Fenomeno

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1. Il concetto filosofico

Il termine f. (ϕαινόμενον) si incontra nella filosofia greca già in Anassagora, e poi anche in Platone e Aristotele con il significato di ‘ciò che si manifesta ai sensi’. Ma mentre in Anassagora indicava, in senso positivo, l’opporsi di ciò che appare ai sensi a ciò che a essi resta nascosto, in Platone esso assunse un senso piuttosto negativo per il suo opporsi al ‘vero essere’ che si manifesta non ai sensi ma al pensiero. Aristotele, ispirandosi al concetto astronomico di f. come ‘apparizione del cielo’, elaborato da astronomi come Eudosso di Cnido e da Arato, sostenne che la scienza naturale deve attenersi al f. che anzi ha lo scopo di spiegare, e quando la teoria contraddice o ‘sorpassa’ il f., deve essere respinta. Questo principio empiristico dell’attenersi a ‘ciò che si manifesta ai sensi’, cioè al f., fu assunto da Aristotele a principio di tutte le scienze, compresa l’etica. Un significato centrale assunse il concetto di f. nello scetticismo, per il quale esso indica la ‘rappresentazione soggettiva’ di un oggetto, variabile da individuo a individuo, il puro e semplice essere affetti dalle cose attraverso i sensi che definisce l’orizzonte di ciò che possiamo conoscere.

Il pensiero tardoantico e medievale mantenne sostanzialmente i significati platonico e aristotelico di f., e solo nel 18° sec., con la ripresa da parte di D. Hume di alcuni temi fondamentali dello scetticismo antico, esso assunse un ruolo di primaria importanza nel dibattito filosofico. La nozione di f. si legò sempre più al processo della conoscenza umana diventandone l’oggetto specifico, dipendente dalle condizioni della struttura conoscitiva dell’uomo. Particolarmente importante a questo riguardo la distinzione proposta da I. Kant fra le cose considerate come f., cioè conosciute secondo le forme pure della sensibilità (spazio e tempo) e le categorie a priori dell’intelletto, e le cose considerate come ‘in sé’ o ‘noumeni’, cioè come puramente intelligibili, pensate secondo i principi della ragione, al di là di ogni esperienza possibile.

Importante è anche il ruolo che la nozione di f. svolge nella filosofia contemporanea, e in particolare, nella fenomenologia , dove essa significa non più soltanto ciò che l’uomo può conoscere sotto determinate condizioni, ma indica l’immediato e diretto manifestarsi della cosa all’intuizione, il ‘rivelarsi’ della sua essenza che consegue al processo di ‘riduzione’ fenomenologica.

2. Fenomenismo

Il fenomenismo è la dottrina filosofica secondo cui l’ambito della conoscenza umana non oltrepassa quello dei f., attuali o possibili, e delle loro relazioni. Qualora questi ultimi vengano concepiti come ciò in cui tutta la realtà si esaurisce, il fenomenismo assume anche una valenza ontologica. Così, se D. Hume è un fenomenista ontologico poiché riduce la realtà a impressioni e idee nella mente, I. Kant è un fenomenista gnoseologico, in quanto esclude la conoscibilità di ciò che va al di là dei f., la ‘cosa in sé’, pur ammettendone l’esistenza. J.S. Mill tentò di risolvere il problema principale del fenomenismo ontologico (quello della permanenza delle cose in assenza di una loro percezione) dichiarando che la realtà è un insieme di possibilità permanenti di sensazione. Nel 20° sec. una formulazione rigorosa si ebbe con l’empiriocriticismo di E. Mach il quale, ripudiata la ‘cosa in sé’, ricondusse ogni concetto scientifico alle sensazioni. Sulla stessa linea, nell’opera Der logische Aufbau der Welt (1928), R. Carnap ha avanzato la tesi della traducibilità delle proposizioni su enti materiali e mentali in proposizioni su dati sensoriali, concependo i primi come costruzioni logiche ottenute dai secondi.

