A GIUSTINO FORTUNATO
IN RICORDO DI ANTICA
E SALDA AMICIZIA.
Gli scritterelli, raccolti in questo volume, furono composti da me rebus ipsis dictantibus, sotto lo stimolo di varie occasioni, e uscendo io quasi di mala voglia dal campo di studi nel quale lavoravo. Ma, appunto, nel travagliarmi intorno agli ostacoli che determinate idee o indirizzi d'idee incontravano, più resistenti di quel che avevo stimato alla prima, mi accadde di riconoscere che codesti impedimenti avevano il loro appoggio in determinate disposizioni morali; e, per effetto di questo riconoscimento, mi trovai a far passaggio, naturalmente e insensibilmente, dall'analisi logica all'analisi etica.
D'altro canto, rivolgendo l'attenzione a taluni problemi e porgendo l'orecchio a talune dispute sociali e politiche, mi occorse di avvertire che quei contrasti politici e sociali nascevano sovente da poca chiarezza o da pregiudizi teorici; e fui tratto allora a compiere il passaggio inverso, dall'analisi etica all'analisi logica: quasi sperimentando in me medesimo l'unilatem spiritus! Non la boria, dunque, e la vanità, della predica moralistica o filosofica ha dettato queste pagine; ma il bisogno d'intendere le ragioni di alcuni fatti, e altresì la sollecitudine a mettere in guardia gli altri, e me stesso, di fronte ad alcuni pericoli. E spero che ciò appaia da queste pagine stesse. — se pure lo stile non mi ha tradito.
Raccolte, le mie noterelle polemiche potranno forse recare ancora qualche giovamento, come ne recarono via via che furono edite per la prima volta nella Critica o in altri periodici; ma bisognava che io non ne tardassi più oltre (ed ecco che mi affretto a farla) la raccolta, perché sono veri e propri «articoli» da giornale o da rivista, proporzionati alla vita quotidiana e destinati perciò a perdere assai presto efficacia e significato. Già, nel rivederne le bozze, parecchi di essi mi sono parsi quasi estranei, e ho dovuto talvolta durar fatica per rappresentarmi alla mente in modo vivo le condizioni di animo nelle quali li concepii.
Il mondo corre rapido, e spesso non facciamo a tempo neppure a dir male dei mali, perché, mentre stiamo terminando proposizione incominciata, quei mali già sono trapassati e sostituiti da altri! Nuova prova, del resto, che giova più attendere all'opera che indugiare nelle lamentele e nei rimproveri. E così tengo anch'io, fermamente; ma questi scritti, come dicevo, sono intermezzi di riflessioni e di ammonimenti, prodottisi spontaneamente nel corso dei miei lavori.
Napoli, è maggio 1913.
B. C.
I. C'è o non c'è ora in Italia un risveglio filosofico? Non si aspetti che io risponda a questa domanda: primo, perché l'indagine mi sembra prematura; secondo, perché la stimo pericolosa (com'è pericoloso starsi a guardare allo specchio, quando bisogna operare); terzo, perché l'idea di tastare le tempie all'Italia per sentire se essa pensi o no, sveglia in me un'impressione di comico: e quarto, infine, perché, se anche questo risveglio non fosse, dovrebbe esserci, e val meglio dunque mettere in chiaro le condizioni necessarie di questo dover essere, anziché baloccarsi con incerte osservazioni e più incerte previsioni. E la condizione elementare perché un risveglio filosofico accada in effetti e non si effonda in vaga aspirazione e semplice desiderio di risveglio, è: che si abbia una nuova produzione di pensieri o idee.
Vero è che taluni vagheggiano un risveglio che sia come un esercizio di pensiero senza pensieri, un fervore d'animo senza oggetto determinato, un filosofare che non si concreti in filosofie, una battaglia di nuvole in cielo che non si converta mai in pioggia; e costoro si appellano talvolta, per difendere il loro sentimento, a quel detto di Kant circa la necessita d'insegnare, non già pensieri, ma a pensare. Detto d'indubbia verità quando rivolga la sua punta contro l'abito di somministrare definizioni senza svolgimenti, risultati senza processi, pensieri morti e non pensieri vivi; ma fallace in ogni altro senso, e già da altri confutato con la risposta calzante: che non si vede come si possa pensare senza pensare pensieri, e che la mente si rafforza e arricchisce con la forza e la ricchezza di questi, s'ingrandisce coi pensieri grandi.
Lasciamo a certi romanzi e drammi moderni quei tipi di riformatori, conquistatori ed eroi, che disdegnano tutte le conquiste particolari come meschine e inadeguate sempre alla loro brama insaziabile, e la cui attività, abbracciando l'universo, si avvolge in se stessa e magnificamente ozia; e guardiamoci dal collocare accanto a quei pretesi eroi dell'azione, che sono impotenti dell'azione, eroi del pensiero, impotenti del pensiero.
Un'altra condizione, non meno evidente, è che quella nuova produzione di pensieri e d'idee si affermi come produzione di sistemi, poiché filosofare è unificare, connettere, sistemare. E poiché, d'altra parte, ogni nuovo sistema filosofico modifica l'idea stessa di filosofia (che è elemento intrinseco al sistema) deve sorgere una nuova idea della filosofia. L'ultima condizione è che il nuovo sistema, e la nuova idea della filosofia, sia, come si suol dire, all'altezza dei tempi; cioè, mostri la capacità di dominare e risolvere tutti i problemi che finora lo spirito umano si è proposto, e di dominarli e risolverli meglio di ogni altro sistema del passato.
Se non s'avverano queste tre condizioni, non si potrà parlare di risveglio. Ci sarà, tutt'al più, la continuazione, per forza d'inerzia, di qualche vecchia tradizione filosofica; ci sarà, un erudito travagliarsi intomo alla letteratura filosofica, con interessamento da curiosi e da collezionisti; e le raccolte e le edizioni critiche dei filosofi si seguiranno, le biografie, le monografie, le bibliografie, i dizionari, le enciclopedie si moltiplicheranno; ma la filosofia sarà assente.
Del pari un risveglio artistico non può venire effettuato né dalla meccanica imitazione dell'arte già prodotta, né dall'ampliamento e arricchimento dei musei e delle pinacoteche o dall'accrescimento dell'erudizione intorno all'arte. Forse ai tempi nostri non si ha, o non si avrà più nell'avvenire, quella sorta di antitesi, che si ebbe nel passato, tra periodi di creazione e periodi di erudizione; e le due forme di attività, delle quali ciascuna ha la sua buona ragion d'essere e che si compiono a vicenda, procederanno in amichevole accordo. Ma, quel ch'è certo, l'una non potrà tenere mai il luogo e adempiere l'ufficio dell'altra.
Anche in Italia si è detto più volte, e da uomini autorevoli, che la storia della filosofìa attrae assai più della filosofìa stessa, o che essa sola veramente attrae; e si è detto per l'appunto con l'intento di farla finita con la filosofia: senza rendersi ben conto che, a questo modo, anche la storia della filosofia verrebbe condannata e abolita, non potendo esserci storia di cosa che si reputi priva di vero e intrinseco valore. Ora, quale sarà il sistema filosofico, o (per circoscrivere la troppo larga domanda) quale sarà l'idea della filosofia che col suo vigoroso affermarsi in Italia renderà possibile un risveglio filosofico del nostro paese? Quale sarà l'idea della filosofia, che non consista in una ripetizione del passato, e che, pur nutrendosi del passato, sia adeguata al presente?
— Vorrei ricapitolare come in catechismo le tesi fondamentali circa il metodo della filosolia, che da alcuni anni andiamo propugnando (1).
So bene che mi si obietterà, con tono tra ironico e sarcastico, come mi è stato obiettato o rimproverato altra volta: — Dunque, l'idea della filosofia, che sarebbe condizione del risveglio filosofico in Italia, è poi nient'altro che l'idea della filosofia, che tu tieni per vera? — Ma io confesso di non riuscire a intendere la forza di quest'argomento, e perché a tanti sembri acuto, arguto e irresistibile. A me pare (salvo il rispetto) un po' sciocco.
Certamente, l'idea che esporrò della filosofia, sarà l'idea mia: come potrei sostenere quella che non riconoscessi per mia, che cioè respingessi e tenessi per falsa? Ma pel fatto stesso che un individuo afferma come vera una idea, egli afferma insieme che quella idea lo trascende e non gli appartiene: essa è sua, ma in un significato affatto diverso da quello onde si parla dei propri capelli o del proprio naso: è sua in quanto l'individuo si è fatto strumento di verità; ma, in quanto si è fatto tale, egli ha sottomesso, anzi annullato tutto ciò che era in lui di particolare e di capriccioso; e perciò quell'idea non è più sua.
La critica, per essere efficace, deve dimostrare che quella idea è falsa, e non già che provenga da questo o quel gruppo di individui, o da un singolo individuo; essendo inevitabile che l'idea abbia per veicoli cervelli e bocche individuali. 0 che cosa mai si pretenderebbe? Conoscere la verità filosofica mercé qualche apparecchio meccanico, della sorta del termometro e del barometro? o aspettare la discesa di un Dio che, come Athena nella chiusa della trilogia eschilea, metta tregua alle lamentazioni e rappaci i contendenti?
1 (Nella rivista La critica, nella quale questo scritto fu per la prima volta pubblicato.)
II.
Ricapitolando, dunque, brevissimamente, dirò che la filosofia è senza dubbio scienza, cioè opera del pensiero logico, costruita con procedere metodico rigoroso, e tale che può e deve rendere conto di ogni suo passo. Ma poiché il fine che questa scienza si propone è diverso dal fine delle discipline naturali e delle matematiche (e affatto diverso ne è insieme il metodo); se per «scienza» s'intendono le sole costruzioni di tipo naturalistico e matematico, la filosofi a non sarà scienza, ma Filosofia.
Quindi la profonda differenza tra Scienza e Filosofìa, o, come a me par meglio e più esatto e meno equivoco dire, tra la Filosofìa, che è la vera scienza, e le discipline naturali e matematiche, che sono dominate da esigenze pratiche. La differenza stabilita non importa (come sembrò a molti dei vecchi idealisti) una menomazione delle discipline naturali e matematiche, ma il semplice riconoscimento di una eterogeneità.
E ne discende questa conseguenza che, laddove i vecchi idealisti (p. es. Hegel) consideravano le discipline naturali e matematiche come rozza e contraddittoria Filosofia, che dovesse essere corretta e assorbita dalla filosofia vera e propria (e con ciò facevano loro un'accusa e un onore immeritati), io reputo inconcepibile qualsiasi aiuto della filosofìa alle discipline naturalistiche e matematiche propriamente dette, o di queste a quella, perché, dov' è diversità di metodi, non è possibilità di sviluppo continuativo dall'uno all'altro termine.
Come la filosofia non può risolvere le difficoltà che un orologiaio incontri nel congegnare le sue macchinette, così non può mettere bocca nelle utilità che il botanico crede di raggiungere, e nelle difficoltà che crede di evitare, adottando il sistema di Linneo o quello di De Candolle; ogni variazione che si faccia nello schematizzare naturalistico dei dati dell'esperienza o nei procedimenti del calcolo, lascia indifferente il filosofo (in quanto filosofo).
Tutto ciò che si è addotto 0 si può addurre contro questa recisa distinzione, si riduce (posto che si conceda la realtà della filosofìa) a un sofisma, fondato sulla dimostrazione che filosofìa e discipline naturali e matematiche entrano l'una nelle altre, come si vede dalle notizie naturalistico-matematiche che i filosofi riferiscono nei loro libri, e dalle discussioni metafisiche a cui naturalisti e matematici si lasciano andare nei loro, e dalle questioni logiche e metodologiche che a tutti essi si presentano e che tutti si adoperano, ciascuno secondo le sue forze, a risolvere.
E il sofisma si confuta non appena si consideri che noi distinguiamo filosofìa e discipline naturalistico-matematiche, ossia due procedimenti mentali, ma non già gl'individui, che coltivano l'una e le altre, e non i libri che gli uni e gli altri compongono; perché s'intende bene che ogni individuo è sempre qualcosa di più della sua particolare professione: è uomo con tutti gl'interessi dell'uomo; e ogni libro dice qualcosa di più dell'ordine astrattamente delimitato d'idee, che si propone di esporre.
Se il rapporto della Filosofia con le discipline naturali e matematiche è di eterogeneità, il suo rapporto con la Religione è invece d'identità. Religione e Filosofia vogliono dare entrambe una concezione della vita, un'interpretazione del reale, nella quale la mente e l'animo si riposino, e, perché faciunt idem, sono il medesimo. Che se si stimi di applicare in questo caso la formola: si duo faciunt idem, non est idem, non si potrà se non ammettendo che l'una delle due, cioè la Religione, faccia lo stesso ma men bene dell'altra, e rappresenti un grado inferiore dell'altra: che la religione sia una filosofia imperfetta. Anzi, si potrebbe aggiungere, non una filosofia, ma la filosofia imperfetta; e perciò quella proposizione sarebbe convertibile in quest'altra: ogni filosofia imperfetta è una religione.
Infatti, che cosa è una Filosofia imperfetta se non un sistema di pensieri nel quale sono misti elementi non dedotti dal pensiero, ma posti dalla volontà o dal sentimento? E che cosa è una religione se non un sistema misto di pensiero e di sentimento, di sofia e di poesia (mitologia)? Ogni spirito profondamente e nobilmente religioso anela alla pace interna, all'interna armonia; ed essendo uomo, cioè essere pensante, non può non tendere a purificare quel miscuglio, a fare che la sua fede si elabori in intellezione, che la immaginazione ceda il luogo al concetto; e in ciò non si appoggia alla filosofia come a sussidio estraneo, ma si trasforma esso stesso in filosofia e tende a essere attualmente quel che già è potenzialmente.
Chi non sente tale bisogno o soffoca in sé questo naturale svolgimento, vede le sue più alte credenze religiose intristire, degenerare nella superstizione, nell'ipocrisia, nel comodo individuale, e finire come quella hche Intuition, di cui parlava Mefistofele a Fausto, — assai male.
Questa sostanza religiosa della Filosofia (o, se piace meglio, filosofica della Religione), e la stabilita differenza di essa rispetto all'opera cui sono intenti naturalisti e matematici, basta a spiegare perché noi abbiamo continuamente insistito sull'altra tesi: che la Filosofia si regge sulla storia della Filosofia. Non si regge cioè sulle notizie che vanno tuttodì accumulando e sugli schemi che vanno tuttodì foggiando le discipline extrafilosoficbe, ma sui problemi che lo spirito umano si è proposti e sulle soluzioni che ne ha date; e quei problemi e queste soluzioni sono per l'appunto la storia della filosofia.
La coscienza filosofica, al pari di tutto lo spirito umano, vive nella sua storia; e come un popolo che sia diviso dall'orbe, il quale inventasse di nuovo per suo conto il fucile a pietra, non solo farebbe cosa inutile, ma non avrebbe con ciò il modo di resistere agli altri popoli possessori di fucili ben altrimenti perfetti, così la coscienza, alla quale l'individuo giunge della verità filosofica, non può mantenersi e svolgersi nel mondo spirituale so non è rafforzata dalla coscienza di tutte le prove che lo spirito umano ha già sostenuto nella sua vita filosofica: deve lasciarsi stimolare da tutti gli stimoli mentali, ossia da tutti i problemi posti nel passato, e giovarsi di tutti i risultati raggiunti nel passato, per dare nuove soluzioni e porre sempre nuovi problemi.
Perciò la nuova idea della filosofia importa un continuo tenersi in contatto con tutte le forme di filosofia affermatesi attraverso la storia, e con quei filosofi in ispecie che sono stati insieme i grandi condensatori della filosofia anteriore alla loro (quali, in particolare, Aristotele nel mondo antico ed Hegel nel moderno).
Molti ai nostri tempi sono d'altro avviso, e cercano comicamente di tenersi alle falde dei zoologi, fisiologi, fisici e matematici, dai quali mendicano luce alle loro menti speculative. A noi sembra invece indubitabile che un filosofo debba conversare coi filosofi e non col profano volgo, che spesso non è neppure preparato ad accoglierne l'insegnamento. E poiché assai frammentaria e oscura sarebbe l'informazione che a lui darebbero i filosofi suoi contemporanei (per non dire che talvolta intere generazioni sono rimaste prive di veri filosofi), egli deve, andare a cercare la sua società nei grandi spiriti filosofici che si sono succeduti nella storia, compiendo un viaggio d'istruzione ben più serio di quelli che lo Stato italiano suole far compiere ai perfezionandi in filosofia con lo spedirli in Germania (donde ritornano, di solito,.più pretensiosi ma non più colti): un viaggio nel tempo e non nello spazio.
La filosofia non è filologia; ma la filosofia non può attuarsi storicamente senza la filologia. «Chi spera trovare la verità nei libri dei filosofi (diceva Herbart), è perduto. La verità non sta dietro, ma innanzi a noi; e chi la cerca guardi innanzi, non dietro le spalle». Ed è giusto; ma è altrettanto giusto che non si può guardare innanzi senza aver prima ben guardato indietro, né combattere di faccia senza essersi garantiti alle spalle.
III.
All'ideale che abbiamo delineato della Filosofia (divisa dalle scienze naturali e matematiche, affiatata con la religione, ritrovante il suo mondo proprio nella sua storia stessa) si è opposto, che, così concepita, essa rimane priva di ogni «contenuto» e «poggiata sul vuoto». Obiezione non solo assurda, ma addirittura incomprensibile, ove non si tenga presente il presupposto sottinteso dagli obbiettanti, che non vi sia altro modo di filosofia fuori di un certo cibreo o spezzatino di cognizioncelle varie naturalistiche, condito da generiche considerazioni di tendenza scettica o agnostica: è ovvio, in questo caso, che se si tolgono le notiziole naturalistiche, il cibreo da cucinare sembri «poggiato sul vuoto», cioè non più cucinabile, giusta il trivialissimo proverbio che per fare un pasticcio di lepre occorre anzitutto la lepre.
Ma a coloro che hanno compreso i principi enunciati di sopra, parrà invece evidente, che la filosofia non è mai vuota, quando sia piena di filosofia; anzi, che tanto più essa sarà piena e ricca, quanto più si andrà liberando da elementi estranei e si riempirà solo di sé medesima. La qual cosa, del resto, è propria di tutte le attività spirituali, il cui potenziarsi non è altro che il divenire sempre più energicamente so stesse.
Un'opera d'arte è tanto più bella quanto più è puramente arte, ossia quanto più esclusivamente si poggia su ragioni estetiche, disprezzando l'appoggio che le opere d'arte di qualità inferiore mendicano dalla moralità, dall'eroticità., dalla politica e dagli altri sentimenti nella loro extraestetica materialità.
Chi erede che la filosofia, sol perché afferma l'originalità del suo metodo e rivendica la sua autonomia, sia «poggiata sul vuoto», non ha ancora chiari in mente i concetti della logica filosofica. E, se li avesse chiari, riconoscerebbe insieme, che solamente col mantenere la sua purezza e la sua autonomia la filosofia si mette in grado di operare efficacemente in quelle più complesse produzioni dello spirito umano, nelle quali essa entra come fattore.
Anzitutto, nella Storia, la quale nasce col nascere del primo concetto e si svolge con lo svolgersi dei concetti e della filosofia, e si perfeziona o decade con l'oscurarsi dei concetti e con l'incertezza della filosofia; perché solo in virtù degli universali filosofici quella che era pura intuizione e fantasia artistica, si tramuta in intuizione e ricostruzione storica.
Chi si lamenta che l'idea della filosofia come pura speculazione lasci lo spirito vuoto di realtà concreta, dovrebbe del pari, quando vede alcuno fare un passo indietro per prendere lo slancio della corsa, maravigliarsi e gridare che colui, invece di andare innanzi, torna indietro. Quel momento di vuoto di ogni rappresentazione singola è necessario, anche se ingeneri nelle coscienze come un senso di sforzo angoscioso e di smarrimento. Ma, superata l'angoscia e raggiunta la regione filosofica, ecco aprirsi innanzi tutto il mondo della Storia, che lo spirito e ormai maturo a conquistare.
Ed ecco altresì che, per mezzo della Storia, la Filosofia rida la mano a quelle Scienze naturali, che aveva dapprima allontanate da sé. perché ciò che delle scienze naturali è estraneo a lei, anzi allo spirito teoretico in genere, è la forma dell'elaborazione naturalistica; non già il materiale storico (storia della natura, storia del genere umano), che è presupposto di quella elaborazione. Come la filosofia rischiara o anzi produce la storia dell'uomo, così anche rischiara e produce quella che si chiama la storia della natura; e con le discipline naturalistiche entra in rapporto per ciò che esso contengono di «storia naturale».
Non è più da pensare ormai a costruzioni di filosofia della natura, quali le idearono Schelling, Oken o Hegel: questa parte del vecchio idealismo a me sembra morta senza speranza di risurrezione. Ma che i fatti della cosiddetta storia naturale (che è poi anch'essa storia dello Spirito) debbano essere, come quelli della storia umana e della civiltà, compenetrati, più che finora non si usi, di pensiero filosofico, è cosa incontrastabile, e della quale già si vedono segni nei tentativi di spiegare più profondamente il sorgere delle forme del mondo organico e le loro varietà e discordanze.
Ed ecco infine che, sempre mercè la storia, la filosofia si congiunge con la Pratica, cioè coi problemi che la vita presenta e che dobbiamo risolvere con la nostra azione. perché l'azione è condizionata dalla conoscenza delle situazioni di fatto quali sono, ossia quali si sono formate; e questa conoscenza è la storia, condizionata a sua volta dal pensiero filosofico.
Si è preteso e si pretende, da non pochi cervelli ingarbugliati, che la filosofia debba servire alla pratica, dandole regole, ricette, responsi e consigli: il che sarebbe piuttosto disservirla e disturbarla con chiacchiere inutili, con astrazioni o con declamazioni generiche. Ben altrimenti la filosofia serve alla pratica col restare filosofia, anzi col cercar di affinarsi sempre più come filosofia, perché (come disse ottimamente Leibniz) la scienza è quo magis speculativa, magis practica. La buona pratica richiede che ciascuno attenda al proprio mestiere e lasci stare l'altrui, ossia si guardi dal fare il guastamestiere.
Cosicché la «vacuità» frutta assai bene, non solo alla filosofia stessa, ma a tutte le forme dell'attività umana che da lei in qualche modo dipendono: frutto che invano si attenderebbe dalla confusionaria «pienezza», la quale, essendo ibridismo, è colpita da sterilita.
IV.
Di qui si vede come il risveglio filosofico, svolgendosi da una nuova e più completa idea della Filosofia, debba portare con sé una nuova e più completa idea della cultura intellettuale, armonica cooperazione della Filosofia e della Storia, intese l'una e l'altra nel loro vero e larghissimo significato. perché è chiaro, anche dai pochi cenni da noi dati, che una Storia, avulsa dai suoi necessari presupposti ideali, non è più storia, ma disgregata raccolta di fatti, in preda a tutte le interpretazioni che il capriccio possa suggerire.
Ma è chiaro altresì che una Filosofia, la quale non si applichi ai fatti concreti e non si trasfonda e rinnovi nella Storia, rimane complesso di formole, che perdono a poco a poco ogni vita e significato e isteriliscono e si meccanizzano.
Congiunte invece tra loro, Filosofia e Storia formano quel perpetuo trapasso dall'universale all'individuale, dall'idea al fatto, e dal fatto all'idea, che è la vita stessa della conoscenza, eternamente rinnovantesi ed eternamente crescente su sé stessa.
A questo tipo di cultura dell'uomo intero bisogna rivolgere il desiderio; e promuovere con ogni sforzo la formazione di filosofi, che non assottiglino la filosofia a una impotente astrattezza, ma siano sempre aperti e disposti a passare e ripassare dalla filosofia alla storia, dalla storia alla pratica; e quella di uomini pratici e di storici, che sappiano ricondurre le loro azioni e le loro osservazioni di fatto alla fonte suprema di esse, alla coscienza dell'universale.
Certo, la ricchezza della vita ha richiesto sempre (e richiede ora più che mai) la specificazione delle operosità; e niente è più lungi dal mio animo che il raccomandare la versatilità superficiale e la virtuosità frivola. Ma la specificazione, quale che essa sia, dovrà sorgere sempre sul fondamento della cultura filosofico-storica, nella quale troverà la sua guida e il suo freno.
Certo, per effetto della specificazione, che non procede solo secondo la qualità delle attitudini ma anche secondo il vario potere efficiente degli individui, questi si dispongono sopra una scala, che va dai grandi filosofi e storici e uomini d'azione giù giù ai minori e ai modestissimi. Ma nei maggiori come nei più modesti dovrà affermarsi la medesima cultura sostanziale, cosi come la medesima religione affratella i grandi e i piccoli, i sacerdoti e i laici, gli eroi della santità e l'umile gente pia.
Senonché, questo tipo di cultura intellettuale non è il tipo che e prevalso nell'ultimo mezzo secolo, e che prevale tuttora. È prevalso e prevale, un altro, il cui difetto non si può dire che non sia stato molto spesso avvertito e lamentato: il tipo dell'uomo che ha conoscenze non poche, ma non ha la conoscenza; che è ristretto a una piccola cerchia di fatti o dissipato tra fatti della più varia sorta, ma che, così ristretto o così dissipato, ò privo sempre di un orientamento o, come si dice, di una fede.
Difetto avvertito, ma non riconosciuto dì solito nella sua vera natura e origine; e perciò, di solito, i rimedi, che si propongono per correggerlo, sono tali da concorrere piuttosto ad aggravarlo. A colui che se ne sta come ostrica attaccato al suo scoglio di fatterelli, si raccomanda l'andarsi attaccando ad altri scogli; a colui che vaga in qua e in la, si raccomanda l'attaccarsi a qualche punto e starsene tranquillo. Si distribuisce, insomma, o si tenta di distribuire diversamente la somma delle conoscenze; ma non si pensa a cangiarne l'intima costituzione.
Che l'origine del male sia nella specificazione, o nell'eccessiva specificazione, è stato affermato; ma a me, come s'intende facilmente dalle dilucidazioni date or ora, non sembra. La specificazione è necessità razionale; e che essa abbia effetto in questa o in quella misura dipende da contingenze e non altera, anzi rende concreta, l'opera dello spirito. Si può consacrare l'intera vita a studiare (come quello storico tedesco, che si vantava di non essere un «dilettante») la storia della Germania dal 1525 al 1530, o a scrutare al microscopio qualche specie di rizopodi o di eliozoi; e manifestarsi, pur in questi lavori di ambito assai stretto, uomini completi, menti esercitate, coscienze sviluppate.
E, per contro, si può abbracciare, le più svariate conoscenze, redigere un'enciclopedia o una storia universale, dare prova di perizia nello parti più varie del sapere storico e naturalistico, e mostrarsi uomini dimidiati.
La colpa insomma, non è della specificazione o dell'enciclopedismo, ma del modo che si tiene nell'una o nell'altro: non sta nell'esercizio di una determinata professione, ma nel modo dell'esercizio.
Nell'ultimo mezzo secolo si è voluta elevare a ideale supremo di cultura la cultura naturalistica e matematica, cioè appunto quella forma che non rappresenta la concretezza della mente e che si esplica nel foggiare schemi vuoti o manipolare dati di esperienza. La qual cosa non si deve chiamare specialismo, ma naturalismo o positivismo.
È accaduto, di conseguenza, che eroi del mondo mentale non appaiano più, come un tempo, i poeti, i filosofi, gli storici; ma di sopra, o a esclusione di costoro, i fisiologi, i fisici, gli zoologi.
E i personaggi autorevoli della vita sociale, chiamati a pronunziare le parole direttive nei problemi dell'educazione, dell'istruzione, dell'amministrazione e della politica, non sono più ormai nemmeno gli avvocati (che pure una qualche conoscenza della vita morale possedevano, se non altro per ragione di antitesi!); ma i medici e i chirurgi e gli alienisti e gli ostetrici e gli odontoiatri, i quali, con molta gravità, si lasciano decorare o si decorano da sé col titolo di «uomini della Scienza».
Uomini della Scienza, il cui torto non è già di esercitare la medicina pratica, ma di essere, pur troppo, in tutto e per tutto, l'incarnazione della barbarie logica, proveniente dalla sostituzione degli schemi ai concetti, dei mucchietti di notizie all'organismo filosofico-storico. Questi nuovi direttori della vita sociale sono affatto insensibili all'arte, ignorano la storia, sogghignano, come villanzoni ubbriachi, innanzi alla filosofia, e soddisfano, se mai, il bisogno religioso in quei sacri luoghi, che sono le logge massoniche e i comitati elettorali. Il risveglio filosofico e la cultura intellettuale a esso correlativa dovrà riabbassare all'ufficio, che è loro proprio, naturalisti e medici, fisiologi e psichiatri, e infrenare la loro arroganza.
E se anch'essi, com'è da sperare, saranno investiti dal soffio della nuova cultura, se ne avvantaggeranno in quanto uomini, e perciò anche, per indiretto, in quanto naturalisti e medici, perché acquisteranno, nei problemi che trattano, la coscienza di ciò che si può sapere e di ciò che non si può sapere, del problema solubile e di quello che è insolubile perché malamente formolato. Ora brancolano alla cieca tra problemi assurdi, e scompigliano e fracassano tutto ciò che toccano e urtano in quelle tenebre.
V.
Ma in quali istituti e forme pratiche dovrà esplicarsi l'augurata riforma della filosofia e della cultura? C'è un grande e complicato macchinano di scuole, dalle elementari alle universitarie, che dipendono dallo Stato. Non è condizione indispensabile, perché si abbia un risveglio filosofico, la riforma di quelle scuole, l'elaborazione di nuovi programmi, una diversa preparazione degl'insegnanti? Questioni ora ardenti in Italia, per le quali sono state istituite molteplici commissioni governative ed è sorta qualche battagliera rivista, scritta da insegnanti, cui siamo legati da comunanza di propositi e d'idee.
Senonchè, pur dando al problema dell'insegnamento di Stato l'importanza che merita, anche in questa parte, come in parecchie altre, io mi discosto alquanto dalla concezione, che dal suo massimo rappresentante si potrebbe chiamare «hegeliana». Se lo Stato viene definito, come nella filosofia hegeliana, la concretezza dell'idea etica, ossia l'eticità stessa in quanto si traduce nei fatti, è evidente che ogni riforma non possa essere se non riforma di Stato, per mezzo dello Stato; e la libertà, che molti propugnano, e che consisterebbe nel lasciar fare a ciascuno quel che gli pare meglio, è arbitraria, e, come ogni arbitrio, immorale.
Ma lo Stato, di cui si parla in quella tesi speculativa, è lo Stato ideale, ossia lo Stato nella sua idea (1). E il problema pratico importa, mi sembra, qualche altra cosa. Non che si possa, nel problema pratico, operare con uno Stato difforme dalla sua idea: un tale procedere ricondurrebbe alle viete forme di filosofia, che distaccavano in tal modo l'ideale dal reale, che questo, per essere seriamente reale, era costretto poi a mancare di rispetto all'altro. Ma il punto è di cercare nel mondo effettivo dove sia davvero, in un determinato momento storico, il vero Stato: dove sia davvero la forza etica.
Giacché se lo Stato è l'eticità concreta, non è detto che questa s'incarni sempre nel governo, nel sovrano, nei ministri, nelle Camere, o non piuttosto in coloro che non partecipano direttamente al governo, negli avversari e nemici di un particolare Stato, nei rivoluzionari.
L'idea dello Stato, appunto perché idea, e sommamente irrequieta; e nello sforzo di rinchiuderla in questo o quell'istituto o.in un complesso di istituti, si rischia di mettere le mani sulla sua vuota parvenza o sulla sua effettiva negazione. Nell'appressarsi al problema pratico, l'astratta o generica ricerca speculativa deve mutarsi in ricerca specifica e storica e penetrare nel contingente.
Non è raro che un uomo di pensiero, innanzi agli Stati empirici, sia tratto ad esclamare: L'Etat c'est moi; e può avere in ciò pienamente ragione. Così esclamava (se anche, in quel caso, non aveva piena ragione) Tommaso Campanella, allorché definiva i sovrani del suo tempo, di fronte a sé stesso e alla nuova qualità di sovrani che egli sognava: «Principi finti, contro i veri, armati»!
Ciò dichiarato, io lascio che della riforma della scuola discutano coloro che sono in essa competenti e nella loro stessa competenza attingono la fiducia necessaria. Ma, per mio conto e restringendomi al momento presente della cultura italiana e a coloro che lo rappresentano e che io credo di conoscere con alquanta esattezza, e al solo problema del risveglio filosofico, parlando insomma pei tempi e pel paese nei quali vivo, voglio esporre una mia utopia.
Tutti sanno che ora, in Italia, la maggior parte della produzione filosofico-tipografica e dovuta ad aspiranti a cattedre universitarie; e tutti sanno che questa produzione è quasi sempre scadentissima. E dev'essere così, perché la filosofia richiede forte disposizione naturale (che è cosa rara), e un lungo periodo di raccoglimento e di travaglio; laddove quella produzione è determinata da bisogni pratici di collocamento economico ed è raffazzonata da giovaui immaturi, che sono costretti a mettere insieme in fretta e furia volumi sopra volumi, per attirare sopra di sé l'attenzione nei pubblici concorsi e cominciare a pigliare posto nelle graduatorie; finché, a forza di presentarsi ai concorsi e di accumulare stampati, il candidato non susciti negli esaminatori il sentimento che egli abbia ormai abbastanza penato nella sua via crucis, e meriti il posto.
Tutti sanno anche come, d'altro canto, la maggior parte delle fatiche dei professori universitari si spenda nel dettare lezioni, che si riassumono in «dispense litografate», a uso di una folla di studenti, dei quali l'un per cento ha qualche amore per gli studi e per la filosofia, e gli altri prescelgono questa «materia», o perché una ne debbono pure scegliere e quale sia quell'una è loro press'a poco indifferente, o perché si sa che il professore di filosofia ha (o aveva fino a poco tempo fa), nelle scuole secondarie, minor numero d'ore d'insegnamento e nessuna fatica di «correzione di compiti».
Ora, poniamo che si facesse un efficace movimento, in Italia, per richiedere l'abolizione di tutte le cattedre di filosofia, e che si trovasse un ministro e un parlamento che decretassero quell'abolizione: che cosa accadrebbe? Naturalmente, ciò che accade sul mercato sempre che una merce perde la sua utilità: il numero degli stampati filosofici e dei professori o aspiranti-professori di filosofia scemerebbe rapidamente; e la Critica non riceverebbe ogni giorno libri ed opuscoli di giovinotti con preghiera di recensione e con lettere complimentose, e non le capiterebbe più, per avere dato talvolta il suo modesto avviso su quelle pubblicazioni, di vedersi sorgere contro, poco dopo, quei medesimi giovinotti, giudici fierissimi, e improvvisare programmi e fondare riviste per iscuotere «il regno del terrore».
Sembra a voi che questo sarebbe un gran male? A me non di certo, per la parte che mi concerne; Nè sarebbe un male per il paese, e neppure pei giovani che legittimamente aspirano ad aprirsi fonti di onesto guadagno, i quali non perderebbero nulla, perché un noto teorema di economia dice che «domanda di prodotti non è domanda di lavoro». Essi troverebbero, in breve, altri mestieri più degni da esercitare, o da esercitare più degnamente.
Ma se tutta quella produzione tipografico-fìlosofìca, e la produzione degli operai filosofi, diminuirebbe, non per ciò sparirebbero quei rari lavori seri, quei rari uomini nati e disposti alla filosofia, che ci saranno sempre che la natura li farà nascere. Quegli uomini filosofano, perché non possono altrimenti; come un poeta vero fa versi, perché non può non farne.
Occorrono forse scuole di Stato e accademie di belle arti perché sorgano la poesia e la pittura? dobbiamo forse allo Stato italiano la notevole produzione artistica dell'ultimo mezzo secolo? dobbiamo alle scuole italiane il pur notevole movimento di studi religiosi degli ultimi anni?
Con l'abolizione delle cattedre di filosofia si toglierebbe nient'altro che un ingombro; si farebbe una larga e magnifica potatura, preparatrice di belli e freschi virgulti; la filosofìa, coltivata per vocazione e amore, richiamerebbe intorno a se tutti gli spiriti simpatici e sinceri, e acquisterebbe quella forza espansiva che le cose, nate dall'amore, posseggono.
— Ma tutto ciò, si dirà, è impossibile, perché... — E inutile dirmi i «perché», giacché li so anch'io. E tra i «perché» è anche questo, che le cattedre giovano talvolta a procacciare l'agio necessario a studiosi privi di mezzi di fortuna; quantunque sia poi impossibile impedire che dell' istituzione destinata a vantaggio degli studiosi veri e degni profittino i falsi e gl'indegni, come quel tale che aveva fatto nella porta un buco grande pel gatto e uno piccolo pel gattino, non potè impedire che il gattino passasse anche lui per il buco grande. E perciò ho chiamato io stesso la mia proposta una «utopia»; e si può stare sicuri che se fossi pubblicista o agitatore pratico non la sosterrei, perché non si sostengono, nel campo della pratica, programmi utopici.
Ma le utopie, com'è noto, hanno pure la loro importanza come forme immaginose e paradossali per esprimere certi bisogni e certe verità; e questa mia vuol dire semplicemente: — Licei e università e accademie e altrettali istituzioni esistono, e di esse non ci si può sbarazzare. E da sperare che si riesca a migliorarle e a volgerle in servizio di più nobile ideale di cultura; e che la forza stessa di quest'ideale le conquisti a poco a poco, contrastando vittoriosamente gl'interessi meramente individuali che le turbano.
Ma, intanto, non si capovolga l'ordine naturale delle cose, e non si aspetti dallo Stato (inteso in senso empirico, ossia dal governo), e da riforme fatte dallo Stato, il risveglio della filosofia e della cultura. Ricordiamoci che lo Stato vero siamo tutti noi, uomini di buona volontà, quando bene e saggiamente operiamo; e pensiamo a renderci noi degni della Filosofia, senza darci soverchio pensiero degl'istituti e delle forme pratiche, il cui miglioramento seguirà, come seguono le «parole» a chi tiene la «cosa».
Il risveglio filosofico dovrà essere in Italia opera, soprattutto, di «laici», cioè di non universitari, e di universitari solo in quanto si sentano anch'essi laici, intatti dalle meschine passioni del mestiere e della clientela. Chi brama ardentemente di comprendere, di orientarsi, di veder chiaro nei problemi dello spirito, possiede in questa brama la prima condizione del filosofare. Non lasci estinguere la fiamma interiore; legga e rilegga i grandi pensatori; inediti, e alla più implacabile autocritica congiunga la più sicura fiducia nel risultato ultimo della sua meditazione; cerchi nel presente e nel passato le anime affini e si stringa a esse; non badi ad altro. Gli interessi individuali, che possono essere feriti dalle manifestazioni del suo pensiero, gli si leveranno contro, secondo i casi, con muta solennità o muta indignazione, o con sarcasmo, beffa e contumelie. Ma non per questo bisogna turbarsi: le medesime cose sono accadute sempre; basta leggere le biografie dei filosofi.
E, ora come ora, si sta meglio di prima; perché, giova sperare, non si troverebbe ora, tra i professori, nessuno capace di emulare il professore Jacopo Carpentario, il quale nella notte di San Bartolomeo, assoldò sicari che trucidarono e gettarono dalla finestra il suo collega e rivale Pietro Ramo!
Niente può impedire o ha mai impedito alla verità di seguire il suo cammino; e delle verità, che noi metteremo in luce, se ne metteremo, si ciberanno e vivranno gli universitari del futuro.
1 (Questo punto è stato ottimamente illustrato (Critica, II, 115 e 409), dal Gentile, del quale si veda anche il volume: Scuola e filosofia, Palermo, Sandron, 1908, capp. VII e XIII)
VI.
Lasciando dunque ad altri la cura di rendere migliore il nostro mondo filosofico-professorale, aggiungerò qualche parola circa una disposizione di animo o una virtù, che potrà efficacemente aiutare l'augurato risveglio. Ma veramente ho detto male «una virtù», perché si tratta piuttosto della lotta da promuovere e da proseguire contro «due virtù», che negli ultimi tempi sono venute in pregio, e al culto troppo ossequioso delle quali spetta la colpa di parecchi malanni che ci affliggono: contro la Tolleranza e contro la Temperanza.
È proprio delle «virtù» soggiacere a siffatta dialettica, perché esse sono concetti empirici, dai limiti mal determinati e non mai determinabili a rigore; onde, fulgide e maestose la prima volta che vengono affermate, o tutte le volte che s'incontrano con animi disposti ad accoglierle e fecondarle, con l'andar del tempo, tra gente dall'animo non abbastanza forte e puro, si cangiano in vizi, pur serbando l'antico nome decoroso.
Che cosa di più alto della «cavalleria», la quale valse a disciplinare uomini barbarici e a piegarne le forze violente a. prò della religione, dei deboli, delle donne? Ma, quando il cavaliere don Giovanni Tenorio passava seminando perfidie e tradimenti, un contadino, nel vecchio dramma spagnuolo, non poteva trattenersi dall'esclamare:
La desvergüenza en España
Se ha hecho caballeria!
E il medesimo e accaduto per la Tolleranza e per la Temperanza. La Tolleranza, nel suo genuino significato, e il rispetto che si deve agli uomini, nonostante gli errori che per quasta o quella parte loro imputiamo, i quali non debbono impedirci la concordia e la cooperazione con essi in ogni altra cerchia di vita. Di qui il principio della tolleranza religiosa, che la crescente civiltà fece via via adottare; talché ormai non si offendono più nel sangue e negli averi i diversamente credenti, né loro si applica uno special codice civile e penale. Né è lecito, nel contrasto delle opinioni, perseguitare i propri avversali, scomunicarli, privarli di acqua e di terra, o arrecare ad essi la minima offesa, estranea ai colpi che si danno nel dibattito e pel dibattito.
