Bernstein Eduard


da Fornero, Tassinari - Le filosofie del Novecento (Bruno Mondadori, Milano 2002)

15. Il marxismo dopo Marx

4. Bernstein, il revisionista

Eduard Bernstein è una delle figure più significative del socialismo della Seconda Internazionale. Iscritto al Partito socialdemocratico fin dal 1872, collaboratore di Marx ed Engels, che lo avrebbe designato proprio esecutore testamentario, più volte deputato al Reichstag, il suo nome è però ormai indissolubilmente legato agli anni tra il 1896 e il 1903, quando si accende all'interno della socialdemocrazia te desca il dibattito intorno alle sue proposte di revisione radicale del marxismo in senso riformistico e anticlassista.

Un anno dopo la morte di Engels, nel 1896, Bernstein pubblica su "Die neue Zeit" una serie di articoli intorno ai Problemi del socialismo, che nel 1899 raccoglie in un volume dal titolo I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia. In questi scritti Bernstein intende mettere in luce l'infondatezza filosofica, sociologica ed economica dell'idea marxista di rivoluzione, con lo scopo di porre fine al dualismo, caratteristico della socialdemocrazia tedesca, tra l'enunciazione di una teoria rivoluzionaria e una pratica reale di stampo, invece, riformistico.

Per la verità, Bernstein dichiara inizialmente di voler proporre non già un revisionismo antimarxista bensì un «revisionismo nel marxismo», che sia in grado di correggerne alcuni aspetti, e questo in nome del rifiuto che gli stessi Marx ed Engels avevano sempre proclamato nei confronti di «tutti gli edifici utopistici costruiti in base a princìpi astratti», non confermati dal movimento reale delle cose. E così egli irride quella tendenza presente nel marxismo a fare dei propri princìpi una sorta di «rivelazione divina, in sé conclusa fin dal primo giorno e che era, è e sarà in eterno come al principio di tutte le cose», in contrasto con lo stesso carattere più autentico del marxismo di essere il prodotto della pratica concreta del movimento operaio, aperto a tutti i rinnovamenti richiesti dal modificarsi delle situazioni storiche.

In realtà, il revisionismo bernsteiniano, per la radicalità con cui mette in discussione i fondamenti stessi della teoria marxista (dal principio della lotta di classe al l'idea della rivoluzione, fino ai princìpi del materialismo storico), finisce con l'assumere il senso di una vera e propria liquidazione del marxismo. Come tale lo avrebbero giudicato, respingendolo, i più autorevoli, e tra di loro assai diversi, esponenti del socialismo secondinternazionalista, da Kautsky a Plechanov (fondatore e primo teorico della socialdemocrazia russa), dalla Luxemburg a Lenin.

L'intero discorso di Bernstein prende avvio dal rifiuto del carattere scientifico del socialismo, considerato piuttosto come una prospettiva dettata principalmente da esigenze morali. Non che egli intenda negare la presenza in esso di alcuni elementi scientifici, ben individuati da Marx nella teoria del valore o in quella della produzione; questo però non cancellerebbe il fatto che il socialismo è innanzitutto un ideale etico, l'espressione di ciò che gli uomini desiderano e vogliono, come la giustizia, la fine dello sfruttamento e dell'oppressione e così via. Sotto l'influenza del neokantismo, che andava prendendo piede all'interno della socialdemocrazia, Bernstein sottolinea l'importanza della volontà morale nella determinazione dei fini del socialismo e nega di conseguenza che questo sia frutto di un processo necessario della storia, scientificamente predeterminabile.

Avverso alla dialettica hegeliana («ciò che Marx ed Engels hanno prodotto di grande, l'hanno prodotto non grazie alla dialettica hegeliana, ma malgrado essa»), egli lo è altrettanto nei confronti dell'evoluzionismo deterministico di Kautsky, sostenendo che il socialismo, lungi dall'essere l'esito necessario e inevitabile della crisi finale del capitalismo, è nient'altro che una possibilità, alimentata nel cuore delle masse proletarie dalla sua alta desiderabilità etica.

