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In genere, ogni metodo d’azione politica che, ripudiando sia i
sistemi rivoluzionari sia il conservatorismo, riconosce la
possibilità di modificare l’ordinamento politico sociale
esistente solo attraverso l’attuazione di organiche, ma graduali
riforme. Si dice anche, in senso spregiativo, di una politica,
sostanzialmente conservatrice, che si limita a marginali riforme
in un dato sistema sociale, senza modificare le fondamentali
strutture del sistema stesso. Storicamente il r. è legato
all’affermazione del sistema parlamentare e alla convinzione che
sia possibile realizzare una trasformazione sociale attraverso lo
strumento legislativo.
Il termine fu introdotto nel vocabolario politico in occasione
della campagna condotta in Inghilterra, tra la fine del 18° e
l’inizio del 19° sec., per l’allargamento del suffragio
elettorale, culminata nel Great reform bill del 1832. Ripreso
successivamente nell’ambito del movimento socialista, assunse un
significato più specifico, con particolare riferimento alla
contrapposizione tra riforme e rivoluzione, nella prospettiva del
superamento dei rapporti capitalistici di produzione e del
corrispondente assetto politico. La corrente riformista, ossia la
tendenza favorevole a un’azione gradualistica che privilegiava
l’azione legale e le rivendicazioni immediate dei lavoratori, fu
alla base dello sviluppo del movimento sindacale e politico di
vari paesi europei.
A partire dalla seconda metà del 20° sec., si
definiscono riformisti i partiti socialdemocratici o socialisti
che hanno abbandonato l’ideologia marxista e che si propongono
quindi non di superare il capitalismo, ma di correggerne
(attraverso vari strumenti) i difetti.
*
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1997)
di Zeffiro Ciuffoletti
Riformismo
Sommario: 1. Definizione di riformismo. 2. Il riformismo dispotico
illuminato. 3. Il riformismo liberal-radicale. 4. Il
protoriformismo: associazionismo e democrazia. 5. Il riformismo
cesaristico e il riformismo conservatore o dall'alto. 6.
Socialismo e riformismo: l'antitesi ambigua fra riforme e
rivoluzione. 7. Dalla 'Progressive era' al 'New deal'. 8. Dal
Welfare State al modello laburista. 9. La crisi del Welfare State
e il ripensamento del riformismo.
1. Definizione di riformismo
La tradizionale sequenza storica che i paesi dell'Occidente hanno
conosciuto, in forme e tempi diversi - dallo Stato liberale, allo
Stato democratico, allo Stato sociale -, è stata
accompagnata nelle sue fasi cruciali e costruttive da politiche
riformiste. Le riforme nel corso del tempo e nei vari paesi hanno
caratterizzato, a volte in mezzo ad accesi confronti fra attori
sociali, politici e istituzionali, le dinamiche della
modernizzazione.
Nell'uso corrente del termine 'riformismo', specialmente in sede
politica e storiografica, si incontrano accezioni diverse e talora
irriducibili. Insieme a una accezione positiva, la quale, mentre
ripudia sia la prospettiva rivoluzionaria sia quella conservatrice
o reazionaria, mira a promuovere il progresso della società
attraverso riforme graduali dell'assetto politico, giuridico,
economico e sociale, si incontra un'accezione negativa che vede
nel riformismo l'attitudine deteriore ad adottare espedienti.
Sempre su un piano generale, quindi, il riformismo viene inteso da
un lato come una ideologia politica che non crede nell'efficacia
dei cambiamenti traumatici e violenti, mentre preferisce un lento
e progressivo cambiamento delle istituzioni e della
società, dall'altro lato come un atteggiamento politico
dettato da un pragmatismo di basso profilo morale, indifferente
rispetto ai valori, se non addirittura capace di svuotare di
significato le grandi scelte e di sconfinare nell'opportunismo.
Non mancano, infine, usi diversi del termine riformismo. Si usa
l'espressione riformismo dall'alto a proposito del dispotismo
illuminato, ma si parla anche di riformismo liberaldemocratico, di
riformismo cesaristico-bonapartista, o di riformismo
socialdemocratico in riferimento a programmi e a misure di governo
atti a produrre significativi mutamenti nell'assegnazione di
risorse sociali e diritti di cittadinanza. Si tratta di usi
parzialmente corretti del termine, non sempre in linea col
progetto moderno iscritto nell'accezione positiva del riformismo,
che invece comprende il coinvolgimento delle masse nel processo
politico attraverso il principio della sovranità popolare.
L'accezione moderna e positiva del riformismo, quindi, rinvia "a
una società caratterizzata non solo dal crescente
protagonismo delle masse, in conseguenza delle fasi dello sviluppo
politico designate dagli studiosi come costruzione della nazione,
crisi di partecipazione e crisi di distribuzione, ma
altresì da un avanzato processo di secolarizzazione, ovvero
da una 'cultura civica' laica, individualistica, pluralistica,
tollerante che relega a privacy fedi e credenze un tempo
vincolanti per la sfera pubblica" (v. Cofrancesco, 1993, p. 737).
In questo senso il riformismo appartiene alla sfera delle culture
politiche liberaldemocratiche e socialdemocratiche, che
rappresentano l'aspetto politico del processo di modernizzazione
legato a sua volta all'industrializzazione, alla secolarizzazione
e alla politicizzazione delle masse.
2. Il riformismo dispotico illuminato
Esiste tuttavia un legame di ordine filosofico che, al di
là delle diverse situazioni storiche, si trova nelle
accezioni positive del riformismo. Tale caratteristica comune
può essere messa in luce proprio nell'individuazione dei
principali assunti intellettuali relativi all'uomo e alla
società che contraddistinguono le modalità d'azione
del riformismo: il razionalismo e la fede nel progresso. Il
razionalismo comporta il convincimento che tutte le consuetudini e
le istituzioni possano venire legittimate solo tramite l'uso
consapevole della ragione umana. L'idea del progresso, a sua
volta, ripone fiducia nella perfettibilità dell'uomo, della
società e delle istituzioni. Non a caso il manifestarsi del
riformismo come riformismo illuminato coincide con l'affermarsi
dell'illuminismo e con l'attività paternalisticamente
sollecita dei sovrani settecenteschi. Sotto l'influenza delle
dottrine illuministiche e con la diretta collaborazione o
ispirazione di alcuni fra i maggiori intellettuali del tempo,
elevati al rango di consiglieri, ministri o grands-commis, sovrani
come Federico II di Prussia, Maria Teresa e Giuseppe II d'Austria,
Pietro Leopoldo di Toscana, Caterina II di Russia e Carlo III di
Napoli, progettarono o realizzarono vasti programmi di riforme,
che introdussero elementi di razionalità e di
modernità nei rispettivi Stati. Tali riforme miravano a
sottomettere alla legislazione civile l'attività temporale
della Chiesa, secondo i principî del giurisdizionalismo, a
limitare i privilegi della nobiltà e del clero, ad
affermare l'uguaglianza di tutti i sudditi di fronte allo Stato,
concentrando tutti i poteri nelle mani del principe. Erano,
tuttavia, riforme amministrative più che politiche, o
politiche più che sociali (riforme fiscali, penali,
provvedimenti per favorire la circolazione delle merci, abolizione
dei dazi, istituzioni dei catasti, lotta contro i privilegi). Le
diverse esperienze sottintendevano un ottimismo razionalistico
basato sulla fiducia nella progressiva estensione dei 'lumi' e nel
progresso tecnico-scientifico e spirituale. Non si trattava solo
di correggere gli abusi e le degenerazioni, ma anche di andare
oltre, accogliendo l'ispirazione dottrinaria di poter dedurre
dalla formula universale della ragione astratta le norme per
valutare la realtà, criticarla e trasformarla.