Ma la Tolleranza, quale si raccomanda tuttodì da noi, consiste né più né meno che nel lasciar dire senza contraddire quel che si crede inesatto o falso; nel vietarsi qualsiasi giudizio reciso, o avanzarne timidamente qualche spigolo, per subito ritirarlo, «come face le corna la lumaccia»; nel colmare di elogi chi sproposita, perché anch'esso, a suo modo, si dice, lavora e perciò merita rispetto: e codesta non è tolleranza vera, ma scetticismo e indifferenza, che usurpa il nome dell'altra. Quegli stessi che propugnano la tolleranza, finiscono, in effetti, col confessare, che non possono essere severi coi loro avversari, perché chi sa poi se ciò che gli avversari sostengono non sia la verità? chi può dire che domani la verità nostra e la loro non parranno tutte e due false? perché, dunque, riscaldarsi e guastare il sangue a sé stessi e agli altri? «Oh quanto è amabile e cara la Tolleranza!».
Anche la Temperanza ha il suo significato legittimo, in quanto attitudine a tener d'occhio i vari aspetti delle cose e a scoprire nelle stesse affermazioni erronee la verità; la quale tanto è connaturata all'uomo che nessuno sbaglia mai interamente, e perfino lo sbaglio è possibile solamente sopra elementi di vero. È, dunque, un'attitudine aristocratica, uua «superiorità», che, tra i filosofi, Hegel possedette in sommo grado, persuaso com'era, non già che tutte le filosofie fossero false tranne la sua, ma che tutte fossero vere, non esclusa la sua, che comprendeva e potenziava le altre tutte. Ma, se questa è forza di sintesi, la Temperanza odiernamente raccomandata è, invece, debolezza, incapacità di sintesi, tendenza alla combinazione e conciliazione estrinseca, che porta ad affermare cose tra loro ripugnanti, ha paura delle opinioni della gente volgare, cerca di non svegliare opposizioni, e rifugge dai partiti che richiedono risolutezza e responsabilità.
«Idealismo, sì, ma anche un po' di naturalismo ci vuole: pensiero, sta bene, ma al pensiero non bisogna chiedere troppo, e un po' di fede non va rigettata; fuori dello spirito non c'è nulla, verissimo, ma la res, il dato, è un elemento irriducibile e bisogna ammetterlo; l'apriori non si può negare, ma la formazione biologica dell'apriori è un'idea luminosa». E via discorrendo, perché sono cose stampate e i nostri lettori le conoscono ormai perché ne abbiamo messo loro sott'occhio i chiari documenti.
Quando la cosiddetta virtù della Tolleranza è diventata il vizio dell'indifferentismo, e la Temperanza quello dell'accomodantismo, si ha il dovere, mi sembra, di ribellarsi a codeste due signore Virtù, e pregarle di andare a offrire i loro servigi ad altra gente, che non a coloro i quali anelano a un risveglio della filosofia e della cultura, salutare alla patria italiana.
Con questo titolo (che sta per diventare di moda (01)) F. J. Sclimidt raccoglie quindici saggi filosofici, tutti (tranne quello introduttivo) prima inseriti nei Preussische Juhrbücher (2). E gioverà togliere occasione da questa raccolta per chiarire brevemente che cosa sia codesta «rinascita dell'idealismo», che muove sospetti infondati in alcuni, in altri non meno infondate speranze, e che pochi intendono nella sua natura e nei suoi limiti veri. Antonio Labriola, p. es., non celava, negli ultimi anni di sua vita, la persuasione che il risorgere in ogni parte del mondo civile dell'idealismo filosofico fosse in istretto legame con la riscossa delle classi borghesi contro le conquiste minacciose del proletariato. Ma questa interpretazione somiglia assai alle tante che vennero in voga nel breve periodo di fortuna del materialismo storico, e nelle quali assai scarso onore si fecero i Kautsky, i Lütgenau e altri storici improvvisati, che per poco non dedussero la forma geometrica della chierica dei preti dall'ordinamento feudale della produzione, e la legge della conservazione dell'energia dall'ordinamento borghese.
A ogni modo, prima d'indagare i legami che possano essersi stretti tra i rappresentanti di certe idee scientifiche e i rappresentanti di certi interessi pratici, importa studiare le idee in quanto scienza; né l'indagine di quei legami (necessariamente occasionali ed estrinseci alla scienza) deve distrarci dall' indagine intrinseca e fondamentale. Non si saprebbe nulla del Furiuso e della Gerusalemme, se si credesse averli spiegati col dire che Ariosto e Tasso furono cortigiani degli Estensi. E sarà bene, come Errico Heine voleva, che la contesa bizantina sulla omousia e la omoiousia fosse contesa d'amorazzi e d'intrighi tra le Eudossie e le Pulcherie; ma ciò non toglie che quella disputa aveva un serio contenuto teologico e filosofico, che sta per sé e non s'identifica con le gonnelle o con le tuniche imperiali delle Eudossie e delle Pulcherie.
La rinascita dell'idealismo ha carattere teoretico, e come tale dev'essere considerata e valutata. Non si nega che abbia altresì importanza pratica, ma appunto l'importanza pratica, spettante alla verità, o all'errore. E assai meglio s'intenderebbero le ragioni che la muovono, se fosse lecito, in Italia, pronunziare la parola «religione» senz'essere sospettati come «clericali» o ridicoleggiati come pastori protestanti in cerca di adepti nell'Europa latina. Pure, mi proverò: mi piace immaginare il mio lettore come animo libero e intelletto spregiudicato, e rivolgermi a lui con le parole:
io parlo ad uomo
Non sottoposto all'opinar del vulgo;
all'opinare di coloro che inferociscono al solo suono della parola «religione».
La religione non è altro che il bisogno di un orientamento sul concetto e il valore della vita e della realtà tutta. Senza religione, ossia senza questo orientamento, non si vive, o si vive con animo diviso e perplesso, infelicemente. Certo, meglio quella religione che coincide con la verità filosofica, che una religione mitologica; ma meglio una qualsiasi religione mitologica che nessuna religione. E, poiché infelicemente nessuno vuol vivere, ognuno a suo modo tende a foggiarsi, consapevolmente o inconsapevolmente, una religione.
Ora, il positivismo fece appunto il singolare tentativo di lasciare insoddisfatto il bisogno religioso dell'uomo; e in ciò fu da meno perfino del materialismo, che pur metteva capo a una sua forma di religiosità ed ebbe, nei Büchner e nei Moleschott, sacerdoti, i quali per unzione e smania predicatoria non rimasero indietro a nessun prete cattolico o pastore protestante. Ma il positivismo (e mi richiamo in particolare alla forma spenceriana di esso, e a quella neocritica che pochissimo ne differisce) offri agli animi ansiosi di verità i riassunti dei libri di scienze naturali, e, circa poi la Verità che si domandava, rispose: «La Verità è inconoscibile; ognuno se la fabbrichi a suo modo, secondo il suo sentimento e la sua opinione individuale».
Questa sorta di «liberismo», che poteva sembrare una bella concessione, era in effetti un finto regalo. perché, sotto forma di concedere a ciascuno non una sola ma tutte le religioni a scelta, gli s'impediva di possederne una qualsiasi, essendo stata dichiarata vana la ricerca stessa. Era presso a poco come se si fosse detto a un pover'uomo affamato: «Pane non ce n'è, e non posso dartene; ma ti concedo la libertà di cercarlo dove ti ho pur detto che non ce n'è. La ricerca, se non ad altro, servirà a svagarti e ad ingannare la fame». È evidente che a questo modo anche lo svago diventa cosa assai malinconica.
Conseguenza ultima di questa beffa crudele è stato il cosiddetto prammatismo, che si vanta come di una grande ricchezza del vuoto cerebrale e dell'impossibilità di riempirlo, e, a quel che sembra, ne gongola di gioia, come si vede nel libro or ora pubblicato di William James.
Non bisogna credere che gli uomini siano bambini e che si possa a lungo tenerli in soggezione e privazione con quattro parolette di suono scientifico e con l'autorità di nomi di scienziati e di filosofi. Dopo il dominio durato alcuni decenni, e non senza grossi contrasti, del positivismo, il bisogno religioso si è risvegliato, tanto più pungente quanto più a lungo insoddisfatto. Tutto il mondo contemporaneo è di nuovo in ricerca di una religione; di positivismo, di neocriticismo, di agnosticismo, non si vuol sentir parlare: e già si comincia ad assistere allo spettacolo dei militi del positivismo che voltano casacca e inalberano bandiere sulle quali è scritto non so che positivismo idealistico o psicologismo umanistico.
Risalendo dalla vallea positivistica, due vie si aprono dinanzi, la prima delle quali riconduce alla vecchia fede, alla chiesa o alla sinagoga. E alcun l'hanno ripercorsa o piuttosto vi si sono trascinati, con animo stanco e sfiduciato, in cerca di riposo. Ma, su quella via, è il suicidio mentale; e gli animi energici e ricchi di vita al suicidio non si acconciano, e perciò tentano l'altra via, che rimane aperta; quella che promette all'uomo la verità, la piena verità, da conquistare con la forza del pensiero, con la volontà del vero, col metodo speculativo proprio della filosofia e diverso dal metodo empirico e positivistico onde si cLissificano i fatti singoli.
La negazione del positivismo, e insieme la negazione di ogni forma di trascendenza e di credenza, è ciò che si chiama ora «rinascita dell'idealismo».
Come si vede, questo movimento, che si svolge da un bisogno intimo e dall'esperienza di aspre lotte e ha una profonda serietà, non deve andare confuso con una delle solite mode che si manifestano nel mondo letterario ed accademico. In verità, se la rinascita dell'idealismo dovesse ridursi a un cangiamento nei titoli dei volumi che si compongono pei concorsi universitari, persistendo la superficialità e inconcludenza del loro contenuto, non varrebbe la pena di spendervi parole intorno. Penso talvolta che il ciabattino napoletano che vedo ogni sera, nel tornare a casa mia, accanto al suo deschetto, occupato a lavorare di ago e succhiello, al lume di un candelotto protetto da un pezzo di carta bisunta, rappresenti l'utilità e la dignità sociale assai meglio del candidato universitirio, che imbastisce il suo zibaldone sul Concetto della libertà o sulle Categorie kantiane.
Purtroppo, si approssima il giorno, se già non e spuntato, in cui l'idealismo diventerà materia di speculazione pratica; ma, se a questo inconveniente bisognerà rassegnarsi come un esercito vittorioso deve rassegnarsi a esser seguito da predoni e spogliatori di cadaveri, non è detto che non sia bene fin da ora protestare, perché si distingua tra soldati e saccheggiatori, tra guerra e brigantaggio, e, quando si può, — si passino per le armi (le armi della critica) quei non richiesti e disonorevoli compagni.
Nel suo rinascere, l'idealismo filosofico non può non riconoscere e ripigliare la sua tradizione storica, ossia ricongiungersi all'opera degli idealisti, rimasta interrotta per alcuni decenni dall'interregno del positivismo. E vengono perciò richiamati in vita quei quattro pensatori, che formano come il quadrilatero filosofico della Germania, Kant, Fichte, Schelling e Hegel, e dei quali il solo Kant aveva continuato a formare oggetto di studio, ma staccato dai suoi prossimi discepoli e continuatori, e frainteso e quasi parificato e perfino talvolta abbassato sotto i Locke e gli Hume.
Anche in Italia si ebbe nella prima metà del secolo decimonono un movimento idealistico analogo a quello tedesco, benché a esso inferiore per originalità e consapevolezza, e che potrebbe altresì riassumersi in quattro nomi, Galluppi, Rosmini, Gioberti e Spaventa: pensatori ai quali toccò la medesima sorte, e ora la medesima rinascita, dei loro maggiori fratelli tedeschi. Anche noi, italiani, guardando alle vicende filosofiche dell'ultimo mezzo secolo, dobbiamo malinconicamente riconoscere come lo Schmidt (p. 237) pei suoi tedeschi: che «abbiamo malamente gestito la nostra eredità paterna».
Ma, se l'idealismo filosofico non può non ripigliare le sue tradizioni, è superfluo aggiungere che non vuole e non deve diventare ripetitore ed imitatore. Assai problemi lasciarono aperti i grandi pensatori che abbiamo ricordati; assai oscurità e contradizioni presentano le loro opere: né il periodo, che tenne loro dietro, può considerarsi come passato invano. Periodo antifilosofico, come ben dice lo Schmidt (p. 224), ma di dubbio e di fermento, e che concorse a generare la nuova vita. Queste — fiducia nel pensiero; riattacco alla grande tradizione filosofica — sono le linee generali del rinascente idealismo; e in queste tutti gl'idealisti concordano o dovrebbero concordare. Ma, dentro di esse, si muove la ricerca filosofica, con tutti i suoi contrasti ; e si muovono i vari pensatori e i vari indirizzi particolari.
Il libro dello Schmidt, che traccia appunto le sole linee generali, è chiaro, coerente, eloquente, vivace nella polemica, ricco di calore e di convinzione (3). Per queste doti di forma, oltre che per quelle del pensiero, mi pare di poterne consigliare la lettura a tutte le persone colte, che s'interessano ai problemi dello spirito.
Senonehè, quanti sono in Italia che davvero s'interessino a codesti problemi? Assai più, per dire la verità, adesso che non qualche anno addietro; ma pochi sempre. Si ricordi che il libro dello Schmidt è comparso dapprima in forma di articoli in una rivista largamente divulgata e non specialmente filosofica (i Preussische Jaharbücher). Quale rivista italiana avrebbe accolto disquisizioni di quel genere, e in così larga misura? Ma del numero assai maggiore in Germania che non in Italia delle persone che prendono parte a tali dispute, la ragione si troverà nel libro stesso, che ci mostra quali stretti legami abbiano colà i problemi della filosofia coi problemi della chiesa.
Lo Schmidt afferma (ed è perfettamente nel vero) che il cristianesimo non è già una religione orientale, ma il prodotto più alto del pensiero classico nel suo fecondo incontro con la religione d'Israele; che il protestantesimo non fu un salto indietro disopra il medioevo per tornare al cristianesimo primitivo, ma anzi la continuazione dello svolgimento dato al cristianesimo dalla, chiesa cattolica; che il vero protestantesimo non è più nelle chiese protestanti (residuo di medioevo), ma nella filosofia idealistica, che ne è stata storicamente il frutto più maturo; e bene, altresì, egli mette in luce la identità sostanziale tra la concezione immanente della vita che il protestantesimo inaugurò con Lutero (o con le tendenze veramente originali dello spirito di Lutero), e quella grecità, ch'era l'ideale goethiano.
Insomma, gli scrittori tedeschi, diversamente da quelli dei popoli latini, trovano nella cultura religiosa una preparazione alla cultura filosofica. L'osservazione, che qui faccio, è tutt'altro che peregrina, nè io ripeterò, fondandomi sopra essa, le lamentele circa la mancata riforma religiosa nella storia italiana: lamentele fastidiose, perché la storia e quella che è, e in essa l'accaduto coincide col necessario. E ancor meno mi farò ad augurare all' Italia che si procuri, artificialmente, un po' di riforma, qualche Lutero e qualche Melantone in proporzioni ridotte, o una guerra di trenta giorni in cambio della Guerra dei trent'anni, tanto perché anch'essa si trovi ad avere percorso la «fase protestante» e, messasi cosi in regola con le «leggi della storia», possa «superarla» e salire all'idealismo speculativo: auguri che formano il degno corollario pratico di quei lamenti storici. Niente di tutto ciò.
Ogni individuo e ogni popolo deve percorrere la propria via, movendo dalle condizioni di fatto nelle quali si trova e che sono il risultato della sua storia. Ciò che importa è rendersi esatto conto di quelle condizioni di fatto, e delle difficolta, o anche delle agevolezze, che ne nascono; e non dimenticare mai che l'Italia non sarà grande spiritualmente se non avrà conquistato la sua propria coscienza religiosa, che è insieme coscienza filosofica.
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(1) In Italia l'adoperò già, or sono cinque anni, il mio amico Giovanni Gentile, in una sua prolusione universitaria (La rinascita dell' idealismo, Napoli, tip. R. Università, 1903.
(2) Zur Wiedergeburt des Idealismus, Philosophische Studien von Ferdinand Jakob Schmidt, Leipzig, Dürr'sche Buchhandlung, 1908 (in 8° gr., pp. VIII-325)
(3) In alcuni punti, nei quali l'autore esce dalle affermazioni metodiche generali, io, per mia parte, trovo ragioni di dissentire. Cosi non mi persuade del tutto l'accusa che egli muove all'idealismo classico tedesco, di essersi tenuto nel campo teorico, e la conseguente affermazione che l'idealismo moderno deve essere pratico e affrontare il problema sociale. E, se qui l'accusa mi pare infondata, altrove mi pare inaccettabile la troppa ortodossìa, che spinge lo Schmidt ad accogliere la vieta teoria hegeliana intorno al rapporto d'identità dì Arte, Religione e Filosofìa e la conseguente tesi dello scarso interesse dell'arte nel mondo moderno. Ma, come ho detto, non scrivendo una recensione, non mi estendo su questi punti, e su qualche altro sul quale anche sarebbero da fare riserve.
1909
Come gli uomini tutti, ho fatto, o scritto, anch'io parecchie corbellerie, delle quali mi dolgo e arrossisco, e che ho procurato e procuro di correggere. Ma al modo stesso che nell'elenco dei dieci comandamenti del Signore ve ne ha parecchi che credo di non aver mai violato, così tra lo corbellerie che nel corso della vita si possono commettere da chi pratica con la filosofia e con gli studi in genere, ce n'è una della quale mi compiaccio di essermi sempre tenuto puro, anche nei primi anni della mia giovinezza. Non sono stato mai positivista. E non era facile restare immune dal positivismo, particolarmente una ventina d'anni addietro, quando appunto frequentavo l'università, facendovi il mio corso di giurisprudenza.
Professori e studenti, quasi tutti, erano allora positivisti: professori e studenti di discipline giuridiche, di scienze naturali, di filosofia, di letteratura. Rarissime le eccezioni; e anche coloro che non volevano essere propriamente tali, facevano di cappello al positivismo, ne accettavano, come dicevano, le parti ragionevoli, e riverivano il gran nome dello Spencer, che si soleva citare così: «Erberto Spencer dice...» (Philosophus ait...); inconsciamente imitando per uno dei filosofi più poveri di pensiero che siano mai stati al mondo la formola usata già pel ricchissimo dei filosofi.
Rifiutare allora d'iscriversi al gran partito positivista, prendere un altro titolo, come d'idealista o di hegeliano o di herbartiano o di rosminiano, era il medesimo che rassegnarsi a essere considerato cervello balzano dai benevoli, questurino travestito dai positivisti esaltati e spadroneggiami; e affrontare, insomma, gl'inizi della vita scientifica tra la diffidenza generale.
Allora, tra le risate di consenso di tutta Italia, Olindo Guerrini proponeva di raccogliere ogni anno i filosofi italiani (beninteso, i non positivisti) in un anfiteatro, a una pubblica discussione tra loro; assistendo dagli alti gradini i giovani alla battaglia delle formolo vuote e agli improperi e vituperi che coloro si sarebbero scagliati reciprocamente in faccia, e per tal modo edificandosi come la gioventù lacedemone alla vista degli iloti ubbriachi. I soli filosofi riconosciuti legittimi, e circondati di rispetto, erano quelli che promettevano, con gesti da cavadenti arringanti alle folle sul biroccio carico di boccette e scatolini, di fare la filosofia nei «gabinetti», cogli «strumenti» e con le «macchine»; e di costoro si nominava, non so perche, qual rappresentante e modello l'Ardigò, che un altro gran filosofo positivista, l'on. Baccelli, aveva da poco coronato e mitriato professore di università.
L'onorevole Baccelli conduceva la polemica antifìlosofica dal suo seggio di deputato o dal suo banco di ministro, chiamando, le scienze non positive, scienze (era questa la sua parola precisa) «chiacchieroiche».
Ma io provavo un'invincibile ripugnanza contro il positivismo, e ora che ne cerco le cagioni, scorgo senza dubbio che la prima di queste nasceva dalla delusione del mio cervello di adolescente, ansioso di luce, e che rivolgendosi ai libri dei celebrati positivisti, otteneva soltanto qualche gruzzolo di fatterelli incoerenti e qualche matassina di ragionamenti triviali. Nell'adolescenza, si vuole sul serio «comprendere», sebbene molto spesso si scriva e si stampi per impazienza e vanagloria. Tuttavia, se quella era la ragione fondamentale e profonda, altre secondarie le si aggiungevano, che a me allora apparivano come principali.
S'immagini un uomo il quale abbia un gran culto pel galateo e discorra con tono pacato e faccia precedere ogni obiezione, che gli accada di esporre, con un «mi scusi», e lasci finire agli altri il discorso prima di prenderlo o riprenderlo lui, e si guardi attentamente dal dire parola che possa ferire l'animo altrui, o dal fare interrogazioni che pecchino contro la discretezza: s'immagini che un siffatto compito gentiluomo sia menato in una società di persone che discutono gridando, che troncano il discorso in bocca degli altri per imporre l'ascoltazione del proprio, che inurbanamente danno smentite o accusano spropositi, che gratificano l'interlocutore con titoli poco garbati o villanamente gli rinfacciano particolari della sua vita privata o prendono tono d'inquisitori e di giudici.
L'uomo, da me immaginato, l'uomo osservante del galateo, prima ancora di ricercare se coloro siano buona gente (e possono essere, in fondo, buonissima gente), si ritrarrà fra. stordito e disgustato, dicendo tra sé che egli è capitato in un mondo che non è il suo, in un mondo che la sua buona educazione gli vieta pur di qualificare! Or bene: qualcosa di simile accadeva a me di fronte ai positivisti e ai loro libri. Studiavo allora, con molta curiosità, la storia; e i positivisti mi offendevano con la quantità di evidenti spropositi storici, di cui infioravano le loro pagine. Andavo imparando il metodo filologico, del ricorrere sempre alle fonti e mettere le citazioni esatte; e i positivisti citavano di quarta o quinta o decima mano, e le loro citazioni di solito non si ritrovavano nei testi.
Leggevo di molta poesia e letteratura, ed ero rispettosissimo dello scrivere ordinato e nitido: e ipositivisti scrivevano con fraseologia damediconzolo di provincia, superbo di poter metter fuori i pretensiosi termini scientifici appresi all'università della capitale. Credevo che gli studi italiani dovessero tenersi affiatati specialmente con la cultura classica, e, nel mondo moderno, con gli studi germanici; e i positivisti italiani, di solito, non bazzicavano se non la letteratura francese di second'ordine, o tutt'al più i libercoli da dilettanti e per dilettanti che vengono fuori in gran copia presso gli anglo-sassoni.
Ero convinto che bisognasse riprendere le questioni dal punto al quale le avevano portate le ricerche precedenti, epperò che la filosofia dovesse accompagnarsi alla solida cognizione della storia della filosofia; e i positivisti ignoravano la storia della filosofia, trattavano con grossolanità barbarica i grandi pensatori del passato, quasi povera gente, pagani che non avevano ricevuto il beneficio della redenzione nel nuovo vangelo (la terza epoca dell'umanità, succeduta alla «mitologica» e alla «metafisica»); e quando, per avventura, si provavano a fare schizzi storici, la loro storia era da cima a fondo convenzionale o immaginaria.
Tutto ciò m'induceva nella persuasione che il positivismo, anziché dottrina discutibile, era uno «stato d'animo», misto d'ignoranza e di baldanza: una rivolta dì schiavi contro il rigore e la severità della scienza. In questa persuasione mi confermava l'osservare i miei compagni di scuola. Con mia non piccola meraviglia, quelli di essi che meno studiavano, che non mai dubitavano, che non mai erano afflitti dalle benefiche malinconie giovanili dello scetticismo e del pessimismo, coloro nei quali io vedevo disegnarsi le figure dei futuri consiglieri comunali e provinciali dei loro paeselli, o dei futuri candidati al parlamento, erano i più caldi «positivisti».
Mi torna in mente l'immagine di uno di codesti miei colleghi, dal cappello a cencio e dal bastono nodoso, che molto gridava e discuteva e di rado apriva un libro. E ricordo che un giorno, in un capannello di studenti, rivolgendosi a me gridava, rosso in viso per l'entusiasmo: — Tu non potrai negare che tal dei tali (uno dei celebri positivisti o naturalisti italiani), in ogni rigo che stampa, offre cose nuove! — E come fai tu, che non leggi mai niente, ad accorgerti che sono cose nuove? — rispos'io, arrestandolo di colpo nel suo slancio di eloquenza; e per quella volta godetti un piccolo trionfo, avendo messo i risori dalla parte mia.
L'orrore contro il positivismo (poiché mi sono lasciato andare alle confessioni e ai ricordi, continuo ancora per un tratto: forse esprimo insieme i sentimenti di parecchi altri, che hanno provato le medesime vicende spirituali), quel mio orrore divenne così violento da soffocare per parecchi anni persino le tendenze democratiche che sono state sempre naturali al mio animo. «Omnis enim Philosophia (ho letto una volta in una vecchia dissertazione tedesca di laurea), cum ad communem hominum cogitandi facultatem revocet, per se democratica est; ideoque ab optimatibus non iniuria sibi existimatur perniciosa». Ma la democrazia italiana era, non si sa perché (se non forse per la smania di popolarità, che è male quasi inevitabile di tutte le democrazie), positivistica; e il mio stomaco si ricusò di digerirla, finché essa non prese qualche condimento dal socialismo marxistico, il quale, cosa ormai notissima, è impregnato di filosofia classica tedesca.
Anche oggi la fraseologia positivistica di certi democratici italiani mi fa sorgere impeti di conservatore! Gli spropositi sono spropositi e nessuna buona intenzione politica li rende legittimi; e molti, certamente benemeriti, agitatori democratici opererebbero da savi se lasciassero in pace scienza e filosofia, nelle quali non hanno quella competenza, che bisognerà loro riconoscere in altre parti della vita. Il positivismo ha da un pezzo descritto la sua curva, e anche in Italia è ora stremato e ridotto presso a morte. Qualche voce, che prima si ascoltava con viso compunto, ora fa sorridere: qualche pretesa stravagante, che prima era accolta da applausi, ora è zittita con senso di fastidio.
Noialtri, che abbiamo un concetto umanistico e idealistico degli studi e della filosofia, cominciamo a ottenere il disopra. Ma, da vincitori onesti, non vorremo dettare ai vinti altri patti se non quelli che già richiedevamo durante la guerra: non vieteremo di certo ad alcuno di sostenere i propri convincimenti, ma esigeremo che si diano le prove dei compiuti studi elementari, e che si serbi il dovuto rispetto alla storia e alla logica, e che ci si presenti nel mondo della filosofia in tenuta corretta: abito nero e cravatta bianca. Ne useremo rappresaglie e vendette; e se i positivisti, con dubbia buona fede, tentavano spacciarsi degl'idealisti chiamandoli reazionari, puntelli dell'altare e dei privilegi, e additandoli all'odio o all'antipatia delle plebi, noi non ricorreremo a consimili mezzi non troppo leali: non ci ricorderemo neppure che vi è stato qualche autorevole scrittore democratico che ha cercato di dimostrare essere il positivismo l'espressione più schietta del movimento e degli interessi borghesi; e ci restringeremo ad additarli unicamente — alla riflessione della gente che pensa.
1905.
Parrebbe di si, perché da qualche tempo leggo e odo di frequente la parola «hegelismo» o «neohegelismo» , adoperata a designare l'indirizzo della nostra rivista. E i benevoli si rallegrano che sia finalmente risorta la scuola hegeliana del Mezzogiorno d'Italia, che tra il 1840 e il 1870 ricongiunse la tradizione filosofica nazionale alla grande filosofia europea. E i malevoli aprono la bocca per gridare allo scandalo innanzi a questo rinnovarsi delle ubbriacature ideologiche e metafisiche, del «dommatismo, che essi, con la loro profonda e limpida critica, credevano di avere definitivamente distrutto: ritorno privo perfino di quel «galateo» che, mercè loro, si era introdotto nella società filosofica italiana e aveva calmato l'appassionamento e ingentilito la rude discussione filosofica, trasformandola nella cerimoniosa chiacchiera indifferente tra colleghi, che tengono, soprattutto, a restare in buoni rapporti di colleganza.
«Si trattasse almeno di una metafisica timida, modesta, sentimentale, sospirosa! No: si tratta proprio della più arrogante di tutte, di quella hegeliana, con l'Assoluto e con la dialettica. Pensate un po' !».
Vi sono poi altri, benevoli a modo loro, che fanno festa alla ricomparsa dell' hegelismo per una curiosa ragione, che conviene spiegare. Giacché costoro vagheggiano una società filosofica italiana, modellata sul tipo delle compagnie comiche del tempo della «Commedia dell'arte», in cui le varie maschere siano tutte rappresentate: Pantalone, Brighella, Arlecchino, il Dottor Balanzon, Coviello, Ginngurgolo, Frittellino, Mezzettino: neocriticismo, positivismo, materialismo, spiritualismo, pluralismo, parallelismo, misticismo, matematicismo, e cosi via. Da qualche tempo si avvertiva la mancanza di una delle maschere più sollazzevoli: di Pulcinella. Eccola che ricompare. Largo a Pulcinella — cioè all'hegelismo napoletano!
Finalmente, altri ancora, ben più sennati e fini, esprimono il loro timore che noi, anziché contribuire secondo le nostre forze al progresso filosofico, vorremo perderci a ravvivare cadaveri o a rappezzare vecchie stoffe. Il timore di questi ultimi, a dir vero, è fuori di luogo, come non hanno luogo le lodi dei primi e i biasimi dei secondi, nonché il compiacimento da impresari teatrali dei terzi. Che noi fossimo «hegeliani» o «neohegeliani», non ce n'eravamo accorti. 1} per mio conto (parlo per un istante in prima persona singolare) ho nel mio modesto bagaglio parecchie critiche della filosofìa della storia e dell'estetica hegeliana; né della metafisica in genere mi sono mostrato finora troppo tenero.
Ma, d'altro canto, che ci sia un appicco (quantunque non più che un appicco) a considerarci hegeliani, non vegliamo già negare. perché, infatti, è nostra ferma convinzione, che la filosofia non possa risorgere e progredire se non riattaccandosi, in qualche modo, all'Hegel. L'Hegel fu l'ultimo, ed insieme il principale rappresentante del movimento idealistico, seguito alla critica kantiana, la quale aveva bensì conquistato l'idea della sintesi a priori, ma aveva lasciato il caput mortuum della cosa in sé, e l'altro caput mortuum della ragion pratica, fondamento di affermazioni teoreticho.
L'Hegel, coi suoi due grandi precursori, riconobbe che, ove l'uomo non potesse saper tutto, ossia «il tutto», non potrebbe saper nulla; sostenne l'oggettività della conoscenza; si oppose a ogni trascendenza; superò i capricciosi e superficiali apprezzamenti ottimistici e pessimistici, e intese a conciliare il pensiero con la realtà, la scienza con la vita. Il suo ideale della filosofia risponde, alla vera e perpetua esigenza filosofica dello spirito umano.
— Dopo di lui, il mondo fu di nuovo spezzato in apparenza e realtà ascosa, in materia e Dio ignoto, in fatti bruti e valori trascendenti. La filosofia (ma non già la metafisica in cattivo senso!) venne spodestata. Preti da gabinetti e preti da altari occuparono il posto disertato dai filosofi. La filosofia, per essere tollerata, si acconciò a prestare opere servili: a rinettare gl'istrumenti dei fisici e fisiologi, e a tenere in buon ordine le loro collezioni di fatti. Donde la necessità, che ora si fa sentire, di un ricollegamento agli idealisti classici e all'Hegel, il cui concetto della conoscenza come sistema e totalità bisogna sforzarsi dì attuare.
Senonché, non meno importante deve essere, a nostro parere, il ricollegamento negativo. Se una metafisica è ancora da criticare, questa non sarà certamente la metafisica ontologica, che fu vinta per sempre da Kant (opera poco gloriosa uccidere i morti!): ma appunto la nuova metafisica, la metafisica della Mente, ch'è l'idealistica ed hegeliana. E io concedo che anche questa sia modificabile, criticabile e superabile. Ma chi l'ha superata o corretta? Forse l'Herbart (nomino i maggiori), col contrapporle un monadismo leibniziano peggiorato? ovvero Adolfo Trendelenbarg, col contrapporre all'Idea, radice della natura e dello spirito, il Movimento, principio comune della natura e dello spirito?
Di fronte a siffatte vedute, l'ardito tentativo dell'Hegel, di dedurre la necessità della realtà dalle categorie del pensiero puro, rimane tanto invincibile quanto gigantesco. Pure, di rado l'Hegel si è trovato a fronte avversari come l'Herbart o il Trendelenburg, invisi essi stessi come filosofi. I più se ne sono sbrigati dichiarandolo incomprensibile, o gettandolo in un canto perché passato di moda. Molte volte ho letto in libri di professori la gentile affermazione: «Questa tesi è trascurabile, perché poggia su presupposti hegeliani». L'Hegel è stato trattato come il Lessing diceva che ai suoi tempi le genti trattavano Benedetto Spinoza: wwie einen todten Hund, come la carogna di un cane. È stato poi anche, sovente, messo in canzonatura; e, di certo, non sarò io che vorrò negare il diritto della canzonatura. Ma questa, se mai, deve seguire, e non precedere o sostituirsi alla critica: l'Hegel stesso curò di avvertire, più volte, che non ci voleva molta spesa di spirito a canzonare certe sue affermazioni (es erfordert keinen grossen Aufwand von Witz...).
Anzi, i canzonatori dovrebbero guardare con rispetto e simpatia l'Hegel, per lo meno come un de' loro, come uomo di spirito; che i suoi rari sarcasmi, che tengon dietro alle sue analisi spietate, sono di ottima fucina e bruciano come ferri roventi. Conseguenza di questa mancata critica, o serietà critica, è il risorgere, dappertutto, dell'hegelismo. Risorge proprio per vivere? Mah!
— Ricorderete la tragica storia del corpo dell'ammiraglio Caracciolo, gittato a mare dall'antenna alla quale era stato appiccato per ordine di re Ferdinando IV, e che ricomparve a fior d'acqua allorché il Re con la sua nave giunse nel golfo di Napoli. «Che cosa vuole da me questo morto?» —gridò atterrito il re al suo cappellano, vedendo il cadavere navigare furiosamente verso di lui. «Sire, implora sepoltura cristiana!».
La metafisica hegeliana non chiede troppo, io eredo, se chiede quella «sepoltura cristiana», che finora le è stata negata. Ecco, dunque, a che cosa si riduce il nostro asserito hegelismo: a raccomandare verso l'Hegel l'atteggiamento medesimo, che è doveroso verso tutti i grandi pensatori; e con più enfasi per l'Hegel, perché egli fu l'ultimo di essi, nel tempo.
Come potrebbe saltarci in capo di essere «hegeliani», quando hegeliano non era neppure lo stesso Hegel ? È risaputo (lo racconta il Thaulow) che a sua moglie, alla Frau Professorina egli, nel travaglio delle meditazioni, soleva dire: — Fertig werde ich nicht! Non ne caverò mai le mani ! — E credeva non già che con lui la filosofia fosse sostanzialmente compiuta, ma piuttosto — se un orgoglio aveva, — che dopo di lui si sarebbe messa a più fervida opera. Né quand'anche, dopo il debito studio, l'idea fondamentale, il metodo e la costruzione del sistema hegeliano saranno stati rifiutati, si creda di averla fatta finita con l'Hegel. Se il metafisico avrà perduto la sua forza, resterà sempre il filosofo e lo scrittore. E dall'Hegel ci sarà sempre da imparare moltissimo nei particolari, sol che ci si risolva a leggerlo: a leggerlo pagina per pagina, secondo raccomandava di recente uno scrittore della Revue de métaphysique; a leggerlo non solo come sistematico ma come an essayist, come uno scrittore di saggi, secondo raccomanda un suo non meno recente critico inglese.
Pronti a onorarci da noi stessi del nome di hegeliani dove accetteremo una particolare tesi o idea dell'Hegel, ci si consenta dunque di respingere il titolo e «l'etichetta» di hegeliani, che davvero non ci spetta. E titoli e etichette ci sembrano, in genere, pericolosi. Non ci è ignota la teoria gnoseologica del «bisogno economico», il quale spinge a semplificare, a classificare, ad affibbiare titoli ed etichette. Ma se gli animali e i vegetali debbono acconciarsi a codesta mutilazione ideale, e non protestano perché non sanno, gli uomini vivi le si ribellano contro e non vogliono essere «semplificati», quando si sentono «complicati»: o, per lo meno, non vogliono che i titoli e le etichette si convertano in ostacoli a guardare la verità effettuale.
Alla serietà degli studi filosofici gioverà il riportare l'attenzione dai nomi e dalle formole ai problemi e alle soluzioni. Se qualche amico perderà cosi l'agevolezza del lodarci in blocco; o qualche avversario, del condannarci nella stessa forma comoda e sbrigativa; o qualche anima ben disposta, del dichiararsi nostro correligionario col pronunziare un breve motto d'ordine: sarà tanto di guadagnato. Tutti costoro dovranno approvarci, o biasimarci, o seguirci, studiando ls questioni concrete: e, in luogo di parole, produrranno pensieri; in luogo di far i pettegolezzi della simpatia e dell'antipatia, dell'amicizia e della inimicizia, della setta e dell'antisetta, faranno — che varrà maglio — della filosofia.
1904.
Contro la filosofìa speculativa la filosofia empirica suol mettere in campo nn argomento di effetto sicuro. Noi (dicono gli empiristi) vogliamo movere dai fatti: non vogliamo volare, ma camminare: non ci lasciamo sedurre dagli inviti a salire al settimo cielo. Raccogliamo i fatti, osserviamoli, e faremo poi la speculazione, se sarà il caso. Esigenza, a primo aspetto, ragionevolissima, che non si saprebbe in qual modo e con quali ragioni contrastare. Che cosa sono i fatti se non la realtà stessa, la quale è un fatto e non già una velleità o possibilità? Che cosa c'è fuori dei fatti? Anzi, si può concepire qualcosa che non sia un «fatto»?
I filosofi speculativi sono e debbono essere pronti ad accettare l'esigenza espressa nelle parole degli empirici, e, se cosi piace, far coro con essi a gridare l'invocazione: — fatti, fatti! Ma di questo pronto consenso gli empiristi non si contentano e restano in disparte, increduli e ostili. Né, a dir vero, se ne contentano gli stessi filosofi speculativi: tra le due parti, che hanno parlato e a parole si sono concordate, perdura una certa freddezza e diffidenza, come tra due uomini divisi profondamente da diversità di temperamenti e d'interessi, e che sono venuti tra loro a una conciliazione apparente, e, mentre le loro bocche dicono di «sì», i loro cuori dicono un «no» tacito, che ha ed avrà maggior forza di quel «sì» pronunziato.
Il fatto è che il dissenso concerne per l'appunto il concetto stesso del «fatto» ; e in questo prende origine il sofisma degli empiristi. Fatti, sì; ma i fatti sono da concepire nella loro infinità nel tempo e nello spazio; e quando il filosofo speculativo dice, per es., che vuol tener conto dei fatti «morali» nel costruire la sua etica, intende di tutti i fatti morali che si sono svolti in tutte le società del passato e del presente, e che si svolgeranno nel futuro: dei fatti morali, che si attuano su questo pianeta che si chiama la Terra, come di quelli che si possono attuare su qualsiasi altro pianeta o astro. Non è lecito mutilare il concetto di fatto: bisogna accettarlo in tutta la sua pienezza, che è l'infinità. Invece gli empiristi intendono per fatti morali quelli che essi riescono ad osservare, descrivere e classificare in Inghilterra, o magari in Europa, o magari nelle cinque parti della Terra al tempo nostro; o anche vi aggregano in misura più o meno cospicua i fatti della storia più lontana, e soprattutto (per certa simpatia che li spinge verso il rozzo e il povero) quelli che fornisce l'etnografia circa le costumanze dei popoli selvaggi.
Essi vogliono costruire la filosofìa raccogliendo fatti accaduti, e bene o male documentati; ed è chiaro che, di questi, non potranno mai raccogliere se non una parte infinitamente piccola. Questa parte infinitamente piccola è da essi poi battezzata come «i fatti morali», ossia come il tutto: una cifra qualsiasi, 100 o 1000 o 10000, è sostituita all'infinito e trattata come l'infinito. Domando: chi rispetta i «fatti»? gli speculativi, che non vogliono mutilarli, o gli empirici, che li riducono a quel tantino che riesce loro, più o meno accidentalmente, di afferrarne? Segue da ciò che, mentre i filosofi speculativi sembrano nelle loro trattazioni poveri di fatti e gli empiristi invece ricchissimi (si paragoni la Critica della ragion pura o la Critica della ragion pratica di Kant coi pachidermici Principi di psicologia e Principi di sociologia dello Spencer), il rapporto vero è l'inverso.
I filosofi speculativi sono ricchissimi, infinitamente ricchi di fatti ; gli empiristi sono, peggio che poveri, miserabili. Giacché i pochi fatti, che i primi ricordano sono offerti a guisa di esempi e stanno, nientemeno, come simbolo dell'infinito. I moltissimi, che gli altri passano a rassegna, vorrebbero esaurire la realtà stessa, e perciò fanno l'effetto di una comica adeguazione del piccolissimo all'immenso. Gli anglosassoni sono stati per secoli, e sono ancora, cultori di questo genere di filosofia, e ne hanno divulgato l'abito tra gli spiriti affini degli altri paesi : talché ci sono ormai da per tatto, e altresì in Italia, come gente che veste all'inglese, così filosofi che anglicizzano, raccogliendo fatterelli. Logicamente in omaggio al loro metodo, dovrebbero stare zitti, finché non avessero raccolti tutti i fatti, ossia tacere all'infinito; ma a ciò non si rassegnano, e i loro fatterelli, con un largo battesimo, diventano «i fatti»; le loro collezioni di francobolli la pittura del Cosmo I Ma il dissenso tra filosofi speculativi ed empirici sul concetto del fatto non si restringe al punto che ho toccato. C'è dell'altro.
