Indice dei libri proibiti

 

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L'Indice dei libri proibiti (in latino Index librorum prohibitorum) fu un elenco di pubblicazioni, di cui era proibita la lettura e interdetta la stampa dalla Chiesa cattolica, creato nel 1558 per opera della Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione (o Sant'Uffizio), sotto Paolo IV. Ebbe diverse versioni e fu soppresso il 4 febbraio del 1966 con la fine dell'inquisizione romana, sostituita dalla congregazione per la dottrina della fede.

Storia

I precedenti

Sin dalle sue origini le lotte della Chiesa contro le eresie comportarono la proibizione di leggere o conservare opere considerate eretiche: il primo concilio di Nicea (325) proibì le opere di Ario, papa Anastasio I (399-401) quelle di Origene, nel 405 Innocenzo I scrisse una lista di libri apocrifi, Leone Magno (440-461) proibì i testi manichei e Gelasio I nel 496 condannò i libri pagani.

Il secondo concilio di Nicea (787) stabilì che i libri eretici dovessero essere consegnati al vescovo non tenuti di nascosto e il Concilio romano nell'868 condannò al rogo le opere di Fozio, nel 1140 quelle di Pietro Abelardo e Arnaldo da Brescia, nel 1239 il Talmud e nel 1327 quelle di Francesco Stabili. Il concilio di Tolosa del 1229 giunse a proibire ai laici il possesso di copie della Bibbia e nel 1234 quello di Tarragona ordinò il rogo delle traduzioni della Bibbia in volgare.

Durante il concilio di Costanza nel 1415 venne bruciato vivo l'eresiarca Jan Hus, seguace di Wycliffe; in questa circostanza furono dati alle fiamme sia i testi di Hus, sia i testi di Wycliffe[2]. Nella seconda metà del Quattrocento il frate Bernardino da Feltre mandò al rogo tutte le copie reperite degli Epigrammi di Marco Valerio Marziale[2]. La diffusione di idee contrarie ai dogmi della Chiesa cattolica, e in particolare della Riforma protestante, fu grandemente favorita dall'invenzione della stampa a caratteri mobili (1455): la Chiesa prese dunque provvedimenti nel tentativo di controllare quanto veniva stampato.

Nel 1479 papa Sisto IV concesse all'ateneo di Colonia il diritto a esercitare la censura sui libri impressi, che si aggiunse a quello già concesso circa la revisione dei manoscritti, con pena di scomunica a stampatori e lettori di opere non autorizzate. Pochi anni dopo anche l'arcivescovo di Magonza proibì la stampa e la diffusione di qualsiasi libro che non fosse stato approvato da un'apposita commissione composta da due sacerdoti della cattedrale e due dottori dell'Università. Queste misure saranno rese universali da papa Innocenzo VIII con la costituzione Inter multiplices del 1478: il compito di applicare la censura preventiva spetterà da quel momento in poi ai vescovi di tutto il mondo e al Maestro del Sacro Palazzo romano.

Con la X sessione del Concilio Lateranense V, nel 1515, furono stabiliti provvedimenti contro la libertà di stampa: «Volendo, quindi, provvedere a ciò con un rimedio opportuno, col consenso del sacro concilio, affinché l'attività dottrinale prosperi tanto più felicemente, quanto più d'ora in avanti si userà una censura più diligentemente solerte e cauta, stabiliamo e comandiamo che ora e per sempre, nessuno, sia a Roma, che in qualsiasi altra città e diocesi, stampi o faccia stampare un libro o qualsiasi altro scritto, senza che prima siano stati diligentemente esaminati a Roma, dal nostro vicario e dal maestro del sacro palazzo e nelle altre città o diocesi dal vescovo o da altra persona sia esperta nella scienza cui si riferisce il libro o lo scritto in corso di stampa, sia deputato a questo compito dallo stesso vescovo, nonché dall'inquisitore competente per la città o la diocesi in cui dovrebbero essere stampati, e inoltre senza che siano stati approvati con una formula sottoscritta con firma autografa da apporre gratuitamente e immediatamente sotto pena di scomunica. Chi oserà agire altrimenti, oltre perdere i libri stampati, che saranno pubblicamente bruciati, oltre il versamento di cento ducati alla fabbrica della basilica del principe degli apostoli a Roma, e alla sospensione per un anno intero della possibilità di esercitare l'arte della stampa, incorrerà nella sentenza di scomunica, infine se persisterà ostinatamente sarà castigato rispettivamente dal suo vescovo dal nostro vicario».

