«La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia diretta da B. Croce», 22,1924.

STORIA ECONOMICO-POLITICA E STORIA ETICO-POLITICA


Un concetto da restaurare per un verso, e per l'altro da deter­minare meglio, e quello della storia morale, che è poi ciò che più propriamente si chiede e si ricerca sotto il nome di storia.
Sotto questa parola, infatti, non si suole intendere nè la storia del pensiero o della filosofia, nè quella della poesia e dell'arte, ne quella agricola, commerciale o variamente economica, ma appunto la storia della vita morale o civile che si dica di un popolo o dell’umanità in genere, E questa sola sembra la storia senz'altro, la storia per eccellenza; e ci sono buoni motivi perché sembri così, quantunque la cosa non sia poi a rigore così, non potendosi con­cepire alcuna forma di storia che sovraneggi le altre.

Che quel concetto sia da restaurare si concederà facilmente quando si ricordi il predominio del naturalismo deterministico e dell'utilitarismo etico nel generale pensiero della seconda metà del secolo passato, e perciò nella sua storiografia, resasi quasi affatto dimentica dello spirito morale che anima l'umanità (dimentica, si potrebbe dire, dell'umanità); e come poi a quel naturalismo succe­desse bensì una sorta di dialettica, ma per avventura nella forma del materialismo storico, che considerava sostanziale la vita economica e apparenza, illusione o «soprastruttura», come la chiamava, la vita morale.

La depressione della coscienza morale nella storio­grafia continuò anche quando il materialismo storico fu temperato e in parte abbandonato; e, per restringerci all'Italia, è noto che la giovane sua scuola storica dei principii del secolo ventesimo si piacque nel definirsi da sè stessa «economico-giuridica», escludendo essa stessa, o almeno trascurando, in questa definizione il fine che sa­rebbe dovuto essere il principale dell'opera sua, la rappresentazione e comprensione della vita morale.

Anche oggi chi, narrando storia, anteponga alle notizie di cose economiche e alle descrizioni delle lotte economiche delle classi sodali il racconto degli sforzi e delle lotte morali, passa facilmente per «letterato» o per «filosofo e non per storico addottrinato e ammallziato. Poiché io fui tra i primi, or son già trentanni, a raccomandare lo studio dei concetti del materialismo storico, che mi parevano assai efficaci a scuotere la pigra storiografia filologica degli eruditi di allora e a riportarla dalle parole alle res, voglio essere ora tra i primi a raccomandare di liberarsi dai residuali suoi preconcetti, il che mi è tanto più consentaneo io quanto, fin da trentanni fa, mettevo in guardia con­tro i presupposti metafisici, e naturalistici di quella dottrina, e consigliavo di trattarne i dettami come semplici canoni empirici di ricerca.
Nel giustificare l'enunciata restaurazione quasi come quaestio facti, si dà per ammessa e presupposta la sua giustificazione teo­rica, ossia risoluta la quaestio iuris, circa la verità e l'autonomia dell'attività morale contro ogni negazione di essa utilitaristica o altra che sia; e perciò la logica necessità di una storia, che nella vita morale trovi il suo principio e il suo oggetto. Tuttavia, senza ripetere in niun modo la dimostrazione di questo punto essenziale che è noto in filosofia come quello del fondamento della morale, sarà lecito dire che la riprova della manchevolezza in cui si cade con l'esclusione, la trascuranza o il debole rilievo dato alla vita morale è nell'insoddisfazione che accompagna la lettura delle storte meramente o prevalentemente economiche, atteggiate come storie integrali, perché si sente che c'è dell'altro, di più importante e di più alto, e di più interiore e proprio, che quelle storie non dicono.