Tutto un filone di pensatori liberali, da Hayek (v., 1952) fino a
Hannah Arendt (v., 1958), ha mostrato come nel Settecento prenda
corpo l''illusione' di estendere i metodi delle scienze naturali
alle scienze sociali, con la pretesa di scoprire le leggi
(naturali) dello sviluppo storico oppure l'ambizione di
pianificare la società sul metro della ragione. Secondo
questi pensatori l'esito storico di tale razionalismo, che
trovò espressione nel radicalismo democratico e nel
giacobinismo, fu l'autoritarismo e il totalitarismo (cfr. J.L.
Talmon, The origins of totalitarian democracy, London 1952).La
fiducia illuministica nel dispotismo riformatore si
concretizzò nel Settecento nel quadro di profonde
trasformazioni che investirono diversi campi, dall'economia alla
cultura, dalla società allo Stato. Il superamento
dell'economia mercantilistica con l'avvio della rivoluzione
industriale costituisce il fenomeno più carico di
conseguenze. Sul piano politico il passaggio dalle teorie
dell'assolutismo al contrattualismo accompagna la transizione dal
dispotismo arbitrario al dispotismo legale dei principi
illuminati, fino all'emergere delle teorie liberali sulla
divisione dei poteri e allo scoppio della Rivoluzione francese del
1789, con la quale prende corpo quella contrapposizione fra
riforme e rivoluzione destinata a diventare una costante che
accompagna in Europa il processo di democratizzazione.
La Rivoluzione francese, aprendo la via alla mobilitazione e alla
politicizzazione delle masse, fece saltare l'illusione del governo
dei philosophes. L'illusione, cioè, di poter neutralizzare
la politica e i conflitti di interessi e di valori contrastanti,
mantenendo il monopolio della politica in mano ai 'sapienti' e ai
'virtuosi', e nello stesso tempo trasformando i problemi pubblici
in mere questioni tecnico-amministrative. La visione autoritaria
della politica era in realtà presente sia nel riformismo
dispotico illuminato dei principi, sia nel riformismo radicale dei
giacobini. L'uno e l'altro metodo di governo miravano a
neutralizzare dall'alto il conflitto proprio per
l'incapacità di disciplinarlo tramite procedure,
istituzioni e regole condivise. Il primo, evitando il
coinvolgimento delle masse nel processo di riforma, il secondo
trasformando il popolo concreto in una pura astrazione, una
rappresentazione mitica della rivoluzione (v. Furet, 1978).Il
riformismo dei despoti fu una risposta alla crisi dello Stato
d'ancien régime, del quale accelerò la fine. Il
riformismo radicale, a sua volta, utilizzando il mito della
'democrazia pura' o 'senza rappresentanza', lasciò ampio
spazio a una oligarchia rivoluzionaria che in realtà
pretese di decidere tutto alle spalle delle masse. L'illusione di
poter edificare la repubblica rappresentativa sulle rovine del
Terrore giacobino e di stabilizzare la rivoluzione in una
realtà istituzionale democratica, finì, come
è noto, nel riformismo cesaristico di Napoleone Bonaparte,
del quale Alexis de Tocqueville (L'ancien régime et la
Révolution, 1856) sottolineò la continuità
con la monarchia centralizzatrice di antico regime. "Tutto
ciò che la rivoluzione ha fatto - scrisse Tocqueville - si
sarebbe fatto, non ne dubito, senza di lei" (cfr. A. de
Tocqueville, Frammenti storici sulla Rivoluzione francese, Milano
1943, p. 98).Tuttavia proprio l'ambiguità del rapporto fra
il riformismo dei despoti illuminati e il riformismo radicale si
evidenzia con l'avvento del paradigma moderno della rivoluzione,
come cesura radicale rispetto al passato; avvento di un'epoca
totalmente diversa che segna la nascita dell'umanità
redenta e dell''uomo nuovo'. Una visione della storia come
processo escatologico, che si lega all'idea di una meta ultima da
raggiungere gradualmente, per tappe rivoluzionarie successive. Per
questa via riformismo e rivoluzione si contrappongono e si
incontrano. Per un lungo lasso di tempo, mentre la società
viene solcata dai conflitti sociali del moderno sviluppo
capitalistico e dalle ripercussioni politiche della Rivoluzione
francese, strategie rivoluzionarie e tattiche riformistiche, mosse
da istanze morali e filosofiche di comune derivazione
illuministica, si contrappongono e si confondono.
3. Il riformismo liberal-radicale
Gli eventi rivoluzionari in Francia, l'esplosione del Terrore e
poi il lungo periodo bellico dell'età napoleonica avevano
bloccato non solo il riformismo illuminato nell'Europa
continentale, ma anche ogni tentativo di riforma delle istituzioni
politiche. Tuttavia i grandi motori della modernizzazione,
l'industrializzazione e la secolarizzazione, generavano un
dinamismo generale che dava luogo a conflitti sociali e di valori,
corrosivi degli antichi equilibri politici e sociali. Le
virtù tradizionali, valide nelle piccole società
chiuse e omogenee (famiglia, villaggio, città-Stato), non
erano più sufficienti a procurare il bene pubblico nelle
grandi società aperte ed eterogenee. Non a caso uno dei
più importanti sviluppi che accompagnarono la
modernizzazione fu la creazione dello Stato-nazione. "Lo
Stato-nazione fu anche un veicolo necessario perché si
affermasse il moderno contratto al posto di vincoli feudali. Esso
fornì il quadro di leggi e istituzioni capaci di
sostenerlo" (v. Dahrendorf, 1988; tr. it., p. 37). La rivoluzione
industriale e la Rivoluzione francese, sul piano sociale e su
quello politico, esaltarono il ruolo della borghesia. Per
utilizzare le nuove possibilità offerte dalla tecnologia e
dalla divisione del lavoro "i primi imprenditori avevano bisogno
di una forma di lavoro diversa dai tradizionali modelli di
schiavitù. Avevano bisogno di lavoro salariato, e questo
comportava contratti fra controparti uguali sul piano formale.
Questo, a sua volta, presuppone diritti civili elementari per
tutti. [...] Così, gli interessi economici e quelli
politici della prima borghesia convergevano nella richiesta di un
grande rinnovamento: la cittadinanza" (ibid., p. 10).
In Inghilterra, il paese più avanzato nello sviluppo del
capitalismo, questa situazione generò un movimento per le
riforme che poté invocare a suo sostegno quel criterio
dell'utilità che era tipico del costume inglese, ma che ora
trovava nel padre dell''utilitarismo', Jeremy Bentham, uno dei
teorici più agguerriti.