I fatti, di cui parla il filosofo speculativo, sono i fatti puri, non alterati e intellettualizzati, a raggiungere i quali si richiede uno sforzo grandissimo: bisogna spogliarsi di ogni pregiudizio volgare e non volgare, non lasciarsi distrarre da nessuna seduzione, rompere le associazioni che si sono formate nella pratica della vita, scendere nella profondità del reale. Che cosa c'è di più ovvio e quotidiano del parlare? Eppure quando Vico volle comprendere che cosa fosse il linguaggio e fermare l'attenzione sul parlare puro e semplice, nella sua forma genuina, dovette (egli dice) «fare una fatica tanto spiacente, molesta e grave», quanto era lo spogliarsi dalle sue abitudini di uomo vivente in età civile e tutto impregnato di riflessioni e pregiudizi, per rimettersi nelle condizioni spirituali degli uomini primitivi, ossia ritrovare in se stesso l'uomo primitivo, l'uomo fantastico e lirico.
Gli empiristi, invece, non si danno pena di ciò. Essi pigliano i fatti cosi come immaginano d'incontrarli nella realtà; e la realtà si diverte al giuoco di dar loro, in cambio di fatti, teorie o semiteorie, giusta il motto di Goethe che ogni fatto è già una teoria (gruppi empiricamente costituiti, riflessioni, opinioni, e via dicendo). Ciò che essi credono semplice, è invece assai composito, anzi confuso. Il metodo empirico ha menato agli esperimenti e alle inchieste (caricatura delle grandi inchieste sociali di cui l'Inghilterra dette l'esempio circa il lavoro delle donne e dei fanciulli nelle fabbriche); e le inchieste in servigio della filosofia consistono nella raccolta delle rozze opinioni filosofiche, o delle frasi senza significato, che si trovano, anzi si provocano, sulle bocche degli ignoranti, degli oziosi, della gente di mondo, di signore, fanciulli e ragazze, e di altrettali competenti.
Come poi si possa costruire su questi fondamenti, come si possa filosofare sull'irreale e sull'arbitrario, intenda chi può, perché noi, per nostro conto, confessiamo di non intendere.
1907.
Ecco (G. Fanciulli, La coscienza estetica, Torino, Bocca, 1906) nuova manifestazione di un indirizzo, che si viene promovendo in qualche università italiana, e che merita di essere brevemente descritto e criticato. I seguaci di questo indirizzo sanno, su per giù, che altro è l'empiria ed altro la filosofia; altro la psicologia, altro la filosofia dello spirito; e non pretendono contrastare i diritti dell'indagine filosofica. Senonchè, da parte loro, malgrado che abbiano studiato per filosofi, preferiscono lavorare nel campo empirico. Sta bene: ciascuno fa quel che più gli piace, e, se vuol iniziare un mestiere per tralasciarlo subito dopo e pigliarne un altro, il tentativo è a suo rischio e onore.
Ma l'inconveniente comincia all'atto pratico: l'empiria, che essi coltivano, non è poi intesa come semplice empiria, che in quanto tale sarebbe utile e rispettabile; ma scivola, invece, in una mezza filosofia. Onde si assiste al curioso spettacolo offerto da persone consapevoli dei limiti dell'empirismo e non al tutto ignare delle verità speculative, che si danno un gran da fare per istorpiare queste verità, complicarle inutilmente con indagini empiriche, raggiungerle da capo ma parzialmente e in modo faticoso per vie lontane e poco conducenti, e presentarle, infine, con lacune ed oscurità, le quali o sono state già vinte dalla filosofia o, in ogni caso, si potrebbero e dovrebbero vincere. perché? Io non so.
Sarà forse una certa timidezza, proveniente dalle vecchie abitudini, che impedisce il distacco netto dall'empiria, che pure in astratto si è riconosciuto; sarà ossequio alla moda positivistica, non del tutto tramontata; sarà (che è più probabile) poca chiarezza e irrisolutezza mentale. Forse anche per alcuni spiriti è una condizione intermedia, che essi attraversano per giungere alla liberazione. Comunque, l'indirizzo è insostenibile, perché contraddittorio. La filosofia dev'essere filosofia pura, e l'empiria empiria pura: un'empiria filosofica danneggia la filosofia e l'empiria stessa.
Il Fanciulli, per esempio, non ignora che, rigorosamente parlando, genio e gusto sono identici, sono la stessa attività estetica. Per lo meno, non sa addurre nessun argomento contro questa identificazione, perché ciò ch'egli osserva — che l'uomo semplicemente di gusto non saprebbe produrre l'opera d'arte, che pure riproduce, — è un'obiezione esaminata dall'autore che egli critica, e alla quale è stato risposto che neppure l'uomo che si dice di genio può produrre l'opera stessa di un altro uomo di genio (Leopardi non poteva scrivere il romanzo del Manzoni); il che non toglie che l'attività estetica, sostanzialmente considerata, sia in entrambi i poeti identica. Tuttavia il F. (pp. 12-15) afferma che tra gusto e genio vi è una differenza «sostanziale», e decide: «Così, per conto nostro, produzione e contemplazione estetica, salvo i naturali rapporti (?), restano indipendenti e possono quindi venir studiate separatamente: d'altra parte, tutto il nostro lavoro, speriamo, varrà a dimostrarlo ».
Come ciò dimostri il suo lavoro, si vede dal fatto che, dopo un centinaio di pagine, il F. giunge all' identificazione dell'artista con lo spettatore (pp. 120-3); tanto che egli stesso osserva: «Parrebbe ora che con questo si fosse tornati a quella teoria respinta da principio, per la quale lo spettatore non farebbe che ripetere il processo di produzione estetica». Sì, che ci si è tornati! No, dice il F.: «il processo psichico . del semplice spettatore, mentre è giustificato dalle stesse ragioni che valgono per l'artista, rimane sempre distinto; l'opera d'arte, una volta prodotta, da so stessa, per quello che è, può commuovere chi la contempli; le tendenze creatrici in germe determinano solo la possibilità d'intenderla». Ma codesta, appunto, è l'identificazione di gusto e genio: riconoscere nel gusto non qualcosa di passivo, ma l'attività creatrice, che è la possibilità dell'intendere l'attività creatrice del genio. Dice l'autore criticato: «Come si potrebbe giudicar da noi ciò che ci restasse estraneo?... In questa identità è la possibilità che le nostre piccole anime risuonino con le grandi, e s'aggrandiscano con esse nell'universalità dello spirito» (Croce, Estetica, pp. 120-1).
Si passa al problema dell'unità dell'arte. «In un senso filosofico, tutto filosofico, in estetica pura, possiamo anche noi convenire che l'arte è una sola» (p. 16). Bravo: il F. ha afferrato una grande e difficile verità. Ma, ohimè, che ne fa egli? Ecco, la getta via: «Ma quando dall'alta considerazione filosofica scendiamo appunto a far della psicologia empirica, le differenze nel preteso (sic) fatto unico si rivelano chiare ed evidenti». Come mai ciò che era stato è accettato come un fatto vero nell'alta considerazione ecc., diventa qui un «preteso» fatto? E perché il F., che era salito cosi alto, ha voluto poi discendere, discendere così giù, nella valle dell'errore? Lasciamo stare la dimostrazione della diversità delle arti, condotta con l'argomento: — che non è di certo lo stesso processo psichico quello per cui si concepisce e plasma la Venere di Melos, e quello per cui si compone lo Stabat rossiniano; che altro è per lo spettatore un canto della Commedia, ed altro il tempio di Santa Maria del Fiore (pp. 16-17).
— Rispondo come sopra: non solo la Venere di Melos è diversa dallo Stabat, ma un canto del Leopardi è diverso da un sonetto del Petrarca, anzi un sonetto del Petrarca è diverso da un altro sonetto dello stesso Petrarca: il che non toglie che l'attivila spirituale, che è in giuoco in tutti questi casi, sia sempre la stessa. Io ho messo in canzonatura le esperienze estetiche del Fechner, mostrando quanto sia puerile promuovere indagini con l'invitare gente di varia cultura ed animo a dire se sono belle o brutto queste e quelle forme geometriche, che si prendano astratte dai complessi artistici reali. «Non curando le facili critiche opposte a tali.esperimenti — scrive il F. (p. 181), — abbiamo volato ripeterli per conto nostro, seguendo un metodo analogo» (p. 181). E qui tabelle sopra tabelle, quasi non bastassero quelle del Fechner, come esempio insigne di teratologia scientifica.
Ma è curiosa l'osservazione, che segue a questa esibizione di tabelle: «In ogni modo, i fatti comprovano quello che da prima si era intuito; perché, attraverso tutte le differenze e le incertezze, questo emerge di sicuro: la sensazione, per sé presa, non ha valore estetico; perché l'ottenga occorre o che il soggetto la colleglli con nessi associativi a qualcos'altro (fatto quindi ben più complesso di una sensazione), o che riesca a proiettarla dinanzi a se, a contemplarla: altrimenti, si rimane nei limiti del puro piacevole» (p. 189). Cioè, si conclude che le «esperienze» del Fechner non valgono nulla!
Il metodo del F. è certo prudente: da ora in poi, non basterà ammonire un fanciullo che, se egli si getta dal terzo piano della casa, si rompe la testa; perché il fanciullo se ne persuada bene, debbo gittarmi io giù dal terzo piano e rompermi la testa. Grazie tante! E basti con gli esempi, che potrei moltiplicare, recando ciò che si dice, nel libro del F., sulla questione dei sensi estetici (pp. 173-178), o sulle categorie pseudo-estetiche (p. 27G sgg.). Ma non posso non fermarmi sul modo in cui il F. critica il concetto di creazione estetica. «Alludendo a una sintesi inesplicabile si è parlato e si continua a parlare di creazione estetica, forse per un volontario inganno, come per una protesta contro l'impotenza reale... perché, in verità, l'uomo non crea proprio niente. perché l'uomo, nonostante tutti i suoi sforzi e la coscienza della sua individualità, non può mai separarsi dal tutto che lo avvolge; egli è veramente una cellula di quel vasto organismo,'di cui gli antichi filosofi hanno avuto la geniale intuizione: ebbene, il Creatore non può essere una parte del creato. L'uomo, tutt'al più, è un filtro o un crogiuolo meraviglioso, se si vuole, ma niente di più: egli raccoglie i materiali grezzi per produrne essenze finissime, o metalli preziosi. Ma non crea nulla di assolutamente nuovo ex nìhilo> (p. 63). Chiameremo, da ora in poi, l'attività sintetica e creatrice «crogiuolo meraviglioso»; e saremo d'accordo.
Ma il F. ci dà il cattivo esempio di chiamarla altrimenti: «Si svolge, in sostanza, un vero processo di cristallizzazione: con questa differenza, però, che mentre le molecole del minerale si ordinano per leggi necessarie, le molecole dell'immaginazione sono accolte e respinte da quella potenza elio misteriosamente presiede ai fatti psichici stessi — l'io» (p. 75). Il «crogiuolo» è —l'io!
1906.
Fuor di dubbio, c'è una pietra di paragone, ossia può indicarsi
un segno esterno, un indizio, che abiliti a riconoscere
l'indirizzo filosofico schietto e valido, tra i molti spuri e
inconcludenti. Questa pietra di paragone è la Storia. perché ogni
storia ha per condizione e presupposto il pensiero filosofico, e
tanto è più perfetta quanto questo è più perfetto: per converso,
ogni filosofia deve sboccare nella storia, cioè dare
l'intelligenza della realtà concreta e viva, la quale è, e non può
non essere, realtà storica. Quando una filosofia rimane staccata
dai fatti, indifferente a essi, impotente a dominarli, o, come
comunemente si dice, senza applicazione; è da sospettare, con buon
fondamento, che quella filosofia abbia in sé qualche grosso
difetto d'origine, cagione di quella infecondità.
Il materialismo, il sensismo, il positivismo sono già per tale
considerazione assai screditati, se non definitivamente
condannati. Una storia del genere umano dal punto di vista
materialistico, positivistico, sensistico, non si può narrarla: i
seguaci di questi indirizzi non ci si sono di solito neppure
provati, e si sono manifestati sempre antistorici, o almeno,
astorici. E allorché l'hanno tentata, è apparso subito chiaro il
dissidio tra la filosofia, che asserivano nelle loro astratte
teorie, e quella, diversa, che più o meno consapevolmente
adoperavano nei loro racconti storici. Si ha un bel negare i
valori dello spirito e proclamare vera e unica realtà la materia e
il meccanismo: la storia, essa, proclama, a ogni suo moto ed atto,
il valore dello spirito; e chi si fa a raccontarla, è costretto a
prender come punto di riferenza quel valore, se vuol dare al suo
racconto una configurazione qualsiasi. L'eroismo è miraggio
dell'egoismo? E la storia vi mostra eroi senza codesti miraggi, le
cui azioni sono perfettamente trasparenti nel loro carattere
antiegoistico, di pieno sacrificio dell'individualità. Le forme
logiche sono risultato dell'abitudine e dell'eredità, del
meccanismo fisiologico e psichico? E la storia vi mostra le lotte
per la scienza, le ansie e i giubili degli scopritori di verità,
l'efficacia meravigliosa delle loro scoperte in tutte le parti
della vita sociale. La santità è isterismo e malattia? E la storia
vi offre lo spettacolo di codesti pretesi isterici e malati, che
conquistano anime, raccolgono folle di discepoli, fondano istituti
duraturi, si ripercuotono nei secoli, trasformano più o meno
profondamente la società: cose tutte, che non accadono ai puri e
semplici malati, i quali, per quel che se ne sa, mettono in moto
soltanto i medici e gl'infermieri. Innanzi alla vivente filosofia
di questi fatti, il materialista è costretto o a sconfessare la
sua filosofia astratta, col contradirsi; o a tacere.
Si sono proposte e svolte estetiche sensistiche, positivistiche,
intellettualistiche, moralistiche, mistiche. Anche oggi ne
compaiono tuttodì di quelle che spiegano, con incantevole
semplicità, come qualmente l'arte non sia altro che un inganuo del
genio della specie o una sorta di culinaria psichica; o, anche,
com'essa consista, o debba consistere, in un espediente di
pedagogia sociale per istruire e ammonire, non senza furbo
accorgimento, i bambini, e gli uomini bambini. Teorie tutte, che
si possono enunciare e svolgere, perché le parole sono meretriculae, che si prestano compiacenti a ogni pensiero,
logico e illogico. Ma, dopo che avete esposte queste teorie, voi
avete il dovere di applicarle, mostrando col fatto la loro
capacità a spiegare la realtà storica.
Su, andiamo: eccovi il grande Achille, che unisce il suo pianto a
quello di Priamo, e piange con lui tutto il genere umano sulla
tragedia della vita; eccovi Antigone innanzi a Creonte, devota
alle non scritte leggi degli dèi; eccovi Andromaca, che parla al
piccolo Ascanio, ricordando il suo Astiauatte; eccovi Farinata,
che s'è ritto sul suo letto rovente: spiegateci queste creazioni
con le illusioni del genio della specie e con la cucina dei
piaceri! E a voi manca il coraggio per tale impresa; e di questa
mancanza io non vi biasimo ma vi lodo, perché essa prova che nel
vostro animo più profondo vive il germe di una filosofia affatto
diversa da quella che avete professata nei triviali
ragionameiitini delle vostre dissertazioni e nei capitoletti dei
vostri trattateli!. Di storie letterarie e artistiche i campi dal
posivismo sono affatto brulli, laddove un folto rigoglio riveste
quelli dell'idealismo.
L'estetica della scuola hegeliana, nonostante i suoi difetti,
irraggiava gran luce di verità; ed è di vivezza solare innanzi
alle pallide fiammelle del positivismo. La stessa parte storica
della Estetica di Hegel
è notevolissima; e se, per più rispetti non soddisfano le storie
letterarie dei Rosenkranz o dei Carriere e di altrettali, esse
appaiono, per altro, opere gigantesche a fronte dei grami giudizi
letterari e artistici di Erberto Spencer o di Leone Tolstoj,
documenti di una inintelligenza storica e di un dispregio verso la
realtà concreta, che confinano, a volte, quasi con la demenza.
E quando l'estetica idealistica raggiunse, col De Sanctis, forma
più matura, fu possibile dare, movendo da essa, un'interpretazione
dell'intera storia letteraria italiana, finora insuperata.
I nostri più recenti storici letterari prendono volentieri arie
di positivisti; ma i libri, che scrivono, sono assai meno
positivistici dei loro programmi, e, a ogni modo, il loro valore è
in rapporto inverso con l'osservanza di quei programmi. Avendo
altre volte criticato intrinsecamente le estetiche positivistiche
e sensistiche e intellettualistiche e moralistiche e mistiche,
l'osservazione che ora faccio non potrà esser tenuta per un modo
di sfuggire alla discussione rigorosamente e tecnicamente
filosofica. Io voglio dire che, se per una parte quelle estetiche
non riescono mai a ottenere l'assenso delle menti filosofiche, per
l'altra non potranno neppure mai imporsi ai non filosofi con la
loro presenza effettiva; giacché esse sono assenti, per l'appunto,
in quel campo, in cui soltanto dovrebbero fare le loro prove di
valore. E questo è il segno esterno della loro nullità filosofica.
perché la possibilità o meno della costruzione storica sarà sempre
la grande pietra di paragone delle filosofie.
1908.
Come pronta è la gente ad asserire contradizioni negli scrittori
che legge, e quale sentimento di trionfo accompagna l'asserzione,
e quale sorriso di superiorità la sottolinea! Debbo confessare
che, se e'è cosa che mi da sui nervi e mi suscita irritazione, è
questo spettacolo, che ho visto e vedo ripetere tanto di
frequente, particolarmente innanzi all'opera di uno scrittore che
mi è, e mi è stato sempre carissimo, del De Sanctis. Superfluo
diro che, nella maggior parte dei casi, le contradizioni notate
non sussistono nella realtà, ma sono nient'altro che una parvenza,
nata nella mente del lettore, ai primi sforzi di assimilarsi quel
pensiero: del lettore che si cangia frettolosamente in critico, e
della sua inintelligenza o immatura intelligenza foggia una
censura. Come si fa a impedire l'inintelligenza e a prevenire
tutti gli equivoci nei quali il lettore frettoloso, disattento o
pigro può capitare? Per quanto uno scrittore si studi di esser
chiaro, la sua chiarezza serba sempre il presupposto che la mente
del lettore sia o sappia diventar chiara anch'essa; per quanto
egli aggiunga avvertenze e cautele, queste hanno il loro limite,
salvo che non si voglia accodare a ogni proposizione una glossa, e
(giacché quis custodiet
custodem?) alla glossa la glossa della glossa, e cosi
all'infinito.
Mi viene alla memoria un aneddoto buffo: nei contratti agrari,
almeno in quelli dell'Italia meridionale, avvocati e notai
sogliono mettere il patto che il fitto del campo debba pagarsi
qualunque caso accada, «previsto o imprevisto, ordinario o
straordinario, opinato o inopinato, umano o divino, e anche
stranissimo a succedere». Ma, accaduta alcuni anni fa un'invasione
di topi e cavallette, che distrusse i ricolti, e sorte eccezioni
per questo caso, io lessi in qualche contratto, al séguito della
citata filastrocca consuetudinaria, la glossa: «non esclusa
l'invasione dei topi e cavallette». Sara uno scrittore costretto a
siffatte dichiarazioni? e non c'è rischio che, a questo modo,
conturbi il suo pensiero, come quell'aggiunta alla clausola del
contratto indeboliva la clausola stessa, lasciando congetturare
che dai «casi ordinari e straordinari, umani e divini»
s'intendesse trarre fuori quelli pareggiabili alle invasioni dei
topi e delle cavallette? Ma, anche quando le contradizioni sono
reali, esse meritano un'assai più sottile discriminazione che di
solito non si usi.
La contradizione è l'essenza stessa dell'errore, e, poiché
l'errore è l'ombra che circonda la luce della verità, un trattato
della contradizione coincide con un trattato della verità; e, come
non si può in teoria staccarla dalla teoria del vero, cosi, nel
giudicare, si deve sempre porre iu relazione la contradizione con
la verità di cui è contradizione. L'aspra ricerca del pensiero è
seguita da stanchezza, da bisogno di riposo: e perciò
l'indagatore, raggiunto il nuovo concetto, lascia sovente accanto
ad esso gli antichi errori, senza disgregarli in forza del nuovo
concetto; o accettandoli come se si couciliassero col nuovo
concetto; o tentando artificiosamente di produrre questa armonia.
Ciò è accaduto a Kant, a Hegel, a tutti gli scopritori di verità;
e questo è il punto di partenza de' loro continuatori, che sono al
tempo stesso loro critici, cioè seguaci e avversari insieme. Quale
misera critica l'andare inseguendo le contradizioui dei graudi, e
perdere di vista la verità da essi conquistata! Quale ingiustizia
nel non riconoscere che le stesso contradizioni è possibile notare
solo per la forza espansiva di quella verità ! E come la realtà si
vendica di tali miserie e ingiustizie col rendere infeconda la
critica di siffatti critici !
D'altro canto, se i grandi pensatori, per la loro stessa
passionalità e ingenuità, si trascinano dietro contradizioni
evidenti, vorremo preferire a essi gli scrittori minori, nei quali
le contradizioni sono eliminate in apparenza, ma il pensiero
centrale è impoverito e, in questo impoverimento,
superficializzato? 0 lasciarci ingannare da quei facili
ripetitori, ricchi di logica formale, che rendono ogni cosa
chiara, liscia e coerente, e che, ciò malgrado, negli spiriti fini
destano fastidio e diffidenza: fastidio per la loro inutilità,
diffidenza perché si sente che essi, che hanno tutto inteso, non
hanno, in fondo, inteso niente? Ed ecco che, a un tratto, una
proposizioncella, una piccola frase, una, parentesi, una parola
rivela la nullità di quell'apparente intelligenza.
E accade allora, in chi legge, press'a poco ciò che accadde
all'onesto cappellano, recatosi per ordine del suo vescovo a
liberare dal manicomio un pazzo, che al vescovo aveva scritto
lettere saggissime e persuasive, dimostrandogli come e perché
fosse stato rinchiuso colà dai suoi parenti, avidi di godersi il
suo ricco censo. Il cappellano si trovò, infatti, innanzi a un
uomo tranquillo, sennato, cortese, prudente, col quale conversò
per più ore senza riuscire a scoprire alcun segno di disordine
mentale, talché, nonostante, gli ammonimenti del direttore del
manicomio (corrotto, a detta di quello, dai malvagi parenti), lo
fece svestire degli abiti da matto e si accinse a condurlo seco.
Ma il creduto savio, sul punto di toglier commiato dai suoi
compagni, entrato in battibecco con uno di costoro che si teneva
per Giove e minacciava, se egli andasse via, di impedire le piogge
e far morire la terra e gli uomini di sete, si rivolse al
cappellano, e, ammiccando e sorridendo, lo rassicurò: che non si
spaventasse, perché, se l'altro era Giove, egli era Nettuno e
avrebbe provveduto in altra guisa a inumidire la terra. «Signor
Nettuno, — rispose il cappellano — ciò sarà bene; ma non bisogna
movere a sdegno il signor Giove, e perciò restate per'ora in
questa casa, che un altro giorno, con miglior tempo e agio,
verremo a prendere la signoria vostra».
La storiella intera, coi colori che sono diventati pallidi nel
mio riassunto, si può leggere nel Don Chisciotte. E a me balena
agli occhi la. figura del «signor Nettuno», tutte le volte che mi
accade di leggere quei libri ben filati, nei quali,
all'improvviso, un piccolo particolare rompe l'incanto e rischiara
la povera realta della mente dei loro autori. 1906.
Perché mai nelle nostre pagine ricorrono accenni e parole di
biasimo contro le abitudini professorali e universitarie? Vogliamo
noi forse condurre una campagna contro l'università, e rinnovare a
questo intento le diatribe, che sono inserite in tutti i libri di
Arturo Schopenhauer, fino a quella apposita che s'intitola:
«Intorno alla filosofia universitaria»? (1). Sarebbe un vecchiume,
un'imitazione, fredda al pari di tutte le imitazioni, e, in ogni
caso, un proposito poco serio. Giacché, come contestare l'utilità,
anzi la necessità, dell'organizzazione degli studi, rappresentata
dall'università? La scienza ha una storia, sulla quale non è
lecito saltare; e l'università trasmette problemi, soluzioni,
esperienze, metodi di orientamento e di apprendimento: è un grande
istituto economico ai fini del sapere. E, veramente, non si tratta
di combattere l'università. Ma, avendo ogni istituzione i suoi
pericoli e ingenerando particolari forme di male, bisogna pur
mettere in guardia contro quei mali, che più
facilmente si svolgono nell'organismo universitario.
Chi combatte l'universitarismo, non combatte l'università; il
primo non è la seconda, come il parlamentarismo (il «cretinismo
parlamentare», di cui volentieri discorreva Carlo Marx) non è il
regime parlamentare, né il militarismo è l'ordinamento militare.
Certamente, erano stravaganze quelle dello Schopenhauer, quando
spregiava la filosofia universitaria come filosofia salariata
(mistoforos); non essendo a nessuno vietato trarre guadagno dalle
proprie fatiche: né già perché il calzolaio venda le sue scarpo, è
detto poi che debba farle di necessità cattive e senza alcuno amor
proprio di artista o di artefice. Ma è anche vero che il contatto,
inevitabile e per sé innocente, che nell'università ha luogo tra
la scienza e gl'interessi pratici, riopera sovente sulla scienza
stessa e ne turba la libera vita.
Non siamo più nel periodo storico dei conflitti tragici tra gli
innovatori ribelli e la scienza ufficiale; e neppure (ora almeno,
e in Italia) si scorgono tracce troppo scandalose di quella
servilità verso lo Stato e la Chiesa, onde lo Schopenhauer, ai
suoi tempi, accusava la filosofia tedesca. Chiesa e Stato sono
ora, presso di noi, in dissidio tra loro; e nessuno dei due ha
voglia e forza di soffocare o piegare a suo servigio il pensiero.
Perciò il turbamento, che proviene dagli interessi pratici, non ha
punto origine e andamento grandiosi; è fastidioso e dannoso, ma
meschino. E chiunque osservi la vita universitaria, è
continuamente offeso da manifestazioni pseudoscientifiche, che
sono manifestazioni d'interessi. Raro è ormai che i giovani, che
si danno agli studi di filosofia, abbiano quel periodo di lotta
interna, di angoscia, di tristezza, che precede ogni serio
convincimento. I più, sotto la spinta della ricerca di
collocamento, a vent'anni, hanno già. preso il loro partito:
invece di esplorare il proprio animo, hanno messo il capo fuori la
finestra, ed esplorato l'orizzonte; e sanno già quali siano i
metodi e la dottrina che dovranno sostenere. Non giova parlar loro
dei classici: non li hanno letti, e non provano il bisogno di
leggerli ne il rimorso d'ignorarli. Scriveranno all'occorrenza, e
per dissertare, sui presocratici, o su Platone, o su Kant; ma
scriverne e discuterne, non vuol dire averli letti.
I temi, che i giovani svolgono, sono assai spesso vieti o
assurdi; ma, nel gergo universitario, si distingue tra i temi «che
vanno» e quelli «che non vanno»; e i temi vanno o non vanno
secondo la moda, assurda che sia. Voi, in piena buona fede,
propugnate un determinato ordine d'idee e riuscite a farlo valere?
Ed eccovi subito attorniati da una folla di finti alleati, che
compromettono le migliori cause. Sembra che prevalga l'idealismo?
E i positivisti si fanno idealisti; e offrono sul mercato un loro
«positivismo idealistico». Il prammatismo richiama l'attenzione? E
i tomisti diventano prammatisti. Talvolta credete di assistere a
un dibattito scientifico, e, guardando a fondo, vi accorgete che
non si tratta d'altro che di una promozione da «straordinario» a
«ordinario», o di un desiderato passaggio da una cattedra a
un'altra, da un'università a un'altra.
S'indice un congresso di psicologia, dove si discute di metodi e
di risultati, e dei rapporti della psicologia con la filosofia:
voi ingenuamente prendete parte al dibattito: ahimè, il fatto
reale era una réclame, messa su abilmente da medici di malattie
nervose, o un tentativo per ottenere dal ministro delle finanze,
per tre nuovi aspiranti, quattro nuove cattedre. E nell'ambiente
universitario si aggirano avventurieri senza coscienza, pronti a
difendere qualsiasi tesi, purché appoggiata da personaggi che
abbiano efficacia, se non mentale, pratica; pronti ad aggredire
canagliescamente cose e uomini che reputano ostacolo alle proprie
mire privato. E vi sono manipolatori di scienza, che alla scienza
sono stati chiamati da quella stessa vocazione per cui tanti
indossano, o indossavano un tempo, la cocolla e la zimarra. E vi
sono poi coloro, che hanno conquistato la loro «posizione
scientifica», che hanno definitivamente arredato il loro cervello
come una casa nella quale si conti passare comodamente tutto il
resto della vita; e costoro, a ogni minimo accenno di dubbio e di
discussione, vi fanno il viso dell'armi, vi diventano nemici
velenosissimi: presi da una folle paura di dover ripensare il già
pensato, di doverlo negare o correggere, di dover rimettersi al
lavoro, e, insomma, vivere. Per salvare dalla morte i loro libri e
le loro «conclusioni» (come se non fosse questo il destino
naturale di tutti i libri e di tutte le conclusioni), preferiscono
consacrarsi, essi, alla morte dell'intelletto.
Ciò che costoro difendono con tanto ardore, non è più la verità
ideale, ma la verità materializzata, divenuta la «posizione», che
può essere anche la commenda o il Senato, coronamento sospirato
del curricolo universitario; tutto, fuorché la dialettica vita del
pensiero. Contro mali come questi, e simili a questi, dei quali ho
saltuariamente accennato alcuni esempi, è necessario esser vigili
: contro la pseudoscienza e le manifestazioni pseudoscientifiche è
necessario condurre, instancabilmente, la polemica, che noi, per
nostra parte, conduciamo. Impresa vana (mormorano gl'indifferenti
o i pessimisti): codesta polemica si ò fatta sempre: basta leggere
le pagine di Bruno o di Galileo contro i pedanti e i professori
del loro tempo; e il mondo non si è perciò mutato.
— Ma appunto porcile si è fatta sempre (rispondo io), si deve
seguitare a farla. Se s'intermettesse, il male crescerebbe. A
quelle polemiche del passato si deve se gli spiriti amanti del
vero si sono potuti riconoscere, e stringersi e conversare tra
loro; non al tutto dispersi e soffocati dalla calca, che da ogni
parte li premeva. Gl'interessi, appunto perché particolari e
personali, passano; e la verità che si è sostenuta contro di essi,
rifulge, dissipate le nubi, e forma la storia progressiva.
Ma niente sarebbe più contrario al nostro pensiero, quanto la
pretesa di contrapporre una «scienza extrauniversitaria» alla
«scienza universitaria». Né soltanto perché assai scarsi sono, in
Italia e altrove, i cultori di studi, che non appartengano al
pubblico insegnamento; ma soprattutto perché, contro i mali propri
della vita universitaria, bisogna invocare e cercare il rimedio,
non già nella distruzione di un istituto, ma nel sentimento della
dignità, nella libertà interiore, nello scrupolo morale, nella
forza del volere. E queste disposizioni morali, come sono doveri
di tutti, non sono privilegio di nessuno. Per tale ragione, nella
polemica che conduciamo, noi contiamo su tutti gli uomini di buona
volontà; e, poiché la massima parte degli studiosi, e i più
benemeriti, appartengono in Italia al pubblico insegnamento,
contiamo sul loro consenso ed aiuto: sull'università, contro
l'universitàrismo.
1 Ueber die Universitäts-Philosophie
(nei Par. u. Paralip.,
in Werke, . Griseebach,
IV, 133-228).
1906.
I libri di argomento filosofico, che si pubblicano in Italia,
sono pochi; ma sarebbero anche in minor numero, se fosse più
diffuso tra i cultori di questi studi il senso scientifico. Che
cos'è il senso scientifico? — Allorché noi ci troviamo di fronte a
scrittori, che raccolgono fatti particolari, si sforzano con
grandi giri e fatiche di superarne la contingenza e riescono pur
sempre ad affermazioni empiriche, non acquistando mai coscienza
della relazione e distinzione tra l'individuale e l'universale,
tra il fatto e la ragione, tra la descrizione e la speculazione,
diciamo che a costoro manca il senso filosofico. Allorché ci
troviamo innanzi ad altri scrittori, che ci porgono come un
mucchio d'oro e di fango; che intravedono verità profondissime, ma
subito dopo la mescolano e confondono con mere immaginazioni e con
errori; che non distinguono tra mitologia e filosofia, tra
asserzione e dimostrazione, tra affermazioni concordanti e
unificate e quelle discordanti e incoerenti; noi diciamo, che a
costoro manca il senso critico.
Ma quando un libro, una dissertazione, uno scritto qualsiasi (vero
o falso che sia nel suo contenuto) ci viene innanzi senza che si
sappia perché, immotivato dalle condizioni degli studi in un
determinato luogo e tempo, allora è da dire che al suo autore
manca il senso scientifico. Gli manca cioè la conoscenza della
vita scientifica, della storicità della scienza e delle esigenze
che si fondano su questa storicità.
Nel campo dell'erudizione, chi non conosce quegli elucubratori,
che ripetono nei loro libri cose notissime e dilatano la più
piccola ricerca intorno a una genealogia di famiglia o al
campanile di una vecchia chiesa, con un discorso sulla storia
medievale, sull'origine dei feudi o sui maestri comaeini? Quei
libroni inutili si riconoscono a primo aspetto, dal titolo
dell'opera, dalle divisioni dei capitoli, dal modo delle
citazioni, dalla stessa disposizione tipografica; si riconoscono,
e si buttano in un canto: traendone tutt'al più un documentuccio o
un'osservazioncella, che il solitario dilettante ha trovato, e che
non ha saputo isolare dal resto e presentare con un po' di garbo.
Di fronte a questi eruditi di provincia e di parrocchia, la cui
regola sembra essere di raggiungere col massimo volume il minimo
peso, l'erudito, che sa il fatto suo, raggiunge il peso massimo
nel volume minimo. Egli lavora spesso per anni e anni, tacito ed
attento, percorrendo una congerie di libri e di documenti; e vien
fuori, in ultimo, con un libro breve o con una memorietta di poche
pagine. Ma quel libro o quella memorietta prendono la questione al
punto in cui essa realmente si trova, traendo profitto di tutto il
lavoro altrui, e la fanno progredire di uno o più passi. Il suo
autore è in contatto con la vita degli studi, ha il senso
scientifico; l'altro, invece, ne era più o meno privo e si
aggirava in una repubblica letteraria fittizia, immaginata dalla
sua inesperienza.
Per fortuna, nel campo filologico tale distinzione è in pieno
vigore. E non solo si discernono i libri dell'uno e quelli
dell'altro tipo, ma gli eruditi sul serio si tengono affiatati tra
loro, formano quasi un gruppo da parte, e hanno condotto e
conducono, contro i libri dei dilettanti, una guerra quotidiana,
che ha avuto per effetto lo scemare di quelli e l'accrescersi dei
lavori seri. Nel campo degli studi filosofici invece, sebbene si
sia manifestato negli ultimi tempi qualche miglioramento, si è
ancora ben lungi da quella felice condizione. Pur troppo, quasi
tutta la nostra produzione filosofica somiglia alla screditata
produzione storica degli eruditi di provincia. Noi siamo afflitti
da dissertazioni, che prendono a trattare i temi più vieti o più
vasti e indeterminati: il parallelismo psicofìsico, la psicogenesi
della coscienza, la fenomenologia della morale, la libertà del
volere, il determinismo, i limiti della scienza, la scienza e la
filosofìa, l'autocoscienza, il problema filosofico moderno, il
problema morale dei tempi nostri, ecc., ecc.; pei quali i loro
autori si sono ristretti a leggere alcuni volumi o articoli da
riviste, hanno spremuto dal loro cervello un certo numero di
osservazioni più o meno concludenti; e ciò è parso loro
sufficiente per aggravare (direbbe Vico) di un nuovo libro la
repubblica filosofica.
C'è chi ha ingoiato intero intero il Boutroux, e ne ha tratto,
non già una traduzione del Boutroux, ma un altro libro; c'è chi ha
sullo stomaco non digeriti Wundt e Spencer e Fouillée, e questo
materiale indigesto è un altro libro, anzi una serio di
volumi; c'è chi ha scorso una mezza dozzina di articoli del Journal of Ethics o del Mind, e ha fatto un libro sulle occorrenze
religiose o morali dei tempi nostri. E via dicendo.
Sembra a parecchi che la scienza consista in nient'altro che nel
porre la propria firma a un manifesto già scritto e sottoscritto
da altri. Molta parte di questa produzione nasce dalle cagioni che
additammo e lamentammo altra volta: dallo stimolo esterno dei
concorsi e delle promozioni, che spinge e costringe a filosofare
chi tanto volenlentieri starebbe tranquillo o farebbe altro
mestiere. Diceva una volta il prof. Labriola a Cesare Lombroso, il
quale allora aveva promosso, o intendeva promovere, un'inchiesta
sulla conformazione cranica dei professori italiani di filosofia:
«Caro Lombroso, sarebbe il medesimo che se facessi la tua
inchiesta sui tenitori di spacci di sale e tabacco».
Nel fatto, tra la filosofia e i suoi professori c'è di solito lo
stesso rapporto, che tra il sale e tabacco, e le persone che ne
hanno ottenuto la rivendita: bassi ufficiali al riposo e vedove
d'impiegati. E accade altresì che, scritto la prima volta un libro
per una ragione estrinseca e in modo estrinseco, dato a sé
medesimo il malo esempio, si forma l'abito correlativo e, anche
quando lo stimolo primitivo è cessato, si continua a lavorare in
quella maniera. Peggio è, che i critici delle riviste filosofiche
non si domandino punto se il libro, che si presenta loro innanzi,
abbia avuto alcuna legittima ragione di nascere. Essi sono di
contentatura altrettanto facile quanto gli autori. Basta che vi
trovino una caotica filza di nomi in lingue straniere, e il libro
viene dichiarato «dotto»; basta che v'incontrino qualche idea che
al recensente pare plausibile (abbia pure
una barba lunga di secoli), perché il libro venga lodato
come serio e importante. Se a cotesti critici porgete un lavoro
originale, lo mettono alla pari di quelle compilazioni sguaiate;
ed è fortuna, quando, per unico segno che hanno fiutato la
differenza, ne dicono male, o ne discorrono annoiati e a denti
stretti.
Il correttivo spontaneo è in ciò, che i libri inutili passano,
sostituiti l'uno dall'altro, senza che l'occhio si avveda della
sostituzione, perché, in fondo, si somigliano tutti; laddove i
lavori originali si configgono nei corvelli come strali acuti.
Quelli sono beveroni, questi quintessenze; e «mas obran quintas esencias que fàrragos», sentenzia Baltazar
Gracian.
Non per tanto, è da augurare che gli studiosi italiani (quelli
che hanno stoffa mentale e sono in grado di migliorarsi), prima di
accingersi a stampare libri filosofici, prendano l'abito di
interrogarsi: «Che cosa ho da dire davvero di nuovo o di
opportuno? Anziché ridar fuori ciò che ho ingerito, e che appena i
succhi gastrici hanno cominciato a trasformare, non sarà meglio
aspettare che esso diventi sangue rosso e sano, sangue mio
proprio? E ciò di cui farei un grosso volume, non si potrebbe
restringere a una breve noterella?» E i critici, a loro volta,
dovrebbero proporsi la domanda preliminare: «Quale posto la nuova
pubblicazione viene a occupare nella serie progressiva della
scienza e della cultura? perché è stata fatta?»
1906.
È stato osservato, e lamentato più volte, che la letteratura
classica italiana sia povera di libri filosofici, e che la poesia
italiana (dopo Dante, il quale riflette il pensiero medievale) non
abbia quasi traccia delle grandi agitazioni spirituali della
storia moderna: né delle lotte religiose, che presso di noi
mancarono, né di quelle del pensiero speculativo. La cosa è vera,
almeno considerando in generale; e contribuisce a dare alla nostra
letteratura il carattere onde essa si differenzia dalla tedesca e
dalla stessa francese. Ma è vero altresì che quei non molti libri
filosofici, che la letteratura italiana pur possiede (non molti,
ma grandi), non sono abbastanza letti presso di noi. Certo, sono
libri — i Dialoghi di
Bruno, la Scienza nuova
di Vico, e qualche altro, — che si presentano con una fisonomia la
quale appare quasi straniera in Italia; quando per Italia
s'intenda quella soltanto della poesia e dell'arte, che s'irraggiò
dalla Toscana. Sono prodotti, quasi tutti, d'ingegni meridionali,
che ritengono uno strano aspetto, per così dire, germanico. Dei Dialoghi del Bruno il
Labriola scriveva, che paiono tradotti dal tedesco; e il
medesimo è stato notato della Scienza nuova.
Un amatore di etnologia, un credente nella dottrina delle razze,
richiamerebbe volentieri la parola del Gothein: che gli Italiani
del mezzogiorno, per l'infusione di sangue longobardo (giacche
solo nel mezzogiorno i longobardi persistettero, sopravanzando
alla catastrofe di lor gente), e poi di sangue normanno, «sono
molto più di razza germanica» di quel che non siano, per esempio,
gli Ostdeutsche, i
tedeschi orientali.
Ma, lasciando i romanzetti etnografici, sta di fatto che quei
libri di autori meridionali, il cui contenuto era di una
grandiosità speculativa ignota alle restanti parti d'Italia, e la
cui forma aveva le virtù e i vizi della barbarie (una forza
singolare di espressione, un disordine pittoresco, l'amore per gli
ornamenti brillanti, per le sottigliezze, le antitesi e i fuochi
d'artifizio), contrastavano per più rispetti al gusto temperato e
moderato, prevalente in Italia. Questo gusto ha impedito che si
sentissero e comprendessero certe forme rare e bizzarre di
letteratura, le quali hanno anch'esse la loro peculiare genialità.