Ma, senza dubbio, riaffermati il diritto e l'esigenza della storia morale, altrettanto urgente è determinarne esattamente il contenuto, e sopra tutto discernerla da una sua forma falsa, che l'ha tutt'in­sieme ricoperta e discreditata. Intendo di quella che si dovrebbe chiamare non veramente storia morale ma moralistica, perché scambia e confonde l'atteggiamento del moralista con l'altro, total­mente diverso, dello storico. Il moralista, infatti, è un pratico cor­rettore o censore, che mira a tener saldo e inflessibile l'ideale mo­rale, e giudica le cose umane sotto l'esclusivo aspetto della perfectio, esaminando la correttezza delle singole azioni e la maggiore o minore bontà dei singoli individui. Ma lo storico invece si volge a ricercare il passato in tutte le sue relazioni, nella sua logica e nella sua neces­sità; e, come l'interesse suo è più largo di quello della pedagogica individuale, così più largo è il suo sguardo e il suo giudizio e di­versa la scala d' importanza alla quale egli si attiene; onde egli non bada tanto alla perfectio, alle azioni in ogni loro particolare e mi­nuzia incensurabili, o alla serie delle belle azioni, moralmente ispi­rate ed eseguite, o alla lode della bontà dell'individuo, quanto al carattere delle azioni compiute e al significato che esse prendono nello svolgimento storico.

Il paragone migliore, che chiarisce que­sta differenza, è tra il grammatico o maestro di lingua e di stile, e il critico di poesia; il primo dei quali (del cui ufficio è da rico­noscere l'utilità e la rispettabilità, e anzi da desiderare che sia sem­pre alacremente esercitato) scrutina severamente la proprietà e per­fezione delle espressioni, e loda le perfette e condanna le imper­fette, laddove il secondo tollera e perfino accetta le imperfezioni pur di vedersi dinanzi un'opera di vera e grande poesia. E come i grammatici e maestri di letteratura, quanto sono proclivi ad ap­provare le piccole o leggiere scritture in cui ritrovino proprietà e purità, altrettanto biasimano e respingono le grandi opere ricche di virtù e non povere di difetti, onde famose sono state le loro avversioni a Omero, a Dante e a Shakespeare; così gli storici mo­ralisti, adeguando ogni cosa col criterio della perfectio morale, lo­dano i mediocri ma onesti e fanno il viso arcigno ai grandi e colpevoli, agli Alessandri, ai Cesari e ai Napoleoni, o, anche cercando sempre unicamente la perfezione e incontrandola di rado o non mai in questo povero mondo sempre in travaglio di creazione, si cangiano in fastidiosi e irosi o cupi e pessimistici narratori delle umane nequizie e viltà.

È da notare, a conferma della doppia ca­ratteristica qui tracciata, che la storia moralistica si estende, prepondera e impera particolarmente nei tempi di sconforto e di di­saffezione per l'operosità umana, civile e mondana, e negli animi così afflitti; e perciò ebbe rappresentanti insigni nella tarda età greco-romana, insieme con lo stoicismo e con altrettali ascetiche filosofie, e sopratutto poi nella trascendenza cristiana: come, del resto, l'esclusivo o quasi esclusivo e tirannico dominio della critica grammaticale e dei maestri di letteratura appartiene alle età di scarso vigore filosofico e storico e di debole rigoglio creativo. Certo non s'intende, come si è detto, togliere efficacia a quella critica, così grammaticale come moralistica, e alla sua benefica pedanteria, nè predicare o promuovere una sorta di sbrigliato romanticismo estetico ed etico ad una; ma ben s'intende tuttavia, con gli esposti concetti, riconoscere quella parte di ragione che è nell'uno e nel­l'altro romanticismo, in quanto per esso si riporta lo sguardo dal piccolo ai grande e si accorda la preferenza non al piccolo perfetto, ma al grande ancorché imperfetto.

La leggiadra e pulita composizioncella artistica e il gingillo elegante sono cose pregevoli; ma di esse ce ne sono state e ce ne sono tante a questo mondo, e di Di­vine Commedie e di Re Lear e di Cappelle medicee ce ne sono così poche. L'umile e virtuosa contadinella avrà moralmente tanto valore o maggior valore del più possente eroe della storia, e andrà in paradiso, e l'altro invece ai purgatorio, se non addirittura all'in­ferno; ma nelle storie che si ricercano, si narrano e si meditano, quel peccatore entrerà ammirato e dell'altra sarà taciuto.

