente? Si dovrà giudicare non come un giudizio da filosofo, ma come un atto politico di portata pratica immediata.
È certo che della filosofia della praxis si è formata una corrente deteriore, che può essere considerata in rapporto alla concezione dei fondatori della dottrina come il cattolicismo popolare in rapporto a quello teologico o degli intellettuali: come il cattolicismo popolare può essere tradotto nei termini del paganesimo, o di religioni inferiori al cattolicismo per le superstizioni e le stregonerie da cui erano o sono dominate, così la filosofia della praxis deteriore può essere tradotta in termini «teologici» o trascendentali, cioè delle filosofie prekantiane e precartesiane.
Per una filosofia è una forza o una debolezza di avere oltrepassato i soliti limiti dei ristretti ceti intellettuali e di diffondersi nelle grandi masse sia pure adattandosi alla mentalità di queste e perdendo poco o molto del suo nerbo? E che significato ha il fatto di una concezione del mondo che in tal modo si diffonde e si radica e continuamente ha dei momenti di ripresa e di nuovo splendore intellettuale? È una ubbia da intellettuali fossilizzati credere che una concezione del mondo possa essere distrutta da critiche di carattere razionale: quante volte non si è parlato di «crisi» della filosofia della praxis? e che cosa significa questa crisi permanente? non significa forse la vita stessa che procede per negazioni di negazioni? Ora, chi ha conservato la forza delle successive riprese teoriche se non la fedeltà delle masse popolari che si erano appropriate la concezione, sia pure in forme superstiziose e primitive?
Il recente atteggiamento del Croce verso la filosofia della praxis (la cui manifestazione più cospicua è stata finora il discorso alla sezione di Estetica del Congresso di Oxford) non è solo un rinnegamento (anzi un capovolgimento) della prima posizione assunta dal Croce prima del 1900 (quando scriveva che il nome di «materialismo» era solo un modo di dire e polemizzava col Plekhanov dando ragione al Lange di non aver parlato della filosofia della praxis nella sua Storia del Materialismo), capovolgimento non giustificato logicamente, ma è anche un rinnegamento, anch’esso non giustificato, della sua propria filosofia passata (almeno di una parte cospicua di essa) in quanto il Croce era un filosofo della praxis «senza saperlo» (sarà da vedere il saggio di Gentile in proposito contenuto nel volume Saggi Critici, Serie seconda, ediz. Vallecchi, Firenze).
Alcune quistioni poste dal Croce sono puramente verbali. Quando egli scrive che le superstrutture sono concepite come apparenze, non pensa che ciò può significare semplicemente qualcosa di simile alla sua affermazione della non «definitività» ossia della «storicità» di ogni filosofia? Quando per ragioni «politiche», pratiche, per rendere indipendente un gruppo sociale dall’egemonia di un altro gruppo, si parla di «illusione», come si può confondere in buona fede un linguaggio polemico con un principio gnoseologico? E come spiega il Croce la non definitività delle filosofie? Da una parte egli fa questa affermazione gratuitamente, senza giustificarla altro che con il principio generale del «divenire», dall’altra riafferma il principio (già da altri affermato) che la filosofia non è una cosa astratta ma è la risoluzione dei problemi che la realtà nel suo svolgimento incessantemente presenta.
La filosofia della praxis intende invece giustificare non con principi generici, ma con la storia concreta, la storicità delle filosofie, storicità che è dialettica perché dà luogo a lotte di sistemi, a lotte tra modi di vedere la realtà, e sarebbe strano che chi è convinto della propria filosofia, ritenesse concrete e non illusorie le credenze avversarie (e di questo si tratta, poiché altrimenti i filosofi della praxis dovrebbero ritenere illusorie le loro proprie concezioni o essere degli scettici e degli agnostici). Ma il più interessante è questo: che la dottrina dell’origine pratica dell’errore del Croce non è altro che la filosofia della praxis ridotta a una dottrina particolare. In questo caso l’errore del Croce è l’illusione dei filosofi della praxis.
Solo che errore e illusione deve significare nel caso di questa filosofia niente altro che «categoria storica» transeunte per i cambiamenti della pratica, cioè l’affermazione della storicità delle filosofie non solo, ma anche una spiegazione realistica di tutte le concezioni soggettivistiche della realtà. La teoria delle superstrutture non è che la soluzione filosofica e storica dell’idealismo soggettivistico.
Accanto alla dottrina dell’origine pratica dell’errore è da porre la teoria delle ideologie politiche spiegate dal Croce nel loro significato di strumenti pratici d’azione: ma dove trovare il limite tra ciò che deve essere inteso come ideologia nel senso stretto crociano e l’ideologia nel senso della filosofia della praxis cioè tutto l’insieme delle soprastrutture? Anche in questo caso la filosofia della praxis ha servito al Croce per costruire una dottrina particolare.
L’affermazione del Croce che la filosofia della praxis «stacca» la struttura dalle superstrutture, rimettendo così in vigore il dualismo teologico e ponendo un «dio ignoto‑struttura» non è esatta e non è neanche molto profonda invenzione. L’accusa di dualismo teologico e di disgregazione del processo del reale è vacua e superficiale. È strano che una tale accusa sia venuta dal Croce, che ha introdotto il concetto di dialettica dei distinti e che per ciò è continuamente accusato dai gentiliani di aver appunto disgregato il processo del reale.
Ma, a parte ciò, non è vero che la filosofia della praxis «stacchi» la struttura dalle superstrutture quando invece concepisce il loro sviluppo come intimamente connesso e necessariamente interrelativo e reciproco. Né la struttura è neanche per metafora paragonabile a un «dio ignoto»: essa è concepita in modo ultrarealistico, tale da poter essere studiata coi metodi delle scienze naturali ed esatte e anzi appunto per questa sua «consistenza» oggettivamente controllabile la concezione della storia è stata ritenuta «scientifica». Forse che la struttura è concepita come qualcosa di immobile ed assoluto o non invece come la realtà stessa in movimento e l’affermazione delle Tesi su Feuerbach dell’«educatore che deve essere educato» non pone un rapporto necessario di reazione attiva dell’uomo sulla struttura, affermando l’unità del processo del reale?