Di siffatta repugnanza recherò un esempio solo, ma calzante e
sufficiente: ed è l'atteggiamento preso dal Carducci verso la
celebrazione della gloria di Giordano Bruno. Della commedia
bruniana, il Candelaio,
il Carducci scrisse che è «volgarmente sconcia e noiosa» (e qui di
esatto non vi ha, forse, se non l'accenno alla sconcezza, perehò
né volgare, e molto meno noiosa, è quella stranissima variante di
commedia cinquecentesca). Manifestò poi, a più riprese, la sua
ripugnanza, o per lo meno la sua indifferenza verso le opere del
Bruno, rinviandole a quei «cinque o sei napoletani», che le
«commentano magnificamente». E, nell'occasione del monumento
eretto nel 1889 al Bruno in Roma, dichiarò: «Rispetto in
Giordano Bruno l'uomo che morì per le sue idee; non ammiro, perché
né lo intendo né lo sento, il pensatore e lo scrittore» (Opere, XII, 155-6, 364).
— Fra tanta insincerità di positivisti e di repubblicani che
smaniavano acclamando il Bruno, del quale non avevano mai né letto
né veduto una pagina, ma che reputavano loro confratello in
scienza, politica e massoneria, le dichiarazioni del Carducci
piacciono per la loro lealtà. Ma esse mostrano, insieme,
l'angustia dei criteri tradizionali, pei quali i versi e le prose
di Luigi Alamanni, di Bernardino Baldi, di Vincenzo Borghini, di
Giambattista Zappi e signora, si stimavano appartenere alla storia
della poesia e letteratura italiana; e i versi e le prose di un
Giordano Bruno, no. Ora che, per opera del Gentile, gl'Italiani
posseggono finalmente una edizione nitida e annotata dei Dialoghi
del Bruno, è da sperare che essi prendano a leggerli. Faranno così
la conoscenza diretta di un gran pensatore, nel quale è come
involuta tutta la filosofia moderna, Spinoza e Leibniz, Schelling
ed Hegel. E si accorgeranno, insieme, che possediamo un grande
scrittore, ancora poco noto. Grande nell' esprimere il rapimento e
l'esaltazione eroica del pensiero; nella esposizione eloquente
delle idee che gli son care; nella violenza polemica e nella
satira contro i suoi avversari; nella vivacità descrittiva dei
caratteri e dei costumi.
Vi ha nelle sue pagine latinismi, che ricordano le università che
frequentava; napoletanismi, che ricordano il volgo napoletano, del
quale, come frate, convisse la vita: qualche spagnolismo, che
ricorda i dominatori della sua patria; ma ai giorni nostri nessuno
tiene più che un libro sia scritto male, perché non è annoverato o
è disadatto a figurare fra i testi di lingua della Crusca.
E nelle discussioni filosofiche, che ormai cominciano a
ravvivarsi da un capo all'altro d'Italia, le parole del Bruno
paiono acquistare quasi un aeeento contemporaneo. perché,
nonostante la diversità dei problemi e dei libri, la filosofia è
sempre la medesima, e sempre i medesimi sono i suoi avversari; e
pochi scrittori hanno, al pari del Bruno, penetrato acutamente il
carattere eterno della filosofia e analizzato i tipi psicologici
degli eterni avversari di essa. Così la guerra si fa ora con armi
assai diverse da quelle del passato; eppure i capitani e i
soldati, gli eserciti disciplinati e gl'indiseiplinati, i regolari
e i volontari, i vinti e i vincitori di tutti i tempi hanno
caratteri comuni. Non a caso il prof. Occioni trovò la narrazione
precisa del combattimento di Dogali in un brano di Marco Porcio
Catone, conservatoci da Aulo Gellio.
Al tempo del Bruno, i filosofi della scuola avevano per le mani
il solito Aristotele; al tempo nostro, la stessa classe di
professionisti ha per le mani il solito Kant. Ma, Aristotele o
Kant, essi studiano il loro autore sempre a quel modo, in cui,
seeondo il Bruno, lo studiava il Patrizzi. Il quale «non possiam
dire che l'abbia inteso né bene né male; ma che l'abbia letto e
riletto, cucito, scucito e conferito con mill'altri greci autori,
amici e nemici di quello; e al fine fatta una grandissima fatica,
non solo senza profitto alcuno, ma etiam con un grandissimo
sprofitto: di sorte che chi vuol vedere in quanta pazzia e
presuntuosa vanità può precipitare e profondare un abito
pedantesco, veda quel sol libro, prima che se ne perda la
semenza».
E' il caso di citare i neokantiani, filologi del kantismo, e i
loro dotti eomcnti della Critica
della ragion pura? Rincalziamo piuttosto con Bruno:
«Le filosofie e le leggi non vanno in perdizione per penuria
d'interpreti di paroli, ma di que' che profondano ne' sentimenti».
Dietro questa o quella proposizione di Kant si cerca ora riparo,
per sottrarsi alla fatica delle risoluzioni mentali. Così, al
tempo del Bruno, si faceva col testo di Aristotele. E il Bruno,
nel rispondere agli aristotelici di allora, risponde, insieme ai
neokantiani di ora: «Quanto alla moltitudine, che si gloria di
aver filosofi dal canto suo, vorrei che consideri, che per tanto
che sono que' filosofi conformi al volgo, han prodotta una
filosofia volgare; e per quel che appartiene a voi, che vi fate
sotto la bandiera di Aristotele, vi dono aviso, che non vi dovete
gloriare, quasi intendessivo quel che intese Aristotele, e
penetrassivo quel che penetrò Aristotele. perché è grandissima
differenza tra il non sapere quel che lui non seppe, e saper quel
che lui seppe: perché, dove quel filosofo fu ignorante, ha per
compagni non solamente voi, ma tutti vostri simili, insieme con i
scafari e facilini londrioti; dove quel galantuomo fu dotto e
giudicioso, credo, e son certissimo, che tutti insieme ne séte
troppo discosti».
Emanuele Kant ha pel primo iniziato la comprensione vera delle
scienze fisiche e naturali e matematiche; ha dato il concetto
dell'attività sintetica dello spirito; ha distrutto per sempre
l'etica eteronoma; ha dimostrato definitivamente la realtà di un
dominio dello spirito, diverso da quello della scienza positiva e
della praxis; ha intravvisto la necessità della considerazione
teleologica del reale. Sono forse codesti i meriti del Kant, che i
suoi seguaci odierni riconoscono, o sui quali insistono?
Nossignori; perché in tal caso dovrebbero progredire oltre Kant.
Ma, alla pari e anzi al disopra di questi meriti, tengono
all'agnosticismo, alle ragioni del sentimento, ai postulati della
ragion pratica, all'arte miscuglio di fantasia ed intelletto: a
tutto ciò, insomma, che nel Kant, come in qualsiasi filosofo e in
qualsiasi uomo, si trova di vecchio, di volgare o di falso.
II rapporto di filosofia e scienze naturali è ancora controverso;
e sono ancora pochi quelli i quali vedono con chiarezza che si
tratta di due forme mentali autonome, che non debbono venir miste
e confuse. Nel Bruno, si troverà formolato il rapporto esatto:
«Qaosto modo di considerare, che voi dite (scrive a proposito del
concetto di materia) so che non potrà star bene, se non a un
meccanico o medico che sta sulla prattica, come a colui che divido
l'universo corpo in mercurio, sale e solfro; il che dire non tanto
viene a mostrar un divino ingegno di medico, quanto potrebbe
mostrare uno stoltissimo che volesse chiamarsi filosofo». E si
troveranno indicate le pessime conseguenze della confusione dei
due metodi: «Veggio alcuni tanto poco accorti, che non distinguono
le cause della natura assolutamente, secondo tutto l'ambito de lor
essere, che soa considerate da' filosofi, da quelle prese in un
modo limitato e appropriato; perché il primo modo è soverchio e
vano a' medici, in quanto che son medici, il secondo e mozzo e
diminuito a' filosofi, in quanto che son filosofi». Il Bruno
preferiva la medicina naturale di Paracelso alla «medicina
filosofale» di Galeno, che fece «una mistura fastidiosa, e una
tela tanto imbrogliata, che al fine renda un poco esquisito medico
e molto confuso filosofo». Ma andate a toglier di mente ai
professori dei giorni nostri, che i medici e naturalisti debbono
fare i medici e naturalisti, e lasciare in pace i filosofi!
— Egualmente, Bruno ammonisce a non iscambiare le
circostanze matematiche con le cause naturali, perché «altro è
giocare con la geometria, altro ò verificare con la natura». Degli
avversari, come dicevamo, Bruno conosce tutte le varietà
psicologiche. Ecco l'avversario letterato, che si stordisce con le
parole e s'inebria del suo bello stile: «Io so (gli risponde Bruno
con un sorriso), che voi dite questo più per esercitarvi ne l'arte
oratoria, e dimostrar quanto siate copioso ed eloquente, che
abbiate tal sentimento che dimostrate per le parole». Ecco gli
avversari vanitosi e di mala fede: messi alle strette, essi,
«senza guastarsi punto, con un ghigno, con un risetto, con certa
modesta malignità, quel che non voglion aver provato con raggioni,
né lor medesimi possono donarsi ad intendere, con queste
articciuole di cortesi dispreggi, la ignoranza, iu ogni altro modo
aperta, vogliono non solo cuoprire, ma rigettarla al dorso
dell'antigonista; perché non vegnono a disputar per trovare o
cercar la verità, ma per la vittoria o parer più dotti e strenui
difensori del contrario. E simili denno essere fuggiti da chi non
ha buona corazza di pazienza».
Ecco ancora un tipo frequentissimo: l'avversario empirista. Sono
coloro, che vogliono toccar con le mani i concetti filosofici,
quasi siano bubboni o giunture ossee; e ignorano che «non è senso
che vegga l'infinito, non è senso da cui si richieda questa
conchiusione, perché l'infinito non può essere oggetto del senso;
e però chi dimanda di conoscere questo per via di senso, è simile
a colui che volesse veder con gli occhi la sustanza e l'essenza».
«Or che farò (domanda Gervasio) quando mi avverrà di conferir
questo pensiero con qualche pertinace, il quale non voglia credere
che sia cossi una sola materia sotto tutte le formazioni della
natura, come è una sotto tutte le formazioni di
ciascun'arte? perché questa, che si vede con gli occhi, non si può
negare; quella, che si vede con la ragione sola, si può negare». E
Bruno: «Mandatelo via, o non gli rispondete!». Altri tipi
psicologici sono il pigro, com'è Burchio, che osserva
flemmaticamente: «Questo ancor che sia vero, io non lo voglio
credere, perché questo infinito non è possibile che possa essere
capito dal mio capo, né digerito dal mio stomaco»; o (per passare
a uu altro estremo, a un tipo grandemente elevato) il filosofo che
vede il nuovo e non s'è liberato del vecchio, onde vede e non
vede, ed è (dice Bruno, con uno dei soliti suoi stupendi paragoni
come «quel nuotatore da tempestosi flutti or messo alto or basso;
perché non vede il lume continuo, aperto e chiaro, e non nuota
come in piano tranquillo, ma interrottamente e con certi
intervalli».
E, fra tutte queste specie di avversari, e fra tante
opposizioni, Bruno non perde mai fede nella forza incoercibile
della verità. «Tutti (si fa dire da Albertino nel De l'infinito),
tutti, se non sono perversi a fatto, cossi da baona conscienza
riportaranno favorevole sentenza di te, come dal domestico
magistero dell'animo ciascuno al fine viene instrutto; perché gli
beni de la mente non altronde, che dall'istessa mente nostra
riportiamo. E, perché negli animi di tutti è una certa natural
santità, che, assisa nell'alto tribunal de l'intelletto, essercita
il giudicio del bene, e male, de la luce e tenebre, avverrà, che
dalle proprie cogitazioni di ciascuno sieno in tua causa suscitati
fidelissimi e intieri testimoni e difensori. Talmente, se non te
si faranno amici, ma vorranno neghittosamente, in defensione de la
turbida ignoranza e approvati sofisti, perseverar ostinati
adversari tuoi, sentiranno in se stessi il boia e manigoldo tuo
vendicatore che, quanto più s'occoltaranno entro il profondo
pensiero, tanto più le tormento».
Lascio di trascrivere altri brani; e concludo che, nel momento
presente della filosofìa, i Dialoghi
del Bruno, oltre tutto il resto, potranno diventare (per coloro
che amano ancor tanto questi studi da pigliarsi volentieri
arrabbiature in loro difesa!) qualcosa di simile a ciò che per
secoli furono le dolci rime di Francesco Petrarca agl'innamorati,
che vi trovavano le più belle parole pei loro più cari sentimenti.
1907.
Si è tentato in questi ultimi tempi, in Italia, di risuscitare la
vieta questione della moralità dell'arte, e del dovere che avrebbe
la critica di esaminare un'opera di fantasia anche dal lato della
moralità: come se poi la cosa fosse possibile, e cioè avesse un
qualsiasi significato. Ma, mentre si è insistito senza costrutto
in un problema, che la storia del pensiero ha già definitivamente
risoluto, un altro aspetto della relazione tra critica e morale,
che è davvero importante, non si suole, a me sembra, mettere in
risalto, come merita. È massima universalmente accolta che il
critico debba giudicare di scienza o di arte, prescindendo
interamente dalle persone degli autori. E questa massima è una
verità sacrosanta, allorché ci stanno innanzi opere di scienza e
d'arte, che, per l'appunto, abbiano valore scientifico ed
artistico (la ragione di questo pleonasmo si vedrà più oltre). Che
cosa importano le debolezze pratiche di un poeta, e l'antipatia
che può suscitare questo o quell'atto della sua vita privata o
pubblica, rispetto alle nitide immagini che il suo
genio artistico ha saputo fissare? Che cosa
importano le piccinerie o le malvagità di uno scienziato, rispetto
al teorema da lui scoperto, e che rifulge di luce propria? Misero
colui, che non sa accostarsi a quei prodotti spirituali se non
portando seco reminiscenze di cose estranee; e introduce nei Sepolcri i vizi e i disordini
di Ugo Foscolo, nel Novum
organum le baratterie di Francesco Bacone, o nella Fenomenologia dello spirito
l'ossequiosità, non sempre lodevole, di Giorgio Hegel verso lo
Stato prussiano della restaurazione.
Sopra ciò, dunque, pieno accordo. Ha il caso non è più il
medesimo, allorché noi ci troviamo innanzi ad errori scientifici e
a bruttezze artistiche. Appunto perché errori e bruttezze, quei
prodotti, che si vogliono esaminare, non possono più considerarsi
semplicemente come scienza ed arte. Essi sono, anzi, la negazione,
più o meno completa, dell'una e dell'altra. Ora l'errore
scientifico ed artistico, guardato genericamente, in qual altro
modo nasce se non dall'interferenza dell'attività pratica nello
spirito teoretico? dalla volontà fiacca o passionata, che impaccia
il libero operare dello spirito contemplatore? L'errore teoretico
ha sempre, in fondo, un motivo pratico; e chi guardi bene, e sia
in condizioni di guardar bene, finisce con lo scoprirvelo.
Perciò non a torto la Chiesa considera l'errore quale suggestione
della volontà cattiva; e da ciò anche proviene quell'elemento di
verità che è nelle teorie, rinnovate di recente, le quali fanno
condizione prima della scienza lo schietto desiderio del vero:
teorie filosoficamente insostenibili, perché la precedenza ideale
dello spirito teoretico è postulato di ogni possibilità di
conoscenza, ma nelle quali, intese in senso approssimativo, si
trova affermata la giusta esigenza di una volontà, che aiuti
e non incagli la ricerca
del vero. Nella critica artistica ricorre talvolta la
proposizione: che in arte solo il brutto è immorale: proposizione
che, quando non è un semplice modo di dire polemico e scherzoso,
accenna ai motivi pratici biasimevoli, che danno origine alle
deformazioni artistiche, e a cagion dei quali, biasimo artistico e
biasimo morale coincidono. I motivi pratici degli errori
percorrono tutti i gradi: dalla piccola pigrizia, che seduce a
fermarsi in una ricerca quando invece occorre ancora camminare, al
cinismo del mestierante, che s'infischia di ogni verità di scienza
o d'arte pur di manipolare libri ed opere, per trarne lucro; dalla
lieve e quasi inconsapevole accomodazione del proprio pensiero
alle opinioni dominanti, fino alle grosse tesi sostenute con
patente mala fede; dalla fuggevole enfasi rettorica, ispirata
dall'autoconipiaccnza e dalla vanità, fino alla professione del
retore e ciarlatano, che ha per suo unico o principale intento
l'applauso, comunque guadagnato. E (non occorrerebbe avvertirlo)
l'importanza della colpa pratica non sta in proporzione con
l'importanza dell'errore teoretico, che ne sorge.
Un piccolo errore teoretico può indicare una moralità bassissima;
e, viceversa, un grande errore aver per origine una colpa anche
lievissima, di quelle che, nella pratica della vita, si
considerano non solo perdonabili, ma addirittura neppur come
colpe. Tuttavia, l'analisi approfondita ritrova, o potrebbe
ritrovare, sempre, in fondo all'errore, quella colpa lievissima.
Né vi sono, salvochè per frase, motivi nobili di errore. Non sono
motivi nobili neppur gli scrupoli morali o i sentimenti religiosi.
È stato notalo che chi, sia pure per pietà religiosa, fa violenza
al proprio pensiero, pecca contro lo Spirito Santo, cioè contro lo
spirito di sincerità.
Se tutto ciò è esatto, se l'errore si collega intimamente con
qualche nostra deficienza morale, piccola o grande che sia (1), è
evidente che il canone che la critica letteraria e scientifica
debba astenersi rigorosamente dall'entrare in indagini e
considerazioni morali, patisce, pel caso delle bruttezze e degli
errori, una restrizione. Qui la critica, ricercando, com'è suo
dovere, l'indole precisa, e quindi la genesi dell'errore, si trova
assai spesso condotta, di necessità e non di suo arbitrio, in
mezzo alle considerazioni pratiche. È fuor di luogo, qui,
raccomandare che si prescinda dalle persone; perche siffatta
massima è stata creata per quei prodotti i quali, per avere
raggiunto il livello estetico o scientifico, sono, di fatto,
impersonali; ma non può estendersi alle opere erronee o alle parti
erronee delle opere, dove non è già il critico che vi cacci
dentro, per capriccio, la persona dell'autore, ma è l'autore
stesso, che ve l'ha introdotta; e il critico se la trova poi
innanzi come problema, in forma di errori da analizzare.
Il fatto conferma pienamente l'esattezza della teoria. Nessuno,
che critichi errori, riesce mai ad astenersi da considerazioni
morali. Non foss'altro, questo lato del giudizio appare negli
incisi, nella scelta degli aggettivi ed epiteti, nel tono della
critica. Allorché noi c'imbattiamo in quegli errori, che appaiono
e si dicono commessi in buona fede, — nei quali cioè la
piccola pigrizia e colpa pratica, che li ha originati, è
compensata e come soverchiata dalla bontà complessiva delle
intenzioni, — si determina naturalmente il tono rispettoso,
benevolo, simpatico; e riusciamo a sentir simpatia anche pei
nostri maggiori avversari intellettuali. Allorché un errore ci si
svela come un partito preso, estraneo alla scienza, diventiamo
severi e inesorabili, anche verso uomini coi quali per altro
consentiamo nella massima parte delle idee. Che cosa giova
inculcare, in questi casi, che si badi alle cose e non alle
persone? Le cose e le persone qui fanno tutt'uno. Non è possibile
astrarre le une dalle altre: non è possibile valutare prodotti
fortemente improntati dalla personalità dei loro autori, come se
questa impronta non vi fosse, e non contribuisse a determinarne
per l'appunto la flsonomia. E che cosa si può ottenere con
l'esortare ad astenersi, in quei giudizi, da ogni considerazione
pratica e di persone? Tutt'al più, che dal discorso semplice e
chiaro si passi a quello ravvolto e diplomatico; e dal dire
ingenuo all' ironia, alla corbellatura e alla furberia. Non mi
pare, in ogni caso, che questo sarebbe un guadagno, per la scienza
e per la moralità stessa.
L'esservi critici costantemente benigni, che sanno di ogni lavoro
mettere in rilievo solo ciò che v'ha di buono, non vale a
contraddire la nostra tesi, né prova che quello sia il tipo vero
ed unico della critica. Giacché quei critici non adempiono se non
a una parte sola del compito che spetta alla critica; ed è
evidente che lasciano ad altri di assolvere il resto. Il loro
temperamento e le loro attitudini intellettuali li fanno volgere a
quel genere, piuttosto che ad un altro, di considerazioni; e qui
non c'è nulla da obiettare. Ma non perché ci sono le suore di
carità e i filantropi, la società può far di meno degli educatori
e dei giudici (per non dire, all'occorrenza, dei carabinieri e
delle guardie di pubblica sicurezza). A coloro poi, che escono in
campo col «non giudicate» del sermone della montagna, o con gli
aforismi tolstoiani, non c'è da rispondere altro se non che i
neurastenici possono ben fingersi una realtà diversa da quella che
è; ma ne vengono puniti, perché, vivendo poi nella realtà quale
essa è, sono costretti a contraddirsi a ogni passo.
Certamente, la parte morale dell'ufficio del critico è assai
delicata: è un carico di coscienza. Ma tutta la vita non è forse
un carico di coscienza? E nella propria coscienza ciascuno deve
cercare, volta per volta, il limite tra la benevolenza e la
colpevole indulgenza, tra la severità e la crudeltà. — Né si pensi
che, con la teoria da noi professata, si voglia dare campo libero
alle aggressioni personali, ai «libelli», e a simili delizie. Si
tratta invece d'impedirle, determinando e circoscrivendo
accuratamente l'indagine morale, che sola al critico spetta. Le
aggressioni personali e i libelli sono contrassegnati da una nota
evidente: dal loro uscir dall'argomento, e cioè dall'avere il loro
nesso, non già nelle opere e nei problemi che si dovrebbero
esaminare, ma soltanto nell'animo, più o meno mal disposto, del
critico. Il libellista, per esempio, dalla censura di un'opera, o
del generale modo di lavorare di uno scrittore, salta, senza
nessuna ragione oggettiva, senza nessuna logica, a ricordare un
torto politico o privato del suo censurato, e via dicendo; e
scopre cosi il vero esser suo. Le considerazioni, che abbiamo
svolte, non sono state mosse soltanto dal desiderio di toglier
l'equivoco e ristabilire l'esatta verità in una massima
comunemente ripetuta, ma anche dalla persuasione che ora, in
Italia, — e non diciamo che ora sia più necessario che non fosse
pel passato, o in Italia più che altrove, — ma, ad ogni modo, che
ora importa in Italia far sentire più forte la responsabilità che
spetta a chi lavora nel campo degli studi. Importa che cresca il
numero di coloro, i quali concepiscono la ricerca del vero, non
come un mestiere tra i mestieri e un'azione di valore subordinato
e relativo, ma come il pregio stesso della vita : e che siano
severamente considerati quegli altri, che, più o meno, sommettono
la scienza ai loro capricci, ai loro comodi, ai loro interessi, o
(eh'è il caso forse più frequente) danno prove continue
d'intollerabile leggerezza. Se gli animi s'innalzeranno, state
sicuri che anche la Verità ci scoprirà più di frequente il suo
volto.
(1) Si potrebbe obbiettare: — E come mai, con tal presupposto, si
afferma che l'errore è causa di progresso; che vi sono errori
fecondi; che senza gli errori la scienza non va innanzi ? —
«Errori progressivi, errori necessari pel progresso», ecc., anche
codeste sono frasi immaginose. L'elemento di progresso non è
l'errore,ma quell'aspetto di vero, quella nuova verità, che nel
casi accennati si congiunge con l'errore. L'«errore progressivo» e
tanto poco errore, quanto poco la «magnanima menzogna», di
Torquato Tasso, è una menzogna.
1907.
Il Luzzatti (') si rappresenta la cosa a questo modo. C'è, nel
cielo delle verità, una verità fulgentissima: il principio della
libertà di scienza e di coscienza. Questo principio è rimasto per
lunghi secoli nascosto, o si è ottenebrato negli animi umani:
donde, le persecuzioni religiose. Nascosto e ottenebrato perfino
in grandi spiriti, a cominciare da Platone; il quale, come si sa,
voleva che si mettessero in carcere gli eterodossi e che
s'infliggesse loro, ogni giorno, una predica filosofica per
convertirli. «Più cauto avrebbe potuto e dovuto essere il
discepolo di un martire della libertà di coscienza, il discepolo
di Socrate!» (p. 78). Quei medesimi, che erano stati perseguitati,
si fecero, a loro volta, persecutori: «Lutero, il duce del
luteranesimo trionfante, ha talora obliato i sublimi consigli del
dottore perseguitato» (p. 218). Egli fu implacabile contro il
maomettismo, il giudaismo, le sètte nuove, e, accusandole di
turbare la pace pubblica, istigò i principi a punirle e reprimerle
(p. 219). Giovanni Hus, se avesse vinto, difficilmente avrebbe
perdonato: «con rammarico sommo, s'intravvedono
lampeggiamenti di collere sacre nelle sue confidenze ai fedeli di
Praga e ai principi boemi» (p. 218). e Calvino, spirito tetro, fu
addirittura il San Domenico della riforma» (p. 219). E anche
quando la verità, cosi semplice ed evidente, della libertà di
scienza e coscienza, venne rivelata e insegnata risolutamente, non
ottenne il consenso popolare: «Percorrendo l'Europa, vi sono ben
pochi Stati, ove le coscienze religiose riposino e la legge
s'inspiri al genio della libertà» (p. 299); il Belgio stesso non
sembra soddisfi del tutto, per questa parte (p. 230).
Eppure, le persecuzioni religiose furono tutte tristamente
espiate, o gravano, come colpe da espiare, sui popoli che se no
resero rei. Della notte di San Bartolomeo, «delitto inespiabile»,
la Francia «sopporta ancora le conseguenze» (p. 313). Gli
spagnuoli, i quali «cacciarono in esilio i mori e gli ebrei, che
avevano dato l'esempio delle irrigazioni e delle culture
metodiche», «con una vile abdicazione morale si commisero alla
balia dei re e dei sacerdoti» (p. 328); ed espiarono, finalmente,
«con la perdita delle colonie, le colpe di Filippo II e del duca
d'Alba, il delitto dell'intolleranza e dell'inquisizione» (p 281).
— Ma, a consolare di tanta cecità e perversione, soccorre il
ricordo degli spiriti nobilissimi, i quali, in tempi ostili,
proclamarono quel principio di libertà: «accanto ai foschi
persecutori, splendono gli assertori, i martiri, i vindici della
libertà di coscienza» (p. 272); tali, p. e., il filosofo Themistio
nel quarto secolo, san Bernardo nel medioevo, Spinoza nel
Seicento, Stuart Mill nel secolo ultimo; — soccorre il ricordo dei
grandi rivolgimenti, ispirati alla tolleranza, come l'editto
costantiniano del 313, o l'applicazione della libertà religiosa,
fatta nel 1641 a Ehode Island per opera di Roger Williams.
Soprattutto, l'animo si rinfranca nello spettacolo
dell'Asia, la quale, superiore per questa parte (e cosi nei tempi
antichi come nei moderni) all'Europa, concepì ed applicò la
libertà religiosa, specie col buddismo e eoi celebri editti del re
Asoko. E un tenue filo, codesto, di nomini e di avvenimenti; ma
tale da tenersi sempre presente nell'animo grato, commosso e
sperante in un avvenire, in cui la pace si faccia nei cuori e gli
uomini si educhino ad adorare il proprio Dio, rispettando insieme
il Dio del loro vicino (pp. 230-1).
Ora, ci consenta l'egregio uomo di dirgli che il problema non è
da lui posto esattamente. Quelle che si chiamano persecuzioni
religiose (cosa che egli non ignora di certo, e della quale, anzi,
in qualche punto del libro si mostra consapevole: efr. pp. 221,
31è re) sono un intreccio di due ordini assai diversi di fatti.
Lotte politiche e sociali, in primo luogo, tra razze, popoli,
stati o classi, in cui le opposte formole religiose avevano
talvolta non altro ufficio che quello della bandiera tricolore per
l'Italia o della nera e gialla per l'Austria. In secondo luogo,
lotte di affermazioni teoriche, nelle quali si ricorreva, per
trionfare, a pressioni esercitate sulla volontà, per effetto del
convincimento che colui, il quale si rifiutava di riconoscere il
vero, era mantenuto nell'ostinazione da passioni, interessi o
spirito diabolico. Onde, al modo stesso che si fa troppo onore
all'Editto costantiniano col considerarlo quale rieonoscimento di
una verità teorica, si fa troppo torto ai poveri spagnuoli, col
trattarli da malfattori o dissennati: agli spagnuoli, i quali non
si trovavano in liete condizioni nazionali, avendo nel loro seno,
elemento inassimilabile, i moreschi, pronti a cospirare perfino
con Errico IV contro il paese in cui vivevano da coperti nemici.
Nonostante le esagerazioni, alle quali talvolta si è lasciata
andare per questo rispetto, la storiografìa moderna è stata bene
avvisata nel mostrare ciò che, in molti moti religiosi, era, in
realtà, moto politico ed economico. È evidente che l'invocato
principio della tolleranza non si può estendere al caso delle
lotte politiche con bandiera religiosa. Lamenteremo noi le stragi
di san Bartolomeo o i roghi dell'Inquisizione o le cacciate degli
ebrei e dei moreschi o il supplizio del Servet? Lamentiamoli pure;
ma serbando chiara coscienza che, a questo modo, si fa poesia e
non già storia. Quei fatti sono avvenuti e nessuno può cangiarli;
come nessuno può dire che cosa sarebbe avvenuto se non fossero
avvenuti. Le espiazioni, che la Francia e la Spagna avrebbero
fatte o dovrebbero fare pei pretesi delicta maiorum, è frase di
vendicativo giudaismo, da lasciarla ai predicatori, priva di
qualsiasi significato. La direi perfino immorale, perché da quelle
lotte del passato è nato questo nostro mondo presente, che
pretenderebbe, ora, levarsi innanzi al suo progenitore per
insultarlo o, per lo meno, fargli il sermone. «Quelle facce le ho
viste io !», potrebbe rispondere il mondo antico al mondo moderno,
col buon senso di Don Abbondio che rispondeva al cardinal
Federigo.
Ma anche al secondo caso, cioò delle lotte teoriche che ricorrono
a espedienti pratici, il principio è inapplicabile, perché, per
applicarlo, converrebbe confutare, anzitutto, la dottrina del
carattere volitivo dell'affermazione teorica. Non ripeterò quello
che altrove ho svolto in sostegno di tale dottrina, e per
dimostrare che noi tutti, a ogni istante, operiamo pressioni sulle
altrui volontà, per indurle a far sì che il pensiero pensi nel
modo che a noi sembra il buono. Tutti, non eseluso lo stesso
Luzzatti, non foss'altro coi tanti punti esclamativi e
interrogativi, che mette nel suo stile, e che sono come tante
tirate d'orecchie, colpetti sotto il mento e scosse al petto dei
suoi ascoltatori e lettori. E se il Luzzatti (com'è probabile) si
sdegnerà contro me per queste osservazioni che vado scrivendo
intorno al suo libro; che cosa sarà il suo sdegno se non una
pressione che la sua volontà, credendosi in possesso del vero,
cercherà di esercitare sulla mia, aborrente dal vero per lo
spirito d'ipercritica e di contradizione onde è afflitta (spirito
diabolico)?
Poniamo che sia vero quel che ho letto in qualche giornale, della
voga che il buddismo va prendendo in Inghilterra tra la gente
ricca e oziosa; o quello che un mio amico, poeta e buddista, ha
scritto testé, in un gran giornale italiano, per raccomandare tale
religione, e cioè, che essa risponde assai bene all'«anima
meretricia moderna». Non dovrò io, nel combattere, avendo codesti
avversari a fronte, il buddismo, e nel mostrarne l'unilateralità e
perciò la fallacia, colpire anche le radici morali del favore che
esso incontra? Mi pare necessario. Di certo, non esorterò, come
Lutero, i governanti a punire la nuova setta; e non vorrò, come
Calvino, bruciarne gli adepti: perché, ai tempi che corrono,
queste sarebbero azioni sciocche quanto malvage. Ma provocherò
intorno ai nuovi devoti l'ilarità, e (tanto per dire una frase
peregrina) quale arma è più terribile del ridicolo? Armi non sono
soltanto quelle di ferro o di acciaio.
— Insomma, le lotte teoretiche non consistono, e non possono
consistere, in quei dialoghi calmi e indifferenti, che la gente
superficiale immagina; ma sono, anch'esse, lotte vitali, e vanno
esaminate, come ogni altro fatto, nella storia. Aveva ragione
Diocleziano o i cristiani? Innocenzo III o gli Albigesi? Gustavo
Adolfo o Wallenstein? i cattolici o i protestanti?
Bruno o i suoi carnefici? Né gli uni né gli altri, e gli uni e gli
altri insieme; se è vero che la storia posteriore del pensiero li
nega e li include tutti. E ciascuno lottava come poteva e doveva.
Clericalismo e anticlericalismo (secondo il Luzzatti, p. 3) «sono
il prodotto psicologico della stessa deformità morale:
l'intolleranza». Ahimè, a questa stregua, tutta la storia sarebbe
un prodotto di «deformità morale», perché tutta la storia è
intollerante! Che cosa è, dunque, veramente, codesto principio
della libertà religiosa, che suscita tanti entusiasmi nel
Luzzatti? Proprio l'opposto di una verità universale e assoluta: è
un principio pratico, che può avere avuto significato in questo o
quel punto della storia, e può averne uno grandissimo ai tempi
nostri, quando sia riferito a speciali provvedimenti legislativi e
ad atti singoli. Celebrarlo in universale, non giova: conviene
tradurlo in fatti particolari. P. e., si pone in Ginevra un
monumento al Servet? Benissimo: il Luzzatti, che consacra a questo
avvenimento uno degli scritti più calorosi del suo volume, è
certamente tra i sottoscrittori del monumento, e io mi trovo in
sua compagnia, perché, a suo tempo, ho sottoscritto anch'io, e
pagato la mia quota. Si vuole chiamare, quel monumento e quella
sottoscrizione, omaggio alla libertà religiosa? Per me, è
semplicemente omaggio a un eroe storico quale Michele Servet, e,
insieme, espressione del sentimento dei tempi nostri, che ripugna
a procedimenti, divenuti stolti e brutali: ma, se piace dirlo
omaggio al principio della libertà religiosa, non starò a litigare
sulle parole. Basta che la cosa sia approvabile.
Senonchè, essendo la tolleranza, di cui parla il Luzzatti,
formola pratica e contingente e non già principio universale, essa
non può valere da criterio per ispiegare e giudicare la
storia, la quale ha uopo di criteri che le siano intrinseci.
Averne usato come di criterio di valutazione e l'errore del
Luzzatti; e ciò ha impedito che i suoi studi riuscissero davvero
(come il titolo annunziava) «storici» (2). Guardando con l'occhio
dello storico, perfino le stragi e le torture, che ora ci fanno
fremere, si attenuano, intonandosi con le disposizioni e i costumi
dei tempi; chi ha osservato, p. e., le stampe del Cinque e
Seicento, che ritraggono i castighi soliti allora negli eserciti,
non si maraviglerà di quelli usati contro gli eretici. E,
soprattutto, ci si svela, nella obiettiva considerazione storica,
l'animo vero degli individui e dei partiti in lotta; e i risultati
reali, che da quelli provennero alla civiltà umana. Eppure, se il
Luzzatti ha concepito il suo libro come l'ha concepito; se, da un
ventennio o trentennio in qua, ha sempre vagheggiato «un libro
magistrale, nel quale si tratteggino le origini e le esplicazioni
della libertà di coscienza», e si offra «un'antologia che raccolga
e mostri le opinioni di coloro che primi intuirono e propugnarono
la suprema inviolabilità dell'animo umano» (p. 209); se egli, pur
senza dire «nessuna parola di vendetta contro la progenie dei
persecutori», si sforza di promuovere un «culto sempre più sincero
e ardente, consacrato agli iniziatori della libertà religiosa» (p.
3.; — di tutto codesto dev'esserci una buona ragione. Egli stesso
è discendente di una razza perseguitata; e risente, perciò, quelle
lotte del passato come qualcosa di ancor vivo e
doloroso.
Mi sovviene un caso analogo: la traduzione, che
Salomone Reinach fece della Storia
dell' Inquisizione di Errico Carlo Lea, al tempo della
questione Dreyfus, «à cette
epoque tragique pour les consciences», mettendola innanzi
al pubblico francese come «la seule flétrissure qui convienne aux crimes du fanatisme». E' uno stato
d'animo, che intendo e rispetto; ma non so se sia rispondente alle
condizioni dei tempi nostri: e, a ogni modo, esso ha sedotto il
Luzzatti a un errore di visione storica (nuova prova, se
occorresse darne, dell'origine passionale e pratica dell'errore).
Il Lea, che è uno storico sul serio, s'impensierì del turbamento
sentimentale in cui si trovava il suo traduttore Reinach, e gli
raccomandò: «Traduisez comme
vous l'entendrez, mais, je vous en prie, ne vous départissez pas
du ton impartiti! que je me suis imposé» (3).
Negli scritti messi in fondo al volume, il Luzzatti si vanta di
avere tenuto fede fin dal 1876 (p. 319) «all'idealismo
scientifico». E sta di fatto che egli ha contrastato sempre il
materialismo e il determinismo, e ha affermato, sempre, la
libertà, i valori morali, la religiosità. Tutto ciò è, nella sua
mente, rimasto assai vago; e riesce impossibile stabilire con
quali argomenti fondi la libertà, quale religione egli professi, o
quale sia il suo sistema filosofico. Piuttosto che elaborare
filosoficamente le sue idee, egli le ha asserite, aspettando
fiducioso il pensiero che un giorno dovrà giustificarle: «E lecito
augurare che, quando sieno maturi i tempi che noi non vedremo,
sorga un maestro mirabile delle scienze naturali e filosofiche,
capace di raccogliere in una sintesi luminosa il mondo spirituale
e naturale» (p. 373). Ma non sarebbe giusto negargli il
merito di avere dato prova di sano istinto e di buone tendenze in
tempi di grossolano naturalismo, imperversante nel campo economico
e politico, non meno ehe in quello letterario e filosofico (4).
1909. B. CaocR, Cultura e vita morale.
(1) La libertà dì coscienza e di scienza (Milano, Treves, 1909).
(2) Pel L., quel principio è perfino criterio per giudicare di
poesia; tanto che rimprovera al Carducci l'accenno
sprezzante al «Galileo dalle rosse chiome». Senza quel tratto
(egli dice), l'ode al Clitumno
«sarebbe perfetta» (p. 313).
(3) H. Ca. Lea, Hist.
de l'inquisition au moyen-âge,
Paris, 1900, p. XXXII n.
(4) Questo scritto ebbe un lungo strascico di polemiche nelle
quali, come era da prevedere, fui dipinto e accusato come
«intollerante». Ma, in verità, a me pareva d'essere il più
tollerante di tutti gli apostoli della tolleranza; perché, qual
altro è il senso del mio discorso se non di richiedere che, in
istoria, si pratichi la tolleranza anche contro gl'intolleranti?
(Nota aggiunta).
A qual tempo risalgono l'avversione e l'irrisione per la
filosofia, delle quali si osservano ora presso i letterati
italiani gli ultimi guizzi? Mi duole per i poveri di spirito che
vanno in cerea di un blasone per la loro povertà e volentieri si
richiamano, percorrendo a ritroso secoli e secoli, alla «bella
tradizione italiana» o, addirittura perdendosi nella oscura
preistoria, al «carattere originario della razza italica» ; ma
essi sarebbero assai impacciati se dovessero documentare le loro
asserzioni. Il fatto è che (parlando, come qui si deve, in
generale) di quella avversione, e della congiuntavi irrisione, non
è traccia nelle grandi epoche e presso i grandi poeti d'Italia;
non in Dante né nel Petrarca, che variamente furono dotti in
filosofia, e neppure nel Boccaccio, poco filosofo ma non iscarso
ammiratore dell'alto sapere; non in Torquato Tasso, che
filosofava, né in Ludovico Ariosto, il quale non filosofava; non
nel Seicento, i cui letterati facevano pompa del loro
sillogizzare, né nel Settecento, quando la parola «filosofia» era
sulle bocche di tutti; né, infine, nella prima metà
dell'Ottocento, quando la risorta filosofia e la risorta
letteratura si dettero la mano.
Che l'Italia, nella storia della filosofia, non abbia avuto, o
solo per breve tempo e contrastata, l'egemonia, è vero; ma non è
vero che abbia mai dispregiato e schernito la filosofia, e che
questo sia un carattere essenziale della sua cultura. 0 è, sì, un
carattere, ma di un periodo della sua cultura tutt'altro che
venerabile per antichità. Per intendere quando e come si formasse
quel basso e triviale sentimento tra i letterati italiani, bisogna
volgere l'occhio a due particolari classi della vecchia societas o
respublica literaria: ai letterati e agli eruditi in senso
piccolo. Date a un uomo di animo e mente mediocri un certo amore
estrinseco per la poesia (simile a quello che pacifici borghesi
sogliono nutrire per i pennacchi, le sciabole e le parate
militari), una certa attitudine all'imitare, una eerta cupidità di
lodi, e l'ozio che occorre per coltivare queste disposizioni; e
avrete il letterato, che rima sonetti, traduce Orazio, compone
discorsi e dicerie. Dategli, in cambio dell'amore per la poesia e
della facoltà imitativa, un certo estrinseco amore per la storia e
una certa facoltà di ricerca e di critica; e avrete l'erudito che
fruga l'archivio del suo episcopio o del suo municipio, che va a
caccia di vecchie carte nelle vecchie famiglie e di tombe e ruderi
per le campagne, cbe elabora alberi genealogici e indaga le
vicende della costruzione di questo o quel monumento e litiga coi
suoi colleghi sopra una data, un nome, un aneddoto.
