L’Economia non cangia natura quali che siano gli ordinamenti
sociali, capitalistici o comunistici, quale che sia il corso della
storia, al modo stesso che non cangia natura l’aritmetica pel
variare delle cose da numerare. O bisognerà comandare
all’aritmetica di non permettere che quattro e quattro facciano
otto, e di aspettare quel che deciderà in proposito lo Stato,
che è il Dovere e che è Dio?
B. Croce
Provarsi a leggere da economista gli scritti di Croce sulla
‘scienza economica’ è un esercizio imbarazzante, per il
timore di dover essere irriverenti nei confronti di un autore che fu
il “maggior idolo polemico” non soltanto di Gramsci, secondo la
maliziosa definizione di Gianfranco Contini, ma di tutta la cultura
italiana del secolo passato.
Conviene allora cominciare appellandosi a un’altra autorità,
allo Schumpeter che così colloca l’opera di Croce nello
Zeitgeist del periodo tra il 1870 e la prima guerra mondiale2:
Non egualmente nuova, ma ancora più influente [di quella di
H. Bergson] a causa della forza personale del suo grande maestro fu
la filosofia di Benedetto Croce, che per noi ha un particolare
interesse sia perché lo stesso Croce fu un po’ economista,
sia perché egli è legato, più che non sia il
caso di qualsiasi altro filosofo, con alcuni aspetti del lavoro
professionale degli economisti italiani. ... [L’economica italiana]
non era seconda a alcuno nel 1914. La componente più cospicua
di questo risultato veramente sorprendente fu senza dubbio il lavoro
di Pareto e della sua scuola. La scuola paretiana con i suoi alleati
e simpatizzanti non dominò mai l’economica italiana
più di quanto la scuola di Ricardo dominasse quella inglese o
la scuola di Schmoller dominasse quella tedesca. La cosa veramente
notevole è viceversa che, anche indipendentemente da Pareto,
l’economica italiana raggiunse un alto livello in una varietà
di linee e in tutti i campi di applicazione.
Qualche nome, a conferma di questo giudizio: Ferrara, Messedaglia e
Cossa tra i vecchi professori (gli ‘statisti anziani’); Pantaleoni,
Barone, G. B. Antonelli, Fanno; poi Amoroso, Bresciani-Turroni, Del
Vecchio, Einaudi, de Pietri-Tonelli, Ricci; e Loria (la cui opera,
secondo Schumpeter, “è un ibrido curioso di genialità
e di cattiva preparazione in analisi”).
È notevole che come economista, se mai davvero un po’ lo
è stato, e comunque come studioso dell’economia, Croce abbia
un significativo tratto in comune proprio con Schumpeter: il
riferimento costante a due polarità teoretiche di segno
opposto. In Schumpeter questa irrisolta ambiguità è
massimamente evidente nello storiografo dell’analisi economica, ma
rispecchia quella dell’economista. Così come lo Schumpeter
storiografo è diviso fra l’analisi e la visione, lo
Schumpeter economista è diviso fra Walras e Marx. A Walras,
come Schumpeter scrive nella prefazione all’edizione giapponese
della sua Teoria dello sviluppo economico, si deve una
concezione del sistema economico e un apparato teorico che per la
prima volta nella storia della scienza economica abbraccia
efficacemente la struttura logica dell'interdipendenza tra
quantità economiche. La concezione e la tecnica di Walras,
tuttavia, sono rigorosamente statiche e sono applicabili
esclusivamente a un processo stazionario.
Il problema di cui Schumpeter si occuperà per tutta la vita
è invece quello di come il sistema economico generi la forza
che incessantemente lo trasforma. Schumpeter sa che all'interno del
sistema economico esiste una fonte di energia che disturba qualsiasi
possibile ‘equilibrio’: dunque ci deve essere una teoria dello
sviluppo e dell’evoluzione economica, che non faccia assegnamento
soltanto sui fattori esterni che possono spingere il sistema
economico da un equilibrio all’altro. Questa idea e questa
intenzione, secondo lo stesso Schumpeter, sono esattamente le stesse
che stanno alla base della dottrina economica di Marx. Questa
tensione, tra l'esattezza e l'anima, mi pare si ritrovi in tutta la
riflessione crociana sull’economia: tra la filosofia dell’economia e
la così detta scienza dell’economia, e tra l’economia di Marx
e quella di Pantaleoni e di Pareto.
Due citazioni
Poiché il
campo è sterminato, converrà procedere per assaggi, a
esempio partendo dall’uso che Croce fa di due citazioni, da Hegel e
da Marx. Ciò potrà anche servire a togliere le tesi di
Croce circa la così detta scienza dell’economia, che spesso
hanno il tono di prediche agli economisti, dalla sua metodologia
prescrittiva e a collocarle in una prospettiva storica, nella
prospettiva della storia dell’economia politica e della sua
riduzione a economica. Le due citazioni, entrambe circa l’economia
politica classica, sono le seguenti.
Da Hegel:
Una scienza che fa onore al pensiero, poiché trova le leggi
di una massa di casualità. È uno spettacolo
interessante come tutti i rapporti sono qui interagenti, come le
sfere particolari si raggruppano, influiscono su altre e ricevono da
esse promozione o impedimento. Questo reciproco confluire, a cui
dapprima non si crede, poiché tutto sembra affidato
all’arbitrio del singolo, è eminentemente degno di nota, e ha
un’affinità col sistema planetario, che presenta all’occhio
sempre solo movimenti irregolari, ma le cui leggi possono essere
conosciute.
E da Marx:
L’economia politica, in quanto è borghese, cioè in
quanto concepisce l’ordinamento capitalistico, invece che come grado
di svolgimento storicamente transitorio, addirittura all’inverso
come forma assoluta e definitiva della produzione sociale,
può rimanere scienza soltanto finché la lotta delle
classi rimane latente o si manifesta soltanto in fenomeni isolati.