Con la bolla di papa Leone X Exsurge Domine del 15 giugno 1520 si condannavano alla distruzione tutte le opere presenti e future di Martin Lutero.

Alla metà del XVI secolo risalgono i primi cataloghi di libri proibiti: ne furono redatti dalle università della Sorbona a Parigi e di Lovanio. La Facoltà di teologia dell'Università di Parigi pubblicò, tra il 1544 e il 1556, alcuni Indici di libri proibiti che recavano la rituale formula "sub correctione sanctae matris ecclesiae, et sanctae sedis apostolicae". Con il consenso del Parlamento di Parigi, la Facoltà indicò un sacerdote domenicano come inquisitore generale di nomina regia, che attuò un rigoroso programma di repressione dell'umanesimo evangelico e delle idee luterane. A partire dalla pubblicazione del 1545 l'Indice parigino è munito dell'autorità del re, del Parlamento e dell'inquisitore generale del regno: i suoi divieti sono legge per i francesi. Fra le centinaia di libri che la Sorbona condannò, si segnalano le opere di Erasmo da Rotterdam, di Marsilio da Padova, di Girolamo Cardano, di Michele Serveto, di Raimondo Lullo.

Nel 1543 nella Repubblica di Venezia il Consiglio dei Dieci affidò agli Esecutori contro la Bestemmia il compito di sorvegliare l'editoria, con facoltà di multare chi stampava senza permesso: nel 1549, ad opera di monsignor Giovanni della Casa, fu pubblicato un Catalogo di diverse opere, compositioni et libri, li quali come eretici, sospetti, impii et scandalosi si dichiarano dannati et prohibiti in questa inclita città di Vinegia: l'elenco comprendeva 149 titoli e riguardava per lo più opere tacciate di eresia, ma la proibizione finì con il non essere applicata per l'opposizione dei librai e dei tipografi. In una lettera del 27 giugno 1557 diretta all'inquisitore di Genova, il commissario Michele Ghisileri esprime le sue impressioni sulle proibizioni:

«Di prohibire Orlando [Boiardo, Ariosto], Orlandino [Folengo], cento novelle [probabilmente Boccaccio] et simili altri libri più presto daressemo da ridere ch'altrimente, perché simili libri non si leggono come cose a qual si habbi da credere ma come fabule, et come si legono ancor moltri libri de gentili come Luciano Lucretio et altri simili »

Nel 1559, ad opera del Sant'Uffizio, uscì a Roma un primo Cathalogus librorum Haereticorum, con intenti quasi esclusivamente anti-protestanti: vi comparivano anche le opere di Luciano di Samosata, il De Monarchia di Dante Alighieri e perfino i commentari di papa Pio II sul

Concilio di Basilea.

Il primo indice del 1558

Tra i compiti del Sant'Uffizio, istituito da papa Paolo III nel 1542, era compresa la vigilanza e la soppressione dei libri eretici[5], compito affidato a una commissione di cardinali e collaboratori, finanziariamente indipendente dalla gestione della Curia romana. Sotto papa Paolo IV, venne pubblicato un indice dei libri e degli autori proibiti, detto "Indice Paolino", redatto dall'Inquisizione e promulgato con un suo decreto, affisso a Roma il 30 dicembre 1558. Il decreto dell'Inquisizione romana prescriveva, pena la scomunica, «Che nessuno osi ancora scrivere, pubblicare, stampare o far stampare, vendere, comprare, dare in prestito, in dono o con qualsiasi altro pretesto, ricevere, tenere con sé, conservare o far conservare qualsiasi dei libri scritti e elencati in questo Indice del Sant'Uffizio»[5]. L'elenco dei libri proibiti comprendeva l'intera opera degli scrittori non cattolici, compresi i testi non di carattere religioso, altri 126 titoli di 117 autori, di cui non veniva tuttavia condannata l'intera opera, e 332 opere anonime.