In contrapposizione alla tradizione del giusnaturalismo, Bentham
formulò il 'principio di utilità', secondo il quale
l'unico criterio che doveva ispirare il buon legislatore era
quello di emanare leggi che avessero per effetto la maggior
felicità per il maggior numero di individui. Nella
Introduction to the principles of morals and legislation (1789),
Bentham aveva sostenuto che ogni atto era moralmente valutabile in
rapporto alla misura di felicità che produceva. Persino il
diritto di proprietà si giustificava solo in relazione alla
massima felicità per il maggior numero di individui e
quindi andava posto in relazione ad altri fini sussidiari
(subordinate ends, buts subordonnées): sicurezza,
eguaglianza, sussistenza e abbondanza. Spettava al legislatore
trovare il giusto equilibrio fra questi fini in modo da favorire
la massimizzazione del benessere e della felicità. Lo Stato
doveva contribuire a orientare le scelte individuali (il "calcolo
edonistico" individuale) verso il benessere comune. In questo modo
si apriva un varco all'azione 'interventista' del governo ai fini
della massimizzazione della felicità comune. Per realizzare
questa politica occorreva liberare le istituzioni dagli interessi
di parte e fondare lo Stato su principî democratici, agendo
in base all'orientamento della maggioranza. In questo ambito va
collocato l'uso benthamiano del termine 'reformer', nel senso di
gradualismo teso ad "aumentare la somma totale del benessere degli
individui che la [comunità] compongono".
In Inghilterra l'incontro dell'utilitarismo con il movimento per
la riforma radicale dell'ordinamento politico ed elettorale
aprì la via a un liberalismo interventista e riformatore.
Grazie a questo movimento, mentre in Francia scoppiava un'altra
rivoluzione (luglio 1830), le istituzioni inglesi trovavano in se
stesse, e senza rotture rivoluzionarie, la forza di riformarsi e
di adeguarsi alla realtà. Nel 1832, quando i tories
più illuminati si accostarono alla linea dei whigs, la
nuova legge elettorale (Reform act) fu approvata e finalmente,
dopo il vasto movimento messo in piedi dai radicali, i rotten
boroughs (borghi putridi) furono cancellati e i seggi furono
ridistribuiti a favore delle nuove città industriali e
degli interessi sociali emergenti. La vecchia Inghilterra
agrario-mercantile cedeva spazio politico alla nuova realtà
industriale. Da quel momento si andò consolidando in
Inghilterra quel sistema politico 'bipartitico' destinato a
rendere fisiologico il processo riformistico come continuo
adeguamento delle istituzioni e delle leggi alla trasformazione
della società, secondo la logica dell'alternanza dei due
partiti in competizione e secondo la pressione dell'opinione
pubblica.
4. Il protoriformismo: associazionismo e democrazia
In questo contesto anche l'idea socialista che nel continente si
manifesta come utopia, ipotizzando modelli comunistici ancora
legati a una visione prevalentemente agricola della
società, in Inghilterra diventa tentativo empirico e
concreto di riforma sociale. Robert Owen, un industriale legato a
Bentham, non si limitò a chiedere vaste riforme al governo
per fronteggiare la crisi economica del 1816, ma passò alla
realizzazione di stabilimenti industriali in grado di migliorare
le condizioni dei lavoratori e di distribuire ad essi parte degli
utili d'azienda. All'impresa capitalistica, fondata sul profitto,
egli contrappose la cooperazione quale modello alternativo per la
produzione e la distribuzione dei beni. Gli stessi operai si
organizzarono e rivendicarono il diritto di associazione. Nel 1834
sorsero le Grand national consolidated trade unions e nel 1838
prese corpo il cartismo, un movimento in cui lavoratori ed
esponenti radicali tentarono di mobilitare la classe operaia e
l'opinione pubblica a favore di un vasto piano di riforme:
suffragio universale maschile, voto segreto, uguaglianza dei
collegi elettorali, indennità ai deputati, abolizione del
requisito del censo per l'eleggibilità, elezioni annuali.
Il movimento, sebbene diviso fra tattica riformistica mirante a
uno sbocco parlamentare e tattica rivoluzionaria
extraparlamentare, ebbe un vasto consenso, ma nelle sue
espressioni politiche fu riassorbito nella logica riformistica del
sistema, che, fra l'altro, portò alla protezione del lavoro
infantile, alla riduzione dell'orario della giornata lavorativa e
all'abrogazione delle Corn laws, che avevano mantenuto elevato il
prezzo dei cereali e, quindi, del pane. Queste e altre riforme,
unitamente al pragmatismo che animava la cultura politica inglese,
fecero sì che l'isola restasse ancora una volta immune
dallo spettro rivoluzionario che sconvolse la Francia e l'Europa
continentale, dove le idee di nazione e di progresso avevano
alimentato i movimenti dell'opinione pubblica e le aspirazioni
democratiche, senza, peraltro, trovare uno sbocco politico
istituzionale. In Francia la politica del just-milieu, affermatasi
con la Rivoluzione del 1830 e con la definitiva stabilizzazione
della monarchia parlamentare e della sovranità della
'nazione', aveva portato alla riforma elettorale, ma dal sistema
venivano ancora esclusi i ceti medi e popolari. Nella delicata
fase di crescita della società industriale tutta una serie
di proposte di riforma economica e politica della società
si collegavano all'idea della democrazia e della repubblica,
passando attraverso lo strumento dell'associazione teorizzata da
Saint-Simon. Gli stessi seguaci di Fourier, sostenitore di una
"réforme générale et non partielle"
dell'intero sistema economico e sociale, polemizzavano con i
repubblicani, affermando l'indivisibilità dei diritti
civili e politici dai diritti sociali.L'attenzione si concentrava
sulla società e sulle forme in grado di garantire l'osmosi
tra Stato e società richiesta dalla democrazia. Il problema
era quello di trovare una corrispondenza reale tra la
volontà del demos e la volontà dei rappresentanti, e
quindi, come offrire al popolo la possibilità di esprimersi
e di partecipare realmente alla formazione della volontà
generale. Il diffondersi dell'associazionismo consentiva di
risolvere questo problema, superando il particolarismo e
l'atomismo della teoria liberale, senza correre il rischio di
annullare le specificità individuali. L'associazionismo si
presentava, infatti, non solo come uno strumento di
solidarietà e di difesa di interessi che solo così
potevano essere tutelati, ma anche come strumento di formazione di
legami sociali e di maturazione del costume democratico. Philippe
Buchez, Jean Reynard, Louis Blanc e Pierre Leroux, repubblicani e
socialisti, erano tutti alla ricerca di una democrazia in grado di
realizzare l'uguaglianza tramite l'associazione, come strumento
capace di sostituire l'egoismo che animava la società del
capitalismo concorrenziale con un nuovo spirito di
solidarietà. La solidarietà, che legava i cittadini
di uno Stato-nazione democratico, poteva trasformare i conflitti
irriducibili della società individualistica ("la guerre de
tous contre tous" di cui parlava Blanc) in contrasti di interessi,
idee, sentimenti ricomponibili attraverso il confronto
democratico.