§45 Punti per un saggio sul Croce. È da confrontare a proposito della Storia d’Europa il saggio di Arrigo Cajumi Dall’Ottocento ad oggi (nella «Cultura» di aprile‑giugno 1932, pp. 323‑50).
§47 Punti per un saggio su B. Croce. Croce e J. Benda. Si può fare un paragone tra le idee e la posizione assunta da B. Croce e il diluvio di scritti di J. Benda sul problema degli intellettuali (oltre al libro sul Tradimento degli intellettuali del Benda bisognerebbe esaminare gli articoli pubblicati nelle «Nouvelles Littéraires» e forse in altre riviste). In realtà tra il Croce e il Benda, nonostante certe apparenze, l’accordo è solo superficiale o per qualche particolare aspetto della quistione.
Nel Croce esiste una costruzione organica di pensiero, una dottrina sullo Stato, sulla religione e sulla funzione degli intellettuali nella vita statale, che non esiste nel Benda, che è più che altro un «giornalista». Bisogna anche dire che la posizione degli intellettuali in Francia e in Italia è molto diversa, organicamente e immediatamente; le preoccupazioni politico‑ideologiche del Croce non sono quelle del Benda anche per questa ragione. Ambedue sono «liberali», ma con tradizioni nazionali e culturali ben diverse.
§49 Punti per un saggio sul Croce. Dall’«Italia Letteraria» del 20 marzo 1932 riporto alcuni brani dell’articolo di Roberto Forges Davanzati sulla Storia d’Europa del Croce, pubblicato nella «Tribuna» del 10 marzo (La storia come azione e la storia come dispetto):
§59 Note per un saggio su B. Croce. I. Il Croce come uomo di partito. Distinzione del concetto di partito: 1) Il partito come organizzazione pratica (o tendenza pratica), cioè come strumento per la soluzione di un problema o di un gruppo di problemi della vita nazionale e internazionale. In questo senso il Croce non appartenne mai esplicitamente a nessuno dei gruppi liberali, anzi esplicitamente combatté l’idea stessa e il fatto dei partiti permanentemente organizzati (Il Partito come giudizio e pregiudizio, in Cultura e Vita Morale, saggio pubblicato in uno dei primi numeri della «Unità» fiorentina) e si pronunziò a favore dei movimenti politici che non si pongono un «programma» definito, «dogmatico», permanente, organico, ma tendono volta per volta a risolvere problemi politici immediati.
D’altronde tra le varie tendenze liberali il Croce manifestò la sua simpatia per quella conservatrice, rappresentata dal «Giornale d’Italia».
Concetti filosofici
§8 Libertà e «automatismo» o razionalità. Sono in contrasto la libertà e il così detto automatismo? L’automatismo è in contrasto con l’arbitrio, non con la libertà. L’automatismo è una libertà di gruppo, in opposizione all’arbitrio individualistico.
In ogni momento c’è una scelta libera, che avviene secondo certe linee direttrici identiche per una gran massa di individui o volontà singole, in quanto queste sono diventate omogenee in un determinato clima etico‑politico.
Né è da dire che tutti operano in modo uguale: gli arbitrî individuali sono anzi molteplici, ma la parte omogenea predomina e «detta legge». Che se l’arbitrio si generalizza, non è più arbitrio ma spostamento della base dell’«automatismo», nuova razionalità.
Automatismo è niente altro che razionalità, ma nella parola «automatismo» è il tentativo di dare un concetto spoglio di ogni alone speculativo: è possibile che la parola razionalità finisca coll’attribuirsi all’automatismo nelle operazioni umane, mentre quella «automatismo» tornerà a indicare il movimento delle macchine, che diventano «automatiche» dopo l’intervento dell’uomo e il cui automatismo è solo una metafora verbale, come lo è detto delle operazioni umane.
§51 Punti per un saggio sul Croce. Sul concetto di «libertà». Dimostrare che eccettuati i «cattolici», tutte le altre correnti filosofiche e pratiche si svolgono sul terreno della filosofia della libertà e dell’attuazione della libertà. Questa dimostrazione è necessaria, perché è vero che si è formata una mentalità sportiva che ha fatto della libertà un pallone con cui giocare al football. Ogni «villan che parteggiando viene» immagina se stesso dittatore e il mestiere del dittatore sembra facile: dare ordini imperiosi, firmare carte ecc. poiché si immagina che «per grazia di dio» tutti ubbidiranno e gli ordini verbali e scritti diverranno azione: il verbo si farà carne. Se non si farà, vuol dire che occorrerà attendere ancora finché la «grazia» (ossia le cosiddette «condizioni obbiettive») lo renderanno possibile.
§6 Introduzione allo studio della filosofia.
I. Il termine di «catarsi». Si può impiegare il termine di «catarsi» per indicare il passaggio dal momento meramente economico (o egoistico‑passionale) al momento etico-politico, cioè l’elaborazione superiore della struttura in superstruttura nella coscienza degli uomini. Ciò significa anche il passaggio dall’«oggettivo al soggettivo» e dalla «necessità alla libertà». La struttura da forza esteriore che schiaccia l’uomo, lo assimila a sé, lo rende passivo, si trasforma in mezzo di libertà, in strumento per creare una nuova forma etico‑politica, in origine di nuove iniziative. La fissazione del momento «catartico» diventa così, mi pare, il punto di partenza per tutta la filosofia della praxis; il processo catartico coincide con la catena di sintesi che sono risultato dello svolgimento dialettico. (Ricordare i due punti tra cui oscilla questo processo: – che nessuna società si pone compiti per la cui soluzione non esistano già o siano in via di apparizione le condizioni necessarie e sufficienti – e che nessuna società perisce prima di aver espresso tutto il suo contenuto potenziale).
§48 [...] II. Progresso e divenire. Si tratta di due cose diverse o di aspetti diversi di uno stesso concetto? Il progresso è una ideologia, il divenire è una concezione filosofica. Il «progresso» dipende da una determinata mentalità, a costituire la quale entrano certi elementi culturali storicamente determinati; il «divenire» è un concetto filosofico, da cui può essere assente il «progresso».
