Progresso

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Avanzamento in senso verticale, verso gradi o stadi superiori, con implicito quindi il concetto del perfezionamento, dell’evoluzione, di una trasformazione graduale e continua dal bene al meglio, sia in un ambito limitato sia in un senso più ampio e totale.

In senso assoluto, lo sviluppo verso forme di vita più elevate e più complesse, perseguito attraverso l’avanzamento della cultura, delle conoscenze scientifiche e tecnologiche, dell’organizzazione sociale, il raggiungimento delle libertà politiche e del benessere economico, al fine di procurare all’umanità un miglioramento generale del tenore di vita e un grado maggiore di liberazione dai disagi.

1. Il concetto di p. nel pensiero occidentale

Il concetto di p. è strettamente connesso a quello di storia: attribuire p. alla storia significa individuare in essa un avanzamento, un continuo miglioramento. Il concetto di p. è relativamente recente nella cultura occidentale, essendo sorto agli inizi dell’età moderna, mentre il mondo classico appare piuttosto legato da un lato alla dottrina della mitica età dell’oro (Esiodo, Platone), in confronto alla quale tutta la storia successiva si configura come un processo di decadenza, dall’altro a quella del ritorno ciclico degli eventi (tipica degli stoici). Il cristianesimo rifiuta il tema del circolare ritorno degli eventi e prospetta una concezione lineare della storia tesa dalla creazione e dal peccato di Adamo verso l’incarnazione del Verbo (momento centrale e irripetibile) e di qui verso la fine dei tempi. In questa concezione il p. può essere inteso come realizzazione dei piani provvidenziali.

Per un concetto di p. come ampliamento di conoscenze e conquista degli uomini si dovrà arrivare alle soglie dell’età moderna. Il senso del p. intrinseco alla storia si fa strada nel Rinascimento, strettamente connesso con l’estendersi delle conoscenze storiche, geografiche, scientifiche, tecniche e quindi con la nuova consapevolezza della capacità di ascesa e di conquista della natura umana.

Caratteristica testimonianza di questo nuovo atteggiamento è in G. Bruno, secondo cui la possibilità dell’avanzamento della scienza è proporzionale alle osservazioni compiute e agli anni trascorsi: l’età recente ha maggiore esperienza dell’antica e, se la sapienza è nella vecchiaia, i veri vecchi sono i moderni. Il tema degli Antichi e moderni (➔) ritornerà lungo tutto il Seicento, sempre più strettamente connesso con la constatazione dei p. compiuti soprattutto nella conoscenza della natura e nel distacco definitivo dalla cultura scolastica: così in T. Campanella come in F. Bacone, in G. Galilei come in B. Pascal sino alla Digression sur les anciens et les modernes di B. de Fontenelle (1688).

Con l’Illuminismo si ha l’estensione del concetto di p. dall’ambito conoscitivo a quello etico e sociale: il p. realizzato nell’ambito scientifico e filosofico deve estendersi anche all’organizzazione della società umana e ai modi del comportamento morale, purché si sia capaci di rimuovere gli ostacoli che frenano lo sviluppo della ragione e che sono soprattutto di ordine dogmatico-religioso e politico; l’estensione dei ‘lumi’ della ragione diviene di per sé strumento di p. che investe tutta l’organizzazione politica e religiosa. Di questa fede nel p. testimoniano quasi tutti i principali rappresentanti dell’Illuminismo europeo: suoi assertori e teorizzatori più espliciti sono per la Francia R.J. Turgot e Condorcet, per la Germania G.E. Lessing e I. Kant.

In parte connesso all’Illuminismo, in questa fusione di p. scientifico e p. etico, appare il positivismo. Tipico rappresentante di questo orientamento è A. Comte, che elaborò il concetto di p. nella forma della ‘legge dei tre stadi’ dell’evoluzione storica e scientifica. H. Spencer tese a estendere il concetto di p. dall’evoluzione biologica a quella storico-sociale secondo i medesimi principi di differenziazione e organizzazione.

Di tipo diverso il concetto di p. nell’idealismo hegeliano, dove appare connesso alla nozione di dialettica, per la quale ogni momento del divenire della realtà è superato da un momento successivo che conserva quanto lo precede. Costitutiva della più profonda natura della realtà, la dialettica opera per G.W.F. Hegel anche, e soprattutto, nella storia, concepita come un processo dialettico teleologicamente orientato: da questo punto di vista il p. dialettico è per Hegel fondamentalmente sviluppo dello spirito attraverso l’opera anche inconsapevole degli individui e dei popoli che di volta in volta lo incarnano («astuzia della ragione») e il suo fine è la realizzazione della libertà, di cui lo Stato ottocentesco è il maggior esempio.

Influenzato dal concetto hegeliano di dialettica, e poi anche dalle concezioni positivistiche, è il marxismo che, almeno nelle formulazioni dottrinarie, ha visto nella storia un’evoluzione inevitabile, e orientata al meglio per quanto riguarda le condizioni materiali e spirituali, verso la società comunista.

Il concetto di inevitabilità storica – a cui spesso è possibile ricondurre la fede nel p., ma anche quella, a essa speculare, nella decadenza delle civiltà (come nel caso di O. Spengler) – è stato fortemente criticato, nel Novecento, da I. Berlin e, soprattutto, da K.R. Popper, che ha raggruppato sotto il nome di storicismo tutte le concezioni fondate sulla postulazione di leggi di sviluppo della storia, mostrandone la carenza logica e l’infondatezza scientifica e riconducendole a una comune matrice utopistica.

Il ridimensionamento dell’idea di avanzamento verso il meglio è stato anche determinato dalle disillusioni indotte dai conflitti mondiali e dalle loro conseguenze alimentatrici di pessimismo sul futuro della civiltà, mentre successivamente è apparso legato a considerazioni di tipo ecologico-ambientale suggerite da quello che viene avvertito come un eccessivo e poco accorto sviluppo tecnologico. La cultura filosofica ha d’altra parte posto in evidenza quanto il concetto di p. sia impregnato di valori e come spesso rappresenti un’assolutizzazione di ideali propri del mondo occidentale: da questo punto di vista va segnalata la riflessione di J.-F. Lyotard su quella che ha definito la «condizione postmoderna» (➔ postmoderno ) tipica della contemporaneità.

Gli sviluppi della storiografia scientifica e della filosofia della scienza nel Novecento hanno avuto come esito la nascita di un vasto dibattito sul concetto di p. scientifico , che ha visto contrapporre alla tradizionale concezione cumulativa dello sviluppo scientifico concezioni di tipo discontinuista, il cui maggior rappresentante è T. Kuhn.

Dizionario di Filosofia (2009)

Concetto strettamente connesso a quello di storia: attribuire p. alla storia significa individuare in essa un avanzamento, un continuo miglioramento. Il concetto di p. è relativamente recente nella cultura occidentale, essendo sorto agli inizi dell’età moderna, mentre il mondo classico appare piuttosto legato, da un lato, alla dottrina della mitica età dell’oro (Esiodo, Platone), in confronto a cui tutta la storia successiva si configura come un processo di decadenza, dall’altro, a quella del ritorno ciclico degli eventi (tipica degli stoici). Il cristianesimo rifiuta il tema del circolare ritorno degli eventi e prospetta una concezione lineare della storia tesa dalla creazione e dal peccato di Adamo verso l’incarnazione del Verbo (momento centrale e irripetibile) e di qui verso la fine dei tempi. In questa concezione il p. può essere inteso non come opera umana, ma come realizzazione dei piani provvidenziali. Per un concetto di p. come ampliamento di conoscenze, come conquista degli uomini, si dovrà arrivare alle soglie dell’età moderna, non senza tuttavia ricordare il presentarsi (nel sec. 12°, in rapporto ai nuovi orizzonti aperti dal ritorno dei classici antichi) di un tema destinato a grande fortuna, quello per cui i moderni sono «nani sulle spalle di giganti» (➔) e vedono più lontano.

Dal Rinascimento all’Illuminismo. Il senso del necessario p. intrinseco alla storia si fa decisamente strada nel Rinascimento, dove appare strettamente connesso con l’estendersi delle conoscenze storiche, geografiche, scientifiche, tecniche e quindi con la nuova consapevolezza della capacità di ascesa e di conquista della natura umana. Caratteristica testimonianza di questo nuovo atteggiamento si ritrova in Bruno, secondo il quale la possibilità dell’avanzamento della scienza è proporzionale al numero delle osservazioni che si sono potute compiere, e quindi a quello degli anni trascorsi: l’età recente ha maggiore esperienza dell’antica, e, se la sapienza è nella vecchiaia, i veri vecchi sono i moderni. Questo tema degli antichi e dei moderni, con la consapevolezza della maggiore esperienza e dei più larghi orizzonti di cui questi ultimi possono usufruire, già presente nella letteratura del Rinascimento, sarà destinato a ritornare lungo tutto il Seicento, sempre più strettamente connesso con la constatazione dei p. realmente compiuti soprattutto nella conoscenza della natura e nel distacco definitivo dalla cultura scolastica: così in Campanella come in Bacone, in Galilei come in Pascal sino alla Digression sur les anciens et les modernes di Fontenelle (1688). Con l’Illuminismo si assiste all’estensione del concetto di p. dall’ambito conoscitivo a quello etico e sociale: il p. realizzato nell’ambito scientifico e filosofico deve estendersi anche all’organizzazione della società umana e ai modi del comportamento morale, purché si sia capaci di rimuovere quegli ostacoli che frenano lo sviluppo della ragione e che sono soprattutto di ordine dogmatico-religioso e politico; l’estensione dei ‘lumi’ della ragione diviene di per sé strumento di p. che investe tutta l’organizzazione politica e religiosa. Di questa fede in un p. totale testimoniano quasi tutti i principali rappresentanti dell’Illuminismo europeo: come suoi assertori e teorizzatori più espliciti possono in ogni modo essere citati per la Francia Turgot e Condorcet, per la Germania Lessing e Kant.

L’idea di progresso nell’Ottocento. In parte connesso all’Illuminismo, in questa fusione di p. scientifico e p. etico, appare, poi, dopo l’idealismo, il positivismo, che tuttavia, spinto dalle scoperte scientifiche e tecniche a una fede entusiastica nel p., ne delineò, a differenza dell’Illuminismo, una vera e propria metafisica connessa alle nascenti idee evoluzionistiche. Tipico rappresentante di questo orientamento è Comte, che elaborò il concetto di p. nella forma di una «legge dei tre stadi» dell’evoluzione storica e scientifica. Non meno metafisica appare la concezione di Spencer, che tese a estendere il concetto di p. dall’evoluzione biologica a quella storico-sociale secondo i medesimi principi di differenziazione e organizzazione. Di tipo diverso, ma anch’esso profondamente metafisico, era stato il concetto di p. nell’idealismo hegeliano, dove appare connesso alla nozione di dialettica, per la quale ogni momento del divenire della realtà è superato da un momento successivo che conserva quanto lo precede. Costitutiva della più profonda natura della realtà, la dialettica opera per Hegel anche, e soprattutto, nella storia, concepita come un processo dialettico teleologicamente orientato nel quale l’essere (Sein) coincide con il dover essere (Sollen): da questo punto di vista il p. dialettico è per Hegel fondamentalmente sviluppo dello spirito attraverso l’opera anche inconsapevole degli individui e dei popoli che di volta in volta lo incarnano («astuzia della ragione») e il suo fine è la realizzazione della libertà, di cui lo Stato ottocentesco è per Hegel il maggiore esempio. Influenzato dal concetto hegeliano di dialettica, e poi anche dalle concezioni positivistiche, è il marxismo, che, almeno nelle formulazioni dottrinarie, ha visto nella storia un’evoluzione inevitabile, e orientata al meglio per quanto riguarda le condizioni materiali e spirituali, verso la società comunista, stadio finale che si realizzerebbe con la rivoluzione proletaria soltanto dopo il raggiungimento del maggiore livello di ricchezza, che è anche il maggiore livello di sfruttamento delle forze di produzione, da parte delle società industriali.

Critiche novecentesche del concetto di progresso. Il concetto di inevitabilità storica – a cui spesso è possibile ricondurre la fede nel p., ma anche quella, a essa speculare, nella decadenza delle civiltà (come nel caso di Spengler) – è stato fortemente criticato, nel Novecento, da Berlin e, soprattutto, da Popper, che ha raggruppato sotto il nome di storicismo (➔) tutte le concezioni (da Hegel e Marx a Comte e Spencer a Stuart Mill) fondate sulla postulazione di leggi di sviluppo della storia, mostrandone la carenza logica e l’infondatezza scientifica e riconducendole altresì a una comune matrice utopistica. Il ridimensionamento dell’idea di avanzamento verso il meglio è stato inoltre anche determinato dalle disillusioni indotte dai conflitti mondiali e dalle loro conseguenze alimentatrici di pessimismo sul futuro della civiltà, mentre più recentemente è apparso connesso a considerazioni di tipo ecologico-ambientale suggerite da quello che viene avvertito come un eccessivo e poco accorto sviluppo tecnologico. La cultura filosofica del Novecento ha d’altra parte posto in evidenza quanto il concetto di p. sia impregnato di valori e come spesso rappresenti un’assolutizzazione di ideali propri del mondo occidentale: da questo punto di vista va segnalata la riflessione di Lyotard su quella che ha definito la «condizione postmoderna» tipica della contemporaneità (La condition postmoderne, 1979; trad. it. La condizione postmoderna), che segnerebbe la fine della modernità e dei suoi ideali di derivazione settecentesca, tra cui, appunto, quello di p., rientrante nell’apparato concettuale dei grandi sistemi filosofici (come quelli di Hegel e Marx), le cui pretese di fondazione si sarebbero ormai dimostrate vane (➔ anche postmoderno). I notevoli sviluppi della storiografia scientifica e della filosofia della scienza nel Novecento hanno avuto come esito la nascita di un vasto dibattito sul concetto di p. scientifico, che ha visto contrapporre alla tradizionale concezione cumulativa dello sviluppo scientifico concezioni di tipo discontinuista, il cui maggiore rappresentante è Kuhn.