Prendiamo l’Inghilterra. La sua economia politica classica cade nel
periodo in cui la lotta fra le classi non era ancora sviluppata. Il
suo ultimo grande rappresentante, il Ricardo, fa infine,
consapevolmente, dell’opposizione fra gli interessi delle classi,
fra salario e profitto, fra il profitto e la rendita fondiaria, il
punto di partenza delle sue ricerche, concependo ingenuamente questa
opposizione come legge naturale della società. Ma in tal modo
la scienza borghese dell’economia era anche arrivata al suo limite
insormontabile. ... Col 1830 subentrò la crisi che decise una
volta per tutte. La borghesia aveva conquistato il potere politico
in Francia e in Inghilterra. Da quel momento la lotta fra le classi
raggiunse, tanto in pratica che in teoria, forme via via più
pronunciate e minacciose. Per la scienza economica borghese quella
lotta suonò la campana a morto. Ora non si trattava
più di vedere se questo o quel teorema era vero o no, ma se
utile o dannoso, comodo o scomodo al capitale, se era accetto o meno
alla polizia. Ai ricercatori disinteressati subentrarono pugilatori
a pagamento, all’indagine scientifica spregiudicata subentrarono la
cattiva coscienza e la malvagia intenzione dell’apologetica.
Storia e ordine naturale
Questi due passi
evocano questioni strettamente intrecciate tra di loro.
L’interpretazione che se ne darà dipende crucialmente dalla
concezione che si ha della nascita dell’economia politica come
scienza, della sua riduzione a economica, del suo statuto
epistemologico. Di tale concezione essa è dunque rivelatrice.
Circa il passo di Hegel, Croce scrive:
Giova notare che solo per l’ignoranza della gnoseologia e della
terminologia hegeliana è accaduto d’interpretare le parole
dello Hegel come giudizio di ammirazione pel grado di verità
raggiunto dall’Economia: quasi lo Hegel intendesse che la scienza
dell’Economia faccia molto onore alla ragione speculativa. Lo Hegel,
invece, diceva che l’Economia fa molto onore al pensiero che pone
leggi ai fatti, cioè all’intelletto, a quell’intelletto che
in quanto astrattivo e arbitrario egli perseguita in tutta la sua
filosofia; e veniva così a confermare che essa non è
scienza vera e filosofica, ma semplice disciplina descrittiva e
quantitativa, trattata con molta esattezza ed eleganza. Lode, che
conteneva dunque l’esigenza di una delimitazione, la quale noi
appunto ci siamo industriati a chiarire e giustificare, esponendo il
modo di formazione di questa scienza ed ergendole di fronte, a
complemento e contrasto, un’Economica o Filosofia dell’economia.
Io credo invece, timidamente, che Hegel colga qui l’essenza
dell’economia politica classica (di questa ovviamente Hegel parla,
non della scienza economica in generale) e dell’operazione che ne ha
consentito la nascita e costituzione come scienza e come scienza
autonoma. L’economia politica acquista autonomia teoretica e lo
statuto di ‘scienza’ con l’affermarsi del modo capitalistico di
produzione. Una scienza ha bisogno di un oggetto e l’economia
politica si può costituire in scienza, in scienza del
capitalismo, soltanto quando acquista autonomia l’attività
economica. L’attività economica, d’altra parte, acquista
autonomia quando da finalizzata ad altro (alla produzione di valori
d’uso e al consumo signorile) diviene fine a se stessa e alla
propria riproduzione mediante la produzione di merci anziché
di beni, non di utilità ma di profitti.
Si può dunque dire che l’economia politica può avere
un suo proprio oggetto soltanto quando il processo economico si
costituisce come processo autonomo, come processo ‘circolare’ quale
viene rappresentato nel Tableau économique di Quesnay e negli
schemi di riproduzione di Marx (poi in Produzione di merci a mezzo
di merci di Sraffa). Questo modo di produzione, come qualsiasi
altro, contiene delle contraddizioni (altri preferirebbero dire
delle opposizioni reali), e gli economisti classici non hanno paura
di coglierle. Così Marx scrive di Ricardo nelle Teorie sul
plusvalore: “Se la concezione di Ricardo è in complesso
nell’interesse della borghesia industriale, ciò soltanto
perché e nella misura in cui l’interesse di essa coincide con
quello della produzione o dello sviluppo produttivo del lavoro
umano. Dove esso viene in contrasto con quelli, egli è
altrettanto privo di riguardi verso la borghesia, come lo è,
d’altro lato, verso il proletariato e l’aristocrazia”.
La capacità degli economisti classici di cogliere le
contraddizioni della società civile cui appartengono è
il frutto di una loro contraddizione metodologica. La credenza in un
ordine naturale, come quello che regge “il sistema planetario, che
presenta all’occhio sempre solo movimenti irregolari, ma le cui
leggi possono essere conosciute”, è a un tempo il loro merito
imperituro e il loro limite. Questa credenza si regge sulla falsa
premessa, oggi volgarmente riproposta, che con l’avvento del modo
capitalistico di produzione la storia sia finita. Senza questa
premessa, tuttavia, l’economia politica non avrebbe potuto
costituirsi in disciplina autonoma, in una scienza della
società avente uno statuto metodologico analogo a quello
delle scienze della natura. Una scienza, per l’appunto, che “che fa
onore al pensiero, poiché trova le leggi di una massa di
casualità”. Spunti interessanti, per intendere la portata e i
limiti dell’economia politica classica, e lo statuto epistemologico
delle ‘leggi’ economiche, a me pare si trovino in G. Lukács3.
Hegel, ricorda Lukács, indica “il regno delle leggi” come
l’immobile riproduzione del mondo che esiste o che si manifesta in
fenomeni. La legge coglie ciò che è immobile, e
perciò la legge, ogni legge, è angusta, incompleta,
approssimativa4. Per Lukács la dialettica di Hegel è
lo stadio più alto della filosofia borghese, il suo tentativo
più energico di creare un metodo che possa garantire una
siffatta approssimazione della riproduzione teoretica della
realtà a questa stessa realtà. In questo quadro
è determinante l’apporto dell’economia politica classica.