La nascita e lo sviluppo dell’idea del progresso corrisponde alla coscienza diffusa che è stato raggiunto un certo rapporto tra la società e la natura (incluso nel concetto di natura quello di caso e di «irrazionalità») tale per cui gli uomini, nel loro complesso, sono più sicuri del loro avvenire, possono concepire «razionalmente» dei piani complessivi della loro vita. Per combattere l’idea di progresso il Leopardi deve ricorrere alle eruzioni vulcaniche, cioè a quei fenomeni naturali che sono ancora «irresistibili» e senza rimedio. Ma nel passato c’erano ben più numerose forze irresistibili: carestie, epidemie, ecc. che entro certi limiti sono state dominate.
Che il progresso sia stata una ideologia democratica è indubbio; che abbia servito politicamente alla formazione dei moderni Stati costituzionali ecc. pure. Che oggi non sia più in auge, anche; ma in che senso? Non in quello che si sia perduto la fede nella possibilità di dominare razionalmente la natura e il caso, ma in senso «democratico»; cioè che i «portatori» ufficiali del progresso sono divenuti incapaci di questo dominio, perché hanno suscitato forze distruttive attuali altrettanto pericolose e angosciose di quelle del passato (ormai dimenticate «socialmente» se non da tutti gli elementi sociali, perché i contadini continuano a non comprendere il «progresso», cioè credono di essere, e sono ancora troppo in balia delle forze naturali e del caso, conservano quindi una mentalità «magica», medioevale, «religiosa») come le «crisi», la disoccupazione ecc.
La crisi dell’idea di progresso non è quindi crisi dell’idea stessa, ma crisi dei portatori di essa idea, che sono diventati «natura» da dominare essi stessi. Gli assalti all’idea di progresso, in questa situazione, sono molto interessati e tendenziosi.
Può disgiungersi l’idea di progresso da quella di divenire? Non pare. Esse sono nate insieme, come politica (in Francia), come filosofia (in Germania, poi sviluppata in Italia). Nel «divenire» si è cercato di salvare ciò che di più concreto è nel «progresso», il movimento e anzi il movimento dialettico (quindi anche un approfondimento, perché il progresso è legato alla concezione volgare dell’evoluzione).
§50 [...] II. Quantità è qualità. Poiché non può esistere quantità senza qualità e qualità senza quantità (economia senza cultura, attività pratica senza intelligenza e viceversa) ogni contrapposizione dei due termini è un non senso razionalmente. E infatti, quando si contrappone la qualità alla quantità con tutte le variazioni melense alla Guglielmo Ferrero e Co., in realtà si contrappone una certa qualità ad altra qualità, una certa quantità ad altra quantità, cioè si fa una certa politica e non si fa un’affermazione filosofica.
Se il nesso quantità‑qualità è inscindibile si pone la quistione: ove sia più utile applicare la propria forza di volere: a sviluppare la quantità o la qualità? quale dei due aspetti è più controllabile? quale più facilmente misurabile? su quale si possono fare previsioni, costruire piani di lavoro? La risposta non pare dubbia: sull’aspetto quantitativo. Affermare pertanto che si vuole lavorare sulla quantità, che si vuole sviluppare l’aspetto «corposo» del reale non significa che si voglia trascurare la «qualità», ma significa invece che si vuole porre il problema qualitativo nel modo più concreto e realistico, cioè si vuole sviluppare la qualità nel solo modo in cui tale sviluppo è controllabile e misurabile.
§40 Introduzione allo studio della filosofia. Il «noumeno» kantiano. Se la realtà è come noi la conosciamo e la nostra conoscenza muta continuamente, se cioè nessuna filosofia è definitiva ma è storicamente determinata, è difficile immaginare che la realtà oggettivamente muti col nostro mutare ed è difficile ammetterlo non solo per il senso comune ma anche per il pensiero scientifico. Nella Sacra Famiglia si dice che la realtà si esaurisce tutta nei fenomeni e che al di là dei fenomeni non c’è nulla, e così è certamente. Ma la dimostrazione non è agevole.
Cosa sono i fenomeni? Sono qualcosa di oggettivo, che esistono in sé e per sé, o sono qualità che l’uomo ha distinto in conseguenza dei suoi interessi pratici (la costruzione della sua vita economica) e dei suoi interessi scientifici, cioè della necessità di trovare un ordine nel mondo e di descrivere e classificare le cose (necessità che è anch’essa legata a interessi pratici mediati e futuri)?
Posta l’affermazione che ciò che noi conosciamo nelle cose è niente altro che noi stessi, i nostri bisogni e i nostri interessi, cioè che le nostre conoscenze sono soprastrutture (o filosofie non definitive) è difficile evitare che si pensi a qualcosa di reale al di là di queste conoscenze, non nel senso metafisico di un «noumeno», di un «dio ignoto» o di «un inconoscibile», ma nel senso concreto di una «relativa ignoranza» della realtà, di qualcosa di ancora «sconosciuto» che però potrà essere un giorno conosciuto quando gli strumenti «fisici» e intellettuali degli uomini saranno più perfetti, cioè quando saranno mutate, in senso progressivo le condizioni sociali e tecniche della umanità. Si fa quindi una previsione storica che consiste semplicemente nell’atto del pensiero che proietta nell’avvenire un processo di sviluppo come quello che si è verificato dal passato ad oggi. In ogni modo occorre studiare Kant e rivedere i suoi concetti esattamente.
§60 La proposizione che occorre rimettere «l’uomo sui suoi piedi».
Il Croce si domanda (verificare dove e come) da dove Marx abbia preso questa immagine, come se essa non fosse stata impiegata dallo Hegel nei suoi scritti. L’immagine è cosi poco «libresca», che dà l’impressione di essere scaturita da una conversazione.
Antonio Labriola nello scritto Da un secolo all’altro scrive: «Gli è proprio quel codino di Hegel che disse come quegli uomini (della Convenzione) avessero pei primi, dopo Anassagora, tentato di capovolgere la nozione del mondo, poggiando questo sulla ragione» (ed. Dal Pane, p. 45).
Questa proposizione, sia nell’impiego fattone da Hegel, sia in quello fattone dalla filosofia della prassi, è da confrontare col parallelo, fatto dallo stesso Hegel e che ha uno spunto nella Sacra Famiglia, tra il pensiero pratico‑giuridico francese e quello speculativo tedesco (a questo proposito è da vedere il quaderno su «Introduzione allo studio della filosofia» p. 59).
§41 VIII Il punto più importante in cui il Croce riassume le critiche, secondo lui decisive e che avrebbero rappresentato un’epoca storica, è la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 nel capitolo in cui accenna alla fortuna della filosofia della praxis e dell’economia critica.