Enciclopedia delle Scienze Sociali (1997)

di Pietro Rossi

di Pietro Rossi

Progresso

sommario: 1. Progresso e modernità. 2. Avanzamento del sapere e superiorità dei 'moderni'. 3. Perfettibilità dell'uomo e progresso dello spirito umano. 4. Le utopie del progresso. 5. Il progresso come legge di sviluppo dell'umanità e della realtà. 6. Trionfo e declino dell'idea di progresso. 7. Tentativi di concettualizzazione. □ Bibliografia.

1. Progresso e modernità

L'idea di progresso nasce con la cultura moderna, tra Sei e Settecento, e si diffonde largamente nell'epoca che va dalla pubblicazione dell'Encyclopédie alla fine del secolo scorso. Non sono mancati, è vero, tentativi di ritrovare una concezione del progresso - o per lo meno sue anticipazioni - anche nel mondo antico, più particolarmente nella cultura greca del V secolo a.C. e poi nella cultura ellenistica; ma alla loro base vi sono indubbie forzature o amplificazioni interpretative. Quella che si riscontra in certe epoche dell'antichità è la consapevolezza del progresso che le istituzioni politiche del presente comportano rispetto alle istituzioni di un passato più o meno remoto, o del processo di accrescimento del patrimonio tecnico reso possibile dal succedersi di nuove invenzioni, o anche - al limite - della superiorità del livello di vita raggiunto nel presente rispetto all'umanità primitiva.
Ma l'inferenza da questa consapevolezza alla presenza di un'idea di progresso, cioè dell'idea di una direzione 'positiva' del processo storico riferita sia al passato che al futuro, non è soltanto problematica; è semplicemente arbitraria.In primo luogo, infatti, nel greco classico manca un termine per designare il progresso: epídosis ha il significato (oltre che di 'elargizione' o 'offerta') di 'crescita' o 'accrescimento', mentre prokopé, che indica il 'procedere in avanti' (al pari del verbo prokópto, da cui esso deriva), e che Cicerone tradurrà letteralmente con progressio o progressus, è un termine di origine ellenistica. Ma non si tratta soltanto di assenza del veicolo linguistico. La concezione di un progredire graduale dell'umanità da una condizione primitiva alla vita civile si scontrava con due modelli interpretativi che la cultura greca ereditava dal pensiero mitico o dalle cosmogonie arcaiche: quello dell'esistenza di un'età dell'oro, di un'età di Cronos (o, nel mondo latino, di Saturno) da cui l'umanità si era venuta distaccando, e quello di un 'grande anno', di un ripetersi ciclico della vicenda cosmica che coinvolgeva anche la storia umana.
Per Esiodo la storia è contrassegnata da un processo di degenerazione definito dalla successione di quattro età - dell'oro, dell'argento, del bronzo e del ferro - al cui termine vi è l'umanità attuale. Questo schema sarà sovente ripreso, anche da Platone, e troverà la sua trasposizione in termini politici nell'ottavo libro della Repubblica, dove le diverse forme di costituzione - aristocrazia, timocrazia, oligarchia, democrazia, tirannide - si collocano in una scala discendente, derivando l'una dall'altra in virtù di un processo che vede l'emergere di tipi di uomini sempre più distanti dal governo ideale dei 'filosofi'. A questo modello si contrappone spesso la concezione - già presente in Empedocle, ma anche nel Platone del Crizia e delle Leggi - di un 'grande anno', di un ciclo cosmico nel quale la crescita è destinata a cedere il passo alla senescenza, fino al momento in cui una deflagrazione universale non porrà le premesse per l'inizio di un nuovo ciclo. Essa sarà alla base della cosmologia stoica, e in seguito si trasmetterà alla cultura romana dell'età imperiale, dove Virgilio le darà una coloritura ottimistica preconizzando l'imminenza di un 'nuovo anno'. Non di rado, poi, i due modelli coesistono nello stesso autore, poiché l'età dell'oro viene spesso vista appunto come l'inizio del ciclo attuale.In secondo luogo, la possibilità di interpretare la storia come un cammino dell'umanità verso il meglio era preclusa dalla considerazione delle sue conquiste come dono divino, o come impresa straordinaria di 'eroi culturali' - emblematica è la figura di Prometeo che ruba il fuoco agli dei per darlo agli uomini, e che perciò incorre in una pena eterna - oppure di saggi legislatori quali Solone o Licurgo, o ancor prima i mitici re cretesi, a cui è dovuta la fondazione o l'organizzazione delle città. Soltanto tra il VI e il V secolo comincia a farsi strada una concezione delle tecniche come prodotto dell'ingegno e dell'opera dell'uomo. In un frammento spesso citato a sostegno della tesi che pretende di rintracciare l'idea di progresso anche nel mondo greco (come ha fatto soprattutto Ludwig Edelstein), Senofane dichiara che "non è che da principio gli dei abbiano rivelato tutte le cose ai mortali, ma col tempo essi cercando ritrovano il meglio".
Non c'è dubbio che la polemica senofanea segni la rottura con il pensiero mitico e con la concezione antropomorfica della divinità di cui esso era portatore, e quindi anche con l'affermazione dell'origine divina delle invenzioni che hanno consentito all'uomo, o più precisamente ai Greci, di migliorare le proprie condizioni di vita. Ma che queste invenzioni siano il risultato di una ricerca faticosa, e perciò anche graduale, non vuol dire ancora che si dispongano in una sequenza 'progressiva'. Vuol dire semplicemente che per Senofane la cultura è un prodotto umano, non diversamente dagli ordinamenti politici della città. E in questo modo dev'essere inteso anche il contrasto tra 'vecchio' e 'nuovo' largamente diffuso nel corso del V secolo (documentato per esempio dalle tragedie di Eschilo o di Sofocle), e il senso che spesso lo accompagna della superiorità del presente rispetto al passato. Anche questo senso di superiorità trova però non di rado un contrappeso nella considerazione dello squilibrio tra miglioramento delle condizioni di vita e declino morale, di uno squilibrio che richiede la restaurazione dei costumi e, in ambito politico, il ritorno alla costituzione originaria della città.Dal V secolo in poi lo sviluppo scientifico e tecnologico favorirà la fiducia in un ulteriore avanzamento della conoscenza e delle capacità degli uomini. Isocrate attribuisce il merito di tale sviluppo all'impegno di coloro che, insoddisfatti del presente, "hanno voluto migliorare e osato mutare ciò che non andava bene"; Polibio e Posidonio guardano al progredire delle singole discipline come a un processo non concluso, destinato a proseguire; e gran parte della cultura ellenistica condivide questa aspettativa. Ma la consapevolezza dello sviluppo scientifico e tecnologico non si traduce mai in una visione del progresso dell'umanità; spesso, anzi, essa coesiste con la convinzione che questo sia destinato ad arrestarsi allorché una disciplina o una tecnica abbia raggiunto la sua perfezione.
Significativo è il caso di Lucrezio, che nel quinto libro del De rerum natura ha offerto un quadro del cammino degli uomini dall'originario stato ferino alla civiltà. Lungi dall'essere governato da un disegno provvidenziale o da una logica intrinseca, questo cammino è frutto del caso; e pur essendosi compiuto "passo a passo", è ormai prossimo a concludersi, poiché l'umanità è pervenuta al suo culmine. Del resto, questo cammino non è valutato soltanto in termini positivi: esso ha infatti condotto all'abbandono della vita frugale e ha prodotto la ricchezza, e con questa l'ambizione al dominio e la guerra. Per Seneca la conoscenza della natura è un processo cumulativo che continuerà anche in futuro, in quanto la verità non può venir colta compiutamente né dal singolo individuo né dalla serie delle generazioni che si sono susseguite finora; ma a esso fa riscontro il declino morale causato dal cattivo uso che l'uomo fa dei beni che gli sono concessi dagli dei. Il cammino verso la civiltà è quindi privo di una connotazione etica positiva. Ma questo cammino è anche limitato nel tempo, in quanto il mondo è destinato a essere distrutto e l'umanità a perire. Ancora una volta la possibilità di un'interpretazione della storia in termini di progresso è impedita dalla compresenza del modello ciclico, che Seneca eredita dallo stoicismo.
Né l'idea del progresso appare compatibile con la visione cristiana della storia, quale viene definita da Agostino e soprattutto da Orosio. Il processo storico ha un inizio ma anche un termine finale: ha avuto inizio (in conformità al racconto biblico) con la creazione del mondo, con il peccato originale e con la cacciata dal paradiso terrestre, e si concluderà con l'avvento del regno di Dio. Questa prospettiva escatologica si combina con il riconoscimento di un evento centrale, rappresentato dall'incarnazione di Cristo e dal suo sacrificio, che riscatta l'umanità dal peso del peccato, aprendo una possibilità di salvezza che può essere - secondo i casi - limitata agli 'eletti' o estesa, almeno potenzialmente, a tutti gli uomini. La vicenda storica dell'umanità si svolge secondo un piano provvidenziale, al quale viene ricondotta anche la successione degli imperi. La storia politica si collega in tal modo alla storia della salvezza; ma lungi dal vedersi riconosciuto un valore autonomo, risulta subordinata e funzionale alla realizzazione di quel piano. In questo quadro l'Impero romano acquista un significato per la fede, in quanto l'unificazione del mondo civile sotto il suo dominio ha posto le premesse per la diffusione del messaggio cristiano. La concezione della storia dell'umanità come realizzazione di un disegno superiore non lasciava spazio al progresso, e anzi svalutava come religiosamente irrilevante lo stesso sviluppo scientifico e tecnologico.

