Riformismo

 

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In genere, ogni metodo d’azione politica che, ripudiando sia i sistemi rivoluzionari sia il conservatorismo, riconosce la possibilità di modificare l’ordinamento politico sociale esistente solo attraverso l’attuazione di organiche, ma graduali riforme. Si dice anche, in senso spregiativo, di una politica, sostanzialmente conservatrice, che si limita a marginali riforme in un dato sistema sociale, senza modificare le fondamentali strutture del sistema stesso. Storicamente il r. è legato all’affermazione del sistema parlamentare e alla convinzione che sia possibile realizzare una trasformazione sociale attraverso lo strumento legislativo.
Il termine fu introdotto nel vocabolario politico in occasione della campagna condotta in Inghilterra, tra la fine del 18° e l’inizio del 19° sec., per l’allargamento del suffragio elettorale, culminata nel Great reform bill del 1832. Ripreso successivamente nell’ambito del movimento socialista, assunse un significato più specifico, con particolare riferimento alla contrapposizione tra riforme e rivoluzione, nella prospettiva del superamento dei rapporti capitalistici di produzione e del corrispondente assetto politico. La corrente riformista, ossia la tendenza favorevole a un’azione gradualistica che privilegiava l’azione legale e le rivendicazioni immediate dei lavoratori, fu alla base dello sviluppo del movimento sindacale e politico di vari paesi europei.
A partire dalla seconda metà del 20° sec., si definiscono riformisti i partiti socialdemocratici o socialisti che hanno abbandonato l’ideologia marxista e che si propongono quindi non di superare il capitalismo, ma di correggerne (attraverso vari strumenti) i difetti.

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Enciclopedia delle Scienze Sociali (1997)

di Zeffiro Ciuffoletti

Riformismo

Sommario: 1. Definizione di riformismo. 2. Il riformismo dispotico illuminato. 3. Il riformismo liberal-radicale. 4. Il protoriformismo: associazionismo e democrazia. 5. Il riformismo cesaristico e il riformismo conservatore o dall'alto. 6. Socialismo e riformismo: l'antitesi ambigua fra riforme e rivoluzione. 7. Dalla 'Progressive era' al 'New deal'. 8. Dal Welfare State al modello laburista. 9. La crisi del Welfare State e il ripensamento del riformismo.

1. Definizione di riformismo

La tradizionale sequenza storica che i paesi dell'Occidente hanno conosciuto, in forme e tempi diversi - dallo Stato liberale, allo Stato democratico, allo Stato sociale -, è stata accompagnata nelle sue fasi cruciali e costruttive da politiche riformiste. Le riforme nel corso del tempo e nei vari paesi hanno caratterizzato, a volte in mezzo ad accesi confronti fra attori sociali, politici e istituzionali, le dinamiche della modernizzazione.

Nell'uso corrente del termine 'riformismo', specialmente in sede politica e storiografica, si incontrano accezioni diverse e talora irriducibili. Insieme a una accezione positiva, la quale, mentre ripudia sia la prospettiva rivoluzionaria sia quella conservatrice o reazionaria, mira a promuovere il progresso della società attraverso riforme graduali dell'assetto politico, giuridico, economico e sociale, si incontra un'accezione negativa che vede nel riformismo l'attitudine deteriore ad adottare espedienti.

Sempre su un piano generale, quindi, il riformismo viene inteso da un lato come una ideologia politica che non crede nell'efficacia dei cambiamenti traumatici e violenti, mentre preferisce un lento e progressivo cambiamento delle istituzioni e della società, dall'altro lato come un atteggiamento politico dettato da un pragmatismo di basso profilo morale, indifferente rispetto ai valori, se non addirittura capace di svuotare di significato le grandi scelte e di sconfinare nell'opportunismo.

Non mancano, infine, usi diversi del termine riformismo. Si usa l'espressione riformismo dall'alto a proposito del dispotismo illuminato, ma si parla anche di riformismo liberaldemocratico, di riformismo cesaristico-bonapartista, o di riformismo socialdemocratico in riferimento a programmi e a misure di governo atti a produrre significativi mutamenti nell'assegnazione di risorse sociali e diritti di cittadinanza. Si tratta di usi parzialmente corretti del termine, non sempre in linea col progetto moderno iscritto nell'accezione positiva del riformismo, che invece comprende il coinvolgimento delle masse nel processo politico attraverso il principio della sovranità popolare. L'accezione moderna e positiva del riformismo, quindi, rinvia "a una società caratterizzata non solo dal crescente protagonismo delle masse, in conseguenza delle fasi dello sviluppo politico designate dagli studiosi come costruzione della nazione, crisi di partecipazione e crisi di distribuzione, ma altresì da un avanzato processo di secolarizzazione, ovvero da una 'cultura civica' laica, individualistica, pluralistica, tollerante che relega a privacy fedi e credenze un tempo vincolanti per la sfera pubblica" (v. Cofrancesco, 1993, p. 737). In questo senso il riformismo appartiene alla sfera delle culture politiche liberaldemocratiche e socialdemocratiche, che rappresentano l'aspetto politico del processo di modernizzazione legato a sua volta all'industrializzazione, alla secolarizzazione e alla politicizzazione delle masse.

2. Il riformismo dispotico illuminato

Esiste tuttavia un legame di ordine filosofico che, al di là delle diverse situazioni storiche, si trova nelle accezioni positive del riformismo. Tale caratteristica comune può essere messa in luce proprio nell'individuazione dei principali assunti intellettuali relativi all'uomo e alla società che contraddistinguono le modalità d'azione del riformismo: il razionalismo e la fede nel progresso. Il razionalismo comporta il convincimento che tutte le consuetudini e le istituzioni possano venire legittimate solo tramite l'uso consapevole della ragione umana. L'idea del progresso, a sua volta, ripone fiducia nella perfettibilità dell'uomo, della società e delle istituzioni. Non a caso il manifestarsi del riformismo come riformismo illuminato coincide con l'affermarsi dell'illuminismo e con l'attività paternalisticamente sollecita dei sovrani settecenteschi. Sotto l'influenza delle dottrine illuministiche e con la diretta collaborazione o ispirazione di alcuni fra i maggiori intellettuali del tempo, elevati al rango di consiglieri, ministri o grands-commis, sovrani come Federico II di Prussia, Maria Teresa e Giuseppe II d'Austria, Pietro Leopoldo di Toscana, Caterina II di Russia e Carlo III di Napoli, progettarono o realizzarono vasti programmi di riforme, che introdussero elementi di razionalità e di modernità nei rispettivi Stati. Tali riforme miravano a sottomettere alla legislazione civile l'attività temporale della Chiesa, secondo i principî del giurisdizionalismo, a limitare i privilegi della nobiltà e del clero, ad affermare l'uguaglianza di tutti i sudditi di fronte allo Stato, concentrando tutti i poteri nelle mani del principe. Erano, tuttavia, riforme amministrative più che politiche, o politiche più che sociali (riforme fiscali, penali, provvedimenti per favorire la circolazione delle merci, abolizione dei dazi, istituzioni dei catasti, lotta contro i privilegi). Le diverse esperienze sottintendevano un ottimismo razionalistico basato sulla fiducia nella progressiva estensione dei 'lumi' e nel progresso tecnico-scientifico e spirituale. Non si trattava solo di correggere gli abusi e le degenerazioni, ma anche di andare oltre, accogliendo l'ispirazione dottrinaria di poter dedurre dalla formula universale della ragione astratta le norme per valutare la realtà, criticarla e trasformarla.