In Francia la pregiudiziale repubblicana poneva questo movimento
fuori dal quadro istituzionale della Monarchia di luglio, ma non
c'è dubbio che nel periodo 1848-1871 lo sviluppo
democratico della società europea fu legato anche
all'azione dell'associazionismo (v. Mastellone, 1986, pp.
101-172). Tocqueville, nel libro primo della Démocratie en
Amerique (1835) si era soffermato sull'associazionismo negli Stati
Uniti ed era ritornato sul tema nel libro secondo (1840).
Sull'associazionismo come via autonoma alla riforma della
società si potevano incontrare sia i sostenitori di una
democrazia riformatrice e socialista, sia i liberali più
aperti alla democrazia. Un liberale-radicale, come John Stuart
Mill, diffidente verso il socialismo, pur non escludendo in futuro
la possibilità della realizzazione pratica dei sistemi
collettivisti, nei Principles of political economy (1848) indicava
come concreto obiettivo riformistico "non la sovvenzione del
sistema di proprietà individuale, ma il suo miglioramento,
e la piena partecipazione di ogni membro della comunità ai
suoi benefici". Persino Jean-Baptiste Andre Godin, ex operaio, poi
fondatore del Familistére di Guise e deputato all'Assemblea
Nazionale di Versailles, mentre a Parigi assediata prendeva corpo
l'esperimento della Commune, arrivò a sostenere (Solutiones
sociales, 1871), che per ben due volte nel 1848 e nel 1871 la
violenza della rivoluzione aveva interrotto la marcia armoniosa e
progressiva dell'associazione. L'idea del progresso, sostenuta dal
positivismo, suggeriva risposte concrete per i problemi del
governo e della vita sociale. Comte poneva alla sommità
delle scienze la sociologia, che analizzava l'ordine sociale, la
"statica", e indicava nel progresso la "dinamica" del corpo
sociale. Applicando i principî scientifici alla politica si
potevano assicurare le condizioni per l'evoluzione della
società, superando le diseguaglianze sociali in vista del
comune 'progredire'. Con il positivismo inglese di Herbert Spencer
l'idea di evoluzione di Darwin trapassò dall'ambito
biologico a quello dell'organizzazione sociale. Tocqueville come
John Stuart Mill si era reso conto che, sotto la spinta del
'progresso', le grandi trasformazioni sociali e il processo di
politicizzazione delle masse, portavano irresistibilmente verso la
democrazia. Le riforme diventavano la via obbligata per uno
sviluppo graduale delle istituzioni liberali, tale da non
sacrificare all'uguaglianza la libertà individuale. La
democrazia come uguaglianza delle condizioni, dei diritti e non
dei beni, costituiva il cardine di una società nella quale
tutti erano posti in grado di esprimere con il voto la loro
opinione e nella quale la più ampia libertà di
associazione costituiva una garanzia per le classi più
deboli. John Stuart Mill per respingere il dispotismo della
società sugli individui, predicato dai socialisti,
sosteneva l'esigenza dell'allargamento del suffragio ai ceti
sociali fino ad allora esclusi, e auspicava l'intervento dello
Stato per regolare i rapporti sociali, per migliorare le
condizioni di vita delle masse e impedirne lo sfruttamento (On
liberty, 1859, e Considerations on representative government,
1861).
In questo clima, già profondamente segnato dalle
lacerazioni della rivoluzione industriale, dallo sfruttamento
della classe operaia e dalla separazione tra individuo e
società, le riforme diventavano una via obbligata per i
governi.
L'Inghilterra di Gladstone vide la realizzazione di una serie di
riforme che caratterizzarono l'età vittoriana. Nel 1867 il
Reform bill concludeva una stagione di lotte del movimento operaio
dopo la costituzione della Reform league del 1865. John Bright,
che aveva guidato un ampio fronte radicale e democratico a favore
della riforma elettorale, parlò di "salto verso la luce".
Nel 1871 si arrivò alla legalizzazione delle Trade Unions,
mentre altre riforme affrontavano questioni cruciali come la
scuola e l'esercito.
5. Il riformismo cesaristico e il riformismo conservatore o
dall'alto
Mentre in Inghilterra le riforme avevano garantito la transizione
graduale dallo Stato liberale allo Stato democratico, in Francia
il tentativo di imporre il processo di democratizzazione per via
rivoluzionaria (1848) portò all'instaurazione di un nuovo
regime cesaristico: il Secondo Impero di Napoleone III. Nel caso
francese il presidente-Cesare attraverso una forma di democrazia
plebiscitaria giustificava il proprio dominio con la
legittimazione derivante dal consenso direttamente espresso dalle
masse. In questo modo il suffragio universale, concesso per
l'elezione della Camera, si accompagnò allo svuotamento dei
poteri della rappresentanza, mentre l'esecutivo venne strettamente
vincolato dalla volontà imperiale e il legislativo fu
affidato ai 'tecnici' del Consiglio di Stato. Ancora una volta si
tentava di neutralizzare la politica e i suoi conflitti
spoliticizzando i problemi pubblici e trasformandoli in questioni
tecnico-amministrative. Il cosiddetto 'cesarismo sociale' di
Napoleone III, la sua sollecitudine per le masse, si tradusse in
misure a favore dell'occupazione, in tolleranza attiva delle
società di mutuo soccorso e dei sindacati operai e nel
richiamo continuo alla solidarietà sociale nel superiore
interesse della grandezza della nazione. Tuttavia, anche se
Napoleone III concesse il diritto di sciopero nel 1864, i
sindacati furono legalizzati soltanto vent'anni dopo, nel 1884. Il
consenso di massa fu imposto d'altra parte anche con il controllo
sulla stampa e la repressione dell'opposizione.
Il riformismo conservatore, come quello del governo di Disraeli in
Inghilterra e di Bismarck in Germania, sorgeva, anch'esso, dalla
preoccupazione di salvaguardare una costruzione statuale forte e
strutturata, messa in pericolo dalle crescenti rivendicazioni
politiche e sociali delle masse. Il 'conservatorismo progressivo'
di Disraeli che portò alla riforma elettorale del 1867,
alla legislazione dello sciopero (1875), all'ampliamento delle
competenze comunali, all'istruzione primaria obbligatoria, ecc.,
mirava a interessare le masse agli ambiziosi progetti preparati
dalle élites di governo, ma provocava una inevitabile
tensione fra diritto di cittadinanza e sistema di classe, fra
entitlements e provisions, nel senso inteso da Ralf Dahrendorf.
"Durante il governo di Bismarck, gli entitlements politici
rimasero - scrive Dahrendorf -, a essere ottimisti, stabili e
molto limitati; esistevano leggi che proibivano le organizzazioni
socialiste. Allo stesso tempo, alle classi lavoratrici venivano
dati certi entitlements sociali. Questi erano usati per
controbilanciare gli altri, ed entrambe le cose erano
nell'interesse di una classe dominante conservatrice, o meglio
parafeudale" (v. Dahrendorf, 1988; tr. it., p. 63). La protezione
del lavoro nazionale, che portò precocemente in Germania al
varo di importanti riforme sociali, a partire dalle assicurazioni
sociali obbligatorie degli operai dell'industria contro le
malattie (1883), gli infortuni (1884), l'invalidità e la
vecchiaia (1889), tramite l'intervento anche coattivo dello Stato,
si inseriva nel quadro della più ampia strategia
'social-protezionistica' di difesa degli assetti proprietari
esistenti, di contenimento e controllo delle conseguenze
economiche e sociali più acute dell'industrializzazione e
della depressione iniziata nel 1873.
