Libertà

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La facoltà di pensare, di operare, di scegliere a proprio talento, in modo autonomo.

1. La l. nella filosofia antica e medievale

Dall’equazione di scienza e virtù, connessa all’eudemonismo che caratterizza tutta l’etica socratica, implicitamente deriva una concezione della l. come meta raggiungibile attraverso la scienza. Questa concezione ritorna anche in Platone: ciascuna anima è responsabile della propria scelta e ognuna avrà, per guidarla nella sua vita, il demone che si sarà scelto; ma solo chi ha ascoltato la filosofia sa riflettere con discernimento: se la scelta, dunque, è libera, di questa l. è possibile fruire nel migliore dei modi solo attraverso la filosofia. Anche in Aristotele troviamo il consueto rapporto greco tra l. e conoscenza: Aristotele congiunge strettamente la l. del volere alla scelta volontaria e volontario è ciò «il cui principio si trova nell’agente che conosce tutte le circostanze particolari dell’azione». Plotino riconduce la l. del volere non a un impulso sensibile, bensì «al retto ragionamento e alla giusta tendenza».

Sul concetto di l. influisce in modo profondo l’avvento del cristianesimo, destinato tuttavia a creare una sorta di tensione: da una parte, infatti, si sostiene che senza la l. dell’uomo non sarebbe concepibile il peccato, e dunque non avrebbe senso la redenzione, dall’altra si afferma che il concetto di l. deve congiungersi strettamente a quello di grazia divina, a un qualcosa cioè di esterno e indipendente. Agostino sente la necessità di affermare la responsabilità umana e insieme un prestabilito disegno divino: la predeterminazione divina non annulla ma include il libero arbitrio umano e le sue scelte, e se Dio concede il suo aiuto a chi vuole, ciò non toglie che con un volere libero, sebbene ridestato dall’aiuto divino, l’uomo riesca a volere il bene, sicché un reale merito, per quanto reso possibile solo dalla grazia, è premiato con la salvezza. Tommaso d’Aquino, a sua volta, sostiene che il poter fare il male proviene sì dalla l., ma da un suo difetto, non da una sua perfezione.

2. La l. nella filosofia moderna e contemporanea

Dopo il Medioevo, nel Cinquecento la questione è ridiscussa interamente. Da un’interpretazione di Agostino sorgono le dottrine di G. Calvino e di M. Lutero, entrambe negatrici di ogni libero arbitrio umano, entrambe affermatrici di una l. nel bene che coincide con la più rigorosa necessitazione del volere umano da parte della grazia. Nel Seicento, B. Spinoza ripristina il concetto stoico dell’universale necessità e il concetto parimenti stoico di una l. che non presuppone, anzi nega il libero arbitrio, ed è fatta consistere nel riconoscimento e accettazione della necessità stessa.

Nel secolo successivo I. Kant pone la distinzione tra leggi della necessità, che regolano i fenomeni dell’universo naturale, e le leggi morali o leggi della libertà. Per si deve intendere per Kant la facoltà di adeguarsi alle leggi che la ragione dà a noi stessi. La l. come autonomia morale dell’uomo e sua intima dignità è il concetto che J.G. Fichte svolge, riprendendolo da Kant. Al concetto di l. o arbitrio d’indifferenza (facoltà di volere immotivatamente l’una o l’altra di due cose contrarie o anche nessuna delle due) G.W.F. Hegel oppone un più concreto concetto della l. come autodeterminazione e intima necessità. A Kant ritornano le filosofie che reagiscono al determinismo positivistico, intese a salvare la l. della condotta morale. Nel quadro del ritorno all’idealismo classico, i movimenti neohegeliani insistono sulla hegeliana coincidenza di l. e necessità, rinnovando la polemica contro il mero arbitrio o l. d’indifferenza.

Nel marxismo manca una vera e propria teoria filosofica della l.: secondo K. Marx e F. Engels, infatti, la coscienza degli uomini è determinata dal loro essere sociale. La l. si identifica quindi interamente con quella società comunista che, attraverso l’abolizione del lavoro salariato, realizza «il salto dal regno della necessità a quello della libertà». Per tutt’altra via passa la difesa del concetto di l. intrapresa dal contingentismo ( contingente), per il quale nella l. è da vedere anzitutto indeterminazione; e spontaneità, piuttosto che autonomia, è la l. per la filosofia di H.L. Bergson. Nell’esistenzialismo la l. coincide con la stessa necessità della situazione, di fronte alla quale l’uomo non ha altra scelta che accettarla consapevolmente o piombare nell’‘esistenza inautentica’, come in M. Heidegger. In L’être et le néant J.P. Sartre sostiene che l’uomo è ‘essenzialmente’ libero di scegliere, in quanto sua caratteristica è la ‘mancanza’, il ‘nulla’ di essere, ed è perciò teso alla scelta di possibilità esistenziali.

Dizionario di Filosofia (2009)

Capacità del soggetto di agire (o di non agire) senza costrizioni o impedimenti esterni, e di autodeterminarsi scegliendo autonomamente i fini e i mezzi atti a conseguirli. La l. può essere definita in riferimento a tre elementi: il soggetto o i soggetti di l. (chi è libero), i campi entro cui essi sono liberi (definiti dai vincoli), gli scopi o i beni socialmente riconosciuti che si è liberi di perseguire (che cosa si è liberi di fare). Come vi sono vari tipi di agenti che possono essere liberi (persone, associazioni, Stati), così vi sono molti tipi di condizioni che li vincolano e innumerevoli generi di cose che essi sono liberi o non liberi di fare. In questo senso esistono molte l. diverse (morale, giuridica, politica, religiosa, economica, ecc.). Di conseguenza, quando cerchiamo di definire stati di l., abbiamo a che fare con questioni relative all’identificazione di chi, sotto quale descrizione pertinente per il riconoscimento collettivo, è libero di fare che cosa, rispetto a quali vincoli, entro quale campo di azione e significato sociale. La riflessione sul tema della l. accompagna tutta lo storia del pensiero filosofico, dall’antichità all’epoca contemporanea, con accenti e approcci diversi.

Il tema della libertà nella filosofia antica. Nel pensiero di Socrate hanno un grande rilievo i due motivi, strettamente connessi tra loro, della involontarietà del male e dell’attraenza del bene. Socrate è convinto che nessuno fa il male volontariamente, cioè per il gusto di fare il male, e che ognuno agisce sempre in vista di quello che egli crede sia il bene e il meglio per lui. Se per questo verso Socrate resta all’interno del cosiddetto soggettivismo dei sofisti, nel senso che anche per lui non è mai possibile uscire dall’ambito delle valutazioni, dei gusti e delle preferenze individuali, tuttavia questi vengono continuamente giudicati, criticati e discussi attraverso il διαλέγεσϑαι («il disputare») e ciò permette di ritrovare criteri comuni e validi universalmente. Fare il male, per Socrate, vuol dire seguire un bene apparente invece del bene reale; infatti, se uno conoscesse il bene, lo farebbe anche, perché il bene è tale che, una volta conosciuto, attrae irresistibilmente la volontà dell’uomo e si presenta senz’altro come ciò che è preferibile. Di qui l’equazione socratica di scienza e virtù, strettamente connessa all’eudemonismo che caratterizza tutta l’etica socratica. Di qui, implicitamente, una concezione della l. come meta raggiungibile attraverso la scienza. Questa concezione ritorna anche in Platone, sia pure all’interno di una prospettiva escatologica: si pensi al mito di Er (Repubblica, X), il guerriero che ha passato dodici giorni nell’Ade e che può ricordare ciò che ha visto. L’anima, che è immortale, deve reincarnarsi ciclicamente per espiare i peccati che ha commesso, e poiché essa ricorda le sue vite precedenti, può scegliere fra vari «modelli di vita». Ciascuna anima è responsabile della propria scelta, «la divinità non vi ha minimamente parte», e ognuna avrà, per guidarla nella sua vita, il demone che si sarà scelto. Una volta avvenuta la decisione, non ci sarà più possibilità di sottrarvisi. Ma solo chi ha ascoltato la filosofia sa riflettere con discernimento: se la scelta, dunque, è libera, di questa l. è possibile fruire nel migliore dei modi solo attraverso la filosofia. Anche in Aristotele troviamo il consueto rapporto greco tra l. e conoscenza. Secondo l’analisi svolta nell’Etica nicomachea (III, 1), involontarie sono quelle operazioni «che avvengono per costrizione» o «per ignoranza»; la costrizione ha luogo ogni volta che «il principio dell’azione sia esteriore, di modo che l’agente, o paziente, non vi contribuisca per nulla». Quanto alle azioni commesse per ignoranza, l’involontarietà deriva dal fatto che «ogni malvagio ignora ciò che si deve fare e ciò da cui ci si deve astenere». Pare dunque, conclude Aristotele, che «sia volontario ciò il cui principio si trova nell’agente che conosce tutte le circostanze particolari dell’azione». In questo modo Aristotele congiunge strettamente la l. del volere alla scelta volontaria. Un’ampia analisi dei problemi connessi con la libertà ci dà Plotino nelle Enneadi (VI, 8). Egli si chiede «se sia qualche cosa rimessa alla nostra libertà», e poiché moltissime sono le passioni che ci trascinano, «noi ci domandiamo perplessi», dice Plotino, «se non siamo, per avventura, altro che nulla, e nulla sia rimesso alla nostra libertà». Plotino riconduce la l. del volere non a un impulso sensibile, bensì «al retto ragionamento e alla giusta tendenza»; è necessario, insomma, che «la ragione e la conoscenza si rivolgano proprio contro l’impulso e lo vincano». Perciò esse devono rifarsi a un principio non-sensibile, a una non-sensibile tendenza al bene. Coloro che sono guidati da impulsi sensibili, non potremo considerarli, sostiene quindi Plotino, «compresi sotto un principio di l., perché anche agli incapaci, che agiscono per lo più in quel modo, non riconosceremo mai l. del volere: a chi, invece, per la virtù operosa del suo intelletto, è immune dalla passionalità del corpo, attribuiremo veramente la libera indipendenza».

Cristianesimo e Riforma. Sul concetto di l. influisce in modo profondo l’avvento del cristianesimo. Hegel osservava a questo proposito (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, 482) che intere parti del mondo, l’Africa e l’Oriente, non avevano mai avuto questa nuova idea della l.; i Greci e i Romani, Platone e Aristotele, e anche gli stoici sapevano solo che l’uomo è realmente libero in virtù della nascita (come cittadino spartano, ateniese, ecc.) o in virtù della forza del carattere e della cultura, in virtù della filosofia (lo schiavo, anche come schiavo e in catene, è libero). Ma una nuova idea di l. si afferma per opera del cristianesimo; per il quale l’individuo come tale ha valore infinito, ed essendo oggetto e scopo dell’amore di Dio, è destinato ad avere relazione assoluta con Dio come spirito, e a far sì che questo spirito dimori in lui: cioè l’uomo in sé è destinato alla somma libertà. Se il concetto di l. del volere diventa centrale per il cristianesimo, perché senza la l. dell’uomo non sarebbe concepibile il peccato, e dunque non avrebbe senso alcuno la redenzione, tuttavia il concetto di l. deve congiungersi strettamente a quello di grazia divina, a un qualcosa cioè di esterno e indipendente. Agostino sente la necessità di affermare la responsabilità umana e insieme un prestabilito disegno divino. A Pelagio, che asseriva che il volere umano, dopo il peccato, può anche volgersi al bene, Agostino risponde che certamente «può»; ma la maniera in cui riesce concretamente a volere quel bene che «può» volere è che le reali forze di volerlo gli siano date da quello stesso vivente Bene a cui volse le spalle. E a Giuliano d’Eclano Agostino risponde che la predeterminazione divina non annulla ma include il libero arbitrio umano e le sue scelte, e che, se Dio concede il suo aiuto a chi vuole, ciò non toglie che con un volere libero, sebbene ridestato dall’aiuto divino, l’uomo riesca a volere il bene, sicché un reale merito, per quanto reso possibile solo dalla grazia, è premiato con la salvezza. Tommaso, a sua volta, sostiene che il poter fare il male proviene sì dalla l., ma da un suo difetto, non da una sua perfezione: «che il libero arbitrio possa scegliere oggetti diversi rispettando l’ordine delle finalità, appartiene alla perfezione della l.: ma che scelga alcunché travolgendo tale ordine – ciò che è peccare – questo appartiene a un difetto di libertà» (Summa theologiae). Dopo il Medioevo, nel quale la soluzione agostiniana è accolta da taluni con più intensa accentuazione dell’onnipotenza della grazia nel volere umano, da altri con maggiore preoccupazione di mostrare che il libero arbitrio non è tolto neppure dall’onnipotenza della grazia, il Cinquecento è il secolo nel quale la questione è ridiscussa interamente. Da un’interpretazione di Agostino sorgono le dottrine di Calvino e di Lutero, entrambe negatrici di ogni libero arbitrio umano, entrambe affermatrici di una l. nel bene che coincide con la più rigorosa necessitazione del volere umano da parte della grazia. Per i rifor- matori la l. cristiana è una realtà ‘spirituale’: essi avversano con decisione la sua interpretazione distorta in termini politici. Se Lutero, tornando a un’interpretazione di Paolo, si impegna a fondo nella critica della l. cristiana come libertas ecclesiae, che nient’altro diviene se non l’insieme dei privilegi, delle immunità e delle rivendicazioni dell’istituzione ecclesiastica, Calvino sottrae al regimen politicum o all’ordinamento civile il concetto della l. cristiana, che viene invece ascritto all’ambito autonomo della teologia. La tesi della l. della coscienza vincolata soltanto alla parola di Dio, in quanto tale non sottoposta ad alcuna autorità ecclesiastica o secolare, e l’aperta protesta contro una simile coartazione della coscienza, il rigetto delle pretese mondane di potere della Chiesa e della sua sovraordinazione all’ambito statuale-secolare prepareranno la strada alla concezione moderna della l. e al dibattito sul suo significato politico-giuridico.

Il dibattito su libertà e necessità. Nel Seicento, Spinoza ripristina il concetto stoico dell’universale necessità e il concetto parimenti stoico di una l. che non presuppone, anzi nega il libero arbitrio, ed è fatta consistere nel riconoscimento e nell’accettazione della necessità universale stessa. Nel secolo seguente abbiamo la concezione di Kant, con la sua distinzione tra leggi della necessità, che regolano i fenomeni dell’Universo naturale, e le leggi morali o leggi della libertà. Per «l. morale» si deve intendere, secondo Kant, la facoltà di adeguarsi alle leggi che la nostra ragione dà a noi stessi. Noi possiamo dunque scegliere tra il seguire la causalità empirica, che rende il nostro volere eteronomo, e l’obbedire alla legge morale che, esprimendo l’essenza più profonda del nostro Io, rende il nostro volere autonomo e, così, libero. E come l’essenza profonda del nostro essere è la l., così all’origine dell’intero Universo che alla scienza si presenta determinato, è il libero volere di un Essere intelligente, che ordina teleologicamente ciò che alla conoscenza scientifica appare invece meccanicamente causato. La l. come autonomia morale dell’uomo e sua intima dignità è il grande concetto che Fichte svolge, riprendendolo da Kant. Al concetto, elaborato da alcuni scolastici, di «l. o arbitrio d’indifferenza» (facoltà di volere, immotivatamente o indifferentemente, l’una o l’altra di due cose contrarie o anche nessuna delle due), che, non sapendo o non potendo risolvere la propria indifferenza, resta in fondo un’inerte possibilità d’azione, Hegel oppone un concetto più concreto della l., quello della l. come autodeterminazione e intima spirituale necessità. Al determinismo positivistico reagiscono tutte le filosofie del «ritorno a Kant», intese a salvare la l. della condotta morale. E, nel quadro del ritorno all’idealismo classico dei primi decenni dell’Ottocento, i movimenti neohegeliani insistono sulla hegeliana coincidenza di l. e necessità, rinnovando la polemica contro il mero arbitrio o l. d’indifferenza. Il rifiuto della concezione hegeliana della l. come processo speculativo della ragione universale distingue invece il pensiero di Marx, che identifica la l. con un processo di liberazione economica, politica e sociale volto ad affrancare l’uomo dal bisogno e dalla lotta di classe e a creare le condizioni per una concreta autorealizzazione materiale e spirituale. Per tutt’altra via passa l’opposizione all’hegelismo intrapresa dal contingentismo, per il quale nella l. è da vedere anzitutto indeterminazione; e spontaneità, piuttosto che autodeterminazione, cioè autonomia, è la l. per la filosofia dello «slancio vitale» (Bergson). Nell’esistenzialismo la l. viene a coincidere con la stessa necessità della situazione, di fronte alla quale l’uomo non ha altra scelta che accettarla consapevolmente o piombare nella «esistenza inautentica», come in Heidegger. In L’essere e il nulla (1943) Sartre sostiene che l’uomo è «essenzialmente» libero di scegliere, in quanto sua caratteristica è la «mancanza», il «nulla» di essere, ed è perciò continuamente teso alla scelta di possibilità esistenziali. L’equivalenza, di qui derivante, di tutte le scelte viene tuttavia eliminata nelle opere successive.

Il dibattito contemporaneo. Il significato politico-giuridico del concetto di l. è al centro del dibattito contemporaneo. Particolarmente influente è stata a questo riguardo la distinzione espressa da Berlin fra l. negativa e l. positiva, fra l. da e l. di: la prima concerne l’area entro la quale una persona è o dovrebbe essere lasciata fare o essere ciò che è in grado di fare o essere senza interferenze da parte di altre persone. La seconda riguarda l’area in cui si situa la fonte del controllo e dell’interferenza che può determinare che qualcuno faccia o sia una cosa piuttosto che un’altra. La l. negativa corrisponde alla l. dei ‘moderni’ di Constant, che ne definisce appunto il senso e il valore nella celebre contrapposizione con la l. degli ‘antichi’; essa è l’indipendenza individuale difesa da J.S. Mill: il soggetto della l. negativa è l’individuo, e l’arena della l. negativa è circoscritta da un confine che, per quanto mobile e variamente tracciato, separa la sfera ‘privata’ dalla sfera ‘pubblica’, la sfera individuale da quella collettiva. L’assenza di vincoli o interferenze va quindi interpretata principalmente come assenza di vincoli o interferenze da parte dei detentori di autorità legittima, che è tale se e solo se non viola o viola il meno possibile l’autonomia individuale. Contro la distinzione analitica dei due concetti di l. si è espresso Rawls nella sua teoria della giustizia come equità. La l. o, meglio, il sistema delle l. è oggetto del primo principio di giustizia. Esso prescrive che il sistema delle l. sia per ciascuno il più ampio possibile, compatibilmente con il sistema delle l. di ciascun altro. Nella prospettiva di Rawls, la massimizzazione del sistema delle l. individuali è prioritaria rispetto a quanto prescritto dal secondo principio di giustizia, il cosiddetto principio di differenza, che deve modellare le istituzioni responsabili della distribuzione di una classe particolare di risorse, considerate come beni sociali primari spettanti a tutti i cittadini. Accettare la priorità dell’eguale sistema delle l. implica accettare un principio di equità nella distribuzione dei beni sociali primari, in quanto un eguale sistema di l. non ha, di regola, eguale valore per individui diversamente dotati. Proponendo un ordinamento fra l. ed equità, espresso dalla priorità del principio di l. sul principio di differenza, Rawls ha di mira la soluzione di un conflitto fra la l. e un altro valore sociale quale l’uguaglianza . A questa prospettiva, e ai suoi importanti sviluppi ad opera di Sen e di Dworkin, si contrappone radicalmente la tesi sui diritti negativi propria della teoria libertaria. In partic., Nozick ha confutato la pretesa di teorie della giustizia distributiva di proporre criteri o modelli di distribuzione giusta. Se ci si basa sull’assegnazione di valore intrinseco alla l. individuale, qualsiasi precetto distributivo è inaccettabile perché non può che violare la l. individuale stessa. Nella più recente controversia nell’ambito della teoria normativa, il conflitto distributivo ha finito per lasciare spazio ad altro tipo di conflitto, il conflitto di identità o conflitto per il riconoscimento. E questioni relative all’assegnazione di valore alle l. si sono così connesse a questioni di riconoscimento di nuove identità o di identità prima escluse, a questioni di inclusione in o esclusione da comunità di ‘pari’ dai differenti confini.

Enciclopedia del Novecento (1978)

di Norberto Bobbio

Sommario: 1. Libertà negativa. 2. Libertà positiva. 3. Libertà di agire e libertà di volere. 4. Determinismo e indeterminismo. 5. Libertà dell'individuo e libertà della collettività. 6. ‛Libertà da' e ‛libertà di'. 7. Libertà degli antichi e libertà dei moderni. 8. Liberalismo e democrazia. 9. Quale sia la ‛vera' libertà. 10. Due ideali di società libera. 11. La storia come storia della libertà. 12. La storia della libertà. 13. Linee di tendenza di questa storia. 14. Dalla libertà dallo Stato alla libertà nella società. 15. Totalitarismo e tecnocrazia. 16. Le forme attuali della non-libertà. 17. I problemi attuali della libertà. 18. Considerazione conclusiva.