Nella prefazione alla seconda edizione del volume MSEM egli fissa in quattro le tesi principali del suo revisionismo: la prima che la filosofia della praxis debba valere come semplice canone di interpretazione, e la seconda che la teoria del valore‑lavoro sia niente altro che il risultato di un paragone ellittico tra due tipi di società, egli afferma essere «state generalmente accolte», «sono divenute usuali, e si odono ormai ripetere quasi senza che si ricordi chi le ha messe pel primo in circolazione». La terza tesi, critica della legge circa la caduta del saggio del profitto («legge che, se fosse esattamente stabilita, ... importerebbe né più né meno che la fine automatica e imminente (!?) della società capitalistica») «è forse più dura ad accettare»; ma il Croce si allieta dell’adesione dell’«economista e filosofo» Ch. Andler (nelle Notes critiques de science sociale, Parigi, anno I, n. 5, 10 marzo 1900, p. 77). La quarta tesi, quella di un’economia filosofica, «è offerta più propriamente alla meditazione dei filosofi» e il Croce rimanda al suo futuro volume sulla pratica. Per i rapporti tra filosofia della praxis e lo hegelismo rimanda al suo saggio sullo Hegel.
§31 [...] II. La critica crociana della filosofia della praxis può prendere le mosse dalle sue affermazioni perentorie in proposito nella Storia d’Italia e nella Storia d’Europa, in cui il Croce dà come definitive e ormai comunemente accettate le sue conclusioni, ma sarà esposta in forma sistematica. Intanto occorre notare che le affermazioni del Croce sono state molto meno assiomatiche e formalmente decise di quanto egli voglia oggi fare apparire.
La teoria del valore è tutt’altro che intrinsecamente negata nel suo saggio principale: egli afferma che sola «teoria del valore» scientifica è quella del grado finale d’utilità, e che la teoria del valore marxista è «un’altra cosa», ma come «altra cosa» ne riconosce la saldezza e l’efficacia e domanda agli economisti di ribatterla con ben altri argomenti da quelli che di solito impiegano il Böhm‑Bawerk e C.
La sua tesi sussidiaria, poi, che si tratti di un paragone ellittico, oltre che non giustificata, è di fatto inficiata subito dall’osservazione che si tratta di una continuazione logica della teoria ricardiana del valore e che il Ricardo non faceva certo «paragoni ellittici». La riduzione della filosofia della praxis a canone empirico di interpretazione è solamente affermata con metodo indiretto di esclusione, cioè ancora non dall’intrinseco. Per il Croce si tratta certamente di «qualche cosa» di importante, ma siccome non può essere né questo né quello ecc. sarà un canone d’interpretazione. Non pare che la dimostrazione sia conclusiva.
La stessa prudenza formale appare nello scritto sulla caduta del saggio di profitto: cosa avrà voluto dire l’autore della teoria? Se ha voluto dir questo, non è esatto. Ma ha voluto dir questo? Dunque occorre ancora pensarci su, ecc. È anzi da porre in rilievo come questo atteggiamento prudente sia completamente mutato in questi anni e tutto sia diventato perentorio e definitivo nello stesso momento in cui è maggiormente acritico e ingiustificato.
§38 Punti di riferimento per un saggio su Croce
I. Che la teoria del valore nella economia critica non sia una teoria del valore, ma «qualcosa d’altro» fondato su un paragone ellittico, cioè con riferimento a una ipotetica società avvenire ecc. Ma la dimostrazione non è riuscita e la confutazione di essa è contenuta implicitamente nello stesso Croce (cfr il primo capitolo del saggio Per la interpretazione e la critica ecc.). Occorre dire che la trovata del paragone ellittico è puramente letteraria; infatti la teoria del valore‑lavoro ha tutta una storia che culmina nelle dottrine di Ricardo e i rappresentanti storici di tale dottrina non intendevano fare certo dei paragoni ellittici. (Questa obbiezione è stata enunziata dal prof. Graziadei nel volumetto Capitale e salari; sarebbe da vedere se fu presentata prima e da chi. Essa è così ovvia che dovrebbe venire subito sulla punta del pennino).
È da vedere anche se il Croce conoscesse il volume Das Mehrwert, in cui l’esposizione dello svolgimento storico della teoria del valore‑lavoro è contenuta. (Confronti cronologici tra la pubblicazione del Mehrwert, avvenuta postuma e dopo i volumi 2 e 3 della Critica dell’Economia politica, e il saggio del Croce).
La quistione quindi è questa: il tipo di ipotesi scientifica propria dell’Economia critica che astrae non principii economici dell’uomo in generale, di tutti i tempi e luoghi, ma delle leggi di un determinato tipo di società, è arbitrario o invece più concreto del tipo di ipotesi dell’economia pura? E posto che un tipo di società si presenta pieno di contraddizioni, è corretto astrarre solo uno dei termini di questa contraddizione?
D’altronde ogni teoria è un paragone ellittico, poiché c’è sempre un paragone tra i fatti reali e l’«ipotesi» depurata di questi fatti. Quando il Croce dice che la teoria del valore non è la «teoria del valore» ma qualcosa d’altro, in realtà non distrugge la teoria stessa ma pone una quistione formale di nomenclatura: ecco perché gli economisti ortodossi non furono contenti del suo saggio (cfr nel libro MSEM l’articolo in polemica col prof. Racca).
Così non è valida l’osservazione a proposito del termine «plusvalore», il quale invece esprime con molta chiarezza ciò che si vuol dire appunto per le ragioni per cui il Croce lo critica; si tratta della scoperta di un fatto nuovo, il quale viene espresso con un termine la cui novità consiste nella formazione, appunto contradditoria in confronto della scienza tradizionale; che non possano esistere «plusvalori» alla lettera può esser giusto, ma il neologismo ha un significato metaforico, non letterale, cioè è una nuova parola che non si risolve nel valore letterale delle originarie forme etimologiche.