Bernstein è convinto che tutta una serie di proposizioni marxiste siano state brutalmente confutate dallo sviluppo economico e sociale intervenuto nella più recente storia del capitalismo. Innanzitutto la progressiva concentrazione delle imprese industriali non ha portato con sé una corrispondente concentrazione dei patrimoni, poiché, anzi, è aumentato sia in senso assoluto sia in senso relativo il numero dei possidenti, soprattutto per il diffondersi delle società per azioni. In secondo luogo, è stata smentita la previsione marxiana della scomparsa dei ceti medi; lungi dall'estinguersi, essi mostrano una forte capacità di sopravvivenza, e anche nel settore produttivo siamo ben lontani dalla scomparsa delle piccole e medie imprese. Pertanto, occorre liberarsi dell'idea marxiana di una progressiva polarizzazione della società in due classi antagoniste, destinate a una guerra sociale culminante nella rivoluzione. Tanto più che si è dimostrata anche errata la previsione di una crescente pauperizzazione della classe operaia, anch'essa considerata come origine dell'acuirsi dei conflitti di classe. Soprattutto si è rivelata infondata la prospettiva del crollo e, comunque, di una crisi finale del capitalismo. In realtà, lo sviluppo dei trust e delle altre forme di monopolio e di alleanza tra le diverse imprese, così come l'estendersi del credito, consentono oggi al capitalismo, se non di rendere impossibili le crisi, di ridurne sensibilmente la portata e di controllarle.

In forza di questi dati empirici, raccolti da un'analisi fattuale del movimento della società, Bernstein rifiuta le concezioni rivoluzionarie del socialismo, in nome di un gradualismo riformistico secondo il quale la società capitalistica sarebbe in grado di consentire, senza per questo dover essere messa in discussione, lo sviluppo al proprio interno del socialismo. La maturazione di rapporti socialisti di produzione si produrrebbe lentamente e senza "salti", in un lungo periodo di sviluppo, analo gamente a come i rapporti capitalistici di produzione si sono venuti formando a poco a poco nell'ambito della società feudale. In questa prospettiva, Bernstein attribuisce allo Stato un compito di controllo dell'economia che ne esalterebbe pro gressivamente la funzione sociale.

Si capisce, allora, perché egli contrapponga alla rivoluzione le riforme, all'autoisolamento del partito socialdemocratico, voluto dal rigido classismo della tradizione marxista, la collaborazione con i settori progressisti della borghesia e con i loro partiti, e addirittura la trasformazione della socialdemocrazia in un raggruppamento politico democratico, espressione non solo della classe operaia ma anche di altri ceti sociali. Non può nemmeno meravigliare che il massimo esponente del revisionismo si spingesse fino a considerare il socialismo legittimo erede del liberalismo borghese: «non esiste idea liberale che non appartenga anche al patrimonio ideale del socialismo».

Una siffatta proposta riformistica doveva sollevare un vasto dibattito nelle file della socialdemocrazia tedesca, all'interno del quale non poteva mancare la risposta di Kautsky, il defensor fidei, come è stato chiamato, del marxismo dell'epoca. Nello scritto del 1899, Bernstein e il programma socialdemocratico. Un'anticritica, Kautsky conferma la teoria del socialismo come esito necessario della crisi capitalistica, alimentata da una sovrapproduzione cronica e dall'incapacità di soddisfare i bisogni sociali, e mantiene salda anche la convinzione che la democrazia sia possibi le solo come democrazia socialista. In quanto forma del dominio della maggioranza, essa è, certo, una premessa necessaria del socialismo, ma, per diventare una demo crazia reale, deve accogliere in sé contenuti che solo il socialismo può assicurare.

In particolare, Kautsky contesta la validità delle singole analisi bernsteiniane: è vero, sì, che i ceti medi sopravvivono e che anche le piccole e medie imprese conti nuano a svilupparsi, però diventa sempre più crescente il controllo che su di esse esercita il grande capitale, impedendo così ai ceti medi un'autonoma espressione politica. Quanto alla teoria dell'impoverimento assoluto del proletariato, essa è estranea al pensiero di Marx che semmai ha parlato, giustamente, di un impoverimento relativo rispetto alla crescente ricchezza capitalistica. Quanto basta per determinare l'acuirsi progressivo del conflitto di classe e per legittimare il partito socialdemocratico, non già come un partito «che si limita alle riforme democratico- socialiste», bensì come «partito della rivoluzione sociale», chiamato a organizzare il proletariato, e soltanto il proletariato. Se Bernstein ha ragione nel rifiutare come erronea la teoria del crollo economico, non meno irreale appare la sua idillica concezione dello sviluppo capitalistico che darebbe impulso, in assenza di contraddizioni, a una crescente democratizzazione della società.