È certamente vero (come Sraffa scriverà a Gramsci
attraverso Tania) che “Ricardo, al contrario dei filosofi della
praxis, non si ripiegava mai a considerare storicamente il suo
proprio pensiero”, ma non c’è dubbio alcuno che egli parli di
un “mercato determinato”. Di ciò sono prova le sue categorie
analitiche e gli stretti e inscindibili rapporti tra queste
categorie e le sue preoccupazioni e indicazioni di politica
economica.
Ancora Lukács rileva, e qui mi avvio a commentare il passo di
Marx, come Smith e Ricardo formulino bensì, con franchezza e
disinvoltura, tutte le contraddizioni in cui s’imbattono, con lo
spregiudicato amore della verità di pensatori di prim’ordine.
Poco li preoccupa che la constatazione di un rapporto contraddica ad
un altro rapporto da loro stessi stabilito. La
contraddittorietà, tuttavia, è presente solo
materialmente, solo de facto, e nulla è più estraneo
agli economisti classici inglesi di vedere nella
contraddittorietà stessa il dato fondamentale della vita
economica e quindi della metodologia dell’economia politica; mentre
la coscienza di questa contraddittorietà è proprio il
problema centrale della filosofia classica tedesca (e della sua
letteratura: Lukács ricorda che il tema del Wilhelm Meister
di Goethe è la devastazione prodotta nell’uomo dalla
divisione specialistica del lavoro).
È verosimile che proprio lo studio dell’economia politica
classica abbia significato una svolta nello sviluppo di Hegel, con
l’individuazione del problema del lavoro come forma centrale
dell’attività umana, e come molla dell’evoluzione che
attraverso lo sviluppo delle forze produttive associato allo
sviluppo della divisione del lavoro, fa dell’uomo un prodotto della
sua stessa attività. Come allievo di Smith, Hegel sa che il
perfezionamento tecnico del lavoro presuppone una divisione sociale
del lavoro altamente sviluppata, e insieme si rende conto che il
perfezionamento degli strumenti, il sorgere del macchinario,
contribuisce a sua volta alla ulteriore divisione sociale del
lavoro.
Sempre secondo Lukács, Hegel è allievo di Adam Smith e
del suo maestro Ferguson non solo come economista ma anche come
umanista critico; e come Smith egli da un lato rappresenta
oggettivamente il rapporto fra la divisione del lavoro e il
progresso tecnico, rapporto nel quale vede il movimento necessario
del progresso umano; ma d’altra parte non chiude gli occhi davanti
agli effetti distruttivi che la divisione del lavoro capitalistico e
lo sviluppo del macchinario producono necessariamente sul lavoro
umano, sulla vita umana. Questi tratti della divisione capitalistica
del lavoro non vengono visti come i ‘lati cattivi’ del capitalismo,
che debbono essere corretti o eliminati per giungere a un
capitalismo ‘senza difetti’.
Egli vede al contrario nel modo più chiaro la necessaria
connessione di questi lati della divisione capitalistica del lavoro
con il suo carattere economicamente e socialmente progressivo; vede
il carattere progressivo del movimento generale dello sviluppo delle
forze produttive a opera del capitalismo e della divisione
capitalistica del lavoro, e vede nello stesso tempo la
disumanizzazione a essa necessariamente connessa della vita
dell’operaio. “Fabbriche e manifatture”, scriverà Hegel,
“fondano la loro esistenza proprio sulla miseria di una classe”. Lo
sviluppo delle forze produttive materiali è uno sviluppo
necessario e progressivo; tuttavia il tipo umano formato dallo
sviluppo capitalistico delle forze produttive è la negazione
di tutto quanto di grande, elevato e significativo è stato
prodotto finora dall’evoluzione dell’umanità. Questa
connessione inseparabilmente contraddittoria del progresso con una
degradazione dell’umanità, questo ottenere il progresso al
prezzo di questa umiliazione, è il nocciolo reale della
hegeliana “tragedia nell’etico”.
Di ciò, infatti, aveva già scritto Adam Smith:
Con lo sviluppo della divisione del lavoro, l’occupazione della
stragrande maggioranza di coloro che vivono di lavoro, cioè
della gran massa del popolo, risulta limitata a poche semplicissime
operazioni, spesso una o due. Ma ciò che forma l’intelligenza
della maggioranza degli uomini è necessariamente la loro
occupazione ordinaria. Un uomo che spenda tutta la sua vita
compiendo poche semplici operazioni non ha nessuna occasione di
applicare la sua intelligenza o di esercitare la sua inventiva a
scoprire nuovi espedienti per superare difficoltà che non
incontra mai. ... in ogni società progredita e incivilita,
questa è la condizione in cui i poveri che lavorano,
cioè la gran massa della popolazione, devono necessariamente
cadere a meno che il governo non si prenda cura di impedirlo.
Dall’economia politica all’economica
Circa il secondo passo, quello di Marx sul 1830 come discrimine nella storia dell’economia politica, il Croce scrive:
Il Marx fulminava contro la letteratura economica che seguì
in Inghilterra, dopo il 1830, all’austera scienza del Ricardo e che
era tutta inquinata da interessi di classe, intesa all’apologia
della borghesia e del capitalismo; ma egli medesimo, per intanto,
componeva il Capitale, in cui peccava più assai dei suoi
avversarii, perché scontorceva il metodo stesso della scienza
economica introducendo concetti antieconomici come quello del lavoro
non pagato o sopralavoro che genererebbe il profitto, e tutto
ciò per porre una illusoria base scientifica all’azione
politica, da lui auspicata, del proletariato. Il vero è che
tutte, quali che sieno, le tendenze e le proposte di ordinamento
sociale sono estranee all’indole della scienza dell’economia, alla
quale vengono congiunte e nel cui nome sono invocate per suggestioni
passionali o per calcolo politico. La tesi del puro liberismo al
pari di quella del puro statalismo e comunismo si valgono, come
già altra volta ho dimostrato, nella comune mancanza di
giustificazione dottrinale; ma similmente ne mancano le infinite
soluzioni intermedie, che sono state proposte o possono proporsi,
tra quei due estremi. Perché? Perché la soluzione
spetta di volta in volta, nelle condizioni storicamente determinate,
unicamente alla coscienza etico-politica, che sola vince
l’astrattezza della scienza economica.