§33 Punti di riferimento per un saggio su Croce. Nello scritto sulla caduta tendenziale del saggio del profitto è da notare un errore fondamentale del Croce. Questo problema è già impostato nel I volume della Critica dell’economia politica, là dove si parla del plusvalore relativo e del progresso tecnico come causa appunto di plusvalore relativo; nello stesso punto si osserva come in questo processo si manifesti una contraddizione, cioè mentre da un lato il progresso tecnico permette una dilatazione del plusvalore, dall’altro determina, per il cangiamento che introduce nella composizione del capitale, la caduta tendenziale del saggio del profitto e ciò è dimostrato nel III volume della Critica dell’Economia Politica.
Il Croce presenta come obbiezione alla teoria esposta nel III volume quella parte di trattazione che è contenuta nel I volume, cioè espone come obbiezione alla legge tendenziale della caduta del saggio del profitto la dimostrazione dell’esistenza di un plusvalore relativo dovuto al progresso tecnico, senza però mai accennare una sola volta al I volume, come se l’obbiezione fosse scaturita dal suo cervello, o addirittura fosse un portato del buon senso. (Tuttavia occorrerà rivedere i testi della Critica dell’Economia politica prima di presentare questa critica all’obbiezione del Croce, cautela che d’altronde si intende necessaria per tutte queste note, che sono state scritte in grandissima parte fondandosi sulla memoria).
In ogni caso è da fissare che la quistione della legge tendenziale del saggio del profitto non può essere studiata solamente sull’esposizione data dal III volume; questa trattazione è l’aspetto contraddittorio della trattazione esposta nel I volume, da cui non può essere staccata. Inoltre occorrerà forse meglio determinare il significato di legge «tendenziale»: poiché ogni legge in Economia politica non può non essere tendenziale, dato che si ottiene isolando un certo numero di elementi e trascurando quindi le forze controperanti, sarà forse da distinguere un grado maggiore o minore di tendenzialità e mentre di solito l’aggettivo «tendenziale» si sottintende come ovvio, si insiste invece su di esso quando la tendenzialità diventa un carattere organicamente rilevante come in questo caso in cui la caduta del saggio del profitto è presentata come l’aspetto contraddittorio di un’altra legge, quella della produzione del plusvalore relativo, in cui una tende ad elidere l’altra con la previsione che la caduta del saggio del profitto sarà la prevalente.
Quando si può immaginare che la contraddizione giungerà a un nodo di Gordio, insolubile normalmente, ma domandante l’intervento di una spada di Alessandro? Quando tutta l’economia mondiale sarà diventata capitalistica e di un certo grado di sviluppo: quando cioè la «frontiera mobile» del mondo economico capitalistico avrà raggiunto le sue colonne d’Ercole. Le forze controperanti della legge tendenziale e che si riassumono nella produzione di sempre maggiore plusvalore relativo hanno dei limiti, che sono dati, per esempio, tecnicamente dall’estensione della resistenza elastica della materia e socialmente dalla misura sopportabile di disoccupazione in una determinata società. Cioè la contraddizione economica diventa contraddizione politica e si risolve politicamente in un rovesciamento della praxis.
§36 Punti di riferimento per un saggio su Croce. Dopo aver notato che nel suo scritto sulla caduta del saggio del profitto il Croce non fa che presentare come obbiezione l’altro aspetto contraddittorio del processo legato al progresso tecnico cioè la teoria del plusvalore relativo, già studiato nel I volume della Critica dell’economia politica, occorre notare che il Croce dimentica nella sua analisi un elemento fondamentale nella formazione del valore e del profitto cioè il «lavoro socialmente necessario», la cui formazione non può essere studiata e rilevata in una sola fabbrica o impresa.
Il progresso tecnico dà appunto alla singola impresa la chance molecolare di aumentare la produttività del lavoro al di sopra della media sociale e quindi di realizzare profitti eccezionali (come è stato studiato nel I volume), ma appena il progresso dato si socializza, questa posizione iniziale viene perduta gradatamente e funziona la legge della media sociale del lavoro che attraverso la concorrenza abbassa prezzi e profitti: in quel punto si ha una caduta del saggio del profitto, perché la composizione organica del capitale si manifesta sfavorevole.
Gli impresari tendono a prolungare per quanto è possibile la chance iniziale anche per mezzo dell’intervento legislativo: difesa dei brevetti, dei segreti industriali ecc., che però non può che essere limitato ad alcuni aspetti del progresso tecnico, forse secondari, ma che in ogni modo hanno il loro peso non certo irrilevante.
Il mezzo più efficace degli impresari singoli per sfuggire alla legge della caduta è quello di introdurre incessantemente nuove modificazioni progressive in tutti i campi del lavoro e della produzione, senza trascurare gli apporti minimi di progresso che nelle grandissime aziende, moltiplicati per una grande scala, danno risultati molto apprezzabili.
Tutta l’attività industriale di Henry Ford si può studiare da questo punto di vista: una lotta continua, incessante per sfuggire alla legge della caduta del saggio del profitto, mantenendo una posizione di superiorità sui concorrenti. Il Ford è dovuto uscire dal campo strettamente industriale della produzione per organizzare anche i trasporti e la distribuzione della sua merce, determinando così una distribuzione della massa del plusvalore più favorevole all’industriale produttore.
L’errore del Croce è di varia natura: parte dal presupposto che ogni progresso tecnico determini immediatamente, come tale, una caduta del saggio del profitto, ciò che è erroneo perché la Critica dell’economia politica afferma solo che il progresso tecnico determina un processo di sviluppo contradditorio, uno dei cui aspetti è la caduta tendenziale.
È da svolgere l’accenno sul significato che «tendenziale» deve avere, riferito alla legge della caduta del profitto. È evidente che in questo caso la tendenzialità non può riferirsi solo alle forze controperanti nella realtà ogni volta che da essa si astraggono alcuni elementi isolati per costruire un’ipotesi logica. Poiché la legge è l’aspetto contraddittorio di un’altra legge, quella del plusvalore relativo che determina l’espansione molecolare del sistema di fabbrica e cioè lo sviluppo stesso del modo di produzione capitalistico, non può trattarsi di tali forze controperanti come quelle delle ipotesi economiche comuni. In questo caso la forza controperante è essa stessa studiata organicamente e dà luogo a una legge altrettanto organica che quella della caduta.