Tutto un filone di pensatori liberali, da Hayek (v., 1952) fino a Hannah Arendt (v., 1958), ha mostrato come nel Settecento prenda corpo l''illusione' di estendere i metodi delle scienze naturali alle scienze sociali, con la pretesa di scoprire le leggi (naturali) dello sviluppo storico oppure l'ambizione di pianificare la società sul metro della ragione. Secondo questi pensatori l'esito storico di tale razionalismo, che trovò espressione nel radicalismo democratico e nel giacobinismo, fu l'autoritarismo e il totalitarismo (cfr. J.L. Talmon, The origins of totalitarian democracy, London 1952).La fiducia illuministica nel dispotismo riformatore si concretizzò nel Settecento nel quadro di profonde trasformazioni che investirono diversi campi, dall'economia alla cultura, dalla società allo Stato. Il superamento dell'economia mercantilistica con l'avvio della rivoluzione industriale costituisce il fenomeno più carico di conseguenze. Sul piano politico il passaggio dalle teorie dell'assolutismo al contrattualismo accompagna la transizione dal dispotismo arbitrario al dispotismo legale dei principi illuminati, fino all'emergere delle teorie liberali sulla divisione dei poteri e allo scoppio della Rivoluzione francese del 1789, con la quale prende corpo quella contrapposizione fra riforme e rivoluzione destinata a diventare una costante che accompagna in Europa il processo di democratizzazione.

La Rivoluzione francese, aprendo la via alla mobilitazione e alla politicizzazione delle masse, fece saltare l'illusione del governo dei philosophes. L'illusione, cioè, di poter neutralizzare la politica e i conflitti di interessi e di valori contrastanti, mantenendo il monopolio della politica in mano ai 'sapienti' e ai 'virtuosi', e nello stesso tempo trasformando i problemi pubblici in mere questioni tecnico-amministrative. La visione autoritaria della politica era in realtà presente sia nel riformismo dispotico illuminato dei principi, sia nel riformismo radicale dei giacobini. L'uno e l'altro metodo di governo miravano a neutralizzare dall'alto il conflitto proprio per l'incapacità di disciplinarlo tramite procedure, istituzioni e regole condivise. Il primo, evitando il coinvolgimento delle masse nel processo di riforma, il secondo trasformando il popolo concreto in una pura astrazione, una rappresentazione mitica della rivoluzione (v. Furet, 1978).Il riformismo dei despoti fu una risposta alla crisi dello Stato d'ancien régime, del quale accelerò la fine. Il riformismo radicale, a sua volta, utilizzando il mito della 'democrazia pura' o 'senza rappresentanza', lasciò ampio spazio a una oligarchia rivoluzionaria che in realtà pretese di decidere tutto alle spalle delle masse. L'illusione di poter edificare la repubblica rappresentativa sulle rovine del Terrore giacobino e di stabilizzare la rivoluzione in una realtà istituzionale democratica, finì, come è noto, nel riformismo cesaristico di Napoleone Bonaparte, del quale Alexis de Tocqueville (L'ancien régime et la Révolution, 1856) sottolineò la continuità con la monarchia centralizzatrice di antico regime. "Tutto ciò che la rivoluzione ha fatto - scrisse Tocqueville - si sarebbe fatto, non ne dubito, senza di lei" (cfr. A. de Tocqueville, Frammenti storici sulla Rivoluzione francese, Milano 1943, p. 98).Tuttavia proprio l'ambiguità del rapporto fra il riformismo dei despoti illuminati e il riformismo radicale si evidenzia con l'avvento del paradigma moderno della rivoluzione, come cesura radicale rispetto al passato; avvento di un'epoca totalmente diversa che segna la nascita dell'umanità redenta e dell''uomo nuovo'. Una visione della storia come processo escatologico, che si lega all'idea di una meta ultima da raggiungere gradualmente, per tappe rivoluzionarie successive. Per questa via riformismo e rivoluzione si contrappongono e si incontrano. Per un lungo lasso di tempo, mentre la società viene solcata dai conflitti sociali del moderno sviluppo capitalistico e dalle ripercussioni politiche della Rivoluzione francese, strategie rivoluzionarie e tattiche riformistiche, mosse da istanze morali e filosofiche di comune derivazione illuministica, si contrappongono e si confondono.

3. Il riformismo liberal-radicale

Gli eventi rivoluzionari in Francia, l'esplosione del Terrore e poi il lungo periodo bellico dell'età napoleonica avevano bloccato non solo il riformismo illuminato nell'Europa continentale, ma anche ogni tentativo di riforma delle istituzioni politiche. Tuttavia i grandi motori della modernizzazione, l'industrializzazione e la secolarizzazione, generavano un dinamismo generale che dava luogo a conflitti sociali e di valori, corrosivi degli antichi equilibri politici e sociali. Le virtù tradizionali, valide nelle piccole società chiuse e omogenee (famiglia, villaggio, città-Stato), non erano più sufficienti a procurare il bene pubblico nelle grandi società aperte ed eterogenee. Non a caso uno dei più importanti sviluppi che accompagnarono la modernizzazione fu la creazione dello Stato-nazione. "Lo Stato-nazione fu anche un veicolo necessario perché si affermasse il moderno contratto al posto di vincoli feudali. Esso fornì il quadro di leggi e istituzioni capaci di sostenerlo" (v. Dahrendorf, 1988; tr. it., p. 37). La rivoluzione industriale e la Rivoluzione francese, sul piano sociale e su quello politico, esaltarono il ruolo della borghesia. Per utilizzare le nuove possibilità offerte dalla tecnologia e dalla divisione del lavoro "i primi imprenditori avevano bisogno di una forma di lavoro diversa dai tradizionali modelli di schiavitù. Avevano bisogno di lavoro salariato, e questo comportava contratti fra controparti uguali sul piano formale. Questo, a sua volta, presuppone diritti civili elementari per tutti. [...] Così, gli interessi economici e quelli politici della prima borghesia convergevano nella richiesta di un grande rinnovamento: la cittadinanza" (ibid., p. 10).

In Inghilterra, il paese più avanzato nello sviluppo del capitalismo, questa situazione generò un movimento per le riforme che poté invocare a suo sostegno quel criterio dell'utilità che era tipico del costume inglese, ma che ora trovava nel padre dell''utilitarismo', Jeremy Bentham, uno dei teorici più agguerriti.