Il tentativo di sostituire l'assistenzialismo e le riforme
dall'alto all'allargamento dei diritti di cittadinanza si
rivelò, in generale, un espediente. La cittadinanza si
dimostrò una forza più potente e il paternalismo
assistenziale si rivelò incapace di assorbire i conflitti
di classe. La risposta liberale nel suo antipaternalismo era la
più idonea alla libera espressione della
conflittualità sociale. Tuttavia per lo Stato liberale
ottocentesco si poneva la necessità di aprirsi alla
democrazia attraverso le riforme necessarie al buon funzionamento
del sistema, dalla libertà di riunione e associazione alla
libera organizzazione di gruppi d'interesse, di sindacati, di
partiti, fino alla massima estensione dei diritti politici e alle
riforme sociali. Proprio quando si trattò di passare dai
diritti civili a quelli politici e poi da questi ai diritti
sociali, i liberali si divisero e i nuovi partiti degli
entitlements si affacciarono sulla scena politica, prima i
democratici, poi i socialisti.
6. Socialismo e riformismo: l'antitesi ambigua fra riforme e
rivoluzione
"Per quante definizioni si possano dare del socialismo del secolo
scorso (ne sono state date centinaia), c'è almeno un
criterio distintivo costante e determinante per distinguere una
dottrina socialista da tutte le altre: la critica della
proprietà privata come fonte principale di 'diseguaglianza
fra gli uomini' (per riprendere il noto discorso di Rousseau) e la
sua eliminazione totale o parziale come progetto di società
futura" (v. Bobbio, 1988, p. 56). Da qui la critica alla
democrazia formale che accomuna, per esempio, i primi comunisti
come Babeuf e Buonarroti con il padre del socialismo scientifico
Karl Marx, che proprio nel fallimento della Rivoluzione francese
del 1848 vide la conferma delle tesi, a cui era giunto da alcuni
anni, del riformismo come ipocrisia. Nella Rivoluzione del 1848
andarono in frantumi non solo i progetti di 'solidarietà
sociale' e i sentimenti di 'fraternità' che tanta parte
avevano avuto nelle costruzioni teoriche del socialismo
utopistico, ma anche le speranze riposte nella conquista del
suffragio universale e nella democrazia. "Il suffragio universale
- scrisse Marx nelle Lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850
-non era la bacchetta magica che pensavano i valentuomini
repubblicani e semmai l'unico suo merito era quello di scatenare
la lotta di classe [...] di spingere d'un colpo tutte le frazioni
delle classi sfruttatrici alla sommità dello Stato e
così di strappar loro la maschera dell'ipocrisia". La
terribile 'disfatta di giugno' (1848) venne usata da Marx per
dimostrare che il riformismo non poteva dare nessuno dei risultati
benefici e perfino salvifici fino allora immaginati e sperati,
anzi restava una pura astrazione fino a quando "il comunismo come
soppressione positiva della proprietà privata" non avesse
fornito "la vera risoluzione dell'antagonismo tra la natura e
l'uomo, tra l'uomo e l'uomo, la vera risoluzione della contesa tra
l'esistenza e l'essenza, tra l'oggettivazione e
l'autoaffermazione, tra la libertà e la necessità,
tra l'individuo e il genere" (cfr. K. Marx, Manoscritti
economico-filosofici del 1844, Torino 1949, pp. 121-122).
L'alienazione dell'uomo dalle cose e da se stesso, e quindi la sua
perdita di 'socialità', erano il prodotto della
proprietà privata e del capitalismo. Queste contraddizioni
potevano essere eliminate solo con un'iniziativa rivoluzionaria,
che lo stesso sviluppo del capitalismo, fino alle sue estreme
conseguenze, rendeva ineluttabile.
Nel socialismo scientifico di Marx ed Engels figurava una profonda
contraddizione che consisteva nel tentativo di ridurre i problemi
e i conflitti della modernizzazione e della società
industriale, che discendeva dall'illuminismo e dalla
razionalità scientifica, entro un modello 'comunitario' e
'organicistico' di società. L'altro punto critico di
inconciliabilità era legato alla previsione che nel corso
storico, fatale e inarrestabile, del capitalismo si sarebbe
arrivati alla scissione della società in due estremi: da
una parte un ristretto pugno di capitalisti e dall'altra la
stragrande maggioranza della società, sempre più
proletarizzata e sempre più immiserita. Da qui l'esigenza
inevitabile del cozzo di queste due classi da risolvere con la
violenza rivoluzionaria.Via via che il marxismo si affermava nel
movimento operaio e nel socialismo, l'attenzione si concentrava
sempre più sulla rottura rivoluzionaria propugnata, sebbene
in una prospettiva libertaria e volontaristica, anche dagli
anarchici. Tuttavia proprio dal seno dell'anarchismo e del
socialismo marxista, che aveva fornito alla rivoluzione la
sistemazione teorica più coerente con lo sviluppo del
capitalismo e l'estensione del conflitto sociale, germinarono
atteggiamenti riformistici. Il ciclo espansivo dell'economia
europea centro-occidentale, iniziato dopo il 1848, nonostante le
fasi depressive, proseguì per tutto il secolo, tanto che
tra il 1870 e il 1900 la produzione industriale quadruplicò
in Germania, raddoppiò in Francia e crebbe del cinquanta
per cento in Inghilterra. Tuttavia il capitalismo si concentrava
ma non crollava; il proletariato cresceva ma i ceti medi solo in
parte venivano proletarizzati, anzi nuovi ceti medi si formavano e
crescevano. Il proletariato si organizzava nei primi sindacati e i
partiti operai e socialisti se ne avvantaggiavano, lottando per i
miglioramenti economici e per il riconoscimento dei diritti
politici e di associazione. Al posto della rivoluzione, che si
allontanava, si sviluppavano gli argomenti tipici del riformismo.
Si ponevano, cioè, le condizioni oggettive per un riesame
critico delle teorie e delle previsioni di Marx.
Fu lo stesso Engels nell'Introduzione alla ristampa delle Lotte di
classe in Francia dal 1848 al 1850 a valutare positivamente il
progressivo aumento dei consensi elettorali ottenuti dal partito
socialdemocratico tedesco dopo l'introduzione del suffragio
universale voluto da Bismarck. "Avanzando di questo passo -
scrisse Engels - per la fine del secolo avremo conquistato la
maggior parte dei ceti medi della società, dei piccoli
borghesi come dei piccoli contadini e saremo diventati nel paese
la forza decisiva, alla quale tutte le altre dovranno richiamarsi,
lo vogliano o meno [...] Noi, i 'rivoluzionari', i 'sovversivi',
prosperiamo molto meglio con i mezzi legali che con i mezzi
illegali e con la sommossa".
Negli ultimi decenni dell'Ottocento si manifestò una
discrasia sempre più visibile fra teoria e prassi
all'interno dei maggiori partiti socialisti europei.