Il significato di «tendenziale» pare dover essere pertanto di carattere «storico» reale e non metodologico: il termine appunto serve a indicare questo processo dialettico per cui la spinta molecolare progressiva porta a un risultato tendenzialmente catastrofico nell’insieme sociale, risultato da cui partono altre spinte singole progressive in un processo di continuo superamento che però non può prevedersi infinito, anche se si disgrega in un numero molto grande di fasi intermedie di diversa misura e importanza.
Per la stessa ragione non è completamente esatto dire come fa il Croce nella prefazione alla seconda edizione del suo libro che la legge circa la caduta del saggio del profitto, se fosse esattamente stabilita, come credeva il suo autore, «importerebbe né più né meno che la fine automatica e imminente della società capitalistica». Niente di automatico e tanto meno di imminente. Questa illazione del Croce è dovuta appunto all’errore di aver esaminato la legge della caduta del saggio del profitto isolandola dal processo in cui è stata concepita e isolandola non ai fini scientifici di una migliore esposizione, ma come se essa fosse valida «assolutamente» e non invece come termine dialettico di un più vasto processo organico.
Che in molti la legge sia stata interpretata nello stesso modo del Croce, non esonera questo da una certa responsabilità scientifica.
§41 XII Uno dei punti che più interessa di esaminare ed approfondire è la dottrina crociana delle ideologie politiche.
La dottrina del Croce sulle ideologie politiche è di evidentissima derivazione dalla filosofia della praxis: esse sono costruzioni pratiche, strumenti di direzione politica, cioè si potrebbe dire, le ideologie sono per i governati delle mere illusioni, un inganno subito, mentre sono per i governanti un inganno voluto e consapevole. Per la filosofia della praxis le ideologie sono tutt’altro che arbitrarie; esse sono fatti storici reali, che occorre combattere e svelare nella loro natura di strumenti di dominio non per ragioni di moralità ecc. ma proprio per ragioni di lotta politica: per rendere intellettualmente indipendenti i governati dai governanti, per distruggere un’egemonia e crearne un’altra, come momento necessario del rovesciamento della praxis. Pare che all’interpretazione materialistica volgare si avvicini più il Croce che la filosofia della praxis.
Per la filosofia della praxis le superstrutture sono una realtà (o lo diventano, quando non sono pure elucubrazioni individuali) oggettiva ed operante; essa afferma esplicitamente che gli uomini prendono conoscenza della loro posizione sociale e quindi dei loro compiti sul terreno delle ideologie, ciò che non è piccola affermazione di realtà; la stessa filosofia della praxis è una superstruttura, è il terreno in cui determinati gruppi sociali prendono coscienza del proprio essere sociale, della propria forza, dei propri compiti, del proprio divenire. In questo senso è giusta l’affermazione dello stesso Croce (MSEM, IV ed., p. 118) che la filosofia della praxis «è storia fatta o in fieri».
C’è però una differenza fondamentale tra la filosofia della praxis e le altre filosofie: le altre ideologie sono creazioni inorganiche perché contraddittorie, perché dirette a conciliare interessi opposti e contraddittori; la loro «storicità» sarà breve perché la contraddizione affiora dopo ogni avvenimento di cui sono state strumento. La filosofia della praxis invece non tende a risolvere pacificamente le contraddizioni esistenti nella storia e nella società, anzi è la stessa teoria di tali contraddizioni; non è lo strumento di governo di gruppi dominanti per avere il consenso ed esercitare l’egemonia su classi subalterne; è l’espressione di queste classi subalterne che vogliono educare se stesse all’arte di governo e che hanno interesse a conoscere tutte le verità, anche le sgradevoli e ad evitare gli inganni (impossibili) della classe superiore e tanto più di se stesse.
La critica delle ideologie, nella filosofia della praxis, investe il complesso delle superstrutture e afferma la loro caducità rapida in quanto tendono a nascondere la realtà, cioè la lotta e la contraddizione, anche quando sono «formalmente» dialettiche (come il crocismo) cioè spiegano una dialettica speculativa e concettuale e non vedono la dialettica nello stesso divenire storico.
Il concetto del valore concreto (storico) delle superstrutture nella filosofia della praxis deve essere approfondito accostandolo al soreliano concetto di «blocco storico». Se gli uomini acquistano coscienza della loro posizione sociale e dei loro compiti nel terreno delle superstrutture, ciò significa che tra struttura e superstruttura esiste un nesso necessario e vitale. Bisognerebbe studiare contro quali correnti storiografiche la filosofia della praxis ha reagito nel momento della sua fondazione e quali erano le opinioni più diffuse in quel tempo anche riguardo alle altre scienze.
Le stesse immagini e metafore cui ricorrono spesso i fondatori della filosofia della praxis danno indizi in proposito: l’affermazione che l’economia è per la società ciò che l’anatomia nelle scienze biologiche; ed è da ricordare la lotta che nelle scienze naturali è avvenuta per scacciare dal terreno scientifico principi di classificazione basati su elementi esteriori e labili. Se gli animali fossero classificati dal colore della pelle, o del pelo o delle piume, tutti oggi protesterebbero.
Nel corpo umano non si può certo dire che la pelle (e anche il tipo di bellezza fisica storicamente prevalente) siano mere illusioni e che lo scheletro e l’anatomia siano la sola realtà, tuttavia per molto tempo si è detto qualcosa di simile. Mettendo in valore l’anatomia e la funzione dello scheletro nessuno ha voluto affermare che l’uomo (e tanto meno la donna) possano vivere senza di essa. Continuando nella metafora si può dire che non è lo scheletro (in senso stretto) che fa innamorare di una donna, ma che tuttavia si comprende quanto lo scheletro contribuisca alla grazia dei movimenti ecc. ecc.
Nota I. I fenomeni della moderna decomposizione del parlamentarismo possono offrire molti esempi sulla funzione e il valore concreto delle ideologie. Come questa decomposizione viene presentata per nascondere le tendenze reazionarie di certi gruppi sociali è del più alto interesse. Su questi argomenti sono state scritte molte note sparse in vari quaderni (per es. sulla quistione della crisi del principio d’autorità ecc.) che raccolte insieme sono da rimandare a queste note sul Croce.