Questi tipi sono di tutti i luoghi e di tutti i tempi; e
solamente è da notare che in Italia più che altrove ebbero
numerosi rappresentanti, specialmente nei secoli di decadenza,
perché l'ozio, allora, fu grande assai, e la terra d'Italia era
imbevuta di letteratura e ricca di memorie storiche; donde gli
italiani sonettisti, antiquari, accademici. Uomini inutili quando
poetavano e proseggiavano, perché, si sa, in arte la mediocrità è
inutile; utili, quando accumulavano e serbavano documenti e
chiarivano particolari di fatti: inoffensivi sempre, e
rispettosi di ciò che superava la loro capacità. Anzi, il
letterato era assai soddisfatto se gli riusciva d'incastrare
qualche detto di filosofo nelle sue composizioni o di scrivere un
«encomio della sapienza»; e l'erudito rivendicava le glorie
filosofiche del suo paese, tesseva le biografie dei sapienti e ne
raccoglieva perfino gì scritti, sebbene non li leggesse o li
leggesse senza intenderli e per trarne aneddoti. Collezionista di
frasi l'uno, di notizie l'altro, come tutti i collezionisti
riponevano in quel loro ozio operoso e in quella operosità oziosa
ogni loro compiacenza; e non badavano ad altro.
Ma, col costituirsi della nuova Italia, questa innocenza
spirituale dei piccoli letterati e dei piccoli eruditi fu turbata.
Perché la nuova Italia intensificò l'università e il giornalismo:
due istituzioni delle quali la prima, per ciò che riguarda gli
studi di letteratura e di storia, quasi non esisteva, e l'altra
esisteva soltanto come una nuova forma di accademia, che invece di
«raccolte» produceva «appendici» e «strenne». E la richiesta di
professori, per un verso, è di giornalisti per l'altro, operò
anche su quelle modeste classi letterarie, e aprendo loro innanzi
speranze di guadagno e di fama, attirò all'università gran numero
di coloro che in altre condizioni sarebbero vissuti da pacifici
eruditucoli e letteratucoli, e al giornalismo molti di questi
ultimi, più o meno ammodernati nelle loro velleità artistiche. I
collezionisti di frasi si trovarono, così, lanciati nel mare
tempestoso della vita; i collezionisti di fatterelli, introdotti
nella sfera supcriore della scienza. E, poiché la chiave di tutti
i contrasti della vita è nel sapere, e il nodo di tutti i problemi
del sapere è nella filosofia, letteratucoli ed eruditucoli si
vedevano, ahimè, sorgere dinanzi, dal seno delle cose
stesse, l'esigenza d'intendere, di approfondire, di studiare lo
svolgimento della filosofia, di partecipare e collaborare al suo
progresso. Non bastava più rispettarla, renderle omaggio,
salutarla da lungi: occorreva entrare in relazioni con lei, e
quelle relazioni richiedevano un radicale mutamento di abitudini,
una somma di fatiche per la quale essi non erano preparati e forse
non erano nati.
Come fare? In qual modo adempiere ai nuovi obblighi, che la nuova
situazione imponeva? Come dire la propria parola, che fosse guida
alla vita spirituale del proprio paese, privi com'erano di ogni
sicuro orientamento? Come accettare o rifiutare le molteplici
proposte di metodi e di principi che si disputavano il campo della
scienza, quando essi non sapevano neppure che cosa significassero
le parole «metodo» e «principio»? Bisognava, dunque, davvero,
abbandonare le sonanti frasi e le scintillanti barzellette per la
grigia meditazione ? le semplici ricerche di archivio e di
biblioteca, che tengono in una pacata e piacevole tensione lo
spirito, per il tormento dell'alta scienza, che ogni problema
collega con tutti gli altri e in ognuno vede riflesso quello della
realtà cosmica e del destino umano? E, volendo mettersi per questa
via, chi avrebbe dato loro la forza e il coraggio? E, non volendo,
non c'era rischio di fare cattiva e ridicola figura? A togliere i
letteratucoli e gli eruditucoli in giornea di professori e di
pubblicisti da questi impacci ed angosce giunse insperato il verbo
positivistico, che, a dir vero, era anch'esso dottrina filosofica
e richiedeva perciò pratica coi problemi filosofici, ma del quale
si poteva prendere una parte soltanto, e trarne questa
conseguenza: che i filosofi tutti, da Socrate o da Talete fino al
Kant o all'Hegel, avevano vaneggiato al pari degli alchimisti e
degli astrologi, e che la vera e positiva filosofìa si costruisce
coi fatti, e che i fatti ognuno è buono a raccoglierli purché si
guardi bene dall'alterarli col pensiero.
Il pensiero concepito come alterazione del fatto, la filosofia
come tutt'uno col fatterello e con la chiacchiera della vita
quotidiana, i libri dei vecchi filosofi come una letteratura da
gettare al fuoco: — queste proposizioni potevano suonare
temerarie, ma erano troppo lusinghevoli, promettitrici di troppi
comodi, benefiche consolatrici di troppe miserie, perché non
dovessero venire accolte con gioia. L'ignorante poteva, mercè di
esse, atteggiarsi a sapiente, perché la sua ignoranza non appariva
più povera e nuda ignoranza, ma ignoranza secundum quid: secondo la
sana dottrina positivistica; secondo l'ultimo portato del pensiero
moderno; secondo Spencer, che dichiarava di non aver mai letto e
di non voler leggere gli autori della filosofia; secondo Ardigò,
che insegnava storia della filosofia, negandola.
Così accadde che i letterati e gli eruditi italiani, i professori
e i giornalisti, si convertirono tutti, rumorosamente, al
positivismo ; e tutti presero a parlare dall'alto o con
compassione della «metafisica», delle «speculazioni»,
dell'«idealismo, dell' «apriori», come di forme sorpassate dello
spirito umano. Non dico già che essi svolgessero dentro di sé con
chiara consapevolezza l'economico ragionamento, che io ho esposto:
pochi o molti credettero realmente di avere trovato un modo
legittimo di porre pace nella loro coscienza e di adempiere ai
doveri assunti verso la scienza e verso la vita, ma altra è la
logica superficiale dell'individuo, altra quella profonda delle
cose; altra la credenza e altra la realtà. E la realtà è che dal
congiungimento tra l'impotenza spirituale dei letterati ed eruditi
di vecchio stampo e la barbarie positivistica si formò in Italia
per la prima volta - e ciò appena quaranta o cinquant'anni fa -
l'avversione e l'irrisione per la filosofia.
Ecco l'arma spiattellata
nella bestia di famiglia
L'imitazione e la moda fecero il resto e travolsero anche coloro
che, per maggiore serietà di spirito e forza di mente, avrebbero
potuto ben altrimenti risolvere le difficoltà dei nuovi problemi
della vita e della scienza italiana. E giacché la filosofia, come
la poesia, ha perpetui nemici e irrisori i piccoli uomini pratici
che talvolta perdonano alla seconda perché li diverte, ossia in
quanto ne falsificano la genuina virtù, ma non mai alla prima, che
li annoia e li affligge, i letterati ed eruditi italiani tolsero
dai cosiddetti uomini pratici le parole di scherno contro la
filosofia, onde scoppiettarono sulle loro labbra eleganti facezie,
degni di commessi viaggiatori.
Anche ora che l'ambiente è assai mutato e quel sentimento volge
in decadenza, si possono notare nei superstiti oppositori e
derisori della filosofia due gruppi e scorgere la duplice classe
da cui provengono. Il primo gruppo è di quelli che altra volta ho
fatto vedere armati di chitarra; il secondo gruppo si presenta
armato di schede. E invano si cerca di rabbonirli col dire agli
uni che guarderemo volentieri le loro schede e che anche noi
usiamo fare schede quando giovano, benché ci riesca impossibile
schedare la sintesi a priori o formarla ammucchiando schede; e col
promettere agli altri che porgeremo volentieri l'orecchio ai dolci
suoni delle loro chitarre.
Queste lodi, queste promesse, pur così leali e piene di buone
intenzioni, li stizziscono peggio, giacché in esse, non a torto,
essi vedono implicita una sentenza d'incapacità o
d'impreparazione, onde si vieta loro di parlare di altre cose
nelle quali pur vogliono mettere bocca, un'esortazione a
riconoscere per questa parte la propria insufficienza, un
eccitamento a studiare, a meditare, a stillarsi il cervello.
«Perché dobbiamo capire, quando il capire è faticoso?», si dicono
tra sé; e a voce alta dicono invece che bisogna tornare alle buone
tradizioni italiane e disfarsi delle nuove pretese messe innanzi
dai cacciatori di nuvole e dagli spiriti antiartistici; e
ritentano le vecchie beffe, che ormai cadono inerti senza
svegliare intorno eco di riso.
I due gruppi, qualche volta, si riuniscono a fronteggiare il
comune pericolo, onde l'erudito si vanta fine intenditore delle
squisitezze dell'arte, e il letterato, esatto conoscitore di
notiziole storiche ; tal'altra, litigano tra di loro, perché in
realtà sono, intrinsecamente, diversi e opposti. Ma non bisogna
troppo impensierirsi né del loro combattere separato né della loro
alleanza. Satana non torna indietro; e i letteratucoli e gli
eruditucoli hanno finito di tenere il campo della vita mentale
italiana. Siamo entrati in una fase spirituale superiore.
Qui mi sembra udire rimormorare una domanda che mi è stata
rivolta di frequente: — Ma non temete voi che la filosofia,
l'idealismo, la critica, l'estetica, siano per dar luogo a una
nuova forma di ciarlataneria, e che in molti nuovi libri e
discorsi si osserverà bensì una nuova moda, ma continuerà la
vacuità di prima, resa più odiosa perché meno modesta? — Altro che
temere! Ne sono certo. E non solo sono certo che ciò avverrà nel
futuro, ma forse parecchi casi mostrano che la cosa è già
effettivamente, qua e là, accaduta e accade. Senonché,
riconosciuto ciò (che
credo sia ben più di quanto desideravano gli obiettanti), domando
quale conseguenza se ne voglia cavare. Per parte mia, non so
trarne nessuna: la sillogistica insegna che da un'unica premessa
non segue conclusione, e qui manca l'altra premessa; o, piuttosto,
ce ne è una, sottintesa, ma è un'ingenuità. Ingenuità consistente
nel credere possibile un qualsiasi indirizzo morale e mentale, che
sopprima, una volta per sempre, il vizio e la stoltezza; ingenuità
di scandalizzarsi nello scorgere che, in ogni nuova forma sociale,
in ogni nuova respublica civium
o literatorum, persistono pur sempre le umane debolezze e
le umane storture.
Così molti immaginarono che l'Italia una e indipendente avrebbe
fatto sparire la servilità, l'imbroglio, la corruttela; e, poiché
queste cose effettivamente non sparirono perché sparire non
potevano, si diedero a lamentare l'amara delusione patita e a
rimpiangere il passato. Ma l'Italia una e indipendente è una forma
superiore della nostra vita nazionale; e la risorta filosofia è
una forma superiore della nostra vita spirituale: e questo è tutto
ciò che si poteva chiedere, e che si è ottenuto e si sta
ottenendo.
La lotta per l'onestà e per la verità non è stata e non sarà
composta in nessun tempo, perché è stata e sarà di tutti i tempi;
e i disonesti, i ciarlatani, i leggieri, stimolo a quella lotta,
sono di tutti i tempi, e, come classe, immortali. Meglio, in ogni
caso, avere a fronte, forme superiori, anziché forme inferiori, dì
disonestà; meglio forme superiori, anziché forme inferiori di
errori; meglio la moda della filosofia che quella del pettegolezzo
erudito o della chiacchiera letteraria. perché ciò vorrà dire che,
se noi individui non siamo, pur troppo, divenuti migliori, il
mondo, esso, è divenuto migliore.
1911.
Scuola o giornalismo? Ecco il bivio innanzi al quale sembra si
trovino, ai giorni nostri, i giovani italiani, che escono dalle
università laureati in lettere e filosofia. E molti, troppi di
essi, vediamo prescegliere la seconda via e correre a ingrossare
le file del giornalismo, facendo seguire, senza pausa, all'erudita
tesi di laurea su fra Iacopone o sulla costituzione del comune
rurale, gli articoli luccicanti sul Giappone e sul Marocco, e
sulla psicologia della signora Cifariello e di madama Steinheil.
Naturalmente, non parlo di coloro che si risolvono per l'una o
per l'altra via, tratti da naturale e irresistibile vocazione. Chi
ha anima di educatore e maestro, fa benissimo a darsi all'
insegnamento; chi ha passione e intelligenza della vita politica o
degli affari, fa benissimo a darsi al giornalismo, ad aggregarsi a
un partito, a promovere con la parola e con la penna gl'indirizzi
che stima salutari, ad appoggiare o combattere uomini e
istituzioni. E non parlo neppure di coloro che non hanno vocazione
nessuna o, meglio, hanno la vocazione di procacciarsi da vivere
col primo mestiere che venga loro alle mani, e aspirano, tutt'al
più, all'ufficio sociale (e un ufficio anche codesto!) di far
numero nella popolazione, e di accrescere la popolazione eoi
prender moglie e prolificare. Sarà una disgrazia, per la scuola
come pel giornalismo, che i mestieranti vi si caccino dentro; ma è
disgrazia da cui nessuna professione va esente, e che è
irrimediabile. Il rimedio anzi, se si potesse metterlo in atto,
sarebbe peggiore del male, perché aiuterebbe la formazione di una
classe di spostati e «disperati». minacciami la società nel suo
complesso. Lasciare che la danneggino qua e là, nel «dettaglio», è
pretium emptae pacis.
Ma parlo di quei giovani, che non appartengono né al primo né al
secondo gruppo. Non al primo, perché non hanno vocazione veni e
propria per la scuola e per il giornalismo. Non al secondo, perché
non sono privi d'interessi ideali, e mostrano buona disposizione
pel culto della scienza e dell'arte. Se essi potessero sottrarsi
al dilemma, vi si sottrarrebbero assai volentieri, ma debbono
provvedere in qualche modo all'assetto economico della loro vita
per ottenere quella calma, qeull'otium, che arte e scienza
richiedono; e la produzione letteraria si matura con lentezza, e
anche quando è matura e la buona fortuna l'accompagna, bendi rado
basta a fornire i mezzi di soddisfazione pei bisogni della vita
più modesta. Corti e mecenati, benefizi e prebende, che facevano
vivere i Petrarchi, gli Ariosti e i Tassi, non sono più cose dei
tempi nostri. Ed ecco, dunque, i nostri bravi giovinotti al bivio:
scuola o giornalismo? La scuola li attrae con la sicurezza degli
impieghi di Stato, ma li respinge a cagione dei magri guadagni,
delle residenze in paeselli di provincia, degli orari gravosi e
inflessibili, dell'oscurità a cui li condanna per lunghi anni. Il
giornalismo li respinge bensì anch'esso per la natura
instabile e sempre pericolante del lavoro che è in grado di
fornire; ma assai più fortemente li attrae coi pronti e talora
larghi guadagni, con la dimora nelle grandi città, con la relativa
liberta nell'uso della propria giornata, con la notorietà che
procura facilmente, sin dalle prime prove.
Per queste ragioni, i laureati in lettere e filosofia si vedono
passare, ora, in cosi gran numero, dalle aule universitarie alle
redazioni dei giornali. Ne conosco ormai tanti che hanno eseguito
questo passaggio, e ho raccolte tante confessioni e dati tanti
consigli privati (quasi sempre senza frutto; altrimenti, sarebbero
«consigli?»), che posso permettermi di generalizzare il caso,
descrivendolo come ho fatto; e generalizzare il consiglio, non
foss'altro per ribadire, in forma esortatoria, l'analisi del caso.
Quando non si può correggere un male, si deve sforzarsi di
acquistarne almeno esatta cognizione.
Anzitutto, il dilemma travaglioso potrebbe essere formolato con
qualche maggiore larghezza; perché, oltre la scuola, altre
professioni adatte a uomini contemplativi sono offerte, per
esempio, da biblioteche, musei ed archivi, e perfino da taluni
rami di amministrazione più lontani dagli uffici di cultura. Ma
(s'includano o escludano codeste professioni dal dilemma) io dico
che, a quei giovani, bisogna inculcare risolutamente: — Scuola,
scuola! — e non mai: — Giornalismo. Il giornalismo, coltivato
quotidianamente, distrae le menti degli aspiranti scienziati e
artisti; le disabitua dalla considerazione attenta e scrupolosa
della verità; rafforza in chi vi è disposto e svolge in chi non vi
sarebbe naturalmente disposto la tendenza all'unilateralità,
all'imprecisione e al sofisma (nella scienza), e alla ricerca
dell'effetto e del successo (nell'arte); costringe
all'improvvisazione e perciò, più o meno, al ciarlatanesimo. Nella
vita pratica, impedisce la formazione di quelle virtù di ordine e
di lavoro regolare e continuo, indispensabili all'artista non meno
che allo scienziato.
Dopo qualche anno di esercizio giornalistico, i giovani diventano
di solito incapaci di lavoro prolungato ed aspro, e pèrdono il
sentimento dell'esattezza e della diligenza. Infine, il troppo
diretto commercio con gli interessi pratici e con le lotte
quotidiane attutisce la virtù contemplativa e riflessiva, per la
quale è necessario il distacco e una qualche distanza dall'oggetto
della contemplazione e meditazione. La scuola, invece, per quelle
stesse condizioni di fatto che paiono angustie e miserie, opera
con opposta efficacia. Sembra sequestrare l'uomo dalla vita e dà
di questa il desiderio e, col desiderio, l'intuizione e
l'intelligenza. Sembra mortificare le forze spontanee e creatrici:
e, con gli ostacoli che loro oppone, le esercita e invigorisce.
Sembra asservire i giovani, privandoli della liberta; ma accresce
l'amore per la libertà e ne garentisce il possesso, promovendoue
la disciplina. Fa stentare, e gli ingegni veri si temprano negli
stenti; mantiene l'animo raccolto, e tende per tal modo ad
arricchire il mondo interiore (che è quello delta scienza e
dell'arte), in compenso del mondo esteriore, cui si è dovuta fare
rinunzia. Dalla vita dell' insegnante si traggono, dunque, non
pochi vantaggi pel culto severo dell'arte e della scienza; da
quella del giornalista, nessuno.
Il che potrebbe essere confermato dai nomi, che vengono in mente
a tutti, dei poeti, letterati e studiosi, che la scuola ha dato
all'Italia negli ultimi cinquant'anni, ai quali non so quanti si
potrebbero contrapporre, tratti dalla categoria dei
letterati-giornalisti.
Si obietterà che il partito, qui sostenuto, se giova alla
formazione dei poeti e scienziati, danneggia poi l'istituto stesso
della scuola, che verrebbe a essere affidato a uomini, i quali,
piuttosto che servirlo, se ne servirebbero; e se ne servirebbero,
per giunta, come di una medicina amara. Ma le scuole sono molte e
hanno d'uopo di molti e molti insegnanti, e quelli che vi si
dedicano per vocazione irrefrenabile sono pochi; onde è necessario
valersi anche di altri meno disposti e meno perfetti. Se vi si
accolgono, come si è detto, perfino i mestieranti, non si vede per
quale ragione dovrebbero esserne scacciati gl'ingegni poetici e
scientifici. I quali, del resto, recano nocumento ben maggiore nel
giornalismo che nella scuola; dove, anche senza possedere tutta la
necessaria attitudine educativa (benché l'onest'uomo conosca e
ritrovi molti mezzi per sopperire alle deficienti attitudini
naturali, quando si tratta di adempiere il proprio dovere),
possono destare, mercè la larga cultura e lo spirito vivace,
simpatia e amore negli scolari. Ma, nel giornalismo, si
manifestano corruttori, e, sotto specie di nobilitarlo, lo rendono
frivolo, sostituendo alla seria informazione e discussione dei
problemi pratici finzioni di arte e di scienza, gonfiezze, falsi
colori (1.) Il giornalismo progredisce e si nobilita per opera dei
giornalisti-nati, e non già dei letterati mancati.
1909.
(1) Che cosa sappiano fare i giornalisti-letterati si è visto
l'anno passato, nell'occasione della «guerra libica»: nome, che un
mio amico, professore di filologia, leggendo i giornali, si
ostinava a reputare errore di stampa, invece di «gnerra lirica».
(Nota aggiunta).
Negli scritti e nelle conversazioni degli intellettuali si può
osservare, da alcuni anni in qua, la frequenza eon la quale
ritorna la parola «superare», con tutti i suoi derivati. È codesto
uno dei molti casi comprovanti l'influsso che il movimento del
pensiero filosofico esercita sull'intera distesa della vita
teoretica. Ma presso i cosiddetti intellettuali si comincia a
notare altresì qualcosa, che è più che l'uso prediletto di un
semplice vocabolo: la predilezione per l'atteggiamento del
superatore. E non c'è da stupirne. Quell'atteggiamento solletica
l'amor proprio; e ai giovani in particolare sembra, con
l'assumerlo, di essere giunti di volo sulle alture, di sovrastare
ormai alla generazione che li ha preceduti, di avere prodotto
qualcosa di personale e di proprio e, mentre ancora fervono di una
vita che li volge all'avvenire, di essersi collocati nella storia.
Congiungere il moto con l'arrivo, i vantaggi della gioventù con
quelli della virilità e della vecchiezza, la vita attuale eon la
solennità della storia, sarebbe, di certo, un'assai bella
soddisfazione. Senonchè, io che sono stato tra gli autori della
nuova voga conferita al vocabolo di «superamento»; e non vorrei
essere tra i promotori né dell'abuso linguistico di esso, né
dell'atteggiamento al quale serve di vessillo; mi permetto di
sottoporre alle riflessioni altrui alcune noterelle intorno al
concetto di superamento, che varranno, forse, a raffrenare
alquanto cosi quell'abuso linguistico come quell'atteggiamento
pratico.
E, cominciando dal primo punto, dirò che «superamento» designa
in filosofia la dottrina intorno al ritmo di svolgimento del
pensiero, e della realtà tutta. Ora, è di cattivo gusto introdurre
i termini tecnici delle dottrine filosofiche e scientifiche nella
conversazione e prosa quotidiana, quando non si tratta già di
definire e affinare concetti filosofici, ma di vacare alle proprie
faccende e di esprimere nel modo più semplice e limpido i propri
pensieri intorno a fatti e problemi spiccioli. Perciò bisognerebbe
evitare al possibile (o farne almeno un uso discreto) le parole di
«superamento», di «tesi, antitesi e sintesi », di «dialettica» e
via dicendo, che riescono tanto fastidiose quanto sarebbero, e
sono, quelle di «imperativo categorico», di«subordinazione
all'universale», di «rispetto all'Essere», allorché si tratta
d'inculcare a un impiegato l'osservanza dell'orario di ufficio; o
il vocabolo d' «intuizione» e di «conoscenza fantastica», allorché
si vuol dichiarare la propria stima o disistima per quattro
versucci o per un bozzettino. Altrimenti, si ha l'aria di scansare
le difficolta intrinseche col ricorrere alle formole generali; o,
quanto meno, si rischia di rendersi ridicoli, e rendere ridicoli,
mercè l'uso inopportuno, quei vocaboli solenni.
Si riserbi, dunque, il vocabolo di «superamento» ai dibattiti
circa la teoria del superamento; teoria malagevole, irta di
scogli, sparsa d'insidie, che meriterebbe di essere indagata con
ogni acume, e sulla quale, mi sembra, non si è lavorato
quanto si dovrebbe.
Peggio assai, perché non si tratta di semplice ridondanza,
improprietà e cattivo gusto linguistico, ma di errore concernente
pivi profondi valori spirituali, è l'atteggiamento del superatore.
Qui la ridondanza è ridondanza etica, la genericità è vanità, il
cattivo gusto è cattivo gusto morale. Il superamento non può
essere un fine che si persegua per se stesso; come non è un fine
la moralità in astratto, tantoché (come è ben noto) coloro che più
parlano di moralità, meno moralmente operano.
La moralità consiste nello sforzo d'ogni istante contro piccoli e
prosaici ostacoli, che costituiscono le sue stesse condizioni; e
l'uomo morale è così preso e impegnato in questa lotta particolare
che non sa, o dimentica affatto, che egli sta attuando la
moralità. Egualmente, la vittoria, nella sua generalità, non è il
fine del soldato: alla vittoria in astratto volge i suoi ardori il
miles gloriosus. Quando si leggono memorie di militari, che
narrano le battaglie realmente combattute, si vede, con
maraviglia, che coloro non cercavano la Vittoria, ma, per esempio,
di far tacere un pezzo di artiglieria postato sopra un'altura, o
di giungere a un pozzo dove le soldatesche si sarebbero alfine
dissetate. In altri termini, quel che importa è la soluzione del
problema che si ha innanzi, senza preoccuparsi se questa sembri
vecchia o nuova, senza proporsi di oltrepassare il già detto, ma
proponendosi soltanto di veder chiaro in quel problema. Si può
star sicuri che ogni verità, se è verità, è sempre nuova, perché
sempre conquistata con uno sforzo personale, che, essendo sempre
diverso, le conferisce una nuova forma e ne fa una nuova verità.
Coloro che verranno poi, dovendo narrare la storia dei tempi
nostri, e perciò introdurre certe espressioni empiriche
d'importanza, divideranno la serie delle verità in verità
originali e verità meno originali. Ma quale strana generosità
spinge le generazioni presenti (che hanno i loro ben definiti
compiti) ad addossarsi anche il lavoro, che gli storici futuri
dovranno eseguire, se ne varrà la pena, sull'opera alla quale esse
attendono ! A proporsi come fine quella che è una formola
generale, ossia il superamento per se stesso, c'è pericolo che non
si conquisti verità alcuna, né vecchia né nuova, e rimanga in
cambio il mero atteggiamento, e anzi il «gesto» del «superatore».
Il pericolo è tanto maggiore in quanto gli intellettuali italiani
di oggi sono quasi tutti, o per fatto loro proprio o per eredità
vicinissima, infetti della lue dannunziana, della quale si vanno
curando, ma che richiederà ancora energici trattamenti per essere
completamente espulsa dalle loro vene. E una delle manifestazioni
pertinaci di quel malanno è la sostituzione dei gesti alle azioni,
degli ampi atteggiamenti all'opera ristretta e modesta; e, nel
caso presente, dell'astratta velleità di superare al superare
effettivo, che si compie tacitamente, senza annunci e senza
proclamazioni, e, quasi direi, senza averne consapevolezza.
I
Ho letto una descrizione tristissima, disperata, delle condizioni
d'Italia. Una volta, letture di questa sorta mi davano mezze
giornate, giornate o settimane di umor nero. Ora non più:
esperienza, scienza e sdegno morale mi hanno, verso di esse,
fortificato. Esperienza: perché odo ormai da alcuni decenni, di
tratto in tratto, qualcuno o parecchi annunziare e dimostrare che
l'Italia sta per disgregarsi politicamente o fallire
economicamente o dissolversi nella corruttela o essere trascinata
in una guerra, che sarà la sua fine come Stato e come Nazione. E
nessuno dei disastri profetati è mai accaduto, e molti malanni
sono spariti (in cambio, è vero, ne è sorto qualcuno nuovo, ma ciò
è nell'ordine di natura); e, in complesso, non si sta peggio, e si
può dire persino che si sia progredito.
Scienza: perché ho appreso che quelle descrizioni pessimistiche
debbono di necessità essere esagerate e perciò false, essendo
metafisicamente impossibile che una società, anche per un istante,
si regga sull'irrazionalità e sul male: e se alcuno non riesce a
scorgere la legge razionale di una data configurazione
sociale, e se scorge soltanto il male o considera come male la
fenomenologia stessa del bene, dia la colpa a se medesimo, che ha
mente astratta e non concreta, meccanica e non organica (epperò
impotente a comprendere un organismo), analitica, ma di un'analisi
senza sintesi.
E, infine, sdegno morale; giacché esplorare spregiudicatamente e
affisare coraggiosamente i duri tratti della realtà per dominarla
e operare, è da uomo; ma stare a descrivere il sognato male, così,
per descriverlo e per ammazzare il tempo, o peggio ancora per
compiacersi di fronte ad esso della propria non meno sognata
superiorità, o, peggio di peggio, per trarne giustificazione ad
accomodarvisi (i pessimisti sono di solito accomodantisti), è da
pettegolo, da vanesio e da ciacco. Quella maldicenza è propria
della gente volgare, del borghesuccio ozioso; e non v'ha circolo
di perditempo in cui non si passino a rassegna gli orrori della
presente società e non si presagisca il finimondo.
In verità, a petto di codesti moralisti da caffè o da farmacia (e
degli scrittori che ad essi corrispondono), non c'è canaglia o
imbroglione o ladruncolo, che non s'irraggi di umana simpatia;
perché la canaglia, l'imbroglione e il ladro operano, s'ingegnano,
si destreggiano e rischiano la pelle o la libertà, e spesso dal
male che essi fanno nasce un bene inaspettato; laddove quei
moralisti oziano, e non possono ingenerare altro bene che lo
sdegno e la nausea, che suscitano, quando la suscitano. —
Ma da quando in qua non è più lecito effondere la propria
tristezza in presenza dei mali del mondo? — Sì, che è lecito, ma
al poeta, il quale, come disse un poeta-filosofo, «con la forma
cassa la materia», ossia la rende ideale; non già all'uomo
pratico, al quale condannare un fatto non è lecito senza
insieme aiutare il sorgere di un altro fatto che sostituisca il
primo (cbe è condannato giustamente soltanto quando è
sostituibile); e chi condanna a questo modo, non si può dire che
si compiaccia nel chiacchierare ozioso, perché egli, come può,
opera, e dunque, se opera, non è pessimista, ma ottimista.
II
Ho letto un articolo di letteratura o di «cultura», come ora li
chiamano, in un giornale politico; e vi si parlava della necessità
d'inaugurare una nuova epoca, di rompere i donimi, di promuovere
le eresie, di ribellarsi ai prossimi insegnamenti ricevuti, di
creare l'uomo nuovo: eccetera eccetera. Ma quali siano i dommi da
abbattere, quali le eresie da contrapporvi, quale il contenuto
della ribellione, dell'uomo nuovo, della nuova epoca, lo scrittore
non dice. E ha dimenticato la cosa più importante; a mo' di uno
che voglia ottenere un nuovo e grande successo industriale, ma si
sia scordato di procurarsi i capitali, che gli dovrebbero dare, se
mai, quel successo. In cambio, la più perfetta sicurezza nello
scrittore che tatto ciò che egli asserisce, accadrà o stia
accadendo: perché (egli osserva) come si può dubitare che la vita
intellettuale si esplichi in posizioni di dommi, in eresie e
ribellioni contro di essi, e nel sorgere di nuovi uomini e nel
formarsi di nuove epoche? Infatti: «Come se ne può dubitare?».
— Ma questo ingenuo interrogativo mi ha fatto scorgere di colpo
la genesi di quel discorso a vuoto, di cui avvertivo bensì il
vuoto, ma non vedevo dapprima in qual modo una mente ragionevole
avesse potuto formarlo. Gli storici, per narrare la storia, hanno
bisogno di certe categorie pratiche, che si chiamano il «vecchio»,
il «nuovo», l'«epoca», la «conservazione», la «rivoluzione», il
«domma», l' «eresia» e via discorrendo, con le quali classificano
i fatti che nella loro genuina realtà sono inclassificabili,
sempre nuovi. Non c'è niente da eccepire contro questo
procedimento naturalistico, di cui il narratore storico si vale
come di sussidio, e che traccia all'ingrosso il corso dei fatti.
Ma poiché quell'artifizio mentale è una legge del nostro
intelletto (intelletto astratto) e non già una legge (una
categoria efficiente) che regga i fatti, non si può valersi di
esso per determinare quel che sia da fare o da non fare. Certo,
può accadere qualcosa, di ancora ignoto, che lo storico
classificherà come ribellione benefica; ma quando accadrà? Chi lo
sa! Forse tra un anno, forse tra un secolo, forse tra un
millennio. E chi la compirà? e come si compirà? Chi lo sa! e chi
può saperlo, se è qualcosa di ancora irreale?
Insomma, il transitus,
la metabasi logica, commessa dall'articolista, è perfettamente
simile a quella di colui che da una legge di statistica,
constatante che, in un dato paese, 1 per 1000 delle donne si danno
al meretricio, volesse dedurre che dunque la donna A o la donna B
deve darsi al meretricio. Non è poi escluso che le donne di quel
paese, un bel giorno, si mettano d'accordo come in una commedia
aristofanesca, e, se non per virtù, per dispetto e capriccio,
facciano fallire la legge della Statistica. Alla quale non resterà
allora altro partito che mostrare buon viso a ottimo giuoco.
III
Ho letto un fascicolo di una rivista francese di giovani
monarchici. Bello, spiritoso, pungente, ricco di motti che
feriscono al segno. Il De Sanctis. descrivendo un'epoca storica,
dice che i giovani chiamavano i vecchi «pedanti», e i vecchi li
ricambiavano col nome di «ciarlatani»; e osserva che c'era del
vero nella taccia reciproca, perché il vecchio ha sempre del
pedantesco e il nuovo del ciarlatanesco, e il vizio di ciascun
indirizzo non rimane celato all'occhio acuto dell'avversario. I
«giovani monarchici» hanno l'occhio assai acuto nello scorgere il
difetto e il ridicolo della democrazia governante. Ma qual è poi
il difetto e il ridicolo del loro ideale, del loro programma di
restaurazione? Mi sembra evidente. Essi, nutrendo una vivace ma
vaga aspirazione verso un rinnovamento della vita francese
oppressa dal democratismo dei politicanti, e non sapendo dare a
quella loro aspirazione un contorno realisticamente determinato,
l'hanno tradotto in un «simbolo»: la vecchia Francia, con la sua
monarchia e con l'annessa letteratura classicistica, legislatore
Boileau. Che questo sia un simbolo, non v'ha dubbio alcuno, perché
il passato non si restaura; e, d'altra parte, la qualità di
simbolo giustifica l'aspirazione, perché un simbolo sta per ciò
che significa e non per la materialità del mezzo significante, e
qui la «vecchia Francia» serve a esprimere il bisogno di una
«Francia nuova», diversa così dalla vecchia come da quella
plasmata dai «principi dell'Ottantanove». Senonché i giovani
monarchici francesi, dimenticando il carattere simbolico del loro
ideale, l'intendono materialmente; e fanno come colui che, avendo
vagheggiato pittoricamente o scultoriamente la Virtù in figura di
una donna con bel profilo e belle chiome, nel punto di esercitare
la virtù vada in cerca del profilo e delle chiome.
Quando, nella loro rivista, m'imbatto in ragguagli circa
l'interessamento che prendono alle loro idee dame e gentiluomini
adorni dei nomi storici della nobiltà francese, l'idealità del
simbolo della «vecchia Francia» mi appare brutalmente violata.
Oimè, quelle «marchese»! oimè, quei visconti! Meglio Briand,
Millerand e Jaurès.
IV
Ho letto un articolo di giornale, molto critico, molto
scientifico, molto filosofico. Eppure, nonostante questo «molto»,
quell'articolo non è veramente scientifico, uè critico, né
filosofico. E non è neppure uno schietto articolo da giornale:
quel giornalismo (come dirò?), mi sembra troppo scientifico, ma
quella scienza troppo giornalistica. I signori professori
italiani, fornendo per anni e anni libri privi di ogni pensiero e
di ogni calore, hanno ingenerato come reazione una critica, una
storia e una filosofia giovanili, alla quale non manca ne calore
né pensieri, ma manca certamente il metodo della scienza.
Metodo che quelli, per loro conto, possedevano, ma come metodo
estrinseco, e perciò privo di pensiero e di calore. Gioverà far
intendere ai signori professori che la «scienza» non è l'astratto
metodo della scienza, e ai signori giornalisti, che la scienza
dev'essere metodo: bisogna promuovere una critica, una
storiografia, una filosofia esatte e pur vivaci, libere e caute,
in continuo progresso e pur sempre riguardose del passato. Questa
storiografia, questa critica, questa filosofia, si lasceranno a
destra e a sinistra, come due opposte degenerazioni, la pedanteria
e il dilettantismo. E anche il giornalismo si avvantaggerà di
questa netta distinzione; perché il giornalismo, nella sua idea,
non è, come alcuni credono e praticano, una critica, una filosofia
e una storiografia superspecializzate e rese amene dagli
spropositi, ma è ricerca della verità, osservazione e guida della
vita che quotidianamente si svolge, e, come ogni forma di ricerca
del vero, deve essere consapevole delle difficoltà e non prendere
d'assalto problemi pei quali non si b preparati, come non li
assalta lo scienziato serio, che conosce e pratica assai bene la
virtù dell'astensione, e si restringe assai spesso a proporre
dubitosamente le sue idee o ad eseguire certi lavori preparatori,
che, per sé presi, non concludono.
Certamente, come lo scienziato da tavolino è insidiato dalla
pedanteria, così il giornalista dal dilettantismo; ma è un'insidia
alla quale si può resistere, e non una necessità, alla quale si
debba soggiacere. Un articolo da giornale è leggiero, come un
libro di scienza è uggioso, non di loro natura, ma quando leggieri
e uggiosi sono i rispettivi autori. E, in verità, io non vedo
quale guadagno ci sarebbe a togliere, in Italia, la critica, la
filosofia e la storiografia di mano ai pedanti, se bisognasse poi
consegnarle nelle mani dei giornalisti dilettanti. 0 giovani
universitari, innalzate i vostri animi, nutrite le vostre menti e
coltivate la scienza nella sua integra natura, salvandola dai
dilettanti!
Diceva Garibaldi in un suo proclama all'esercito borbonico: «Io
preferisco di fare capitano un sergente, anziché un avvocato; e
colonnello un tenente, anziché un medico!». Insomma, anche
Garibaldi, che era Garibaldi, diffidava alquanto dei volontari e
non amava il dilettantismo.
1911.
«Per mio conto dichiaro di preferire a volte un discorso un po'
oscuro, in cui intravedo della polpa in fondo, della fosforescenza
vitale, ad un discorso troppo chiaro d'insufficienti formole».
Queste parole leggo nello scritto di un giovane, e mi pare
d'averne scritte di simili anch'io, e non una volta sola. Ma la
differenza è questa: che io le scrivevo non di me, ma di altri, e
che egli invece le riferisce a se medesimo, a proprio vanto o a
propria scusa. La differenza è assai importante. Dette di altri,
quelle parole esprimono un «giudizio storico»; nel quale, com'è
noto, non è lecito fermarsi alle deficienze o ai pregi di
un'opera, ma conviene determinarne il significato nella serie
storica: onde una confusione e oscurità attraverso cui si profili
un nuovo problema, o un errore che parzialmente affermi e faccia
valere un aspetto della verità, ha maggior valore di una verità
meccanicamente ripetuta, e già nota nei suoi tratti generici, e
che si presenti rielaborata soltanto in qualche particolare
secondario. Ma, dette di se medesimo, non ritengono più ufficio di
giudizio storico, sibbene di principio o di massima, con la quale
s'intende regolare e giustificare la propria vita intellettiva e
artistica. E, come principio e massima, quelle parole sono
(mi si perdoni la franchezza) uno sproposito.
Il dovere nostro non è l'oscurità, ma la luce; non la
torbidezza, ma la chiarezza. Che l'oscurità e la confusione
persistano di fatto nell'opera nostra, e che debbano esser poi più
o meno benignamente giudicate, e che sia talvolta da riconoscere
in esse (da altri o da noi medesimi, quando ci siamo fatti altri
da noi ossia quando siamo giunti alla luce e alla chiarezza)
vigorosi germi vitali; tutto questo va benissimo, ma appartiene a
un altro conto. Il dovere nostro rimane sempre quello: la ricerca
della chiarezza, la fuga dell'oscurità. Dante è, qua e là, oscuro?
Ma voleva esser chiaro, e perciò fu Dante. Kant è spesso
avviluppato, confuso e perplesso? Ma il suo sforzo era di spargere
luce sulla natura e i limiti del conoscere umano; e perciò fu
Kant.
Non ignoro che la confusione e l'oscurità hanno talvolta qualche
attrattiva pel nostro animo, perché si presentano come un tumulto,
un empito, una grande ricchezza di sentimenti e di motivi
intellettuali. Ma quella ricchezza non ha valore se non in quanto
si rassegna a impoverirsi, ossia si traduce in forme determinate
di pensieri e di arte; e da oro grezzo, che giace nelle viscere
della terra, da tesoro inaccessibile, guardato da spiriti
invidiosi, si cangia in oro coniato e circolante. E più volte
accade che l'oro, giacente nelle viscere della terra, si riconosca
per favola, e che quella ricchezza psichica si sveli nient'altro
che un'agitazione di nervi, uno scompiglio che ha interesse
soltanto per la nostra vita individuale, una promessa non
attenuta, una falsa gravidanza, una montagna che non partorisce
neppure un topo.
Per mia esperienza personale, ricordo di avere sofferto burrasche
di questa sorta; e allora mi sentivo anch' io ricco e
riboccante, forse assai più ricco e riboccante di come si sente
ora il mio giovane scrittore. E in quell'agitazione di spirito
vergavo nervosamente su foglietti e pezzetti di carta pensieri che
mi parevano profondissimi e nuovissimi, verità da me non mai prima
intravedute, o non mai cosi lucidamente vedute. Ma, ahimè!,
passata la burrasca, se per caso ritornavo su quei foglietti, nei
quali credevo di aver ammassato un tesoro, trovavo, con mia
mortificazione, pro thesauro carbones: quella farina
apparteneva al diavolo e se n'era andata in crusca. Non c'era da
cavarne nulla. Le proposizioni meno sciocche mi si dimostravano
tutt'al più cose comunissime, che avevano acquistato una
particolare efficacia personale nel mio caso personale. Ma vale la
pena di narrare le proprie debolezze personali, e quei «sogni» dei
quali l'autore del Galateo dice essere poca cortesia intrattenere
altrui? Se il fermento non ha prodotto né una pagina d'arte né una
formola di pensiero, è un fermento mal riuscito; e non se ne deve
parlare più.
— Tale non sembra, a dir vero, l'avviso di molti spasimanti
artisti odierni e di molti mistici-filosofanti. Ma questi artisti
e questi mistici mi somigliano, a dir vero, il personaggio di un
tedesco di una commedia italiana cinquecentesca; il quale,
sottraendosi all'adempimento di ogni dovere e partecipando a
qualsiasi poco lodevole operazione, si compiaceva tra sé e sé:
«Noi altri tedeschi avere gran privilege: fare quanto piacere a
nui, poi dire che stare imbriache». Fanno bruttezze orrende, e
dicono di essere ribelli; ragionano sconclusionando, e dicono di
essere mistici. Per mio conto, non mi lascio corbellare: non
ammiro.