In contrapposizione alla tradizione del giusnaturalismo, Bentham formulò il 'principio di utilità', secondo il quale l'unico criterio che doveva ispirare il buon legislatore era quello di emanare leggi che avessero per effetto la maggior felicità per il maggior numero di individui. Nella Introduction to the principles of morals and legislation (1789), Bentham aveva sostenuto che ogni atto era moralmente valutabile in rapporto alla misura di felicità che produceva. Persino il diritto di proprietà si giustificava solo in relazione alla massima felicità per il maggior numero di individui e quindi andava posto in relazione ad altri fini sussidiari (subordinate ends, buts subordonnées): sicurezza, eguaglianza, sussistenza e abbondanza. Spettava al legislatore trovare il giusto equilibrio fra questi fini in modo da favorire la massimizzazione del benessere e della felicità. Lo Stato doveva contribuire a orientare le scelte individuali (il "calcolo edonistico" individuale) verso il benessere comune. In questo modo si apriva un varco all'azione 'interventista' del governo ai fini della massimizzazione della felicità comune. Per realizzare questa politica occorreva liberare le istituzioni dagli interessi di parte e fondare lo Stato su principî democratici, agendo in base all'orientamento della maggioranza. In questo ambito va collocato l'uso benthamiano del termine 'reformer', nel senso di gradualismo teso ad "aumentare la somma totale del benessere degli individui che la [comunità] compongono".

In Inghilterra l'incontro dell'utilitarismo con il movimento per la riforma radicale dell'ordinamento politico ed elettorale aprì la via a un liberalismo interventista e riformatore. Grazie a questo movimento, mentre in Francia scoppiava un'altra rivoluzione (luglio 1830), le istituzioni inglesi trovavano in se stesse, e senza rotture rivoluzionarie, la forza di riformarsi e di adeguarsi alla realtà. Nel 1832, quando i tories più illuminati si accostarono alla linea dei whigs, la nuova legge elettorale (Reform act) fu approvata e finalmente, dopo il vasto movimento messo in piedi dai radicali, i rotten boroughs (borghi putridi) furono cancellati e i seggi furono ridistribuiti a favore delle nuove città industriali e degli interessi sociali emergenti. La vecchia Inghilterra agrario-mercantile cedeva spazio politico alla nuova realtà industriale. Da quel momento si andò consolidando in Inghilterra quel sistema politico 'bipartitico' destinato a rendere fisiologico il processo riformistico come continuo adeguamento delle istituzioni e delle leggi alla trasformazione della società, secondo la logica dell'alternanza dei due partiti in competizione e secondo la pressione dell'opinione pubblica.

4. Il protoriformismo: associazionismo e democrazia

In questo contesto anche l'idea socialista che nel continente si manifesta come utopia, ipotizzando modelli comunistici ancora legati a una visione prevalentemente agricola della società, in Inghilterra diventa tentativo empirico e concreto di riforma sociale. Robert Owen, un industriale legato a Bentham, non si limitò a chiedere vaste riforme al governo per fronteggiare la crisi economica del 1816, ma passò alla realizzazione di stabilimenti industriali in grado di migliorare le condizioni dei lavoratori e di distribuire ad essi parte degli utili d'azienda. All'impresa capitalistica, fondata sul profitto, egli contrappose la cooperazione quale modello alternativo per la produzione e la distribuzione dei beni. Gli stessi operai si organizzarono e rivendicarono il diritto di associazione. Nel 1834 sorsero le Grand national consolidated trade unions e nel 1838 prese corpo il cartismo, un movimento in cui lavoratori ed esponenti radicali tentarono di mobilitare la classe operaia e l'opinione pubblica a favore di un vasto piano di riforme: suffragio universale maschile, voto segreto, uguaglianza dei collegi elettorali, indennità ai deputati, abolizione del requisito del censo per l'eleggibilità, elezioni annuali. Il movimento, sebbene diviso fra tattica riformistica mirante a uno sbocco parlamentare e tattica rivoluzionaria extraparlamentare, ebbe un vasto consenso, ma nelle sue espressioni politiche fu riassorbito nella logica riformistica del sistema, che, fra l'altro, portò alla protezione del lavoro infantile, alla riduzione dell'orario della giornata lavorativa e all'abrogazione delle Corn laws, che avevano mantenuto elevato il prezzo dei cereali e, quindi, del pane. Queste e altre riforme, unitamente al pragmatismo che animava la cultura politica inglese, fecero sì che l'isola restasse ancora una volta immune dallo spettro rivoluzionario che sconvolse la Francia e l'Europa continentale, dove le idee di nazione e di progresso avevano alimentato i movimenti dell'opinione pubblica e le aspirazioni democratiche, senza, peraltro, trovare uno sbocco politico istituzionale. In Francia la politica del just-milieu, affermatasi con la Rivoluzione del 1830 e con la definitiva stabilizzazione della monarchia parlamentare e della sovranità della 'nazione', aveva portato alla riforma elettorale, ma dal sistema venivano ancora esclusi i ceti medi e popolari. Nella delicata fase di crescita della società industriale tutta una serie di proposte di riforma economica e politica della società si collegavano all'idea della democrazia e della repubblica, passando attraverso lo strumento dell'associazione teorizzata da Saint-Simon. Gli stessi seguaci di Fourier, sostenitore di una "réforme générale et non partielle" dell'intero sistema economico e sociale, polemizzavano con i repubblicani, affermando l'indivisibilità dei diritti civili e politici dai diritti sociali.L'attenzione si concentrava sulla società e sulle forme in grado di garantire l'osmosi tra Stato e società richiesta dalla democrazia. Il problema era quello di trovare una corrispondenza reale tra la volontà del demos e la volontà dei rappresentanti, e quindi, come offrire al popolo la possibilità di esprimersi e di partecipare realmente alla formazione della volontà generale. Il diffondersi dell'associazionismo consentiva di risolvere questo problema, superando il particolarismo e l'atomismo della teoria liberale, senza correre il rischio di annullare le specificità individuali. L'associazionismo si presentava, infatti, non solo come uno strumento di solidarietà e di difesa di interessi che solo così potevano essere tutelati, ma anche come strumento di formazione di legami sociali e di maturazione del costume democratico. Philippe Buchez, Jean Reynard, Louis Blanc e Pierre Leroux, repubblicani e socialisti, erano tutti alla ricerca di una democrazia in grado di realizzare l'uguaglianza tramite l'associazione, come strumento capace di sostituire l'egoismo che animava la società del capitalismo concorrenziale con un nuovo spirito di solidarietà. La solidarietà, che legava i cittadini di uno Stato-nazione democratico, poteva trasformare i conflitti irriducibili della società individualistica ("la guerre de tous contre tous" di cui parlava Blanc) in contrasti di interessi, idee, sentimenti ricomponibili attraverso il confronto democratico.