1. Libertà negativa

Nonostante quel che è stato detto infinite volte circa la varietà e la molteplicità dei significati di ‛libertà', e quindi circa la difficoltà o addirittura la vanità di una sua definizione, i significati rilevanti nel linguaggio politico, che qui viene preso in particolare considerazione (ma non soltanto nel linguaggio politico, come vedremo tra poco), sono soprattutto due, e pertanto la determinazione del concetto o dei concetti di libertà non è, per quanto difficile, vana.
I due significati rilevanti si riferiscono a quelle due forme di libertà che si sogliono chiamare, con sempre maggiore frequenza, ‛negativa' e ‛positiva'. Per ‛libertà negativa' s'intende, nel linguaggio politico, la situazione in cui un soggetto ha la possibilità di agire senza essere impedito, o di non agire senza essere costretto, da altri soggetti. Con questa avvertenza: il fatto che nel linguaggio politico la libertà sia una relazione tra due soggetti umani non esclude che il concetto ampio di libertà comprenda anche una relazione in cui uno dei due soggetti o tutti e due non sono soggetti umani. È perfettamente lecito dire che l'uomo ha conquistato la propria libertà emancipandosi non solo dalle restrizioni derivanti dalla soggezione dell'uomo all'uomo, ma anche dalla sottomissione alle forze naturali, così come si può dire che un fiume (ente naturale) è libero di seguire il proprio corso quando non ne è impedito da un argine o da una diga (che sono opera dell'uomo).

La libertà negativa si suole chiamare anche ‛libertà come assenza d'impedimento' o ‛libertà come assenza di costrizione': se per ‛impedire' s'intende il non permettere ad altri di fare alcunché, e se per ‛costringere' s'intende l'obbligare altri a fare alcunché, entrambe le dizioni sono parziali, dal momento che la situazione di libertà denominata ‛libertà negativa' comprende tanto l'assenza d'impedimento, cioè la possibilità di fare, quanto l'assenza di costrizione, cioè la possibilità di non fare. Si considera che goda di una situazione di libertà tanto colui che può esprimere le proprie opinioni senza incorrere nei rigori della censura, quanto colui che è esentato dal servizio militare (per es., là dove l'obiezione di coscienza è legalmente riconosciuta): il primo può agire perché non vi è nessuna norma che vieti l'azione che egli ritiene desiderabile, il secondo può non agire perché non vi è nessuna norma che imponga l'azione che egli ritiene non desiderabile. Siccome i limiti alle nostre azioni in società sono posti generalmente da norme (siano esse consuetudinarie o legislative, siano sociali o giuridiche o morali), si può anche dire, com'è stato detto per lunga e autorevole tradizione, che la libertà in questo senso, cioè la libertà che un uso sempre più diffuso e frequente chiama ‛libertà negativa', consista nel fare (o non fare) tutto ciò che le leggi, intese le leggi in senso lato, e non solo in senso tecnico-giuridico, permettono, ovvero non proibiscono (e in quanto tali permettono di non fare). Quando Hobbes accolse il principio libertas silentium legis, mostrò di aver ben chiara in mente questa idea di libertà, che illustrò in questi termini: ‟[...] poiché non tutti i movimenti e le azioni dei cittadini sono regolati dalle leggi, né, per la loro varietà, potrebbero esserlo, vi saranno necessariamente infinite attività che non risulteranno né comandate né proibite, e che ciascuno potrà svolgere o non svolgere a suo arbitrio. Qui si può dire che ogni cittadino goda di una certa libertà, intendendo per libertà quella parte del diritto naturale che viene rilasciata ai cittadini in quanto non è limitata dalle leggi civili" (De cive, XIII, 15).

Non diversamente Locke: ‟[...] la libertà degli uomini sotto un governo consiste [...] nella libertà di seguire la mia propria volontà in tutto ciò in cui la norma non dà precetti, senza esser soggetto alla volontà incostante, incerta, sconosciuta e arbitraria di un altro" (Secondo trattato sul governo, IV, 22). La formulazione classica di questa accezione di libertà fu data da Montesquieu: ‟La libertà è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono" (De l'esprit des lois, XII, 2).

Che nella maggior parte delle definizioni tradizionali della libertà negativa la libertà venga definita più in relazione all'assenza d'impedimento che non all'assenza di costrizione, si spiega con la considerazione che le libertà storicamente più rilevanti, nel periodo in cui il problema della libertà negativa diventa politicamente cruciale, in genere tutte le libertà civili, rappresentano il risultato di una lotta contro precedenti impedimenti piuttosto che contro precedenti costrizioni. Di qua anche l'uso invalso di chiamare questa forma di libertà ‛libertà come non impedimento', anziché ‛libertà come non costrizione', mentre la dizione più comprensiva sarebbe ‛libertà come non impedimento e come non costrizione'.

2. Libertà positiva

Per ‛libertà positiva' s'intende nel linguaggio politico la situazione in cui un soggetto ha la possibilità di orientare il proprio volere verso uno scopo, di prendere delle decisioni, senza essere determinato dal volere altrui. Questa forma di libertà si chiama anche ‛autodeterminazione' o, ancor più appropriatamente, ‛autonomia'. ‛Negativa' la prima forma di libertà perché designa soprattutto la mancanza di qualche cosa (è stato notato che nel linguaggio comune ‛libero da' è spesso sinonimo di ‛senza di', tanto che il modo più comune di spiegare che cosa significhi che io ho agito liberamente consiste nel dire che ho agito senza...); ‛positiva' la seconda, perché indica, al contrario, la presenza di qualche cosa, cioè di un attributo specifico del mio volere, che è appunto la capacità di muoversi verso uno scopo senza essere mosso. Beninteso, si suole chiamare ‛libertà' anche questa situazione, che potrebbe essere chiamata più appropriatamente ‛autonomia', nella misura in cui nella definizione si fa riferimento non tanto a ciò che c'è quanto a ciò che manca, come quando si dice che autodeterminarsi significa non essere determinati da altri, o non dipendere per le proprie decisioni da altri, o determinarsi senza essere a nostra volta determinati. Conducendo alle estreme conseguenze questa osservazione verrebbe fatto di dire che, essendo ‛libertà' un termine indicante, nella molteplicità delle proprie accezioni, mancanza di qualche cosa, l'espressione ‛libertà positiva' è contraddittoria.

Della libertà positiva la definizione classica fu data da Rousseau, per il quale la libertà nello stato civile consiste nel fatto che quivi l'uomo, in quanto parte del tutto sociale, come membro dell'‛io comune', non ubbidisce ad altri che a se stesso, cioè è autonomo nel senso preciso della parola, nel senso che dà leggi a se stesso e non ubbidisce ad altre leggi che a quelle che si è dato: ‟L'obbedienza alla legge che ci siamo prescritti è la libertà" (Contrat social, I, 8). Tale concetto di libertà fu ripreso, per influsso diretto di Rousseau, da Kant, dove peraltro si trova anche il concetto di libertà negativa. Nel saggio Per la pace perpetua, nel momento stesso in cui Kant esclude che la libertà giuridica possa essere definita ‟come la facoltà di fare tutto ciò che si vuole pur di non recare ingiustizia ad alcuno" (si tratta della definizione di libertà accolta nelle Dichiarazioni dei diritti: art. 4 della Dichiarazione del 1789, art. 5 della Dichiarazione del 1793), precisa che ‟meglio è definire la mia libertà esterna (cioè giuridica) come la facoltà di non obbedire ad altre leggi esterne, se non a quelle cui io ho potuto dare il mio assenso" (nella nota al primo articolo definitivo). Non altrimenti nella Metafisica dei costumi, ove la libertà giuridica viene definita come ‟la facoltà di non obbedire ad altra legge che non sia quella a cui i cittadini hanno dato il loro consenso" (II, 46). Il filosofo che ha celebrato la libertà come autonomia, disdegnando la libertà negativa, è stato Hegel, secondo il quale la libertà politica si realizza soltanto nello Stato, attraverso la manifestazione della sua volontà razionale, che è la legge: ‟Giacché la legge è l'oggettività dello spirito e la volontà nella sua verità; e solo la volontà che ubbidisce alla legge è libera: ubbidisce infatti a se stessa, è presso se stessa, e dunque è libera" (O. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, vol. I, Firenze 1972, p. 109).

3. Libertà di agire e libertà di volere

Meglio di ogni altra considerazione, ciò che permette di distinguere nettamente le due forme di libertà è il riferimento ai due diversi soggetti di cui esse sono, rispettivamente, il predicato. La libertà negativa è una qualifica dell'azione, la libertà positiva è una qualifica della volontà. Quando dico che sono libero nel primo senso voglio dire che una certa mia azione non è ostacolata, e quindi posso compierla; quando dico che sono libero nel secondo senso voglio dire che il mio volere è libero, cioè non è determinato dal volere altrui, o più in generale da forze estranee al mio stesso volere. Più che di libertà negativa e positiva sarebbe forse più appropriato parlare di libertà d'agire e di libertà di volere, intendendosi per la prima ‛azione non impedita o non costretta', per la seconda ‛volontà non eterodeterminata o autodeterminata'. In un certo senso proprio il riferimento alla ‛assenza di...' in entrambe le definizioni serve a spiegare, meglio della qualificazione di ‛negativo' e di ‛positivo', come mai tanto il linguaggio comune quanto quello tecnico usino per le due diverse accezioni lo stesso termine.

Nello stesso tempo la netta distinzione del campo di riferimento delle due libertà serve anche a spiegare perché le due nozioni debbano essere rigorosamente distinte, e perché la loro mancata distinzione, o meglio la mancanza di un criterio netto di distinzione (come quello che ha dato origine alle due dizioni ‛libertà negativa' e ‛libertà positiva'), provochi deplorevoli confusioni, e quindi sterili controversie. Che un'azione sia libera vuol dire, secondo la definizione di libertà negativa come non impedimento, che questa azione può essere compiuta senza trovare ostacoli, come il fiume di Hobbes che segue il suo corso naturale. Ma tale azione può dirsi libera indipendentemente dal fatto che sia stata voluta, e ancor più che sia stata voluta da una volontà libera. Non è affatto contraddittorio il dire che io godo della libertà religiosa anche se non ho scelto liberamente la religione che liberamente professo. Così come non è affatto ridondante il dire che io sono libero riguardo all'attività religiosa, per il fatto che ho scelto liberamente la religione da professare, e sono libero di professarla perché vivo in uno Stato che riconosce e garantisce la libertà religiosa. Che la volontà sia libera secondo la definizione di libertà positiva vuol dire che questa volontà si determina da sé, è autonoma.

Ma che una volontà sia autonoma non implica affatto che l'azione che eventualmente ne derivi sia libera (cioè non impedita o non costretta). Non è affatto contraddittorio dire che io ho scelto liberamente la religione che professo ma non sono libero di professarla perché vivo in uno Stato confessionale. Così come non è ridondante il dire che io non sono religiosamente libero perché la religione che professo è la religione dei padri accettata passivamente, e perché nella situazione storica in cui mi trovo non mi è riconosciuto il diritto di professarla. Che le due libertà siano diverse tanto da poter essere indipendenti l'una dall'altra non vuoi dire che siano incompatibili e che quindi non si possano integrare vicendevolmente. Anzi, come vedremo, nella sfera politica una società o uno Stato liberi sono una società o uno Stato in cui alla libertà negativa degli individui o dei gruppi si accompagna la libertà positiva della collettività nel suo complesso, in cui un certo ampio margine di libertà negativa degli individui o dei gruppi (le cosiddette libertà civili) è la condizione per l'esercizio della libertà positiva dell'insieme (la cosiddetta libertà politica).

4. Determinismo e indeterminismo

Senza voler entrare nella controversia tradizionale tra deterministi e indeterministi, e continuando a restare nel campo della libertà sociale, non sembra fuori luogo precisare che i due significati di libertà sin qui illustrati corrispondono ai due significati di libertà prevalenti nelle discussioni dei filosofi, cioè alla libertà come l'intendono i deterministi e alla libertà come l'intendono gl'indeterministi. I primi infatti negano generalmente la libertà del volere ma non escludono la libertà di agire, se ad essa si attribuisce il significato di libertà negativa; i secondi affermano principalmente e con assoluta priorità su ogni altra forma di libertà la libertà di volere, che corrisponde alla cosiddetta libertà positiva e non comporta necessariamente la libertà di agire. Quando un determinista parla di libertà, ne parla per designare quella situazione in cui il corso naturale degli eventi non è ostacolato nel suo svolgimento necessario, come libertas a coactione, secondo la definizione di Hobbes: ‟La libertà è l'assenza di tutti gli impedimenti all'azione, che non siano contenuti nella natura e nella qualità intrinseca dell'agente. Così, ad esempio, si dice che l'acqua discende liberamente, o che ha libertà di scendere per il letto del fiume, perché non c'è impedimento lungo quella direzione, ma non di traverso, poiché gli argini sono impedimenti" (Of liberty and necessity, in English works, vol. IV, pp. 273-274). Per un indeterminista, invece, la libertà consiste nella capacità che hanno alcuni soggetti, come il soggetto umano nel pieno possesso delle sue facoltà, se pure entro certi limiti e in date circostanze, e in sommo grado Dio, di autodeterminarsi: come libertas a necessitatione. Non diversamente dalla libertà politica di un Rousseau o di un Hegel, la libertà come autodeterminazione nel linguaggio filosofico qualifica non una volontà assolutamente indeterminata ma una volontà che si determina non in base a impulsi o a moventi sensibili, ma ai dettami della ragione, sia essa la ragione divina o quella cosmica. Della quale quindi si può dire altrettanto bene che non consiste nel non essere sottoposti a nessuna legge bensì nell'essere sottoposti alla legge della ragione.

Allo stesso modo che libertà negativa e libertà positiva non si implicano e non si escludono, come abbiamo visto, così non si implicano né si escludono la libertà dei deterministi e la libertà degli indeterministi. Per ammettere la libertà come non impedimento del corso naturale delle cose non è affatto indispensabile postulare che la volontà sia libera nel senso che possa autodeterminarsi. Per altro verso, l'indeterminista riconosce che la volontà può essere libera ma l'azione che ne discende può essere ostacolata o addirittura impedita (si pensi all'esempio ricorrente del paralitico che vuole e non può), tanto è vero che anche il più intransigente sostenitore della libertà del volere ammette in molti casi l'attenuazione o addirittura la completa estinzione della responsabilità personale.

Anche se le dispute sulle libertà civili e politiche non si sono presentate di solito come il riflesso della disputa teologica e filosofica tra deterministi e indeterministi, e anzi si sono svolte prescindendone, si può osservare che, da un lato, le richieste di libertà negativa sono state sostenute in base all'argomento secondo cui bisogna dar libero corso alla natura (umana), non ostacolare con provvedimenti artificiosi e costrittivi la libera esplicazione delle forze naturali (per es. nei rapporti economici), e hanno fatto consistere il pregio della libertà non nell'affermazione del libero arbitrio, ma nel riconoscimento e nell'accettazione della necessità naturale contro le deformazioni provocate dalle leggi civili; e che, d'altra parte, la richiesta della libertà positiva corrisponde all'esigenza, se non al postulato, degli indeterministi, che la volontà sia posta in grado di autodeterminarsi, se pure con particolare riguardo alla volontà collettiva, alla volontà del tutto, più che alla volontà dei singoli individui.

5. Libertà dell'individuo e libertà della collettività

Le due forme di libertà rilevanti nella teoria politica si possono distinguere anche in base al diverso soggetto storico che dell'una o dell'altra è portatore. Generalmente il soggetto storico della libertà come assenza d'impedimento e di costrizione è l'individuo; il soggetto storico della libertà come autodeterminazione è un ente collettivo. Le libertà civili, prototipo delle libertà negative, sono libertà individuali, cioè inerenti all'individuo singolo: storicamente, infatti, sono il prodotto delle lotte per la difesa dell'individuo considerato o come persona morale, e quindi avente un valore di per se stesso, o come soggetto di rapporti economici, contro l'invadenza di enti collettivi come la Chiesa e lo Stato; filosoficamente sono una manifestazione di concezioni individualistiche della società, cioè di teorie per cui la società è una somma d'individui e non un tutto organico. La libertà come autodeterminazione invece è generalmente riferita, nella teoria politica, a una volontà collettiva, sia questa volontà quella del popolo o della comunità o della nazione o del gruppo etnico o della patria: ciò vuol dire che per la teoria politica il problema storicamente rilevante non è tanto quello dell'autodeterminazione dell'individuo singolo (che è problema teologico o filosofico o morale) quanto quello dell'autodeterminazione del corpo sociale di cui l'individuo è parte. È significativo infatti che per la prima libertà si usi spesso la formula ‛libertà dallo Stato', che richiama l'attenzione sulla libertà dell'individuo nei riguardi dello Stato, per la seconda si usi la formula ‛libertà dello Stato', ove il soggetto della libertà è l'ente collettivo ‛Stato'. Le teorie che di questa libertà si fanno banditrici, a cominciare da quella paradigmatica di Rousseau, per finire con quella di Hegel, hanno una concezione non atomistica ma organica della società, hanno di mira la libertà non dei singoli individui ma del tutto. Altro modo di esprimere questa differenza è il chiamare la libertà negativa libertà del borghese, la libertà positiva libertà del cittadino: dove per ‛borghese' s'intende l'individuo singolo con la sfera privata di aspirazioni e d'interessi, e per ‛cittadino' l'individuo in quanto parte di una totalità ed esso stesso promotore delle deliberazioni che da essa derivano.

Non bisogna peraltro confondere una distinzione storicamente rilevante con una distinzione concettuale. Che storicamente la libertà negativa sia prevalentemente un attributo dell'individuo, e la libertà positiva un attributo di un ente collettivo, non vuoi dire affatto che concettualmente le due libertà si distinguano in base al diverso soggetto che ne sarebbe il beneficiano. Dal punto di vista concettuale si può parlare, anche in contesti politicamente rilevanti, di libertà negativa in favore di un soggetto collettivo, come accade, per fare un esempio di grande attualità, nel caso di una guerra di ‛liberazione' nazionale (ove è chiaro che la libertà cui ci si riferisce è la libertà negativa); così come è appropriato parlare di libertà positiva con riferimento a un individuo singolo, anche se il problema dell'autodeterminazione individuale sia un problema morale (e giuridico) più che politico. Resta il fatto che non impedimento (e non costrizione) e autodeterminazione sono, astrattamente parlando, situazioni che possono essere entrambe riferite tanto all'individuo singolo quanto a un ente collettivo.

6. ‛Libertà da' e ‛libertà di'

È invalso l'uso di chiamare la libertà negativa ‛libertà da' (dall'inglese freedom from), espressione che mette immediatamente in rilievo l'elemento negativo della situazione cui si riferisce: la libertà negativa è, come abbiamo visto, quella situazione in cui non si è soggetti a limiti, come sono quelli che provengono da norme restrittive di questa o quella autorità sociale, cioè è ‛libertà da' questo o quel limite. Vi sono autori che distinguono la ‛libertà da' dalla ‛libertà di' (dall'inglese freedom to), comprendendovi tutte le situazioni designate con espressioni quali ‛libertà d'opinione', ‛libertà d'iniziativa economica', ‛libertà di riunirsi, di associarsi, di votare', ecc., e intendendo così mettere in rilievo, accanto al momento negativo della situazione di mancanza di limitazioni, cui si riferisce il termine ‛libertà', anche il momento positivo consistente nell'indicazione delle concrete azioni che da questa mancanza di limiti sono ‛liberate' e quindi rese possibili. Per quanto la distinzione tra ‛libertà da' e ‛libertà di' esprima la distinzione tra aspetto negativo e aspetto positivo di una situazione chiamata ‛libertà', non è da confondere, come spesso avviene, con la distinzione tra libertà negativa e libertà positiva, quale sinora è stata illustrata.

Abbiamo visto che la differenza tra la libertà come ‛assenza d'impedimento o di costrizione' e la libertà come ‛autodeterminazione' o ‛autonomia' sta nel fatto che la prima qualifica l'azione umana, la seconda la volontà. Orbene, tanto la ‛libertà da' quanto la ‛libertà di' qualificano l'azione. In quanto tali non designano due situazioni diverse ma due aspetti (che possiamo benissimo chiamare negativo e positivo purché da questa denominazione non nasca un'ulteriore confusione) della stessa situazione. Mentre le due libertà di cui abbiamo sinora parlato sono storicamente connesse ma non si implicano, dal momento che un soggetto può essere libero in uno dei due sensi di libertà senza essere libero nell'altro senso, la ‛libertà da' e la ‛libertà di' si implicano nel senso che, essendo due aspetti della stessa situazione, l'uno non può stare senza l'altro o, in altre parole, in una situazione concreta nessuno può essere ‛libero da'... senza essere ‛libero di'... e viceversa. Quando io dico, per esempio, che sono ‛libero di' esprimere le mie opinioni, dico, e non posso non dire, nello stesso tempo che sono ‛libero da' una legge che istituisce la censura preventiva. Così come quando io dico che sono ‛libero da' qualsiasi norma che limiti il mio diritto di voto, dico e non posso non dire nello stesso tempo che sono ‛libero di' votare. La stessa cosa si può enunciare anche in quest'altro modo: non vi è ‛libertà da' che non liberi una o più ‛libertà di', così come non vi è una ‛libertà di' che non sia una conseguenza di una o più ‛libertà da'. Questi due aspetti della nostra libertà di agire (che continuiamo a tener ben distinta dalla nostra libertà di volere) sono così connessi tra loro che le due espressioni ‛libertà da' e ‛libertà di' possono essere in qualche caso interscambiabili.