Lasciandone da parte i fulmini contro il Marx, mi limito qui a due
osservazioni su questo giudizio di Croce, una analitica, l’altra
storiografica. Prima vorrei però ricordare la partecipe
semplicità con cui il recensore anonimo della prima
traduzione inglese riassume Das Kapital5:
Si rappresenti la giornata lavorativa come un segmento a - b - c,
nel quale a - b rappresenta il tempo necessario a un lavoratore per
guadagnare quanto gli occorre per una vita sana; allora b - c
rappresenterà un pluslavoro, il cui valore va al capitalista.
Il lavoratore invece vorrebbe una giornata di lavoro normale,
così che il segmento b - c fosse una quantità che
progressivamente si riduce. In tutto ciò, formulato in
maniera semplificata, sembra non ci sia niente di nuovo, ma quello
che c’è di nuovo è lo stile tranchant con cui Marx
irrobustisce le sue proposizioni, le deduzioni che ne trae dopo
averle enunciate, e la luce che proietta quando percorre i luoghi
oscuri di un sistema economico di concorrenza sregolata, un sistema
nel quale il lavoro è concepito come un fattore impersonale,
e sfruttato a vantaggio dello speculatore e del capitalista
straricco, dei membri oziosi e parassiti della società.
L’osservazione analitica riguarda i “concetti antieconomici come
quello del lavoro non pagato o sopralavoro che genererebbe il
profitto”. A questo proposito, ricordo che all’origine di questi
concetti sta la distinzione smithiana, criticata poi da Ricardo e
elaborata da Marx, tra lavoro comandato e lavoro contenuto. Una
distinzione erronea ma feconda, e che si deve a un autore che non
aveva niente da scontorcere e che non aveva nessuna intenzione di
porre una illusoria base scientifica all’azione politica del
proletariato. Lo stesso Adam Smith, d’altra parte, e questo è
un punto sul quale si dovrebbe riflettere a proposito dei
ragionamenti crociani su ‘canone’ e ‘paragone ellittico’, riferisce
la distinzione tra lavoro contenuto e lavoro comandato (come misura
reale del valore) a quella tra uno stadio “rozzo e primitivo” della
società, nel quale tutto il prodotto del lavoro appartiene al
lavoratore, e un paese civile, nel quale la produzione abbia modi e
fini capitalistici, sia cioè produzione per il profitto
anziché per l’uso:
In un paese civile i poveri provvedono a se stessi e all’enorme
lusso dei loro signori. La rendita che va a sostenere lo sfarzo
dell’indolente padrone è stata tutta guadagnata dalla
laboriosità del contadino. Chi possiede denaro, indulge ad
ogni sorta di ignobile e sordido libertinaggio a spese del mercante
e dell’artigiano, ai quali presta ad interesse il suo capitale.
Tutte quelle frivole ed indolenti persone che sono addette alla
Corte, sono, allo stesso modo, nutrite, vestite ed alloggiate da
coloro che pagano le tasse per mantenerle. Tra i selvaggi, invece,
ognuno gode dell’intero prodotto della propria attività.
L’osservazione storiografica riguarda la denegata intelligenza di
Marx nel cogliere il momento in cui l’economia politica classica si
autocensura e che negli anni tra il 1830 e il 1870 (gli stessi della
marxiana critica dell’economia politica6) si converte in economica7.
Dai Petty, Quesnay, Smith e Ricardo, al sincretismo di J. S. Mill,
che tenta di conciliare l’inconciliabile, fino a A. e M. P.
Marshall, a Jevons, Menger, Walras e Pareto e infine alla
codificazione di Lord Robbins. Da una indagine sulla natura,
riproduzione e distribuzione della ricchezza, sull’anatomia della
società civile nel senso hegeliano di complesso dei rapporti
materiali dell’esistenza, allo studio del comportamento umano come
relazione tra fini e mezzi scarsi, aventi usi alternativi. (Secondo
Croce, invece, “L’uomo economico cerca la massima soddisfazione col
minimo sforzo”, che è una proposizione priva di senso.)
L’oggetto principale della critica neoclassica è la teoria
del valore lavoro, il cui abbandono comporta quello del concetto di
sovrappiù. Il processo produttivo non è più
concepito come finalizzato all’ottenimento di un sovrappiù,
ma come finalizzato al soddisfacimento dei bisogni. Come dirà
Sraffa, esso viene ora visto come un corso a senso unico che porta
dai ‘fattori della produzione’ ai ‘beni di consumo’. In breve, si
finge di essere ancora nello stadio “rozzo e primitivo” della
società, uno stadio nel quale i rapporti di produzione non
paiono più conflittuali, bensì armoniosi,
poiché del conflitto è stata tolta la premessa.
Secondo questa visione, il mondo economico sarebbe finalmente un
mondo abitato da individui razionali, che sul mercato si scambiano
con reciproco vantaggio beni o servizi produttivi. L’homo
œconomicus, sotto l’influsso di forze che dipendono da un astratto
criterio di convenienza radicato nella natura umana, si muove in un
campo di forze determinato dalle azioni degli altri individui e dai
vincoli cui è soggetto (la ricchezza posseduta e il reddito
disponibile), finché il sistema non ha raggiunto un
equilibrio statico. L’economia politica può finalmente essere
pensata come una scienza fisica, una scienza - come la meccanica - a
un tempo sperimentale e razionale. Con questa riduzione a scienza
pseudo naturale, a scienza di cose, oggetti, il discorso economico
rinuncia a pronunciare un giudizio sul modo in cui l’attività
economica si svolge nei diversi sistemi storici: questa è la
differenza principale tra economia politica e economica.