In Francia la pregiudiziale repubblicana poneva questo movimento fuori dal quadro istituzionale della Monarchia di luglio, ma non c'è dubbio che nel periodo 1848-1871 lo sviluppo democratico della società europea fu legato anche all'azione dell'associazionismo (v. Mastellone, 1986, pp. 101-172). Tocqueville, nel libro primo della Démocratie en Amerique (1835) si era soffermato sull'associazionismo negli Stati Uniti ed era ritornato sul tema nel libro secondo (1840). Sull'associazionismo come via autonoma alla riforma della società si potevano incontrare sia i sostenitori di una democrazia riformatrice e socialista, sia i liberali più aperti alla democrazia. Un liberale-radicale, come John Stuart Mill, diffidente verso il socialismo, pur non escludendo in futuro la possibilità della realizzazione pratica dei sistemi collettivisti, nei Principles of political economy (1848) indicava come concreto obiettivo riformistico "non la sovvenzione del sistema di proprietà individuale, ma il suo miglioramento, e la piena partecipazione di ogni membro della comunità ai suoi benefici". Persino Jean-Baptiste Andre Godin, ex operaio, poi fondatore del Familistére di Guise e deputato all'Assemblea Nazionale di Versailles, mentre a Parigi assediata prendeva corpo l'esperimento della Commune, arrivò a sostenere (Solutiones sociales, 1871), che per ben due volte nel 1848 e nel 1871 la violenza della rivoluzione aveva interrotto la marcia armoniosa e progressiva dell'associazione. L'idea del progresso, sostenuta dal positivismo, suggeriva risposte concrete per i problemi del governo e della vita sociale. Comte poneva alla sommità delle scienze la sociologia, che analizzava l'ordine sociale, la "statica", e indicava nel progresso la "dinamica" del corpo sociale. Applicando i principî scientifici alla politica si potevano assicurare le condizioni per l'evoluzione della società, superando le diseguaglianze sociali in vista del comune 'progredire'. Con il positivismo inglese di Herbert Spencer l'idea di evoluzione di Darwin trapassò dall'ambito biologico a quello dell'organizzazione sociale. Tocqueville come John Stuart Mill si era reso conto che, sotto la spinta del 'progresso', le grandi trasformazioni sociali e il processo di politicizzazione delle masse, portavano irresistibilmente verso la democrazia. Le riforme diventavano la via obbligata per uno sviluppo graduale delle istituzioni liberali, tale da non sacrificare all'uguaglianza la libertà individuale. La democrazia come uguaglianza delle condizioni, dei diritti e non dei beni, costituiva il cardine di una società nella quale tutti erano posti in grado di esprimere con il voto la loro opinione e nella quale la più ampia libertà di associazione costituiva una garanzia per le classi più deboli. John Stuart Mill per respingere il dispotismo della società sugli individui, predicato dai socialisti, sosteneva l'esigenza dell'allargamento del suffragio ai ceti sociali fino ad allora esclusi, e auspicava l'intervento dello Stato per regolare i rapporti sociali, per migliorare le condizioni di vita delle masse e impedirne lo sfruttamento (On liberty, 1859, e Considerations on representative government, 1861).

In questo clima, già profondamente segnato dalle lacerazioni della rivoluzione industriale, dallo sfruttamento della classe operaia e dalla separazione tra individuo e società, le riforme diventavano una via obbligata per i governi.

L'Inghilterra di Gladstone vide la realizzazione di una serie di riforme che caratterizzarono l'età vittoriana. Nel 1867 il Reform bill concludeva una stagione di lotte del movimento operaio dopo la costituzione della Reform league del 1865. John Bright, che aveva guidato un ampio fronte radicale e democratico a favore della riforma elettorale, parlò di "salto verso la luce". Nel 1871 si arrivò alla legalizzazione delle Trade Unions, mentre altre riforme affrontavano questioni cruciali come la scuola e l'esercito.

5. Il riformismo cesaristico e il riformismo conservatore o dall'alto

Mentre in Inghilterra le riforme avevano garantito la transizione graduale dallo Stato liberale allo Stato democratico, in Francia il tentativo di imporre il processo di democratizzazione per via rivoluzionaria (1848) portò all'instaurazione di un nuovo regime cesaristico: il Secondo Impero di Napoleone III. Nel caso francese il presidente-Cesare attraverso una forma di democrazia plebiscitaria giustificava il proprio dominio con la legittimazione derivante dal consenso direttamente espresso dalle masse. In questo modo il suffragio universale, concesso per l'elezione della Camera, si accompagnò allo svuotamento dei poteri della rappresentanza, mentre l'esecutivo venne strettamente vincolato dalla volontà imperiale e il legislativo fu affidato ai 'tecnici' del Consiglio di Stato. Ancora una volta si tentava di neutralizzare la politica e i suoi conflitti spoliticizzando i problemi pubblici e trasformandoli in questioni tecnico-amministrative. Il cosiddetto 'cesarismo sociale' di Napoleone III, la sua sollecitudine per le masse, si tradusse in misure a favore dell'occupazione, in tolleranza attiva delle società di mutuo soccorso e dei sindacati operai e nel richiamo continuo alla solidarietà sociale nel superiore interesse della grandezza della nazione. Tuttavia, anche se Napoleone III concesse il diritto di sciopero nel 1864, i sindacati furono legalizzati soltanto vent'anni dopo, nel 1884. Il consenso di massa fu imposto d'altra parte anche con il controllo sulla stampa e la repressione dell'opposizione.

Il riformismo conservatore, come quello del governo di Disraeli in Inghilterra e di Bismarck in Germania, sorgeva, anch'esso, dalla preoccupazione di salvaguardare una costruzione statuale forte e strutturata, messa in pericolo dalle crescenti rivendicazioni politiche e sociali delle masse. Il 'conservatorismo progressivo' di Disraeli che portò alla riforma elettorale del 1867, alla legislazione dello sciopero (1875), all'ampliamento delle competenze comunali, all'istruzione primaria obbligatoria, ecc., mirava a interessare le masse agli ambiziosi progetti preparati dalle élites di governo, ma provocava una inevitabile tensione fra diritto di cittadinanza e sistema di classe, fra entitlements e provisions, nel senso inteso da Ralf Dahrendorf. "Durante il governo di Bismarck, gli entitlements politici rimasero - scrive Dahrendorf -, a essere ottimisti, stabili e molto limitati; esistevano leggi che proibivano le organizzazioni socialiste. Allo stesso tempo, alle classi lavoratrici venivano dati certi entitlements sociali. Questi erano usati per controbilanciare gli altri, ed entrambe le cose erano nell'interesse di una classe dominante conservatrice, o meglio parafeudale" (v. Dahrendorf, 1988; tr. it., p. 63). La protezione del lavoro nazionale, che portò precocemente in Germania al varo di importanti riforme sociali, a partire dalle assicurazioni sociali obbligatorie degli operai dell'industria contro le malattie (1883), gli infortuni (1884), l'invalidità e la vecchiaia (1889), tramite l'intervento anche coattivo dello Stato, si inseriva nel quadro della più ampia strategia 'social-protezionistica' di difesa degli assetti proprietari esistenti, di contenimento e controllo delle conseguenze economiche e sociali più acute dell'industrializzazione e della depressione iniziata nel 1873.