2. Avanzamento del sapere e superiorità dei 'moderni'

Neppure la cultura umanistica conosce l'idea di progresso. Lo precludeva la stessa considerazione dell'antichità come un modello di perfezione da imitare o da emulare, e della sua cultura come un patrimonio da recuperare dopo le 'tenebre' medievali. Ai testi antichi è attribuito un valore esemplare; e il loro contenuto, pur storicizzato, viene assunto come strumento di interpretazione valido anche per il presente. Ciò spiega, tra l'altro, la recezione della concezione ciclica che si può trovare in larga parte della letteratura umanistica, e in particolare di quella politica. Per Machiavelli, che sviluppa - sulla scorta di Tito Livio - la riflessione sulla vita politica in riferimento alle vicende della storia romana, ogni struttura politica percorre un ciclo dapprima ascendente e poi di decadenza: così è avvenuto per Roma, così è avvenuto per ogni altra città o per ogni altro impero. E alla corruzione che inevitabilmente segue il successo è possibile sottrarsi soltanto attraverso il ritorno ai principî, cioè mediante la restaurazione dei costumi che avevano contrassegnato le origini di un popolo. Anche in Jean Bodin, che scrive mezzo secolo dopo avendo dinanzi agli occhi l'esperienza - estranea a Machiavelli - di una grande monarchia nazionale come quella francese, e che respinge la concezione di un'età dell'oro e di un graduale processo di degenerazione dell'umanità, lo schema ciclico è ben presente: nelle vicende degli Stati, ma anche nelle scienze, nelle lettere e nelle arti, vi è un'alternanza continua di ascesa e di decadenza. E se nel corso di queste vicende si può registrare un'ascesa complessiva, dovuta al progredire delle invenzioni, nulla esclude che a essa faccia seguito un declino futuro, com'è avvenuto con la decadenza dell'Impero romano e il tramonto della civiltà antica.Il riconoscimento dell'importanza delle invenzioni e delle scoperte compiute in epoca moderna - l'invenzione della stampa, la scoperta della polvere da sparo, e più ancora la bussola, che ha enormemente ampliato i confini del mondo conosciuto - avrebbe però messo in crisi, a lungo andare, la concezione ciclica; ma soprattutto avrebbe fatto venir meno il valore esemplare attribuito alla cultura antica. Questo passaggio è emblematicamente rappresentato da Francesco Bacone.
Nel suo attacco frontale alla cultura antica Bacone respinge sia Aristotele che Platone, accusati il primo di aver ridotto la filosofia a sofistica e il secondo di averla contaminata con la poesia e con la teologia; l'unica parte del pensiero greco che si sottrae alla sua condanna è il pensiero presocratico, impegnato nello studio diretto della natura. Ciò che ci è pervenuto dell'antichità non è un patrimonio di sapere valido, ma un insieme di relitti che si sono mantenuti alla superficie a causa della loro leggerezza, mentre gli elementi più solidi e più consistenti affondavano. Lungi dall'assolvere una funzione positiva, il tempo ha quindi esercitato sul patrimonio culturale antico una selezione negativa, conservandocene i prodotti peggiori. Ma al rifiuto della tradizione filosofica, che coinvolge anche la cultura rinascimentale e le scienze di cui essa è stata veicolo - l'astrologia, la magia, l'alchimia - corrisponde, in Bacone, il richiamo a un'altra tradizione, quella delle arti meccaniche, che si sono venute sviluppando in virtù di una graduale accumulazione di risultati. Se la filosofia naturale non è progredita, se le scienze fondate su di essa si sono esaurite nelle controversie e smarrite nell'errore, le arti meccaniche hanno proceduto da un'invenzione all'altra: nel loro ambito si è realizzato - come suona il titolo del saggio che Bacone ha pubblicato nel 1605 - un "avanzamento del sapere". Su questo terreno anche il tempo assume un significato differente: esso consente la crescita graduale della conoscenza che l'uomo acquisisce dei processi naturali e il suo dominio sulla natura. Il sapere vero, cioè il sapere utile all'umanità, è suscettibile di crescita, anche se il suo progresso è stato limitato finora ad alcune epoche della storia, a pochi secoli.
Si tratta perciò di ricostruire il sapere su nuovi fondamenti, di realizzare quella che Bacone chiama la instauratio magna, e di sostituire alla scoperta casuale che si è avuta in passato una ricerca sistematica dei processi naturali, basata sull'osservazione e sull'esperimento, che si avvalga di una logica diversa da quella aristotelica.Che il sapere sia suscettibile di avanzamento, che questo si sia compiuto attraverso passi successivi, che esso possa progredire ulteriormente conseguendo risultati nuovi che si aggiungono a quelli già realizzati in passato, è una convinzione destinata ad affermarsi e a diffondersi largamente nel corso del Seicento. Ma questo sapere non era più il sapere della tradizione scolastica, e neppure un sapere costruito sulla base del recupero del patrimonio culturale dell'antichità; né era limitato all'ambito delle arti meccaniche, come Bacone riteneva. Il sapere capace di avanzamento era rappresentato dalla scienza moderna, dalla ricerca sistematica delle leggi della natura che si andava sviluppando nell'astronomia e nella fisica, e poco dopo anche nella chimica. E per svilupparlo non occorreva una ricostruzione ab imis, che si contrapponesse al passato: la nuova scienza definiva i propri procedimenti nel corso stesso della ricerca.
La concezione di un progresso dell'uomo nella conoscenza della natura e nel controllo dei suoi processi traduceva in termini filosofici una realtà in atto, fornendo una base alla speranza in un futuro migliore.Ciò comportava anche l'abbandono della tesi della superiorità della cultura antica, degli 'antichi' rispetto ai 'moderni'. Già Bacone aveva osservato che l'antichità è l'infanzia del mondo, quasi a giustificare il giudizio negativo espresso sulla cultura antica, e che i veri antichi sono, in realtà, i moderni, i quali possono avvalersi di un'esperienza più lunga e quindi di un patrimonio di conoscenze più cospicuo. Lo dimostrava non soltanto l'insieme delle invenzioni compiute all'inizio dell'età moderna, ma anche il confronto tra le condizioni di vita dei popoli civilizzati d'Europa e quelle dei popoli indigeni del Nuovo Mondo. In questa prospettiva, anzi, egli asseriva che "la verità è figlia del tempo", e che il tempo è "l'autore di tutti gli autori". Ma Bacone non era affatto isolato; la convinzione della superiorità dei moderni era destinata a diffondersi rapidamente. E numerosi erano gli argomenti addotti in suo favore. Una prima prova era offerta dalla scoperta di nuove terre, resa possibile dalla bussola e dalle nuove tecniche di navigazione: non a caso Bodin aveva parlato, in riferimento a essa, dell'avvento di una "repubblica universale" che abbraccia ormai il globo intero. Da parte sua l'astronomia, con la teoria copernicana e la scoperta dei movimenti dei corpi celesti, mostrava la capacità del sapere di spingersi dove l'antichità non era pervenuta, di sostituire alla tradizionale immagine geocentrica un nuovo quadro dell'universo.
Non soltanto il Medioevo, ma anche l'antichità si presentava ora come un'epoca dominata dall'ignoranza e dalla vana speculazione, o almeno come un'epoca a cui era rimasta preclusa la conoscenza sia dell'orbe terracqueo sia dei cieli. Veniva così meno il carattere esemplare attribuito alla cultura antica: il sapere è frutto dell'esperienza, e l'esperienza si accresce nel corso del tempo. Se Cartesio riprendeva, seppure in una chiave diversa da quella di Bacone, la critica del sapere tradizionale, andando anch'egli in cerca di una fondazione ab imis, Pascal ricorreva al paragone tra la vita del singolo e lo sviluppo del genere umano: come l'individuo si istruisce incessantemente nel corso degli anni, così il genere umano è impegnato in un "progresso continuo". Ma, a differenza dell'individuo, il genere umano non soggiace all'invecchiamento; la sua maturità è destinata a durare senza limite. O magari, quando gli si attribuisce una vecchiaia, questa è vista come il culmine dell'esperienza, e quindi del sapere.Il confronto tra antichi e moderni volgeva perciò in favore di questi ultimi. E il momento decisivo di tale confronto veniva a fine Seicento, nel corso della querelle des anciens et des modernes: una disputa nata in sede non scientifica ma letteraria, che però assunse ben presto un significato più vasto. Già Alessandro Tassoni, nel 1620, aveva sviluppato il confronto sul terreno della poesia, contrapponendo la Gerusalemme liberata ai poemi omerici. E sul finire del secolo Charles Perrault tracciava un Parallèle des anciens et des modernes, affermando che, se la poesia moderna non è inferiore a quella degli autori greci e romani, la scienza (e la stessa filosofia) ha fatto grandi passi avanti in virtù di un processo di estensione dei suoi confini; e di ciò attribuiva la causa al tempo, "il cui effetto ordinario è di perfezionare le arti e le scienze".
Anche Perrault si avvaleva dell'analogia tra vita individuale e sviluppo dell'umanità, e considerava i moderni - secondo un'espressione che risale a Bernardo di Chartres - come "nani sulle spalle di giganti". Può darsi benissimo che il genio degli antichi sia stato maggiore di quello dei moderni; ma i moderni hanno potuto, utilizzando i risultati conseguiti dall'antichità, sollevarsi al di sopra di essa.Anche l'assunzione di una maggiore misura di capacità concessa agli antichi era però destinata a essere ben presto respinta, ad opera di Bernard de Fontenelle; e ciò in base a un principio scientifico, quello della costanza dell'ordine della natura, da lui esteso al mondo storico. Non diversamente dagli altri processi naturali, anche la vita dell'umanità è governata da leggi immutabili; e ciò induce a ritenere che la proporzione di geni nati nelle diverse epoche sia sostanzialmente la stessa. Come Fontenelle si esprime nella Digression sur les anciens et les modernes (1688), "la natura non ha certamente formato Platone, Demostene e Omero con un'argilla più fine né meglio preparata di quella con cui ha formato i nostri filosofi, i nostri poeti": gli uomini di oggi non possono quindi essere inferiori o peggiori rispetto agli uomini del passato. Tra antichi e moderni vi è un'eguaglianza di natura, una equidistribuzione di capacità.
E perciò le differenze devono avere origine da altre cause, in particolare dal tempo. Ciò vuol dire che il succedersi delle generazioni reca con sé un accrescimento continuo del sapere. Se nel campo dell'eloquenza e della poesia gli antichi possono essere, al massimo, eguagliati, ma non superati, nella scienza e nella filosofia i moderni hanno compiuto invece enormi passi in avanti. L'uomo moderno ha fatto proprio l'intero patrimonio di sapere delle epoche precedenti; il suo ingegno "è, per così dire, composto da tutti gli ingegni dei secoli precedenti". Né a questo processo si può imporre un termine: dal momento che il genere umano conosce sì delle età analoghe a quelle del singolo individuo, ma ignora la vecchiaia, il suo progresso viene a configurarsi come un progresso indefinito. Alla consapevolezza della superiorità dei moderni rispetto agli antichi si affiancava così la fiducia in un cammino ulteriore, al quale la natura non ha fissato alcun limite.

