Divenire

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Concetto filosofico opposto a quello di essere , quando questo ultimo sia concepito come eternamente immobile e sottratto a ogni mutazione. A tale concezione dell’essere, sostenuta già nella prima fase evolutiva del pensiero greco dalla scuola eleatica ( eleatismo), si contrappone infatti la dottrina della scuola eraclitea, secondo la quale tutta la realtà del mondo non è che un perenne d. (πάντα ῥει, «tutto scorre»). Aristotele concepisce il d. come una forma di mutamento e lo distingue in d. assoluto , che è solo nelle sostanze, e d. relativo , che si riferisce agli accidenti.

Nel pensiero moderno, il concetto del d. è stato sviluppato soprattutto da G.W.F.Hegel, che connette l’idea dell’incessante evoluzione della verità e della realtà con quella del suo moto dialettico. Famosa a tale proposito è la sua dimostrazione dialettica della realtà del d., che egli vede risultare dal fatto che, mentre il puro concetto dell’essere si converte, per la sua stessa assoluta vacuità, in quello del nulla, e quello del nulla a sua volta in quello dell’essere, il concetto del d. li comprende entrambi nella loro concreta unità e verità. Nel pensiero idealistico posteriore, il problema del d. si è sempre più venuto staccando da quello logico-dialettico, tendendo a identificarsi con quello concernente la natura dell’Io e della storia.

Un posto di notevole rilievo assume il concetto di d. anche nella filosofia di H. Bergson il d. si presenta come «durata», «slancio vitale» che sorregge la realtà e condiziona i suoi modi di apprendimento.

Dizionario di Filosofia (2009)

Concetto filosofico opposto a quello dell’essere ( ), quando quest’ultimo sia concepito come eternamente immobile e sottratto a ogni mutazione. A tale concezione dell’essere, sostenuta già nella prima fase evolutiva del pensiero greco dalla scuola eleatica, che avvertiva nel d. una contraddizione logica, e quindi ne negava la realtà, si contrappone la dottrina della scuola eraclitea, secondo la quale tutta la realtà del mondo non è che un perenne d. (πάντα ῥεῖ, «tutto scorre»). Dopo una fase giovanile di adesione all’eleatismo, Platone si sposta in direzione della scuola eraclitea, introducendo da un lato il d. nello stesso mondo delle idee (‘il parricidio verso Parmenide’), dall’altro concependo la materia come perenne flusso o divenire. Distaccandosi da Platone, Aristotele concepisce il d. come una forma di mutamento (μεταβολή). Sotto l’aspetto ontologico, il d. è interpretato come passaggio dalla potenza all’atto, ed ha luogo secondo diverse categorie. I mutamenti nei quali si articola il d. vengono divisi da Aristotele in: (1) generazione e corruzione (secondo la sostanza); (2) alterazione (secondo la qualità); (3) aumento e diminuzione (secondo la quantità); (4) traslazione (secondo il dove). Occorre precisare che queste quattro forme di d. riguardano essenzialmente il mondo sublunare, perché in Aristotele esistono due fisiche, una per il cielo e una per la Terra. I corpi celesti sono costituiti di un elemento proprio, l’etere o quinta essenza, e si muovono di moto circolare puro in eterna contemplazione del ‘motore immobile’. La teoria aristotelica divenne il fondamento di tutto il pensiero medievale finché in età moderna non venne soppiantata dalla rivoluzione scientifica, che sulla base delle dottrine atomistiche unificò cielo e Terra in una sola fisica, trasformando il moto, ossia il d., in uno ‘stato’ assimilabile alla quiete, e interessandosi esclusivamente alle variazioni del moto stesso. Tale concetto, centrale nella fisica di Cartesio e di Newton, si ritrova in tutta la filosofia del Seicento e del Settecento, in partic. in quella di Kant, che ebbe anzi modo di precisare – quasi prevedendo gli sviluppi futuri della filosofia continentale – che il movimento fisico o d. non è un passaggio dall’essere al non essere, perché è «senza contraddizione». Un ritorno a posizioni presocratiche si ebbe invece con Hegel, il quale riesumò la dottrina eleatica del d. come contraddizione, ricavandone però la conseguenza opposta: non già, come gli eleati, l’inesistenza del d. o del movimento, ma l’esistenza della contraddizione: l’esteriore moto sensibile è dunque una vera e propria contraddizione in atto. Un posto di notevole rilievo assume il concetto di d. anche nella filosofia di Bergson: il d. si presenta come «durata», «slancio vitale» che sorregge la realtà e condiziona i suoi modi di apprendimento.