Il tentativo di sostituire l'assistenzialismo e le riforme dall'alto all'allargamento dei diritti di cittadinanza si rivelò, in generale, un espediente. La cittadinanza si dimostrò una forza più potente e il paternalismo assistenziale si rivelò incapace di assorbire i conflitti di classe. La risposta liberale nel suo antipaternalismo era la più idonea alla libera espressione della conflittualità sociale. Tuttavia per lo Stato liberale ottocentesco si poneva la necessità di aprirsi alla democrazia attraverso le riforme necessarie al buon funzionamento del sistema, dalla libertà di riunione e associazione alla libera organizzazione di gruppi d'interesse, di sindacati, di partiti, fino alla massima estensione dei diritti politici e alle riforme sociali. Proprio quando si trattò di passare dai diritti civili a quelli politici e poi da questi ai diritti sociali, i liberali si divisero e i nuovi partiti degli entitlements si affacciarono sulla scena politica, prima i democratici, poi i socialisti.

6. Socialismo e riformismo: l'antitesi ambigua fra riforme e rivoluzione

"Per quante definizioni si possano dare del socialismo del secolo scorso (ne sono state date centinaia), c'è almeno un criterio distintivo costante e determinante per distinguere una dottrina socialista da tutte le altre: la critica della proprietà privata come fonte principale di 'diseguaglianza fra gli uomini' (per riprendere il noto discorso di Rousseau) e la sua eliminazione totale o parziale come progetto di società futura" (v. Bobbio, 1988, p. 56). Da qui la critica alla democrazia formale che accomuna, per esempio, i primi comunisti come Babeuf e Buonarroti con il padre del socialismo scientifico Karl Marx, che proprio nel fallimento della Rivoluzione francese del 1848 vide la conferma delle tesi, a cui era giunto da alcuni anni, del riformismo come ipocrisia. Nella Rivoluzione del 1848 andarono in frantumi non solo i progetti di 'solidarietà sociale' e i sentimenti di 'fraternità' che tanta parte avevano avuto nelle costruzioni teoriche del socialismo utopistico, ma anche le speranze riposte nella conquista del suffragio universale e nella democrazia. "Il suffragio universale - scrisse Marx nelle Lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 -non era la bacchetta magica che pensavano i valentuomini repubblicani e semmai l'unico suo merito era quello di scatenare la lotta di classe [...] di spingere d'un colpo tutte le frazioni delle classi sfruttatrici alla sommità dello Stato e così di strappar loro la maschera dell'ipocrisia". La terribile 'disfatta di giugno' (1848) venne usata da Marx per dimostrare che il riformismo non poteva dare nessuno dei risultati benefici e perfino salvifici fino allora immaginati e sperati, anzi restava una pura astrazione fino a quando "il comunismo come soppressione positiva della proprietà privata" non avesse fornito "la vera risoluzione dell'antagonismo tra la natura e l'uomo, tra l'uomo e l'uomo, la vera risoluzione della contesa tra l'esistenza e l'essenza, tra l'oggettivazione e l'autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l'individuo e il genere" (cfr. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Torino 1949, pp. 121-122). L'alienazione dell'uomo dalle cose e da se stesso, e quindi la sua perdita di 'socialità', erano il prodotto della proprietà privata e del capitalismo. Queste contraddizioni potevano essere eliminate solo con un'iniziativa rivoluzionaria, che lo stesso sviluppo del capitalismo, fino alle sue estreme conseguenze, rendeva ineluttabile.

Nel socialismo scientifico di Marx ed Engels figurava una profonda contraddizione che consisteva nel tentativo di ridurre i problemi e i conflitti della modernizzazione e della società industriale, che discendeva dall'illuminismo e dalla razionalità scientifica, entro un modello 'comunitario' e 'organicistico' di società. L'altro punto critico di inconciliabilità era legato alla previsione che nel corso storico, fatale e inarrestabile, del capitalismo si sarebbe arrivati alla scissione della società in due estremi: da una parte un ristretto pugno di capitalisti e dall'altra la stragrande maggioranza della società, sempre più proletarizzata e sempre più immiserita. Da qui l'esigenza inevitabile del cozzo di queste due classi da risolvere con la violenza rivoluzionaria.Via via che il marxismo si affermava nel movimento operaio e nel socialismo, l'attenzione si concentrava sempre più sulla rottura rivoluzionaria propugnata, sebbene in una prospettiva libertaria e volontaristica, anche dagli anarchici. Tuttavia proprio dal seno dell'anarchismo e del socialismo marxista, che aveva fornito alla rivoluzione la sistemazione teorica più coerente con lo sviluppo del capitalismo e l'estensione del conflitto sociale, germinarono atteggiamenti riformistici. Il ciclo espansivo dell'economia europea centro-occidentale, iniziato dopo il 1848, nonostante le fasi depressive, proseguì per tutto il secolo, tanto che tra il 1870 e il 1900 la produzione industriale quadruplicò in Germania, raddoppiò in Francia e crebbe del cinquanta per cento in Inghilterra. Tuttavia il capitalismo si concentrava ma non crollava; il proletariato cresceva ma i ceti medi solo in parte venivano proletarizzati, anzi nuovi ceti medi si formavano e crescevano. Il proletariato si organizzava nei primi sindacati e i partiti operai e socialisti se ne avvantaggiavano, lottando per i miglioramenti economici e per il riconoscimento dei diritti politici e di associazione. Al posto della rivoluzione, che si allontanava, si sviluppavano gli argomenti tipici del riformismo. Si ponevano, cioè, le condizioni oggettive per un riesame critico delle teorie e delle previsioni di Marx.

Fu lo stesso Engels nell'Introduzione alla ristampa delle Lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 a valutare positivamente il progressivo aumento dei consensi elettorali ottenuti dal partito socialdemocratico tedesco dopo l'introduzione del suffragio universale voluto da Bismarck. "Avanzando di questo passo - scrisse Engels - per la fine del secolo avremo conquistato la maggior parte dei ceti medi della società, dei piccoli borghesi come dei piccoli contadini e saremo diventati nel paese la forza decisiva, alla quale tutte le altre dovranno richiamarsi, lo vogliano o meno [...] Noi, i 'rivoluzionari', i 'sovversivi', prosperiamo molto meglio con i mezzi legali che con i mezzi illegali e con la sommossa".