Mentre i filosofi come Croce si sentono autorizzati a esortare gli
economisti:
A quegli egregi economisti, purissimi e matematicissimi, vorremmo
dire, se con ciò non si venisse a versare olio sul fuoco del
loro furore: Risparmiatevi la pena del filosofare. Calcolate, e non
pensate! ... e, se già agli economisti e matematici abbiamo
raccomandato di calcolare e non pensare, ai filosofi invece bisogna
che ora diciamo: - Pensate, e non calcolate! Qui incipit numerare,
incipit errare.
Gli economisti sono invece costretti a pensare e anche un po’ a
filosofare. La teoria economica non è una scienza puramente
deduttiva, poiché il suo statuto epistemologico non è
quello delle scienze della natura e tanto meno quello della fisica
newtoniana. Contro Robbins, Keynes sosterrà, in maniera
convincente, che
L’economia è una scienza morale ... Essa ha a che fare con
l’introspezione e con i valori, oltre che con motivazioni, attese,
incertezze psicologiche. Si deve stare costantemente in guardia, nei
confronti di una trattazione del materiale come costante e omogeneo.
È come se il cadere al suolo della mela dipendesse dai motivi
della mela stessa, dai vantaggi del cadere al suolo, dal desiderio
del suolo che la mela cada e da calcoli erronei, da parte della
mela, circa la sua distanza dal centro della terra.
Croce pensa invece che
La scienza economica, pura o politica che si dica, non è
filosofia, sebbene nei suoi prologhi molti economisti sogliano o
solessero errare in mal indirizzate ricerche, a loro non pertinenti,
sul valore e sul rapporto del valore economico con gli altri
intellettuali, estetici e morali, e simili. Ma non è nemmeno
una scienza naturale sul tipo della zoologia o della botanica o,
magari, di quella che prese il nome (al quale non conferì
lustro) di “sociologia” e che dagli economisti è a giusta
ragione tenuta in poca stima. La sua vera natura è di
matematica applicata, e di questa adotta i procedimenti col
quantificare certi ordini di azione dell’uomo convertendole in
produzioni di cose numerabili e misurabili, e invigilando che
l’azione si compia con vantaggio del pari numerabile e misurabile,
con tornaconto.
Una questione analitica
Aggiungo qui un terzo punto, più strettamente analitico,
circa il modo in cui Croce, per prendere le distanze da Marx, torna
a Ricardo8. Si tratta, ovviamente, della ‘caduta del saggio dei
profitti’. Secondo la vulgata lectio Marx sosterrebbe che il saggio
del profitto tende necessariamente a cadere (alla maniera di
Ricardo, cioè per l’operare di una legge di natura:
“dall’economia, egli si rifugia nella chimica organica”).
L’argomentazione che viene imputata a Marx, correttamente per quanto
riguarda la ‘legge in quanto tale’, è la seguente. Data la
distribuzione del reddito fra capitalisti e lavoratori, i primi
cercheranno di diminuire il reddito dei secondi sostituendoli con
macchine. Questa pratica, per il singolo capitalista, è
razionale: al singolo capitalista conviene che la forza lavoro sia
pagata il meno possibile. Tuttavia l’aumento del capitale costante
(le macchine, il lavoro morto) rispetto al capitale variabile (i
lavoratori, il lavoro vivo), a parità di ogni altra
circostanza - ferma restando la distribuzione del reddito fra
capitalisti e lavoratori, cioè il saggio di sfruttamento -
farà diminuire il saggio del profitto9.
A seconda dei punti di vista si potrà dunque sostenere che il
sistema capitalistico è destinato a crollare, oppure che Marx
ha torto poiché le statistiche ‘dimostrerebbero’ che tale
tendenza non si dà. Sono ovvie le implicazioni politiche: nel
primo caso non ci sarebbe che da aspettare, con timore o con
speranza; nel secondo si dovrebbe concludere che il capitalismo
è la forma definitiva dell’organizzazione economico-sociale.
In tutti e due i casi ci troveremmo di fronte a una filosofia della
storia, come tutte grossolana e consolatoria. Nel primo caso
è il capitalismo come forma storica che sarebbe destinato a
finire, nel secondo è la storia stessa che con il capitalismo
sarebbe finita.
Alla “Legge della caduta tendenziale del saggio del profitto” Marx
intitola la terza sezione del libro terzo del Capitale, che tratta
del processo complessivo della produzione capitalistica. Questa
terza sezione è divisa in tre capitoli: “La legge in quanto
tale”, “Cause antagonistiche” e “Sviluppo delle contraddizioni
intrinseche alla legge”. Nel capitolo su “La legge in quanto tale”
Marx scrive che la progressiva diminuzione relativa del capitale
variabile (il lavoro vivo) in rapporto al capitale costante (il
lavoro morto)
non è altro che una nuova espressione del
progressivo sviluppo della produttività sociale del lavoro,
che si dimostra per l’appunto nel fatto che, per mezzo dell’impiego
crescente di macchinario e di capitale fisso in generale, una
maggiore quantità di materie prime e ausiliarie vengono
trasformate in prodotto da un eguale numero di operai nello stesso
tempo, cioè con un lavoro minore. ... La progressiva tendenza
alla diminuzione generale del saggio generale del profitto è
dunque solo un’espressione peculiare al modo di produzione
capitalistico per lo sviluppo progressivo della produttività
sociale del lavoro. ... Dato che la massa di lavoro vivo impiegato
diminuisce costantemente in rapporto alla massa di lavoro
oggettivato da essa messo in movimento (cioè ai mezzi di
produzione consumati produttivamente) anche la parte di questo
lavoro vivo che non è pagato e si oggettiva in plusvalore,
dovrà essere in proporzione costantemente decrescente
rispetto al valore del capitale complessivo impiegato. Questo
rapporto costituisce però il saggio del profitto, che
dovrà per conseguenza diminuire costantemente.