3. Perfettibilità dell'uomo e progresso dello spirito umano

Il presupposto dell'immutabilità della natura umana, da cui Fontenelle aveva preso le mosse per dimostrare la superiorità dei moderni, sarà ben presto lasciato cadere. Lungi dal rimanere sempre la stessa, la natura umana è intrinsecamente perfettibile; in ciò risiede la sua specificità rispetto alla natura degli altri esseri. Certamente, anche l'umanità e le sue vicende sottostanno alle leggi generali della natura; si escludeva, anzi, la possibilità di interventi soprannaturali o di un governo provvidenziale della storia. Ma in luogo di essere ricondotto alla costanza dell'ordine naturale, come aveva fatto Fontenelle, il perfezionamento dell'uomo e delle sue condizioni di vita veniva ora ancorato a questa caratteristica peculiare della natura umana, alla sua perfettibilità. In tal modo il progresso non designava più soltanto l'avanzamento del sapere; esso abbracciava anche i costumi dei popoli e, in seguito, abbraccerà pure le istituzioni politiche e la vita economica.Questo passaggio si è compiuto verso la metà del XVIII secolo, soprattutto ad opera di Voltaire. Esso appare strettamente connesso con l'affermarsi di una concezione della storia imperniata sulla successione di tre epoche o condizioni di vita dell'umanità: lo stato selvaggio, la barbarie e la civiltà. L'antitesi tra popoli barbari e popoli civili era di lunga data, e risaliva addirittura alla cultura greca; mentre l'introduzione di un livello di esistenza anteriore alla stessa barbarie era, in larga misura, il risultato dell'incontro con le popolazioni indigene del Nuovo Mondo.
Così la tripartizione della vita dell'umanità in tre momenti si era venuta diffondendo a partire dal Cinquecento, e veniva ora a offrire uno schema concettuale all'idea di progresso. Ogni popolo - sottolinea Voltaire nel saggio Philosophie de l'histoire (1765) - procede da un'esistenza in piccole società che traggono il loro sostentamento dalla caccia e dalla raccolta di frutti e di radici, come i "selvaggi americani" dei quali Joseph-François Lafitau aveva descritto i costumi in un libro apparso nel 1624, verso un'organizzazione sociale di ampie dimensioni, regolata da leggi. Si tratta di uno sviluppo quanto mai lento, che richiede molto tempo e anche condizioni climatiche favorevoli, e che mette capo a una crescente differenziazione tra i diversi popoli. Così lo sviluppo dell'umanità può essere complessivamente caratterizzato come un progresso che dallo stato selvaggio conduce alla barbarie, e da questa alla civiltà. Ma la civiltà non rappresenta affatto una condizione statica; una volta pervenuta ad essa l'umanità è destinata a perfezionarsi ulteriormente, cioè a perfezionare i suoi costumi. È bensì vero che la Cina, dopo esser giunta per prima "a conoscere e a praticare tutto ciò che è utile alla società", dopo aver dato vita alle scienze e aver posto le basi di una religione che è la più vicina alla religione naturale, si è arrestata nel suo sviluppo; ma la società europea si mostra in grado, dopo i lunghi secoli della barbarie medievale, di perfezionarsi ulteriormente. A tale scopo occorre eliminare gli ostacoli frapposti al progresso dalle guerre e dalla religione, causa di superstizione, di fanatismo e d'intolleranza; occorre sostituire ai culti che dividono il genere umano una morale su base naturale, e una religione fondata sul riconoscimento dell'esistenza di un essere supremo e dell'immortalità dell'anima, incentrata sull'insegnamento della virtù. Da questa prospettiva deriva, nell'Essai sur les moeurs et l'esprit des nations (1756), la valutazione negativa del ruolo del cristianesimo: nell'antichità esso è stato, insieme alle invasioni barbariche, un fattore di rovina dell'Impero romano - secondo uno schema interpretativo che sarà ripreso vent'anni dopo da Edward Gibbon nella History of the decline and fall of the Roman empire (1776-1788) -, mentre in seguito le dispute religiose a cui ha dato luogo hanno alimentato le divisioni e le lotte tra i popoli. I secoli in cui esso è prevalso, i secoli del Medioevo fino al momento della ripresa della vita cittadina, hanno rappresentato, per la società europea, un'epoca di interruzione del progresso, anzi un'epoca di ricaduta nella barbarie.Così per Voltaire il progresso era ben lontano dal costituire un processo ininterrotto, privo di soluzione di continuità. Ma proprio su questo punto l'idea di progresso era oggetto di interpretazioni contrastanti.
Se la maggior parte dei philosophes, soprattutto quelli più impegnati nell'azione riformatrice e nella diffusione dei 'lumi', condivideva la cautela di Voltaire, un altro filone tendeva a concepire il progresso come un processo continuo, sia nel passato sia soprattutto nel futuro. Già nel 1737 l'abate Castel de Saint-Pierre aveva parlato di un "progresso continuo della ragione universale", destinato ad approdare a una confederazione tra gli Stati europei e alla realizzazione della pace perpetua; ma questa fiducia era pur sempre limitata dalla constatazione dello scarto tra la rapidità del progresso dei costumi e del sapere e la lentezza del miglioramento compiuto in ambito morale e politico. All'inizio degli anni cinquanta Turgot, il futuro esponente del movimento fisiocratico e ministro di Luigi XVI, presentava un quadro della storia europea alquanto diverso da quello che, pochi anni dopo, ne avrebbe dato Voltaire: il Medioevo ha rappresentato sì, nel suo insieme, un passo indietro rispetto all'antichità, ma nel corso di esso la religione cristiana è riuscita a civilizzare popoli prima barbari, e quindi a porre le premesse per un'estensione dell'ambito geografico della civiltà. Ma, soprattutto, esso ha visto un progresso continuo, sebbene lento, delle arti meccaniche: anche quando lo sviluppo delle scienze e delle arti si è arrestato, queste hanno continuato ad arricchirsi di nuove invenzioni, di nuovi strumenti. Se è vero che progressi e decadenze si alternano, il cammino del genere umano è destinato ogni volta a riprendere; e le arti meccaniche sono una specie di tessuto connettivo che garantisce, alla distanza, tale ripresa.Il problema della continuità o discontinuità del progresso si intrecciava, in realtà, con quello dei suoi ambiti, cioè del diverso 'ritmo' del progresso nelle arti e nella poesia, nelle scienze e nelle tecniche, nei costumi, nella politica, nell'economia. A un'analisi più ravvicinata, sulla base di un'informazione storica sempre più ampia, lo sviluppo dell'umanità non poteva più esser considerato come un processo uniforme non soltanto tra i diversi popoli, ma neppure all'interno di uno stesso popolo.
Tra questi diversi ambiti quello delle arti e della poesia si presentava come il meno suscettibile di un ulteriore perfezionamento rispetto all'antichità, anzi come il più refrattario alla possibilità di individuare una linea di sviluppo: già per Perrault e Fontenelle gli antichi potevano sì venir eguagliati ma non superati, e Turgot ne condivideva il giudizio. Lo stesso Voltaire, individuando nel Siècle de Louis XIV (1751) "le quattro età felici che hanno conosciuto la perfezione delle arti", le poneva sotto tale aspetto sul medesimo piano. Diverso era invece il caso della filosofia e delle scienze, dove la superiorità dell'ultima di queste età, il secolo di Luigi XIV, gli appariva ben netta, anche se essa si era manifestata non tanto nella cultura francese quanto al di là della Manica. Analogamente, anche Turgot riteneva che il progresso del sapere fosse - al pari di quello delle arti meccaniche - privo di limiti, essendo inesauribile la natura che ne costituisce l'oggetto. E al miglioramento delle scienze e delle tecniche si collegava strettamente, in quanto sua conseguenza, il progredire dei costumi, della politesse o delle 'maniere' proprie della società di corte o dei ceti nobiliari, ma suscettibili di diffondersi ad altri strati sociali.Posteriore, e sovente formulato in maniera problematica, sarà il riconoscimento del progresso in ambito politico o economico. Nell'Esprit des lois (1748) Montesquieu aveva contrapposto la libertà dei governi moderati dell'Europa al dispotismo asiatico, connotando quindi la libertà in termini geografici; ma l'idea di progresso gli era del tutto estranea. Proprio richiamandosi a quell'antitesi si poteva tuttavia introdurre, tra le diverse forme di governo, un ordine sequenziale, e scorgere nel passaggio dal dispotismo alla libertà la direzione del loro sviluppo.
Così Turgot collegava il dispotismo - da lui considerato, come da Montesquieu, la forma di governo propria dei grandi imperi asiatici - alla barbarie, e i governi moderati alla civiltà. Del resto, anche per Voltaire l'organizzazione politica più primitiva era rappresentata dalla teocrazia, cioè dal dominio del ceto sacerdotale; in seguito teocrazia e dispotismo saranno attribuiti ai popoli non ancora pervenuti al livello dell'esistenza civile, spesso postulando - come faceva Nicolas-Antoine Boulanger nelle Recherches sur l'origine du despotisme oriental (1761) - la derivazione del dispotismo dalla teocrazia, considerata come la forma originaria di dominio. Questo collegamento si compiva soprattutto nella cultura inglese e scozzese della seconda metà del Settecento, nella quale il progresso delle scienze e delle tecniche è ormai universalmente riconosciuto, mentre l'attenzione si portava appunto sul progresso politico ed economico, o più precisamente socioeconomico. In realtà, già Turgot aveva parlato della successione di popoli cacciatori, popoli pastori e popoli agricoltori, correlando il nomadismo dei secondi con il dispotismo asiatico e, indirettamente, con la barbarie. Nell'Essay on the history of civil society (1767) Adam Ferguson accoglieva la tripartizione dello sviluppo dell'umanità in stato selvaggio, barbarie e civiltà, presentandolo non soltanto come passaggio da un'esistenza in piccoli gruppi a un'organizzazione sociale complessa, ma anche e soprattutto in termini di crescente divisione del lavoro.
Lo stato selvaggio conosce solamente il lavoro in comune di tutti i membri del gruppo sociale, in vista del procacciamento delle risorse alimentari necessarie; la barbarie comporta la nascita della proprietà privata, ancorché non garantita né regolata da leggi, e con essa una differenziazione all'interno della società - in particolare, una distinzione tra 'liberi' e schiavi - che si accompagna all'affermarsi della divisione del lavoro; la società civile è caratterizzata da una divisione in classi che si accompagna alla progressiva divisione del lavoro. Lo sbocco di questo processo è una società differenziata al suo interno, in cui ogni individuo appartiene a un 'rango', cioè ha un posto nella gerarchia sociale determinato dai beni che possiede. Il progresso coincide perciò con la formazione della società civile, di una società fondata sul riconoscimento giuridico della proprietà privata e su un governo libero, che consenta il soddisfacimento dei bisogni individuali: se nell'epoca della barbarie l'individuo è subordinato alla società, la società civile è invece organizzata in funzione degli individui. Come poi anche in Adam Smith, divisione del lavoro e affermazione della libertà politica si presentano come processi concomitanti e collegati tra loro.Ma il problema della continuità o discontinuità del progresso ne richiamava anche un altro: quello del fine del progresso, in senso sia teleologico che temporale. E sovente la soluzione che ne veniva offerta non era priva di ambiguità. Per l'abate Castel de Saint-Pierre il progresso della ragione era sì continuo, ma comportava pur sempre una meta: la pace perpetua. In generale, dove l'accento era posto sullo sviluppo delle scienze e delle tecniche, o anche dei costumi, si tendeva a concepire il progresso come indefinito, non suscettibile di un limite; quando invece veniva in primo piano la dimensione politica, allora emergeva anche un termine finale, additato in un governo libero o nella stessa società civile, che però doveva consentire - in virtù della divisione del lavoro - una crescita ulteriore dei beni prodotti e quindi un miglioramento delle condizioni di vita. Sarà Condorcet, sul finire del secolo, ad affrontare il problema nell'Esquisse d'un tableau historique des progrès de l'esprit humain (1793).
Più che allo sviluppo passato, realizzatosi con ritmo via via più accelerato nel corso delle prime nove epoche della storia, egli guardava al futuro, alla decima epoca, per determinarne le tendenze. Consapevole dei limiti attuali del processo di incivilimento, del fatto che intere classi sociali e interi popoli sono tuttora esclusi dall'ambito di influenza dei 'lumi', Condorcet indicava la direzione del progresso futuro dell'umanità nella distruzione della diseguaglianza tra le nazioni e anche all'interno di uno stesso popolo, cioè nell'estensione dei 'lumi' a tutti i popoli e a tutte le classi sociali; ma affermava anche la possibilità di un perfezionamento della stessa natura umana, sia per quanto riguarda le condizioni esterne - dal miglioramento della salute al prolungamento della durata della vita - sia per quanto concerne le capacità intellettuali e la sensibilità morale dell'uomo. Il progresso dell'umanità si presenta come indefinito; o, se di un limite si può parlare, questo coincide con "la durata del pianeta su cui la natura ci ha collocati". Esso appare ormai inarrestabile, e destinato a prevalere sulle forze che, nei secoli passati, si sono contrapposte ad esso.

4. Le utopie del progresso

L'idea di progresso, quale si configura nel XVIII secolo, riveste indubbiamente una carica utopica: essa esprime non soltanto la consapevolezza del cammino compiuto da un certo popolo, o dall'umanità nel suo insieme, e del perfezionamento che si era realizzato nel corso di esso, ma anche la fiducia nella possibilità di un perfezionamento ulteriore. Ma le utopie del progresso segnavano, nello stesso tempo, un netto distacco dalle utopie tradizionali, e in particolare da quelle formulate all'inizio dell'età moderna. Nell'opera di Thomas More che ha dato il nome a questo fortunato genere letterario l'utopia era infatti la descrizione di una società immaginaria, più o meno alternativa a quella esistente, collocata in uno spazio immaginario: non a caso lo stesso termine 'utopia' esprime intenzionalmente l'ambivalenza tra eutópos (luogo felice) e ou-tópos (nessun luogo), quasi a sottolinearne l'irrealtà, il carattere puramente immaginario. E la stessa cosa vale per la Città del Sole di Campanella o la New Atlantis di Bacone, nonostante il rilievo del tutto nuovo che in quest'ultima assume il processo di invenzione e di produzione. La società ideale, che viene contrapposta a quella esistente per poterla criticare, si situa in un luogo immaginario, ma è priva di una dimensione temporale: essa esiste in un presente che non è meno irreale del paese che Raphael Hythloday incontra dopo il naufragio della sua nave.
A partire dalla metà del Settecento gli autori di utopie tendono a cambiare la collocazione della società ideale: essi la pongono non più in uno spazio immaginario, in un'isola al di fuori delle rotte consuete o in una terra sconosciuta al resto del mondo civilizzato, come l'impero dei Sevarambi di Denis Veiras, o ancora negli "imperi della luna" e negli "imperi del sole" di Cyrano de Bergérac, ma in un tempo differente dal presente. E questo tempo è di solito - a differenza dell'antica Atlantide, quella di cui parla Platone nel Crizia - non il passato, ma il futuro. Questo è il caso, per esempio, de L'an 2440 di Louis-Sébastien Mercier (1770), ma anche di numerose utopie posteriori, che al viaggio nello spazio affiancano o sostituiscono quello nel tempo. Nel fortunato romanzo di Mercier la società ideale è infatti collocata non in un luogo lontano, bensì nella stessa Parigi, ma in una Parigi futura, quale si presenterà trasformata a quasi settecento anni di distanza.Accanto al mutamento di collocazione - nel tempo anziché nello spazio, in un futuro immaginario anziché in un passato altrettanto fittizio - l'utopia subiva un'altra trasformazione, ancor più importante: diventava un'utopia realizzabile. La società ideale manteneva il significato di un modello alternativo rispetto alla società reale in cui l'autore si trovava a vivere; ma il solco tra i due termini veniva meno, o tendeva ad attenuarsi. La società ideale si presentava infatti come il termine ad quem di un processo che la società reale è destinata a compiere in un tempo più o meno lungo.
L'utopia cessava di costituire la descrizione di una società immaginaria per indicare la direzione di uno sviluppo destinato a metter capo, se non alla società perfetta, certamente a una società più perfetta di quella esistente. Tra la realtà e la società ideale non c'è più una frattura temporale, bensì un rapporto di continuità. La Parigi del futuro, quale la raffigura Mercier, è il risultato di un processo che muove dal presente, di un processo di diffusione dei 'lumi' che conduce gradualmente all'instaurazione della libertà e dell'eguaglianza, all'eliminazione della povertà, al miglioramento delle condizioni sanitarie e della salute dei cittadini. Tra il presente e il futuro immaginario c'è, in altri termini, un rapporto di continuità: entrambi sono momenti successivi di una medesima storia.Ma l'utopia non si limitava a esprimersi in veste romanzesca; essa assumeva sovente, a partire da Castel de Saint-Pierre, la forma del progetto legislativo. Dopo l'età del bronzo e quella dell'argento l'umanità sta entrando nell'età dell'oro, in un 'secolo illuminato' che ha le sue condizioni nell'incremento del commercio e dell'industria, nello sviluppo delle scienze, nell'invenzione della stampa e nella diffusione dell'educazione; ma perché quell'età si realizzi compiutamente occorre portare il progresso anche sul piano politico. L'"alleanza perpetua" tra gli Stati cristiani vagheggiata da Saint-Pierre deve porre appunto le premesse per la pace universale, che costituisce lo scopo ultimo - realizzabile - dello sviluppo dell'umanità. Utopia e prospettive riformatrici s'intrecciano strettamente nella cultura illuministica, e lo spartiacque che le separa è spesso difficile da percepire. Se le prospettive riformatrici sono di preferenza legate all'idea di un dispotismo illuminato, incarnato in un principe saggio impegnato nella diffusione dei 'lumi' (sia egli Federico II o la grande Caterina), l'utopia tende a farsi portatrice di prospettive più radicali, per approdare verso fine secolo a esiti esplicitamente rivoluzionari.
Emblematico è il caso del Testament de Jean Meslier, composto probabilmente tra il secondo e il terzo decennio del Settecento, e pubblicato in estratto da Voltaire nel 1762; e non meno significativi sono gli scritti di autori come dom Deschamps o Morelly, in cui l'utopia sfocia nella critica della proprietà e nella denuncia del carattere menzognero della religione, assorbendo anche motivi di origine rousseauiana. Alla base di queste prospettive vi è però sempre il presupposto della perfettibilità della natura umana, e della tendenza dell'umanità verso il proprio perfezionamento. Lo si ritrova ancora nello scritto kantiano Zum ewigen Frieden, pubblicato nel 1795, in piena Rivoluzione. Kant indicava le condizioni per l'instaurazione della pace perpetua nella realizzazione di una costituzione repubblicana, l'unica conforme al contratto originario su cui deve fondarsi la società, e di una federazione di popoli organizzati in Stati liberi. Egli riprendeva dall'Esprit des lois l'antitesi tra governi moderati e dispotismo, riconducendo i primi al governo repubblicano, contrassegnato dalla forma rappresentativa e dalla separazione tra potere legislativo e potere esecutivo; ma lungi dall'identificarlo con la democrazia, denunciava l'inevitabile tendenza di quest'ultima al dispotismo. E su questo richiamo a Montesquieu egli innestava la visione di una cooperazione di popoli riuniti in una confederazione pacifica, rivolta ad assicurare la libertà degli Stati che la compongono. Così intesa, la pace perpetua si presentava anch'essa come un'utopia realizzabile, che trovava la sua garanzia, se non in un disegno provvidenziale, certo in un disegno della natura che si avvale delle inclinazioni egoistiche dell'uomo per costringerlo a una convivenza regolata da leggi, e dello stesso spirito commerciale per promuovere relazioni pacifiche tra i popoli.
Alla domanda "se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio" (che dà il titolo a uno scritto del 1798) Kant forniva quindi una risposta positiva, anche se formulata in termini problematici, collegando il progresso alla tendenza morale della specie umana e indicando nella Rivoluzione francese l'evento epocale che ne aveva mostrato l'esistenza.In Kant, come del resto anche in Condorcet, il progresso non si presentava come un processo necessario. Kant gli attribuiva soprattutto un significato regolativo, mentre Condorcet riteneva che il progresso fosse capace di autoconsolidamento, e che ogni passo in avanti compiuto dall'umanità potesse diventare fattore di ulteriore progresso; la sua visione della decima epoca si presenta, nella sostanza, come una previsione scientifica, fondata sull'estrapolazione di tendenze di sviluppo osservabili nel presente. L'affermazione della necessità del progresso sarà fatta valere più tardi, quando l'utopia verrà a configurarsi come lo stato definitivo dell'umanità, e la storia dell'umanità sarà interpretata come un processo destinato a sfociare in esso. Di questo genere saranno le teorie che vedono nella società industriale il punto di arrivo dello sviluppo dell'umanità, ma anche le teorie che preconizzano l'avvento di una società fondata sulla soppressione della proprietà privata e sull'eguaglianza tra gli uomini.