Se non sono sempre interscambiabili dipende unicamente dal fatto che la libertà da una sola restrizione può liberare più libertà di fare, e viceversa una sola libertà di fare può essere stata liberata dalla eliminazione di più limitazioni. Esemplificando, da un lato l'eliminazione delle norme sulla censura preventiva apre la strada a varie libertà, come quella di parlare in pubblico, di scrivere, di stampare, di rappresentare la realtà con le più diverse forme espressive; d'altro lato, la libertà di stampa può dipendere dalla mancanza o dall'abolizione di norme sulla censura preventiva, di norme penali che prevedano reati di opinione, di norme restrittive circa l'esercizio della professione del giornalista, eccetera. In sostanza, se libertà di stampa non equivale sempre a libertà dalla censura (e viceversa), ciò dipende non già dal fatto che la libertà di stampa non implichi la libertà da qualche restrizione (e viceversa), ma unicamente dal fatto che la libertà di stampa puo derivare dall'abolizione non solo della censura ma anche di altre limitazioni, e la libertà dalla censura può aprire la strada non solo alla libertà di stampa ma anche ad altre libertà. Ma ciò che meglio di ogni altra spiegazione serve a non confondere la distinzione tra libertà come non impedimento e non costrizione e libertà come autodeterminazione, da un lato, e ‛libertà da' e ‛libertà di', dall'altro, è che storicamente, di fatto, non vi può essere richiesta di una ‛libertà di' che non implichi anche una richiesta di almeno una ‛libertà da' e viceversa, mentre analoga interdipendenza non esiste rispetto alle richieste di libertà negativa e di libertà positiva. Abbiamo ammesso, sì, che queste due libertà procedono storicamente di pari passo, ma le richieste dell'una e dell'altra sono ben distinte e ne sono quasi sempre portatori gruppi politici diversi. Se si vuole ancora una riprova dell'interscambiabilità delle due espressioni ‛libertà da' e ‛libertà di', si pensi alle quattro libertà proclamate da Roosevelt nel messaggio al Congresso degli Stati Uniti il 5 gennaio 1941. Esse sono: la libertà di culto, la libertà di parola, la libertà dal terrore e la libertà dal bisogno. Le prime due sono formulate come ‛libertà di', le ultime due come ‛libertà da'. Eppure appartengono tutte quante alla classe delle libertà di agire, e non hanno niente a che vedere con la libertà come autodeterminazione. L'accento messo nei primi due casi sull'azione da liberare, negli altri due sull'impedimento da eliminare, dipende da ragioni di opportunità politica che è dal punto di vista concettuale irrilevante.

7. Libertà degli antichi e libertà dei moderni

In seguito al celebre saggio di Benjamin Constant sulla libertà degli antichi comparata a quella dei moderni, alla differenza tra le due libertà è stata fatta corrispondere una distinzione storica, secondo cui la libertà negativa sarebbe la libertà dei moderni e la libertà positiva quella degli antichi. Com'è noto, Constant distingue due forme di libertà, la libertà del godimento privato di alcuni beni fondamentali per la sicurezza della vita e per lo sviluppo della personalità umana, come sono le libertà personali, la libertà d'opinione, d'iniziativa economica, di movimento, di riunione e simili, e la libertà di partecipare al potere politico. Di queste due libertà, la prima corrisponde alla definizione corrente di libertà negativa, la seconda corrisponde alla definizione altrettanto corrente di libertà positiva; ed è chiaro altresì che mentre la prima è un bene per l'individuo e affonda le radici in una concezione individualistica della società, la seconda è un bene per il membro di una collettività, nel momento in cui questa collettività, il tutto di cui il singolo individuo fa parte, deve prendere decisioni che riguardano la società nel suo complesso e nelle sue parti.

Ciò che Constant aggiunge a queste due determinazioni della libertà è l'assegnazione della prima agli Stati moderni e della seconda agli Stati, o meglio alle città antiche: ‟Lo scopo degli antichi - egli scrive - era la distribuzione del potere sociale fra tutti i cittadini di una medesima patria: questo essi chiamavano libertà. Lo scopo dei moderni è la sicurezza nei godimenti privati: ed essi chiamano libertà le garanzie concesse dalle istituzioni a questi godimenti" (De la liberté des anciens comparée à celle des modernes, in Oeuvres, vol. VII, p. 253). Constant aveva le sue buone ragioni, che qui non è il caso di discutere, per sovrapporre alla distinzione concettuale, nettamente delineata, una distinzione storica: l'assegnazione della libertà negativa ai moderni e di quella positiva agli antichi gli serviva, oltreché per chiarire un concetto difficile e confuso come quello di libertà, anche per esprimere un giudizio di valore, che era positivo per la libertà negativa e negativo per la libertà positiva, e per mostrare tutta la propria avversione per Rousseau e in specie per Mably, che avevano esaltato la seconda e trascurato la prima. Si capisce che in una concezione progressiva della storia, come quella cui s'ispirava Constant, l'epiteto di ‛moderno' esprimesse un giudizio di approvazione, quello di ‛antico' un giudizio di condanna.

Pur rendendo omaggio alla lucidità con cui Constant fissò la distinzione tra le due libertà, non siamo tenuti ad accettarne il giudizio di valore, nè il giudizio storico che questo presuppone. Se è vero che le libertà civili intese come libertà dell'individuo contro il potere dispotico, garantite legalmente attraverso quei meccanismi giuridici che sono alla base dello Stato costituzionale moderno, erano sconosciute agli antichi, anche se non era affatto sconosciuta la definizione di libertà negativa (libertas est naturalis facultas eius quod cuique facere libet, nisi si quid vi aut iure prohibetur, così un passo del Digesto, Fr. 4, pr., D, I, 5), non è altrettanto vero che la libertà positiva fosse una caratteristica delle società antiche. Nella storia della formazione dello Stato costituzionale moderno la richiesta della libertà politica procede di pari passo con la richiesta delle libertà civili, anche se, bisogna riconoscerlo, il conseguimento delle seconde, o almeno di alcune di esse, prima fra tutte la libertà religiosa, la libertà di opinione e la libertà di stampa, precedette il pieno conseguimento della prima. Nell'idea lockiana del governo civile non si può staccare il principio della protezione di alcuni beni fondamentali, come la libertà, la vita e la proprietà, dalla partecipazione del popolo alla formazione delle leggi, sebbene il popolo sia costituito da una ristrettissima classe di proprietari. Nello stato di diritto di Kant, che ha per fine la garanzia della massima libertà di ciascuno compatibile con la eguale libertà di tutti gli altri, la libertà politica è riconosciuta soltanto a coloro che godono dell'indipendenza economica e preclusa oltre che alle donne ai lavoratori dipendenti. La Costituzione francese del 1791, che garantisce i principali diritti di libertà, limita il diritto di voto a coloro che pagano un certo tributo e ne esclude coloro che si trovano ‟in uno stato di domesticità, cioè di lavoro salariato". Da questi esempi appare, contrariamente alla tesi del liberale non democratico autore del Cours de politique constitutionnelle, che, se la libertà negativa è moderna, la libertà positiva, invece di essere antica, è ancora più moderna.

8. Liberalismo e democrazia

Nella storia dello Stato moderno le due libertà sono strettamente collegate e interconnesse, sì che dove cade l'una cade l'altra. Più precisamente, senza libertà civili, come la libertà di stampa e di opinione, come la libertà di associazione e di riunione, la partecipazione popolare al potere politico è un inganno; ma senza partecipazione popolare al potere, le libertà civili hanno ben poche probabilità di durare. Mentre le libertà civili sono una condizione necessaria per l'esercizio della libertà politica, la libertà politica, cioè il controllo popolare del potere politico, è una condizione necessaria per il conseguimento prima e per la conservazione poi delle libertà civili. Si tratta, come ognun vede, del vecchio problema del rapporto tra liberalismo e democrazia. Se vi sono stati scrittori liberali, come appunto il Constant, che hanno ritenuto di poter separare le libertà liberali da quelle democratiche, e credere che le prime potessero stare senza un pieno riconoscimento delle seconde, e come Tocqueville che, nel momento stesso in cui attribuiva un valore altamente positivo alla libertà negativa, che definiva come ‟la gioia di poter parlare, agire, respirare senza coartazioni, sotto il solo freno di Dio e della legge", paventava l'avvento della democrazia in cui vedeva il pericolo del livellamento, vi sono stati d'altra parte scrittori democratici, come Rousseau, che, nell'esaltazione della volontà generale come espressione della partecipazione collettiva al corpo politico, hanno trascurato le libertà negative sino ad affermare che la volontà generale non ha limiti, non è in particolare limitata dall'esistenza di diritti precostituiti; o come Mazzini, tanto fiduciosamente democratico quanto sospettoso liberale, che rimetteva la soluzione del problema politico nazionale assai più all'instaurazione della sovranità popolare che alla difesa dei diritti civili (che considerava come il prodotto delle teorie politiche individualistiche e utilitaristiche, da cui egli aborriva) e diceva, infatti, della libertà (intendi della libertà negativa) che ‟è una negazione, non costruisce nulla; distrugge, non fonda". Lungo tutta la storia politica dell'Ottocento le due correnti si svolgono spesso l'una indipendentemente dall'altra, talora scontrandosi e avversandosi: il liberale accusa il democratico di preparare la strada a un nuovo dispotismo, il democratico accusa il liberale di difendere sotto specie di libertà l'interesse dei beati possidentes e di minare l'unità sociale.

Ma oggi nessuno più dubita che il puro liberalismo e il puro democratismo siano posizioni unilaterali. Almeno sino alla svolta provocata dalla Rivoluzione sovietica, l'evoluzione dello Stato rappresentativo moderno è stata caratterizzata da una lotta ininterrotta, pur con ascese e ricadute, per l'allargamento delle libertà civili e della libertà politica. Dalla libertà di opinione, limitata in un primo tempo alla libertà religiosa, alla libertà di stampa; dalla libertà di riunione alla libertà di associazione sino al riconoscimento di associazioni specificamente indirizzate alla formazione della volontà politica, come sono i partiti. Dal suffragio ristretto al suffragio universale ed eguale, dal rafforzamento del sistema rappresentativo attraverso l'eliminazione, per esempio, della seconda camera ereditaria o di nomina regia alla creazione di istituti di democrazia diretta come la petizione popolare e il referendum. La verità è che le due libertà non sono affatto incompatibili, checché ne dicessero i rigidi fautori dell'una o dell'altra. Non solo non sono incompatibili ma si rafforzano l'una con l'altra. Le dittature moderne si sono del resto incaricate egregiamente di dimostrarcelo, senza troppe disquisizioni sulla libertà degli antichi o dei moderni, abolendo tanto l'una che l'altra. Una dittatura non è una buona dittatura, ma soltanto un regime più o meno autoritario, se lascia sopravvivere alcune libertà civili e non distrugge totalmente ma si limita a indebolire il sistema rappresentativo. Al contrario, la lotta contro un regime dispotico si muove ai tempi nostri sempre su due binari, quello della riconquista delle libertà civili e quello di una nuova e più ampia partecipazione popolare al potere.

9. Quale sia la ‛vera' libertà

Il non considerare che la libertà come autodeterminazione è un attributo della volontà e non dell'azione, e in quanto tale si distingue dalla libertà come non impedimento e non costrizione, conduce spesso alla vana discussione su quale delle due sia la vera libertà, ovvero la libertà buona, degna di essere perseguita quando non c'è e difesa quando c'è. La lezione di Constant, secondo cui vera o buona libertà è soltanto la seconda, mentre la prima è per l'individuo proprio l'opposto, è stata spesso seguita e ripetuta anche da scrittori recenti col solito argomento che, se la vera libertà è assenza di costrizione, non si vede come si possa chiamare libertà una situazione in cui vi è costrizione se pure di sé a se stesso, onde la cosiddetta libertà positiva sarebbe il contrario della libertà, e quindi, se la libertà è un bene, la libertà positiva non essendo un bene non sarebbe da promuovere. Un'obiezione di questo genere deriva proprio dal non tener conto che la libertà positiva qualifica non l'agire umano ma la volontà, e che ciò che può valere per l'agire non è detto che valga anche per la volontà; infatti ciò che rende non libera un'azione è un impedimento (o una costrizione), mentre ciò che fa di una volontà una volontà non libera è l'essere guidata o diretta da un soggetto diverso dal soggetto del volere, cioè l'essere eteroguidata o eterodiretta. Nei riguardi dell'azione la non libertà si presenta sotto forma di una qualunque ‛nomia', il cui contrario è una situazione di non-nomia (in cui consiste appunto la libertà negativa); nei riguardi della volontà la non libertà si presenta sotto forma di eteronomia, il cui contrario è l'autonomia (in cui consiste appunto la libertà positiva). Mentre in una situazione di libertà negativa è corretto dire che io posso (nel senso che mi è lecito) compiere una determinata azione, in una situazione di libertà positiva non solo non è corretto ma non avrebbe alcun senso dire che io posso (nel senso che mi è lecito) volere. Il che serve a riaffermare che affinché si possa dire che un' azione è libera basta il fatto negativo di non essere impedita o costretta, affinché si possa dire che è libera la volontà occorre non già il fatto negativo di non essere determinata (una volontà non determinata sarebbe una volontà inesistente), ma il fatto positivo di essere autodeterminata.

Se una difficoltà esiste rispetto alla libertà positiva non sta tanto nell'intendere correttamente il significato dell'espressione e nel trovare l'esatto criterio di distinzione dalla libertà negativa, quanto nell'individuare il momento in cui si possa dire che una volontà si è determinata da se stessa. In filosofia si ricorre generalmente alla distinzione tra due diversi ‛Io', uno più profondo, il vero io, e uno più superficiale, o io apparente e fittizio, tra l'io razionale e l'io istintivo, e si considera libera la volontà che ubbidisce al primo anziché al secondo. Nella teoria politica si ricorre alla distinzione tra la volontà collettiva, o ‛generale' (per usare l'espressione rousseauiana), che sarebbe la vera volontà del corpo sociale, e la volontà individuale, cioè dei singoli cittadini individualmente presi; e si considera libera la volontà che anche in questo caso ubbidisce alla prima e non alla seconda. Ciò spiega la lunga serie di definizioni della libertà (positiva) come obbedienza alle leggi, in quanto le leggi sono, o si presume che siano, la più alta e chiara espressione della volontà collettiva, o addirittura come obbedienza alla volontà dello Stato, dove lo Stato sia innalzato, come accade in tutto il filone dell'hegelismo politico, a moniento supremo della vita organizzata di un popolo. L'obiezione dei fautori della libertà negativa secondo cui la libertà positiva viene definita in termini di obbedienza, e cioè, per chi consideri esclusivamente la libertà negativa, in termini di non libertà, non ritiene di dover tener conto della differenza tra obbedienza ad altri e obbedienza a se stessi. Si potrà discutere l'opportunità di chiamare con lo stesso termine ‛libertà' due situazioni diverse, l'una definita in termini di non impedimento (o non costrizione) e l'altra in termini di obbedienza, che appaiono situazioni contraddittorie, ma non si può disconoscere la validità della distinzione tra l'obbedienza ad altri e l'obbedienza a se stessi. Dal momento che nessuno pensa di poter eliminare le situazioni di obbedienza, il problema della libertà positiva è di caratterizzare (e prescrittivamente di proporre) quella situazione di obbedienza in cui colui che obbedisce obbedisca a una norma quanto più possibile conforme alla sua stessa volontà, in modo che obbedendo a quella norma sia come se obbedisse a se stesso. La vera difficoltà sta se mai nell'individuare storicamente e nel progettare praticamente una volontà collettiva tale che le decisioni da essa prese siano da accogliersi come la massima e la migliore espressione della volontà di ogni singolo in modo che ciascuno ‟obbedendo a tutti", per dirla con Rousseau, ‟non ubbidisca a nessuno e sia libero come prima". Si tratta peraltro di una difficoltà politica, non di una difficoltà concettuale. Che politicamente la libertà positiva come autodeterminazione collettiva sia un ideale-limite non toglie che sia un ideale continuamente riproposto, e che sia lecito considerare un regime tanto più desiderabile quanto più vi si avvicina.

10. Due ideali di società libera

A ulteriore conferma della distinzione ricorrente in tutta la storia del pensiero politico tra le due forme di libertà sin qui illustrate, si considerino alcune delle principali teorie che pongono come fine ultimo della convivenza sociale il fine della libertà, e disegnano le linee generali di una ideale ‛società libera'. Per quanto il problema non abbia richiamato l'attenzione che merita, un esame di queste teorie rivela che le società ipotizzate corrispondono a due diversi tipi di società libere e che la loro diversità consiste nel fatto che ciascuna di esse persegue e conduce alle estreme conseguenze una delle due forme di libertà, e una sola; ed è in sostanza l'idealizzazione di una società in cui una delle due forme di libertà sia stata pienamente e universalmente raggiunta. In altre parole, una società libera può essere concepita, ed è stata di fatto concepita anche se gli autori non ne sono stati consapevoli, in due modi: o come regno della libertà negativa o come regno della libertà positiva, finalmente, o l'una o l'altra, realizzate.

Un esempio classico della prima forma ideale di società libera è la comunità giuridica universale di Kant: ciò che Kant intende per società libera è una società in cui sia garantita a ciascuno (individuo o Stato) la libertà esterna, cioè la libertà di fare tutto ciò che è compatibile con l'eguale libertà di tutti gli altri, una società insomma in cui vi sia il massimo possibile di libertà negativa, cioè di ‛libertà da' (s'intende, precipuamente, degli individui dallo Stato, e nell'ambito internazionale di ciascuno Stato da tutti gli altri). Nell'ideale kantiano una società è tanto più perfetta quanto più estesa è quella libertà che consiste nell'assenza d'impedimento e di costrizione. Non diversamente accade in altri scrittori della tradizione liberale, come Stuart Mill, secondo cui lo Stato deve intervenire con le sue leggi punitive il meno possibile e soltanto per impedire le azioni dell'individuo che rechino danno ad altri individui, o come Spencer, che considera come una caratteristica delle società industriali rispetto alle società militari l'accrescersi della libertà dell'individuo nei confronti dello Stato sino al quasi deperimento di questo.

Tutt'altra è la società libera ideale presente nella tradizione di pensiero politico che, per distinguerla da quella liberale, possiamo chiamare libertaria, e comprende Rousseau, gran parte del pensiero anarchico (come quello di Proudhon), il marxismo nel suo volto utopistico mirante all'estinzione finale dello Stato, attraverso il salto qualitativo dal regno della necessità al regno della libertà. Uno dei tratti comuni a tutti questi scrittori è certamente il maggior apprezzamento della libertà positiva rispetto alla libertà negativa, se non addirittura l'esclusiva considerazione della prima a scapito della seconda. La società ideale di Rousseau è quella del contratto sociale ove ciascuno è libero non già per l'estensione della sfera di libertà negativa di cui gode, ma nella misura in cui obbedisce alla legge che egli stesso attraverso la formazione di una volontà generale si è data. Nella tradizione del pensiero anarchico società ideale è quella in cui si attua nella forma più ampia l'autogoverno, che è appunto la libertà come autodeterminazione a tutti i livelli e in tutte le dimensioni. Si pensi a Proudhon e al suo principio della realtà e della vita autonoma dell'essere collettivo, eretta contro la costrizione esterna e disumanizzante del potere statale, che è per sua natura sempre eteronomo. Né si dimentichi che interpretando la Comune di Parigi come la prima manifestazione di una nuova forma di Stato che contiene già il germe della dissoluzione dello Stato, Marx parla di autogoverno dei produttori, ed Engels, prevedendo la fine dello Stato quando sarà cessato per opera della rivoluzione proletaria l'antagonismo di classe, invoca l'avvento di una ‟libera ed eguale associazione di produttori".

La libertà della tradizione liberale è individualistica e trova la sua piena attuazione nella riduzione ai minimi termini del potere collettivo, impersonato storicamente dallo Stato; la libertà della tradizione libertaria è comunitaria e si attua totalmente soltanto nella massima distribuzione del potere sociale in modo che tutti vi partecipino in egual misura. La società ideale dei primi è una comunità di individui liberi, quella dei secondi una comunità libera di individui associati.