Ma torno al mio giovane scrittore; e prendo da lui stesso un
esempio della vanità teoretica di certe burrasche psichiche.
perché egli, per effetto di talune sue personali impressioni, si
sente tratto a riaffermare, in certa misura, l'estetica del
«contenuto» contro l'estetica della forma, la «scala» delle
bellezze artistiche, e altrettali dottrine, che parevano ben
confutate e vantaggiosamente sostituite. E io non ho alcuna
istanza pregiudiziale da far valere contro codesta riaffermazione.
Mi è stato raccontato di un professore di diritto naturale, di non
so quale università di Germania, dottissimo, che aveva perduta la
facoltà di bocciare i giovani, perché, qualunque sproposito
uscisse loro di bocca agli esami, egli riconosceva che era una
dottrina «rappresentata nella letteratura». Una volta, uno
scolaro, alla domanda di definire il diritto naturale, rispose
netto: che il diritto naturale non esisteva. «Und auch das ist in der Literatur!», esclamò il pover'uomo, rassegnandosi.
Dunque, la tesi dell'estetica del contenuto, della scala delle
bellezze ecc., è «nella letteratura » ; e in quale e quanta
letteratura! Per non dir altro, in tutta l'estetica tedesca dalla
metà del Settecento alla fine dell'Ottocento: valga per tutte
l'opera del Vischer, dove il contenuto estetico è passato in
rassegna a parte a parte, definito nelle sue parti, graduato,
dialettizzato. E il primo torto del suo nuovo sostenitore mi
sembra, per l'appunto, di non essersi fatto carico di questa
grande e complicata tradizione, delle difficoltà in cui si è
travagliata e dell' interno processo di dissoluzione che ha
sofferto. Comunque, la tesi, che si vuol restaurare, conterrà una
«fosforescenza vitale», laddove l'altra che si osteggia sarà una
«forinola insufficiente». Ma quella fosforescenza vitale deve
diventare organismo sviluppato ed armonico, e cioè
«formola». e sia pure «formola sufficiente».
Finché rimane semplice «fosforescenza vitale», non si sa
che cosa farne; e, a ogni modo, non avrà, i denti e lo stomaco
capaci di addentare e digerire l'opposta teoria, che è una bestia
adulta. I pochi tentativi di «formolazione», che incontro nel
séguito del discorso del mio giovane scrittore, mi sembrano (e
domando di nuovo scusa della parola troppo franca) miserie. Che
un'opera d'arte, esprimente un determinato contenuto, non ci
appaghi in modo definitivo, anzi susciti il desiderio di altre
opere d'arte, non è nulla che possa recare stupore o formare
obiezione. Questa soddisfazione e insoddisfazione, questa sete
rinascente, è la storia, e cosi la storia dell'arte come di ogni
altra attività umana. Che una poesia si dichiari bellissima e nel
tempo stesso si dica che la cerchia della sua ispirazione è
angusta rispetto a quella di altre poesie, non è una contradizione
alla estetica della pura forma (= puro contenuto), ma una metafora
(più largo, meno largo sono concetti quantitativi) per
caratterizzare le varie opere artistiche e rilevarne le fisonomie
per mezzo di affinità e di contrasti. Si dice altresì che un uomo
è maggiore di un altro: ma la misura di questa grandezza non si è
ancora trovata; e in realtà gli uomini non sono maggiori o minori
l'uno dell'altro, ma diversi, adempienti a uffici diversi. Quanto
poi alla sentenza che per giudicare una nuova poesia sia
necessaria una nuova filosofia, io non vedo che cosa abbia da fare
con la questione che si dibatte; ma, poiché ve la trovo
introdotta, colgo l'opportunità per dichiarare che non mi semhra
vera. 0 meglio, è vera in questo senso, che ogni nuovo problema (e
una poesia nuova è un nuovo problema critico) importa un nuovo
atto di pensiero, e perciò un
nuovo pensiero, una
nuova filosofia (unità di filosofia e storia:
vedere Logica!); ma è
falsa quando, col pretesto che occorra una nuova filosofia per
giudicare, si rinunzia a giudicare; tanto varrebbe dire che, per
giudicare bisognando pensare, non si può giudicare perché non si
può pensare!
Confesso che provo un certo smarrimento innanzi alla imprecisione
con la quale si sogliono ora presentare i concetti fondamentali e
alla conseguente facilità di scambiare i termini delle questioni;
e mi pare di aver avuto ragione quando, anni addietro, consigliavo
qualche esercitazione di scolastica per rieducare le menti al
rigore della disputa filosofica.
In ultimo, leggo una distinzione tra l'estetica che è propria dei
creatori (p. e. del mio avversario), e quella dei non creatori (la
mia). Ma qui protesto. Non intendo riconoscere a nessun uomo
individuo, e a nessun particolare gruppo d'uomini il privilegio di
creatore. Tutti siamo creatori, perché tutti siamo esseri
intelligenti e senzienti e fantasticanti e operanti. perché ho
voluto togliere in esame codeste ineptiae? Perché vedo che da qualche tempo in
qua i giovani italiani (anche taluno di quelli che potrebbero fare
assai di meglio, e hanno dato prova di saper far di meglio, come
per l'appunto lo scrittore che mi ha dato occasione a esporre
questi pensieri) si trastullano con quei balocchi, e insieme
stimano che non siano balocchi, ma cose gravi e quasi tragiche;
carezzano la loro immaturità mentale e credono di abbracciare il
Cosmo, di celebrare i misteri dell'Assoluto, di avere scorto il
volto della Dea, invisibile ai profani. Eppure, c'è tanto da fare
al mondo, e tanto di serio da fare segnatamente nella nostra
Italia. Ce n'est pas ainsì que
l'on se bat, diceva il maresciallo Bazaine. Non è così
che si lavora.
A che cosa mena lo zelo che si manifesta ora da un capo all'altro
d'Italia di fondare società e circoli, di promuovere conferenze e
discussioni, d'indire congressi filosofici? Certamente, come la
filosofia si avvantaggia di un più attivo scambio con la vita
sociale, che le impedisce di degenerare in arida, indifferente e
arretrata trattazione scolastica, così tutta la vita sociale ha
bisogno di venire rischiarata dalla filosofia, che le impedisce di
procedere a caso e nel buio. Ma la filosofia, nel tradursi in
valore sociale, perde il suo carattere di filosofia; da problema
si cangia in risultato, da dubbio metodico in fede. Non c'è niente
di deplorevole in questo cangiamento, perché sebbene il risultato
e la fede possano dar luogo (e diano luogo infatti) al preconcetto
e al pregiudizio, e rendano perciò necessaria in futuro una
ripristinazione del problema e del dubbio e una ritrasformazione
della fede in filosofia, e cioè un riesame filosofico, — senza il
momento della fede, ossia della coscienza che si sente illuminata
e sicura, la vita pratica sarebbe impossibile, e la vita stessa
del pensiero mancherebbe di uno dei suoi elementi dialettici e
vitali.
Chi considera la storia della civiltà umana, osserva di
continuo il trapasso del pensiero in fede, in azione, in
pregiudizio, in scetticismo, e in nuovo pensiero, nuova fede, e
via discorrendo. Ora, se la cosa sta così, è evidente che per
ottenere la fertilizzazione filolofica della vita italiana non c'è
altro mezzo che di produrre buona e alta e seria filosofia: la
quale è stata e sarà sempre opera di pochi. e dai pochi passa nei
molti, non già come si manifesta in quei pochi, quasi torrente
turbinoso, ma in tanti placidi canaletti filiformi, appena
visibili.
— Volete divulgare davvero la filosofia? Pensate alla filosofia,
e non a divulgarla. — Ecco la forma paradossale nella quale si
potrebbe chiudere l'ammonimento che discende dalla natura del
processo ricordato.
Invece società, circoli, conferenze, discussioni, congressi sono
di solito dominati da questo erroneo concerto: che si giovi alla
filosofia col chiamare al lavoro della produzione di essa gl'
incompetenti e i dilettanti, e con l'invitare ad assistere ai suoi
dibattiti, alle faccende di casa sua, gli estranei svogliati o
malamente curiosi. Chi gode di ciò. sono i vanesi, gli arrivisti e
i reclamisti, che infatti sogliono spendere in quelle istituzioni
e manifestazioni, nelle chiacchiere e nelle parate, il tempo e le
forze che non sanno porre a servigio della filosofia col meditarne
i problemi e contribuire al suo progresso. Ma gli altri non pochi,
che si mettono a quelle opere con oneste intenzioni, dovrebbero, a
mio parere, ripensare su ciò che hanno preso a fare, perché,
forse, finirebbero di riconoscere che corrono illusi per una china
pericolosa, «imagini di ben seguendo false».
La principale, e quanto mai ingenua, di queste false immagini di
bene e che si possa, per mezzo di quei convegni, svegliare
negli afilosofì la coscienza filosofica, o produrre un certo
accordo tra le diverse vedute sopra la filosofia. Tale
risvegliamento di coscienza e tale accordo sono, senza dubbio,
cose assai pregevoli, e per nulla impossibili, tanto che si vedono
accadere nel fatto e non di rado. Ma il primo accade per un
processo interiore, in conseguenza di dubbi che si vanno acuendo o
moltiplicando e di un angoscioso tormento dell'anima, per virtù
del quale si è a poco a poco sollevati dalle proposizioni della
scienza, dalle credenze religiose o dalle contrastanti effusioni
dell'arte alla cerchia del pensiero filosofico; e il secondo, per
un processo parimenti interiore, onde dalla recisa antitesi delle
nostre idee verso le idee degli avversari, dalla semplice
negazione di queste, si giunge a dominare pienamente, e perciò a
giustificare e collocare al loro posto, le idee avverse, che, così
collocate e dominate, svelano un volto amico.
Sono lotte che bisogna combattere tacitamente tra sé e sé, che
solo nel silenzio si risolvono, e che nel corso del loro
svolgimento prendono sembiante di malattia e suscitano quel
ritegno di pudore o di vergogna, che è proprio delle malattie.
Come aspettare dunque che si possa esteriorizzarle e combatterle
alla gran luce e tra il frastuono dei periodi oratori, per opera
di gente che, appunto perché accetta quella luce e quei rumori,
non ha, o non ha più, disposizione alcuna filosofica? di gente
che, ignorante e leggiera, dà a credere, e si dà a credere, di
essere sapiente e sopraffina? di gente orgogliosa, che non ha
forse mai sentito la benefica coscienza della propria impotenza e
nullità? di avvocati, che vengono a sostenere e a tentar di far
valere le loro opinioni o i loro capricci?
Augurare a quei ciechi di spirito, a quegli ottusi di mente
qualche sventura (beninteso, qualche sventura psicologica), è la
sola cosa che la carità cristiana possa consigliare: quella
sventura forse li scuoterà e li renderà pensosi. Ma non mi sembra
caritatevole inorgoglirli peggio, con l'ammetterli all'onore
dell'ascoltazione e della discussione, e peggio imbaldanzirli coi
trionfi oratori che la facile parlantina (che non manca mai ai
poco-pensanti), può loro procurare, opprimendo il contradittore
sotto la valanga delle loro parole, o lasciandolo interdetto
innanzi alla quasi grandiosa esplosione dei loro spropositi.
L'altra fallace immagine di bene consiste nella speranza di una
collaborazione di molti, e sia pure diversi spiriti, a pro della
filosofia: speranza alimentata dal modellamento che si fa delle
istituzioni filosofiche su quelle che producono buoni frutti in
altri ordini di studi. Se ci sono, p. e., società storiche, nelle
quali si riuniscono e collaborano uomini di assai disuguale
livello mentale, perché (si pensa) non possono esservi società
filosofiche con simile composizione e simili risultati? Ma
l'analogia è affatto errata.
Chi ha preso parte alla vita di una società storica, sa come la
produzione di un alto e complesso lavoro storico possa essere
aiutata e ricevere elementi e arricchimenti dall'erudito locale
che indica una tradizione o un monumento poco noto, dal curioso
che apporta l'aneddoto pescato nel libro recondito, dal
collezionista che offre una rara stampa, dal topo di biblioteca e
di archivio che scopre una filza o un codice, dal gentiluomo
araldista che guida nei laberinti di una complicata genealogia e
cronologia, e via discorrendo: ossia da individui che,
singolarmente e collettivamente, saranno forse incapaci
d'intendere le questioni che si agitano nel lavoro storico, al
quale pure collaborano validamente.
Ma la collaborazione filosofica è possibile solo tra coloro che
abbiano raggiunto il punto di vista 1 filosofico; rimanendo
escluse da essa le menti che si sono soffermate a punti di vista
inferiori, a quelli cioè che si ottengono col dare valore
filosofico ad altri atteggiamenti dello spirito, diversi dal puro
pensiero. Si sa che il matematico, che non si appaga della
matematica e tuttavia non riesce a sorpassarla, concepisce una
filosofia matematica; il naturalista, una filosofia naturalistica;
il poeta, una filosofia poetica, e via discorrendo; e nessuno di
essi una filosofia, come dev'essere ed è naturale che sia,
filosofica. Quale collaborazione può venire da codesti entomati in
difetto? Si dirà che essi, per quanto in difetto, sono entomati,
forse future farfalle; e che i loro scritti e le loro parole
rappresentano il principio dell'apprendimento filosofico. Appunto:
quale giovamento possono dare a una società di dotti i quaderni di
esercitazione degli alunni delle classi elementari?
Lo storico tratta coloro che gli porgono gl'istrumenti e i
materiali della storia come fratelli operai, subordinati ma
fratelli; il filosofo è costretto a pregare quegli altri a fare il
favore di star zitti e non disturbarlo. È collaborazione codesta?
Anche fuori dei circoli filosofici, accade di frequente, a chi
studi filosofia, d'incontrare medici, agrimensori, ragionieri,
zoologi, botanici, fisici, filologi, e altre rispettabili persone,
che sentono il bisogno, non appena hanno appreso il mestiere
dell'altro, di dichiarargli, senza esserne richiesti, che essi
«non ammettono la filosofia», o l'ammettono così e così fatta, o
la desiderano per isvago in certi momenti della vita o in certi
momenti della giornata, e specie la sera quando vanno a letto per
prender sonno.
E poiché la buona educazione comanda la cortesia, e poiché non è
il caso di mobilitare le forze dello sdegno a ogni tocco di mosca
o puntura di zanzara, lo studioso di filosofia, che riceve il
dono di quelle dichiarazioni, se la cava per lo più con una
barzelletta o col dichiararsi a sua volta perfettamente d'accordo
con l'onorevole interlocutore. Ma è troppo domandare che egli
debba deliberatamente promuovere e aiutare accolte di siffatti
seccatori, ed esporsi a un più intenso e più continuo martirio da
parte di essi congregati e alleati ed aizzati e inorgogliti. Ho
detto «seccatori», e domando scusa; ma, in realtà, la parola è
propria, se è esatta (a me pare addirittura lapidaria e classica)
la definizione del «seccatore», che ho letta una volta in un
manoscritto del secolo decimottavo, attribuita a Gianvincenzo
Gravina: «Colui che toglie la solitudine e non da la compagnia». E
certo che quei soci afilosofi, se non danno la
compagnia, tolgono la cara
solitudine.
Ci sarebbe un modo di rendere utili i circoli e le società
filosofiche, e sarebbe per l'appunto di trasformarli in circoli e
società di storia della filosofia, nelle quali, come nelle altre
società storiche, anche i non filosofi potrebbero rendere
utilissimi servigi per la biografia, la bibliografia, le edizioni
e le illustrazioni letterarie delle opere dei filosofi; e,
finanche, per certe esposizioni e rendiconti un po' estrinseci
delle dottrine e dei sistemi. Ma, se si tentasse questa
trasformazione, quei convegni si sfollerebbero rapidamente, perché
ne partirebbero tutti i dilettanti naturalisti e matematici e
tutte le anime belle, che ora ne fanno parte, e che niente
aborrono tanto quanto il prendere tra mano i libri dei filosofi. E
poi, coloro vanno di solito a quei circoli per cercare svago dai
loro propri studi, o per sostituire uno svago all'altro; e lo
scopo fallirebbe, se là dentro fossero costretti a lavorare. Utili
sono presentemente i circoli e le società filosofiche solo in
quanto raccolgono, e quelli di essi che raccolgono, speciali
biblioteche e facilitano la lettura e lo studio coi prestiti e
pubblicano cataloghi e annunziano libri nuovi e se li procurano
più rapidamente che le biblioteche non speciali. Utili altresì in
quanto offrono liberi corsi di lezioni o agevolano la stampa di
opere filosofiche; — ma inutilissimi e, per quel che mi sembra,
dannosi, come luoghi di rane e vanitose discussioni «sociali».
E se alcuna rara volta ne esce, anche per questo rispetto,
qualcosa di buono, sarà effetto di puro caso, ma non è un fine che
si possa sperare, con quei mezzi, di perseguire e raggiungere.
1912.
Un valoroso scrittore italiano (al quale con le molte lodi che
merita abbiamo rivolto insieme alcune osservazioni circa il modo
in cui egli intende il metodo e il valore della filosofia), in una
sua risposta inserita in un giornale letterario, è uscito a
parlare di «critica regionalistica». Queste parole fanno torto a
chi lo ha scritte; ma io non v' insisterò sopra più che tanto,
considerandole come effetto di un moto di malumore, di quelli ai
quali anche persone egregie talvolta si lasciano andare, quando
l'amor proprio è in giuoco. Senonchè, essendomi capitato, qualche
giorno dopo, di leggere una frase di simile suono in un periodico
di erudizione, e al «regionalismo» essendosi accennato l'anno
scorso nella polemica suscitata dal mio giudizio sulle poesie del
Pascoli, io, al mio solito, voglio procurare di cavare dal male un
qualche bene, e farò alcune osservazioni generali intorno a
codeste accuse di regionalismo, che, mi sembra, dovrebbero sparire
affatto dalle discussioni serie tra persone serie.
Perché, che cosa è mai il regionalismo? La tendenza (come tutti
sanno) a far valere, nel mondo teoretico o nel mondo pratico, le
cose della propria regione, non per quel valore che veramente
hanno, ma per un altro, esagerato e falso, che arbitrariamente,
per non legittimi interessi, loro si attribuisce. Nel mondo
pratico, dunque, è una delle tante forme in cui si manifesta
l'egoismo, l'avidità, la prepotenza, l'ingiustizia, la meschinità
morale; nel mondo teoretico, è una delle tante forme, in cui si
manifesta l'angustia, la piccineria, la meschinità intellettuale.
Ampliate il regionalismo fino allo chauvinisme nazionale o, se vi
piace, europeo, e al fanatismo di razza, ovvero restringetelo fino
al municipalismo, anzi al campanilismo: sostanzialmente, esso non
muta: è sempre ingiustizia e angustia mentale. E non vi attentate
a cercar di renderlo amabile e degno di venia, anzi di simpatia.
Si può amare nel modo più tenero la propria patria, la propria
città, il proprio campanile: sentir la nostalgia di quel
paesaggio, di quelle strade, di quelle case: come Socrate,
vantarsi di non esser mai usciti da Atene; e con ciò non si è
regionalisti. Il regionalismo si ha solo con quella caratteristica
dell'ingiustizia e della meschinità mentale: ed è perciò, sempre,
biasimevole e disamabile. Come il regionalismo non è l'amore della
propria terra, così non si deve confondere con l'attivo occuparsi
delle cose del proprio paese, della propria regione, della propria
città, del proprio villaggio. Ognuno di noi è fatto nascere da
madre natura, o è sbalestrato dalla fortuna, in un punto
determinato della superficie terrestre; e in quel punto, e non in
un altro in cui possa trasportarsi con l'immaginazione, deve
disporre la sua vita di uomo e compiere i suoi doveri.
È evidente che sarebbe nient'altro che un espediente da gente
pigra il darsi ambascia per le condizioni delle finanze
giapponesi, quando si è in Italia e c'è da pensare alle finanze
italiane; o, essendo cittadino di Firenze, stare a vigilare,
anziché il bilancio comunale della città del Battista,
quello della città di sant'Ambrogio. E, per limitarci al mondo
teoretico, ossia agli studi letterari e storici, è evidente che un
napoletano farà assai bene a mettere in luce le notizie e i
documenti che si serbano a Napoli, e a promuovere la conoscenza e
la stima delle cose napoletane, delle quali egli può avere più
diretta e precisa conoscenza che non altri di altri luoghi ;
aspettando che lo stesso facciano, per le cose ad essi prossime, i
colleghi delle altre regioni d'Italia. Se io, p. e., ho curato per
la stampa gli scritti del De Sanctis o di Silvio Spaventa o dell'
Imbriani o del Labriola, anziché quelli del Rosmini o del
Confalonieri o del Tommaseo, non è certo per poca o per inferiore
stima ch'io abbia del Rosmini, del Confalonieri o del Tommaseo; ma
semplicemente perché dei primi, vivendo io qui a Napoli, conoscevo
le circostanze di vita e le relazioni di famiglia e di amicizie, e
ho potuto procacciarmi le carte occorrenti; laddove nessuno mi ha
affidato le carte del Rosmini, del Confalonieri o del Tommaseo,
che hanno già, in altre regioni, chi provvede ottimamente ad esse.
«Paese che vai, storia che trovi»: mi diceva, tanti anni fa, un
mio erudito amico meridionale, che, trasferito in Lombardia, si
mutò in attivissimo investigatore della storia viscontea.Date
queste definizioni e fatte queste distinzioni, che ho visto di
frequente trascurate, io mi domando se ci sia senso comune, quando
si tratta di esaminare un pensiero filosofico, un giudizio
critico, un racconto storico, nel tirar faori il «regionalismo. E
andare insinuando, per esempio: — il tal dei tali loda i romanzi
del Fogazzaro; è naturale: il critico è veneto. — Ovvero: — il tal
altro difende la critica del De Sanctis; e naturale: egli è
napoletano. — Nel campo degli studi, quei giudizi debbono
essere esaminati intrinsecamente, per determinare se sono veri o
se sono falsi, o in qual parte veri o in qual parte falsi. E, se
sono veri, essi non avranno mai altro fondamento e motivo che la
verità stessa; e, se sono falsi, qualche motivo estraneo, senza
dubbio, deve aver operato a renderli tali; e tra le infinite
possibilità di codesti motivi — la fretta, l'arroganza, la
naturale malignità del temperamento, la smania di farsi nome, la
distrazione, e via discorrendo, — ci potrà essere anche, in
qualche caso, l'ingiustizia e la meschinità del «regionalismo».
Ma, lasciando stare che il vero e preciso motivo psicologico che
ha indotto all'errore è, di solito, in questi casi, di poco
interesse; lasciando stare anche che la ricerca ne è, di solito,
difficilissima, dovendosi appurare condizioni, contingenze e
intenti d'indole strettamente personale; lasciando stare, infine,
che lo sbaglio, che si commetta in tale indagine, assume un
carattere particolarmente odioso (ragioni tutte, che consigliano a
molta discretezza); — è chiaro che tale ricerca non può precedere,
né deve sostituirsi all'altra sul valore intrinseco di quel
giudizio. Altrimenti, non c'intenderemo più. Diventeremo peggio
che ragazzi, litiganti a scuola.
Per mio conto, neppure a un cittadino di Arezzo, che asseverasse
che il Guadagnoli è un fine poeta, mi permetterei di rispondere,
che ciò dipende dall'essere il Guadagnoli aretino; ma cercherei di
provargli, col volume delle poesie del Guadagnoli alla mano, che
un fine poeta quegli non è. Se mi appigliassi a quella gratuita
accusa, invece di provare in re
la falsità del giudizio, farei legittimamente supporre di non aver
la ragione da mia parte, o, almeno, di non saperla esporre. E
perciò — mi scusino gli egregi uomini, che hanno dato occasione a
questa noterella, — sempre che essi a proposito di qualche
nostro giudizio, che loro dispiacerà, avranno il pessimo gusto di
tirare in campo il «regionalismo», io non starò a disputare più
oltre; non solo perché non mi diletta il pettegolezzo (e questo
del regionalismo è dei più stupidi), ma perché, in quelle stesse
loro parole, vedrò la non dubbia prova, che essi medesimi non
ripongono nessuna fiducia nelle cause, che vorrebbero difendere.
1908
I LA «MENTALITÀ MASSONICA ».
— Che cosa pensa Lei del trionfo ottenuto dal riformismo
nell'ultimo congresso socialistico italiano? — Perché Lei domanda
proprio a me che cosa si debba pensare del recente congresso
socialistico e del suo riformismo? Forse perché ho mandato qualche
settimana fa una lettera a un giornale a proposito dell'unione e
confusione di socialismo e massoneria? Ma badi che nello scrivere
quella lettera io ero sotto l'impero di preoccupazioni che poco o
punto concernevano il socialismo italiano, o il socialismo in
genere. Io pensavo invece ai danni che può fare e sta facendo allo
spirito italiano il diffondersi della mentalità massonica. Il
socialismo massonizzato era dunque, per me, nient'altro che un
esempio di questa efficacia non benefica.
— Ma Lei ha scritto negli anni passati molti saggi di critica
marxistica; ha avuto parte non piccola nella così detta «crisi del
socialismo», per quello almeno che riguarda il sistema delle idee
scientifiche; anche di recente ha contentato le idee del Sorel.
Può dirmi dunque quale giudizio fa dell'atteggiamento
presente del socialismo in Italia?
— Non posso dirle nulla che valga la pena di esser detto, perché
non sono informato, come sento che dovrei essere, per parlare di
questo argomento dal lato pratico e politico. Potrei discorrere
con lei sul socialismo e sul riformismo in genere, e sulla loro
fondamentale diversità; ricordare che cosa fu il socialismo nella
sua idea originaria, e cioè il sogno di una rigenerazione
integrale della società umana sulla base del lavoro; e ribadire
cosi che il riformismo non è punto socialismo, ma semplice
radicalismo. Tutti codesti per altro sarebbero discorsi
accademici, cose generali e niente affatto nuove, perché gliele
potrebbe dire tali e quali chiunque conosca la genesi del
socialismo moderno; e si trovano stampate in molti libri.
— In tal caso, passo all'altro termine del suo paragone: a quella
che Ella chiama «mentalità massonica». Vuol dirmi perché la
massoneria le desta tanto sospetto?
— Non ho parlato di massoneria, ma di mentalità massonica. Conosco
poco le faccende della massoneria; ascolto i vanti che questa
istituzione fa della sua grande e salutare efficacia; ascolto le
atroci accuse che le lanciano contro gli avversari, i quali le
attribuiscono tutte le iniquità e tutti gli imbrogli della odierna
vita italiana. E sono disposto a credere che vanti e accuse sieno
egualmente esagerati; e che la massoneria, come tante altre
istituzioni, non debba essere in Italia organizzata troppo
saldamente né per il bene né per il male (in Italia, soleva dire
il povero prof. Labriola, mancano cosi gli uomini dell'ordine come
gli uomini del disordine!); e che, in fondo, anche in essa gli
individui si conducano secondo le loro particolari tendenze.
Comunque, lascio da parte tale questione, perché, essendo lontano
dalle lotte pratiche, mi è malagevole giudicarne. Ma, quanto alla
mentalità massonica, è un altro conto. La conosco bene, e vi
prendo molto interesse, perché mi tocca come uomo di studi, e vedo
in essa un serio pericolo per la cultura italiana. È una mentalità
che chiamo a quel modo, perché prevalente nella massoneria e
tradizionalmente propria di quella istituzione; ma non escludo,
s'intende bene, che appartenga altresì a molti che non sono
massoni, o che alcuni massoni ne possano, individualmente, essere
più o meno liberi.
— Ma in che cosa fa Lei propriamente consistere ciò che chiama
«mentalità massonica»?
— Nell'astrattismo e nel semplicismo. La mentalità massonica
semplifica tutto: la storia che è complicata, la filosofia che è
difficile, la scienza che non si presta a conclusioni recise, la
morale che è ricca di ansie e di contrasti. Essa passa su tutte
queste cose trionfalmente, in nome della ragione, della libertà,
della umanità, della fratellanza, della tolleranza. E, con codeste
astrazioni, si argomenta di distinguere a colpo d'occhio il bene
dal male, e viene classificando fatti e uomini per segni esteriori
e per formolo. Cultura ottima per commercianti, piccoli
professionisti, maestri elementari, avvocati, mediconzoli, perché
cultura a buon mercato; ma perciò stesso pessima per chi deve
approfondire i problemi dello spirito, della società, della
realtà. E pessima non solo mentalmente, ma anche moralmente. Negli
ingenui, quell'indirizzo mentale resta un'ingenuità, che può
riuscire perfino commovente. Ma gli ingenui sono i pochi ed i più
sono i furbi; e questi, alle prese con la realtà, così diversa
dalle loro astrazioni, transigono pur di serbare le
forinole, cioè cadono nella ipocrisia, che è repugnante.
— Ma da quali fatti Ella desume questi caratteri della mentalità
massonica?
— Prima di tutto, dalla sua storia. La mentalità massonica
si chiamò nel secolo decimottavo enciclopedismo e giacobinismo, e
l'Italia fece già triste esperienza degli effetti di essa, alla
fine di quel secolo, al tempo dell' invasione francese e delle
repubbliche italo-francesi, quando apparve in tutta la sua
brutalità il contrasto tra le massime democratico-umanitarie, e
coloro che le predicavano, o le popolazioni alle quali erano
predicate. Vincenzo Cuoco, che aveva partecipato all'eroica
Repubblica napoletana del 1790, fece nel suo stupendo Saggio
storico la confessione dell'errore fondamentale che si era
commesso nell'abbandonare il cauto indirizzo scientifico e
politico italiano per quello francese. Si può dire che tutto il
moto del risorgimento italiano si sia svolto come reazione a
quell'indirizzo francese, giacobino, massonico. L'idea stessa
dell'unità italiana nacque come motto d'ordine contro l'universale
abbracciamento predicato dai francesi, e del quale si era vista la
prosaica realtà nelle ruberie, devastazioni e oppressioni compiute
dai generali e commissari dei loro eserciti. In letteratura, in
filosofia, in politica, il secolo decimonono, anche in Italia, fu
caratterizzato dall'anti-intellettualismo, dall'anti-astrattismo,
dall'anti-francesismo. Sembra impossibile che ai principi del
secolo ventesimo, per imitazione della Francia, venga importato di
nuovo presso di noi un malanno, che avevamo sofferto più di un
secolo addietro e del quale, dopo una violenta malattia, ci
eravamo risanati.
— Ma dove sono i segni del male ai giorni nostri?
— Basta guardare intorno a sé, e in se stessi. Abbiamo da
capo un anticlericalismo parolaio, che non vieta poi nel campo dei
fatti l'intesa coi preti e coi loro interessi. Agitiamo vanamente
il problema della scuola, guidati da idee superficialissime circa
l'educazione e con la pretesa di arredare o foggiare le menti in
modo rapido e con effetti di pronta ed imminente utilità. Parliamo
sul serio della laicità dello stato e della scuola, come se il
vuoto potesse rappresentare un contenuto. L'ignoranza e la
rozzezza ci minacciano. Non Le sembra, per dare un piccolo
esempio, una prova dell'una e dell'altra la celebrazione di
Francisco Ferrer, e l'intitolazione al suo nome di strade delle
gloriose città italiane, senza che nessuno si sia domandato che
uomo fosse colui e quale livello mentale rappresentasse? È stato
fucilato: anch'io mi commossi e, creda pure, quasi piansi allorché
apersi il giornale che ne portava la notizia; ma non mi sembra che
la pietà che suscita l'uccisione di un uomo per ragioni politiche
basti a trasformarlo in un Giordano Bruno. Vero è che, in cambio,
Giordano Bruno, pei massoni, è diventato una sorta di Francisco
Ferrer! Se da alcuni uomini di buona volontà non si facesse
resistenza con tutte le forze, si riavrebbe tra non molto in
Italia una filosofia profonda come quella di Ernesto Haeckel, e
una critica letteraria da pareggiare in finezza quella di Max
Nordau. Per discrezione, mi valgo, come vede, di nomi stranieri.
— Ella dunque è avversa all'anticlericalismo?
— Se il mondo potesse progredire col chiamare a raccolta una
frotta d'ignoranti a gridare contro i preti; se un'associazione di
«Atei», che ho visto litigare per prender parte a qualche funerale
di uomini politici, e che sventolava una bandiera nera con
l'ateismo ricamato in argento, potesse essere composta di uomini
dalle facce meno balorde di quelle che io ho ancora innanzi agli
occhi; tutti adotteremmo quei metodi sbrigativi, e il progresso
sarebbe cosa assai facile. Ma il vero anticlericalismo si fa coi
fatti e non con le parole, eoi fatti e non coi gesti; si fa,
sostituendo verità più alte alle verità che la Chiesa ha serbate e
diffonde, opere più degne a quelle che la Chiesa promuove; e,
quando non si è in grado di far meglio, rispettando anche la
religione e la Chiesa, e lasciando che operino dove noi non
possiamo operare; e questo per l'appunto (non dispiaccia ai
massoni) era l'avviso di Giordano Bruno.
La fatica del fare è così aspra, che passa la voglia di stare a
vociare; così irta di difficoltà, che si finisce col diventare, in
qualche modo, tolleranti verso i cattolici, e perfino verso i
preti, quando, pur nella diversità delle forme, sentiamo che il
loro cuore batte col nostro.
— Eppure, a proposito di cattolici, Ella non ha avuto un
atteggiamento benevolo verso il modernismo religioso. Ha forse
temperato, ora, le sue opinioni in proposito?
— No, anzi le ho rese sempre più recise. Credo che il modernismo
sia in pochissimi casi una condizione di dolorosa e
rispettabilissima perplessità di alcuni animi di nobile tempra, in
cui lottano la fede e il pensiero. In altri casi più numerosi, è
un dilettantismo tra filosofico e religioso (epperò, non vera
filosofia né vera religione), esercitato da perditempo, che
chiacchierano di questi argomenti per moda e celebrano i loro riti
in quei templi che sono i caffè. E, nei restanti casi, è un
tentativo poco scrupoloso di pretacei e fratacci miscredenti e
disonesti, per restare dentro la Chiesa e goderne i vantaggi
economici o volgerne ai loro scopi il potere. Di
questi tre elementi del modernismo, solo il primo merita simpatia,
e nessuno dei tre ha importanza filosofica.
— Ma crede Ella che si possa considerare il modernismo dal solo
punto di vista filosofico? Non è esso altresì un movimento
praticamente efficace? La Chiesa cattolica, con rescindere da sé
la parte più intelligente e più modernamente educata del clero e
dei cattolici, non si depaupera sempre più?
— Codesto depauperamento non è tanto efletto del modernismo quanto
del mondo moderno, che corrode da ogni parte la Chiesa cattolica,
la quale a questo modo forse si avvia a diventare, a poco per
volta, una superstizione popolare, come il paganesimo nei suoi
ultimi tempi. Ma per ora la Chiesa, col liberarsi dei modernisti,
si è liberata di gente infida, e ciò non indebolisce ma rafforza
le istituzioni. ù— Lei mi ha chiarito le ragioni della sua
avversione alla mentalità massonica. Vorrebbe dirmi, venendo
all'altro termine del paragone, perché ha voluto richiamare
l'attenzione sui danni che il socialismo riceve dalla massoneria?
— Gliel'ho già detto. perché il massonizzamento del socialismo,
che era cosi opposto alla massoneria di origini e di tendenze,
nato dalla filosofia hegeliana, nutrito di realtà storica,
violento, sarcastico, avverso ai sentimentalismi e alle
fratellanze, mi è parso un caso tipico ed estremo dell'invasione
mentale massonica, della quale Dio guardi e liberi me, Lei e
l'Italia. — E a proposito: non manchi di avvertire che
quest'ultima frase è un modo di dire, perché c'è caso che, con la
consueta profondità e finezza massonica, mi si accusi di aver dato
termine al colloquio con l'invitarla a recitare una giaculatoria!
Cosi come, avendo io, in un mio libro di filosofia, sostenuto
l'eternità ideale della Santa Inquisizione, sono stato, e sono
ancora quotidianamente, accusato dai massoni di voler ristabilire
niente meno che i roghi! E dire che, nello scrivere quelle pagine,
io provavo un gran gusto anticipato a immaginare che coloro mi
avrebbero inteso appunto a quel modo, e si sarebbero terribilmente
stizziti. perché, l'altra ipotesi, che essi si sarebbero dati la
pena di capire una questione scientifica, non ini venne neppure in
mente. Sapevo bene che la cosa non era nelle loro consuetudini.
— Sicché Ella è molto pessimista circa l'avvenire della cultura
italiana?
— Niente affatto. Sono piuttosto ottimista, perché ho grande fede
nel buon senso e nell'equilibrio dello spirito italiano. Se
bisognerà soffrire una nuova invasione di astrattismo alla
francese, ebbene, pazienza! Ci libereremo di questa epidemia, come
abbiamo fatto del colèra, che ci ha rivisitati quest'anno.
novembre
1910.
II. LA MORTE DEI. SOCIALISMO.
— ... II socialismo? Credo che sia morto. E credo che
converrebbe annunciarne solennemente la morte, non foss'altro per
impedire a tanti ciarlatani di far le finte di crederlo ancora
vivo e vegeto, e per togliere molte brave persone dal penoso
impaccio in cui si trovano, o di rendersi colpevoli d'ipocrisia,
simulando una fede che non è più nei loro animi, o, se non si
acconciano a questa ipocrisia, di essere accusate come fedifraghe.
perché questo timore? Tutte le cose muoiono, e il socialismo solo
avrebbe il privilegio, o la disgrazia, di non poter morire?
— Parla sul serio o vuole scherzare?
— Parlo sul serio. Non mi piace scherzare sulle cose che ho preso
una volta sul serio, e che perciò, per me, sono serie.
— Ma ogni cosa muore dopo aver vissuto, e il socialismo sarebbe
morto, a suo dire, prima di essersi attuato, cioè prima di aver
vissuto. Questo mi sembra un paradosso.
— Non è un paradosso, perché io penso che sia vissuto e si sia
anche incorporato nei fatti; naturalmente, non al modo che la
gente immagina, ma a quel modo che gli era consentito dalla natura
sua propria.
— Vuole spiegarmi qual'è, secondo lei, codesta «natura» del
socialismo?
— Volentieri. Ma bisognerà che mi permetta di fare, conforme al
mio solito, un passo indietro e raccontare un po' di storia. Una
storia in abbozzo, ben inteso; perdio si tratta di una storia che
non è stata ancora scritta con l'ampiezza e la precisione che
merita, e con cui si potrebbe scrivere ora che, eome le dicevo, il
socialismo è morto. Lei sa che, nel corso dei secoli, apparvero di
tanto in tanto svariati disegni di società ideali fondate sulla
comunanza o sull'eguale ripartizione dei beni; e che talvolta
questo ideale divenne l'aspirazione e il programma di alcune
sètte, di alcuni moti rivoluzionari, di alcuni riformatori. Quei
disegni e quei tentativi non superano, nella storia sociale,
l'importanza di aneddoti o di episodi, e neppure hanno conferito
nulla, o ben poco, alla storia del pensiero e a quella della
letteratura, perché, quasi sempre, hanno avuto la loro espressione
in opere letterarie mediocri.
In fondo, il motivo generale che li produceva era l'ingenuo e
quasi bambinesco desiderio della regolarità o dell'eguaglianza. E
la vita invece, è ineguale e irregolare; sicché quel desiderio non
rappresenta neppure un bell'ideale, essendo opposto alla vita e
alla realtà.
— Lei accenna al socialismo utopistico? Ma il socialismo moderno
reagì per l'appunto contro di esso, e lo segnò con quell'aggettivo
di «utopistico», vantandosi di essere passato ormai dall'utopia
alla scienza.
— Precisamente, Pure, quel socialismo utopistico ha la sua
importanza, giacché, se si sapesse, attraverso le parole e le
forimole, vedere la realtà dei pensieri, si scoprirebbe, credo,
che quell'utopia è ancora l'idea che del socialismo si fanno non
solo gli avversari che lo combattono, ma moltissimi di coloro che
si dicono socialisti moderni. E importa, anche per un altro verso,
fermarvi sopra l'attenzione; e, cioè, per istabilire nettamente
che il rigetto del socialismo utopistico doveva avere, ed ebbe
realmente, il significato di un rigetto assoluto dell'idea di
eguaglianza.
— No! Il marxismo o socialismo moderno non rigettò l'eguaglianza,
ma cangiò solamente le idee circa il modo di recarla in atto.
— Sì! dico io invece, perché il cosiddetto cangiamento del modo di
attuazione era un effettivo abbandono del concetto di eguaglianza.
Che cosa vuol dire «passaggio dall'utopia alla scienza»? Di
codesta formola non mi contentavo io neppure quindici anni or
sono, quando ero ancora quasi un giovinotto e facevo il mio
tirocinio nella letteratura socialistica, e fin d'allora notavo
che la «scienza» non aveva niente da vedere nella questione, o,
tutt'al più, ci entrava come una metafora. Quel passaggio, che si
proclamava, era effettivamente nient'altro che il passaggio
dall'astratto ideale alla concretezza della storia, l'abbandono
dell'«eguaglianza» e cioè di un concetto aritmetico e geometrico
per un concetto biologico, per la vita che è disuguaglianza e
asimmetria. Quindi: lotta di classe, aristocrazia lavoratrice (ben
distinta dal proletariato cencioso, dalla pezzenteria), che vince
la borghesia e trasforma il complesso sociale, dominio crescente
sulle forze cieche della natura, predominio della tecnica, e via
dicendo.
— Ma quale conseguenza vuole trarre da ciò?