Negli ultimi decenni dell'Ottocento si manifestò una discrasia sempre più visibile fra teoria e prassi all'interno dei maggiori partiti socialisti europei. All'intransigenza teorica e al costante richiamo all'ortodossia marxista si accompagnò una prassi sempre più flessibile in rapporto al capitalismo e alla democrazia liberale. Una prassi che mirava a migliorare e riformare, anche radicalmente, ma non a distruggere l'ordinamento esistente e addirittura a riconoscerne i valori di fondo. Si cominciò a delineare quel dualismo fra 'programma minimo' e 'programma massimo', che di fatto ingabbiò il movimento socialista continentale in una logica immobilista, che spinse Max Weber a definire la socialdemocrazia tedesca un "gigante organizzativo" e un "nano politico", incapace di "integrarsi" e di assolvere una funzione nazionale di governo (cfr. M. Weber, Der Nationalstaat und die Volkswirtschaftspolitik, 1895). La preoccupazione dominante della dirigenza socialista era l'autoconservazione, l'accrescimento continuo dell'organizzazione e la conservazione della purezza ideologica in vista della 'battaglia finale'. La teoria marxista fungeva da puro fattore di "integrazione interna" (v. Ranieri e Minopoli, 1993, p. 66). Il profetismo catastrofico del marxismo di Erfurt fungeva da alibi alla chiusura prussiana delle classi dirigenti da un lato, e dall'altro assolveva la SPD da ogni responsabilità politica di governo. Come disse nel 1904 Jean Jaurès in polemica con Bebel, il "rivoluzionarismo del partito tedesco" era di "parole e non di fatti".

Le acute analisi di Max Weber si incrociarono con il revisionismo di Eduard Bernstein (v. Salvadori, 1981, pp. 316-322). Questi, venuto a diretto contatto nel suo lungo soggiorno inglese (1888-1901) con una cultura dichiaratamente gradualista e social-riformista, diede forma compiuta alla sua radicale revisione del marxismo, pubblicando sulla "Neue Zeit", tra il 1895 e il 1898, Die Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben der Sozialdemokratie (I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia) e Wie ist wissenschaftlicher Sozialismus möglich? (È possibile il socialismo scientifico?), il saggio destinato a diventare la Bibbia del revisionismo.Il contatto con gli ambienti neokantiani aveva già orientato Bernstein, uno dei due pupilli del vecchio Engels, insieme con Kautsky, verso la definizione delle basi etiche e volontaristiche del socialismo di contro alle pretese scientifiche e deterministiche dell'ortodossia marxista, riaffermata nel programma di Erfurt.

Le stesse critiche di Bernstein alle posizioni dello Staatssozialismus, cioè del riformismo come progressiva estensione del controllo statale nell'economia e nella politica sociale, erano diverse da quelle che gli ortodossi Kautsky, Bebel e Liebknecht utilizzarono in polemica con il leader del riformismo pratico e del gradualismo legalitario, il bavarese von Vollmar. Quelle di Bernstein erano le critiche di un riformismo di impronta liberale, avverso allo statalismo e alle nazionalizzazioni. Un riformismo socialista di impronta liberale, che si rafforzò, con il soggiorno inglese, nel contatto con una cultura empiristica e antidogmatica, tradizionalmente avversa alle sistemazioni ideologiche totalizzanti della cultura continentale. Si ponevano, così, le premesse di quella riflessione intorno al rapporto fra socialismo e liberalismo, che costituisce il dato più originale del revisionismo di Bernstein in vista di un socialismo fondato sull'"uguaglianza delle possibilità". In antitesi all'ideologia ufficiale, che aveva trasformato il socialismo in una religione terrena, il socialismo di Bernstein coincideva con il processo graduale di estensione dei diritti e di introduzione di elementi di regolazione sociale.

Il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro degli operai passava non per la garanzia 'scientifica' della rivoluzione, ma attraverso una politica delle alleanze, l'ampliamento delle libertà formali, assicurate dalle istituzioni democratiche, e la continua correzione dell'assetto politico-sociale con elementi di socialismo. Lo scopo finale del socialismo - secondo Bernstein - "non è nulla. Il movimento è tutto". Il revisionismo bernsteiniano implicava il superamento dell'ispirazione classista della lotta dei lavoratori, che, invece, dovevano porsi all'avanguardia del movimento democratico e progressivo inteso a riformare la società borghese e a realizzare le promesse dell''89, abbandonando i miti palingenetici. "La democrazia - scrisse Bernstein nei Presupposti - è al tempo stesso mezzo e scopo. È il mezzo della lotta per il socialismo ed è la forma della realizzazione del socialismo".

Bernstein fu accusato di abbandonare lo "scopo finale" e il revisionismo fu attaccato da tutto il fronte socialdemocratico europeo, da Kautsky a Turati, dalla Luxemburg ai menscevichi russi. 'Revisionismo' e 'riformismo' si muovevano su piani diversi, l'uno teorico e l'altro pratico, ma mentre tutti i revisionisti erano riformisti, non tutti i riformisti erano revisionisti. Quello che prevalse fu un "riformismo dei mezzi o strumentale" (v. Settembrini, 1982), nel quale, al di là della prassi riformista, restava l'idea della conquista dello Stato come preludio alla palingenesi totale. Tanto che i seguaci di Turati, il leader del riformismo socialista italiano, potevano dirsi "riformisti perché rivoluzionari e rivoluzionari perché riformisti" (1902). Il socialismo nella sua valenza riformista fu caratterizzato nei maggiori paesi europei, tranne in Inghilterra, da una prassi forte fondata su una teoria debole. Quei socialisti che cercarono di trovare una coerenza fra revisionismo e riformismo, come il francese Alexandre Millerand, autore de Le socialisme reformiste (1903), e l'italiano Ivanoe Bonomi, autore de Le vie nuove del socialismo (1906), furono bollati con l'accusa di 'ministerialismo'.