11. La storia come storia della libertà

Quando all'inizio del Contrat social Rousseau scrisse le fatidiche parole: ‟L'uomo è nato libero ma dovunque è in catene", indicò nella liberazione dalle catene, nell'ideale della libertà, il τέλος, e quindi il senso della storia. Di questo ideale la Rivoluzione francese sarebbe apparsa ai grandi contemporanei la prima entusiasmante, se pur non sempre piena e giusta (con tutti i suoi esecrandi orrori), attuazione. Da allora, la filosofia della storia, che aveva tratto il proprio alimento nonché il proprio oggetto dalle teorie del progresso, che, nate con l'illuminismo, si protrassero per tutto il sec. XIX, scoprì e propagò il tema fondamentale, cui Hegel avrebbe impresso il suo suggello, della storia come storia della libertà. Nelle concezioni teologiche della storia la vera storia era soltanto la storia della salvezza (individuale) da cui la storia reale degli uomini con le sue lotte, le sue sconfitte e i suoi trionfi (effimeri) riceveva il proprio senso: non già che la salvezza non fosse essa stessa una forma di libertà o meglio di liberazione; ma era libertà o liberazione dal peccato, un ritorno alla purezza originaria, e riguardava pur sempre l'individuo singolo, non l'umanità nel suo complesso. Il definire invece la storia come storia della libertà voleva dire assegnare un τέλος alla storia umana in quanto tale prescindendo da qualsiasi duplicazione di essa in una storia divina, ovvero considerare la stessa storia umana come storia divina; voleva dire che la storia non era più un coacervo di accadimenti senz'ordine e senza scopo ma era una serie ordinata di eventi orientati a un fine. La storia insomma aveva un senso e questo senso era la libertà. Identificato in ciò che si cominciò a chiamare progresso lo sviluppo della storia verso un fine desiderato, la teoria del progresso e la filosofia della storia come libertà venivano a essere strettamente connesse. Il progresso consisteva in un graduale continuo processo di liberazione, in un avvicinamento ora più rapido ora più lento ma inesorabile verso il fine più altamente desiderato dall'uomo su questa terra, fine che era appunto la libertà.

Questo capovolgimento radicale del senso della storia era nato dalla crisi della coscienza religiosa approdata attraverso la Riforma all'Illuminismo, quindi protrattasi e aggravatasi nell'Ottocento con le varie filosofie positivistiche e scientistiche; dallo straordinario sviluppo della scienza e delle applicazioni tecniche che erano seguite e rendevano possibile al di là di ogni previsione il dominio sulla natura preconizzato da Bacone; dalla formazione di una classe avventurosa e intraprendente che la crisi dei tradizionali valori religiosi aveva reso più spregiudicatamente volta al proprio utile e cui il progresso scientifico e tecnico aveva fornito mezzi via via sempre più potenti di espansione delle proprie ambizioni e delle proprie capacità. In questo rovesciamento di valori, la libertà, nelle sue molteplici forme, come libertà di professare una religione secondo i dettami della propria coscienza, di esprimere liberamente le proprie opinioni e di propagarle attraverso la stampa, di dissentire dal governo senza correre il rischio di essere messi fuori legge e condannati come ribelli, e soprattutto di rompere i vincoli morali e giuridici che ostacolavano l'iniziativa economica, era apparsa il maggior bene cui gli uomini potessero aspirare in questo mondo, perché la libertà, anzi le varie libertà, erano la condizione stessa dello sviluppo di tutti gli altri valori. In questa prospettiva la storia apparirà come storia della libertà non solo in quanto ha la libertà come τέλος, ma anche in quanto la libertà, intesa come la precondizione del massimo sviluppo delle facoltà superiori dell'individuo e della specie, è il principio motore del progresso (è in questo secondo senso che Croce parlerà della storia come storia della libertà senza peraltro distinguerlo dal primo).

La storia ha la libertà come τέλος perché ha la libertà come principio motore; la libertà insomma è fine e principio, causa finale e causa efficiente. Ancora una volta questa duplicità di sensi della storia come libertà è possibile perché il concetto di libertà usato nella prima e nella seconda interpretazione è diverso. A guardar bene ci si imbatte anche qui nei due concetti di libertà illustrati nella prima parte: la libertà come τέλος è la libertà negativa, è la libertà quanto più ampia possibile, al limite la libertà assoluta delle nostre azioni, mentre la libertà come principio motore è la libertà positiva, cioè la possibilità di autodeterminazione, che rende possibile al soggetto umano ogni forma di innovazione, sino al limite dell'autodeterminazione assoluta che appartiene soltanto a Dio e che, una volta ammessa, farebbe della storia l'opera della creazione divina. La storia insomma è il prodotto della libertà umana, come autodeterminazione, e ha per scopo la libertà umana come il massimo di non impedimento e di non costrizione.

12. La storia della libertà

Il concetto di libertà come τέλος della storia esige una risposta alla domanda: libertà da che cosa? Ma una risposta una volta per sempre non si può dare. La libertà in quanto liberazione da un ostacolo presuppone l'ostacolo. Tante libertà nella storia quanti gli ostacoli di volta in volta rimossi. La storia della libertà procede di pari passo con la storia delle privazioni della libertà: se non ci fosse la seconda non ci sarebbe neppure la prima. Non vi è stato un regno della libertà totale al principio, come avevano ipotizzato i teorici dello stato di natura (l'uomo nato libero di Rousseau), né vi sarà un regno della libertà totale alla fine, come preconizzeranno e predicheranno gli utopisti sociali. Non c'è né una libertà perduta per sempre né una libertà conquistata per sempre: la storia è un intreccio drammatico di libertà e oppressione, di nuove libertà cui fanno riscontro nuove oppressioni, di vecchie oppressioni abbattute, di nuove libertà ritrovate, di nuove oppressioni imposte e di vecchie libertà perdute. Ogni epoca è contraddistinta dalle sue forme di oppressione e dalle sue lotte per la libertà. Così accanto alle due interpretazioni della formula ‛la storia come storia della libertà', di cui abbiamo discorso, dove la libertà appare una volta come il soggetto stesso della storia, un'altra volta come il fine, ve n'è una terza, che è anche la meno compromessa con postulati metafisici, residui in fin dei conti equivalenti di concezioni teologiche della storia dure a morire: la storia come un continuo e rinnovato tentativo degli individui e dei gruppi (popoli, classi, nazioni) di allargare la propria libertà d'azione (libertà negativa) e di affermare il principio dell'autodeterminazione contro il ripetersi, il riprodursi, l'atteggiarsi nelle più diverse guise delle forze oppressive, o, com'è stato ancor recentemente chiarito, come una serie di risposte alla sfida sempre ritornante della illibertà (v. Matteucci, 1972).

Questa interpretazione ha il vantaggio di considerare libertà e illibertà unite in un rapporto d'integrazione reciproca. Senza l'una non c'è l'altra, e dove c'è l'una c'è l'altra. Storicamente la illibertà nasce continuamente dal seno stesso della libertà almeno per due ragioni: 1) tranne in quel regno ideale dove la mia libertà è perfettamente compatibile con l'eguale libertà di tutti gli altri, nel regno della storia la conquista di una libertà concreta da parte di un individuo o di un gruppo si risolve sempre in una illibertà di altri: la libertà dalla tortura implica la non-libertà dei torturatori, così come la libertà dallo sfruttamento implica la non-libertà degli sfruttatori; 2) la conquista della libertà è sempre una condizione necessaria (se non sufficiente) per la conquista della potenza e la potenza degli uni si afferma e non può non affermarsi a scapito della libertà degli altri. Non già che basti essere liberi per essere potenti. Ma tutti i potenti prima di essere potenti sono stati liberi. La libertà di oggi è la potenza di domani. E la potenza di domani sarà una nuova fonte di illibertà per coloro che a questa potenza sono soggetti. Attraverso la considerazione dialettica di libertà e illibertà, questa terza interpretazione della storia come storia della libertà evita i due scogli della libertà come principio e della libertà come fine: il principio, ovvero la molla della storia, può essere tanto la libertà quanto la illibertà, così come il fine. Chi ci assicura che la storia abbia un τέλος e questo τέλος sia una libertà finale e universale? E se la storia umana finisse, come nella fantasia di tanti scrittori cosiddetti apocalittici, in un sistema di servitù generalizzata? Che cosa ne sappiamo? Accanto all'esigenza della libertà gli uomini hanno mostrato in tutti i tempi anche l'indifferenza di fronte alla libertà e, perché no, la paura della libertà. Che cosa è destinato a prevalere? Il bisogno, l'indifferenza o la paura?

Beninteso, anche questa interpretazione, pur essendo meno rigida e più utile come schema di comprensione storica, è idealizzante: attribuisce alla libertà un valore positivo e al suo contrario, la potenza, un valore negativo. Si può benissimo concepire la storia e quindi il destino dell'uomo dal punto di vista, anziché della libertà, della potenza, che è il suo rovescio. Alla fine del secolo che era cominciato con la ‛religione della libertà', qualcuno scriverà: ‟Si vuole la libertà finché non si ha ancora la potenza. Quando si ha la potenza, si vuole il predominio; se non lo si consegue (se si è ancora troppo deboli per esso), si vuole la giustizia, ossia una potenza pari" (Fr. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, Milano 1971, p. 150).

13. Linee di tendenza di questa storia

Se è vero che non si può dire una volta per sempre da che cosa l'uomo voglia (abbia bisogno, esiga di) essere libero, si possono indicare schematicamente alcune linee di tendenza, considerando la potenza come l'opposto della libertà, nel senso che la potenza dell'uno implica sempre la non-libertà di un altro e la libertà dell'uno implica sempre la non-potenza dell'altro. Ogni forma di potenza si può configurare come l'instaurazione di una situazione di non-libertà, così come ogni instaurazione di libertà si può configurare come la soppressione di una forma di potenza.

Si possono distinguere tante forme di liberazione, e quindi d'instaurazione di libertà, quante sono le forme tipiche che assume di volta in volta nella storia la potenza. Intendendo per rapporto di potenza quel rapporto in cui un soggetto condiziona e in questo senso rende non-libero il comportamento dell'altro, il miglior modo per distinguere le varie forme di potenza è quello di prendere in considerazione i mezzi principali con cui viene operato tale condizionamento. Questi mezzi sono: a) le idee, gli ideali, le concezioni del mondo (condizionamento psicologico); b) il possesso della ricchezza (condizionamento attraverso l'assicurazione di una ricompensa per il lavoro prestato); c) il possesso della forza (condizionamento attraverso la coazione). Di qua la distinzione fra tre forme tipiche di potenza, che generalmente si corroborano l'una con l'altra: la potenza ideologica, la potenza economica e la potenza politica, che corrispondono alle tre strutture di potere che si ritrovano in tutte le società, ovvero il sistema culturale, il sistema di produzione, il sistema politico.

Quando con le teorie del progresso apparve per la prima volta con particolare risalto l'interpretazione della storia come storia della libertà, la lotta per la libertà fu concepita in questa triplice direzione: a) come liberazione dalla superstizione religiosa, in genere da ogni forma di dogmatismo delle idee che ostacola l'avanzamento della filosofia rischiaratrice e della scienza liberatrice, e impedisce il libero sviluppo delle opinioni, l'accrescimento del sapere, la reale conoscenza della posizione che l'uomo ha nel mondo; b) come liberazione dai vincoli di una struttura economica che difende privilegi storici ormai anacronistici, raffrena l'iniziativa del capitalismo nascente, la libera espansione di nuovi ceti volti alla produzione di nuovi beni, alla conquista di nuovi mercati, lo sviluppo delle nuove forze produttive; c) come liberazione da un sistema politico e legislativo concentrato in una ristretta cerchia di dominanti che si trasmettono il potere ereditariamente, incontrollato, arbitrario, dispotico, accentrato, di fronte al quale il singolo individuo non gode di alcuna garanzia contro l'abuso di potere. Libertà di pensiero contro la Chiesa e le Chiese; libertà di disposizione dei beni e libertà di commercio contro il sistema feudale; libertà civili e libertà politica contro lo Stato assoluto; o, se si vuole, lotta contro il dispotismo sotto la triplice forma di dispotismo sacerdotale, feudale e principesco.

L'Encyclopédie fu l'impresa intellettuale in cui queste libertà furono rivendicate e trovarono il terreno propizio alla loro fecondazione; la Rivoluzione francese fu l'impresa politica attraverso cui i frutti della filosofia rischiaratrice furono raccolti e diffusi nel mondo. Il secolo che seguì fu chiamato il secolo della libertà. Croce descrivendone l'inizio quando ormai la libertà, quella libertà, era perduta, ed esaltandosi nella rievocazione di essa scrisse che ‟la storia non appariva più deserta di spiritualità e abbandonata a forze cieche o sorretta e via via raddrizzata da forze estranee, ma si dimostrava opera e attualità dello spirito, e, poiché spirito è libertà, opera della libertà" (Storia d'Europa nel secolo decimonono, Bari 1932, p. 14). Il più grande filosofo dell'età della Restaurazione, che aveva sentito potentemente l'influsso della Rivoluzione francese, concepi la storia come l'incedere o il procedere della libertà nel mondo: ‟Lo spirito è libero; e il fine dello spirito del mondo nella storia è di appropriarsi effettivamente questa sua essenza, di raggiungere questa sua prerogativa [...]. Ogni singolo nuovo spirito di popolo è un grado nella conquista dello spirito del mondo, nell'acquisto della sua coscienza e libertà" (Filosofia della storia, cit., vol. I, p. 59). E del resto lo stesso Marx salutò l'avvento della borghesia come uno dei grandi momenti liberatori della storia: ‟Solo la borghesia ha dimostrato che cosa possa compiere l'attività dell'uomo" (Manifesto del partito comunista, cap. I).

Due dei maggiori scrittori politici del tempo, A. de Tocqueville e J. Stuart Mill, furono scrittori liberali nel più alto senso della parola: difesero la libertà individuale contro le varie forme di tirannia, a cominciare dalla tirannia della pubblica opinione (nuova forma di potenza ideologica dopo il declino del potere sacerdotale), e indicarono l'unico possibile rimedio nell'estensione dell'autogoverno. C. Cattaneo, il maggiore scrittore politico italiano, contrapponendo i sistemi aperti ai sistemi chiusi, contraddistinse i primi in base alla libera circolazione delle idee, alla libera iniziativa economica, al governo diffuso e proveniente dal basso. Circola in tutti gli scrittori politici, liberali e non liberali, la contrapposizione tra l'Europa libera e il resto del mondo assopito in un sonno che dura da secoli, tra la civiltà europea in continuo movimento grazie all'azione benefica della libertà e le civiltà stazionarie, retrograde, immobili, dei continenti extraeuropei. Da Montesquieu sino a Mill, sino a Cattaneo, sino a Marx, la categoria storica con cui si contraddistingue tutto ciò che non è europeo è il dispotismo.

L'Europa è libera perché è riuscita a trionfare dell'oppressione religiosa, dell'oppressione economica e dell'oppressione politica: è una civiltà secolarizzata contro i regni sacerdotali, di libera iniziativa contro gli imperi burocratici dove l'economia è regolata dall'alto, democratica contro il dominio dell'uno o dei pochi. Sulla sponda opposta degli ideologi del liberalismo, Proudhon denuncia le nefandezze del potere politico e riscopre il contratto sociale attraverso il quale gli uomini non danno più vita al governo ma fondano l'associazione dei liberi produttori. Socialisti della prima maniera e della seconda guardano all'assenza dello Stato, per la prima volta nella storia, all'anarchia, al regno della massima libertà, come alla meta ultima dell'evoluzione sociale.

14. Dalla libertà dallo Stato alla libertà nella società

Ma siccome ogni libertà è sempre una libertà concreta, una libertà rispetto a una precedente servitù, non è mai la libertà definitiva, il secolo della libertà fu in realtà il secolo della libertà o delle libertà che si era conquistata la borghesia contro le classi feudali, o, più precisamente, fu il secolo non della libertà ma del liberalismo, cioè di un certo modo d'intendere e di attuare la libertà che, nello stesso tempo in cui rompeva catene antiche, altre, e ancor più dure e forti, ne forgiava e ne ribadiva. Il secolo della libertà era destinato a finire, lo si chiuda con la prima guerra mondiale o con la Rivoluzione sovietica, in quella che fu chiamata l'ére des tyrannies. Si suole ripetere il detto di Madame de Staël, secondo cui ‟la libertà è antica e il dispotismo è moderno". In realtà si dovrebbe dire che il dispotismo è antico come la libertà, e la libertà è moderna come il dispotismo. In altre parole, la libertà è antica ma i suoi problemi sono sempre nuovi e si rinnovano continuamente in risposta alle sempre nuove forme di oppressione che appaiono all'orizzonte della storia.

L'idea che la libertà, o meglio la liberazione dell'umanità, fosse, ancorché graduale, inesorabile, fu l'effetto, oltre che dell'‛entusiasmo morale' suscitato dalla Rivoluzione francese, del rovesciamento del rapporto tradizionale tra società civile e Stato e della scoperta della preminenza della società civile sullo Stato, che seguirono alle prime riflessioni sulla incipiente società industriale. Tanto nella corrente apologetica del capitalismo moderno, che va da Smith a Spencer, quanto nella corrente critica, che va da Proudhon a Marx, è costante e ferma la convinzione che lo Stato, sino allora esaltato come il ‛razionale in sé e per sé', come il dio terreno (da Hobbes a Hegel), è soltanto un riflesso della società civile, e pertanto una volta liberata la società - liberazione che avviene a un livello precedente a quello dello Stato, al livello appunto delle strutture della società civile - la potenza dello Stato sia destinata ad affievolirsi se non addirittura a estinguersi, anche se poi tra l'una e l'altra corrente ci sia una profonda differenza rispetto alla valutazione delle cause e dei tempi di questo affievolimento o di questa estinzione. Oggi appare sempre più profetica l'idea di Saint-Simon che la vera rivoluzione del tempo non era stata la Rivoluzione francese, rivoluzione soltanto politica, ma la rivoluzione industriale, onde soltanto nel pieno sviluppo della società industriale (e non nella sostituzione di un regime politico a un altro) si può realizzare ‛la vera libertà', cioè quella cui si perviene col massimo sviluppo delle possibilità materiali e intellettuali dell'uomo, e che consiste nello sviluppare ‛senza catene e con tutta l'estensione possibile' una capacità materiale e teorica utile alla vita collettiva. Su una sponda i liberisti e liberali, da Cobden a Spencer, ritennero che fosse già venuto il momento in cui l'esplosione delle forze produttive avrebbe reso sempre meno indispensabile il potere coattivo dello Stato. Sulla sponda opposta Proudhon contrapponeva allo Stato come potenza alienante la società economica, al principio dell'autorità impersonato dallo Stato il principio della libertà realizzabile soltanto nella società dei produttori. E già in uno dei suoi primi scritti (La questione ebraica) Marx aveva affermato che l'emancipazione soltanto politica non era ancora l'emancipazione umana, e che l'emancipazione umana doveva cominciare dalla società civile. Nonostante il contrasto sull'immagine della società futura, apologeti e critici ebbero in comune l'idea che, nel passaggio inevitabile dalle società arcaiche alle società industriali, il potere politico avrebbe perduto prima o poi gran parte della sua funzione sino alla totale scomparsa.

15. Totalitarismo e tecnocrazia

Oggi sappiamo che mai errore di previsione è stato più grande. Con la crescita della società capitalistica e dell'ambito mondiale della sua espansione il potere politico - lo Stato-potenza - non solo non è diminuito ma si è enormemente accresciuto, e dove lo sviluppo è stato minacciato o ostacolato non ha esitato ad assumere la forma della più spietata dittatura. Nei paesi poi dove sono avvenute le prime rivoluzioni comuniste il cosiddetto Stato di transizione, che avrebbe dovuto preparare la strada alla società senza Stato, al rovesciamento dello Stato nella società civile, si è trasformato in un nuovo Leviatano. Rispetto al problema dello Stato, considerato sia dalle correnti liberali sia dalle correnti socialistiche (e anarchiche) l'ultima fortezza che si sarebbe dovuta espugnare per liberare gli uomini dalla schiavitù, tanto gli apologeti che i critici della società civile (borghese) si erano fatte delle illusioni. Quest'ultima fortezza non solo non è stata espugnata ma ha esteso in situazioni catastrofiche il proprio dominio. È nato nel ventennio tra le due guerre coi regimi fascisti e nel periodo staliniano dello Stato sovietico il nuovo tipo di Stato cui è stato dato il nome non usurpato di Stato totalitario. Il totalitarismo è la versione aggiornata, riveduta, corretta e aggravata del dispotismo: ciò che lo caratterizza rispetto a tutte le forme tradizionali di assolutismo politico è il massimo di concentrazione e di unificazione delle tre potenze attraverso cui si esercita il potere dell'uomo sull'uomo: il totalitarismo è un dispotismo non soltanto politico ma anche economico e ideologico. Nella formazione dello Stato moderno il potere ideologico, che appartenne tradizionalmente alla Chiesa, costituì per secoli un potere separato dal potere politico, e spesso in lotta con esso: uno degli strumenti di dominio dell'odierno Stato totalitario è il monopolio dell'ideologia, l'ideologia di Stato (espressione riproducente la formula ‛religione di Stato', propria degli Stati confessionali, che reintroduce la distinzione tra ortodossi ed eretici e permette di considerare come deviazione o addirittura come tradimento ogni divergenza dalla dottrina ufficiale). Per quanto le classi economicamente in ascesa abbiano sempre cercato di dare la scalata al potere politico, detenuto dalle classi tradizionali, com'è avvenuto nella lotta della borghesia mercantile contro l'aristocrazia feudale, o della moderna classe imprenditoriale contro la vecchia classe dei proprietari della terra, l'identificazione tra classe economicamente dominante e classe politica non è mai stata, nè nello Stato di ceti, né nella monarchia assoluta, nè nello Stato parlamentare, completa: la versione moderna del dispotismo tende invece attraverso il processo di statalizzazione dell'economia alla congiunzione di potere politico e di potere economico. Quali che siano i caratteri del totalitarismo messi in rilievo da vari punti di vista, su cui non è il caso di soffermarsi, è importante sottolineare il fatto che il totalitarismo non è soltanto un tipo di sistema politico (onde non è del tutto corretto parlare di ‛Stato totalitario'), ma è un tipo di sistema sociale, nella sua globalità, o, se si vuole, è un tipo di Stato solo nel senso in cui, essendo cancellata la distinzione tra società civile e Stato da cui è stata contraddistinta la storia dello Stato moderno, la società intera si risolve nello Stato, è una società integralmente statalizzata.