Nella realtà questa diminuzione non è stata forte e
rapida così come “la legge in quanto tale” indurrebbe a
prevedere, dunque devono agire delle cause antagonistiche:
Qualora si confronti l’imponente sviluppo delle forze produttive del
lavoro sociale quale si presenta anche solo negli ultimi 30 anni,
con la produttività di tutti i periodi precedenti, qualora
soprattutto si consideri l’enorme massa di capitale fisso che in
aggiunta al macchinario propriamente detto entra nel processo della
produzione sociale nel suo insieme, si comprende come la
difficoltà, che ha costituito finora oggetto d’indagine da
parte degli economisti, di spiegare la diminuzione del saggio del
profitto, venga ora sostituita dalla difficoltà opposta,
consistente nello spiegare le cause per cui questa diminuzione non
è stata più forte o più rapida.
Devono qui giocare delle influenze antagonistiche, che contrastano o
neutralizzano l’azione della legge in generale, dandole il carattere
di una semplice tendenza; motivo questo per cui la caduta del saggio
generale del profitto è stata da noi chiamata una caduta
tendenziale. Le più generali di queste cause sono le
seguenti: I. Aumento del grado di sfruttamento del lavoro. II.
Riduzione del salario al di sotto del suo valore. III. Diminuzione
di prezzo degli elementi del capitale costante. IV. La
sovrappopolazione relativa. V. Il commercio estero. VI.
L’accrescimento del capitale azionario.
La contraddizione esistente nel modo capitalistico di produzione
consiste proprio nella sua tendenza allo sviluppo assoluto delle
forze produttive, che vengono continuamente a trovarsi in conflitto
con le specifiche condizioni di produzione entro le quali il
capitale si muove e può solo muoversi: “Non vengono prodotti
troppi mezzi di sussistenza in rapporto alla popolazione esistente.
Al contrario, se ne producono troppo pochi per poter soddisfare in
modo conveniente ed umano la massa della popolazione”. Il limite del
modo capitalistico di produzione si manifesta nei fatti seguenti:
1. Lo sviluppo della forza produttiva del lavoro, determinando la
caduta del saggio del profitto, genera una legge che, a un dato
momento, si oppone inconciliabilmente al suo ulteriore sviluppo e
che deve quindi di continuo essere superata per mezzo di crisi.
2. L’estensione o la riduzione della produzione non viene decisa in
base al rapporto fra la produzione ed i bisogni sociali, i bisogni
di un’umanità socialmente sviluppata, ma in base
all’appropriazione del lavoro non pagato ed al rapporto fra questo
lavoro non pagato ed il lavoro oggettivato in generale o, per usare
un’espressione capitalistica, in base al profitto ed al rapporto fra
questo profitto ed il capitale impiegato, vale a dire in base al
livello del saggio del profitto. Essa incontra quindi dei limiti a
un certo grado di sviluppo, che sembrerebbe viceversa assai
inadeguato sotto l’altro punto di vista. Si arresta non quando i
bisogni sono soddisfatti, ma quando la produzione e la realizzazione
del profitto impongono questo arresto.
Il modo in cui Gramsci, contro Croce, imposta la questione della
caduta (tendenziale) del saggio dei profitti è esemplare del
modo in cui rendere storicamente determinata una astrazione: “Questa
legge dovrebbe essere studiata sulla base del taylorismo e del
fordismo”. Se la legge fosse esattamente stabilita, per Croce essa
“importerebbe né più né meno che la fine
automatica e imminente della società capitalistica”. Niente
di automatico, invece, e tanto meno di imminente. Per Gramsci
taylorismo e fordismo sono dei tentativi ‘progressivi’ di superare
la legge tendenziale, eludendola col moltiplicare le variabili nelle
condizioni dell’aumento progressivo del capitale costante.
Le nuove variabili sono queste (“tra le più importanti, ma
dai libri del Ford si potrebbe costruire un registro completo e
molto interessante”):
1) le macchine continuamente introdotte sono più perfette e
raffinate; 2) i metalli più resistenti e di durata maggiore;
3) si crea un tipo nuovo di operaio monopolizzato con gli alti
salari; 4) diminuzione dello scarto nel materiale di fabbricazione;
5) utilizzazione sempre più vasta di sempre più
numerosi sottoprodotti, cioè risparmio di scarti che prima
erano necessari e che è stato reso possibile dalla grande
ampiezza delle imprese; 6) utilizzazione dello scarto di energie
caloriche: per esempio il calore degli alti forni che prima si
disperdeva nell’atmosfera viene immesso in tubatura e riscalda gli
ambienti d’abitazione; ecc. (La selezione di un nuovo tipo di
operaio rende possibile, attraverso la razionalizzazione
taylorizzata dei movimenti, una produzione relativa e assoluta
più grande di quella precedente con la stessa forza di
lavoro) ... L’estensione dei nuovi metodi determina una serie di
crisi, ognuna delle quali ripropone gli stessi problemi dei costi
crescenti e il cui ciclo si può immaginare ricorrente
finché: 1) non si sia raggiunto il limite estremo di
resistenza del materiale; 2) non si sia raggiunto il limite
nell’introduzione di nuove macchine automatiche, cioè il
rapporto ultimo tra uomini e macchine; 3) non si sia raggiunto il
limite di saturazione di industrializzazione mondiale, tenendo conto
del saggio di aumento della popolazione (che d’altronde declina con
l’estendersi dell’industrialismo) e della produzione per rinnovare
la merce d’uso e i beni strumentali. La legge tendenziale della
caduta del profitto sarebbe quindi alla base dell’americanismo,
cioè sarebbe la causa del ritmo accelerato nel progresso dei
metodi di lavoro e di produzione e di modificazione del tipo
tradizionale dell’operaio.