Nonostante l'autorevolezza dei personaggi che ne argomentarono la critica, benché condannate nel Congresso di Dresda del 1903, le tesi revisioniste di Bernstein si sarebbero comunque diffuse largamente nel corpo del Partito socialdemocratico tedesco, come anche nei gruppi dirigenti degli altri partiti socialisti europei.


www.filosofico.net

A cura di Diego Fusaro
 
"Chi oggi applica la teoria materialistica della storia ha l’obbligo di applicarla nella sua forma piú sviluppata e non in quella primitiva; ha l’obbligo, cioè, di tener pienamente conto, oltre che dello sviluppo e dell’influsso delle forze produttive e dei rapporti di produzione, anche delle concezioni morali e giuridiche, delle tradizioni storiche e religiose di ciascuna epoca, degli influssi dei fattori geografici e di tutti gli altri fattori naturali, di cui del resto fa parte anche la natura dell’uomo stesso e delle sue attitudini spirituali. E ciò va tenuto presente in particolar modo quando non si tratta piú semplicemente di esplorare le epoche storiche passate, ma di progettare gli sviluppi futuri, quando cioè la concezione materialistica della storia deve servire come strumento di orientamento per il futuro".


Eduard Bernstein (6/1/ 1850 - 18/12/1932) fu uno dei massimi esponenti del socialismo della Seconda Internazionale. Fin dal 1872, egli è iscritto al Partito Socialdemocratico: collabora direttamente con Marx ed Engels (il quale lo sceglierà come esecutore testamentario) ed è diverse volte deputato al Reichstag. Tra il 1896 e il 1903, egli è al centro del dibattito marxista per via della sua ardita proposta di revisione radicale del marxismo in direzione riformistica e anticlassista.

Nel 1896, Bernstein pubblica sulla rivista Die neue Zeit una ricca serie di articoli sui Problemi del socialismo: nel 1899, egli raccoglie questi articoli in un saggio a cui dà il titolo di I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia. Tutti questi scritti, al di là delle tante differenze che li caratterizzano, hanno come comun denominatore l’esame critico del concetto marxiano di rivoluzione: la tesi bernsteiniana è che la nozione marxiana di rivoluzione sarebbe del tutto infondata sul piano filosofico, economico e sociologico. Crolla in questo modo la dicotomia, interna alla Socialdemocrazia tedesca, tra l’enunciazione di una teoria rivoluzionaria e la pratica di marca riformistica.

Quello che, secondo le sue stesse parole, Bernstein si propone di fare non è un revisionismo antimarxista, ma piuttosto un revisionismo nel marxismo, che ne corregga le storture: tali storture, del resto, erano – nota Bernstein – già stati ampiamente condannati da Marx ed Engels, nemici di tutti “gli edifici utopistici costruiti in base a princìpi astratti” e di tutte le teorie sganciate dalla prassi. Per questa ragione, Bernstein deride quei marxisti che dei principi del marxismo fanno una specie di “rivelazione divina”, tale da rimanere immutata per sempre. Viceversa, come avevano insegnato Marx ed Engels, il marxismo è il prodotto della pratica concreta del movimento operaio e, in quanto tale, è soggetto ai sempre nuovi mutamenti richiesti dal mutare della situazione storica.

Se letto in trasparenza, il revisionismo di Bernstein tende a liquidare il marxismo più che a revisionarlo: infatti ne mette in discussione i principi cardinali come la lotta di classe, l’idea di rivoluzione, il materialismo storico. Si trattava di una vera e propria eresia all’interno del marxismo, come rilevarono i più autorevoli esponenti della Seconda Internazionale, da Kautsky a Plechanov, dalla Luxemburg a Lenin.

Il vero punto di partenza della riflessione di Bernstein è il rifiuto del carattere scientifico del socialismo, inteso più come un’esigenza morale che come una teoria scientifica della società. È sì vero che la teoria marxiana del valore e quella della produzione sono il frutto di un’accurata analisi scientifica della società: ma ciò non di meno il socialismo è innanzitutto un ideale etico, è l’espressione di quel che gli uomini desiderano (giustizia, eguaglianza, fine dello sfruttamento, ecc) e che ancora manca.

È proprio in questa enfatizzazione del momento etico che Bernstein può recuperare alcuni elementi del pensiero di Kant, che si stava allora diffondendo presso la Socialdemocrazia tedesca: la volontà morale, infatti, gioca un ruolo decisivo nel determinare i fini del socialismo e, di conseguenza, nega che esso sia il prodotto di un processo necessario e scientificamente prevedibile.