Anche là dove non è avvenuta la trasformazione della società in un universo totalitario, e le libertà tradizionali, le libertà della tradizione liberale e democratica, sono formalmente garantite, nuovi problemi di libertà, sia di libertà negativa sia di libertà positiva, sono sorti e vengono continuamente riproposti alla riflessione e alla conseguente azione politica riformatrice. Via via che nuove richieste di libertà vengono soddisfatte, nuove ne sorgono perché l'uomo pone il problema della propria liberazione su livelli sempre più profondi. Dopo l'emancipazione ideologica seguita all'Illuminismo e all'emancipazione economica di cui fu protagonista la borghesia nella lotta contro la struttura feudale della società, il livello su cui la dottrina della libertà del secolo scorso, il liberalismo, ripropose il problema della libertà (della libertà dei moderni, appunto, come la invocava Constant) fu principalmente il livello del potere politico.

L'antitesi classica del pensiero liberale si raffigura nelle due forme contrapposte di Stato: lo Stato assoluto e lo Stato di diritto; per il liberale il problema della libertà si risolve soprattutto nella formazione di un nuovo tipo di Stato, che è lo Stato garantista e rappresentativo; i rimedi che egli propone sono essenzialmente di carattere costituzionale, e infatti il maggior prodotto del suo pensiero e delle sue lotte sono le costituzioni. Non a caso uno dei testi classici del pensiero liberale è il Cours de politique constitutionnelle di Constant. Insomma, una volta raggiunta l'emancipazione umana nella sfera della creazione intellettuale e della produzione della ricchezza, sembrava che le minacce alla libertà potessero provenire soltanto dall'unico monopolio di cui la società non era riuscita ancora a fare a meno, che era il monopolio della forza. Al contrario, il problema della libertà si pone oggi a un livello più profondo, che è il livello dei poteri della società civile. Non importa che l'individuo sia libero ‛dallo Stato' se poi non è libero ‛nella società'. Non importa che lo Stato sia liberale se poi la società sottostante è dispotica. Non importa che l'individuo sia libero politicamente se non è libero socialmente. Al di sotto della illibertà come soggezione al potere del principe, c'è una illibertà più fondamentale, più radicale e più oggettiva, la illibertà come sottomissione all'apparato produttivo. E allora per giungere al cuore del problema della libertà bisogna fare un passo indietro: dallo Stato alla società civile. Il problema della libertà riguarda non più soltanto l'organizzazione dello Stato ma soprattutto l'organizzazione della produzione e dell'intera società; investe non il cittadino, cioè l'uomo pubblico, ma l'uomo in quanto essere sociale, in quanto uomo. In questo senso sembra che la direzione dello sviluppo storico non sia più ‛dallo Stato dispotico allo Stato liberale', ma ‛dallo Stato liberale alla società liberata'.

Come ognuno può facilmente capire, alludo in questo contesto ai problemi di libertà che nascono nella società tecnocratica, in quella ‟ormai inevitabile amministrazione economica generale della terra" (di cui già parlava Nietzsche). Brevemente, il problema della libertà nelle società industrialmente avanzate, il vero problema della libertà dei moderni, non è più quello della libertà dallo Stato o nella società politica, bensì quello della libertà nella società globale. Le discussioni più interessanti e anche più drammatiche che si svolgono intorno alla libertà dei moderni sono certamente quelle che vertono intorno alla risposta ‛liberale' o ‛libertaria' alla ‛sfida tecnologica'. Un punto è chiaro: se in una società tecnocratica nasce un problema di libertà, questo non nasce all'interno del sistema politico strettamente inteso ma dal sistema sociale nel suo complesso. Il livello più profondo su cui si pone il problema si rivela nel fatto che le libertà di cui l'uomo è privato nella società tecnocratica non sono le libertà civili o politiche, ma è la libertà umana nel senso più ampio della parola, la libertà di sviluppare tutte le risorse della propria natura. Ciò che caratterizza la società tecnocratica non è l'uomo schiavo, l'uomo servo della gleba, l'uomo suddito, ma il non-uomo, l'uomo ridotto ad automa, a ingranaggio di una grande macchina di cui non conosce né il funzionamento né il fine. Per la prima volta si guarda con angoscia allo svilupparsi di un processo non di asservimento o di proletarizzazione, ma più in generale di disumanizzazione. Anche la potenza da cui la società tecnocratica è contrassegnata è diversa da tutte le potenze precedenti: non è la potenza che si serve delle idee, né quella che si serve del dominio economico, né quella che si serve della forza coattiva. E la potenza scientifica, la potenza della conoscenza che assicura il dominio più incontrastato sulla natura e sugli altri uomini, ed è nello stesso tempo la potenza più impersonale e perciò più spersonalizzante, più universale e perciò più livellatrice, più razionale e quindi più razionalizzatrice. Nell'universo tecnocratico, considerato come lo stadio limite di una tendenza, cosi come è uno stadio limite della tendenza opposta la società senza Stato o la società anarchica, la mancanza di libertà a livello ideologico si presenta come conformismo di massa, a livello economico come mercificazione o reificazione di ogni forma di lavoro, anche del lavoro intellettuale, a livello politico come esclusione da ogni forma di partecipazione attiva alla direzione sociale. Ma a differenza delle società sinora esistite questa mancanza sarebbe sentita non più come una privazione ma come l'appagamento di un bisogno, il bisogno appunto di non essere liberi: quel che in altri tempi era la fuga dalla schiavitù si convertirebbe nel suo contrario, nella ‛fuga dalla libertà'.

16. Le forme attuali della non-libertà

Non è possibile indicare neppure per sommi capi temi e problemi della non-libertà nella società contemporanea, tanto ampia, varia, complessa e a volte contraddittoria è la discussione intorno ad essa. Ma servendoci ancora una volta della tripartizione delle forme di potere, e cercando d'isolare le dottrine che appaiono al centro della discussione in questi anni, mi pare di poter individuare tre temi fondamentali (che enumero nell'ordine della loro emergenza storica): a livello economico il tema dell'alienazione di derivazione marxiana, a livello politico il tema della burocratizzazione (o razionalizzazione del potere legittimo nella forma del potere legale), di derivazione weberiana, a livello ideologico il tema della manipolazione dell'opinione attraverso le comunicazioni di massa, in cui acquista particolare rilievo la teoria critica della Scuola di Francoforte. Tutti e tre i temi sono nati in forma di critica all'interno della società capitalistica, come riflessioni sullo sviluppo o sulla natura del capitalismo moderno; ma la loro importanza risiede nel fatto che valgono e sono continuamente applicati alla critica delle società socialistiche. Ciò che hanno in comune rispetto alla critica liberale delle società dispotiche è una tendenza a considerare le situazioni di non-libertà come un prodotto di strutture oggettive più che di forze storiche.

Per quanto la categoria dell'alienazione venga usata spesso nel dibattito attuale in un senso generico, nel senso di perdita della propria personalità, di diventar altro da sé, o nel senso filosofico hegeliano di non-essere-presso-di-sé (in quanto opposto del concetto hegeliano di libertà come essere-presso-di-sé), essa ha nel linguaggio marxiano, non solo nelle opere giovanili, come pur è stato sostenuto, ma anche negli scritti della maturità, un significato tecnico preciso con un riferimento specifico alla natura del lavoro salariato, cioè del lavoro che caratterizza la società capitalistica. Anche se Marx non la collega direttamente col tema della libertà, la proprietà che ha il lavoro salariato di essere ‛alienato' è la proprietà per cui ‟l'attività dell'operaio non è la sua propria attività perché essa appartiene ad altro: è la perdita di se", o, più precisamente, ‟l'alienazione dell'operaio nel suo prodotto significa non solo che il suo lavoro diventa un oggetto, qualcosa che esiste all'esterno, ma che esso esiste fuori di lui, indipendente da lui, a lui estraneo, e diventa di fronte a lui una potenza per sé stante" (Manoscritti economico-filosofici del 1844, Torino 1968, p. 72), una potenza cui è soggiogato, che lo sottomette, di cui diventa schiavo. Ancor più precisamente in un'opera della maturità: ‟La ricchezza da esso [dal lavoratore salariato] creata si contrappone come ricchezza altrui, la propria forza produttiva come forza produttiva del suo prodotto, il suo arricchimento come impoverimento di se stesso, la sua forza sociale come forza della società su di esso" (Storia delle teorie economiche, vol. III, Torino 1954, p. 280). Ciò che l'alienazione così intesa ha di singolare e di pregnante come forma di non-libertà è anzitutto che l'operaio si rende per così dire schiavo con le proprie mani; poiché l'operaio moderno, a differenza dello schiavo delle civiltà antiche, è formalmente libero, è la sua stessa libertà che si converte in schiavitù o è il presupposto stesso dell'essere sostanzialmente non-libero; in secondo luogo, essendo la forza-lavoro per l'operaio tutto quello che possiede, l'alienazione che egli fa ‛liberamente' del prodotto del proprio lavoro, finisce per essere un'alienazione totale (cioè proprio quell'alienazione totale che per Rousseau stava a fondamento della schiavitù e che perciò egli riteneva illecita, salvo che fosse fatta a se stessi), una privazione totale della propria essenza di uomo. La differenza tra il suddito di uno Stato dispotico e l'operaio della forma di produzione capitalistica sta, secondo Marx, nel fatto che il primo è non-libero politicamente di fronte a un soggetto storico ben definito (ma è magari libero economicamente e ideologicamente), il secondo è magari libero politicamente e ideologicamente ma è non-libero nel sistema globale della società, è non-libero di una non-libertà che può essere riscattata solo con un rovesciamento del sistema.

Delle tre forme di potere legittimo descritte da M. Weber quella che corrisponde alla società capitalistica è la forma del potere legale o razionale, cioè è quella forma di potere la cui legittimità deriva dal fatto che gli atti di potere vengono compiuti in base a norme generali prestabilite, a differenza di quel che accade nella forma di potere tradizionale (propria delle società precapitalistiche), ove il potere è esercitato in base a tradizioni cui il principe non è strettamente vincolato e i rapporti di potere sono rapporti personali, non fissati preventivamente in modo vincolante. L'impresa capitalistica non può svilupparsi se non sulla base del calcolo razionale delle utilità, e quindi ha bisogno di una struttura di potere che consenta il massimo di prevedibilità delle azioni e ammetta il minimo spazio all'arbitrio individuale. Il sistema statale cui dà vita la forma di potere legale è il sistema caratterizzato da un grande apparato burocratico, il quale, come una grande rete, racchiude l'attività dei funzionari e ne impedisce il movimento delimitandone rigorosamente i ruoli, fissandone la gerarchia, e si estende a poco a poco su tutta la società rendendosi indispensabile o provvedendo direttamente all'organizzazione di tutte le attività che vi si svolgono, da quella economica a quella scolastica: in quanto ‛spirito rappreso' questa grande macchina (di nuovo la machina machinarum di Hobbes) ha la potenza di costringere gli uomini al suo servizio. Il destino delle società moderne caratterizzate dalle grandi imprese, non solo delle società capitalistiche ma anche, come Weber prevede, e anzi con maggior celerità, di quelle che si avviano al socialismo, è la corsa verso la burocratizzazione, e quindi la trasformazione in ‛gusci d'acciaio', in cui saranno sepolte le illusioni dei liberali del sec. XIX e dei socialisti del sec. XX.

Nelle pagine ormai classiche di Th. W. Adorno sull'industria culturale sono contenuti i temi principali, sublimati nell'opera marcusiana, e quindi ripetuti, amplificati, dogmatizzati nella letteratura sulle contraddizioni delle società più avanzate, relativi all'universo repressivo originato dalle comunicazioni di massa. Attraverso le comunicazioni di massa anche l'arte, ciò che dovrebbe essere più irripetibile e più creativo, diventa un prodotto come tutti gli altri, riproducibile all'infinito, consumabile, una merce che il pubblico compra o è indotto a comprare con la stessa mancanza di gusto personale con cui compra una saponetta o un paio di scarpe. Di fronte al prodotto dell'industria culturale l'individuo non deve lavorare di propria testa: il prodotto è smerciato già tutto finito e pronto per l'uso. Non deve pensare ma divertirsi, non deve essere turbato, scosso, tormentato, ma deve essere distratto, ammansito, pacificato con se stesso e con la società. L'effetto è un generale ottundimento, un livellamento dei gusti e delle aspirazioni, una compiuta e incruenta spersonalizzazione, l'eliminazione della silenziosa privatezza in cambio di una spudorata e chiassosa pubblicizzazione: ‟L'industria culturale ha perfidamente realizzato l'uomo come essere generico. Ognuno è più solo ciò per cui può sostituire ogni altro: fungibile, un esemplare" (M. Horkheimer e Th. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, Torino 1966, p. 157). In questa situazione parlare ancora di libertà può apparire una bestemmia, un modo di nominare il nome di Dio invano; una parola troppo solenne per un mondo così dimesso e accontentabile, dove al posto dell'intelligenza personale c'è la ripetizione, l'imitazione, l'adattamento, l'accettazione incondizionata della logica del dominio. Il protagonista, se si può ancora adoperare questa parola d'altri tempi, della società dominata dall'industria culturale è il servo sublimato e soddisfatto, proprio il contrario del cittadino di Rousseau, che era ‟costretto ad essere libero".

17. I problemi attuali della libertà

Come la illibertà nasce continuamente nel seno stesso della libertà, a egual titolo si può dire che la libertà rinasce continuamente nel seno stesso della non-libertà. Sembra quasi che a un intensificarsi delle nuove forme di dominio corrisponda un acuirsi del bisogno di libertà. Nello stesso tempo quanto più si moltiplicano le insidie del potere tanto più si fortificano le difese della libertà. In una rapida visione d'insieme dei problemi della libertà nella società contemporanea, mi pare si possano individuare due temi principali: da un lato l'emergere di richieste di libertà completamente nuove, dall'altro nuove forme di difesa delle vecchie.

In tema di libertà negativa il problema nuovo è il problema della libertà dal lavoro. Va da sé che un problema di questo genere non poteva essere posto se non in un'epoca come la nostra di vertiginosi progressi tecnici. Tradizionalmente la maggior parte delle richieste di libertà negativa, rivolte com'erano contro l'oppressione politica e sacerdotale, contro le due grandi istituzioni che inglobavano tutta la vita dell'uomo, restarono circoscritte nell'ambito sovrastrutturale. Sul piano strutturale la libertà economica significò libertà di possedere, d'intraprendere operazioni economicamente redditizie, di accumulare beni senza limiti, non mai libertà dal lavoro: il non lavorare poteva se mai essere una conseguenza del diritto all'accumulazione indefinita, non un presupposto; fu sempre considerato un privilegio e non un diritto. Il lavoro fu sempre giustificato come una ineluttabile necessità o addirittura esaltato come un dovere. Solo oggi comincia ad affacciarsi il problema del diritto non più soltanto al lavoro ridotto al minimo indispensabile ma al limite all'eliminazione del lavoro faticoso, ingrato, alienante, attraverso il progresso dell'automazione. La nuova immagine della società libera che oggi si affaccia alle menti degli utopisti sociali non è più quella della società senza schiavitù politica, ma quella della società senza la schiavitù del lavoro. Anche la libertà positiva fu concepita sino a oggi quasi esclusivamente come allargamento della sfera di autodeterminazione nella sfera politica. Una delle novità di questi ultimi anni è che le richieste di autodeterminazione vengono fatte valere, con un'audacia che sarebbe stata sino a qualche anno fa impensabile, in quelle istituzioni che sembravano incrollabilmente, necessariamente, fondate sul principio dell'autorità e dell'obbedienza assoluta: la chiesa, la scuola, la fabbrica, persino l'esercito. Vengono discusse, criticate, contestate le cosiddette istituzioni totali, come i manicomi e le carceri, la cui funzione eccezionale, come eccezionale è sempre stato giudicato il comportamento anormale o deviante, le aveva sempre tenute al riparo da ogni rivendicazione di libertà. Per un'età che per la prima volta nella storia è stata testimone dei campi di sterminio, la contestazione delle istituzioni totali è una sfida che può sembrare persino troppo spavalda o troppo ingenua, ma è uno di quegli episodi che mostrano più di ogni altra considerazione la realtà profonda del nesso dialettico tra libertà e non-libertà.

In tema delle nuove forme di difesa delle vecchie libertà, occorre segnalare la tendenza manifestatasi subito dopo la seconda guerra mondiale a una protezione internazionale dei diritti dell'uomo, cui si richiama, sin dal Preambolo, lo Statuto delle Nazioni Unite. Con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, approvata dall'Assemblea delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, è stato fatto il primo tentativo di universalizzare, cioè di estendere a tutti i popoli della terra quei principi di libertà che erano stati affermati dalle prime costituzioni liberali nei limiti di ogni singolo Stato nazionale. Questa soltanto enunciata e solennemente proclamata universalizzazione avrebbe dovuto essere il naturale presupposto della garanzia internazionale. Per quanto il problema non sia stato praticamente risolto, salvo l'ancor timida e gracile istituzione della Commissione europea dei diritti dell'uomo, la linea di tendenza che esso esprime non può essere sottovalutata. La garanzia dei diritti dell'uomo contro la violazione perpetrata dallo stesso Stato che dovrebbe esserne il protettore è una risposta a un livello più alto all'eterna domanda: Quis custodiet custodes? Ogni nuovo tentativo di risposta a questa domanda, ancorché imperfetto e incompleto, è, nella misura in cui propone nuove forme di controllo del potere, una risposta a una domanda di libertà.

18. Considerazione conclusiva

Nessuno può pretendere di conoscere il destino della libertà nel mondo. Chi si limita a fare l'osservatore di ciò che accade è tentato di fare ancora una riflessione. Nel secolo scorso, come ho detto alla fine della prima parte, fiorirono le più diverse escogitazioni utopistiche di una società finalmente liberata; ed era ben radicata la convinzione che il destino dell'umanità fosse la libertà. Poi è accaduto quel che è accaduto: è accaduto che in fronte ai campi di schiavitù e di sterminio fosse stato scritto, con una diabolica contraffazione ‟Il lavoro rende liberi". In questo secolo non conosco utopie, ideazioni fantastiche della società futura, che non descrivano al contrario universi di cupo dominio e di desolato conformismo. L'unica speranza è che anche questa volta gl'incauti profeti abbiano torto.


Enciclopedia delle Scienze Sociali (1996)

di Salvatore Veca


Sommario: 1. Introduzione. 2. Libertà negativa e libertà positiva. 3. La definizione triadica di libertà. 4. Sfere di libertà e storia del concetto. 5. La libertà e le libertà. 6. Verità, proprietà e potere: tre casi di libertà moderne. 7. Libertà e teorie della giustizia. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Nella teoria politica e sociale noi possiamo essere interessati: a) a definire la libertà; b) ad assegnarle un valore; c) a interpretarne il senso o, meglio, i variabili sensi. Nel primo caso ci avvaliamo di descrizioni, o delle descrizioni più plausibili e coerenti, di Stati del mondo in cui si possa asserire che vi è libertà piuttosto che no o che vi è più libertà piuttosto che meno. Si usa dire che il nostro impegno descrittivo mira a un accordo sul significato di libertà in termini non valutativi, indipendenti dall'assegnazione di un valore, maggiore o minore. Per la teoria politica si può sostenere che l'utilità della descrizione non valutativa consiste nel poter contare su un accordo che è in ogni caso il presupposto indispensabile perché disaccordi relativi all'assegnazione di valore o disaccordi relativi all'interpretazione del senso siano disaccordi significativi. In questo sembra consistere l'interesse genuino per la descrizione della libertà: nel garantire che teorie e modelli normativi o interpretativi della libertà non risultino vuoti o che le controversie su valore e senso non si risolvano in fraintendimenti. Nel secondo caso, quando si è interessati ad assegnare un valore alla libertà, l'impegno della teoria è propriamente normativo o prescrittivo. Le domande che la teoria formula e cui cerca di rispondere sono del tipo: se la libertà è un valore, si tratta di un valore intrinseco o di un valore strumentale? È la libertà l'unico valore nell'ambito del politico o del sociale o esiste più di un valore? E, se vale il secondo caso, è possibile o come è possibile combinare o rendere compatibile il valore della libertà con altri valori o fini sociali, quali l'eguaglianza o la stabilità, il benessere o l'efficienza o la coordinazione? In questo sembra consistere l'interesse genuino per prescrizioni relative alla libertà: nel generare argomenti a favore del buon ordine politico e sociale, miranti a ottenere l'accordo o la condivisione da parte degli uditori pertinenti. Per la teoria politica normativa si può sostenere che l'utilità della prescrizione consiste nel garantire un accordo che è in ogni caso il presupposto indispensabile perché sia riconosciuta la particolare versione favorita dalle istituzioni politiche e dalle pratiche sociali in cui viene assegnato il valore e lo spazio appropriato e coerente alla libertà.