§ 41 [...] Si parla spesso che in certi paesi il non esserci stata la riforma religiosa è causa di regresso in tutti i campi della vita civile e non si osserva che appunto la diffusione della filosofia della praxis è la grande riforma dei tempi moderni, è una riforma intellettuale e morale che compie su scala nazionale ciò che il liberalismo non è riuscito a compiere che per ristretti ceti della popolazione. Appunto l’analisi che il Croce ha fatto nella Storia dell’Europa delle religioni e il concetto che il Croce ha elaborato di religione servono a comprendere meglio il significato storico della filosofia della praxis e le ragioni della sua resistenza a tutti gli attacchi e a tutte le diserzioni.
La posizione del Croce è quella dell’uomo del Rinascimento verso la Riforma protestante con la differenza che il Croce rivive una posizione che storicamente si è dimostrata falsa e reazionaria e che egli stesso (e i suoi scolari: cfr il volume del De Ruggiero su Rinascimento e Riforma) ha contribuito a dimostrare falsa e reazionaria.
Croce è essenzialmente anticonfessionale (non possiamo dire antireligioso data la sua definizione del fatto religioso), e per un largo gruppo di intellettuali italiani ed europei la sua filosofia, specialmente nelle sue manifestazioni meno sistematiche (come le recensioni, le postille ecc. raccolte nei volumi come Cultura e vita morale, Conversazioni critiche, Frammenti di Etica ecc.) è stata una vera e propria riforma intellettuale e morale di tipo «Rinascimento».
«Vivere senza religione» (e s’intende senza confessione religiosa) è stato il succo che il Sorel ha tratto dalla lettura del Croce (cfr Lettere di G. Sorel a B. Croce pubblicate nella «Critica» del 1927 e sgg.)1. Ma il Croce non è «andato al popolo», non è voluto diventare un elemento «nazionale» (come non lo sono stati gli uomini del Rinascimento, a differenza dei luterani e calvinisti), non ha voluto creare una schiera di discepoli che, in sua sostituzione (dato che egli personalmente volesse serbare la sua energia per la creazione di un’alta coltura) potessero popolarizzare la sua filosofia, tentando di farla diventare un elemento educativo fin dalle scuole elementari (e quindi educativo per il semplice operaio e contadino, cioè per il semplice uomo del popolo). Forse ciò era impossibile, ma valeva la pena che fosse tentato e il non averlo tentato ha pure un significato.
Croce in qualche libro ha scritto qualcosa di questo genere: «Non si può togliere la religione all’uomo del popolo, senza subito sostituirla con qualcosa che soddisfi le stesse esigenze per cui la religione è nata e ancora permane». C’è del vero in questa affermazione, ma non contiene questa una confessione dell’impotenza della filosofia idealista a diventare una integrale (e nazionale) concezione del mondo? E infatti come si potrebbe distruggere la religione nella coscienza dell’uomo del popolo senza nello stesso tempo sostituirla? È possibile in questo caso solo distruggere senza creare? È impossibile. Lo stesso anticlericalismo volgare‑massonico, sostituisce una nuova concezione alla religione che distrugge (in quanto realmente distrugge) e se questa nuova concezione è rozza e bassa, significa che la religione sostituita era realmente ancor più rozza e bassa.
L’affermazione del Croce pertanto non può essere che un modo ipocrita di ripresentare il vecchio principio che la religione è necessaria per il popolo.
Il Gentile, meno ipocritamente, e più conseguentemente, ha rimesso l’insegnamento della religione nelle scuole elementari (si è andati ancora più oltre di ciò che intendeva fare il Gentile e si è allargato l’insegnamento religioso alle scuole medie) e ha giustificato il suo atto con la concezione hegeliana della religione come filosofia dell’infanzia dell’umanità (è da vedere il programma scolastico del Croce, caduto per le vicende parlamentari del governo Giolitti 1920‑21, ma che per rispetto alla religione non era molto diverso da quello che fu il programma Gentile, se ben ricordo)2, che è diventato un puro sofisma applicato ai tempi attuali, e un modo di rendere servizio al clericalismo.
È da ricordare il «frammento di Etica» sulla religione; perché non è stato svolto? Forse ciò era impossibile. La concezione dualistica e della «obbiettività del mondo esterno» quale è stata radicata nel popolo dalle religioni e dalle filosofie tradizionali diventate «senso comune» non può essere sradicata e sostituita che da una nuova concezione che si presenti intimamente fusa con un programma politico e una concezione della storia che il popolo riconosca come espressione delle sue necessità vitali.
Non è possibile pensare alla vita e alla diffusione di una filosofia che non sia insieme politica attuale, strettamente legata all’attività preponderante nella vita delle classi popolari, il lavoro, e non si presenti pertanto, entro certi limiti, come connessa necessariamente alla scienza. Essa concezione nuova magari assumerà inizialmente forme superstiziose e primitive come quelle della religione mitologica, ma troverà in se stessa e nelle forze intellettuali che il popolo esprimerà dal suo seno gli elementi per superare questa fase primitiva. Questa concezione connette l’uomo alla natura per mezzo della tecnica, mantenendo la superiorità dell’uomo ed esaltandola nel lavoro creativo, quindi esalta lo spirito e la storia. (È da vedere l’articolo di M. Missiroli sulla scienza pubblicato dall’«Ordine Nuovo»).
L’atteggiamento del Croce verso il cattolicismo si è andato precisando dopo il 1925 e ha avuto la sua nuova manifestazione più cospicua con la Storia d’Europa nel secolo XIX, che è stata messa all’indice. Il Croce qualche anno fa si maravigliava perché i suoi libri non erano mai stati posti all’indice: ma perché ciò avrebbe dovuto avvenire? La Congregazione dell’Indice (che è poi il Santo Ufficio dell’Inquisizione) ha una sua politica accorta e prudente. Mette all’Indice librucciacci di poco conto, ma evita quanto può di indicare all’attenzione pubblica come contrarie alla fede le opere di grandi intellettuali. Si trincera dietro la scusa molto comoda che sono devono essere intesi come automaticamente all’Indice tutti i libri che sono contrari a certi principii elencati nelle introduzioni delle diverse edizioni degli Indici. Così per D’Annunzio si è decisa la messa all’Indice solo quando il governo decise di fare l’edizione nazionale delle opere e per il Croce per la Storia d’Europa. In realtà la Storia d’Europa è il primo libro del Croce in cui le opinioni antireligiose dello scrittore assumevano un significato di politica attiva e avevano una diffusione inaudita.