Bernstein arriva addirittura ad accostare il socialismo alle idee della Critica della ragion pura kantiana: al pari di esse, che non hanno contenuto, anche il socialismo è un ideale da raggiungere ma che di fatto non sarà mai raggiunto; bisogna sforzarsi il più possibile di tendere ad esso, alla luce del fatto che “l’obiettivo è niente, il movimento è tutto”. Ecco perché Bernstein rivelò tanta avversione verso la dialettica hegeliana, arrivando a sostenere che “quel che Marx ed Engels hanno prodotto di grande, l’hanno prodotto non grazie alla dialettica hegeliana, ma malgrado essa”. Altrettanto avverso egli fu nei confronti dell’evoluzionismo deterministico propugnato da Kautsky: il socialismo è una possibilità dipendente dalla volontà umana e alimentata dal cuore delle masse operaie, con la conseguenza che sbaglia Kautsky a credere che esso sia l’esito necessario della crisi finale del capitalismo.

La più recente storia del capitalismo, secondo Bernstein, ha del resto dimostrato la falsità di molte proposizioni marxiste: ad esempio, la progressiva concentrazione delle imprese industriali non ha portato a una conseguente concentrazione del capitale, ma anzi è aumentato il numero dei possidenti grazie al diffondersi delle società per azioni. La stessa previsione marxiana della scomparsa dei ceti medi si è dimostrata falsa: essi, anziché estinguersi, oggi proliferano più che mai; le stesse medie imprese crescono di numero ogni giorno che passa. Da queste considerazioni, Bernstein trae la conseguenza che si debba buttare a mare l’idea marxista della graduale polarizzazione della società in due classi antagoniste (possessori e proletari), destinate a una guerra sociale culminante nella rivoluzione. Ciò anche alla luce del fatto che si è rivelata falsa anche la previsione marxiana di un crescente impoverimento della classe operaia, anch’esso inteso come origine dell’acuirsi degli scontri di classe. Ma la previsione di Marx che più si è rivelata falsa è quella del crollo del capitalismo: lo svilupparsi dei trust, dei monopoli e delle alleanze tra le imprese permette oggi al capitalismo, se non di azzerarne la crisi, almeno di ridurne la portata.

Per tutte queste ragioni, Bernstein difende il rifiuto delle concezioni rivoluzionarie del socialismo, in nome di un graduale riformismo attraverso il quale la società capitalistica potrà consentire lo sviluppo al proprio interno del socialismo. Per questa via, la maturazione di rapporti socialisti di produzione avverrebbe lentamente e senza salti, in un lungo periodo di sviluppo, analogamente a come i rapporti capitalistici di produzione si sono formati gradualmente a partire dalla società feudale. In questa prospettiva, lo Stato deve controllare l’economia garantendone una funzione via via sempre più sociale.

In opposizione all’autoisolamento della Socialdemocrazia propugnato dalle frange estremiste, Bernstein propone la collaborazione con i settori progressisti della borghesia e prospetta addirittura l’idea di una trasformazione della Socialdemocrazia in un raggruppamento democratico: queste proposte si inquadrano del resto perfettamente nella convinzione bernsteiniana secondo cui il socialismo sarebbe l’erede legittimo del liberalismo borghese, a tal punto che “non esiste idea liberale che non appartenga anche al patrimonio ideale del socialismo”.

A queste tesi rispose Kautsky con uno scritto significativamente intitolato Bernstein e il programma socialdemocratico. Un’autocritica (1899): sostenendo la teoria del socialismo come esito necessario della crisi capitalistica, Kautsky rigetta tutte le proposte di Bernstein, mostrandone l’infondatezza. È vero che il ceto medio e le piccole imprese non sono scomparse, ma – nota Kautsky – è anche vero che su di esse è sempre maggiore il controllo esercitato dal grande capitale, il quale impedisce ai ceti medi un’autonoma espressione politica. La tesi dell’impoverimento assoluto del proletariato è secondo Kautsky un’assurdità inventata da Bernstein e sconosciuta a Marx, il quale s’è limitato a parlare di impoverimento relativo alla crescente ricchezza capitalistica.

Le tesi di Bernstein saranno condannate nel 1903 nel Congresso di Dresda, ma ciò non impedirà la loro diffusione.