5. Il progresso come legge di sviluppo dell'umanità e della realtà

All'indomani della caduta di Napoleone, Saint-Simon formulava un programma di riorganizzazione della società europea, che trovava la propria base in una concezione del suo sviluppo articolato in tre epoche - un'epoca di 'organizzazione' coincidente con il dominio incontrastato della fede cristiana nel Medioevo, un'epoca di 'disorganizzazione' culminante nella Rivoluzione, e infine un'epoca in cui la società si sarebbe 'riorganizzata' in un nuovo sistema sociale. Saint-Simon non guardava al cammino dell'umanità considerata nel suo insieme, ma modellava la sua visione della storia sullo sviluppo europeo. Alla tradizionale successione di stato selvaggio, barbarie e civiltà egli sostituiva la contrapposizione tra vecchio e nuovo sistema sociale, introducendo come momento di trapasso dall'uno all'altro un sistema 'intermedio' o 'transitorio' a cui veniva attribuita più una funzione dissolutrice nei confronti del primo che non un ruolo preparatorio nei confronti del secondo. Il vecchio sistema sociale, avente come fine la conquista, era connotato come un sistema teologico sotto l'aspetto spirituale e come un sistema feudale sotto quello temporale, mentre il nuovo sistema orientato verso la produzione - che stava sorgendo dopo il periodo rivoluzionario - sarebbe stato fondato per un verso sul sapere positivo, per l'altro verso sull'industria.
Pochi anni dopo, nel Prospectus des travaux scientifiques nécessaires pour réorganiser la société (1822) e poi nel Cours de philosophie positive (1830-1842), Auguste Comte generalizzerà lo schema interpretativo di Saint-Simon enunciando la legge dei tre stati: lo stato teologico o "fittizio", lo stato metafisico o "astratto" e infine lo stato scientifico o "positivo". A ognuno di questi stati corrisponde, secondo Comte, un diverso tipo di spiegazione dei fatti, e quindi una diversa forma di sapere, ma anche un diverso sistema sociale.Lo sviluppo del sapere si presentava quindi non tanto come un processo di accumulazione, quanto come una successione di momenti eterogenei, contrassegnati rispettivamente dal ricorso a esseri soprannaturali o a 'forze' astratte o a leggi generali come base del procedimento esplicativo. Analogamente, anche lo sviluppo della società veniva ad articolarsi in una successione di sistemi che trovavano il loro fondamento in un insieme organizzato di credenze; cosicché il passaggio dal vecchio al nuovo sistema sociale veniva fatto coincidere con il passaggio da un sapere fittizio al sapere positivo. In questo quadro la società industriale, fondata su quest'ultimo, diventava la forma definitiva di organizzazione della società: una forma suscettibile sì di essere perfezionata, ma soltanto in virtù del 'completamento' dell'edificio del sapere positivo e dell'instaurazione di un'autorità morale fondata su di esso, e quindi riconosciuta da tutti. Nella società industriale il progresso si salderà con l'ordine, realizzando l'indispensabile sintesi tra l'ordine statico della "dottrina dei re", su cui poggiava il vecchio sistema, e il progresso dissolutore della "dottrina dei popoli", che aveva ispirato l'ideologia del sistema transitorio e la sua pretesa di una illimitata libertà di coscienza.La concezione positivistica del progresso si distaccava perciò da quella illuministica, proponendo un ideale sociocratico destinato a realizzarsi in una società resa definitiva dal carattere incontrovertibile del sapere positivo.
Ma anche le utopie socialistiche formulate nei primi decenni del secolo contrapponevano al presente, alle diseguaglianze sociali rese più acute dall'industrializzazione incipiente, una società armonica realizzabile attraverso il superamento della civiltà e la soppressione della proprietà privata. Così François-Marie-Charles Fourier - in una fantasiosa costruzione che pur pretendeva di fondarsi su una "meccanica sociale" - pronosticava, nella Théorie des quatre mouvements et des destinées générales (1808), l'avvento di una società fondata non sulla repressione ma sul soddisfacimento delle passioni, che dovrà procedere al di là della civiltà e in cui gli uomini si uniranno tra loro non più sulla base della struttura familiare ma sulla base di "sette". Da ciò la visione, delineata nel Nouveau monde industriel et sociétaire (1829) con ossessiva preoccupazione dei dettagli, di un'organizzazione economica per "falangi" e "falansteri", a cui farà riscontro un nuovo sistema di relazioni amorose, fondato non più sul matrimonio monogamico ma sulla "corporazione amorosa". Anche il movimento saint-simoniano, richiamandosi all'ultimo periodo della produzione del maestro, in particolare al Nouveau Christianisme (1825), riteneva che lo sviluppo dell'umanità dovesse condurre a una nuova epoca organica che recuperasse l'insegnamento morale cristiano e realizzasse l'"associazione universale", la pacifica convivenza di tutti gli uomini e di tutti i popoli. E Pierre-Joseph Proudhon, collegandosi a Babeuf e a Buonarroti, raffigurava la società futura come la sintesi tra la comunità e la proprietà, come un terzo tipo di organizzazione sociale che doveva coniugare eguaglianza e anarchia, consentendo la partecipazione di tutti alla formazione della volontà generale.
Il progresso acquistava così un carattere di necessità; diventava, in altri termini, la legge di sviluppo generale della storia, una legge scientificamente dimostrabile sulla base del corso finora compiuto dall'umanità, o per lo meno dall'umanità europea. Ma esso veniva caratterizzato anche da un termine ultimo, da uno stato definitivo di organizzazione sociale di cui la storia intera rappresenta la preparazione. Questa stessa nozione si ritrova, per quanto formulata in termini assai diversi, nell'opera di Marx. Lo sviluppo dell'umanità si realizza attraverso una successione di formazioni economiche della società che sono qualitativamente diverse, in quanto contrassegnate da un diverso tipo di rapporti di produzione e da un diverso tipo di proprietà, anche se il loro motore è costituito dal processo della divisione del lavoro; e ognuna di tali formazioni nasce dalla dissoluzione e dal superamento di quella che la precede. Questo processo ha anche un termine. Trasferendo nel futuro il carattere organico che Saint-Simon e Comte avevano attribuito alla nascente società industriale, Marx indicava infatti nella società senza classi, prodotto dell'inevitabile crollo del capitalismo, la fine della storia dell'umanità o - per meglio dire - il suo passaggio dalla preistoria alla storia. E in questa società scorgeva la liberazione dell'uomo dall'alienazione, il recupero dell'essenza umana.
Al pari che in Fourier ma anche negli esponenti del socialismo utopistico da lui aspramente criticati, lo stato ultimo dello sviluppo dell'umanità veniva a coincidere con la realizzazione della natura dell'uomo.L'interpretazione della storia dell'umanità in termini di progresso necessario accomunava infatti posizioni per il resto assai distanti tra loro. Ad essa dava un sostegno decisivo la concezione dello sviluppo storico come sviluppo dialettico, che Marx ereditava da Hegel. E proprio la visione hegeliana della "storia universale", delineata nelle Grundlinien der Philosophie des Rechts (1821) ed esposta in maniera più articolata nelle lezioni berlinesi, offriva un esempio emblematico di tale interpretazione. È bensì vero che Hegel preferiva parlare di sviluppo anziché di 'progresso'; ma tale sviluppo si configurava come la realizzazione dello "spirito del mondo" in una successione di "spiriti dei popoli", ognuno dei quali rappresentava un grado più alto rispetto al precedente. In questa maniera la storia universale si presentava come l'attuazione di un piano provvidenziale, come il "progresso nella coscienza della libertà"; e la coscienza della libertà diventava lo scopo finale dello sviluppo dello "spirito del mondo". In tale maniera le diverse epoche della storia - geograficamente determinate dal procedere da oriente a occidente - erano contrassegnate dal costante progredire di tale coscienza: se il mondo orientale, in cui lo spirito rimane ancora legato alla natura, conosce la libertà di uno solo, del signore, se il mondo greco e il mondo romano pervengono alla coscienza della libertà ma limitandola ad alcuni, ai liberi contrapposti agli schiavi, il mondo germanico sorto dal cristianesimo perviene a riconoscere nella libertà l'attributo costitutivo dell'uomo in quanto uomo.
E proprio la realizzazione di questa libertà in forme istituzionali, cioè nella forma dello Stato moderno, segna il culmine del processo storico, ancorché Hegel non escluda il successivo trasmigrare dello spirito nel "mondo del futuro", nell'ancora immaturo continente americano.Ma lo "spirito del mondo" di cui Hegel parla non è altro che lo spirito stesso, considerato nella sua determinatezza spaziale e temporale; e questo spirito è l'idea ritornata a sé, dopo essersi estraniata nella natura. Il movimento dialettico che costituisce il processo storico è quindi lo stesso movimento che sta a base dell'intera realtà, e che produce il passaggio dalle sue determinazioni puramente logiche alle determinazioni proprie della natura e dello spirito.
Lo sviluppo storico, pur essendo un processo peculiare della storia dell'umanità, ha perciò la propria base nella struttura logico-metafisica della realtà, e ne costituisce una specificazione. Esso si pone infatti in un rapporto di continuità con i momenti precedenti dello sviluppo della realtà; ne costituisce, per così dire, la prosecuzione anche se in forma nuova. Alla versione idealistica di questa impostazione, che Hegel ha in comune con Schelling e con gran parte della cultura romantica, fanno riscontro altre versioni, formulate su altra base. La prima è la versione materialistica di Friedrich Engels, che nella dialettica della natura vede la premessa indispensabile dello sviluppo storico. Un'altra è la versione formulata sulla base della teoria dell'evoluzione e della ricerca di una legge generale dell'evoluzione, che Herbert Spencer ha elaborato a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso, prima ancora della pubblicazione della darwiniana Origin of species, e che ha avuto larga risonanza nella cultura ottocentesca.
Per Spencer l'evoluzione è mutamento dall'omogeneo all'eterogeneo, e in quanto tale comporta una crescente differenziazione ma anche una corrispondente combinazione e integrazione tra le parti componenti. Questo mutamento è comune al mondo inorganico, a quello organico e a quello superorganico, cioè alla società; lo si può riscontrare, anche se con modalità diverse, nella formazione del sistema solare o nello sviluppo dell'organismo o ancora nello sviluppo del corpo sociale. L'evoluzione è quindi riconducibile a una legge comune; ma l'evoluzione superorganica presenta anche caratteristiche specifiche, differenti da quelle delle fasi che la precedono. Sia nel progredire complessivo dell'umanità sia nel progresso di una singola tribù o nazione l'organizzazione diventa più complessa, le strutture e le funzioni del corpo sociale si differenziano tra loro, e ognuna acquista una fisionomia sempre più definita. Se in ciò l'evoluzione superorganica prosegue i processi in atto nell'evoluzione precedente, tra l'organismo biologico e l'organismo sociale sussiste tuttavia una differenza fondamentale: il primo è infatti un "tutto concreto", le cui parti sono tra loro fisicamente unite, mentre il secondo è un "tutto discreto", le cui parti sono non soltanto separate ma anche, in qualche misura, libere l'una dall'altra. Ciò mette capo non soltanto a una pluralità di sistemi indipendenti sebbene reciprocamente coordinati, ma anche a una successione di forme di società sempre più complesse che però concedono all'individuo un margine crescente di autonomia e di libertà. In questo quadro Spencer poteva riformulare la distinzione comtiana tra l'antico e il nuovo sistema sociale nella successione tra tipo militare e tipo industriale di società, fondati rispettivamente sulla cooperazione forzata e sulla cooperazione volontaria, e farne due momenti del processo evolutivo destinati a cedere il posto, in futuro, a un terzo tipo di società, nel quale la vita sociale non sarà più subordinata alla produzione ma questa sarà posta al servizio degli individui.La necessità del progresso trovava così, in Spencer non meno che in Hegel (e nell'ultimo Engels), il proprio fondamento in una visione dinamica dell'intera realtà.
La storia dell'umanità - sia essa concepita come il cammino dello "spirito del mondo" verso la coscienza della libertà, o come lo svincolarsi dell'individuo dai rapporti di dominio e di subordinazione e l'allargamento progressivo della sfera dell'iniziativa individuale, o ancora come il passaggio da una società fondata sulla lotta di classe a una società senza classi - diventava la fase terminale, l'ultimo episodio di un processo che affonda le sue radici nello sviluppo del mondo naturale. L'incontro dell'idea di progresso con la filosofia romantica della natura, o con una traduzione della teoria dell'evoluzione in termini metafisici, le conferiva una dimensione 'cosmica' assente nelle sue formulazioni sei-settecentesche. Non più l'umanità soltanto, ma la realtà diventava il soggetto del progresso. E da ciò poteva trarre alimento quella che già nel 1833 Heinrich Heine chiamava la "fede nel progresso", una fede che si contrapponeva alle religioni tradizionali in virtù del suo presunto fondamento 'scientifico'.