L'interesse teorico pertinente a proposito della libertà è, nel terzo caso, quello che mira a produrre interpretazioni rilevanti del senso e dei mutamenti di senso della libertà entro contesti dati. La teoria sociale può allora cercare di rendere conto delle condizioni e delle circostanze grazie alle quali la libertà ha un senso determinato e le condizioni e le circostanze in virtù delle quali tale senso si modifica, muta, si trasforma. In questo sembra consistere l'interesse genuino per una interpretazione della libertà: nell'ampliare la gamma delle matrici di intelligibilità di quanto, in una varietà di circostanze e in una pluralità di contesti spazio-temporali, risulta essere il mutevole e contingente senso della libertà: le ragioni soggiacenti alla richiesta di libertà, quelle soggiacenti alla sua durata e permanenza nel tempo o alla sua perdita, la variabile natura dei conflitti aventi come esito il riconoscimento o meno di libertà. Naturalmente la distinzione qui proposta fra descrizione, prescrizione e interpretazione della libertà ha solo lo scopo di indicare tre tipi di approccio teorico alla libertà, per dir così, allo stato puro. Essa serve semplicemente a distinguere tre differenti classi di impegni e interessi teorici nei confronti della libertà. A questi tre tipi di approccio si farà prevalentemente riferimento in questo articolo. Tuttavia non è difficile trovare, nella mappa delle ricerche della teoria politica e sociale, numerosi casi di commistione. Sembra anzi che una nozione come quella di libertà tenda quasi inevitabilmente a dar luogo a casi misti nella teoria. E questo, forse, suggerisce qualcosa a proposito della sua natura.

2. Libertà negativa e libertà positiva

Per illustrare il frequente intreccio fra differenti impegni teorici che caratterizza molte penetranti analisi della libertà, consideriamo uno dei contributi più influenti della seconda metà del nostro secolo, dedicato a gettar luce sulla nozione di libertà: il saggio Due concetti di libertà di Isaiah Berlin (v., 1969; tr. it., pp. 185-241). In questo classico saggio, che riproduce il testo della sua lezione inaugurale all'Università di Oxford del 31 ottobre 1958, l'autore ha formulato una distinzione, destinata a divenire canonica e a generare una lunga e intensa discussione, fra libertà negativa e libertà positiva, fra libertà da e libertà di. Ora si può sostenere che, nel suo complesso, la trattazione di Berlin sia debitrice in vari modi nei confronti di un impegno tanto descrittivo quanto prescrittivo e interpretativo.Si considerino le seguenti asserzioni dell'autore: quando si usa il termine 'libertà' si intende descrivere una situazione in cui sia accertabile l'assenza di ostacoli a scelte o azioni possibili; le strade che ciascun individuo può decidere di percorrere devono essere sgombre, non sbarrate (da qualcuno). Una libertà così descritta e intesa dipende da quante porte sono aperte, da quanto lo sono, dalla loro relativa importanza. L'assenza di libertà è dovuta semplicemente alla chiusura di queste porte o all'impossibilità di aprirle, quando essa è interpretabile come risultato o esito - intenzionale o meno - di istituzioni politiche, pratiche sociali, azioni umane. Sembra che Berlin intenda effettivamente descrivere la libertà quando ne definisce il 'significato principale'. Esso coincide con "la libertà dalle catene, dalla prigionia, dalla schiavizzazione da parte di altri. Il resto è un'estensione di questo significato oppure una metafora" (v. Berlin, 1969; tr. it., p. 53). Se si resta a questa descrizione quasi letterale (non metaforica) della libertà, la celebre distinzione fra i due concetti di libertà deve indicare semplicemente due differenti campi o arene della società in cui può esservi o non esservi libertà. Per la libertà negativa ci riferiremo all'area entro la quale una persona è o dovrebbe essere lasciata fare o essere ciò che è in grado di fare o essere senza interferenze da parte di altre persone. Per la libertà positiva, invece, ci riferiremo all'area in cui si situa la fonte del controllo e dell'interferenza che può determinare che qualcuno faccia o sia una cosa piuttosto che un'altra. Che qualcuno sia libero implica in ogni caso che egli o ella possa scegliere e agire in assenza di ostacoli o vincoli; la differenza fra l'essere libero negativamente e l'essere libero positivamente dipende, per dir così, dall'arena che via via è pertinente. Può trattarsi dell'arena in cui siamo liberi da interferenze o vincoli, quali che siano, e allora saremo negativamente liberi. Se viceversa l'arena è quella in cui siamo liberi di interferire o vincolare, allora saremo positivamente liberi.

Se si resta alla descrizione, sembra difficile parlare di più concetti di libertà. Si sarebbe piuttosto tenuti a parlare di più arene o contesti della società in cui è possibile che vi sia libertà o non libertà, maggiore o minore libertà. Tuttavia l'importanza del contributo di Berlin deriva proprio dal fatto che mette a fuoco la dicotomia fra due distinti concetti di libertà; descrive le loro tensioni e conflitti; privilegia la libertà negativa rispetto alla libertà positiva. Come sia possibile tutto ciò dipende da nient'altro che dall'impegno alla prescrizione. Né, a sua volta, quest'ultimo è indipendente dagli esiti di un esercizio interpretativo del senso e delle ragioni della libertà. Sembra anzi trovare proprio in una particolare interpretazione il suo sfondo più adeguato e coerente: l'interpretazione ha carattere storico. La libertà negativa è, più o meno, la libertà dei 'moderni' di Benjamin Constant, che ne definisce appunto il senso e il valore nella celebre contrapposizione con la libertà degli 'antichi'; essa è l'indipendenza individuale che John Stuart Mill difende nel classico Essay on liberty; il soggetto della libertà negativa è l'individuo (v. Constant, 1815; v. Mill, 1859). E la concezione individualistica soggiacente alla difesa valutativa della libertà negativa sembra a Berlin piuttosto recente: "pur con tutte le sue radici religiose, non risale più in là, nella sua forma sviluppata, del Rinascimento o della Riforma" (v. Berlin, 1969; tr. it., p. 196). L'arena della libertà negativa è circoscritta da un confine che, per quanto mobile e variamente tracciato, separa la sfera 'privata' dalla sfera 'pubblica', la sfera individuale da quella collettiva. L'assenza di vincoli o interferenze va quindi interpretata principalmente come assenza di vincoli o interferenze da parte dei detentori di autorità legittima. O, in altri termini, si può dire che l'autorità è legittima e giustificata se e solo se non viola o viola il meno possibile l'autonomia individuale. La giustificazione dell'ordine politico e delle istituzioni pertinenti può anche coincidere con la giustificazione delle condizioni che massimizzano la garanzia e la tutela delle scelte individuali e minimizzano la coercizione legittima (come specificato per il principio del danno da Mill). Come si vede, il concetto di libertà negativa presuppone una famiglia più ampia di teorie o visioni del mondo politico e sociale, le quali rendono conto, nella loro interezza, dell'importanza prescrittiva di assetti di istituzioni e pratiche sociali che tutelino la sfera della non interferenza o non impedimento o non coercizione ai danni degli individui. Occorre assumere che l'individuo sia un epicentro di valore, che per questo la sua autonomia di scelta individuale debba essere protetta, che sia collettivamente preferibile un ordine politico che non vincoli - o vincoli il meno possibile - le scelte individuali. Infine è implicita, in queste assunzioni prescrittive, una congiunzione fra la libertà come valore e l'eguaglianza come valore: essa si specifica nell'idea elementare della parità di condizioni, quanto alla libertà negativa, fra tutti gli individui. In questo consiste l'ascrizione di eguale libertà negativa a chiunque soddisfi i requisiti per essere incluso nella comunità degli individui, intesi come attori autonomi di scelte e - infine - come soggetti di vite separate. Il riferimento a 'chiunque' rende esplicito una sorta di impegno 'universalistico' che è variamente associato all'interpretazione della libertà negativa e, soprattutto, all'ascrizione della stessa a soggetti che ne siano o ne debbano essere titolari.

Possiamo quindi osservare che l'impiego del concetto di libertà negativa richiede che sia presupposta una qualche forma di separazione o differenziazione fra arene di azione e significato sociale (si pensi al confine mobile fra pubblico e privato) e una pluralità di principî di identificazione di soggetti o, più precisamente, di comunità di soggetti. Si tratta di comunità di inclusione di 'pari', quanto all'ascrizione di libertà negativa. Diremo che un determinato concetto di libertà implica almeno l'identificazione di soggetti di libertà (chi è libero) e di campi o domini di scelta (che cosa, chi è libero, è libero di essere o fare). Chi e che cosa si rivelano in questo modo le variabili salienti per qualsiasi concettualizzazione o resoconto della libertà, dell'esservi libertà, maggiore o minore. La specificazione del valore delle variabili dipende dall'interpretazione di un contesto o del contesto pertinente.

Abbiamo sommariamente considerato il contesto pertinente per l'interpretazione del senso 'negativo' della libertà. Vediamo ora di illustrare l'argomento di Berlin sul suo senso 'positivo'. Sarà possibile verificare in tal modo quanto la celebre dicotomia sia debitrice nei confronti di un contesto determinato e di una particolare interpretazione. "Il senso 'positivo' della parola 'libertà' deriva dal desiderio da parte dell'individuo di essere padrone di se stesso. Voglio che la mia vita e le mie decisioni dipendano da me stesso e non da forze esterne di qualsiasi tipo. Voglio essere strumento dei miei stessi atti di volontà e non di quelli di altri" (v. Berlin, 1969; tr. it., p. 197). A prima vista è plausibile sostenere, come ha chiarito fra gli altri Norberto Bobbio, che la libertà positiva, la libertà di, va intesa propriamente come assenza di coercizione o, in senso affermativo, come autonomia, e concerne la nostra possibilità di volere, le nostre volizioni. All'inverso la libertà negativa, la libertà da, andrebbe intesa propriamente come assenza di impedimento e concernerebbe la nostra possibilità di agire, le nostre azioni (v. Bobbio, 1974). Tuttavia la distinzione fra azioni e volizioni è quantomeno incompleta: sembra sia difficile pensare ad azioni indipendenti da volizioni e a volizioni che non motivino o non mirino ad azioni più o meno con esse coerenti. Più persuasivo potrebbe essere il ricorso alla distinzione fra arene e soggetti, cui ci si è già riferiti: il senso positivo della libertà ha a che vedere con l'arena pubblica o collettiva, mentre quello negativo ha a che vedere con l'arena privata o individuale. Se gli eroi della libertà negativa sono Constant, Mill e Alexis de Tocqueville, uno dei padri della libertà positiva è Jean-Jacques Rousseau; e se la libertà negativa è ugualmente ascritta a tutti coloro che sono inclusi nella comunità (privata) degli individui, la libertà positiva è ugualmente ascritta a tutti coloro che sono inclusi nella comunità (pubblica) dei cittadini, intesi come membri o partners di eguale valore della comunità politica.

Così, disporre di libertà positiva vuol dire essere liberi di partecipare alle procedure che hanno come esito scelte collettive che, inevitabilmente, sono vincolanti per chiunque. Come chiarisce Berlin, "il senso 'positivo' della libertà emerge se cerchiamo di rispondere non alla domanda 'che cosa sono libero di fare o essere?', ma 'da chi sono governato?' o 'chi deve dire che cosa devo e che cosa non devo essere o fare?"' (v. Berlin, 1969; tr. it., p. 196). La tensione e il possibile conflitto fra i due concetti di libertà sono evidenti, se si tiene conto della indipendenza logica delle due domande e delle due possibili risposte. Noi possiamo, contrariamente a una delle tesi difese da Mill, pensare a un ordine politico in cui al massimo di indipendenza individuale si accompagni un minimo di libertà collettiva, o all'inverso. Ciò si basa sulla connessione non necessaria da un punto di vista logico fra 'libertà individuale' e 'principio democratico'. Come dire: la libertà negativa non è di per sé incompatibile con l'assenza di autogoverno. E, d'altra parte, l'autogoverno può implicare esiti che comprimono e riducono o azzerano la libertà individuale. Scelte collettive in qualche senso coerenti con l'idea di essere 'padroni di se stessi' hanno effetti che incidono inevitabilmente sulla linea di confine fra coercizione legittima e libertà o indipendenza individuale. Libertà politica e libertà dalla politica sono in tensione. La tensione fra le due libertà non dipende tuttavia da qualcosa che attiene alla descrizione della libertà; dipende da una sua interpretazione e dall'impegno prescrittivo a favore del prevalere dell'una o dell'altra arena in cui deve esservi libertà e a favore dell'uno o dell'altro principio di identificazione dei soggetti o delle comunità di soggetti che devono avere libertà. La celebre dicotomia fra i due concetti di libertà è quindi una dicotomia che deve la sua salienza alla storia e non alla logica: "La libertà che consiste nell'essere padroni di se stessi e quella che consiste nel non essere ostacolati nelle proprie scelte da altri possono sembrare superficialmente due concetti logicamente abbastanza vicini - nient'altro che due modi, uno positivo e l'altro negativo, di dire sostanzialmente la stessa cosa. Invece la nozione 'positiva' e quella 'negativa' di libertà si sono sviluppate storicamente in direzioni divergenti, non sempre per passaggi logicamente ineccepibili, finché alla fine sono entrate in conflitto fra loro" (v. Berlin, 1969; tr. it., p. 198).

In conclusione possiamo dire che l'importanza del contributo di Berlin consiste nell'aver messo a fuoco le ragioni di una concezione pluralistica della libertà. Si è tenuti a una concezione pluralistica se si accetta: a) la possibilità di differenti interpretazioni della libertà, dipendenti dai contesti e dai soggetti della libertà; b) la tensione non solo 'interna' alla libertà variamente intesa, ma anche 'esterna', fra la libertà e altro, fra la libertà variamente intesa e altri valori o fini sociali. In particolare il conflitto saliente messo a fuoco da Berlin è quello fra la nostra libertà quali individui e la nostra libertà quali membri di una comunità politica. Non si tratta solo di un conflitto che, per buona parte del nostro secolo, ha caratterizzato l'opposizione fra regimi e assetti liberaldemocratici e regimi e assetti autocratici o totalitari (a questo guardava soprattutto Berlin alla fine degli anni cinquanta: v. Passerin d'Entrèves, 1974); si tratta di una tensione permanente entro la tradizione delle stesse società a democrazia pluralistica, la tensione fra le tessere liberali e le tessere democratiche che compongono il mosaico delle democrazie costituzionali o poliarchie. Sembra in proposito che quanto richiesto dalle libertà dei moderni e quanto richiesto dalle libertà degli antichi sia destinato ciclicamente a entrare in conflitto, domandando all'ordine politico e alle sue regole e istituzioni soluzioni di equilibrio intrinsecamente instabili. Le differenti soluzioni si dispongono quasi su un continuum in cui l'una o l'altra libertà, l'uno o l'altro principio di identificazione individuale o collettivo, l'una o l'altra arena prevalgono in peso, portata ed estensione, generando così differenti soluzioni del problema dell'ordine politico pur entro lo stesso quadro di istituzioni e procedure liberaldemocratiche. Nella teoria normativa ciò ha dato luogo a differenti prospettive a proposito del valore della libertà, di quale libertà (o quali libertà) e del rapporto con altri valori sociali; ma di questo ci occuperemo più avanti (v. cap. 7). Ora dobbiamo delineare una descrizione plausibile della libertà, intorno a cui ha lavorato la teoria politica con fini esplicativi e non già valutativi. L'illustrazione successiva di alcuni contesti in cui sono state storicamente interpretate diverse libertà in una prospettiva di ricostruzione storica dei concetti politici fondamentali ci consentirà di passare in modo piano e naturale allo stato della discussione e della ricerca prescrittiva sull'assegnazione di differenti valori alla libertà o alle libertà.

3. La definizione triadica di libertà

La ricostruzione proposta delle tesi di Berlin su libertà negativa e positiva ha mostrato in che senso una discussione genuina sui valori relativi di differenti libertà sia stata presentata come una discussione intorno al significato del termine 'libertà'. La concezione pluralistica della libertà dipende più precisamente dall'esigenza di proporre (o indicare la necessità o eventualmente l'impossibilità di) una soluzione per un caso di conflitto fra differenti interpretazioni della libertà.

Il punto sembra essere il seguente: la teoria politica è interessata a definizioni della libertà quando devono essere assegnati valori a differenti libertà. E ciò accade quando differenti libertà entrano fra loro in conflitto.L'osservazione suggerisce che molti casi in cui sorge una controversia teorica su quale sia la migliore descrizione della libertà sono in realtà casi in cui si registra un conflitto fra differenti libertà (libertà di differenti soggetti e/o in differenti campi o contesti) e si confrontano fra loro differenti assegnazioni di valore alle libertà. Come si è accennato nel cap. 1, uno dei modi in cui la teoria politica può fornire una base più salda e affidabile al confronto razionale fra differenti prospettive valutative è provvedere a una descrizione della libertà quanto più possibile indipendente da impegni valutativi. Ciò può condurre, come è stato proposto - fra gli altri - da Felix E. Oppenheim, a una definizione della libertà come relazione fra agenti o come un particolare tipo di interazione. In quanto relazione fra agenti la libertà è libertà 'sociale'. L'idea di Oppenheim è quella di apprestare una definizione esplicativa, operativa, proficua e, ovviamente, neutrale dal punto di vista valutativo. Si tratta di rendere esplicito "quanto è generalmente implicato da termini vaghi come 'libertà' o 'libero', nel modo in cui ricorrono nel linguaggio quotidiano, e più particolarmente negli scritti politici". Lo scopo è quello di "rendere noi stessi consapevoli di ciò di cui realmente parliamo quando parliamo di libertà e di idee affini: 'non libertà' e 'controllo"' (v. Oppenheim, 1961; tr. it., p. 11).

La definizione operativa di libertà sociale indica che "un agente è libero di fare qualcosa nei confronti di un altro agente (o, come vedremo, nei confronti di ogni altro agente). La libertà sociale è per definizione sia 'libertà da' sia 'libertà di': libertà dall'essere costretti da qualcuno a fare qualcosa (o impediti di farla, o puniti se la si fa o se non la si fa)".

Dato il carattere relazionale e interattivo del contesto in cui si descrive la libertà sociale, dovremmo escludere per maggiore precisione l'impiego del sostantivo 'libertà' e sostituirlo sempre con l'aggettivo 'libero'. "Il termine 'libertà' facilmente suggerisce l'impressione che la libertà sia una cosa che una persona può 'avere' o 'possedere', come una collezione di francobolli o un mal di testa. A rigor di termini dovremmo usare solo l'aggettivo 'libero' e soltanto in espressioni del tipo: 'nei confronti di Y, X è libero di fare x"' (ibid., p. 125). Quest'ultima formulazione di Oppenheim a proposito della libertà sociale, di cui ad esempio quella politica è solo una fra le possibili specificazioni, suggerisce più in generale l'adozione di una definizione triadica della libertà, se il nostro scopo è quello propriamente descrittivo. La libertà, come ha argomentato Gerald MacCallum in un importante articolo che figura nella discussione canonica aperta dal saggio di Berlin (v. MacCallum, 1967), può essere in ogni caso descritta grazie al riferimento a tre elementi: gli agenti quali esseri liberi, le restrizioni o limitazioni (imputabili variamente ad altri agenti) da cui sono liberi e ciò che sono liberi di fare o non fare. Si può quindi sostenere, come ha suggerito John Rawls, che "la descrizione generale della libertà ha [...] la forma seguente: questa o quella persona (o persone) è libera (o non libera) da questo o quel vincolo (o insieme di vincoli) di fare (o non fare) questo o quello. [...] Inquadrata su questo sfondo la libertà può venire considerata come costituita dai tre elementi sopramenzionati. Inoltre, esattamente come vi sono vari tipi di agenti che possono essere liberi - persone, associazioni, Stati -, così vi sono molti tipi di condizioni che li vincolano e innumerevoli generi di cose che essi sono liberi o non liberi di fare. In questo senso esistono molte libertà diverse, che in alcuni casi può essere utile distinguere. Queste distinzioni, però, si possono operare senza introdurre differenti significati della libertà" (v. Rawls, 1971; tr. it., pp. 176-177).