Per timore dell'assai facile confusione della storia morale con la storia moralistica, mi è venuto spontaneo di designare altre volte la storia morale con un suo sinonimo, che forse ha maggiori spe­ranze di entrare nell'uso e minori pericoli di equivoci: come storia etico-politica. E ciò mi porge occasione a schiarire altresì due importanti forme scientifiche nelle quali questa storia si è presen­tata negli ultimi secoli, l’una e l'altra delle quali non va esente, a mio parere, da ristrettezze e insieme da ibridismi, portando l'im­pronta delle contingenze di tempo e di luogo, in cui ciascuna di esse sorse.
E dove e quando e come sorse la prima, la storia mo­rale concepita come storia della civiltà (histoire de la civilisation), è noto: nel secolo dei lumi, nell'età della ragione, ossia della ra­gione intellettualistica ed astratta, e particolarmente in Francia. E quando si osservi contro quale sorta di storiografia si ribellasse, non è dubbio che nel suo primitivo impulso volesse essere una storia morale, nel senso alto che si è determinato, perché essa si contrappose alla storia meramente militare e diplomatica, tutta rac­conti di guerre e di negoziati, e fece valere il bisogno di una sto­ria più intima, di una storia civile dei popoli. Ma il concetto della civilisation era assai vago e oscillante, e invece di approfondirsi nel contenuto etico-politico che portava in se, si piegò ai bisogni dei tempi, e la relativa storiografia si configurò a storia della «diffu­sione dei lumi» o dello «spirito di razionalismo», come anche fu denominato.

E, quali che fossero gli altri errori di quella sto­riografia, per la parte che ora ci riguarda è evidente che essa si restringeva sostanzialmente a una storia dell' intellettualismo, della scienza positiva e della successiva corrosione delle credenze reli­giose o mitologiche e delle toro superstizioni: cioè, per una parte, a una mera storia del pensiero, a una storia teoretica; per l'altra, a quella della diffusione e uso della verità, cioè a una storia cul­turale e pratica bensì, ma non veramente etico-politica, o, come tale, assai unilateralmente trattata.

Contro questa concezione, che si potrebbe chiamare francese, della storia morale come histoire de la civilisation, si levò l'altra, che potremo chiamare germanica, della storia come storia peculiar­mente politica, Staatsgeschichte, storia dello Stato, che sarebbe la vera e concreta e sola realtà etica; ed ebbe non solo il merito di riaffermare contro le storie delle varie attività economiche quella dell'attività etica che tutte le domina e supera, contro le storie uni­laterali la storia integrale (o, come si disse, forse poco esattamente: ubar den Geschichten die Geschichte (1) [(1) così il Droysen, Grundriss der Historik, § 73]), ma anche l'altro di porre al luogo della «civilisation» il più profondo e austero concetto della lotta e dell'opera nello Stato e per lo Stato.

Ma il suo difetto era di intendere l'etica in modo troppo stretto, come Stato, e di distaccare lo Stato dalla varia e complessa vita e morale e politica, che abbraccia così quello che giuridicamente si denomina «Stato» come quel che si denomina «Chiesa», quello che si considera come Stato e quel che si considera come società, quel che si approva come Stato e quel che si combatte come antistato, l'elemento positivo e il negativo, che è anch'esso positivo o più positivo dell'altro. A questo difetto si aggiunse l'altro, dipendente dal paese e dal tempo in cui quella concezione sorse e si svolse, la tendenza a innalzare a ideale non solo lo Stato dei meri politici, ma specificamente lo Stato autoritario e conservatore, che aveva guidato le fortune del popolo tedesco.

Da questi difetti teorici e da queste angustie di contingenze la storia morale o etico-politica si deve disciogliere, correggendo se stessa e concependo come suo oggetto non solo lo Stato e il governo dello Stato e l'espansione dello Stato, ma anche ciò che è fuori dello Stato, sia che cooperi con esso, sia che si sforzi di modificarlo, rovesciarlo e sostituirlo: la formazione degli istituti morali nel più largo senso, compresi gli istituti religiosi e le sette rivoluzio­narie, compresi i sentimenti e i costumi e le fantasie e i miti di tendenze e contenuto pratico. Che se poi il complesso di questa movimento si vuol considerare come la vita stessa dello Stato nel suo senso più alto, non ripugneremo alla parola, sempre che la cosa s'intenda così, e, anzi appunto per questo ci sembra adatta la denominazione di «etico-politica» in cambio di quella «morale», che ritiene alquanto del vaporoso. Creatori di quegli istituti sono i geni politici e le aristocrazie o classi politiche che li esprimono dal loro seno e che essi a loro volta generano e mantengono.