All'intransigenza teorica e al costante richiamo all'ortodossia
marxista si accompagnò una prassi sempre più
flessibile in rapporto al capitalismo e alla democrazia liberale.
Una prassi che mirava a migliorare e riformare, anche
radicalmente, ma non a distruggere l'ordinamento esistente e
addirittura a riconoscerne i valori di fondo. Si cominciò a
delineare quel dualismo fra 'programma minimo' e 'programma
massimo', che di fatto ingabbiò il movimento socialista
continentale in una logica immobilista, che spinse Max Weber a
definire la socialdemocrazia tedesca un "gigante organizzativo" e
un "nano politico", incapace di "integrarsi" e di assolvere una
funzione nazionale di governo (cfr. M. Weber, Der Nationalstaat
und die Volkswirtschaftspolitik, 1895). La preoccupazione
dominante della dirigenza socialista era l'autoconservazione,
l'accrescimento continuo dell'organizzazione e la conservazione
della purezza ideologica in vista della 'battaglia finale'. La
teoria marxista fungeva da puro fattore di "integrazione interna"
(v. Ranieri e Minopoli, 1993, p. 66). Il profetismo catastrofico
del marxismo di Erfurt fungeva da alibi alla chiusura prussiana
delle classi dirigenti da un lato, e dall'altro assolveva la SPD
da ogni responsabilità politica di governo. Come disse nel
1904 Jean Jaurès in polemica con Bebel, il
"rivoluzionarismo del partito tedesco" era di "parole e non di
fatti".
Le acute analisi di Max Weber si incrociarono con il revisionismo
di Eduard Bernstein (v. Salvadori, 1981, pp. 316-322). Questi,
venuto a diretto contatto nel suo lungo soggiorno inglese
(1888-1901) con una cultura dichiaratamente gradualista e
social-riformista, diede forma compiuta alla sua radicale
revisione del marxismo, pubblicando sulla "Neue Zeit", tra il 1895
e il 1898, Die Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben
der Sozialdemokratie (I presupposti del socialismo e i compiti
della socialdemocrazia) e Wie ist wissenschaftlicher Sozialismus
möglich? (È possibile il socialismo scientifico?), il
saggio destinato a diventare la Bibbia del revisionismo.Il
contatto con gli ambienti neokantiani aveva già orientato
Bernstein, uno dei due pupilli del vecchio Engels, insieme con
Kautsky, verso la definizione delle basi etiche e volontaristiche
del socialismo di contro alle pretese scientifiche e
deterministiche dell'ortodossia marxista, riaffermata nel
programma di Erfurt.
Le stesse critiche di Bernstein alle posizioni dello
Staatssozialismus, cioè del riformismo come progressiva
estensione del controllo statale nell'economia e nella politica
sociale, erano diverse da quelle che gli ortodossi Kautsky, Bebel
e Liebknecht utilizzarono in polemica con il leader del riformismo
pratico e del gradualismo legalitario, il bavarese von Vollmar.
Quelle di Bernstein erano le critiche di un riformismo di impronta
liberale, avverso allo statalismo e alle nazionalizzazioni. Un
riformismo socialista di impronta liberale, che si
rafforzò, con il soggiorno inglese, nel contatto con una
cultura empiristica e antidogmatica, tradizionalmente avversa alle
sistemazioni ideologiche totalizzanti della cultura continentale.
Si ponevano, così, le premesse di quella riflessione
intorno al rapporto fra socialismo e liberalismo, che costituisce
il dato più originale del revisionismo di Bernstein in
vista di un socialismo fondato sull'"uguaglianza delle
possibilità". In antitesi all'ideologia ufficiale, che
aveva trasformato il socialismo in una religione terrena, il
socialismo di Bernstein coincideva con il processo graduale di
estensione dei diritti e di introduzione di elementi di
regolazione sociale.
Il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro degli operai
passava non per la garanzia 'scientifica' della rivoluzione, ma
attraverso una politica delle alleanze, l'ampliamento delle
libertà formali, assicurate dalle istituzioni democratiche,
e la continua correzione dell'assetto politico-sociale con
elementi di socialismo. Lo scopo finale del socialismo - secondo
Bernstein - "non è nulla. Il movimento è tutto". Il
revisionismo bernsteiniano implicava il superamento
dell'ispirazione classista della lotta dei lavoratori, che,
invece, dovevano porsi all'avanguardia del movimento democratico e
progressivo inteso a riformare la società borghese e a
realizzare le promesse dell''89, abbandonando i miti
palingenetici. "La democrazia - scrisse Bernstein nei Presupposti
- è al tempo stesso mezzo e scopo. È il mezzo della
lotta per il socialismo ed è la forma della realizzazione
del socialismo".
Bernstein fu accusato di abbandonare lo "scopo finale" e il
revisionismo fu attaccato da tutto il fronte socialdemocratico
europeo, da Kautsky a Turati, dalla Luxemburg ai menscevichi
russi. 'Revisionismo' e 'riformismo' si muovevano su piani
diversi, l'uno teorico e l'altro pratico, ma mentre tutti i
revisionisti erano riformisti, non tutti i riformisti erano
revisionisti. Quello che prevalse fu un "riformismo dei mezzi o
strumentale" (v. Settembrini, 1982), nel quale, al di là
della prassi riformista, restava l'idea della conquista dello
Stato come preludio alla palingenesi totale. Tanto che i seguaci
di Turati, il leader del riformismo socialista italiano, potevano
dirsi "riformisti perché rivoluzionari e rivoluzionari
perché riformisti" (1902). Il socialismo nella sua valenza
riformista fu caratterizzato nei maggiori paesi europei, tranne in
Inghilterra, da una prassi forte fondata su una teoria debole.
Quei socialisti che cercarono di trovare una coerenza fra
revisionismo e riformismo, come il francese Alexandre Millerand,
autore de Le socialisme reformiste (1903), e l'italiano Ivanoe
Bonomi, autore de Le vie nuove del socialismo (1906), furono
bollati con l'accusa di 'ministerialismo'.