La definizione triadica della libertà include i termini che sono stati illustrati nel capitolo precedente a proposito dei due concetti di libertà: il soggetto o i soggetti di libertà (chi è libero), i campi entro cui essi sono liberi (definiti dai vincoli), gli scopi o i beni socialmente riconosciuti (non necessariamente sociali) che si è liberi di perseguire (che cosa si è liberi di fare).

L'idea è quella secondo cui, ogni volta che ci impegniamo a definire stati di libertà, abbiamo a che fare con questioni relative all'identificazione di chi, sotto quale descrizione pertinente per il riconoscimento collettivo, è libero di fare che cosa, rispetto a quali vincoli, entro quale campo di azione e significato sociale. Ciò, tra l'altro, rende conto del perché nella teoria sociale si tenda a mettere a fuoco, a proposito della libertà, processi e trasformazioni che investono sfere o sistemi della società che guadagnano o perdono nel tempo autonomia rispetto ad altri, e le connesse modificazioni delle identità collettive coinvolte. Possiamo così introdurre la nozione di sfere di libertà e di comunità storicamente più o meno inclusive di soggetti di libertà. Ne deriva una concezione certamente pluralistica delle libertà, più ampia e generale di quella prospettata nella celebre dicotomia da cui siamo partiti. Ciò non equivale affatto a ridurre l'importanza della tensione fra le due libertà, negativa e positiva: vuol dire solo considerare quella tensione come un'esemplificazione dopo tutto contingente - e non per questo meno rilevante - di una storia molto più lunga, ampia e complicata.

4. Sfere di libertà e storia del concetto

Nella prospettiva di una storia delle sfere e dei soggetti di libertà si consideri il contributo che l'approccio della storia dei concetti fornisce alla teoria politica e sociale. Werner Conze ha mostrato in proposito come sia ricostruibile il poliedrico campo semantico della libertà e ha sottolineato al tempo stesso il fatto che, se a partire dal secolo scorso tale campo non sembra essere stato più significativamente modificato, negli ultimi due secoli è stata ulteriormente facilitata e accresciuta la disponibilità del termine per ogni impiego: di qui l'utilità di una ricostruzione storico-comparata dei diversi impieghi del termine o, meglio, del concetto fondamentale."'Libero' (frei) e 'il libero' (der Freie) sono ricondotti alla radice germanica frija-, 'con collo libero' (in opposizione allo schiavo), e vanno etimologicamente insieme a lieb ('caro') e Freund ('amico') (vedico priya). Essi indicavano, così come i corrispondenti ἐλεύτεϱοϚ e liber (o ingenuus), tradotti in gotico o in tedesco antico con frei, l'appartenenza a una comunità protettrice. 'Libero' era dunque un concetto giuridico, mediante il quale i membri di una comunità di sangue e di stirpe erano distinti dagli estranei (ovvero dai non liberi)" (v. Conze, 1979; tr. it., p. 3).

In questa prospettiva sembra sia possibile fissare due significati fondamentali che, pur con modificazioni più o meno drastiche, permangono invariati nei nostri impieghi del concetto fondamentale di libertà. In primo luogo l'essere liberi significa essere immuni dall'uso altrui della forza all'interno della comunità o dell'ambito entro cui la libertà è tutelata. In secondo luogo l'essere liberi è possibile solo se la libertà è protetta contro la violazione e l'oppressione da parte di una forza estranea, grazie a una forza propria e riconosciuta come tale entro il gruppo o la comunità. Si specifica in tal modo la connessione fra la libertà come status di una particolare comunità di pari (almeno sotto l'aspetto condiviso dell'essere liberi) e la dimensione interna ed esterna rispetto ai confini della comunità inclusiva. Inclusione ed esclusione, rispetto all'interno e all'esterno, consentono di distinguere i liberi dai non liberi. Se poi si considera che la realizzazione della libertà dipende dall'ampiezza del campo di azione dei detentori di potere, è facile rendersi conto della essenziale pluralità delle libertà, "la cui validità - personale e spaziale - era sempre condizionata dalla misura in cui godevano di efficace protezione" (ibid., p. 4).
Questa trattazione elementare del concetto fondamentale di libertà, riferito all'inclusione nella comunità protettrice all'interno e all'esterno e specificato dalla opposizione con lo status dell'escluso e perciò non libero, getta luce sulla libertà greca e sulla libertas romana. Dominante in entrambi i casi resta l'opposizione libero-schiavo. L'essere libero dipende così dalla comunità, dalla πόλιϚ che verso l'esterno protegge nei confronti di altre comunità politiche (libere o per lo più non libere) e, all'interno, protegge dalla tirannide.

La libertas, che è in primo luogo il potere di disposizione sulla propria persona (lo schiavo è res), consiste nell'appartenenza al populus, ovvero nella civitas che è fatta di leggi miranti a generare sicurezza (securitas). Il campo semantico della libertà è esaurito dal riferimento alla comunità inclusiva dei liberi e quest'ultima è a sua volta definita da un solo principio di identificazione, quello dell'appartenenza. L'interessante eccezione costituita dalla libertà filosofica o dalla libertà del saggio solitario, che incorpora il riferimento a una comunità alternativa rispetto a quella protettrice dei liberi come corpo collettivo, trova uno sviluppo nella variazione più saliente del campo semantico, introdotta con la 'libertà cristiana'. Lo sviluppo sembra essere cruciale per la complicata vicenda delle interpretazioni della libertà e delle trasformazioni del suo senso e delle sue ragioni.

Si possono considerare almeno tre ambiti in cui è identificabile la trasformazione imputabile alla libertà cristiana. Il primo è quello che si riferisce all'ermeneutica neotestamentaria. Il secondo ha a che vedere con la nascente elaborazione del discorso teologico. Il terzo concerne, nell'era postcostantiniana, la libertas ecclesiae. Nella predicazione di Paolo sono ravvisabili almeno tre accezioni della libertà cristiana derivanti dall'interpretazione proposta del Nuovo Testamento: la libertà dal peccato, la libertà dalla legge veterotestamentaria e la libertà dalla soggezione alla morte. Queste tre libertà sono costitutive della comunità dei credenti: Cristo ha affrancato i credenti 'per la libertà'. I credenti, così liberati, sono identificabili dall'appartenenza a una comunità che non coincide con quella politica, con l'ordine politico mondano. Differente risulta il principio di identificazione collettiva e differenti i confini spazio-temporali della comunità dei liberi. Differente è, infine, il criterio di riconoscimento e di inclusione nella comunità.

Nell'ambito dell'elaborazione teologica Agostino può trarre dall'analisi del rapporto fra predestinazione, grazia e libertà la conclusione che la libertas superiore è quella propria della comunità che coincide con la città di Dio ("civitas Dei est libera"). Nell'ambito politico e istituzionale la libertas religionis richiesta da Tertulliano e Lattanzio nell'età dell'oppressione e della persecuzione si converte, dopo l'editto di Milano del 313, in libertas ecclesiae, intesa come tutela dell'autonomia dell'istituzione ecclesiale rispetto alle interferenze e ai vincoli imposti dall'autorità imperiale. Si osservi come si profila in questo modo il principio di un conflitto virtuale fra almeno due comunità, quella che include nell'ordine temporale (temporaneo) e quella che include nell'ordine spirituale. Si può pensare a un conflitto fra due principî di identificazione e, quindi, di inclusione ed esclusione dalle comunità pertinenti e distinte, l'uno che concerne i fini collettivi di breve termine e l'altro che tocca i fini collettivi di lungo termine. Le libertà ecclesiastiche sono l'indice del variabile equilibrio fra le pretese avanzate dalle due comunità. Con la riforma gregoriana la libertas ecclesiae si riformula come la pretesa non semplicemente di disporre di libertates quanto di disporre di potere universalistico, riconosciuto come tale, sulle comunità dell'ordine mondano o secolare.

Questo conflitto, centrale per la ricostruzione delle trasformazioni di senso della libertà entro la tradizione occidentale, si ripropone in termini mutati nella Riforma quando, con la rottura dell'universalismo religioso cristiano, viene meno il principio dell'identificazione collettiva dei credenti in una singola comunità e divergono quindi le interpretazioni autorizzate di chi ha potere sui fini collettivi di lungo termine o fini ultimi. Se Lutero, tornando a un'interpretazione di Paolo, si impegna nella critica della libertà cristiana come libertas ecclesiae, che nient'altro diviene se non l'insieme dei privilegi, delle immunità e delle rivendicazioni dell'istituzione ecclesiastica, Calvino sottrae al regimen politicum o all'ordinamento civile il concetto della libertà cristiana, che viene ascritto all'ambito autonomo della teologia. Nella Institutio christianae religionis possiamo identificare almeno tre ambiti tematici, a proposito della libertà cristiana: a) nella prospettiva paolino-luterana il cristiano è libero dalla legge perché obbedisce a Dio; la coscienza del credente, in quanto membro della comunità cristiana, liberata dal giogo della legge, si conforma volontariamente a Dio; b) il cristiano è libero nelle ἀδιάϕοϱα, in tutte le forme regolate ecclesialmente per disciplinare l'espressione della fede; c) la libertà della coscienza del credente, vincolata solo alla parola di Dio, ha valore nel regnum spirituale, distinto dal regimen politicum.

In una prospettiva di storia dei concetti Gerhard May ha osservato in proposito: "Per i riformatori la libertà cristiana è una realtà 'spirituale': essi hanno avversato con decisione la sua interpretazione distorta in termini politici. Ciononostante la concezione riformata della libertà ha giocato un ruolo rilevante per la formazione del concetto moderno di libertà ben al di là della sfera ecclesiastica e teologica. La tesi della libertà della coscienza vincolata soltanto alla parola di Dio, in quanto tale non sottoposta ad alcuna autorità ecclesiastica o secolare, e l'aperta protesta contro una simile coartazione della coscienza, il rigetto delle pretese mondane di potere della Chiesa e della sua sovraordinazione all'ambito statuale-secolare [...] e infine la richiesta di porsi al servizio del prossimo nel segno della libertà cristiana: sono, queste, tutte idee che trascendono l'orizzonte societario medievale e i suoi fondamenti spirituali, preparando la concezione moderna della libertà" (v. May, 1979; tr. it., p. 32).

Possiamo in conclusione rilevare come la ricostruzione storico-concettuale dell'insorgenza di determinate sfere di libertà metta in luce processi di differenziazione quanto a comunità e soggetti sociali. Le trasformazioni di senso della libertà cristiana sono connesse in ogni caso alle pretese di circoscrivere una sfera in cui valga un principio di identificazione collettiva e di inclusione differente rispetto ad altri alternativi: per esempio rispetto a quello proprio dell'ordine politico temporale. Il termine 'libertà' assume in tal modo la funzione di un 'segnaposto', per così dire, che indica un processo di conflitto e di riconoscimento della mutua compatibilità fra due principî di identificazione alternativi, corrispondente alla differenziazione fra due sfere sociali. Il caso saliente resta quello in cui la comunità, rispetto alla quale viene richiesta libertà per gli individui di riconoscersi in comunità alternative, è quella in cui si detiene e si esercita l'autorità politica.

5. La libertà e le libertà

Come si è accennato nella conclusione del capitolo precedente, la genesi della libertà 'moderna' sembra essere associata a un processo molto complicato di sottrazione all'autorità politica data del monopolio dell'identificazione collettiva e della definizione dei fini collettivi ultimi. Ciò richiede la costituzione di una comunità alternativa in cui ci si riconosca collettivamente in termini non politici.

Consideriamo in questa prospettiva il programma giusnaturalistico del contrattualismo come teoria normativa dell'obbligo politico. Protagonista è in ogni caso una comunità particolare, distinta dalla comunità politica data; a essa corrisponde un concetto di libertà distinto dalle libertà, dalle libertates connesse all'autorizzazione del potere pertinente nella comunità politica. La comunità non politica, costruita concettualmente, è universalistica e inclusiva al massimo grado o, comunque, a un grado molto alto: essa è la comunità dei 'pari', in cui sono riconosciuti come componenti gli esseri umani come individui. La libertà 'naturale' è opposta in tal modo alle libertà particolaristiche, ascritte a comunità determinate e circoscritte in virtù dell'esercizio dell'autorità politica data e delle sue classificazioni. È quest'ultima, nella prospettiva delle dottrine del contratto o del patto, a dover riconoscere che gli individui su cui l'autorità stessa si esercita sono 'naturalmente' liberi: il che vuol dire ugualmente liberi.

Se si è interessati a una teoria che produca interpretazioni del senso della libertà (e dei suoi mutamenti), si può cogliere qui una trasformazione saliente - entro la tradizione occidentale - del concetto di libertà. Quanto per convenzione usiamo chiamare la libertà 'moderna' presuppone l'identificazione di un insieme di proprietà non politiche che caratterizzano gli individui in quanto tali e, congiuntamente, l'idea che l'ordine politico è giustificabile se e solo se è coerente con requisiti derivanti dalle proprietà non politiche degli individui. La libertà moderna risulta così uno dei termini non politici più importanti - forse il più importante per giustificare e legittimare l'ordine politico. Questo rende conto della continua opposizione fra la libertà e le libertà nel conflitto delle interpretazioni della libertà che accompagna l'ascesa delle teorie giusnaturalistiche moderne. Le differenti teorie del patto sociale offrono naturalmente divergenti soluzioni del problema della giustificazione dell'ordine politico. Tuttavia il ruolo della libertà 'naturale', non politica, determina costantemente le diverse forme e arene di esercizio dell'autorità legittima o della sovranità. Si consideri in proposito la definizione della libertà - associata alla descrizione dello stato non politico (stato di natura o anarchia) - proposta da Thomas Hobbes e la si confronti con quella fornita da John Locke (v. Matteucci, 1984, pp. 109-166). Al di là delle drastiche differenze nell'interpretazione della situazione non politica (che generano differenti soluzioni del problema dell'ordine e dell'obbligo politico), il ruolo concettuale svolto dalla nozione di libertà, ascritta a chiunque in stato di natura, permane lo stesso nei due modelli più ampi di teoria politica normativa.

Così l'eguale libertà, ascritta a chiunque sia riconoscibile come un individuo, acquista un suo senso pertinente entro una più ampia famiglia di concezioni dell'ordine politico. Pur nelle loro differenze, queste concezioni, variamente connesse alla vicenda dello Stato territoriale moderno, devono ospitare l'idea della scelta razionale o ragionevole e, in ogni caso, del consenso, per rendere conto della giustificabilità dell'autorità politica, della sua portata e dei suoi - variabili - limiti. L'idea stessa dell'ordine politico come esito 'artificiale', come un costrutto e non come un dato naturale, è centrata sul riconoscimento della libertà moderna, intesa come proprietà normativamente rilevante e non politica di individui concepiti come cooperanti nella costruzione pattizia della comunità politica. Come abbiamo accennato, questo cambiamento concettuale rende conto della critica che, in nome della libertà, è possibile rivolgere alle libertà cetuali, territoriali o istituzionali, giuridicamente vigenti in virtù dell'autorizzazione politica. Le concessioni di privilegi, si può dire con Voltaire, non sono altro che titoli di servitù.

L'interpretazione della libertà come eguale libertà individuale specifica in tal modo, in un ambito di riferimento etico piuttosto che politico, le condizioni di possibilità dell'ordine politico coerente con la concettualizzazione dell'individuo come epicentro di valore. È quindi la congiunzione fra eguaglianza e libertà a definire propriamente il ruolo del concetto moderno di libertà nell'ambito di riferimento dell'ordine politico. Come è stato osservato nella ricostruzione storica del concetto di libertà nel XIX secolo, "il concetto moderno di libertà non costituisce la somma delle libertà cetuali condensata in un singolare collettivo ed estesa a tutti i cittadini: è stato piuttosto fondato giusnaturalisticamente contro queste libertà e poi confermato politicamente con il sorgere di una società di cittadini dello Stato. Il concetto si fonda sull'insistenza su un'autonomia dell'individuo che per la propria sicurezza esige divisione dei poteri, partecipazione politica e riconoscimento dei diritti dell'uomo, criticando al contempo come un malinteso (spiegabile a fronte della mutata funzione della feudalità) le libertà delle corporazioni e dei loro membri, ritenute soltanto concesse quando non addirittura usurpate. Il risultato di questo processo consiste nell'idea, nuova per la vita pratica, che la 'libertà' sia pensabile a prescindere da stati di fatto concreti. I due concetti - 'la' libertà e 'le' libertà - si escludevano reciprocamente in via di principio. Da una parte a un termine giuridico orientato alla tradizione si contrapponeva un concetto politico generale rivolto al futuro. Dall'altra lo spazio libero fissato temporalmente e spazialmente, protetto corporativamente, rappresentando uno dei contrassegni essenziali del feudalesimo, non poteva conciliarsi con una libertà pensata a partire dall'individuo e che doveva trovare nello Stato moderno, organizzato secondo una logica unitaria, i suoi organi e le sue garanzie. Non si trattava più soltanto di una libertà dal potere autoritativo, bensì della libertà come valore fondamentale della costituzione statuale" (v. Dipper, 1979; tr. it., pp. 91-92).

Il lungo e complicato processo che dalle libertà conduce alla libertà, nel senso ora indicato, trova un suo primo, provvisorio, terminus ad quem nell'impresa del costituzionalismo liberale e nelle Dichiarazioni dei diritti della fine del XVIII secolo. Costituzionalismo e arte della separazione fra arene o sfere sociali sono sinonimi, come è stato suggerito - fra gli altri - da Michael Walzer (v., 1986). Sotto il vincolo della libertà eguale degli individui si delineano i confini fra varie sfere, fra cui quella in cui si esercita l'autorità politica. Ancora una volta la differenziazione e la relativa autonomia fra distinti sistemi o campi sociali risultano connesse al riconoscimento della libertà degli individui; più precisamente, come abbiamo detto, alla presenza di comunità di soggetti liberi, entro determinate sfere, di perseguire una varietà di scopi. Per questo una interpretazione del senso della libertà 'moderna' si ritrova, in un quadro per tanti versi drasticamente mutato, di fronte a una famiglia o a un sistema di libertà (al plurale). E i differenti concetti di libertà, i loro possibili conflitti e le loro possibili tensioni, instabili equilibri o compatibilità, trovano così il loro senso.

Qui è possibile rendere conto della dicotomia di Berlin esaminata nel cap. 2, piuttosto che della tesi di Constant sulla libertà degli antichi e dei moderni, o della critica di Karl Marx (v. 1844) alla fallacia della promessa universalistica della libertà del citoyen nella società del bourgeois, piuttosto che dell'elogio di Wilhelm von Humboldt o John Stuart Mill dell'indipendenza individuale. In questo contesto, infine, è possibile trovare, alla radice, il conflitto fra teorie normative o visioni politiche diverse che assegnano differente valore alla libertà o al sistema delle libertà, proponendo diverse soluzioni dei dilemmi generati dalla tensione fra la libertà variamente intesa e altri valori o fini sociali (si pensi al caso del conflitto fra liberalismo e socialismo nell'ambito della questione sociale del XIX secolo europeo).Restano in ogni caso cruciali, nella ricostruzione storico-interpretativa del senso delle libertà, da un lato la connessione fra maggiore o minore libertà e maggiore o minore differenziazione dei principî di identificazione collettiva e di definizione delle sfere sociali o comunità pertinenti, dall'altro la connessione fra maggiore o minore libertà e maggiore o minore opportunità di costituzione autonoma di comunità (religiose o ideologiche o culturali) alternative alla comunità politica o, nell'ambito della comunità politica stessa, maggiore o minore opportunità di dispersione o non agglutinamento delle risorse di potere. Nel primo caso avremo libertà o domande di libertà dalla politica; nel secondo libertà o domande di libertà politica (il che ha qualcosa a che vedere con la mobile separazione fra pubblico e privato, illustrata a proposito della concezione pluralistica di Berlin).

6. Verità, proprietà e potere: tre casi di libertà moderne

Consideriamo tre casi di libertà che fanno parte del 'catalogo' delle libertà dei moderni o dei contemporanei. Il primo è quello, paradigmatico, della libertà religiosa; il secondo è quello della libertà economica; il terzo è quello della libertà politica. Si tratta di libertà cui sono associati rispettivamente: il contesto della verità e del relativo conflitto; quello della proprietà e del conflitto per la rimozione di interferenze e vincoli che ne ostacolino o limitino gli impieghi; quello dell'autorità o potere politico e del conflitto per partecipare al suo esercizio. In tutti e tre i casi vale la definizione triadica che deve specificare chi è libero, da quali vincoli, di fare che cosa (v. sopra, cap. 3). Avremo quindi differenti soggetti o comunità di soggetti, differenti arene o sfere sociali, differenti beni o scopi, socialmente riconosciuti.