7. Dalla 'Progressive era' al 'New deal'

I problemi creati dal processo di concentrazione industriale e dall'urbanesimo fra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento provocarono anche negli Stati Uniti un forte movimento politico riformatore di matrice liberale e liberista, che originò una legislazione antimonopolistica (Sherman antitrust act, 1890 e Clayton antitrust act, 1914). Gli enormi dislivelli di ricchezza, il degrado dei quartieri urbani poveri, le prevaricazioni degli apparati di partito, furono percepiti dai progressisti come fenomeni degenerativi dei tradizionali ideali americani di democrazia politica ed economica. Per restaurare il "governo del popolo" erano necessarie profonde riforme politiche e fra queste l'elezione diretta e popolare dei senatori, sancita nel 1913 con il XVII Emendamento alla Costituzione. Durante la 'Progressive era', il periodo fra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, in parte coincidente con la presidenza di Theodore Roosevelt, si registrarono profonde riforme a livello di amministrazione urbana e di singoli Stati, che toccarono anche la sfera sociale con la riduzione degli orari di lavoro, il salario minimo per le donne lavoratrici, le assicurazioni contro gli incidenti sul lavoro, l'abolizione del lavoro minorile. Prima dello scoppio della guerra mondiale, sembrava che nella vecchia Europa e negli Stati Uniti, sebbene in forme e modalità diverse, il riformismo s'imponesse come politica obbligata per contenere nell'alveo della democrazia le spinte e i conflitti di una società di massa, caratterizzata da grandi partiti politici, sindacati forti e agguerriti, organi di informazione pronti a recepire i bisogni delle masse. La politica delle riforme, nella loro doppia valenza di ampliamento dei diritti di cittadinanza e di orientamento regolatore delle dinamiche produttive e sociali, ebbe un'importanza centrale nel processo che conduceva le nazioni industriali dapprima al riconoscimento dei diritti civili e politici, e quindi al loro completamento attraverso certi diritti sociali. La guerra e le sue conseguenze - a partire dalla Rivoluzione d'ottobre -, il fascismo e poi il nazismo, alimentarono in Europa una forte pregiudiziale antiriformista. La spirale della violenza e del dispotismo degli opposti estremismi del comunismo e del fascismo, soffocò la democrazia in tutti i paesi dove aveva fragili basi e minore era stata la funzione di integrazione nazionale dei partiti socialisti. La critica al sistema liberaldemocratico e al riformismo sfociò nei totalitarismi, che hanno caratterizzato questo secolo. La crisi della socialdemocrazia accentuò la critica al riformismo e rilanciò il progetto rivoluzionario. Lenin bollò il riformismo come "una tentazione, nel movimento dei lavoratori, ostile al marxismo rivoluzionario e agli interessi del proletariato". Nella spirale della violenza e degli opposti estremismi del comunismo e del nazismo fu inghiottita anche l'ipotesi del riformismo statalista weimariano elaborato dal socialdemocratico Rudolf Wissel e da Rudolf Hilferding, teorico dell'austromarxismo e del 'capitalismo organizzato'.

Negli anni venti e trenta anche l'ultima espressione di un riformismo statalista, che aveva cercato di identificare la socializzazione con la pianificazione statale piuttosto che con la democratizzazione, finì nella crisi della Repubblica di Weimar, lasciando aperta la via al totalitarismo nazista. Il 'socialismo liberale' (1929), antidirigista e intimamente democratico, di un antifascista come Carlo Rosselli poteva apparire, ormai, come un'eresia fondata sull'incontro tra gli ideali del socialismo e quelli propri della tradizione liberale, "dell'attuazione progressiva dell'idea di libertà e di giustizia".

Solo negli Stati Uniti, davanti alla catastrofe del crollo della Borsa di New York nel 1929 e alla grave crisi depressiva che investì il capitalismo, il riformismo fu ampiamente assunto nella teoria economica e nella politica del New deal, quale elemento propulsivo e correttivo all'interno del sistema. Sulla linea già tracciata dagli economisti Thorstein Veblen e John Rogers Commons, che avevano criticato la pericolosa sfasatura fra i reali bisogni sociali e la sfrenata rincorsa al profitto, nonché con l'avallo scientifico offerto dalle indicazioni dell'economista inglese John Maynard Keynes, che si rivolse al neoeletto presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, con una Lettera aperta, si venne concretamente a manifestare l'idea di uno Stato attivamente riformatore e apportatore di benessere (Welfare State). Un gruppo di tecnici di valore (Brain trust) venne chiamato a elaborare un programma volto a sostituire l'indiscriminato e selvaggio liberismo con un sistema misto, dove lo Stato era spinto a svolgere un ruolo di sostegno e di intervento sul piano economico e sociale per regolare le dinamiche produttive in modo da riversarne i benefici anche sui ceti meno abbienti. Ancora una volta il riformismo si alimentava dell'ottimismo e della fiducia nel progresso e nella partecipazione, libera e consapevole, dei cittadini alle decisioni collettive attraverso le regole e le istituzioni della democrazia. Si formò, allora, mentre l'Europa era dominata dal confronto-scontro fra sistemi totalitari, il moderno paradigma del riformismo, incentrato sulla combinazione della logica keynesiana, basata sulla crescita della domanda interna, sul pieno utilizzo delle risorse e sull'intervento attivo della spesa pubblica, con i principî redistributivi e solidaristici del Welfare e la piena occupazione.

8. Dal Welfare State al modello laburista

Tuttavia anche in Europa i difficili problemi della riconversione dopo la prima guerra mondiale e ancor di più i traumi provocati dalla grande crisi del 1929 avevano dimostrato tutta l'insufficienza delle politiche tradizionali e la drammaticità sociale e politica degli effetti della crisi. L'intervento dello Stato sembrava lo strumento più idoneo per orientare le strategie dello sviluppo economico e per la realizzazione di un regime di pieno impiego della manodopera. Le politiche di pianificazione adottate dallo Stato sovietico e dallo statalismo autarchico dei regimi fascisti costituivano la variante totalitaria alle teorie adottate in alcuni paesi europei per affrontare la grande depressione. Solo in Svezia la socialdemocrazia cercò di coniugare una politica economica di chiara ispirazione keynesiana con una strategia riformatrice, mentre in Inghilterra si realizzò una certa convergenza fra le stesse teorie keynesiane e la tradizione laburista. Più contrastata fu la politica delle riforme di struttura proposta in Francia dai socialisti e dai comunisti nel 1936 dopo il successo del Fronte popolare; mentre in Belgio, il partito operaio guidato da De Man e Spaak, vide nel planismo, nella socializzazione delle industrie monopolistiche e delle banche, la chiave di volta per superare, da un lato, l'inerzia del riformismo tradizionale, e per giungere, dall'altro, a una revisione del marxismo. Il riformismo degli anni tra le due guerre si presentava in Europa quantomai eterogeneo e contraddittorio, non solo in relazione alle diverse esperienze nazionali, ma anche ai contrasti ideologici fra le diverse componenti della sinistra, dove i comunisti, pur avendo abbandonato la teoria del socialfascismo, s'erano trovati ad abbracciare, dopo la svolta del Comintern del 1934-1935, la politica dei Fronti popolari per motivi tattici e senza una reale convinzione riformista.