6. Trionfo e declino dell'idea di progresso

L'Ottocento è dunque il secolo del trionfo dell'idea di progresso, della sua diffusione e della sua generale accettazione. Ed è anche il secolo in cui essa assume una connotazione politica sempre più marcata. Nel corso degli anni trenta, ma soprattutto in occasione della rivoluzione europea del 1848, il progresso veniva a designare un orientamento politico di carattere riformistico o rivoluzionario, che vuole interpretare le esigenze dell'epoca e adeguare a esse le istituzioni politiche e le strutture sociali. In questo ambito il progresso si definisce in virtù della contrapposizione a termini alternativi: alla conservazione o al ritorno alla società di ancien régime, al mantenimento dello status quo imposto dalla Santa Alleanza dopo la caduta di Napoleone o al 'regresso'. Per tutto il secolo, e ancora nel corso del Novecento, l'idea di progresso verrà impiegata per qualificare posizioni politiche liberali o democratiche o anche socialistiche, per prestare sostegno alla rivendicazione della libertà del cittadino contro il potere dello Stato assoluto e del suo apparato burocratico, e quindi di un governo costituzionale e rappresentativo, oppure alla richiesta di un assetto sociale più giusto. Essa diventerà sinonimo di opposizione alla reazione, all'assolutismo, al permanere dei privilegi feudali, e in seguito al dominio oppressivo della borghesia accusata di far valere una concezione puramente formale della libertà. È significativo il fatto che nel 1851 Proudhon pubblicasse una Philosophie du progrès, e che molte altre opere di quei decenni fornissero, se non una teoria compiuta, almeno delle considerazioni sul tema del progresso.
Pur nella sua indeterminatezza, e nel variare dei contenuti positivi che di volta in volta lo riempivano, il progresso diventerà un termine-chiave del lessico politico, acquistando una carica valutativa dirompente.A questo significato se ne accompagnava spesso un altro, talvolta complementare ma anche concorrente: quello di progresso in senso tecnico e, più latamente, in senso 'materiale'. Il vecchio sogno baconiano dell'instaurazione del regnum hominis, del dominio dell'uomo sulla natura attraverso la scoperta e l'utilizzazione dei suoi processi, sembrava infatti avverato o in procinto di avverarsi. La trasformazione delle tecniche di produzione iniziata con la rivoluzione industriale aveva modificato profondamente, e in meglio, le condizioni di vita degli uomini, almeno nelle regioni centro-occidentali del continente europeo e negli Stati Uniti, mettendo a disposizione risorse nuove e in quantità crescente.
D'altra parte la diffusione della stampa e soprattutto della scolarizzazione elevava il livello educativo medio di questi popoli. Certamente, permanevano tuttora i limiti che Condorcet aveva indicato nel processo di incivilimento: larghi strati sociali vivevano al di sotto o si ponevano poco al di sopra della soglia di povertà, e la loro istruzione doveva ancora fare i conti con un diffuso analfabetismo, mentre intere regioni del globo rimanevano - nonostante il processo di formazione di un mercato mondiale - ai suoi margini. Ma l'accelerazione del ritmo del progresso poteva far bene sperare, aprendo prospettive concrete di un costante aumento della produzione e di una graduale elevazione del tenore di vita.Tuttavia nell'interpretazione del progresso in termini di progresso 'materiale' erano già insite le ragioni della crisi dell'idea di progresso. Il progresso 'materiale' si presentava dissociato dal progresso autentico, quello 'morale', se addirittura non appariva una minaccia per quest'ultimo. L'aumento della produzione, la disponibilità crescente di beni, il miglioramento delle condizioni di vita non comportavano - contrariamente a quanto aveva ritenuto Condorcet - un perfezionamento della natura dell'uomo. Lo aveva già affermato Rousseau nel suo primo discorso, rispondendo negativamente nel 1750 alla questione proposta dall'Accademia di Digione "se il ristabilimento delle scienze e delle arti abbia contribuito a migliorare i costumi": il progresso scientifico e artistico-letterario allontana l'uomo dalla purezza originaria dei costumi dell'umanità, ed è quindi dannoso per la virtù. Perché l'uomo possa salvarsi dalla corruzione attuale occorre far piazza pulita delle istituzioni create dal processo di incivilimento, e sostituirle con un modello alternativo di società.
Rousseau condivideva il presupposto della perfettibilità dell'uomo; ma tra il perfezionamento 'morale' e la strada percorsa dall'umanità nel dar vita a una società fondata sulla diseguaglianza vedeva un'antitesi radicale.Rousseau non negava quindi la possibilità del progresso morale, ma la collegava al recupero della "virtù" offuscata dallo stesso processo di incivilimento, all'instaurazione di una società fondata sul "contratto sociale" e sulla partecipazione di tutti i cittadini alla formazione della volontà generale, nonché a un'educazione "naturale" rivolta a produrre un nuovo tipo di uomo. Sulla base di presupposti differenti, la cultura romantica contrapporrà al progresso scientifico e tecnico il valore dello spirito, di uno spirito collettivo radicato nella peculiare natura di ogni popolo e manifestantesi nel corso del suo sviluppo. E andrà in cerca delle radici storiche del linguaggio come della poesia, esaltando le epoche primitive e rivalutando, contro l'immagine negativa che ne avevano dato Voltaire e Gibbon, il Medioevo. Decisiva a questo scopo è la distinzione, poi trasformatasi in contrapposizione, tra Zivilisation e Kultur: l'accrescimento del sapere scientifico, del patrimonio tecnico, delle risorse disponibili vien fatto rientrare nell'ambito della civiltà, cioè di un processo esteriore e 'meccanico'. A differenza di questa, la cultura non conosce alcun progresso: essa si esprime creativamente in forme 'organiche'.
La cultura trovava così il proprio fondamento nella comunità, mentre la civiltà veniva fatta coincidere con la società intesa come una forma di organizzazione della vita su base meccanica. Questa antitesi sarà enunciata in maniera emblematica nel titolo di uno dei primi testi classici della sociologia contemporanea, Gemeinschaft und Gesellschaft di Ferdinand Tönnies (1887). E ancora all'inizio degli anni venti del Novecento Alfred Weber - nel delineare il programma di una sociologia della cultura - distingueva il movimento culturale, da cui nascono mondi simbolici tra loro eterogenei, dall'incivilimento tecnico-scientifico. Il progresso si collocava sul versante opposto a quello della creazione culturale propria di forme come l'arte, la letteratura, la religione, la filosofia.Parallelamente al diffondersi dell'idea di progresso, la cultura ottocentesca ne sviluppa la critica, sia in sede filosofica che nella letteratura. Un contributo decisivo in tal senso viene dalla diagnosi in termini negativi dell'epoca presente, spesso intrecciantesi con il rifiuto della nascente società industriale e con il vagheggiamento nostalgico della vita contadina, polemicamente contrapposta ai mali dell'urbanesimo, che stava alla base di quella che è stata chiamata l'ideologia 'ruralistica'. Questa critica trovava sostegno in un pessimismo cosmico che nella storia non scorge alcuna razionalità, e neppure un 'senso'.
Già alla vigilia del 1848 Arthur Schopenhauer, in polemica con Hegel, non soltanto respingeva la pretesa di ricondurre la storia a un piano prestabilito, ma relegava al dominio dell'apparenza la diversità dei fenomeni storici, contrapponendo a essa l'identità della volontà che è alla radice dell'agire degli uomini. Ma la critica al progresso trovava alimento anche in due altri filoni: da un lato nella polemica antirivoluzionaria, nella denuncia degli errori della Rivoluzione francese, che ne investiva i presupposti ideologici, dall'altro nella constatazione delle condizioni di miseria delle masse operaie, esposte alle ricorrenti crisi economiche.La vera svolta verrà però intorno al 1870, quando la società di massa comincerà a mostrarsi anche nei suoi aspetti più apertamente negativi. Nelle Weltgeschichtliche Betrachtungen, scritte tra il 1868 e il 1873, Jakob Burckhardt sottolineava il carattere unico della 'crisi' contemporanea, e lo attribuiva appunto alla spinta verso l'eguaglianza di cui le masse sono portatrici: il futuro si presentava perciò gravido di pericoli. Non il progresso ma la decadenza, la perdita dei valori sui quali la società si era retta nel passato, gli appare l'esito inevitabile del processo di democratizzazione. Pochi anni dopo Friedrich Nietzsche, nel tracciare la genealogia della morale, riprenderà radicalizzandola tale diagnosi. L'avvento di una società democratica comporta il livellamento degli individui, la loro riduzione alla mediocrità; essa rappresenta l'ultima fase di quel processo di sostituzione di una "morale da schiavi" alla "morale da signori" che è stato inaugurato dal cristianesimo con la sua predicazione dell'umiltà e della rinuncia, e che ha fatto sì che in tutta Europa si affermasse una morale del gregge. Lungi dall'essere contrassegnata dal progresso, la storia ha condotto alla perdita dei valori originari dell'uomo, che sono quelli della società aristocratica e della sua "volontà di potenza"; è cioè decadenza.
E se di progresso si vuol ancora parlare, allora lo si deve concepire in rapporto alla volontà di potenza, vale a dire come un "cammino inteso a una più grande potenza [...] a spese di innumerevoli potenze più piccole", come sacrificio dell'umanità in funzione del fiorire di "una singola specie umana più forte". Come già per Schopenhauer, anche per Nietzsche non è possibile parlare di un progresso nel senso di un'evoluzione dell'umanità verso uno stato migliore o più elevato, già per la ragione che l'umanità, in quanto tale, non esiste: quelli che esistono sono i singoli individui con i loro bisogni e con le loro aspirazioni, dettate dalla volontà di potenza. L'idea di progresso gli appariva "un'idea moderna, cioè un'idea falsa"; e per dimostrarne la falsità poneva in luce l'inferiorità dell'uomo d'oggi rispetto all'uomo del Rinascimento. In termini più generali, uno sviluppo non può essere inteso come "elevazione, potenziamento, consolidamento"; lo diventa soltanto quando riesce a produrre un tipo superiore di uomo, il che è precisamente il contrario di quanto sta avvenendo nel mondo contemporaneo. Come l'uomo non rappresenta un progresso rispetto all'animale - sosteneva Nietzsche in un frammento della primavera 1888 - così l'avvento del cristianesimo costituisce una decadenza nei confronti della cultura antica; in quanto alla Rivoluzione francese, essa ha addirittura distrutto la possibilità stessa della società. La critica della democrazia e della società di massa metteva così capo al rifiuto dell'idea di progresso. E all'inizio del nuovo secolo, nel 1908, Georges Sorel dedicherà un libro a denunciare Les illusions du progrès, smascherando l'idea del progresso come prodotto dell'ideologia borghese.Questa critica è stata largamente ripresa dalla filosofia del Novecento, la quale ha il più delle volte rifiutato in modo esplicito l'idea del progresso, contrapponendo a essa una visione ciclica della storia o la prospettiva di una decadenza inevitabile, destinata a sfociare - secondo la formula di Oswald Spengler - nel "tramonto dell'Occidente".
Su tale rifiuto ha pesato in maniera decisiva la prima guerra mondiale, e dopo di essa la diffusa consapevolezza di una crisi della civiltà, o per lo meno della civiltà europea. E questa consapevolezza è spesso sfociata nella critica della società industriale, che nel progresso tecnico ha visto non già un fattore di maggiori possibilità per l'esistenza umana ma un processo di disumanizzazione, spesso combinandosi con la polemica contro la modernità. Da postulato interpretativo del processo storico o da parola d'ordine il progresso è perciò diventato sempre più un mito, un mito per un verso ingannevole e per l'altro verso pericoloso.