— Questa: che il socialismo, inteso come ideale di eguaglianza, il
socialismo che risponde ancora all'idea comune ai più, non è
quello che è morto ora, per la buona ragione che era già morto
settant'anni fa, ed era stato ucciso per l'appunto (dico, presso
le persone intelligenti) dal socialismo che è morto ora. E, in
secondo luogo, che se il socialismo marxistico, surrogatosi a
quello utopistico, attinse la sua giustificazione e la sua forza
dal collocarsi che esso faceva sul terreno della storia, su questo
terreno deve essere inteso e giudicato. Se, per esempio, le
condizioni e tendenze della società moderna vennero dal socialismo
marxistico inesattamente interpretate, se i fatti che gli diedero
vita e ne costituirono il presupposto necessario sono spariti o si
sono cangiati oltre ogni previsione, è evidente ehe il socialismo,
ossia l'aspirazione etica rispondente a quelle condizioni e a quei
fatti, deve reputarsi caduto anch'esso, come una conseguenza,
logicamente dedotta, cade con l'errata premessa. — Sta bene. Ma il
presupposto di fatto del socialismo moderno è la società
capitalistica, svelata dal Marx nei suoi congegni e nella sua
interna dialettica; e questa base non è stata scrollata.
— Così si dice; ma le cose, a mio parere, procedettero in modo
alquanto diverso e più semplice. Lascio da parte il Marx
economista e il Marx filosofo, delle cui dottrine ho discorso già
molte volte in ponderose memorie accademiche; e mi fermo per un
istante sul Marx agitatore e politico, che è il vero Marx del
socialismo. Ora Marx fu, come tanti altri della sua generazione, e
più vivamente di altri, colpito dallo spettacolo grandioso della
rivoluzione francese e dalla trasformazione sociale ch'essa
produsse non solo in Francia, ma in gran parte dell'Europa. Il
secolare feudalismo, spazzato via; una nuova classe, la borghesia,
padrona della ricchezza sociale e dello stato: idee, sentimenti,
religione, profondamente mutati. E gli parve che la borghesia
avesse creato, al tempo stesso, altrettanti e più problemi che non
ne aveva risoluti, e avesse suscitato forze produttrici che non
era in grado di dominare, come comprovavano le grandi crisi
periodiche, la necessità di una sovrapopolazione, tutta l'anarchia
morale, economica e sociale del liberismo, che si nutriva del
sopralavoro e sopravalore, e, continuamente squilibrantesi, si
rimetteva in equilibrio solo mercè immani distruzioni di
ricchezza.
Gli parve vedere, uscente dal seno medesimo della borghesia,
qualcosa di analogo a ciò che la borghesia era stata rispetto al
feudalismo, un elemento di corrosione e di sostituzione: il
proletariato o la classe operaia. E gli parve altresì che la vita
della società moderna si fosse fatta, per opera della borghesia
industriale, oltremodo rapida e intensa; sicché quel processo di
dissoluzione e ricomposizione sociale, che aveva occupato secoli
nel periodo feudale e semifeudale, si sarebbe dovuto ora svolgere
con intensità e rapidità assai maggiori; e che perciò il
proletariato avrebbe sostituito in un tempo ben prossimo la
borghesia nella direzione della vita sociale, creando una nuova
società, la società lavoratrice, nella quale l'altra si sarebbe
sciolta. Ecco, in breve, la fede socialistica di Marx e dei suoi.
Fu, insomma, una previsione, grandiosa senza dubbio, ma
sostanzialmente simile allo tante previsioni analogiche che
facciamo di contìnuo innanzi ai fatti che colpiscono il nostro
spirito e mettono in moto la nostra fantasia.
Vincenzo Monti, quando vide innalzarsi all'etra il pallone del
Montgolfier, suppose che la scienza umana, correndo con moto
sempre più veloce sulla via delle mirabili scoperte, sarebbe
giunta presto a infrangere della morte il telo e a libare il
nettare con Giove in cielo. Il professore Achille Loria, ai giorni
nostri, credo che abbia previsto qualcosa di simile, guardando il
volo degli aereoplani...
— Ma su quale fondamento Ella attribuisce al Marx una così
immaginosa previsione, un cosi empirico motivo, e un così povero
pensiero?
— Anzitutto, non attribuisco per congettura: ma ricorda soltanto
quello che il Marx stesso dice nel Manifesto dei comunisti: un
opuscolo che è, tra l'altro, un capolavoro letterario e che — ora
che il socialismo è morto, e perciò le scritture componenti il suo
vangelo hanno perso l'aspetto pauroso di libri ereticali e
maledetti, — spero di vedere letto e contentato come un testo
classico. Anche in Italia Antonio Labriola, primo espositore e
comentatorc del marxismo, spiegava che il socialismo consisteva in
una previsione morfologica. Né chiamerei povero il pensiero o,
meglio, il sogno di Marx; egli scorse acutamente alcuni lineamenti
della società moderna e sognò nella classe operaia la generazione
d'uomini che avrebbe ringiovanita e redenta l'umanità. Tatto ciò
non è povero o meschino.
— Perché insiste a parlare di «sogno» ? Non c'era, e non c'è, la
realtà corrispondente a quell'immagine e giustificante le
speranze, il programma e l'azione del Marx e dei suoi seguaci?
Egli fece una osservazione sociale, non creò un fantasma di sogno.
— Creò un fantasma di sogno e di poesia. E per questa ragione il
proletario, l'operaio, il lavoratore fu idealizzato e adornato di
tutte quelle virtù che alla borghesia venivano sottratte o
violentemente strappate. E con tanta vivacità il proletario eroico
fu descritto nelle pagine dei migliori scrittori socialisti, che
si finì col credere che esso esistesse realmente in qualche parte
del nostro mondo, come ci sembra che debbano essere esistiti nella
realtà Otello e don Chisciotte, Achille e don Abbondio. E quella
poesia era espressiva insieme e produttiva di un fervore e di un
entusiasmo, dal quale molti petti sono stati scossi e inebriati, e
(perché dovrei tacerlo?) ne fai preso auche io, per qualche tempo.
Per alcuni mesi, se non pro prio per un anno intero, io ho avuto
il sentimento, di aver messo il piede sopra una via, che era la
«via regia» della umanità; ho avuto la visione della palingenesi
che si sarebbe dovuta compiere al principio o nel corso del secolo
ventesimo; ho provato la dolcezza di chi viene iniziato ai misteri
di una religione, quando Antonio Labriola prestava a me (e solo a
me) alcuni allora rarissimi opuscoli del Marx e il libro della
Santa famiglia, o mi
comunicava le lettere che gli scriveva l'Engels, fino al
telegramma che annunziò laconicamente: «General is died» (perché
con quel titolo guerriero di «generale» gli amici chiamavano
l'Engels), o mi metteva in relazione con alcuni di quei tedeschi
che, studenti od operai, nel 1848 avevano assistito al sermone
della montagna, alla prima lettura del Manifesto dei comunisti.
Ho visitato a Londra la povera Eleonora Marx, e ho accompagnato
per le vie e pei monumenti di Napoli il vecchio e terribile
Liebknecht, del quale serbo libri e ritratto.
— Che cosa accadde poi?
— Accadde che, a poco a poco, io ebbi come un senso di muovermi
nel vuoto; e giacché non potevo credere che quella classe operaia,
giovanile, pura, eroica, apportatrice di nuovi valori, non
esistesse, mi persuasi che la colpa spettava tutta a me, che,
borghese di nascita, di convivenza, di abitudini, non riuscivo a
entrare in contatto con quel nuovo elemento sociale e a risentirne
il calore vivificante. E tornai ai miei studi, a quella filosofia
e a quella letteratura della quale Antonio Labriola di frequente
mi faceva arrossire, dicendomi che sarei rimasto pur sempre
un'anima di letterato, e talvolta mi consolava osservando che, in
fondo, anche Goethe era stato un'anima di letterato! Il credo
socialistico forse era vero, era vero senza forse; ma a me,
evidentemente, mancava la fede. Perciò non pronunziai mai i
voti, cioè non mi ascrissi al partito socialista; il che fa che
ora io non sia un prete spretato: — condizione rispettabile quanto
qualsiasi altra, ma nella quale, tutto sommato, mi fa piacere di
non trovarmi.
— Sicché il socialismo è morto per Lei, e non già in se stesso?
— Così appunto io pensavo allora, ed ero disposto ad ammettere la
mia personale indegnità. Ma, qualche anno dopo, udii voci a me
note, porsi ascolto con interesse, e appresi che la classe operaia
eroica, della quale di decennio in decennio, anzi di quinquennio
in quinquennio, si prediceva l'imminente trionfo in Germania, la
conquista che stava per compiere dei poteri pubblici e la
socializzazione che avrebbe effettuato dei mezzi di produzione, —
in Germania, per l'appunto, si era più o meno raffreddata,
addomesticata, fusa con la democrazia, affiatata con gl'interessi
generali del paese, ossia con quelli della classe dominante. In
Germania ! nella patria di Marx e dì Engels!
— Ma le cause che dovevano produrre quell'arresto o sviamento del
socialismo in Germania, sono note. Tutt'altra cosa accadeva,
intanto, in Francia, e (questa volta non soltanto per riflesso)
nella nostra Italia; nei quali due paesi, mentre il socialismo
parlamentare degenerava nel riformismo o noi parolaio integralismo
del Ferri, si riaffermava nel sindacalismo lo schietto socialismo
marxistico. Sono cose che credo di aver letto anche in suoi
scritti.
— Il ricordo è, su per giù, esatto. Il sindacalismo fu la nuova
forma del gran sogno di Marx, e fu risognato da un osservatore
acuto quanto lui dei fatti sociali, e forse più di lui animato da
spirito etico e religioso: da Giorgio Sorel; — il quale assimilò
il movimento operaio a quello cristiano, volle disciplinarlo su
quel modello, gli concedette, con l'idea dello sciopero generale,
il contorto del mito, e lo armò del sentimento di scissione.
Questa volta io fui più prudente: ammirai il Sorel; riconobbi che
il socialismo, se doveva essere, doveva essere a quel modo e non
altrimenti; ma mi tenni in guardia e non credere facilmente
all'esistenza della nuova ecclesia dei sindacati, e agli operai,
apostoli e martiri della nuova fede.
— La cosa è naturale, perché Lei continuava a vivere una vita che
le vietava l'esperienza della psiche proletaria, e dei nuovi
istituti, sentimenti e idee, che essa elabora.
— Appunto così pensavo anch'io; ma era passato appena qualche anno
dall'avvento del sindacalismo, ed ecco che quelle falangi di
eroici operai, che io non riuscivo a scorgere dal troppo lontano
mio punto di osservazione, parve che sì assottigliassero anche
agli occhi, o dietro le spalle, del Sorel, il quale, tra sfiducia
e disgusto, abbandonò il movimento pratico del sindacalismo. Il
riformismo, il democratismo, il demagogismo si erano infiltrati
anche in esso; e il «sentimento di scissione» non l'aveva
garantito abbastanza, forse anche perché una scissione teorizzata
è una scissione superata; né il «mito» lo scaldava abbastanza
forse perché il Sorel, nell'atto stesso di crearlo, lo aveva
dissipato dandone la spiegazione dottrinale.
Il sindacalismo proletario si vedeva e non si vedeva; quello
degli intellettuali si mutava in una critica del moderno stato
democratico, camorristico, sfruttatore, dissipatore, improduttivo:
una critica che in Francia trovava eco nei giovani monarchici e in
Italia nei liberisti antistatali. Santissima critica, ma che non
ha che vedere col socialismo. Perciò mi consenta di concludere che
a ragione io affermavo che il socialismo è morto. Esso aveva
trovato testé il suo ultimo rifugio nel sindacalismo: ma, nello
stesso sindacalismo, ora non c'è più.
— E vada pure la sua conclusione! Voglio conversare con Lei, non
già disputare. Ma, se è morto, qual'è stata la sua vita; o quali
effetti, come si suol dire, ha prodotto?
— Questo è ciò di cui dovrà occuparsi lo storico del socialismo.
Ma, intanto, a occhio e croce, non mi sembrano piccoli effetti
l'abbandono definitivo del socialismo egalitario e ottimistico,
che è diventato ridicolo; l'aiuto che il moderno e storico
socialismo ha dato e dà contro ogni conato di reazione:
l'impedimento che ha contribuito a porre, per parecchi decenni,
alle guerre europee; la legislazione del lavoro, i miglioramenti
prodotti nella vita della classe-operaia e un certo elevamento
intellettuale di questa: un senso più concreto, che si è diffuso
dappertutto, della realtà sociale: e, nel campo dell'intelligenza,
l'avere contribuito al risveglio filosofico e alla eliminazione
del goffo positivismo, l'avere intensificato gli studi e la
cultura economica, e guardato in modo nuovo alcune parti della
storia. Questi, o simili a questi, sono i doni, che il socialismo
ha fatto alla civiltà moderna. E dico il socialismo e non già gli
operai, perché in realtà quei doni sono venuti da uomini, che
altri chiamerebbe «borghesi» e che io preferisco chiamare
semplicemente così: uomini. Se distinguessi gli uomini in
socialisti e borghesi, seguiterei ad attenermi alle concezioni del
socialismo, il quale (come oramai siamo d'accordo) è finito.
— Ma se questa grande fede, che ha fatto palpitare tanti cuori
generosi, è finita, quale altra fede ci rimane? Si può vivere
senza una fede?
— Non si può. Ma, non dubiti, la fede non muore. E quale fede sia
la mia, non glielo voglio dire, perché è forse qualcosa di molto
vecchio e di molto semplice, e che non merita di essere detto, e,
in ogni caso, io non vorrei comunicarle, in questo momento, una
notizia di poca importanza, dopo avergliene comunicata una cosi
importante, qual'è questa: che il socialismo è morto.
gennaio 1911.
Non mai come da alcuni anni in qua sorgono in Italia, e si
accalcano l'uno sull'altro, nel campo sociale e politico,
programmi d'ogni sorta: riformistici e sindacalistici,
democristiani e demomassonici, nazionalistici e liberistici; e,
insieme con essi, grandiosi disegni di associazioni e
d'istituzioni per intensificare la cultura e rendere alfabetica
quella parte del popolo che è ancora analfabeta, per la difesa e
offesa nazionale, e via dicendo. Un giorno o l'altro, s'introdurrà
perfino (c'è da metter pegno!) dalla prossima Francia, il
programma della restaurazione monarchica (che, essendo l'Italia
bella e monarchica, non potrebbe modularsi se non come un sospiro
verso la restaurazione dei Borboni a Napoli o dei Lorenesi in
Toscana, e del loro governo paterno), col congiunto ritorno alle
«tradizioni classiche»; del quale ultimo, anzi, già si vedono
accenni presso coloro che si sono cominciati ad accorgere della
«classicità», da quando ne hanno letto il nome nelle riviste
francesi.
Programmi ampi, enfatici, fragorosi; e tutti quanti accompagnati
(come suole nei tempi fecondi di programmi) da un'intima
freddezza, da un profondo scoramento: sicché, nel mezzo del
frastuono, si ode risonare anche in Italia quell'interrogativo
angoscioso, così poco italiano, che sembrava destinato a restare
sui frontespizi dei libri slavi dei Cernicewski e dei Tolstoi,
dove le prime volte comparve: «Che fare?». Dico il vero: a me,
nell'ascoltare quelle baldanzose affermazioni d'orientamento, e
nelFavvertire insieme l'effettivo disorientamento, nasce il dubbio
che siano stati scambiati e confusi i programmi con la fede.
I programmi né sono la fede né possono suscitarla; perché la fede
è qualcosa di saldo e di assoluto, e i programmi sono contingenti
e mutevoli; la fede deve dominare qualsiasi evento, e i programmi
debbono adattarsi agli eventi fino al punto da lasciarsi assorbire
da essi. E anche nell'istante in cui i programmi trovano su per
giù corrispondenza nella situazione di fatto, non da essi, e cioè
da determinazioni particolari ed estrinseche, emana quel calore
che è calore di fede e investe tutto il nostro essere e lo muove
all'azione e gli dà vigore e costanza. Il rapporto tra programmi e
fede è, dunque, che questa precede quelli e li genera; e, quando
essa manca, invano si tenta di surrogarla con programmi grandiosi,
come un edilìzio senza fondamenta non si rafforza coi coronamenti
architettonici e con le decorazioni. È da vedere, dunque, se i
tanti che si affaticano a costruire programmi non siano mossi
dall'illusione di ottenere dall'esterno quel che sentono di non
possedere nell'interno; e, se la cosa sta così, bisogna provvedere
anzitutto, mi sembra, a liberarli da tale illusione e spingerli a
rafforzare, in sé e negli altri, la fede.
Ma nessuno aspetti che qui gli somministrino le vecchie lamentele
e i vecchi propositi sulla necessità del «risveglio morale», del
«rinvigorimento nazionale», del «fare gli italiani», della
«lega tra gli uomini onesti», della «purificazione dei costumi
pubblici», e di tante altre belle e generiche e noiosissime cose,
che sono per avventura assai più vuote dei programmi criticati.
Eh! Dio buono, se per tirare innanzi bisognasse compiere di
codesti prodigi, fare un popolo come si fa una macchina,
purificare il costume come si depura un metallo, risvegliare la
moralità come una bella addormentata nel bosco, stringere tra loro
gli uomini onesti come in un'associazione di mala vita,
rinvigorire una nazione come l'organismo di un bimbo coi fosfati;
se non ci fossero già dappertutto uomini di fede, cuori generosi,
virtù, eroismi; ci sarebbe da disperare e, poiché la vera
disperazione è muta, converrebbe tacere.
La fede, ossia la volontà del bene, è dappertutto; è anche presso
coloro che sembrano corrotti o cattivi; e, se la società non si
disgrega, gli è appunto perché le forze etiche prevalgono sulle
contrarie. Cieco chi non vede la fiamma morale che alimenta la
vita umana; ottuso chi non sente la poesia che è nella prosa ehe
sembra circondarlo; disgraziato chi è persuaso di aggirarsi
malvagio tra malvagi o, peggio, egli solo buono fra tórme di
malvagi. Il problema è tutt'altro, o ben altrimenti
circoscritto. In ogni tempo, la fede ha i suoi nemici, ed è
insidiata da tendenze distruttive, che variano col variare dei
tempi. Una volta, per esempio, queste tendenze provenivano da
tradizioni e istituzioni invecchiate, che si ostinavano a dominare
quando ogni legittima loro ragione di dominio era venuta meno:
ora, provengono da altre parti. Si tratta dunque di riconoscere
chiaramente, una per una, quali siano le tendenze distruttive che
persistono ora o che si sono di recente formate in Italia
l'è non solo in Italia), e, conosciute, combatterle.
Questo, e questo solo, è il significato dell'educazione o del
rafforzamento morale da promuovere.
Non si tratta, insomma, di creare un nuovo mondo, ma di seguitare
a lavorare su quello vecchio, che è sempre nuovo: seguitare con
crescente consapevolezza o sicurezza quella lotta, che è sempre
spontaneamente impegnata e nasce dalle cose stesse. Credo che ogni
osservatore attento e spregiudicato della presente vita spirituale
italiana non possa non essere colpito dalla decadenza che si nota
nel sentimento dell'unità sociale. Le grandi parole che
esprimevano questa unità: il Re, la Patria, la Città, la Nazione,
la Chiesa, l'Umanità sono diventate fredde e rettoriche, e, poiché
suonano false, si evita di pronunziarle, quasi un intimo pudore
avverta di non nominare invano le cose sacre. Col disuso di quelle
parole, va alla pari una generale decadenza del sentimento di
disciplina sociale: gli individui non si sentono più legati a un
gran tutto, parte di un gran tutto, sottomessi a questo,
cooperanti in esso, attingenti il loro valore dal lavoro che
compiono nel tutto. La buona individualità, che si afferma solo in
questo legame, ha ceduto il posto alla cattiva individualità, che
crede di affermarsi più energicamente rompendo il legame e
pompeggiandosi per se stessa.
Vedete un po' se vi riesce di far che un gruppo dì artisti
collabori a un monumento. Questo che si otteneva sessanta o
settantanni fa, da scultori e pittori che avevano frequentato
l'accademia e si recavano la domenica alla messa (ossia si
sottomettevano interiormente a qualcosa e a qualcuno), ora è
irraggiungibile: il decoratore vuol dare prova della sua
personalità raffinata: il pittore della sua ipersensibilità e del
suo ascoso simbolismo; lo scultore non armonizza le statue con le
linee architettoniche, si dimena, si contorce, prorompe fuori
dalle nicchie, e chiede l'attenzione per se solo, e, naturalmente,
imbruttisce il monumento e insieme l'opera sua medesima. I nostri
monumenti saranno veramente pei posteri i documenti della nostra
convulsione morale.
Anche negli animi dei migliori tra i giovani s'incontra come un
ostacolo, allorché si vuol piegarli alla disciplina, e, se sono
uomini di studio, persuaderli che essi debbono essere nient'altro
che umilissimi servitori della scienza, e, se impiegati, che sono
servitori dello Stato. Alla scienza si domanda o semplicemente,
una distrazione gradevole o un mezzo di fare risplendere
l'individuo; dell'ufficio che si è assunto, si ride, e si cerca
fuori difesso la migliore forma della propria attività. Sembra
cinismo, e sarebbe di fatti, se questa disposizione d'animo non
fosse poi congiunta a una profonda tristezza, che attesta
l'interno malessere e un oscuro rimorso. Questo indebolimento
nella coscienza dell'unità sociale, questa indisciplina diffusa,
questa tristezza, se hanno i loro precedenti nella vecchia storia
italiana, sono state prossimamente accresciuti dalla ideologia
delle lotte sociali del secolo decimonono: dal socialismo e
dall'antisocialismo, dalla lotta di classe (non inventata dai
socialisti, sebbene da essi professata teoricamente),
dall'utilitarismo e materialismo onde la elasse borghese si
rafforzò e si garantì contro il socialismo.
I socialisti videro nello Stato nient'altro che l'arma della
classe dominante, nella religione e nella moralità gli strumenti
di essa, nella scienza l'avvocato compiacente, nell'arte la
meretrice o la mezzana. Dei cosiddetti borghesi, alcuni o molti,
di buone e ingenue intenzioni, fecero adesione alla teoria
socialistica, perdendo fede nella bontà della propria classe; e si
misero ad aspettare che il socialismo crescesse, liquidasse lo
Stato, fondesse le classi, rigenerasse il mondo. Altri molti, meno
ideologi, accettarono per vera la stessa teoria, ma ne trassero la
vecchia conseguenza che l'uomo è lupo per l'uomo, e contrapposero
egoismo di elasse ad egoismo di classe.
È possibile accogliere come giusta alcuna di queste tre
soluzioni: la socialistica, la borghese della rinuncia e la
borghese della resistenza a oltranza? La prima no, perché
l'approfondimento filosofico e l'osservazione storica hanno
provato che il programma socialistico oscillava tra la
fantasticheria e l'astrattezza; la seconda cade con la prima e
anzi svela il sofisma della prima, trasformando il da fare nel non
fare, e la storia in una rappresentazione teatrale in cui un
personaggio si restringe a recitare la parte di tiranno per
permettere all'altro personaggio di recitare quella del martire o
dell'eroe; la terza, infine, perché, per non dire altro, è turpe.
E l'autocritica di queste soluzioni è nel fatto che tutte tre sono
ora confluite in una: la sublime lotta di classe, che i socialisti
sognavano in una società che si sarebbe via via divisa tutta in
due sole grandi classi, le quali si sarebbero urtate violentemente
tra loro come Persia e Grecia, Gcrmanesimo e Ro? manità, per fare
scattare dall'urto una nuova civiltà, si è tradotta nelle meschine
lotte di associazioni, nelle quali tante sono le classi quanti i
mestieri, anzi quante le professioni, anzi quante le forme di
pubblici servizi, anzi quante le «categorie» di ciascun mestiere,
professione o ufficio; e lottano metallurgici e magistrati,
ferrovieri e professori universitari, tranvieri e ufficiali di
marina, e, perfino, i «pensionati dello Stato», perfino gli
scolaretti delle scuole secondarie, contro lo «sfruttamento» che
eserciterebbero sopra di essi i loro maestri! (1).
Lo Stato, che doveva essere liquidato dalla classe nuova, è
invece con ogni cura serbato da tutte le classi e categorie
lottanti, e non solo è voluto salvo ma pingue, per poterne
ciascuna succhiare maggior copia di sangue. Si è tanto predicata
l'economia come la vera regina della storia, che ormai viviamo in
un mondo tutto economizzato: gl'impiegati, gl'insegnanti, i
militari, invece di badare al loro ufficio, studiano gli organici
per speculare sui possibili ritocchi che rendano maggiori gli
stipendi e più rapide le promozioni; lo Stato è concepito come una
lotteria, alla quale tutti giocano e nella quale si può vincere
studiando un libro meno mistico di quello della Cabbala, facendo
chiasso sui giornali, agitandosi, minacciando e premendo su
deputati e ministri. La cuccagna non può durare a lungo, perché si
alimenta dell'economia del paese, che è limitata, e le restituisce
assai meno di quello che ne prende, risolvendosi per gran parte a
vantaggio degli elementi meno produttivi.
L'atomismo sociale, che si rivela in questi fatti e in queste
disposizioni d'animo, e che vive, sia pure in forma attenuata, in
coloro che vorrebbero trarre l'Italia a più alti destini, non può
dunque generare se non programmi fallaci e a doppia faccia, ovvero
programmi di bella apparenza ma inanimati. Inanimati, perché lo
spirito che dovrebbe moverli è assente, e tutt'al più vi è
presente quello stesso spirito individualistico e materialistico,
che si vorrebbe correggere e superare. Da ciò anche la tendenza a
riporre esclusivamente o sostanzialmente la salvezza in cose
materiali, nella guerra o nell'industria, nell'emigrazione o nella
colonizzazione, nell'alfabeto o nel suffragio universale.
È necessario mutare strada e ricorrere al procedimento inverso:
prima la fede, poi i programmi; prima l'animo pronto, poi il
braccio vigoroso. Fintanto che nei nostri animi non splenda la
convinzione che la vita è lavoro disinteressato, che l'individuo
gestisce un'eredità ricevuta dal passato e da tramandare
accresciuta all'avvenire, che l'uomo è niente in quanto astratta
individualità ed è tutto in quanto concorda col tutto; fintanto
che famiglia, patria, umanità non riprendano il loro senso
schietto e non riscaldino i cuori come li hanno sempre riscaldati
da quando la storia è storia; fintanto che non si cancellino le
ultime tracce dell'utilitarismo borghese e socialistico; è vano
sperare che queste e quelle contingenze possano migliorare la
società e rendere grande l'Italia.
Si obietterà che questa disposizione di spirito, questa fede
morale presuppone, a sua volta, una religione; e poiché la
religione è morta, almeno nelle classi colte, né si può
artificialmente riprodurla, sarebbe ingenuo chiedere all'uomo che
accetti e coltivi una veduta che trascende l'individuo e i suoi
interessi. Ebbene, anzitutto non si tratta di un'ingenuità, perché
questa fede esiste, indipendentemente dalle religioni, in molti e,
anzi, in grado maggiore o minore, in tutti gli uomini; ed ò essa
che (ne abbiano o no piena consapevolezza) li anima nelle fatiche,
li fa rassegnati nei dolori, moderati nella prosperità, coraggiosi
Dell'affrontare le difficoltà di ogni sorta. E, poi, se è
indubitabile che quella fede morale presuppone una religione, non
è egualmente indubitabile che presupponga proprio ciò che
comunemente s'intende per religione:
un'assicurazione contro i danni di questa vita, presa
sui fondi di un'altra.
La religione o la filosofìa (con la quale la religione fa
tutt'uno) non è questa o quella particolare religione o filosofia;
ma è la concezione filosofica o religiosa delle cose, ossia delle
cose sotto specie d'eterno: concezione che si determina nei modi
più vari, e in questa sua varietà è continuamente discussa,
corretta, modificata. Non può esistere senza le sue
determinazioni, ma non si esaurisce mai nelle sue determinazioni.
L'abito religioso è perciò immortale; ed esso fa d'uopo coltivare
negli animi, perché si mantenga salda ed efficace la fede morale.
Non c'è bisogno di questa o quella religione positiva, per elevare
lo spirito a Dio, per credere alla Provvidenza, per sentirci
sorretti e guidati, per pregare nell'intimo cuore ritraendone
sollievo, per attingere forza nel culto dei nostri santi e dei
nostri morti.
Una disposizione d'animo come questa sarà di pochi, almeno in
forma coerente e cosciente? Pochi o molti, non importa: se pochi,
quei pochi si riconosceranno tra loro e si sentiranno fratelli
nella medesima opera, o, se piace un linguaggio meno umile,
privilegiati di una medesima aristocrazia. I programmi di azione
seguiranno, e dovranno seguire, perché una religiosità, e una fede
morale che non si concretassero in azioni, sarebbero falsa
religiosità e falsa fede, parolaie e non reali. Ma saranno allora
programmi e non fatuità, animati e non inanimati, pensieri seri e
non trastulli d'imaginazioni oziose. E non saranno programmi
«universali», ma «parziali» e «particolari», perché solo la fede è
universale, e il programma serio, concernendo sempre contingenze,
è tanto migliore quanto più è preciso, specializzato, prossimo, e
quanto meno pretende alla universalità.
Potrei darne io qui, dopo questi chiarimenti, per così dire,
metodici? Mettendo da parte la mia personale insufficienza, è
evidente che, col criticare i programmi universali, si è detto
insieme che ciascun uomo e ciascun gruppo di uomini (secondo le
svariate relazioni con cui i gruppi si formano) deve provvedere,
volta per volta e caso per caso, al proprio programma. I
commercianti o gli intelligenti di commercio a quelli del
commercio, i militari o gl'intelligenti di cose militari a quelli
delle armi, i magistrati o gl'intelligenti di tribunali a quelli
della giustizia; ciascuno nelle condizioni speciali in cui si
trova, ma, poiché tutti sono uomini, tutti con lo stesso spirito
di fede morale. La specializzazione, che è rispetto delle
competenze, deve dividerci; lo spirito comune ci riunirà e ci darà
anche la reciproca intelligenza di quel che separatamente andiamo
facendo. E si formerà la grande vita italiana, che non può essere
«insufflata» da un programma generico di grandezza, perché (come
bene una volta un fisiologo ammonì un filosofo)
dall'«insufflare> nasce il «gonfiare» e non già la vita, che è
il risultato delle proprietà delle particelle elementari.
— Tutt'al più, restringendomi al mio modesto campicello, potrei
tracciare il programma che, secondo me, spetta ora in Italia ai
letterati e studiosi: ma questo (i lettori lo sanno) non fa d'uopo
che io lo tracci, perché l'ho già tante volte esposto, difeso,
particolareggiato, corretto, e mi sono adoperato, per parte mia, a
metterlo in atto. Esso si riassume nella necessità di un'intima
compenetrazione di studi filosofici e studi storici, e nel
raccomandare il rigore del pensiero e della ricerca. Beninteso,
anche a questo programma rivendico, in certo senso, il carattere
di contingenza, perché potrebbe darsi che convenisse cangiarlo in
un tempo più o meno prossimo, quando i campi italici fossero
cosi terribilmente impregnati di storia e filosofia da non
lasciare prosperare altre non meno necessarie forme di attività
umana. Come nell'osservare il programma, che si è delineato per
meglio coltivare la verità, consiste l'unica missione morale della
scienza, così quella dell'arte consiste nell'essere arte.
Rivolgere ai letterati un pistolotto, riecheggiando il
leopardiano: «Donne, da voi non poco la patria aspetta...», e
rievocando l'efficacia che ebbe la letteratura a promuovere il
risorgimento italiano, o riparlando (manzonianamente o
mazzinianamente) della «letteratura educatrice», non risponderebbe
alle convinzioni già tante volte ribadite in queste pagine. L'arte
è educatrice in quanto arte, ma non in quanto «arte educatrice»,
perché in tal caso è nulla, e il nulla non può educare. Certo,
sembra che tutti concordemente desideriamo un'arte che somigli a
quella del risorgimento e non, p. e., a quella del periodo
dannunziano; ma, in verità, se ben si consideri, in questo
desiderio non c'è il desiderio di un'arte a preferenza di
un'altra, sì bene di una realtà morale a preferenza di un'altra.
Allo stesso modo chi desideri che uno specchio rifletta una bella
anziché una brutta persona, non si augura già uno specchio che sia
diverso da quello che ha innanzi, ma una persona diversa.
Lasciamo, dunque, di rivolgere auguri ed esortazioni agli specchi,
e procuriamo di rendere meno brutte le nostre persone.
Una generazione italiana, mentalmente più alta e moralmente più
nobile di quella dannunziana, avrà un'arte più alta e più nobile,
ed esprimerà la religione dell'età moderna, se l'età moderna saprà
avere una religione, — come l'hanno perfino i selvaggi.
(1) Questo «sindacalismo» degli scolari delle scuole secondarie
ha il suo organo in un periodico che si pubblica a Napoli e
s'intitola, chi sa perché, Socrate!
1911.
Non c'è alcuno che non voglia essere aristocratico. Plebei si è,
nel fatto, ma non si vuol essere, nell'aspirazione. Anche coloro
che dicono di voler essere o si vantano di essere plebei,
affermano questa loro idealità o realtà che sia, per distinguersi
da alcuno o da molti o da tutti gli altri: per aristocrazia.
L'aspirazione all'aristocrazia appare, se anche in forma comica,
nel vanesio che sogna l'ammissione in un circolo di fatui del bel
mondo o nel bottegaio che sollecita una onorificenza cavalleresca;
e in forma che si direbbe cinica, nel briccone che si sforza di
essere più briccone degli altri bricconi, di farsi segnare a dito
e invidiare e ammirare dai bricconcelli minori e novizi. Ma è, in
sostanza, il medesimo travaglio onde l'artista con industri
fatiche purifica l'opera sua di ogni scoria volgare e ambisce alla
lode dell'originalità e della classicità, distinguendosi dal
dilettante; e lo scienziato si adopera a raggiungere il rigore e
la semplicità della dimostrazione, distinguendosi dal ripetitore e
compilatore d'idee altrui; e l'uomo degno reprime e giudica
severamente ogni bassa voglia che in lui si muova, distinguendosi
dal dilettante di onestà e dignità che ha per uso d'indulgere a
tutti i propri capricci e ribattezzarli onestà e dignità.
È vano, dunque, combattere l'ideale aristocratico, perché
l'aristocrazia è la fiamma che tende all'alto, e questa fiamma è
l'anima stessa dell'uomo. Il santo potrà proporsi di spernere mundum, spernere seipsum, spernere se sperni; e non
si sottrarrà all'aspirazione aristocratica, che si afferma in
queste sue medesime parole, proponenti un ideale così
squisitamente aristocratico di ascetica perfezione da essere
perfino inconseguibile.
Con l'ideale aristocratico si congiunge, e fa tutt' uno, il
bisogno di vivere nella società dei pari; perché ciascuno disdegna
di accomunarsi con coloro che reputa a sé inferiori, l'elegante
col provinciale, il bottegaio col rivendugliolo, il ladrone col
ladruncolo, il poeta col poetastro, e via dicendo. Né a ciò forma
eccezione l'esistenza di uomini solitari, i quali o sono solitari
per modo di dire, cioè viventi tra pochi, ovvero vivono anch'essi
in una società di pari, ma in una società ideale, e non per questo
meno reale, che si sono foggiati nel loro spirito. Lasciando di
cercare esempì tra i fanatici e i maniaci, vi sono momenti della
storia, e momenti della vita individuale, nei quali il pensatore,
l'artista, l'eroe o, semplicemente, il galantuomo e l'uomo di buon
senso, deve staccarsi dal mondo che prossimamente lo attornia e
rifugiarsi, per respirare, nel passato e nell'avvenire. E domanda
allora: — Che cosa direbbe della mia opera o della mia azione
questi o quegli, se fosse vivo? e che cosa ne dirà colui ehe la
guarderà fra uno o più secoli? — E in quel giudizio immaginato
ritrova la lode o il biasimo, l'incoraggiamento o la correzione,
il consenso e il dissenso; e in quel mondo ideale vive, come puro
spìrito, tra coloro coi quali si erede degno o vorrebbe essere
degno di vivere: tra i propri pari.
Sicché, essendo fuori dubbio che l'uomo si propone, e non può non
proporsi, sempre e anche quando adopera parole che paiono
significare il contrario, il problema dell'aristocrazia e della
società dei pari,— le difficolta, e divergenze non possono nascere
da altro se non dal vario modo di risolverlo. Anzi, chi ben
consideri, queste stesse difficoltà e divergenze si riducono tutte
a una sola, capitale: cioè, se l'ideale aristocratico sia da
collocare in queste o quelle determinazioni particolari,
contrapposte ad altre determinazioni, o in qualcosa che superi e
abbracci in sé tutte le determinazioni particolari; se, per dirla
in termini filosofici, la determinazione debba essere materiale o
formale.
Per chiarire la cosa con esempì, quando si fa consistere
l'aristocrazia nella forza o nell'intelligenza o nel gusto
estetico o nell'eleganza; simboleggiando storicamente l'ideale
vagheggiato nel capo feudale o nel tiranno della rinascenza, nel
sofista ellenico, nel fiorentino dell'epoca medicea o nel
gentiluomo della corte di Maria Antonietta; si dà
dell'aristocrazia una determinazione materiale, perché la «forza»
si svolge a spese dell'eleganza, del gusto e delle altre cose, e a
sua volta l'«eleganza» a spese della forza e delle altre cose; e
una determinazione materiale se ne dà perfino quando
l'aristocrazia è fatta consistere in qualche particolare virtù
come la tolleranza o la temperanza o la tenerezza di cuore e
simili, giacché ogni virtù particolare, fatta valere da sola o
messa a capo delle altre, esclude o danneggia le altre. Ma,
ridotto e chiarito cosi il problema, ne è già preparata la
soluzione, cioè l'affermazione del carattere formale dell'ideale
aristocratico; con l'intesa, per altro, che formale non vuol dire
(come volgarmente si crede) vuoto, ma, anzi, pienissimo, e che
perciò l'aristocrazia non può coincidere se non con l'integralità
dello spirito umano, che nessuna sua forma esclude e in nessuna si
restringe o riposa, e cerca sempre il bene e, cercando il bene,
cerca insieme il vero e l'utile e il bello, ed esercitando davvero
una virtù, esercita insieme tutte le altre.
Il genuino, il solo aristocratico, l'aristocratico di grande
razza, è il vir bonus, che può all'occorrenza essere uomo di gusto
come un Poliziano, risoluto come un Malatesta o un Borgia, acuto
come un Protagora, elegante come un Rohan, e villano come Dante
allorché «esser villano» gli parve debito quale effettiva
«cortesia». E solo in questa interpetrazione formale
dell'aristocrazia, la tendenza a distinguersi dagli altri uomini,
che sembrerebbe aver qualcosa di duro e di egoistico (e l'ha
difatti nelle sue forme inferiori e false), si concilia con
l'esigenza morale dell'umanità; perché quel distinguersi è lo
sforzo per raggiungere la piena umanità, e uno sforzo che non
respinge gli altri uomini dallo stesso segno e anzi li favorisce e
soccorre, sebbene nel fatto riesca sempre a una distinzione e
superiorità verso altri uomini, perché non tutti sono capaci di
quello sforzo o di quella intensità di sforzo, e vi è e vi sarà
sempre una massa d'individui inferiori,
fruges consumere nati,
intenti alle loro passioncelle e ai loro piaceri; una plebe
insomma, che è immortale perché termine correlativo
all'aristocrazia, che è immortale.
Chi vuole provare il compiacimento di avere sotto i suoi piedi
una plebe, procuri di essere un vir bonus, e la plebe, purtroppo,
non gli mancherà sotto di sé; in ogni altro caso, crederà di
sollevarsi sulla plebe e sarà egli medesimo plebe e goffa plebe,
plebe arìstocrateggiante. Queste che qui si dicono sono in fondo
cose semplici, quantunque, come suol accadere, il dirle con
precisione le complichi alquanto. Eppure bisogna dirle, e dirle
con precisione, perché, tra democratismo mal inteso e
aristocratismo frainteso, esse, ai giorni nostri e nell'animo dei
giovani, non serbano il sembiante di cose semplici, ossia
profonde, ma paiono cose ingenue, nel significato d'insipide e di
sciocche.
C'è stato negli ultimi decenni un seguirsi di mode mentali e
sentimentali che, per un verso, hanno fatto smarrire il senso
delle proporzioni ossia di ciò che è veramente importante e
fondamentale per l'uomo, e, per l'altro, hanno stretto in orrido
connubio l'energia e la cupidigia, la religione e la sensualità,
la nobiltà e la vanità, la magnificenza e la vacuità; onde si è
introdotto tale perturbamento negli animi giovanili, che un uomo
sollecito delle sorti della patria, e un osservatore attento, non
può non esserne impensierito e contristato. E' un male grave,
perché ha attaccato le fibre più delicate e le radici della vita
interiore; un male di rimedio difficile, e al quale, soprattutto,
non si rimedia con la predica e con l'eloquenza e con le vivaci
figurazioni letterarie e neppure con le migliori formole
filosofiche, giacché tutte queste cose, per quanto altamente
ispirate in origine, si corrompono in un attimo in quegli animi
malati, e alimentano la malattia, come può vedersi dai tanti
idealisti e mistici e romantici e «cavalieri dello spirito», che
ora vanno comparendo, e che sono i medesimi attori che hanno già
recitato sui teatri del Nietzsche, del Tolstoj, dell'Ibsen, del
D'Annunzio, del padre Tyrrel, e su quanti altri se ne sono aperti
e chiusi dagl'impresari delle «novità» spirituali negli ultimi
anni.
Piuttosto che nella complessa e squisita letteratura e filosofia,
piuttosto che nel «ritorno» a questa o quella delle grandi fonti
storiche d'idealità, bisognerebbe (ecco la soia idea che,
dopo molto riflettervi, mi è occorsa in mente) cercare il
rimedio, che so io?, in un ritorno alla lettura dei libri per le
scuole elementari, e specialmente di quelli vecchi e filistei, per
es. del Giannetto. Rimedio anche questo da somministrare con molta
cautela, perché c'è rischio che si trasformi a sua volta in una
leziosaggine, e che gli ex-dannunziani si mettano a
«giannetteggiare», come se dovessero procreare un reuccio di Roma.