Solo nel dopoguerra in Europa si cominciarono ad adottare politiche di programmazione economica e di estensione delle funzioni dello Stato nel quadro di un processo di estesa democratizzazione politica e di politiche di sviluppo. Il caso inglese si presentò, allora, come un punto di riferimento centrale del socialismo riformista europeo nel periodo della ricostruzione. I laburisti, saliti al potere nel 1945, ripresero i progetti della commissione Beveridge del 1942 per la creazione di un sistema di assicurazioni sociali e di un servizio collettivo di assistenza sanitaria. Il risoluto programma di riforme sociali, che ebbe come protagonista il premier Clement Attlee e il ministro della Sanità Axeurin Bevan, nel contesto di una politica che si richiamava alla teoria keynesiana della complementarità fra misure monetarie e misure fiscali, pose le fondamenta di un moderno Stato sociale. A questo modello si ispirarono, sia pure con diverse sfumature, alcuni partiti socialdemocratici nordeuropei a capo di governi monocolori o di coalizione. In particolare in Svezia si arrivò alla definitiva istituzionalizzazione del principio della concertazione fra capitale e lavoro in materia di formazione professionale e di condizioni di lavoro, e alla graduale estensione dell'intervento pubblico nei settori della comunicazione e delle risorse naturali. Anche in Norvegia e Danimarca i socialdemocratici adottarono politiche di perequazione fiscale e di costruzione di moderni sistemi di sicurezza sociale.

Tutte le iniziative riformatrici e i progetti di programmazione formulati dai laburisti e dalle socialdemocrazie dell'Europa nordoccidentale, diventate ormai forze di riferimento anche dei ceti medi, obbedivano a modelli empirici e a criteri funzionali, come del resto avvenne in Olanda sotto l'influenza delle scelte socialiste ispirate agli orientamenti pragmatici della scuola di Tinbergen.

A questo modello si richiamò anche la nuova socialdemocrazia tedesca, specialmente dopo il congresso di Bad Godesberg (1959), che portò all'abbandono esplicito di ogni legame con la tradizione marxista, ponendo la socialdemocrazia tedesca quale punto di riferimento riformatore nell'ambito del sistema capitalista. Ormai i socialdemocratici si ponevano il compito di controbilanciare l'economia di mercato, rinunciando a sostituirla e puntando, invece, alla difesa e allo sviluppo delle garanzie dello Stato sociale e della democrazia secondo il modello del Welfare State.

Un modello nel quale si ritrovavano tutti i socialdemocratici che avevano abbandonato il marxismo, ma anche tutti i liberali che si riconoscevano nella tradizione per cui chiunque voleva uno Stato compiutamente liberale non poteva esimersi dal metter mano a riforme sociali. Una tradizione liberale che si era irrobustita teoricamente grazie alla critica del totalitarismo, a partire da pensatori come Karl Popper, teorico della "società aperta" (cfr. The open society and its enemies, London 1945), per il quale solo la democrazia può rendere efficace il controllo sui governanti e rendere possibile l'attuazione di riforme senza violenza.

Nel secondo dopoguerra, accanto al paradigma riformistico del Welfare State, che, come si è visto, trovò un punto di riferimento centrale nel laburismo inglese durante il periodo della ricostruzione, si assistette a una rinascita del riformismo strumentale, ma su basi nuove, come variante occidentale del movimento comunista internazionale. Il riformismo strumentale manteneva la contrapposizione fra democrazia formale e democrazia sostanziale, e vedeva nella richiesta di riforme sempre più avanzate e di struttura lo strumento di lotta in grado di far scoppiare le contraddizioni delle società capitalistiche e l'inevitabile conflitto fra democrazia e capitalismo.

9. La crisi del Welfare State e il ripensamento del riformismo

L'esaurimento del socialismo e la scomparsa di ogni credibile alternativa teorica alla democrazia liberale costituiscono, oggi, una sfida per il riformismo, specialmente in presenza dell'offensiva neoliberale contro il Welfare State.

Per quasi due secoli il riformismo ha cercato di contrastare l'estremismo rivoluzionario e lo spirito reazionario. Le due culture che più hanno agito nel dare forma e senso alla società moderna sono state il liberalismo e il socialismo, ma proprio queste due culture, quando si sono irrigidite nel dogmatismo ideologico, sono state fortemente divise e antagonistiche, quando, invece, si sono incontrate hanno alimentato il moderno riformismo.

Alla fine del XX secolo la vera questione che si pone non è quella del rapporto fra liberaldemocrazia e socialismo, che ancora nel 1942 un liberale come Joseph Schumpeter aveva sostenuto essere decisiva per le sorti dell'Occidente, bensì quella del rapporto fra democrazia e capitalismo. Dopo il crollo dei regimi comunisti dell'Est, i destini della modernità (il capitalismo e la democrazia) sono ormai inseparabili. Si tratta di capire se ci sia spazio per una concezione della democrazia che non sia totalmente subordinata al modello del mercato e alla sua logica concorrenziale. Non è difficile, tuttavia, constatare che se la libertà non esiste senza mercato, nessuna società democratica, a cominciare dalla più capitalistica (gli Stati Uniti), può funzionare senza una vasta rete di ridistribuzione sociale. Nel senso stretto, economico del termine, oggi non esistono più, né a Oriente né a Occidente, società puramente liberali o società puramente socialiste. Del resto nemmeno le riforme neoliberiste di Reagan e della Thatcher hanno prodotto il completo smantellamento del Welfare State.

Il riformismo ha potuto agire meglio quando le istituzioni liberaldemocratiche hanno lasciato aperto il campo alla dialettica politica e sociale, e al cambiamento indotto dal processo di modernizzazione e dallo sviluppo dell'economia di mercato. L'accettazione della democrazia formale costituisce non solo il vero discrimine fra il riformismo forte e il riformismo strumentale, ma il banco di prova del riformismo possibile. Nuovi problemi e nuove emergenze, a partire dal rovesciamento del rapporto tra crescita economica e aumento degli occupati nell'industria, l'inizio della loro diminuzione da un lato e, dall'altro, il loro passaggio dall'area debole della società a quella protetta e del benessere ("la società dei due terzi"), impongono una seria revisione dello Stato sociale. Si è interrotto il circolo virtuoso dello sviluppo economico e della progressiva estensione del Welfare, che ovunque ha prodotto deficit insostenibili e inefficienze, oltreché perdita del senso di responsabilità collettiva e individuale. I costi della solidarietà orizzontale sono stati scaricati, attraverso il deficit pubblico, sulle generazioni future. Inoltre la politica di inclusione nella cittadinanza non può più avere una dimensione esclusivamente nazionale, né può trascurare il fenomeno dell'immigrazione, ossia della presenza di vaste fasce sociali prive non solo di diritti sociali, ma di tutte le prerogative della cittadinanza, compresi i diritti politici (v. Zincone, 1992). La sfida ambientale, il disordine internazionale, il declino demografico dei 'paesi ricchi' dell'Occidente, il sorgere di nuovi movimenti sociali e nuovi soggetti politici, la sfida della diversità etnica e culturale, richiedono una nuova definizione del riformismo e una nuova capacità progettuale. La nota tesi di Keynes, secondo cui le idee finiranno per prevalere sugli interessi, dovrà cimentarsi in un contesto ancora più complesso e difficile per dimostrare che il Welfare State si può ancora oggi considerare l'acquisizione più alta della cultura riformista e l'artificio migliore, ancorché imperfetto, per ridurre sia il privilegio che la povertà.