Nella cerchia di questa storia morale o etico-politica le altre storie attinenti all'attività pratica, quelle dell’agricoltura, delle in­venzioni tecniche, dell’industria, del commercio, della cultura, e via discorrendo, perdono la loro autonomia e vengono risolute in quella, perché le opere da loro descritte sono, a volta a volta, presupposti della storia etico-politica e strumenti che essa adopera ai suoi fini, materia che essa forma e riforma. Tale è anche la storia delle guerre, che nella storia etico-politica non serba più il carattere che ha per sé stessa come storia dell'arte militare, ma è congiunta alla vita morale, in quanto anche nella guerra e nella preparazione e nel­l'esecuzione della guerra si dimostra la virtù etica dei popoli: e il medesimo vale della politica, intesa in senso stretto, come arte di governo e di diplomazia.

Ma quando si dice che nella storia etico-politica quelle altre storie sono risolute, si dice nell'atto stesso, che, fuori di quella cerchia, e prese per sé, esse seguono proprie leggi, e vanno trattate diversamente, non solo con diversa estensione e particolarizzazione, ma con diverso concetto. Da questa oscura coscienza del carattere che è proprio di quelle varie storie e della loro autonomia, è nato l'uso di aggiungere, nei libri di storia, alla trattazione principale che più o meno risponde o vorrebbe rispondere all'esigenza della storia etico-politica, una serie di capitoli o di escursi, che trattano dell'agricoltura, del commercio, dell' industria, dell'arte militare, delle feste e dei giuochi, delle costumanze, e altresì della letteratura, delle arti, della scienza, della filosofia.

Tipo di esposizione storica che è stato assai censurato e satireggiato come storia per compartimenti o per cassettone; ma non perciò è stato abbandonato, e invano si è domandato e si domanda che ceda il luogo a una storia di tutte quelle cose bensì, ma unificate.

L'unificazione è, in effetto, impos­sibile in quel caso, perché esse o vengono risolute, come si è detto, nella storia morale e sono storia morale, o vengono condotte e giu­dicate coi criterii a loro proprii, e sono allora altre storie, che pos­sono bensì seguire o precedere quella, essere legate a quella in un medesimo volume, ma non mai unificarsi con quella. Per solito rimangono compilazioni da incompetenti: capitoli di storia lettera­ria e artistica scritti senza sentimento e penetrazione d'arte, capi­toli di storia commerciale o monetaria, dei quali gli economisti si dimostrano scontenti e dicono, non senza ragione, che gli «storici» (ossia  «quegli storici») non se ne intendono e farebbero bene a lasciare che tractent fabrilia fabri.
Sceverando da essi capitoli quelli che concernono le storie della filosofia e della poesia ed arte, che appartengono a ben defi­nite storie dell'ordine teoretico, le rimanenti si riducono tutte, pur nella loro varia specificazione, a storia dell'attività economica, la quale, nel suo significato rigoroso e speculativo, abbraccia non meno l'arte degli scambii che l'arte dei negoziati politici, non meno la produzione delle merci che quella di ogni altra utilità, non meno le concorrenze commerciali che quelle fatte con le armi e che si chiamano guerre.