7. Dalla 'Progressive era' al 'New deal'
I problemi creati dal processo di concentrazione industriale e
dall'urbanesimo fra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del
Novecento provocarono anche negli Stati Uniti un forte movimento
politico riformatore di matrice liberale e liberista, che
originò una legislazione antimonopolistica (Sherman
antitrust act, 1890 e Clayton antitrust act, 1914). Gli enormi
dislivelli di ricchezza, il degrado dei quartieri urbani poveri,
le prevaricazioni degli apparati di partito, furono percepiti dai
progressisti come fenomeni degenerativi dei tradizionali ideali
americani di democrazia politica ed economica. Per restaurare il
"governo del popolo" erano necessarie profonde riforme politiche e
fra queste l'elezione diretta e popolare dei senatori, sancita nel
1913 con il XVII Emendamento alla Costituzione. Durante la
'Progressive era', il periodo fra la fine dell'Ottocento e
l'inizio del Novecento, in parte coincidente con la presidenza di
Theodore Roosevelt, si registrarono profonde riforme a livello di
amministrazione urbana e di singoli Stati, che toccarono anche la
sfera sociale con la riduzione degli orari di lavoro, il salario
minimo per le donne lavoratrici, le assicurazioni contro gli
incidenti sul lavoro, l'abolizione del lavoro minorile. Prima
dello scoppio della guerra mondiale, sembrava che nella vecchia
Europa e negli Stati Uniti, sebbene in forme e modalità
diverse, il riformismo s'imponesse come politica obbligata per
contenere nell'alveo della democrazia le spinte e i conflitti di
una società di massa, caratterizzata da grandi partiti
politici, sindacati forti e agguerriti, organi di informazione
pronti a recepire i bisogni delle masse. La politica delle
riforme, nella loro doppia valenza di ampliamento dei diritti di
cittadinanza e di orientamento regolatore delle dinamiche
produttive e sociali, ebbe un'importanza centrale nel processo che
conduceva le nazioni industriali dapprima al riconoscimento dei
diritti civili e politici, e quindi al loro completamento
attraverso certi diritti sociali. La guerra e le sue conseguenze -
a partire dalla Rivoluzione d'ottobre -, il fascismo e poi il
nazismo, alimentarono in Europa una forte pregiudiziale
antiriformista. La spirale della violenza e del dispotismo degli
opposti estremismi del comunismo e del fascismo, soffocò la
democrazia in tutti i paesi dove aveva fragili basi e minore era
stata la funzione di integrazione nazionale dei partiti
socialisti. La critica al sistema liberaldemocratico e al
riformismo sfociò nei totalitarismi, che hanno
caratterizzato questo secolo. La crisi della socialdemocrazia
accentuò la critica al riformismo e rilanciò il
progetto rivoluzionario. Lenin bollò il riformismo come
"una tentazione, nel movimento dei lavoratori, ostile al marxismo
rivoluzionario e agli interessi del proletariato". Nella spirale
della violenza e degli opposti estremismi del comunismo e del
nazismo fu inghiottita anche l'ipotesi del riformismo statalista
weimariano elaborato dal socialdemocratico Rudolf Wissel e da
Rudolf Hilferding, teorico dell'austromarxismo e del 'capitalismo
organizzato'.
Negli anni venti e trenta anche l'ultima espressione di un
riformismo statalista, che aveva cercato di identificare la
socializzazione con la pianificazione statale piuttosto che con la
democratizzazione, finì nella crisi della Repubblica di
Weimar, lasciando aperta la via al totalitarismo nazista. Il
'socialismo liberale' (1929), antidirigista e intimamente
democratico, di un antifascista come Carlo Rosselli poteva
apparire, ormai, come un'eresia fondata sull'incontro tra gli
ideali del socialismo e quelli propri della tradizione liberale,
"dell'attuazione progressiva dell'idea di libertà e di
giustizia".
Solo negli Stati Uniti, davanti alla catastrofe del crollo della
Borsa di New York nel 1929 e alla grave crisi depressiva che
investì il capitalismo, il riformismo fu ampiamente assunto
nella teoria economica e nella politica del New deal, quale
elemento propulsivo e correttivo all'interno del sistema. Sulla
linea già tracciata dagli economisti Thorstein Veblen e
John Rogers Commons, che avevano criticato la pericolosa sfasatura
fra i reali bisogni sociali e la sfrenata rincorsa al profitto,
nonché con l'avallo scientifico offerto dalle indicazioni
dell'economista inglese John Maynard Keynes, che si rivolse al
neoeletto presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt,
con una Lettera aperta, si venne concretamente a manifestare
l'idea di uno Stato attivamente riformatore e apportatore di
benessere (Welfare State). Un gruppo di tecnici di valore (Brain
trust) venne chiamato a elaborare un programma volto a sostituire
l'indiscriminato e selvaggio liberismo con un sistema misto, dove
lo Stato era spinto a svolgere un ruolo di sostegno e di
intervento sul piano economico e sociale per regolare le dinamiche
produttive in modo da riversarne i benefici anche sui ceti meno
abbienti. Ancora una volta il riformismo si alimentava
dell'ottimismo e della fiducia nel progresso e nella
partecipazione, libera e consapevole, dei cittadini alle decisioni
collettive attraverso le regole e le istituzioni della democrazia.
Si formò, allora, mentre l'Europa era dominata dal
confronto-scontro fra sistemi totalitari, il moderno paradigma del
riformismo, incentrato sulla combinazione della logica keynesiana,
basata sulla crescita della domanda interna, sul pieno utilizzo
delle risorse e sull'intervento attivo della spesa pubblica, con i
principî redistributivi e solidaristici del Welfare e la
piena occupazione.
8. Dal Welfare State al modello laburista
Tuttavia anche in Europa i difficili problemi della riconversione
dopo la prima guerra mondiale e ancor di più i traumi
provocati dalla grande crisi del 1929 avevano dimostrato tutta
l'insufficienza delle politiche tradizionali e la
drammaticità sociale e politica degli effetti della crisi.
L'intervento dello Stato sembrava lo strumento più idoneo
per orientare le strategie dello sviluppo economico e per la
realizzazione di un regime di pieno impiego della manodopera. Le
politiche di pianificazione adottate dallo Stato sovietico e dallo
statalismo autarchico dei regimi fascisti costituivano la variante
totalitaria alle teorie adottate in alcuni paesi europei per
affrontare la grande depressione. Solo in Svezia la
socialdemocrazia cercò di coniugare una politica economica
di chiara ispirazione keynesiana con una strategia riformatrice,
mentre in Inghilterra si realizzò una certa convergenza fra
le stesse teorie keynesiane e la tradizione laburista. Più
contrastata fu la politica delle riforme di struttura proposta in
Francia dai socialisti e dai comunisti nel 1936 dopo il successo
del Fronte popolare; mentre in Belgio, il partito operaio guidato
da De Man e Spaak, vide nel planismo, nella socializzazione delle
industrie monopolistiche e delle banche, la chiave di volta per
superare, da un lato, l'inerzia del riformismo tradizionale, e per
giungere, dall'altro, a una revisione del marxismo. Il riformismo
degli anni tra le due guerre si presentava in Europa quantomai
eterogeneo e contraddittorio, non solo in relazione alle diverse
esperienze nazionali, ma anche ai contrasti ideologici fra le
diverse componenti della sinistra, dove i comunisti, pur avendo
abbandonato la teoria del socialfascismo, s'erano trovati ad
abbracciare, dopo la svolta del Comintern del 1934-1935, la
politica dei Fronti popolari per motivi tattici e senza una reale
convinzione riformista.