7. Tentativi di concettualizzazione

Non sono mancati, nel corso dell'Ottocento, i tentativi di tradurre l'idea di progresso in un concetto definito attribuendo a esso un ruolo strategico all'interno della sociologia o dell'antropologia. Per Comte il progresso è, insieme all'ordine, uno dei due concetti-chiave della "fisica sociale"; come la statica sociale è una dottrina dell'ordine, così la dinamica sociale è una dottrina del progresso. Per Spencer il progresso è sinonimo di evoluzione; e lo è, in maniera peculiare, a livello dell'evoluzione superorganica, dove il passaggio dal tipo militare al tipo industriale di società, e da questo a un tipo ancora incipiente che segnerà l'inversione del rapporto tra lavoro e vita sociale, si presenta come un processo chiaramente 'progressivo'. E alla sociologia di Spencer, variamente combinata con la teoria darwiniana, si richiamerà spesso la prima generazione dei sociologi americani. Non diversamente per Lewis Henry Morgan l'evoluzione della cultura umana dallo stato selvaggio alla barbarie, e da questa alla civiltà, comporta un progresso costante che, seppure limitato finora a due grandi famiglie dell'umanità - quella dei popoli semitici e quella dei popoli ariani - è però destinato a investire le popolazioni rimaste ancora indietro nel processo evolutivo.
Come per Spencer, evoluzione e progresso sono, in fondo, sinonimi.La sociologia di Comte, al pari di quella di Spencer, era però soprattutto una teoria generale della società, a metà strada tra filosofia e analisi scientifica, e - per quanto riguarda il processo di trasformazione in atto - tra interpretazione e utopia della società industriale. In questo contesto anche la nozione di progresso non poteva che risultare quanto mai generica, nonostante lo sforzo compiuto da Spencer per definirla in termini di differenziazione e di integrazione di strutture e di funzioni all'interno del corpo sociale. Si può quindi comprendere come lo sviluppo della sociologia a partire dagli ultimi decenni dell'Ottocento - a partire, cioè, da Tönnies e da Durkheim - conducesse al suo graduale abbandono. Nell'antropologia, poi, essa veniva coinvolta nella crisi dell'impostazione evoluzionistica, sostituita dal riconoscimento dell'individualità delle singole culture e dallo sforzo di descriverne le caratteristiche specifiche. All'inizio del XX secolo il progresso come indicazione del 'senso' complessivo dello sviluppo della società e della cultura umana aveva ormai perduto diritto di cittadinanza nell'ambito delle scienze sociali.Nel 1917, in un saggio dedicato al problema dell'avalutatività delle scienze sociali, Max Weber affrontava anche il problema della legittimità dell'uso della nozione di progresso. E la sua analisi metteva in luce la natura inevitabilmente valutativa di questa nozione, se impiegata per asserire non soltanto un "progredire nella differenziazione" ma anche un accrescimento di valore nel corso di un determinato processo. Con riferimento soprattutto alla storia dell'arte e della musica, Weber concludeva che l'unico significato legittimo di progresso nelle scienze sociali è quello di progresso tecnico, comportante una crescente disponibilità di 'mezzi' per la soluzione dei problemi che l'artista o il musicista si trova ad affrontare nel corso della sua creazione. Inferire dal progresso della tecnica artistica o musicale un progresso dell'arte o della musica, in termini di 'valore' dell'opera prodotta, risulta perciò del tutto arbitrario: opere prodotte con una tecnica primitiva possono infatti risultare di eguale o anche di superiore dignità estetica rispetto a opere che si avvalgono di una raffinata tecnica razionale. E un'analoga conclusione vale, per Weber, anche a proposito della filosofia. Ma se l'accresciuta razionalità dei mezzi non comporta né si accompagna a un accrescimento di valore, le scienze sociali possono parlare di progresso soltanto in senso tecnico. Solamente il progresso tecnico, misurabile in termini di adeguatezza dei mezzi rispetto a determinati fini, può essere infatti oggetto di constatazione empirica.Weber perveniva in tal modo a delimitare la portata della nozione di progresso, contestualizzandola e collegandola nello stesso tempo a qualche criterio che ne consentisse la misurazione. Il progresso cessava così di designare la direzione della storia dell'umanità; perdeva cioè quel carattere globale che ne aveva contrassegnato fin allora il significato. Esso veniva a indicare un processo all'interno di un ambito determinato, definito per lo più mediante 'indicatori' quantitativi o suscettibili di essere quantificati. Non a caso il termine richiedeva, se impiegato in senso positivo, di essere qualificato con un aggettivo che ne specificasse appunto il campo di riferimento.
Così è avvenuto, in primo luogo, per il progresso tecnico o - com'è stato di preferenza chiamato - tecnologico, che è stato analizzato in termini di scoperta e di diffusione di nuove tecnologie rese possibili dallo sviluppo della ricerca scientifica. Ma, rispetto alla tradizionale visione di un'accumulazione continua di sapere e quindi di tecniche, tale analisi ha posto in rilievo la discontinuità del processo di innovazione, la compresenza di settori produttivi 'maturi' e di altri in sviluppo, l'alternarsi di periodi di sviluppo e di periodi di stasi. Analogamente, la storia della scienza ha sostituito alla visione di un sapere sempre progrediente quella di uno sviluppo discontinuo che si attua mediante 'rivoluzioni', cioè mediante mutamenti di paradigmi che subentrano quando la concezione precedente si rivela inadeguata o incapace di risolvere le difficoltà incontrate, e ai quali fa seguito, una volta compiuta la 'rivoluzione', un periodo più o meno lungo caratterizzato dal permanere del nuovo paradigma, cioè un periodo di 'scienza normale'. Ciò ha condotto al graduale abbandono del concetto di progresso e alla sua sostituzione con concetti più neutrali, meno carichi di implicazioni valutative, quali quelli di mutamento o di sviluppo. Così si parla ormai non più di progresso ma di mutamento tecnologico, contrassegnato da un lato dalla trasformazione dei metodi di produzione, ossia da quella che è stata chiamata l'innovazione di processo, e dall'altro dalla creazione di nuovi prodotti, ossia dall'innovazione di prodotto. Il carattere 'progressivo' di tale mutamento appare perciò dipendere dalla massa e soprattutto dall'importanza delle innovazioni che si affermano in uno o più settori produttivi, innovazioni che possono essere - e di solito sono - di carattere settoriale, oppure possono rappresentare un 'salto' che investe l'intero apparato produttivo, com'è avvenuto nel caso dell'introduzione dell'elettronica e dell'informatica.
Anche nella letteratura economica il concetto di progresso è stato sempre più sostituito da altri, in particolare da quelli di sviluppo o di crescita, che si prestavano a essere ricondotti a indici quantitativi come quelli di reddito pro capite o di reddito globale di un paese. Se ancora nel 1940 Colin Clark poteva dare a un suo libro il titolo di Conditions of economic progress, nel secondo dopoguerra la letteratura economica internazionale tendeva sempre più a parlare, in modo spesso interscambiabile, di growth o di development: così Walt W. Rostow pubblicava nel 1952 The process of economic growth e nel 1960 The stages of economic growth. Nella sua neutralità, spesso tuttavia pregiudicata dall'assunzione acritica del modello occidentale di sviluppo, il nuovo termine si prestava a usi plurimi: da un lato si contrapponeva alla stagnazione o al declino di un'economia 'matura', dall'altro trovava la sua antitesi nel sottosviluppo di paesi non ancora pervenuti all'industrializzazione o che si trovavano soltanto alla soglia di essa. Ma, soprattutto, il ricorso alla nozione di sviluppo appariva compatibile con la teoria dei cicli economici, qual era stata formulata da Schumpeter. Lo stesso Schumpeter, del resto, aveva fin dal 1912 elaborato una teoria non del progresso ma dello sviluppo economico, caratterizzando quest'ultimo sulla base di un processo di innovazione che, sorto all'interno di un determinato settore produttivo, si diffonde poi anche negli altri trasformando l'intero apparato produttivo e quindi l'economia complessiva di un paese, se non addirittura - com'era accaduto nella rivoluzione industriale - del mondo. Il collegamento tra lo sviluppo economico e l'esistenza di cicli di durata più o meno ampia consentiva di individuare, all'interno di ogni ciclo, periodi di crescita e periodi di congiuntura negativa, e di far posto alle crisi ricorrenti nel sistema economico.
Così lo sforzo per tradurre l'idea di progresso in un concetto utilizzabile dalle scienze sociali ha finito - contrariamente all'intento perseguito dalla sociologia e dall'antropologia ottocentesche - per condurre all'abbandono di quel concetto; e ciò proprio per il carattere di continuità (e di irreversibilità) che lo connotava. Di progresso si parla ancor oggi, in verità, soprattutto nel lessico politico, per designare la conquista di una misura crescente di libertà, o l'estendersi dei diritti riconosciuti all'individuo, o ancora l'acquisizione di un maggiore grado di giustizia e di sicurezza sociale. Ma si tratta, appunto, di un uso ideologico o, se si vuole, filosofico del termine, che per quanto diffuso nel linguaggio comune si colloca al di fuori del terreno delle scienze sociali.

Dizionario di Storia (2011)

di Giuseppe Bedeschi

progresso

Il progresso

Nel Settecento e nell’Ottocento la cultura occidentale ha nutrito, con poche eccezioni, una ferma fede nel progresso: essa ha creduto, cioè, che il cammino della civiltà europea fosse un cammino ascendente e inarrestabile, che avrebbe accumulato conquiste (non solo scientifiche e tecniche, ma anche morali e politiche) sempre più elevate, che avrebbero configurato prima o poi una sorta di età perfetta e definitiva. Secondo questa concezione prometeica, l’umanità occidentale non avrebbe incontrato ostacoli insuperabili a conclusione della sua millenaria avventura.

Nel Settecento l’idea di progresso si impone largamente grazie a Voltaire, R.-J. Turgot e M.-J.-A. Condorcet. Per Voltaire la storia registra una successione di tre epoche o condizioni di vita dell’umanità: lo stato selvaggio, la barbarie, la civiltà. Per Turgot, essendo il progresso del sapere umano illimitato, anche i costumi sarebbero progrediti senza sosta e tali costumi superiori si sarebbero diffusi in tutti gli strati sociali. Per Condorcet (Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain, del 1793, ma pubblicato dopo la sua morte) il futuro dell’umanità è caratterizzato sempre più dalla distruzione della disuguaglianza tra le nazioni, e anche della disuguaglianza al loro interno, sicché i «lumi» si sarebbero estesi a tutti i popoli e a tutte le classi sociali».

Nell’Ottocento l’idea di progresso si rafforza, costituisce il fulcro di alcune importanti dottrine e finisce per dominare quasi tutte le manifestazioni della cultura occidentale. Una tipica concezione della storia come progresso continuo è quella di G.W.F. Hegel, che tanto influsso ha esercitato sulla cultura europea e secondo il quale, per intendere davvero la storia il pensiero umano deve servirsi essenzialmente di tre categorie. La prima è quella del mutamento, poiché «noi vediamo un enorme quadro di eventi e di azioni, d’infinitamente varie formazioni di popoli, Stati, individui, in un succedersi instancabile». Certo, questa idea del mutamento ci arreca dolore, e non può non deprimerci il fatto che la formazione più ricca, la vita più bella, trovino nella storia il loro tramonto. «Tutto appare caduco, nulla stabile. Ogni viaggiatore ha sentito questa malinconia. Chi avrebbe potuto fermarsi tra le rovine di Cartagine, Palmira, Persepoli, Roma, senza essere mosso a considerazioni sulla caducità dei regni e degli uomini, a rimpianto per la forte e ricca vita di un tempo?» Senonché, questo rimpianto è attenuato dal fatto che alla categoria del mutamento è connessa anche l’idea che dalla morte sorge nuova vita. Hegel richiama l’immagine della fenice, «della vita naturale che eternamente prepara a sé il suo rogo e vi si consuma, in modo che dalla sua cenere eternamente risorga, nuova giovane e fresca, la vita». Da questo processo lo spirito riappare più alto e come trasfigurato. Nel senso che «esso insorge, certo, contro se stesso, distrugge la forma che aveva assunta e si eleva così a una costituzione nuova. Ma, spogliandosi della veste della sua esistenza, non solo esso passa in un’altra veste, ma esce come spirito più puro dalla cenere della sua precedente forma». Qui ci appare la seconda categoria dello spirito: il ringiovanimento. Essa sta a significare che, nel passaggio da una forma all’altra, lo spirito non distrugge solo una vecchia forma per crearne una nuova, ma, con ciò, realizza una sorta di catarsi, una «rielaborazione di sé». Adempiendo il suo compito, lo spirito si crea nuovi compiti, moltiplicando la materia del suo lavoro. Questa considerazione ci conduce alla terza categoria, quella della ragione stessa, la quale è in continuo movimento, crea e distrugge per creare di nuovo, e domina il divenire storico.