Il contesto del conflitto religioso è paradigmatico per l'interpretazione moderna dell'eguale libertà. La libertà religiosa è il 'segnaposto' della separazione e della differenziazione fra l'arena della verità e quella della giustizia, fra il dominio della salvezza e il dominio del politico. Quando Locke asserisce che "nessuno potrebbe, nemmeno se lo volesse, conformare la sua fede ai dettami di un altro" (v. Locke, 1689; tr. it., p. 10), riecheggia certamente Agostino e Lutero, ma ha essenzialmente di mira la disgiunzione fra la comunità di quanti condividono il significato della salvezza e la comunità dei membri della società politica. Come ha commentato Michael Walzer, "forse la tesi di Locke che 'gli uomini non possono essere costretti a salvarsi' può essere la posizione di un dissidente o addirittura di uno scettico, ma è basata su una concezione della salvezza condivisa da molti credenti. E se le cose stanno così, il disaccordo e il dissenso religioso pongono dei limiti all'uso della forza, i quali alla fine assumono la forma di una separazione radicale, del muro fra Chiesa e Stato" (v. Walzer, 1983; tr. it., p. 250). In questo senso quello della libertà religiosa è, almeno entro la tradizione occidentale, un caso esemplare. Il conflitto si chiude, se si chiude, con un 'trattato di pace'. Le sue clausole circoscrivono un ambito in cui gli individui sono liberi di credere o non credere e, in ogni caso, di aderire a differenti comunità di credenti. Tale adesione è compatibile con l'appartenenza alla comunità politica. Si potrebbe sostenere, adottando la terminologia di Carl Schmitt, che in tal modo assistiamo alla neutralizzazione o spoliticizzazione dell'ambito di riferimento religioso (v. Schmitt, 1972, pp. 167-183). In ogni caso la libertà religiosa si specifica, in una prospettiva normativa, come un diritto individuale costituzionalmente indisponibile; esso è sottratto all'arena della scelta collettiva. In una prospettiva interpretativa le radici della libertà religiosa affondano nell'autonomia relativa fra il dominio della verità e quello dell'autorità, fra il bene e il giusto.

Da un punto di vista concettuale l'autonomizzarsi di una sfera sociale in cui hanno luogo attività di impiego, combinazione, consumo e scambio di risorse economiche su cui individui liberi hanno diritto di proprietà è il processo cui corrisponde la domanda di libertà economica. Si tratta del "sistema semplice e ovvio della libertà naturale" di cui parla Adam Smith: il sistema non politico, ma appunto economico, capace di generare e assicurare benessere in una società bene ordinata in cui "ognuno, nella misura in cui non viola le leggi di giustizia, è lasciato libero di perseguire il suo interesse a modo suo". Se Locke aveva adottato il termine 'proprietà' per designare la libertà individuale, elaborando una teoria che faceva discendere la legittimità del possesso di cose dal lavoro erogato, a sua volta dipendente dal possesso di sé, Smith esamina l'ordine politico dal punto di vista della sua maggiore o minore coerenza con i fini non politici del mercato, quelli attinenti al progresso della società. "Ogni sistema che cerca o di attrarre per mezzo di incentivi straordinari verso una data specie di attività una quota del capitale della società maggiore di quella che vi andrebbe naturalmente, o di deviare forzatamente per mezzo di limitazioni straordinarie da una data specie di attività una parte del capitale che altrimenti vi verrebbe impiegato [...] ritarda, invece di accelerarlo, il progresso della società" (v. Smith, 1776; tr. it., pp. 680-681).

La libertà economica, in modo affine alla libertà religiosa, richiede la separazione fra l'arena del mercato e quella dell'autorità politica e la loro almeno relativa autonomia. E per quanto tale libertà esemplifichi un caso eminente di indipendenza individuale, non deve sfuggire come anche nel suo caso valga il principio della duplice fonte di identificazione collettiva o della disgiunzione delle comunità pertinenti. Qui pertinente è la comunità degli scambisti che coincide con il mercato: la libertà economica è la libertà del mercato di operare stabilmente in modo relativamente autonomo rispetto ai vincoli derivanti dall'ambito del politico.

È invece l'ambito del politico a essere investito direttamente nel caso della libertà politica, intesa come eguale libertà individuale di partecipare alle procedure che hanno come esito scelte collettive o decisioni sociali vincolanti erga omnes. Se Constant, pensando a Rousseau, aveva precisato che fra i diritti dei moderni vi è quello di ciascuno "di influire sull'amministrazione del governo sia nominando tutti o alcuni dei funzionari, sia mediante rimostranze, petizioni, richieste che l'autorità sia più o meno obbligata a prendere in considerazione" (v. Constant, 1815; tr. it., pp. 220-221), è Tocqueville ad asserire lapidariamente: "Dopo la libertà di agire da solo, l'idea più naturale per l'uomo è quella di collegare i suoi sforzi con quelli dei suoi simili e agire in comune. Il diritto di associazione mi sembra dunque per sua natura inalienabile quasi quanto la libertà individuale" (v. Tocqueville, 1835-1840; tr. it., p. 205). La libera arte di associarsi di Tocqueville è possibile alla luce di almeno due principî che Tocqueville stesso formula come in sequenza: la libertà di agire individualmente e quella di agire collettivamente. Si può osservare che il principio secondo cui tutti i membri di una comunità politica, in quanto riconosciuti come tali, hanno eguale diritto a essere pienamente rappresentati si congiunge, non senza tensioni, al principio secondo cui ogni gruppo di persone le quali condividono determinati interessi ha diritto di coalizzarsi e organizzarsi in modo stabile per farli valere (v. Pizzorno, 1993, p. 233).

La libertà politica è connessa a una differenziazione interna all'ambito delle istituzioni politiche; in particolare essa tocca le istituzioni della rappresentanza, così importanti per le democrazie liberali o costituzionali. Sembra che sin dall'origine questa differenziazione sia all'opera nel definire alcuni caratteri permanenti del sistema pluralistico di rappresentanza. Vi è almeno una versione o un modello coerente delle istituzioni politiche fondate sul valore della libertà moderna come valore della scelta individuale in cui il rapporto fra autorità, potere politico e cittadini è lineare e diretto. Ciò riguarda strettamente l'idea di comunità politica di cittadini la cui eguale libertà è alla base dell'idea stessa di rappresentanza politica (moderna). Com'è noto, la comunità politica così definita non è compatibile con altre comunità o con altri principî di identificazione collettiva. La lunga lotta fra la libertà e le libertà, cui si è fatto cenno nel capitolo precedente, è l'altra faccia del processo di dissoluzione dei 'corpi intermedi' o delle 'società parziali' che accompagna la nascita dello Stato territoriale moderno. Il principio di Rousseau della correlazione fra volontà individuali e volontà generale è chiaramente in conflitto con il principio dell'organizzazione pluralistica degli interessi di sezioni di popolazione incluse nella comunità politica. Si potrebbe inoltre asserire che il pluralismo che risorge dopo la breve parentesi delle legislazioni coerentemente liberali è un pluralismo trasformato alla luce del principio moderno del valore della scelta individuale. Per usare la terminologia della teoria sociale, esso perde o tende a perdere le sue caratteristiche ascrittive per assumere caratteristiche prevalentemente elettive.

Nel sistema delle libertà dei moderni è implicito tanto il principio dell'opzione individuale quanto quello dell'opzione collettiva: una teoria completa del sistema delle libertà prevede tanto che i cittadini scelgano di agire individualmente quanto che essi scelgano di agire con altri, collettivamente. Gli effetti dell'esercizio del diritto di coalizione implicano una tensione essenziale con l'idea di volontà generale o, più semplicemente, di interesse collettivo della comunità politica. Essi consistono nell'articolazione pluralistica del potere, nella definizione mobile e instabile dei confini fra ciò che è politica e ciò che non lo è e nella frammentazione dell'identità collettiva di cittadinanza; incidono sulle trasformazioni della natura della rappresentanza; inducono la formulazione di nuove questioni di diritti. In breve, il caso della libertà politica mostra come la teoria politica moderna della cittadinanza debba incorporare tanto il principio dell'individualismo quanto quello del pluralismo. E i dilemmi delle democrazie pluralistiche rappresentative o poliarchie trovano in questa tensione interna alla libertà politica la loro radice.In conclusione, possiamo osservare come i tre casi illustrati di libertà che investono differenti soggetti e differenti sfere sociali suggeriscano ancora una volta una concezione pluralistica della libertà destinata a mettere a fuoco una famiglia di contesti di conflitto o tensione fra le libertà. Come abbiamo osservato, la concezione pluralistica della libertà trova il suo senso genuino in caso di conflitti fra differenti libertà, quando si pone la questione dell'assegnazione di valori relativi a differenti libertà. Abbiamo detto che si tratta di una questione eminentemente prescrittiva o normativa. Anche se essa non è indipendente dalla descrizione non valutativa di quali libertà siano in conflitto, né è indipendente dall'interpretazione del senso e delle ragioni soggiacenti a differenti libertà, la questione dell'assegnazione di valore resta distinta, come questione normativa. Essa si può intendere in senso più ampio come una questione che investe sia le tensioni fra differenti libertà, sia le tensioni fra le libertà e altri valori o fini sociali, connessi alla giustificazione del buon ordine politico. In tal senso la questione si pone all'interno di teorie più ampie: teorie politiche miranti alla giustificazione di istituzioni, pratiche sociali e forme di vita collettiva. Per convenzione tali teorie sono qui chiamate teorie della giustizia, e l'illustrazione di alcune tesi sul valore assegnato alla libertà e sulle priorità rispetto ad altri fini sociali cui anche viene eventualmente assegnato valore sarà l'illustrazione del variabile ruolo che la libertà ha in teorie politiche normative più ampie o, nel senso detto, teorie della giustizia.

7. Libertà e teorie della giustizia

Consideriamo la più influente e discussa teoria della giustizia della seconda metà di questo secolo, la teoria della giustizia come equità di John Rawls. La libertà o, meglio, il sistema delle libertà è oggetto del primo principio di giustizia. Esso prescrive che il sistema delle libertà sia per ciascuno il più ampio possibile, compatibilmente con il sistema delle libertà di ciascun altro (v. Rawls, 1971). L'unico limite alla libertà, come si usa dire, è a vantaggio della libertà. Nella prospettiva di Rawls, la massimizzazione del sistema delle libertà individuali è lessicalmente prioritaria rispetto a quanto prescritto dal secondo principio di giustizia, il cosiddetto principio di differenza, un principio che deve modellare le istituzioni responsabili della distribuzione di una classe particolare di risorse, considerate come beni sociali primari spettanti a tutti i cittadini. Proponendo un ordinamento fra libertà ed equità, espresso dalla priorità del principio di libertà sul principio di differenza, Rawls ha di mira la soluzione di un conflitto fra la libertà e un altro valore sociale quale l'eguaglianza. Naturalmente l'eguaglianza richiede una specificazione appropriata: nella teoria della giustizia di Rawls l'eguaglianza va intesa come eguaglianza dei beni sociali primari o beni di cittadini. Per convenzione la si può chiamare eguaglianza distributiva, anche se la teoria non è egualitaria in senso stretto, dato il ruolo riconosciuto agli incentivi dalla formulazione del principio di differenza che classifica le ineguaglianze giustificabili.

Ora Rawls sostiene che il sistema delle libertà non solo deve essere eguale per tutti i partners della comunità politica, ma che esso non è negoziabile né sono ammesse transazioni aventi di mira la massimizzazione di altri valori sociali quale il benessere collettivo. La ragione di questa sottrazione 'costituzionale' delle libertà individuali al variabile campo degli interessi e dei valori sociali dipende dal tentativo di Rawls di formulare una teoria globalmente alternativa nei confronti della più consolidata e consistente tradizione di pensiero nella teoria politica normativa, quella dell'utilitarismo. Sin dalla sua formulazione classica, la teoria utilitaristica ha sempre assegnato a un termine come 'libertà' un valore in ogni caso strumentale e comunque non intrinseco. L'utilitarismo è una teoria rigorosamente monistica e l'unico valore intrinseco che essa riconosce non è altro che l'utilità collettiva, sotto la condizione della massimizzazione.

Nelle riformulazioni a volte drastiche che la teoria utilitaristica ha incontrato nella sua lunga storia, l'idea base secondo cui la valutazione delle istituzioni politiche e delle pratiche sociali dipende da un unico valore e dal grado della sua realizzazione resta invariante come parte del nucleo della teoria (v. Harsanyi, 1988). Questo non vuol dire che alla libertà (o all'eguaglianza o alla stabilità) non sia assegnabile alcun valore: un valore è assegnabile, ma l'assegnazione di valore maggiore o minore dipende dall'esito di un test di massimizzazione, in termini, grosso modo, di benessere collettivo. L'utilitarismo esclude che possano darsi conflitti genuini fra differenti valori sociali. Anche se prima facie può sembrare che noi siamo chiamati a trovare un punto di equilibrio, per quanto provvisorio e instabile, fra quanto richiesto da un valore e quanto richiesto da un altro valore confliggente, in realtà la teoria utilitaristica dimostra che siamo chiamati a risolvere un problema di massimizzazione. Occorre chiedersi la soddisfazione di quale dei due valori o quale arrangiamento o trade off fra i due prometta di conseguire la massimizzazione del benessere collettivo. In questo senso l'utilitarismo ammette in linea di principio qualsiasi transazione fra valori, sotto la condizione che essa ottenga esiti, per così dire, di efficienza sociale.

A tale prospettiva è chiaramente alternativa la tesi della giustizia come equità, presentata da Rawls come parte di una prospettiva contrattualistica.

Per il contrattualismo, come per le teorie pluralistiche, vi sono differenti valori ed essi possono entrare in conflitto fra loro. Rawls propone, nel caso della libertà, un criterio costruttivo di ordinamento che genera la priorità, in ogni caso, a favore della libertà. Altre prospettive pluralistiche non consentono ciò, dato che la pluralità dei valori non è ritenuta teoricamente ordinabile (v. Berlin, 1991; tr. it., pp. 1942). I casi di conflitto fra la libertà e l'eguaglianza, l'efficienza o la stabilità potranno così ottenere solo soluzioni ad hoc, dipendenti dai contesti in cui si danno determinati conflitti e dal peso delle ragioni via via in gioco. Se quindi per la teoria della giustizia come equità uno dei problemi centrali è quello di proporre una soluzione cogente dei casi di conflitto fra la libertà e altri valori, e il dilemma è risolto con la priorità della libertà, resta aperta la questione non tanto della libertà quanto dell'eguaglianza distributiva. La domanda pertinente è del tipo: quale concezione dell'eguaglianza (se ve n'è una) è coerente con l'assegnazione della priorità alla libertà? La risposta è più o meno la seguente: accettare la priorità dell'eguale sistema delle libertà implica accettare un principio di equità nella distribuzione dei beni sociali primari, in quanto un eguale sistema di libertà non ha, di regola, eguale valore per individui diversamente dotati. Giustificare istituzioni modellate dall'eguale libertà implica che si formuli la domanda relativa al valore che essa presumibilmente ha per uomini e donne differenti quanto a dotazioni naturali e sociali e a risorse personali e impersonali. Questo modo di guardare alla questione è quello, secondo l'economista Arthur Okun, che permette di mettere a fuoco il trade off fra libertà ed eguaglianza, così come quello connesso fra eguaglianza ed efficienza (v. Okun, 1975).

Può essere utile, in proposito, sottolineare importanti sviluppi di questa prospettiva, che si basa sull'idea di assegnare all'eguaglianza un valore coerente con quello - prioritario - della libertà. Si consideri la proposta di Amartya K. Sen di distinguere fra libertà-controllo e libertà-potere, che mette a fuoco la questione della possibilità per uomini e donne di convertire i beni primari in capacità fondamentali di controllo sulle proprie vite; o la tesi sull'eguaglianza di risorse, formulata da Ronald Dworkin in un complesso argomento che ha di mira una soluzione distributiva che superi il test di non invidia e, soprattutto, sia coerente con la libertà di scelta individuale (v. Sen, 1992, tr. it., pp. 85-106; v. Dworkin, 1981). In ogni caso la teoria normativa di Rawls e gli sviluppi critici di Sen o Dworkin suggeriscono che una soluzione del conflitto fra la libertà e altri valori sociali è possibile; che essa richiede la priorità della libertà; che, una volta soddisfatta la richiesta del principio di libertà, l'ordinamento resta incompleto ed è quindi possibile procedere a un'assegnazione di valore coerente con tale principio, per esempio all'eguaglianza distributiva.

A questa prospettiva, e ad altre che in qualche modo condividono l'idea del mix o del trade off fra la libertà e altri valori o fini sociali, si contrappone radicalmente la tesi sui diritti negativi propria della teoria libertaria. Si consideri, in proposito, la tesi incisivamente argomentata da Robert Nozick nel 1974 a favore dello Stato minimo. L'argomento si presenta nel modo seguente: se la libertà individuale è assunta come un valore intrinseco, allora non è possibile alcun tipo di impegno rispondente a quanto richiesto da altri valori, quale l'eguaglianza. Perseguire obiettivi dettati dall'idea dell'eguaglianza distributiva non vuol dire altro che assegnare alla libertà un valore strumentale. Quindi o si è a favore della libertà, intesa come libertà negativa, o si è contro, punto e basta. Nella prospettiva libertaria l'unica accezione di eguaglianza coerente è quella specificata dall'eguale libertà di chiunque. Conflitti fra valori si danno solo prima facie, in modo affine a quanto accade per l'utilitarismo, nel senso che l'unico valore intrinseco è la libertà. Se si è coerenti con l'assegnazione di valore intrinseco a essa, allora il compito di una teoria della giustizia è praticamente concluso; nel senso che la giustificazione verterà solo su istituzioni che tutelino l'eguale libertà negativa di chiunque. La tesi libertaria confuta la pretesa di teorie della giustizia distributiva, quali quella utilitaristica o quella contrattualistica, di proporre criteri o modelli di distribuzione giusta. Tali modelli non possono che essere incoerenti con gli esiti distributivi derivanti dalla libertà che 'sconvolge i modelli'. Se ci si basa sull'assegnazione di valore intrinseco alla libertà individuale, qualsiasi precetto distributivo modellato è inaccettabile perché non può che violare la libertà individuale stessa. Più precisamente, una teoria normativa centrata monisticamente sul valore intrinseco della libertà mostra chiaramente che qualsiasi teoria della giustizia sociale non è altro che la formulazione di un 'miraggio', per usare l'espressione di uno dei più importanti e autorevoli scienziati sociali e politici del secolo, Friedrich von Hayek, la cui monumentale teoria generale (economica, giuridica, epistemologica) implica esiti normativi affini a quelli illustrati come esiti libertari (v. Nozick, 1974; v. Hayek, 1982, tr. it., pp. 262-306).

Nel suo complesso la discussione teorica sul problema del valore della libertà e sulla soluzione dei casi di conflitto fra la libertà e altri valori o fini sociali ha avuto come sfondo la questione, ritenuta centrale per la giustificazione dell'ordine politico, del conflitto fra interessi e pretese entro comunità politiche date. Le libertà sono in tal caso libertà da ascrivere o meno a soggetti dati, entro sfere date di azione e significato sociale, in presenza di un orizzonte dato di beni o scopi socialmente riconosciuti. Si può in conclusione suggerire che, nella più recente controversia nell'ambito della teoria normativa, il conflitto di interessi o conflitto distributivo abbia finito per lasciare spazio - maggiore o minore - ad altro tipo di conflitto, il conflitto di identità o conflitto per il riconoscimento. E questioni relative all'assegnazione di valore alle libertà si sono così connesse - o riconnesse - a questioni di riconoscimento di nuove identità o di identità prima escluse, a questioni di inclusione in o esclusione da comunità di 'pari' dai differenti confini, dando luogo a nuove classificazioni di sfere sociali. Nella teoria sono state messe a fuoco con maggiore intensità dimensioni comunitarie che in ogni caso darebbero un senso alle (o sarebbero costitutive delle) libertà individuali o ci si è interrogati sulla storia, di cui abbiamo richiamato qualche tratto rilevante, della costruzione dell'idea moderna di individuo come epicentro di valore (v. Sandel, 1982; v. Taylor, 1989). John Rawls, nella sua ultima opera, Liberalismo politico, ha cercato di iscrivere questi mutamenti e il possibile slittamento dal conflitto distributivo al conflitto per il riconoscimento entro il rinnovato nucleo normativo di un liberalismo che riconosce le proprie radici politiche nel paradigma della soluzione del conflitto religioso, dell'idea connessa della tolleranza e della sua tortuosa e complicata conversione da fatto dopo tutto contingente in valore costitutivo, incorporato negli elementi costituzionali essenziali di istituzioni di libertà (v. Rawls, 1993).

Nella teoria sociale sembra che l'accento cada più sulla dimensione delle legature che su quella delle opzioni per gli individui, per usare la terminologia proposta da Ralf Dahrendorf a proposito dell'idea di occasioni o chances di vita che sarebbero generate dai processi di modernizzazione di società 'aperte'. Forse l'indebolirsi, o l'esaurirsi, di vecchie legature o di fonti di identità collettive (politiche, sociali, culturali, religiose) ripropone la questione ricorrente, a proposito della libertà, del suo senso e della sua importanza. Quest'ultima, nella prospettiva sociologica di Dahrendorf, dipende non semplicemente dalla gamma di opzioni disponibili, né dall'intensità maggiore o minore delle legature, quanto piuttosto dal rapporto fra le due dimensioni che caratterizzano la "libertà che cambia" (v. Dahrendorf, 1979).