No, i libri elementari sono libri seri e bisogna accostarvisi con
seria reverenza: sono libri che raccolgono la più schietta
sapienza della vita, che bisogna sapersi appropriare, tradurre in
sé, ricomporre, riorganizzare, far vibrare nel proprio animo.
Dalla lettura dei libri elementari si apprenderebbe, tra l'altro,
non senza stupore, che il giovane deve studiare ed educarsi allo
scopo di «rendersi utile alla società». Vi par poco? E i giovani
italiani odierni, e se non proprio quelli che sono stati già per
la vita improntati del conio dannunziano (o Gabriele D'Annunzio,
quanta verità nelle pagine di prefazione al tuo Più che l'amore! tu puoi ben
vantarti che coloro che ti si sono rivoltati contro, portano la
tua livrea !), i più giovani di loro, i iuniores, i neoteri, questo
dovrebbero meditare, questo dovrebbe essere loro inculcato dai
maestri, questo dovrebbe essere messo sotto i loro occhi con lo
studio della storia e della vita presente e in tutte le più varie
guise: che la vita non è degna di essere vissuta se al rendimento
dei conti non presenta un attivo di lavoro, compiuto ad
arricchimento, elevamento e splendore della società alla quale
apparteniamo: un lavoro quale che sia, da operaio o da direttore,
da agricoltore o da scienziato, da industriale o da poeta (che
tutti sono di pari importanza e di pari pregio, né l'uno sta senza
l'altro), ma un lavoro effettivo. Né già solo di quelli che
si svolgono in momenti straordinari, tra l'aspettazione e l'ansia
dei concittadini, e che danno in premio la fama e la gloria; il
che a pochi e in rari momenti è concesso, per fortuna della vita
umana, che non ha bisogno quotidianamente di eroi, come la vita
fisiologica, per sua fortuna, non ha bisogno a ogni istante di
medici e chirurgi di famosa abilità; — ma quel lavoro (lasciatemi
parlare al modo dei libri delle scuole elementari, di sopra
encomiati), che si offre ogni giorno e che ogni giorno si può
compiere bene e ogni sera può recare la soddisfazione della
giornata bene spesa e di cui si può misurare con compiacenza il
graduale e lento ma sicuro progresso.
Se essi formeranno in se questo sentimento e questa poesia del
lavoro, non solo conquisteranno la pace dello spirito che
gl'infecondi sognatori di ideali intessuti di egoismo hanno persa,
ma conferiranno a sanare le infermità della vecchia Italia,
l'oziosità e l'individualismo atomico, di cui tutti ancora
soffriamo: e se una generazione d'italiani riuscirà in
quest'opera, quale gloria maggiore potrà raggiungere? quale gloria
individuale (che splende assai spesso sulla miseria comune) si
pareggia a quella di una gloria comune, che sorga sulla virtù
comune?
Dice un proverbio volgare che ogni carità comincia dalla propria
persona; e sebbene l'intenzione di quel proverbio sia bassamente
utilitaria, la parola è migliore dell'intenzione, perché veramente
ogni carità, ogni riforma, ogni progresso deve rivolgersi
anzitutto a noi stessi, e niente è più ridicolo di coloro che
intendono il dovere verso gli altri come un occuparsi delle
faccende degli altri o di quelle della società intera e trascurano
il proprio miglioramento, che hanno a portata di mano e che è poi
il fattore vero del miglioramento di tutti gli altri.
I giovani dovrebbero essere resi diffidenti circa tutti i
grandiosi programmi di miglioramento sociale; non già per
insinuare nell'animo di essi lo scetticismo e l'indifferentismo,
ma anzi per ispronarli e farli accorti insieme delle reali
difficoltà che incontreranno sulla loro via: e ottimo mezzo di
renderli così accorti e alacri e ricondurli all'esame e
all'esempio dei doveri prossimi. I quali non sono quelli che
adempiranno quando l'Italia starà schierata in campo contro i
Galli o contro i Germani, ma quelli che si esplicano con
l'attendere al proprio ufficio, e, quando si è in iscuola, alla
scuola: chi sa fare queste cose quotidiane, sapra stare anche in
campo contro i Galli e i Germani, e i Sarmati e gli Sciti.
Sentimento e poesia del lavoro, che darà loro la fierezza
aristocratica, e la possibilità di scegliere per compagni e amici
coloro che nutrono lo stesso sentimento e hanno la stessa
fierezza, e di vivere, come l'uomo brama, nella società dei propri
pari. Che se a segno e quasi a pompa di questa aristocrazia
piacesse loro di circondarsi di orgoglio per se medesimi e di
disprezzo verso la plebe, da mia parte (e in considerazione
dell'umana fragilità) concederei un siffatto compiacimento e
sfogo; tanto più che quell'orgoglio e quel disprezzo sono in
fondo, come si è già notato, non un oltraggio, ma un omaggio
all'umanità. Siano orgogliosi, purché l'orgoglio non si fondi sul
vuoto; disprezzino, purché non disprezzino uomini e cose che
valgono meglio di loro.
In altri tempi, questa autoeducazione e questo bisogno di
costituire nel campo etico una società di pari, prendeva la forma
dell'ordine religioso; e ad imitazione degli ordini religiosi, nel
secolo del deismo e dell'indifferentismo religioso, sorse
l'istituto della massoneria. Ma tutti sanno come gli ordini
religiosi e le associazioni laiche rapidamente decadano dopo
qualche generazione, e la lettera sostituisca in esse lo spirito,
e della lettera vuota di spirito si valgano i molti che perseguono
fini direttamente contrari a quelli dei promotori: gli ordini e le
associazioni rappresentano un disperato tentativo di solidificare
e fissare ciò che è, di natura sua, liquido e mobile; onde,
tutt'al più, riescono efficaci nel primo momento e per l'efficacia
personale dei loro iniziatori. Non è conforme ai tempi nostri e
all'esperienza storica acquistata costituire ordini e associazioni
con fini puramente etici; ma tanto più bisogna promovere
quell'ordine senza regole e senza statuti e senza soci (né onorari
ne ordinari, e molto meno perpetui) che si forma tra già spiriti
affini, pronti a intendersi, a rispondersi e a collaborare perché
pensano e, soprattutto, perché sentono a un modo stesso:
quell'ordine che è simile alla «società» dei filosofi o dei poeti,
che attraversa la storia, e che non coincide, anzi diverge
totalmente dalle «accademie» dei filosofie dei poeti.
Io so bene perché ricordo (e se non ricordassi, i tanti giovani
che mi passano sotto lo sguardo me li farebbero ricordare) i due
grandi ostacoli o travagli che la formazione morale dei giovani
incontra all'inizio della vita; la necessità di provvedere ai
bisogni economici o, come si dice, materiali; e le lotte interne
che assalgono gli animi giovanili, e li fanno passare a volta a
volta dall'entusiasmo alla depressione, allo scetticismo, al
pessimismo, alla disperazione. Sembra, circa il primo punto, che
ogni più bello ideale di aristocrazia debba piegare innanzi alle
ostilità e insidie sociali, attraverso cui solo i furbi e i vili e
gli adulatori riescono a passare trionfanti, indicando col loro
esempio la via da percorrere a chi non sarebbe disposto a
furberia, viltà ed adulazione; una via sulla quale si deve
abbandonare il meglio di se stessi. Ma, in realta, questa fosca
visione è assai esagerata, perché, possedendo ogni ingiustizia
degli uomini e della fortuna la virtù di colpire profondamente e
di ribellare tutto il nostro essere, noi tendiamo a generalizzarla
e dilatarla, e finiamo col chiudere gli occhi alla maggior parte
della vita sociale; guardando la quale serenamente, ci
apparirebbe, tra l'altro, il fatto indubitabile che ogni giorno,
da parte così dello Stato come dei cittadini, si fa richiesta di
uomini probi e soprattutto capaci, e non si trovano nel numero che
è richiesto. E forse i furbi e vili e adulatori, che giustamente
sono biasimati per un verso, posseggono dall'altro certe qualità
di chiaroveggenza e di alacrità, che gli uomini di migliori
intenzioni avrebbero l'obbligo di acquistare; se la bontà efficace
deve essere bontà armata e se il Vangelo stesso raccomanda di
unire alla candidezza della colomba la prudenza del serpente.
A ogni modo, ingiustizie e malvagità si sono avute sempre da che
mondo e mondo, e si hanno dappertutto; e non hanno mai impedito a
chi è d'animo forte di procedere per la sua strada o di cadere di
quelle cadute, che non disonorano. Anzi la storia ci mostra che di
rado tra coloro che si sono svolti in condizioni prospere e facili
sono sorti uomini di valore; e la psicologia spiega come solo le
difficoltà da superare temprino le forze spirituali; e i «libri
per le scuole elementari» ci confermano, con la loro autorità,
questi dettami della storia e della psicologìa. Chi vuole davvero,
riesce, un po' prima o un po' dopo, a mettere armonia tra le sue
aspirazioni ideali e la sua vita materiale; sia che le due
confluiscano in una, come nel easo normale in cui si vive seguendo
la propria vocazione, sia che scorrano parallele, come nel caso
più raro in cui uomini, costretti a un lavoro inferiore o
eterogeneo al loro animo, a forza di buona volontà finiscono con
l'esercitarlo degnamente, ma insieme adempiono alla loro intima
vocazione, e con tanto maggiore forza e migliore risultato quanto
più compresso è stato il loro amore e il loro desiderio.
Non meno inevitabile e non meno necessario e formativo e
promotore, è quel che sembra un secondo ostacolo: lo smarrimento e
l'incertezza sul fine e sul valore della vita. Qui non c'è
formola, per vera che sia, la quale possa, di per se, rimuovere
l'ostacolo; perché ogni formola è la conclusione di un processo e
ha efficacia liberatrice per colui che l'ha formolata come
conclusione del processo faticosamente percorso, e tutta piena e
vibrante, come è per lui, di quel percorrimento e di quelle
fatiche; ma, trasmessa in un altro animo, si cristallizza, diventa
immobile o inerte, e, peggio ancora, rettorica e convenzionale:
onde la somma giustezza del motto del Goethe, che ciò che si è
ereditato dai padri bisogna riguadagnarlo con le proprie forze per
possederlo davvero. Sicché ai giovani non c'è da. dire altro se
non: — Soffrite anche voi, come coloro che sono stati giovani
prima di voi, e guadagnatevi la vostra verità. Noi ve la vorremmo
dare, ma non possiamo: le verità, nel passaggio dalle nostre alle
vostre mani, diventano rami secchi, e sta solo in voi la potenza
di farli rinverdire. Ma vi possiamo dare un ammonimento, che
neppure forse comprenderete a pieno per ora, e del quale sentirete
la verità quando sarete prossimi a ottenere per conto vostro la
vittoria; e allora potrà giovarvi, come un braccio
soccorrevole a chi sta sul punto di raggiungere la vetta.
Pessimismo, scetticismo, misticismo, ascetismo, estetismo,
individualismo, sono negazioni della vita intellettiva e pratica,
e perciò portano su di sé il segno della loro falsità; perché una
teoria non può negare il fatto del quale è teoria, e una teoria
della vita non può negare la vita. Siate pure e scettici e
pessimisti e mistici e asceti e individualisti ed estetizzanti, se
una felice disposizione di natura, un solido buon senso, non vi
rende possessori fin da principio della verità sostanziale;
soffrite le malattie, che sono malattie consuete dello sviluppo o
proprie del vostro sviluppo; ma pensate qualche volta, per calmare
e insieme abbreviare quelle sofferenze, che c'è gente che ha già
percorso più o meno celeremente lo schema stesso del vostro
sviluppo, la quale è giunta alla coscienza che ciò che voi credete
punti di arresto sono punti di passaggio, ciò che voi credete
armonie sono disarmonie, ciò che voi credete liberazione dai
pregiudizi e dai malanni ò pregiudizio e malanno da curare.
E se vi sentite inclini ad adagiarvi in quei malanni, a
misticheggiare, pessimisteggiare, individualisteggiare e via
discorrendo, guardate se per caso codesta inclinazione non sia
accompagnata dal desiderio e dal piacere di sottrarvi agli umili e
prosaici e seri doveri della vita. Se vi è ispirata da quel
desiderio, se vi procura quell'agevolezza, state pur certi che voi
v'indugiate nell'errore e nel male; e, per vostro bene e vostro
onore, provvedete a distrigarvene.
1911.
Chi osservi gli aggruppamenti politici che si vanno formando ora
in Italia, specialmente tra giovani, e legga gli articoli dei loro
giornali e porga orecchio ai discorsi che corrono, ha occasione di
notare l'antitesi o l'interferenza di due principi opposti: l'uno
che si può chiamare della giustizia assoluta; l'altro, della lotta
senza giustizia. Quello ha i suoi precedenti prossimi
nell'umanitarismo del secolo decimottavo, che in parte si trasfuse
nel mazzinianismo; questo segnatamente nell'ideologia
socialistica, che si è venuta trasferendo dai rapporti tra le
classi sociali ai rapporti tra le nazioni o gli Stati. Serafico il
primo, e perciò poco umano; troppo umano l'altro, e perciò
disumano: il primo tendente all'astrattismo e all'ipocrisia, il
secondo al materialismo e al cinismo: insoddisfacenti entrambi, e
nondimeno ciascuno fondato su ragioni, che, sebbene unilaterali,
non cessano di parere ragioni. perché, come si può negare che la
giustizia, il rispetto dell'uomo verso l'uomo, il congiungimento
degli spiriti nel comune culto della verità e della bontà, la
sottomissione a una misura comune, sia un'esigenza fondamentale e
assoluta, senza cui la vita perderebbe ogni significato,
ogni guida, ogni calore, e non udrebbe più parlarle, nel suo
intimo, le sue voci più care?
Ma come si può disconoscere, d'altro canto, che la vita è lotta,
e lotta senza pietà, e che la guerra è la sua legge, e che la
storia è storia di guerre e non di paci, di atti di forza e non
già di acquiescenze, e che questa lotta si combatte ogni giorno, e
guai a coloro che non vi partecipano e non parteggiano, ai
neutrali e agli uomini dalle «mani nette», che sono mani pendenti
lungo i fianchi? Come si può non consentire con chi ricorda che
l'Italia è risorta per compiere opere di amore e non di odio, di
civiltà e non di prepotenza; e come si può dare torto a ehi
sorride con amarezza di codeste belle parole, che i fatti
confutano a ogni istante, mostrando ineluttabilmente che, se anche
l'Italia volesse, non potrebbe sottrarsi alla necessità di essere
ingiusta tra ingiusti e prepotente tra prepotenti? Il risultato
dell'una e dell'altra concezione è il pessimismo: un pessimismo
passivo nel primo caso, costretto al non fare, o a fare prediche
vane che è per l'appunto un non fare, ad emettere infinite
proteste e lamentele e gemiti di disperazione: un pessimismo
attivo, nel secondo, di una falsa attività, che vuol fare tanto
per fare, e per moversi e per stordirsi, pur sapendo di far cosa
priva di giustizia, ossia priva di valore.
Come si vede, siamo innanzi a un vecchio problema, che quasi
potrebbe dirsi un rompicapo: quello del contrasto tra morale e
politica, tra morale di privato e morale di cittadino, al problema
del machiavellismo, che ha formato per lunghi anni oggetto di
meditazione e di accoramento pel nostro Villari, senza che gli sia
stato possibile risolverlo davvero, perché egli non ha mai trovato
veramente il termine medio che gli consentisse l'uscita
dall'antitesi. Sul terreno dell'antitesi, il problema è
insolubile; e si è sbattuti da una banda all'altra, o si rimane
accasciati nel mezzo, contemplando tristamente il destino
dell'uomo condannato all'impurità e all'immoralità. Non fa d'uopo
dire che la vera impurità è questa coscienza impotente, questa
accettazione sfiduciata di quel che si giudica male. Meglio assai
lo sbattimento dall'uno all'altro principio opposto, che, se non
altro, ha del tragico.
Per trovare il termine medio, giova anzitutto distinguere due
ordini affatto diversi di valori: i valori universalmente umani,
che si dicono di cultura, e i valori empirici o, come si chiamano,
storici. La scienza, l'arte, la moralità porgono esempì dei primi:
Roma o Grecia, Italia o Francia, Monarchia o Repubblica, Stato o
Chiesa, esempì dei secondi: formazioni storiche e istituzioni
risultanti dagli sforzi di molte generazioni e d'infiniti
individui, fatti particolari, nei quali si concretano e
diversificano i valori universali o umani, e che offrono la
condizione e la base per l'ulteriore attività.
Il criterio distintivo dei due ordini è nettissimo: i primi sono
istanze supreme, i secondi no; i primi sono non nati e imperituri,
i secondi nascono e muoiono. Non c'è nulla di sopra al Vero o al
Bello; ma c'è qualcosa di sopra Roma e Grecia, Italia e Francia,
Stato e Chiesa; Roma è morta, la vecchia Francia monarchica esiste
ancora solamente nel cervello di qualche letterato, Chiesa e
Impero sono una ruina mesta; potranno esaurirsi e sparire il
popolo italiano e il popolo tedesco, come sparirono gli Ittiti o i
Cartaginesi: le categorie del Vero e del Bene vivono e vivranno
cosi giovani e fattive come nel primo giorno del mondo, e
ringiovaniranno in perpetuo il mondo che invecchia.
Ma, riconosciuta la differenza, non è perciò negato il valore del
secondo ordine dei valori, come sarebbe assurdo negare il valore
di un patrimonio che si è ereditato, per la ragione che sarà una
volta consumato e dissipato; per intanto, non e stato né consumato
né dissipato, e costituisce una forza e un valido strumento per
l'opera umana. Se è doveroso difendere i valori di cultura, non è
meno doveroso, dunque, difendere quelli storici; come, del resto,
tutti sentono e fanno, perché tutti, senza che sia uopo di troppi
ragionamenti, sono portati a difendere il loro patrimonio
familiare, la loro patria, la loro chiesa, le istituzioni alle
quali appartengono. Senonchè i valori di cultura, per il loro
carattere di universalità, si svolgono e lottano senza che mai
l'uno di essi sopprima l'altro, ma anzi ciascuno di essi
promovendo l'altro: la scienza, che non è la moralità,
rinvigorendo la moralità, e la moralità, che non è la scienza,
promovendo la scienza. I valori empirici per contrario, essendo
fondati (si direbbe in termini logici) non sopra concetti puri ma
sopra concetti rappresentativi, e cioè essendo sostanzialmente
fatti e non concetti, lottano l'uno distruggendo l'altro e
soppiantandolo: Roma distrugge Cartagine, il germanesimo Roma,
l'Impero la Chiesa e la Chiesa l'Impero, e lo Stato moderno tutti
e due.
E qui s'inserisce l'ansiosa domanda e ricerca da parte di coloro,
che si vedono trascinati irresistibilmente a questa guerra di
sterminio, e che, come uomini, si ripiegano talora sopra se
stessi, e dubitano, e temono Dio, cioè la propria coscienza: — Per
chi e per che cosa bisogna parteggiare? Se i valori umani sono i
soli valori costanti e supremi, quale delle istituzioni storiche
esistenti li incarna ad esclusione delle altre o a preferenza
delle altre? Quale di esse ha il diritto di ottenere la nostra
completa dedizione?
Alla quale domanda la risposta non può essere altra se non che
tutte quelle istituzioni contrastanti e lottanti incarnano del
pari, e insieme non incarnano, i valori umani; tutte hanno in sè
la giustizia e l'ingiustizia, tutte sono degne di essere difese e
degne di essere lasciate perire: e che chi aspetta dalla filosofìa
un'indicazione per parteggiare per l'una o per l'altra, non
l'otterrà mai, giacché la filosofia, insaziabile come la storia,
le abbraccia tutte e tutte le rigetta. Ma poiché appunto tutte
quelle istituzioni hanno un motivo di vero e un lato difendibile,
se anche ciascuna dovrà morire, per intanto ciascuna deve essere
difesa; e da chi mai deve essere difesa se non da coloro che sono
suoi figliuoli? l'Italia dall'italiano, la Francia dal francese,
la monarchia da chi sente di vivere della monarchia, la repubblica
da ehi vive della repubblica? A offenderle, ossia a prepararne la
morte, c'è chi pensa; e bisogna che vi sia chi pensi a garantirle
e. a prolungarne la vita. E nessuno, nell'adempiere a questo
dovere di pietas, deve guardare (salvo il caso, che faccia, e nel
solo momento che fa, professione di storico) all'istituzione
avversa, per darsi pensiero del bene di essa in nome di
un'astratta giustizia, ma ciascuno deve curare unicamente, e
contro tutti, il bene dell'istituzione alla quale appartiene; come
un avvocato non guarda agl'interessi dell'avversario del suo
cliente, o un soldato non si prende cura di avvertire il nemico
che scopre il petto ai suoi colpi: l'inopportuna generosità si
chiama, in questo caso, «tradimento».
La difesa delle istituzioni, a cui sentiamo di appartenere, è il
dovere prossimo; e non vi sono, che si sappia, altri doveri
effettivi se non quelli prossimi. E il complesso dei valori di
cultura, che si simboleggia col nome di Giustizia o di Umanità,
non si attua praticamente se non attraverso queste gagliarde
difese e offese, perché i doveri generali non si attuano se non
quando scendano da quell'astrattezza, che ha nome di cielo, sulla
terra, nello spazio e nel tempo, e si facciano a noi prossimi. Noi
siamo, nella vita, come guarnigioni e sentinelle poste qua e là
dallo Spirito del mondo; al quale male serviremmo abbandonando i
posti che ci ha affidati, per rendergli un omaggio astratto e
inerte, a lui non gradito. Certamente, c'è il caso, o viene il
momento, in cui bisogna cedere e dare causa vinta e lasciare che
l'avversario occupi il posto difeso e assoggettarsi a lui o
conciliarsi con lui: viene il momento in cui lo Spirito del mondo
sposta le sue guarnigioni e sentinelle, e fonde alcuni gruppi e ne
divide altri per preparare nuove guerre. E chi si ostina allora a
difendere il posto non più difendibile, può ben riuscire
poeticamente affascinante, e chiamarsi nella storia Catone e nella
letteratura l'onorato cavaliere Don Chisciotte. Ma Don Chisciotte
è Don Chisciotte, cioè il simbolo dell'eroismo folle, e non già
della virtù politica; e Catone meritava veramente di esser
collocato tra inferno e paradiso, nell'equivoca situazione di
guardiano del purgatorio, come Dante lo collocò, e, prima che dai
sarcasmi del Mommsen, fu colpito dal giudizio dell'Hegel, il quale
sentenziò che l'animo di lui era bensì grande assai, ma non
abbastanza perché non seppe sopravvivere a Roma, cioè a un valore,
per grande che fosse, pur sempre contingente e inferiore
all'Infinito che è lo spirito dell'uomo.
Senonchè la simpatia morale, che pur c'ispirano i Don Chisciotti
nella letteratura e i Catoni nella storia, sta a significare il
gran pregio che l'animo umano attribuisce a chi difende, anche di
là dal necessario, il posto assegnatogli dal fato o da Dio. Quella
difesa è meritoria, perché giova allo stesso eletto da Dio, allo
stesso vincitore, ossia a colui che è il nuovo rappresentante
dello spirito del mondo in un determinato istante, rendendogli più
diffìcile e più alta la vittoria, la quale per tal modo assorbe in
sé ciò ch'era di meglio nell'avversario. Non è la conversione e il
cangiamento che dispiacciano, perché tanto varrebbe ripugnare alla
vita stessa, che si converte e cangia in perpetuo; ma la
conversione che è levità mentale, il cangiamento che è debolezza
morale, prodotti da irriflessione o da comodi privati.
L'ostinatezza, quando non è ipocrisia e vanità, ma esuberante e
fanatica passione del dovere, sarà un vizio, ma un vizio
aristocratico, che, per cosi dire, salva da vizi più volgari.
I fautori della giustizia astratta, scambiando i valori empirici
cori gli assoluti e pretendendo trattarli al modo di questi, non
soltanto entrano in una vana ricerca, ma per amore mal concepito
di giustizia si fanno ingiusti, per troppa fede nella giustizia
astratta peccano di poca fede verso la giustizia concreta che si
svolge nel mondo, e che è la sola che giovi invocare e propugnare,
ma in pari grado, se non peggio, errano i fautori della lotta
senza giustizia, quando, per inversa unilateralità, empiricizzano
i valori assoluti, e non vedono altro innanzi a se che la patria o
il partito, la regione o la famiglia, la classe o la razza, nella
loro immediatezza e brutalità, e riducono la nobile guerra del
genere umano a quella ignobile, onde parla Polibio, di mercenari
ribellati, guerra di sterminio, senza tregua, senza fede.
I valori empirici, illimitati nella loro lotta contro gli altri
valori empirici, ossia limitati dalla sola lotta, hanno il loro
limite nei valori di cultura; e perciò, quanto si ammira chi
sacrifica la sua prosperità materiale e la sua vita alla patria o
al proprio partito, altrettanto suscita riprovazione e nausea chi
all'una o all'altra prenda a sacrificare la verità o la moralità:
cose che non gli appartengono, leggi non scritte degli dèi, le
quali nessuna legge umana può violare.
C'è qualche popolo, da noi non troppo lontano nello spazio, che
stima buon'arma di battaglia l'ingiuria e lo scherno contro i
popoli avversari; ma è un'arma poco salda e che fa male a chi
l'adopera, onde è consigliato a cangiarla di volta in volta
nell'altra delle blandizie, che non è meno impropria, là dove i
popoli sono divisi tra loro non dal loro capriccio, ma dal loro
ufficio storico, e possono accordarsi tra loro solo in quel tanto,
e per quel tanto di tempo, che la storia loro consente ed impone,
e non già ogni qual volta e nella misura che i capricci del
sentimento e le astratte combinazioni del pensiero richiedono.
E c'è qualche altro popolo, illustre nella civiltà europea, che,
nell'adempiere a dure necessità di politica e di guerra, le
accompagna volentieri con un ghigno di ferocia, che ricorda l'unno
Attila o il longobardo Alboino, non soddisfatto di aver vinto
Cunemondo e tracannante vino nel cranio di lui, anzi costringente
la figliuola dell'ucciso a bere nell'orrida coppa.
Ma Nè la falsità né la calunnia né l'ingiuria né la compiacenza
per la frode e per la strage, appartengono ai doveri del buon
cittadino e del sincero amatore della patria. Anche dove la lotta
costringe ad accorgimenti che sono infingimenti e ad atti che sono
violenze, il sentimento di servire a fini superiori e di obbedire
a nna necessità innanzi alla quale bisogna reprimere le proprie
personali disposizioni e tendenze, deve conferire agli animi
qualcosa di austero e, perfino, di malinconico.
Non so se il principe di Bismarck falsificasse davvero il
dispaccio di Ems ed ammetto anzi, se così piace, che egli non
potesse fare altrimenti e compiesse il suo dovere di buon
prussiano: ma la soddisfazione con la quale narrò più volte la
frode commessa (peggio ancora se non la commise nel fatto e se ne
vantò a vuoto) è cosa riprovevole, che gitta un'ombra sulla sua
memoria e pesa come colpa da espiare sul gran popolo che l'ha
ammirata, se è pur colpa la mancanza di scrupoli e quel certo che
di rozzo e di cinico, che si osserva di frequente nella Germania
contemporanea. E, forse, quel sentimento di cattiva gioia spiega
come il Bismarck, caduto in disgrazia, apparisse minore di sé,
perché qualcosa di piccolo era veramente in lui grandissimo.
Tempra ben più fine ci svela il Cavour, che, costretto a
infingimenti poco dissimili da quelli del Bismarck, sentiva il
dissidio tra ciò che non avrebbe mai osato fare per se e faceva
per l'Italia; e morì come un eroe, parlando sul suo letto di
morte, non di sé, ma dell'Italia.
Con così alti esempì nella loro prossima storia, vorranno
gl'italiani moderni, nel correggere il vago libertarismo e
umanitarismo e l'ingenuità politica nella quale si erano troppo a
lungo cullati, abbandonarsi ai torbidi sentimenti che carezzano i
vagheggiatori delle lotte nazionali senza giustizia e senza fede?
Vorranno mettere in cima ai loro animi l'Italia borgiana o corsara
di qualche recente poeta o retore, o non piuttosto quella che
sognava Niccolò Tommaseo, «severa e umile, armata e amante»?
L'equilibrio mentale e la finezza spirituale è una conquista
italiana, che vale, mi sembra, molte conquiste di territori, e che
giova mantenere con ogni vigore contro le esagerazioni e le
degenerazioni così degli astrattisti come dei materialisti della
politica.
1912.
Che cosa sono, in fondo, i partiti politici? Sono i generi della
casistica politica, corrispondenti ai generi letterari della
rettorica. E a chi non è stato mai amico dei generi letterari, si
vorrà condonare se estende la sua diffidenza ai generi o partiti
politici. Voi sapete, poiché è stata spiegata molte volte, come la
cosa vada in letteratura. Si foggiano certe astrazioni, che si
chiamano la lirica, la tragedia, la commedia, il romanzo,
l'idillio; e si finisce poi con lo scambiarle per la realtà stessa
dell'arte. E i critici giudicano d'arte secondo i modelli dei
generi, pedantescamente; e, peggio ancora, gli artisti, invece di
seguire l'unico ideale dell'arte, si sviano dietro gl'ideali dei
generi; e non solo i cattivi artisti, pei quali lo sviamento è
l'unico percorso che possano compiere poiché non hanno nulla da
dire, ma anche i grandi, che, quale più quale meno, lasciano nelle
loro opere tracce della superstizione pei generi o, come si dice,
introducono qua e là nella schietta poesia la letteratura.
E poiché la poesia non è la letteratura, e tuttavia la fallace
dottrina dei generi vuol fare coincidere quei due concetti che non
coincidono, sorgono le più comiche dispute e distinzioni e
transazioni, sulla vera tragedia e la falsa tragedia, sulla vera
idea della lirica, e simili; e ciascuno si vanta di aver visto
meglio d'altri l'essenza del genere, cioè una cosa che non esiste;
e, tutt'al più, quando è artista che sappia il fatto suo o critico
che abbia buon gusto, riesce a vedere, sotto quel nome, la sua
propria e nuova opera d'arte, o l'ideale universale dell'arte, che
in quella si è attuato. Parimenti in politica.
Aristocrazia, democrazia, conservatorismo, progressismo,
liberalismo, socialismo, militarismo, imperialismo, e via
discorrendo, sono astrazioni: e la realtà è l'uomo che vuol vivere
meglio, cioè sempre più degnamente, conquistare maggiore luce al
suo intelletto, maggiore libertà al suo volere, ergere monumenti
pei secoli, accrescere il patrimonio dell'umanità. Onde accade che
sotto i vari nomi gli uomini di buona volontà vogliano tutti lo
stesso; e all'inverso, che, sotto qualsiasi di quei nomi, gli
uomini di mala volontà vogliano ciascuno il proprio utile
individuale e il proprio capriccio. E si assiste anche qui allo
spettacolo del buon conservatore, che non crede poi di poter
respingere del tutto la democrazia o il socialismo, cioè il suo
avversario; o del buon socialista e pacifista, che non crede di
poter al tutto rifiutare la milizia e la guerra, che pure aveva
negate; e alle comiche definizioni della vera democrazia, del vero
conservatorismo, dell'essenza del socialismo, dell'imperialismo
ben inteso. «La Libertà, la Repubblica...», dice un candidato in
una commedia francese, leggendo il programma elettorale a un suo
protettore. E questi: «E troppo: bisogna temperare». «E come?».
«Modificate cosi: la vera Libertà, laverà Repubblica».
Ma perché vado cercando citazioni nei ricordi delle recite
teatrali, che mi è accaduto di ascoltare ? «Libertas et speciosa nomina
praetexuntur, nec quisquam alienum servitium et dominationem sibi concupivit, ut non eadem ista vocabula usurparet», dice Tacito, che i
nostri vecchi amavano citare. Certamente, quelle astrazioni hanno
dietro di sé qualcosa, e qualcosa d'importante; altrimenti, non
sarebbero sorte: dal nulla non sorge nulla. E questo qualcosa sono
le istituzioni o abitudini nelle quali si meccanizza la vita,
necessarie alla vita, perche il meccanismo è necessario, e,
conservando il lavoro compiuto, fa risparmiare fatiche pel futuro.
Come il poeta, nel concretare fra determinate condizioni di tempo
e di luogo, cioè di storia, la propria intima ispirazione, non può
non incanalarla in certe forme stabilite, che sono il linguaggio
tradizionale, i metri, le disposizioni per strofe, per atti o per
capitoli, e insomma i «generi», cosi l'uomo politico deve
concretare il suo impeto volitivo tra gli uomini e nelle
condizioni in cui è posto, e appoggiarsi a un aggruppamento e
avversarne un altro, e cioè entrare nel meccanismo dei partiti.
Ma, se il poeta soggiacesse senz'altro a quelle forme stabilite,
se comprimesse la sua ispirazione per farvela entrare, se
surrogasse la vita con la morte che è il meccanismo, non sarebbe
poeta. Il poeta genuino, quando sembra che rispetti (e in certa
misura effettivamente le rispetta) le forme stabilite, in realtà
le modifica sempre, ossia crea una nuova forma, che si stabilisce
al posto delle anteriori: sembra che incanali la sua ispirazione
nel canale esistente (e in qualche modo l'incanala), ma in realtà
apre un nuovo canale. E infatti, se non accadesse cosi, come mai
si sarebbero formati i canali preesistenti, e come se ne
formerebbero di nuovi?
Parimenti l'uomo politico, che abbia un nuovo contenuto da far
valere (e il nuovo contenuto più o meno l'abbiamo tutti, perché
tutti valiamo per qualcosa di nuovo finché viviamo e operiamo),
quando pare che accetti un partito esistente (e in qualche misura
l'accetta), in realtà crea un nuovo partito, perché il nuovo
pensiero produce un nuovo aggruppamento, o cangia le ragioni di un
aggruppamento esistente, e anche quando serba le spoglie dei
medesimi individui, vi mette dentro altre anime.
La conseguenza di queste dilucidazioni concettuali è che i
partiti politici, se porgono un'utile maniera al sociologo di
rappresentare schematizzando la vita politica, e se sul terreno
effettuale sono il necessario risultato di ogni movimento politico
nuovo; quando poi non si tratti né di costruire sociologie uè di
accettare risultati, ma di cercare che cosa si debba promuovere
praticamente nel proprio paese, e di promuoverla col fatto,
operando politicamente, sono concetti estranei, che bisogna
allontanare dalla mente; se non si voglia che quella cosa
giudiziosa, che è il partito (giudiziosa, perché creata dal
giudizio umano), si muti in pregiudizio. Allo stesso modo —
insisto nel mio paragone, che a me dà chiarezza, e forse la darà
anche ad altri, perché la maggioranza degl'italiani è di letterati
— nessuno nega (e neppure io, e se qualcuno mi ha inteso così, mi
ha frainteso, e mi ha scambiato, che so io?, per un «futurista»),
nessuno nega l'utilità dei generi letterari pour parler le monde
dell'arte; e neppure il rispetto che si deve alla tradizione, che
solo gli arfasatti disprezzano; e neppure che l'opera nuova
rientri sempre in qualche modo nelle correnti letterarie
preesistenti (la Divina
commedia tra le «visioni», il Decamerone nella novellistica medievale, l'Orlando nel poema
cavalleresco): ma quando si tratta veramente o di creare o di
giudicare l'arte, tutto ciò non serve a nulla, e, se vi si caccia
dentro, diviene un pregiudizio, rovinoso per l'artista e pel
critico. Nel momento della produzione (e in quello dello schietto
giudizio estetico) non vale altro che l'arte in universale, così
come si sta determinando o si è determinata nella singola
situazione; e ad essa bisogna unicamente intendere tutte le forze
dello spirito.
Un uomo o un gruppo di uomini, che si accinga a servire il
proprio paese, non può proporsi il problema politico in questa
forma: — Sarò io democratico o aristocratico, progressista o
conservatore? e quale è la vera democrazia o la vera
conservazione? — Così proposto, il problema diventa formalistico,
e cioè vuoto, epperò insolubile. Il suo problema dev'essere
invece: — Promovcrò o avverserò questa o quella riforma tributaria
o elettorale? questa o quella tendenza di classe? questa o quella
politica bellicosa o pacifistica? — E via discorrendo. Tracciato
un programma più o meno largo e più o meno duraturo, cioè
commisurato a condizioni più o meno transitorie, egli potrà
avvicinarsi o congiungersi a uno dei partiti esistenti, se questo
accoglie quel programma (e modificherà allora, nell'atto stesso,
per l'introduzione di nuove forze e di nuovi pensieri, il partito
al quale si avvicina); o potrà cercare di formarne un altro, nuovo
di pianta. Sarà, codesto nuovo partito, da denominare democratico
o conservatore, progressista o moderato? La cosa è sostanzialmente
indifferente, e il meglio sarebbe poter dire come Lutero: Hier stehe ich: ich kann nicht mehr.
Questo è ciò che io penso e voglio: battezzatemi come vi piace, o
interpretate il battesimo che, tanto per compiacervi, mi darò, non
con l'etimologia del nome, ma con la particolarità delle cose che
denomina. Se nella superstizione pel «partito» non ci foss'altro
che questo scambio tra il momento originario e il momento
conclusivo, o tra la concretezza e l'astrazione, già per questo
converrebbe combatterla come causa di confusione, di perditempo e
di vaniloquio. Ma io temo che oggi, in Italia, si celi sotto di
essa qualcosa di più grave; ossia il persistere del concetto nel
quale i filosofici socialisti tedeschi rinsaldarono ripostasi di
quelle astrazioni e acutizzarono l'antitesi dei partiti: la lotta
di classe. Concetto logicamente assurdo, perché formato mercè
l'indebito trasferimento della dialettica hegeliana dei concetti
puri alle classificazioni empiriche; e praticamente pernicioso,
perché distruttivo della coscienza dell'unità sociale. La
vagheggiata società futura, nella quale la lotta di classe si
comporrebbe, o è la vacua immagine di uno stato sopraumano e
paradisiaco, o non è altro che la società di tutti i tempi, nella
quale il momento della lotta è sempre congiunto e sottomesso a
quello superiore dell'unità. Questa coscienza dell'unità sociale,
scossa dalla lunga consuetudine della ideologia socialistica,
urge, a mio credere (e l'ho detto altra volta), restaurare; e per
restaurarla efficacemente, bisogna andare strappando tutte le
piccole radici, dalle quali nell'animo nostro può ancora rinascere
la mala gramigna di quella ideologia.
Per mio conto, non mi vergogno di dire che ho speso alcuni anni a
imparare il socialismo, e altrettanti a disimpararlo; e in
quell'imparare e disimparare pur qualcosa ho imparato: a
risentire, cioè, in me stesso, non rettoricamente, il valore di
certe idealità del risorgimento italiano, che i patrioti e
liberali tra il 1875 e il 1895 avevano rese odiose, perché, in
quel non lieto periodo della nostra vita pubblica, se n'erano
valsi ad orpello di ogni sorta di cupidigie. Intendo bene che
l'imperativo della «lotta di classe», e l'altro che impone quasi
obbligo d'onore il risolversi per un partito e uscire dal limbo
della neutralità, prendono talvolta significato di protesta contro
due cose assai brutte: contro l'inettezza o la pusillanimità, che
spinge non pochi al falso piglio dantesco di «farsi parte da se
stessi», a vagheggiare un partito di «gente onesta» e
«imparziale», a sfuggire i contatti con tutti gli aggruppamenti
umani storicamente dati; — e contro l'ipocrisia, che, sotto nome
d'«interessi generali», propugna in realtà gl'interessi
particolari di singole classi, leghe e individui.
Ma perché mai il fittizio e inconcludente appello che gli
sciocchi e pigri fanno agli uomini di buona volontà, deve
screditare quell'appello quando è poi fatto sul serio, e non da
sciocchi e pigri, con l'intento di giungere a un accordo degli
spiriti circa determinati problemi della vita pubblica? E, per
quel che è degl'interessi particolari che possono assumere la
maschera di interessi generali così per effetto d'illusioni
inconsapevoli come di consapevoli inganni, troppo facilmente e
unilateralmente, a mio avviso, vengono smascherati o sospettati
soltanto nella cosiddetta borghesia, quasiché il cosiddetto
proletariato, e qualsiasi altra classe o partito, non abbia
anch'esso i suoi idola tribus
e le sue menzogne.
Comunque, il mezzo radicale d'impedire le illusioni e gli inganni
non si è ancora trovato, né in politica né in alcun'altra parte
della vita; e anche qui non vedo per quale ragione il timore
dell'abuso che si possa fare del concetto dell'interesse
generale o della unità
sociale, dovrebbe vietarne l'uso, e quale
rimedio porgerebbe al male la rigida concezione dei partiti e
delle classi, la quale tende anzi ad estendere il male stesso, col
far prevalere sull'interesse generale quello, se non addirittura
privato, particolaristico. E, concludendo, ripeto che i partiti
sono necessari, ma necessari nella propria loro cerchia, come
derivazione e non come scaturigine dell'azione politica, come
conseguenza e non come premessa. La vera azione politica richiede
sempre un trarsi fuori dai partiti per affisare, sopra di essi,
unicamente la salute della patria; e questo trarsi fuori dal
partito è il sol modo di dar vita a un nuovo partito o di tenere
in sana vita quelli esistenti.
Questo e non altro volevo dire, quando mi permisi di raccomandare
agli amici dell'Unità di non darsi troppo pensiero della signora
Democrazia e del signor Socialismo, tanto difficili a definire in
idea, quanto, per quel che sembra, difficili a trovare impersonati
nella realta della presente vita italiana: e di badare a trattare
questioni determinate e concrete, secondo gli ottimi saggi che di
ciò hanno già dato. È la medesima raccomandazione che farei a un
poeta che vedessi turbato dal pensiero se la sua opera sarà
veramente una tragedia, una lirica o un romanzo: che badi, cioè a
comporre una bella poesia e lasci poi che altri la battezzi a suo
arbitrio. Che l'ispirazione sia profonda e il lavoro
dell'esecuzione scrupoloso e tenace: ecco quello che importa,
nell'arte come nella politica.
marzo 1912.