Enciclopedia Italiana (1932)

di Giuseppe Saitta

 La parola divenire (γίγνεσϑαι) fu adoperata per dinotare la rivoluzione continua delle cose. "Tutto scorre e nulla permane", e però non si può dire che le cose siano: il loro essere consiste nel passare, nel diventare. A questa intuizione, che fu intravveduta dai Milesî e alla quale probabilmente fu dato l'appicco da vecchie rappresentazioni mitologiche dell'Oriente importate presso gli Ioni, si contrappose quella degli Eleati il cui fondatore, Parmenide, pose il concetto dell'essere, il Tutto-uno, permanente, perfettamente identico seco stesso, infinito, eterno, semplice, immutabile, indivisibile. La lotta fra Eraclitei ed Eleati si compose nella concezione platonica sulla relazione del mondo delle idee col mondo fenomenico. Per Platone c'è un mondo superiore, che è quello che è (il mondo dell'οὐσία), e un mondo inferiore (quello della γένεσις): fra l'uno e l'altro esiste la stessa relazione che passa fra il modello e le copie. Un aspetto più profondo e più rigorosamente scientifico assunse il problema del divenire in Aristotele. Questo problema, diventato fondamentale nella speculazione greca, fu risolto da Aristotele mediante il concetto dello sviluppo, che è un concetto di relazione. Così egli, di fronte alla ricerca tormentosa dello spirito greco sul modo di pensare un essere unico, infinito, permanente nella molteplicità cangiante dei fenomeni, pose il concetto dell'essere che si sviluppa negli stessi fenomeni (l'essere è la stessa essenza che è principio delle sue determinazioni particolari). Ma, dopo Aristotele, specialmente con gli stoici, il concetto del divenire si fece prevalentemente morale. Gli stoici non avevano saputo conciliare il loro determinismo rigoroso con la loro dottrina dell'autonomia del saggio, perché si fondavano sul rapporto o principio di causalità, che coincideva con la loro dottrina del fato. Contro questo ideale etico, che sembrava una vera schiavitù dello spirito, Epicuro, fra gli altri, negò il principio della causalità e ammise il concetto del divenire acausale, col quale credeva di spiegare il problema della libertà e del caso.

Il divenire fu considerato come lo stesso spirito autonomo, creatore, dal neoplatonismo, che da tale sviluppo spirituale volle dedurre il mondo. Questa spiritualizzazione dell'universo è il principio presente anche nel cristianesimo. Alle due correnti, la neoplatonica e la cristiana che, come è noto, dopo vivissimi contrasti, erano riuscite a fondersi, si ispirò Maestro Eckhart (v.). Come Dio è reale in quanto conosce sé stesso e il mondo da lui creato, così lo spirito è reale in quanto esce da Dio e ritorna a Dio.

Nei tempi moderni, per opera del Hegel, il concetto del divenire è diventato il problema centrale della filosofia. Nella sua Scienza della logica egli fa vedere che né l'essere né il nulla presi ciascuno per sé hanno una vera realtà: l'essere e il nulla non sono concepibili fuori della loro unità, che è il divenire; il quale nella sua vicenda alterna, che è espressa dal nascere che è perire e dal perire che è nascere, offre il carattere essenziale di tutta quanta la realtà. Il divenire è ciò che costituisce l'inquietezza, o la differenza, dell'essere, e per ciò l'essere e il non essere considerati in sé sono due opposti rigidi o momenti astratti. "Il puro essere e il puro nulla sono dunque lo stesso. La verità non è né l'essere, né il nulla, ma il fatto che l'essere è passato nel nulla e il nulla nell'essere. Ma, egualmente, il vero non è la loro indifferenza, bensì il loro non esser lo stesso, il loro essere assolutamente differenti ma nello stesso tempo inseparati e inseparabili e l'immediato dissolversi di ciascuno nel suo opposto. La loro verità, dunque, è questo movimento dell'immediato sparire dell'uno nell'altro, cioè il divenire: un movimento, in cui i due termini sono differenti, ma di una differenza che si è risolta del pari immediatamente" (Opere, III, pp. 78-79). Questa concezione, in quanto, in definitiva, pone il divenire come un progresso al finito, cioè come temporale, è apparsa errata. Altri ha notato che il divenire hegeliano non si presenta se non come un'aggiunta all'identità, sicché la realtà spirituale si spezza nell'identico e nel differente, nell'uno e nel molteplice. Secondo Herbart, che fu il più grande oppositore di Hegel, il divenire implica la realtà del nulla. Per l'idealismo attualistico il divenire è la categoria unica, fondamentale, o la mentalità pura, la quale in quanto si realizza è la sintesi o l'unità di essere e non essere.