Solo nel dopoguerra in Europa si cominciarono ad adottare
politiche di programmazione economica e di estensione delle
funzioni dello Stato nel quadro di un processo di estesa
democratizzazione politica e di politiche di sviluppo. Il caso
inglese si presentò, allora, come un punto di riferimento
centrale del socialismo riformista europeo nel periodo della
ricostruzione. I laburisti, saliti al potere nel 1945, ripresero i
progetti della commissione Beveridge del 1942 per la creazione di
un sistema di assicurazioni sociali e di un servizio collettivo di
assistenza sanitaria. Il risoluto programma di riforme sociali,
che ebbe come protagonista il premier Clement Attlee e il ministro
della Sanità Axeurin Bevan, nel contesto di una politica
che si richiamava alla teoria keynesiana della
complementarità fra misure monetarie e misure fiscali, pose
le fondamenta di un moderno Stato sociale. A questo modello si
ispirarono, sia pure con diverse sfumature, alcuni partiti
socialdemocratici nordeuropei a capo di governi monocolori o di
coalizione. In particolare in Svezia si arrivò alla
definitiva istituzionalizzazione del principio della concertazione
fra capitale e lavoro in materia di formazione professionale e di
condizioni di lavoro, e alla graduale estensione dell'intervento
pubblico nei settori della comunicazione e delle risorse naturali.
Anche in Norvegia e Danimarca i socialdemocratici adottarono
politiche di perequazione fiscale e di costruzione di moderni
sistemi di sicurezza sociale.
Tutte le iniziative riformatrici e i progetti di programmazione
formulati dai laburisti e dalle socialdemocrazie dell'Europa
nordoccidentale, diventate ormai forze di riferimento anche dei
ceti medi, obbedivano a modelli empirici e a criteri funzionali,
come del resto avvenne in Olanda sotto l'influenza delle scelte
socialiste ispirate agli orientamenti pragmatici della scuola di
Tinbergen.
A questo modello si richiamò anche la nuova
socialdemocrazia tedesca, specialmente dopo il congresso di Bad
Godesberg (1959), che portò all'abbandono esplicito di ogni
legame con la tradizione marxista, ponendo la socialdemocrazia
tedesca quale punto di riferimento riformatore nell'ambito del
sistema capitalista. Ormai i socialdemocratici si ponevano il
compito di controbilanciare l'economia di mercato, rinunciando a
sostituirla e puntando, invece, alla difesa e allo sviluppo delle
garanzie dello Stato sociale e della democrazia secondo il modello
del Welfare State.
Un modello nel quale si ritrovavano tutti i socialdemocratici che
avevano abbandonato il marxismo, ma anche tutti i liberali che si
riconoscevano nella tradizione per cui chiunque voleva uno Stato
compiutamente liberale non poteva esimersi dal metter mano a
riforme sociali. Una tradizione liberale che si era irrobustita
teoricamente grazie alla critica del totalitarismo, a partire da
pensatori come Karl Popper, teorico della "società aperta"
(cfr. The open society and its enemies, London 1945), per il quale
solo la democrazia può rendere efficace il controllo sui
governanti e rendere possibile l'attuazione di riforme senza
violenza.
Nel secondo dopoguerra, accanto al paradigma riformistico del
Welfare State, che, come si è visto, trovò un punto
di riferimento centrale nel laburismo inglese durante il periodo
della ricostruzione, si assistette a una rinascita del riformismo
strumentale, ma su basi nuove, come variante occidentale del
movimento comunista internazionale. Il riformismo strumentale
manteneva la contrapposizione fra democrazia formale e democrazia
sostanziale, e vedeva nella richiesta di riforme sempre più
avanzate e di struttura lo strumento di lotta in grado di far
scoppiare le contraddizioni delle società capitalistiche e
l'inevitabile conflitto fra democrazia e capitalismo.
9. La crisi del Welfare State e il ripensamento del riformismo
L'esaurimento del socialismo e la scomparsa di ogni credibile
alternativa teorica alla democrazia liberale costituiscono, oggi,
una sfida per il riformismo, specialmente in presenza
dell'offensiva neoliberale contro il Welfare State.
Per quasi due secoli il riformismo ha cercato di contrastare
l'estremismo rivoluzionario e lo spirito reazionario. Le due
culture che più hanno agito nel dare forma e senso alla
società moderna sono state il liberalismo e il socialismo,
ma proprio queste due culture, quando si sono irrigidite nel
dogmatismo ideologico, sono state fortemente divise e
antagonistiche, quando, invece, si sono incontrate hanno
alimentato il moderno riformismo.
Alla fine del XX secolo la vera questione che si pone non è
quella del rapporto fra liberaldemocrazia e socialismo, che ancora
nel 1942 un liberale come Joseph Schumpeter aveva sostenuto essere
decisiva per le sorti dell'Occidente, bensì quella del
rapporto fra democrazia e capitalismo. Dopo il crollo dei regimi
comunisti dell'Est, i destini della modernità (il
capitalismo e la democrazia) sono ormai inseparabili. Si tratta di
capire se ci sia spazio per una concezione della democrazia che
non sia totalmente subordinata al modello del mercato e alla sua
logica concorrenziale. Non è difficile, tuttavia,
constatare che se la libertà non esiste senza mercato,
nessuna società democratica, a cominciare dalla più
capitalistica (gli Stati Uniti), può funzionare senza una
vasta rete di ridistribuzione sociale. Nel senso stretto,
economico del termine, oggi non esistono più, né a
Oriente né a Occidente, società puramente liberali o
società puramente socialiste. Del resto nemmeno le riforme
neoliberiste di Reagan e della Thatcher hanno prodotto il completo
smantellamento del Welfare State.
Il riformismo ha potuto agire meglio quando le istituzioni
liberaldemocratiche hanno lasciato aperto il campo alla dialettica
politica e sociale, e al cambiamento indotto dal processo di
modernizzazione e dallo sviluppo dell'economia di mercato.
L'accettazione della democrazia formale costituisce non solo il
vero discrimine fra il riformismo forte e il riformismo
strumentale, ma il banco di prova del riformismo possibile. Nuovi
problemi e nuove emergenze, a partire dal rovesciamento del
rapporto tra crescita economica e aumento degli occupati
nell'industria, l'inizio della loro diminuzione da un lato e,
dall'altro, il loro passaggio dall'area debole della
società a quella protetta e del benessere ("la
società dei due terzi"), impongono una seria revisione
dello Stato sociale. Si è interrotto il circolo virtuoso
dello sviluppo economico e della progressiva estensione del
Welfare, che ovunque ha prodotto deficit insostenibili e
inefficienze, oltreché perdita del senso di
responsabilità collettiva e individuale. I costi della
solidarietà orizzontale sono stati scaricati, attraverso il
deficit pubblico, sulle generazioni future. Inoltre la politica di
inclusione nella cittadinanza non può più avere una
dimensione esclusivamente nazionale, né può
trascurare il fenomeno dell'immigrazione, ossia della presenza di
vaste fasce sociali prive non solo di diritti sociali, ma di tutte
le prerogative della cittadinanza, compresi i diritti politici (v.
Zincone, 1992). La sfida ambientale, il disordine internazionale,
il declino demografico dei 'paesi ricchi' dell'Occidente, il
sorgere di nuovi movimenti sociali e nuovi soggetti politici, la
sfida della diversità etnica e culturale, richiedono una
nuova definizione del riformismo e una nuova capacità
progettuale. La nota tesi di Keynes, secondo cui le idee finiranno
per prevalere sugli interessi, dovrà cimentarsi in un
contesto ancora più complesso e difficile per dimostrare
che il Welfare State si può ancora oggi considerare
l'acquisizione più alta della cultura riformista e
l'artificio migliore, ancorché imperfetto, per ridurre sia
il privilegio che la povertà.