Oggi, quando si sta manifestando prevalentemente l’altra faccia
della caduta tendenziale del saggio del profitto, la caduta
tendenzialmente irreversibile dell’occupazione, molti aspetti
tecnologici dell’analisi di Marx e di Gramsci della dialettica tra
la legge in quanto tale e le cause antagonistiche andrebbero
aggiornati per intendere le forme attuali della contraddizione
capitalistica fondamentale (troppe merci, poco lavoro), ma
l’impianto metodologico dei filosofi della praxis resta saldo. Circa
lo statuto epistemologico della ‘legge di tendenza’ uno spunto
interpretativo è fornito da Sraffa (solitamente ingeneroso
nei confronti di Gramsci economista10):
La mia opinione è [che] la legge di Marx sia metodologica e
non storica e quindi non verificabile statisticamente. Da quel che
si sa, sembra che in ogni data società capitalistica sia il
saggio del plusvalore che quello del profitto siano
straordinariamente stabili nel tempo. Questo non contraddice la
legge di Marx, quando “tendenziale” sia inteso relativamente ad una
particolare astrazione, cioè essa sia il risultato
dell’azione di un gruppo di forze (accumulazione) supponendo che
altre forze (progresso tecnico, invenzioni e scoperte) non operino.
Il risultato è che la caduta tendenziale costringe i
capitalisti a continue rivoluzioni tecniche per evitare la caduta
del saggio del profitto.
Per Gramsci, tuttavia,
il progresso tecnico non avviene “evolutivamente”, un tanto per
volta, per cui si possano fare delle previsioni oltre certi limiti:
il progresso avviene per spinte determinate, in certi campi. Se
fosse così come ragiona specialmente Einaudi, si giungerebbe
all’ipotesi del paese di Cuccagna, in cui le merci si ottengono
senza lavoro alcuno.
In economia politica ogni legge non può non essere
tendenziale, dato che si ottiene isolando un certo numero di
elementi e trascurando quindi le forze controoperanti. Croce crede
invece alla assolutezza delle leggi della scienza economica, che
sarebbero ‘rigorose e necessarie’. È significativo, peraltro,
che Croce metta sullo stesso piano la ‘legge del Ricardo’ (“Posto
che siano coltivati terreni di varia fertilità, i possessori
di essi, oltre la rendita assoluta, otterranno tutti, tranne il
possessore della terra meno fertile di ogni altra, una rendita
differenziale”) e la ‘legge del Gresham’ (“La moneta cattiva scaccia
la buona”).
Anche a questo proposito la riflessione di Gramsci sulla natura
delle ‘leggi economiche’ è illuminante: “Il mio cameriere
sostiene il fatale andare delle leggi economiche”. Di ‘leggi’
economiche si può bensì parlare, ma “questa benedetta
fatalità è uno spauracchio che convince solo molto
relativamente ... Perché tutte le leggi, anche quelle che
paiono più metafisiche, più impalpabili, sono in
realtà l’esponente di uno stato di fatto, le cui
responsabilità si possono impersonare o meglio, se si potesse
dire, inclassare”. Può darsi, suggerisce Gramsci, che la
scienza economica sia una scienza sui generis, anzi unica nel suo
genere. Essa non è né una scienza naturale né
una scienza “storica” nel senso comune della parola. Il modello, la
legge, lo schema sono espedienti metodologici che aiutano a
impadronirsi della realtà, espedienti critici per iniziarsi
alla conoscenza. La grandezza degli “economisti classici” sta nel
loro metodo del “supposto che”, del “mercato determinato”.
Ciò non vuole dire che la loro visione sia “naturalistica” e
“deterministica”, poiché il “mercato determinato” è
appunto determinato dalla struttura fondamentale della
società in questione: in questo senso l’economia classica
è la sola “storicista” sotto l’apparenza delle sue astrazioni
e del suo linguaggio matematico. “Mercato determinato” equivale a
dire “determinato rapporto di forze sociali in una determinata
struttura dell’apparato di produzione”. La stessa “critica”
dell’economia politica parte dal concetto della storicità del
“mercato determinato” e del suo “automatismo”, mentre gli economisti
puri concepiscono questi elementi come “eterni”, “naturali”. Senza
questa dimensione “storicista” la scienza economica potrebbe essere
guida soltanto alla gestione dell’esistente, non a una politica di
cambiamento:
Poiché “pare”, per uno strano capovolgimento delle
prospettive, che le scienze naturali diano la capacità di
prevedere l’evoluzione dei processi naturali, la metodologia storica
è stata concepita “scientifica” solo se e in quanto abilita
astrattamente a “prevedere” l’avvenire della società. Quindi
la ricerca delle cause essenziali, anzi della “causa prima”, della
“causa delle cause” ... In realtà si può prevedere
“scientificamente” solo la lotta, ma non i momenti concreti di essa,
che non possono non essere risultati di forze contrastanti in
continuo movimento, non riducibili mai a quantità fisse,
perché in esse la quantità diventa continuamente
qualità. Realmente si “prevede” nella misura in cui si opera,
in cui si applica uno sforzo volontario e quindi si contribuisce
concretamente a creare il risultato “preveduto”. La previsione si
rivela quindi non come un atto scientifico di conoscenza, ma come
l’espressione astratta dello sforzo che si fa, il modo pratico di
creare una volontà collettiva.
Qui Gramsci si riconcilia con Croce, il Croce su Pareto:
C’è, nei problemi sociali, un elemento pratico e creativo, il
sentimento, la passione, la volontà, o come altro si chiami
la spinta al cangiamento e alla nuova formazione, che non è
per niun conto da eliminare, potendosi solo contrapporre una ad
altra forma di sentimento, di volontà e passione, e lasciare
che cozzino tra loro, e contrastandosi generino il nuovo stato
sociale. Per questo, il “fattibile” o l’avvenire della
società, non è materia di scienza.
Università di Pavia, agosto 2000
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1 Salvo diversa indicazione, i rinvii a scritti di Benedetto Croce
sono tutti a scritti compresi in questo volume. Circa Antonio
Gramsci, rinvio ai Quaderni del carcere nell’edizione critica di V.
Gerratana e A. Santucci, Einaudi, Torino 1975. (Si può anche
vedere: A. Gramsci, Scritti di economia politica, a cura di F.
Consiglio e F. Frosini, con una introduzione di G. Lunghini, Bollati
Boringhieri, Torino 1994). Per Marx, rinvio alle edizioni degli
Editori Riuniti. Risparmio al lettore i riferimenti bibliografici
delle citazioni minori.
2 J. A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, Bollati
Boringhieri, Torino 1990.