Vi erano inoltre elencate 45 edizioni proibite della Bibbia, oltre a tutte le Bibbie nelle lingue volgari, in particolare le traduzioni tedesche, francesi, spagnole, italiane, inglesi e fiamminghe. Era incluso nella proibizione anche il Talmud e tutte le sue glosse, annotazioni e interpretazioni . Era altresì condannata l'intera produzione di 61 tipografi (prevalentemente svizzeri e tedeschi): erano proibiti tutti i libri che uscivano dai loro torchi, anche riguardanti argomenti non religiosi, in qualsiasi lingua e da qualsiasi autore fossero scritti; questa disposizione aveva l'obiettivo di dissuadere gli editori di autori protestanti di lingua tedesca[5]. Infine si proibivano intere categorie di libri, come quelli di astrologia o di magia, mentre le traduzioni della Bibbia in volgare potevano essere lette solo su specifica licenza, concessa solo a chi conoscesse il latino e non alle donne.

Questo primo Indice era composto da tre diversi elenchi alfabetici: nel primo erano compresi gli autori di cui si proibivano tutti gli scritti, nel secondo erano elencati i titoli delle opere proibite e dei relativi autori, nel terzo erano indicati i testi anonimi.

Tra i libri proibiti c'erano: Dante Alighieri (De Monarchia), Agrippa di Nettesheim (Opera omnia), Talmud, Ortensio Lando (Opera omnia), Guglielmo di Ockham (Opera omnia) e Luciano di Samosata (Opera omnia), Niccolò Machiavelli (Opera omnia), Giovanni Boccaccio (Decamerone) e Masuccio Salernitano (Il Novellino). Nel 1583 Antonio Ciccarelli espurgò Il Cortegiano eliminando i personaggi ecclesiastici (il vescovo di Potenza diventò podestà) le espressioni cattoliche (Guardate bel becco! pare un san Paolo diventò Guardate bel becco! pare un Dante), vennero eliminati passi come questi:

«Di questo modo rispose ancor Rafaello pittore a dui cardinali suoi domestici [amici], i quali, per farlo dire tassavano [criticavano] in presenzia sua una tavola che egli avea fatta, dove erano san Pietro e san Paolo, dicendo che quelle due figure eran troppe rosse nel viso. Allora Rafaello sùbito disse:«Signori, non vi meravigliate, chè io questi ho fatto a sommo studio, perché è da credere che san Pietro e san Paolo siano, come qui gli vedete, ancor in cielo così rossi, per vergogna che la Chiesa sua governata da tali omini come siete voi» »
(Il cortegiano, II, LXXVI)

««Eccovi che questa porta dice:ALEXANDER PAPA VI, che vol significare, chè è stato papa per la forza che egli ha usata [VI viene inteso come l'ablativo latino di vis cioè con la forza] e più di quella si è valuto che dalla ragione. Or veggiamo che da quest'altra potremo inteneder qualche cosa del novo pontefice»; e voltatosi, come per ventura, a quell'altra porta, mostrò l'iscrizione d'un N, dui PP ed un V, che significava NICOLAUS PAPA QUINTUS, e sùbito disse:«Oimè, male nove; eccovi che questa dice: Nihil Papa Valet [il papa non vale nulla]» »
(Ibidem, II, XLVIII)

«Di questa sorte è ancor quello che disse Alfonso Santa Croce; il qual, avendo avuto poco prima alcuni oltraggi dal Cardinale di Pavia [ovvero Francesco Alidosi], e passeggiando fuor di Bologna con alcuni gentilomini presso al loco dove si fa la giustizia, e vedendovi un omo poco prima impiccato, se gli rivoltò con un certo aspetto cogitabundo e disse tanto forte che ognun lo sentí: «Beato tu, che non hai che fare col Cardinale di Pavia!» »
(Ibidem, II, LXXII)

Il papa, che da cardinale (Giampiero Carafa) era stato il primo direttore del Sant'Uffizio, attribuì a quest'ultimo e alla sua rete locale l'applicazione della proibizione, a scapito del potere dei vescovi.