In che senso la ragione domina il divenire storico? Nel senso che la storia è storia di popoli, i quali, proprio come gli individui, nascono, crescono, invecchiano e muoiono. Quando un popolo raggiunge il punto più alto del proprio vigore, esprime un principio, una forma di vita sociale ed etico-politica, una civiltà. Esprimere questo principio è stata la sua funzione nella storia del mondo. Ma, una volta che abbia espresso tale principio in tutta la sua intensità e ricchezza, quel popolo ha esaurito il proprio compito e si avvia verso l’esaurimento delle proprie forze vitali, verso il proprio tramonto. Non è detto che quel popolo muoia immediatamente (si pensi a Cartagine), la sua morte può manifestarsi sotto forma di nullità politica. Comunque, esso non ha più un ruolo da protagonista, ruolo che passa a un altro popolo, «e così ha luogo un processo, un sorgere, un avvicendarsi dei principi dei popoli». Ma questo processo è ascendente: procede cioè dal principio di un popolo al principio superiore di un altro popolo, che comprende in sé tutte le conquiste, tutti i principi dei popoli precedenti (nulla va perduto nella storia), ma in una sintesi nuova e più ricca, cioè, appunto, superiore. Ed è un processo non solo ascendente, ma tendente anche a una meta, a un fine ultimo. Il fine della storia del mondo, infatti, è che lo spirito universale giunga al sapere di ciò che esso è veramente, cioè raggiunga la piena consapevolezza di sé, in quanto libertà. Nel mondo orientale uno solo era libero; nel mondo greco-romano solo alcuni erano liberi; nel mondo cristiano-germanico tutti sono liberi e sono consapevoli di esserlo. Ma per giungere a questo risultato, per toccare questa meta, è stato necessario un lungo e aspro cammino, scandito in momenti distinti, secondo modi o forme, incarnatisi nei diversi popoli, questi attori della storia universale.

In Die deutsche Ideologie (1845) K. Marx sferra un duro attacco alla filosofia hegeliana della storia. Hegel, dice Marx, ha potuto concepire la storia come dominio delle idee (o dei vari principi che stanno a fondamento dei vari popoli e delle varie epoche storiche), perché ha separato le idee dominanti dai loro portatori, le classi dominanti, nonché dai rapporti che sono propri di un dato stadio della produzione. Dopo aver fatto ciò, Hegel ha messo un ordine ideale in quelle idee e le ha considerate come autodeterminazioni dell’«autocoscienza». Marx invece, per intendere la storia, parte dalla produzione materiale della vita, cioè dai rapporti di produzione e dai connessi rapporti sociali che sono propri di una certa società, e poi studia la «sovrastruttura», cioè il complesso delle istituzioni giuridico-politiche e delle ideologie che sono state generate da quei rapporti economico-sociali. La successione dei vari modi di produzione e delle varie società perde così ogni finalismo storico. Apparentemente. Dico apparentemente, perché, a veder bene, il tipo di considerazione storica che Marx delinea in Die deutsche Ideologie (e in tutte le sue opere) può essere definito a buon diritto «dialettico» (nel significato hegeliano di questa parola). E infatti tutto lo sviluppo storico appare a Marx come «una serie coerente di forme di relazioni, la cui connessione consiste in questo, che al posto della forma di relazioni precedente, divenuta un intralcio, viene sostituita una nuova, corrispondente alle forze produttive più sviluppate, […] e questa forma a sua volta diventa poi un intralcio e quindi viene sostituita con un’altra». Al centro dello sviluppo storico, quale suo «motore» fondamentale, è dunque la dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione (o «forme di relazioni»). A causa di continui accrescimenti quantitativi, le forze produttive di una società entrano a un certo punto in contraddizione con i rapporti di produzione, e ciò determina una fase di rivoluzione e il passaggio a un organismo economico-sociale qualitativamente diverso.

In questa concezione marxiana dello sviluppo storico come «serie coerente di forme di relazioni», è evidente il motivo dialettico. Ma esso si manifesta anche nel fatto che la successione storica dei vari organismi sociali procede dall’inferiore al superiore. La nuova società che si afferma è per Marx sempre superiore a quella che l’ha preceduta, poiché corrisponde «alle forze produttive più sviluppate e quindi al modo più progredito di manifestazione personale degli individui». Inoltre, tale sviluppo da un organismo sociale inferiore a uno superiore, per Marx (come già per Hegel) tende inevitabilmente a un fine, a uno stadio ultimo e assoluto: mentre infatti tutte le società passate erano fondate sul dominio dell’uomo sull’uomo (schiavismo, servitù della gleba, sfruttamento del lavoro salariato), la società comunista abolisce ogni forma di dominio, sopprime tutte le classi e realizza una completa eguaglianza, ovvero una comunità di eguali che, per la prima volta nella storia, prende sotto il proprio controllo le proprie condizioni di esistenza. La concezione marxiana della storia è dunque interamente basata sull’idea di progresso.

La convinzione che le nazioni occidentali siano sicuramente avviate a un avvenire di progresso e di felicità, è presente anche nella filosofia «positiva» francese. C.-H. Saint-Simon è convinto che alla fine del Settecento e nei primi decenni dell’Ottocento l’Europa sia entrata in una grande crisi storica, dovuta al passaggio da un’età a un’altra, da una civiltà a un’altra, da una società a un’altra, ovvero dal sistema feudale e teologico al sistema industriale e scientifico. Finché il sistema feudale-militare fu in pieno vigore, la società fu organizzata in un certo modo, perché essa aveva uno scopo chiaro e definito, quello di esercitare una grande azione bellica; tutte le parti del corpo politico erano coordinate a questo scopo. Ma poi il sistema feudale-militare entrò in un processo di decadenza, e nel suo seno si svilupparono pian piano, ma inesorabilmente, le nuove forze dell’industria, del commercio, della banca. Queste forze avevano ormai preso il sopravvento nella società, e il loro obiettivo legittimo era quello di dirigerla, ovvero di assumerne il governo.

Tale passaggio dal sistema militare e teologico al sistema industriale e scientifico viene concepito da Saint-Simon come assolutamente necessario: è il progresso ineluttabile della storia che spinge in questa direzione. Egli dice infatti: «Ora, non ho paura di affermarlo arditamente, per chiunque abbia osservato con attenzione il cammino della civiltà, appare dimostrato in pieno che il sistema verso cui il genere umano ha sempre teso fino a oggi nell’Europa occidentale, quello che deve oggi sostituire il regime feudale e teologico, è il sistema industriale e scientifico; vale a dire quello che stabilirà un nuovo potere temporale affidato ai capi dei lavori dell’agricoltura, della produzione industriale e del commercio, e un nuovo potere spirituale affidato agli scienziati».

Un disegno molto simile di filosofia della storia fondato sull’idea di progresso si trova in A. Comte, che di Saint-Simon fu discepolo e collaboratore. Per Comte lo spirito umano ha una storia evolutiva scandita in tre stadi, i quali corrispondono a tre diversi atteggiamenti mentali, ma ai quali corrispondono altresì tre diversi tipi di società, di organizzazione sociale e politica. Nel primo stadio, che è quello teologico, gli uomini spiegano i fatti che osservano in base a elementi inventati, cioè ricorrendo ad alcune idee soprannaturali (dei o demoni). Nel secondo stadio, che è quello metafisico, gli uomini collegano i fatti a «idee che non sono più completamente soprannaturali e non sono ancora interamente naturali» (si pensi alle dottrine giusnaturalistiche). Nel terzo stadio, che è quello positivo o scientifico, «i fatti vengono collegati in base a idee o leggi generali di carattere completamente positivo, suggerite o confermate dai fatti stessi, e che sovente sono semplici fatti abbastanza generali per diventare dei principi» (così procedono l’astronomia e la fisica moderna).

Come abbiamo detto, a questi tre stadi mentali corrispondono tre grandi tipi di organizzazione sociale che si sono succeduti nella storia (sicché la legge dei tre stadi è a tutti gli effetti una vera e propria legge dello sviluppo storico): «tre grandi epoche, o stadi di civiltà, che presentano un carattere perfettamente distinto sia sotto l’aspetto temporale sia sotto quello spirituale». Si tratta dell’«epoca teologica e militare», dell’«epoca metafisica e giuridica», e dell’«epoca scientifica e industriale». In quest’ultima il potere è esercitato dagli scienziati e dagli industriali, e i conflitti tra lavoratori e industriali trovano composizione grazie al prevalere dello «spirito d’insieme», che caratterizza la nuova guida politica imbevuta di filosofia positiva. L’epoca scientifica e industriale è dunque la fase suprema tanto dello sviluppo mentale dell’umanità quanto del suo sviluppo sociale e politico. I tre stadi costituiscono quindi un processo necessario e ascendente, un progresso intellettuale, sociale e politico, che tende ineluttabilmente alla propria meta.

Questa fede nel progresso continuo della storia umana viene meno nella cultura europea alla fine dell’Ottocento e nel Novecento. La figura esemplare di questa nuova temperie culturale è quella di F.W. Nietzsche: per lui tutta la storia occidentale a partire dal cristianesimo, fino all’affermarsi della democrazia con la Rivoluzione francese e al dilagare del socialismo, è un processo di decadenza e di involuzione: alla vita terrena viene contrapposta la vita celeste; alle grandi individualità eroiche, ai superuomini, vengono contrapposti i deboli, gli sconfitti, i derelitti; agli «uomini d’eccezione», ai «dominatori» vengono contrapposte le «masse», mediocri e anonime. La società industriale democratica, plasmata dalla Rivoluzione francese e dal socialismo, è appunto il regno delle «masse» e la scomparsa di una vera vita eroica. Ma soprattutto O. Spengler, nel suo Die untergang des Abendlandes (il cui primo volume apparve nel 1918, riscuotendo un enorme successo in Germania, e non solo), ha espresso l’idea che le civiltà sono organismi che, come nascono, crescono e vigoreggiano, così decadono, invecchiano e muoiono: un’idea, questa, che, come sappiamo, era stata espressa anche da Hegel, solo che per Spengler non c’è nessun rapporto fra le varie civiltà (anche se esse attraversano analoghi cicli di sviluppo), e la nostra civiltà europea è sul punto di estinguersi. Essa si trova (come tutte le civiltà che hanno esaurito il loro corso) in una fase di Zivilisation: la religione è scomparsa, e ciò determina il tracollo di tutti i valori del passato; all’anima, ormai morta, è subentrato l’intelletto come putrefazione dell’anima; nella democrazia il popolo si è ormai dissolto in una massa amorfa e manipolata; la politica non dirige più l’economia ma è subordinata a essa; il denaro è divenuto la suprema potenza della società.

Ma anche pensatori che, a differenza di Nietzsche e di Spengler, si richiamano a valori umanistici, esprimono la convinzione che la civiltà occidentale sia giunta a un punto di non ritorno. Così M. Weber, che vedeva il processo di burocratizzazione/razionalizzazione proprio della nostra civiltà culminare in una «gabbia d’acciaio», che uccide qualunque spontaneità e quindi ogni creatività. V. Pareto, a sua volta, rifiutava tutte le filosofie della storia, sia quelle ispirate dall’idealismo sia quelle ispirate dal materialismo storico. L’unica cosa che la storia ci mostra, egli diceva, è la successione delle élite, la loro continua trasformazione, la loro decadenza, la loro scomparsa (più o meno rapida, più o meno violenta). Questa successione di élite non è regolata da nessuna legge storica, da nessuna scansione dialettica; in essa si manifesta solo una sorta di «moto ondoso», nel senso che le varie élite si formano, vigoreggiano, si decompongono e ricadono come le onde del mare. Era una visione sconsolata, quella di Pareto, ma che si sarebbe manifestata anche in pensatori che per interi decenni erano stati gli alfieri dell’idea del progresso storico. È il caso di B. Croce, che a lungo aveva sostenuto che la decadenza non può essere mai assunta dallo storico a oggetto di indagine, in quanto essa, a ben vedere, non esiste. Certo, le opere degli uomini, le loro creazioni e costruzioni, decadono e muoiono, ma, in quello stesso momento, cominciano già a delinearsi nuove opere, nuove creazioni e costruzioni umane. La storia degli uomini passa quindi da un’opera all’altra, da una creazione all’altra, da una costruzione all’altra, e quella che a un osservatore superficiale può apparire come decadenza, è solo il passaggio dal vecchio al nuovo, da ciò che sta per perire a ciò che sta per nascere. Le varie età, le varie civiltà hanno trasmesso ciascuna le proprie conquiste e i propri problemi irrisolti, alla successiva, in una scansione senza fine, in cui nulla di vero e di importante è andato mai perduto. Senonché, negli ultimi anni della sua riflessione, si impose al vecchio filosofo una visione assai diversa: «talvolta – egli scrisse – popoli civili si imbarbariscono, si inselvatichiscono, si animalizzano o ridiventano bestie feroci, e tornano nella natura». Era quindi una illusione che «la civiltà umana sia la forma a cui tende e in cui si esalta l’universo, e che la natura le faccia da piedistallo»; da questa illusione bisognava passare a una visione assai diversa (anche se ciò «richiedeva uno sforzo penoso»): a quella della civiltà umana «come il fiore che nasce sulle dure rocce e che un nembo avverso strappa e fa morire […]». Il fatto è, diceva Croce, che c’è in noi un «Anticristo, distruttore del mondo, godente della distruzione, incurante di non potere costruire altro che non sia il processo sempre più vertiginoso di questa distruzione stessa, il negativo che vuol comportarsi come positivo ed essere come tale non più creazione ma, se così si potesse dire, dis-creazione». L’Anticristo preparava una età di «impoverimento», di «imbarbarimento», di «inselvatichimento», di «fremente bellum omnium contra omnes». Questa conclusione drammatica e sconsolata si imponeva al vecchio filosofo dopo due guerre mondiali e dopo orrendi regimi totalitari che, nel corso del Novecento, avevano perpetrato strazianti genocidi.