3 Vedine La distruzione della ragione (Einaudi, Torino 1959) e
Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica
(Einaudi, Torino 1960). Vedi anche R. Bodei, Hegel e l’economia
politica, in S. Veca (a cura di), “Hegel e l’economia politica”,
Mazzotta, Milano 1975.
4 Della stessa idea sono i poeti, Goethe e W. H. Auden ad esempio.
Per Auden “la scienza infernale si differenzia dalla scienza umana
in quanto le manca il concetto di approssimazione: la scienza
infernale crede nell’esattezza delle sue leggi”. Recita Mefistofele,
nel Faust: “Figliuolo, fate buon uso del tempo, che, oimé,
fugge sì rapido. Nondimeno chi ha ordine ha tempo; e
perciò io vi consiglio innanzi tutto lo studio della logica.
Per esso vi sarà ben addirizzato l’intelletto. Lo vi si
allaccerà in un paio di stivali alla spagnuola
affinché vada guardingo e pian piano per la via maestra del
pensiero, e non a zonzo qua e là, e per lungo e per traverso,
al modo de’ fuochi fatui. Chi vuol conoscere e descrivere alcuna
cosa vivente si studia in primo luogo di metterne fuori l’anima;
allora egli tiene in mano ad una ad una le parti, e, oh lasso lui!
non gli manca se non il nodo vitale”. Interloquisce lo Scolaro: “Io
non ho afferrato bene”. Conclude Mefistofele: “Tutto vi
riuscirà più chiaro, quando abbiate appreso a fare le
riduzioni e classificazioni convenienti”.
5 In The Atheneum, n. 3097, 5 marzo 1887.
6 Le dottrine del Marx, che pure “parvero rivoluzionarie”, secondo
il Croce “sono nient’altro che schemi di una particolare casistica,
fondata sul paragone fra tipi diversi di ordinamenti economici”.
7 Si può vedere G. Lunghini, Political Economy and Economics,
in “The Elgar Companion to Classical Economics”, a cura di H. D.
Kurz e N. Salvadori, Elgar, Cheltenham, 1998; e G. Lunghini e F.
Ranchetti, Teorie del valore, in “Enciclopedia delle scienze
sociali”, Istituto della enciclopedia italiana”, Roma 1999.
8 Sull’interpretazione crociana di Marx si deve vedere M.
Reale, L’interpretazione crociana di Marx tra il “canone” e il
“paragone ellittico”, “La Cultura”, n. 2 1999. Qui si troverà
anche tutta la bibliografia rilevante.
9 Per definizione il saggio del profitto è pari a
Profitti/(Capitale costante + Capitale variabile), dove tutti i
termini sono espressi in valore. Se si dividono numeratore e
denominatore per il valore del capitale variabile si ottiene che il
saggio del profitto è pari al saggio di sfruttamento,
corrispondente al rapporto fra profitti e salari, diviso per il
rapporto fra capitale costante e capitale variabile (che Marx chiama
‘composizione organica del capitale’), più 1. La sostituzione
di lavoratori con macchine produce disoccupazione, dunque
concorrenza fra disoccupati e occupati, dunque diminuzione del
salario. Ciò è ovviamente conveniente per il singolo
capitalista ma non per il capitale nel complesso, che nei salari
trova i redditi che potranno pagare le merci prodotte. Il saggio del
profitto - a parità di ogni altra circostanza - sarà
algebricamente costretto a diminuire. Tuttavia non è vero che
le circostanze restino ferme, e non sempre è vero che i
capitalisti siano miopi. Allora si muovono le cause antagoniste, per
esempio alla maniera di Henry Ford.
10 È interessante il parere che Sraffa dà, intorno al
1947, circa la pubblicazione delle note dai Quaderni di Gramsci:
1. Vi è una sola fra le note di contenuto
economico che raccomando di non pubblicare: è quella
intitolata “Economia classica ed economia critica” ... Mi sembra che
i punti accennati non siano stati sufficientemente meditati, e vi
è un impressione di superficialità che non si
riscontra in alcune delle altre note economiche. Non è
improbabile che essa sia stata scritta in condizioni più
sfavorevoli del solito. Sarebbe interessante verificare se la
scrittura è normale.
2. Le altre note economiche mi sembrano tutte
degne di pubblicazione. Esse contengono molte osservazioni
straordinariamente acute, ma si deve riconoscere che nel loro
complesso non sono all’altezza del resto del volume. Particolarmente
nell’esame delle critiche del Croce all’economia di Marx qualche
debolezza è dovuta al fatto che Gramsci non aveva davanti a
sé il testo di Marx, e poteva usare solo le citazioni date
dal Croce, che le aveva scelte naturalmente per i suoi scopi:
così che talvolta la discussione rimane sul terreno ed entro
i limiti fissati dal Croce. Questo è specialmente il caso
della nota su “La caduta tendenziale del saggio di profitto” ... ,
dove l’accenno fatto a memoria all’impostazione del problema nel I
vol. del Capitale ha un valore ad hominem contro il Croce; ma la sua
confutazione richiede secondo me un esame del testo del III vol.,
che è stato frainteso e travisato dal Croce (e, per la
verità, da moltissimi altri, anche marxisti). Così,
nella nota sulla “Teoria del valore”, l’obbiezione di Gramsci al
Croce che “la teoria del valore ha la sua origine nel Ricardo, che
certamente non intendeva fare un paragone ellittico nel senso che
pensa il Croce”, non è ben fondata, almeno nella forma;
perché Ricardo espone la sua teoria in forma di paragone fra
la società primitiva (dove non c’è accumulazione e
dove ogni lavoratore possiede gli strumenti di lavoro) e la
società capitalistica: e, stabilito che nella prima le merci
si scambierebbero in proporzione al lavoro contenuto, si chiede
“perché mai dovrebbe l’accumulazione del capitale e la
separazione del capitalista dal lavoratore portare una differenza?”
La cosa però ha poca importanza, purché sia sempre
tenuto presente alla mente del lettore che lo scrittore non aveva
alcuna possibilità di riferirsi ai testi.