§41 IV [...] È anche da notare, a proposito di religione, l’atteggiamento equivoco del Croce verso il modernismo: che il Croce dovesse essere antimodernista poteva intendersi, in quanto anticattolico, ma l’impostazione della lotta ideologica non fu questa.
Obbiettivamente il Croce fu un alleato prezioso dei gesuiti contro il modernismo (nel Date a Cesare il Missiroli esalta dinanzi ai cattolici l’atteggiamento del Croce e del Gentile contro il modernismo in questo senso) e la ragione di questa lotta, che tra religione trascendentale e filosofia immanentistica non può esistere un tertium quid ancipite ed equivoco, pare tutto un pretesto. Anche in questo caso appare l’uomo del Rinascimento, il tipo di Erasmo, con la stessa mancanza di carattere e di coraggio civile.
I modernisti, dato il carattere di massa che era dato loro dalla contemporanea nascita di una democrazia rurale cattolica (legata alla rivoluzione tecnica che avveniva nella valle padana con la scomparsa della figura dell’obbligato o schiavandaro e l’espandersi del bracciante e di forme meno servili di mezzadria) erano dei riformatori religiosi, apparsi non secondo schemi intellettuali prestabiliti, cari allo hegelismo, ma secondo le condizioni reali e storiche della vita religiosa italiana. Era una seconda ondata di cattolicismo liberale, molto più esteso e di carattere più popolare che non fosse stato quello del neoguelfismo prima del 48 e del più schietto liberalismo cattolico posteriore al 48.
L’atteggiamento del Croce e del Gentile (col chierichetto Prezzolini) isolò i modernisti nel mondo della cultura e rese più facile il loro schiacciamento da parte dei gesuiti, anzi parve una vittoria del papato contro tutta la filosofia moderna: l’enciclica antimodernista è in realtà contro l’immanenza e la scienza moderna e in questo senso fu commentata nei seminari e nei circoli religiosi (è curioso che oggi l’atteggiamento dei crociani verso i modernisti, o almeno i maggiori di essi – non però contro il Buonajuti – è cambiato di molto come può vedersi dalla elaborata recensione di Adolfo Omodeo, nella «Critica» del 20 luglio 1932, dei Mémoires pour servir à l’histoire religieuse de notre temps di Alfredo Loisy).
Perché del modernismo il Croce non diede la stessa spiegazione logica che nella Storia d’Europa ha dato del cattolicismo liberale, come di una vittoria della «religione della libertà», che riusciva a penetrare anche nella cittadella del suo più acerrimo antagonista e nemico ecc.? (È da rivedere nella Storia d’Italia ciò che si dice del modernismo: ma ho l’impressione che il Croce sorvoli, mentre esalta la vittoria del liberalismo sul socialismo divenuto riformismo per l’attività scientifica del Croce stesso).
§3 Croce e Bernstein. Nella lettera di Sorel a Croce del 9 settembre 1899 (confrontare tutta la lettera nella «Critica») è scritto: «Bernstein vient de m’écrire qu’il a indiqué dans la “Neue Zeit” n° 46, qu’il avait été inspiré, en une certaine mesure, par vos travaux. Cela est intéressant parce que les Allemands ne sont pas faits pour indiquer des sources étrangères à leurs idées».
§41 II È da ricordare il giudizio del Croce su Giovanni Botero nel volume Storia dell’età barocca in Italia. Il Croce riconosce che i moralisti del 600, per quanto piccoli di statura al paragone del Machiavelli «rappresentavano, nella filosofia politica, uno stadio ulteriore e superiore». Questo giudizio è da avvicinarsi a quello del Sorel sul Clemenceau che non riusciva a vedere, anche «attraverso» una letteratura mediocre, le esigenze che tale letteratura rappresentava e che esse non erano mediocri.
Un pregiudizio da intellettuali è quello di misurare i movimenti storici e politici col metro dell’intellettualismo, dell’originalità, della «genialità», cioè della compiuta espressione letteraria e delle grandi personalità brillanti e non invece della necessità storica e della scienza politica, cioè della capacità concreta e attuale di conformare il mezzo al fine.
Questo pregiudizio è anche popolare, in certi stadi della organizzazione politica (stadio degli uomini carismatici) e si confonde spesso col pregiudizio dell’«oratore»: l’uomo politico deve essere grande oratore o grande intellettuale, deve avere il «crisma» del genio ecc. ecc. Si arriva poi allo stadio inferiore di certe regioni contadine o dei negri in cui per essere seguiti occorre avere la barba.
§41 XV Esaminare, ancora, il principio crociano (o accettato e svolto dal Croce) del «carattere volitivo dell’affermazione teoretica» (a questo proposito cfr il capitolo «La libertà di coscienza e di scienza» nel volume Cultura e Vita morale, 2a ediz., pp. 95 sgg.).
§41 XIII In un articolo su Clemenceau pubblicato nella «Nuova Antologia» del 16 dicembre 1929 e in un altro pubblicato nell’«Italia Letteraria» il 15 dicembre (il primo firmato «Spectator», il secondo col nome e cognome), Mario Missiroli riproduce due importanti brani di lettere inviategli dal Sorel e riguardanti Clemenceau
§19 Bizantinismo francese. La tradizione culturale francese, che presenta i concetti sotto forma di azione politica, in cui speculazione e pratica si sviluppano in un solo nodo storico comprensivo, parrebbe esemplare. Ma questa cultura è rapidamente degenerata dopo gli avvenimenti della grande rivoluzione, è diventata una nuova Bisanzio culturale. Gli elementi di tale degenerazione, d’altronde, erano già presenti e attivi anche durante lo svolgersi del grande dramma rivoluzionario, negli stessi giacobini che lo impersonarono con maggiore energia e compiutezza.
La cultura francese non è «panpolitica» come noi oggi intendiamo, ma giuridica. La forma francese non è quella attiva e sintetica dell’uomo o lottatore politico, ma quella del giurista sistematico di astrazioni formali; la politica francese è specialmente elaborazione di forme giuridiche. Il francese non ha una mentalità dialettica e concretamente rivoluzionaria neanche quando opera come rivoluzionario: la sua intenzione è «conservatrice» sempre, perché la sua intenzione è di dare una forma perfetta e stabile alle innovazioni che attua. Nell’innovare pensa già a conservare, a imbalsamare l’innovazione in un codice.