Dopo il concilio di Trento

Con la redazione dell'Indice Clementino nel 1596 l'intervento censorio si estese ad argomenti di carattere letterario, scientifico e filosofico. Solo nel 1835 le opere di Niccolò Copernico, Giovanni Keplero e Galileo Galilei, vittime della censura ecclesiastica, furono tolte dall'Indice dei libri proibiti[7]

Furono stampati indici nel 1632, 1664 e nel 1681. Il secondo elenco ("Indice tridentino" o "Index librorum prohibitorum a Summo Pontifice") venne emanato dopo la conclusione del Concilio di Trento nel 1564, sotto papa Pio IV e per impulso del cardinale Carlo Borromeo. L'elenco fu meno restrittivo del precedente: vi erano inseriti solo i libri eretici ed era prevista la possibilità di "espurgare" i libri che comprendessero solo brevi passaggi proibiti. Restava valida la necessità di una licenza per la lettura della Bibbia in volgare, ma questa venne concessa senza le precedenti restrizioni.

A differenza dell'Indice Paolino, l'Indice tridentino venne applicato in quasi tutta l'Italia e in gran parte dell'Europa fino al 1596. La Spagna applicava invece l'indice redatto dall'Inquisizione locale nel 1559. Papa Pio V istituì nel 1571 la "Congregazione dell'Indice", con lo scopo di provvedere a tenere aggiornato l'indice e ad inviarlo periodicamente alle sedi locali dell'Inquisizione, da dove veniva diffuso presso i librai.[8]

Nel 1580 a Parma venne redatto un indice locale, alcuni autori erano: Ludovico Ariosto, Thomas Erastus, Luigi Alamanni, Pietro Bembo, Domenico Burchiello, Matteo Bandello, Giovanni Sabadino degli Arienti, Giovanni Fiorentino, Giovanni Francesco Straparola, Agnolo Firenzuola, Francesco Sansovino, Arnaldo da Brescia, Arnaldo da Villanova, Gerolamo Cardano, Gasparo Contarini, Anton Francesco Doni, Erasmo da Rotterdam, Lattanzio Firmiano, Olimpia Fulvia Morata, Ortensio Lando, Simone Porzio.

La storia successiva

Nuovi indici vennero redatti anche dal Santo Uffizio sotto i pontefici successivi e le due congregazioni furono spesso in conflitto in merito alla giurisdizione sulla censura dei libri. Anche i vescovi si opposero al potere dato all'Inquisizione in questo campo. Nel 1596, sotto papa Clemente VIII venne redatta una nuova versione dell'indice ("Indice Clementino"), che aggiunse all'elenco precedente opere registrate in altri indici europei successivi al 1564. Ripeteva inoltre la proibizione di stampare opere in volgare, già promulgata da Pio V nel 1567.
La censura ecclesiastica ebbe pesanti conseguenze: le "espurgazioni", a volte neppure dichiarate, potevano arrivare a stravolgere il pensiero dell'autore originario e i testi scientifici non conformi all'interpretazione aristotelico-scolastica erano considerati eretici. Nel 1616 furono bandite le opere di Copernico. Gli scrittori si autocensuravano e l'attività dei librai diventò difficile per le richieste di permesso e i pericoli di confisca.

Le "patenti di lettura", tuttavia, che in teoria avrebbero dovuto essere rilasciate solo a studiosi di provata fiducia da parte del Santo Uffizio e durare solo per tre anni, si ottenevano invece in pratica abbastanza facilmente. Dopo la metà del XVII secolo di fatto si cessò di perseguire la semplice detenzione di libri proibiti [senza fonte]. Nel 1758, sotto papa Benedetto XIV, le norme furono riviste e l'indice venne corretto e reso più comodo. Fu inoltre eliminato il divieto di lettura della Bibbia tradotta dal latino. Le competenze per la compilazione e l'aggiornamento dell'indice passarono a partire dal 1917 al Sant'Uffizio.