Differenze tra queste varie storie, e differenze an­che nella diversa preparazione, esperienza e attitudine che richiedono nei loro cultori, sussistono bensì, ma come differenze meramente materiali, e non maggiori né diverse da quelle che sì notano tra le storie della poesia, della pittura, della musica e dell'architettura e simili, che pur sono tutte storia estetica. Della storia economica, in questo senso comprensivo, è dunque da rivendicare l'autonomia rispetto alla storia morale o etico-politica; così come è stata rivendicata l'autonomia della storia dell'arte rispetto alla storia del pensiero e della filosofia.
È un'autonomia, beninteso, affatto dialettica, perché le varie storie autonome pur s'implicano l'una l'altra, e distinzione di esse non vuol dire divisione e separazione, il che le renderebbe tutte non solo inintelligibili ma irrappresentabili, e le annullerebbe. Ma l’importanza della rifermata autonomia consiste nel rendere chiara l'impossibilità di unificarle in un'ulteriore storia, nella quale esse sarebbero non già unificate ma neutralizzate, e perciò si annulle­rebbero non meno che col dividerle e separarle; e l'impossibilità di ridurre una o altra di esse a quella che la segue o la precede nella dialettica spirituale, e, nel caso che abbiamo innanzi, di ri­durre la storia morale a storia economica o la storia economica a storia morale.

La quale «storia morale» o «etico-politica» (se mi si con­sente questa aggiunta considerazione) è poi ciò che sta nel fondo dell'affermazione o richiesta più volte manifestata: che la vera storia dell'umanità sia la storia religiosa. Si sogliono citare,a questo proposito le parole del Goethe: «Il tema proprio, unico e pro­fondo della storia del mondo e dell'uomo, il tema al quale tutti gli altri sono subordinati, consiste nel conflitto della fede e della miscredenza. Tutte le epoche, nelle quali domina sotto qualsiasi forma la fede, sono splendide, rincoranti e feconde pei contem­poranei e pei posteri; e, per contro, tutte le epoche nelle quali la miscredenza in qualsiasi forma ottiene una povera vittoria, ancorché possano pavoneggiarsi di un apparente splendore, spariscono dai ricordo dei posteri, perché nessuno si tormenta volentieri nella conoscenza di ciò che è sterile.

Ora questa fede, questo impeto, questo entusiasmo, che qualifica le epoche e i po­poli altamente storici, che cosa è mai se non la fede attuosa nell'universale etico, l'operosità nell'ideale e per l'ideale, comunque lo si concepisca e teorizzi, benché sempre in qualche modo teo­rizzato, con uno sfondo metafisico nell'invisibile, cioè nei mondo del pensiero?
Similmente ricordo che negli ultimi anni dello scorso secolo, in pieno materialismo storico, levò gran rumore un libro che ora nessuno più ricerca o legge, quello del Kidd, Social evolution; nel quale l'autore, sociologo, socialista» darwiniano, anzi weissmanniano, pur attraverso questa sua cultura e preparazione naturalistica e materialistica perveniva alla conclusione, che lo svolgimento sociale e il progresso non si spieghino in niun modo con la forza della «ragione», ma solo con quella della «religione». E, osservando più dappresso, era facile scorgere che il Kidd, in modo conforme a una certa tradizione filosofica inglese, intendeva per «ragione» il calcolo utilitario, e per «religione» la sotto­missione antiutilitaria (e perciò, ai suoi occhi, irrazionale) a regole che sono contrarie all'interesse dell'individuo in quanto tale, e pro­muovono Invece quello della specie o del genere umano: che val quanto dire riponeva il nerbo della storia sociale nell'attività morale.
Sol che, al modo stesso nel quale si è disopra ammonito a non scam­biare la vita etico-politica o statale, che è oggetto della storia, con lo Stato come viene concepito dai meri politici e per fini politici o giuridici, bisogna pur raccomandare di non prendere «religione» nel significato materiale degli adepti delle varie religioni o ristretto degli avversarli filosofici delle religioni, ma, come intendeva il Goethe, in quello di ogni sistema mentale, di ogni concezione della realtà, che si sia tramutata in fede, diventata base di azione e lume di vita morale. Il quale ultimo punto altresì ha qualche importanza, perché ove il pensiero religioso, o meglio il pensiero in genere, non si assuma nella enunciata forma di convincimento e di fede, e perciò nei suo rapporto con la pratica, e convertito in pratica, e si assuma invece nella forma di processo, d'indagine, di contro­versia, di teologia, in tal caso la storia religiosa o della religione non può identificarsi con la storia etico-politica, perché chiara­mente rientra invece in quella del pensiero ossia della filosofia.

Benedetto Croce.