L'indice nei suoi quattro secoli di vita venne aggiornato almeno venti volte (l'ultima nel 1948) e fu abolito in seguito alle riforme del Concilio Vaticano II, nel 1966, sotto papa Paolo VI. Solo l'Opus Dei, prelatura personale della Chiesa Cattolica, mantiene in vigore, una sorta di Indice sotto forma di semplice guida bibliografica.

Scopo dell'indice

Lo scopo dell'elenco era quello di ostacolare la possibile contaminazione della fede e la corruzione morale attraverso la lettura di scritti il cui contenuto veniva considerato dall'autorità ecclesiastica non corretto sul piano strettamente teologico, se non addirittura immorale.

Secondo la legge canonica, le forme di controllo sulla letteratura dovevano essere principalmente due: una prima, di censura preventiva, che poteva concedere il classico imprimatur ai libri redatti da cattolici su tematiche riguardanti la morale o la fede; una seconda, di aperta condanna, per volumi considerati offensivi: quest'ultima prevedeva l'inserimento nell'index dei libri incriminati. Secondo alcune stime [senza fonte], dopo il 1559 la detenzione di libri divenne il capo di imputazione più frequente nei processi per eresia.
Buona parte dei documenti relativi all'istruzione dei procedimenti furono trafugati a Parigi dalle truppe napoleoniche nel periodo che va dal 1809 al 1814 e durante il pur breve periodo della Repubblica Romana (1849); tuttavia, l'archivio della Congregazione della Fede fu ricostruito ed è a tutt'oggi intatto; dal 1998, dietro richiesta motivata, è consultabile pubblicamente.

L'Indice giunse a contenere i nomi di gran parte degli spiriti più rappresentativi del mondo europeo moderno, di cui erano vietati uno o più testi, o addirittura l'opera omnia. L'elenco comprendeva, fra gli altri, nomi della letteratura, della scienza e della filosofia come Francesco Bacone, Honoré de Balzac, Henri Bergson, George Berkeley, Cartesio, Colette, Auguste Comte, D'Alembert, Daniel Defoe, Denis Diderot, Alexandre Dumas (padre) e Alexandre Dumas (figlio), Gustave Flaubert, Thomas Hobbes, Victor Hugo, David Hume, Immanuel Kant, Jean de La Fontaine, John Locke, Karl Marx, John Stuart Mill, Montaigne, Montesquieu, Blaise Pascal, Pierre-Joseph Proudhon, Jean-Jacques Rousseau, George Sand, Spinoza, Stendhal, Voltaire, Émile Zola, oltre a storici come Edward Gibbon, Condorcet, Leopold von Ranke, Hippolyte Taine, Ferdinand Gregorovius.

Tra gli italiani finiti all'indice - scienziati, filosofi, pensatori, scrittori, economisti - vi sono stati Vittorio Alfieri, Pietro Aretino, Cesare Beccaria, Giordano Bruno, Benedetto Croce, Gabriele D'Annunzio, Antonio Fogazzaro, Ugo Foscolo, Galileo Galilei, Giovanni Gentile, Giulio Cesare Vanini, Francesco Guicciardini, Giacomo Leopardi, Niccolò Machiavelli, Ada Negri, Enea Silvio Piccolomini (cioè papa Pio II), Giovanni Pico della Mirandola, Adeodato Ressi, Girolamo Savonarola, Luigi Settembrini, Niccolò Tommaseo, Pietro Siciliani, Pietro Verri e Antonio Rosmini.

Tra gli ultimi ad entrare nella lista sono stati Simone de Beauvoir, André Gide, Jean-Paul Sartre, Alberto Moravia, Aldo Capitini e il filosofo del nazionalsocialismo Alfred Rosenberg.