3. Fenomenologia

In filosofia, il termine fenomenologia ha avuto particolare fortuna da quando G.W.F. Hegel intitolò Die Phänomenologie des Geistes (1807) un’opera in cui è descritto il processo attraverso cui lo spirito si eleva dalle forme più elementari di conoscenza alle supreme esperienze conoscitive. Tuttavia per s’intende l’indirizzo filosofico fondato da E. Husserl. Dalle iniziali riflessioni sulla genesi psichica dei concetti matematici, Husserl approdò a un radicale antipsicologismo, ritenendo la psicologia incapace di rendere conto delle nozioni logico-matematiche, le quali, lungi dal ridursi agli eventi psichici reali che li accompagnano nella coscienza e alla loro associazione empirica, sono invece costruzioni ideali, oggetti ideali, che sintetizzano aprioristicamente e condizionano teleologicamente il flusso stesso della coscienza. Questa poi non è il semplice ricettacolo dei dati sensibili reali, ma è intenzionalmente protesa verso un oggetto (sia esso reale o ideale). Secondo questa concezione intenzionalistica (che costituisce il vero cardine della fenomenologia), la coscienza è sempre ‘coscienza di qualche cosa’, che si annuncia ma non si esaurisce nel dato immediato e il cui significato o essenza può essere ugualmente colto in una forma di ‘intuizione eidetica’, che accompagna necessariamente l’intuizione dell’individuo. Una qualsiasi esperienza individuale, per avere una determinazione significativa e diventare possibile oggetto di un discorso, deve rinviare a un piano generico, a un’‘essenza’ rispetto a cui l’individuo diventa un esempio. Le essenze, come configurazioni intenzionali o oggetti ideali della coscienza, possono essere studiate per proprio conto, prescindendo dai fatti concreti (‘riduzione eidetica’), per determinare e descrivere ciò che resta in essi invariante, e che esprime pertanto la struttura intrinseca necessaria delle essenze medesime. Una scienza integrale delle essenze non è possibile se non quando, attraverso un’opportuna operazione mentale o trasformazione del nostro atteggiamento naturale, si metta a nudo la vita pura, spontanea, intenzionale della coscienza. Questa operazione è la riduzione fenomenologica , la quale rappresenta una messa in parentesi del mondo ( epochè), una neutralizzazione di tutte le nostre credenze naturali e interessi pratici: non si tratta di dubitare dell’esistenza del mondo (come nel dubbio metodico cartesiano), ma solo di prescinderne, di sospendere ogni giudizio o asserzione nei suoi riguardi. La vita della coscienza non è così soppressa, ma si manifesta allo stato puro, nella sua intenzionalità costitutiva (coscienza trascendentale), nell’infinita trama delle sue possibilità: non sappiamo cosa ci sia nel mondo reale (messo in parentesi), ma sappiamo cosa significherebbe l’esserci o il presentarsi di determinati oggetti.

La fenomenologia, intesa in questo senso, si propone l’esplorazione sistematica della coscienza trascendentale, delle varie possibilità coscienziali, atteggiamenti, modi, collegamenti sintetici ecc., e diventa al tempo stesso lo studio dell’a priori universale (formale e materiale) della scienza. Il limite dell’apriorismo kantiano è di essere formale: modellato su determinate scienze, non ha la possibilità di concepire la conoscenza che sul loro esclusivo modello. Lo studio dall’a priori deve invece rivendicare la sua piena autonomia sulla base della riduzione fenomenologica e dell’analisi intenzionale. La fenomenologia, così intesa, non è più semplicemente descrittiva, ma diventa costitutiva e si configura come ‘scienza universale della soggettività trascendentale’.

La fenomenologia di Husserl ha esercitato un influsso larghissimo sulla filosofia contemporanea, in particolare su certe correnti dell’esistenzialismo e della psicologia. Alle esigenze esplicative della scienza tradizionale, la fenomenologia contrappone l’esigenza descrittiva e comprensiva, che deve svolgersi in maniera autonoma, senza preoccupazioni esplicative estrinseche. Non vi è un unico tipo di evidenza, perché le cose non si presentano tutte nello stesso modo, e il modo in cui esse si rivelano a noi dipende dal modo in cui noi ci disponiamo verso di esse. Lo studio della vita intenzionale della coscienza è quindi ritenuto indispensabile anche per quanto concerne i nostri rapporti o contatti con la realtà, e per la concreta edificazione di una scienza che voglia più adeguatamente conformarsi alla natura della realtà da conoscere. Questi motivi metodologici si sono mostrati operanti anche al di fuori della particolare concezione della fenomenologia husserliana.

Con M. Scheler la fenomenologia viene estesa all’analisi dei valori visti come un insieme oggettivo in una successione gerarchica che viene colta da una peculiare intuizione emozionale.

Per M. Heidegger la fenomenologia come ‘scienza dei fenomeni’ significa lasciar parlare i fatti stessi, «lasciar vedere in sé stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta in sé stesso», togliendolo dall’occultamento in cui rischiano di farlo cadere i nostri pregiudizi, per descriverlo in un discorso adeguato (ontologia). Per M. Merleau-Ponty il valore essenziale della fenomenologia consiste nell’aver superato la rigida alternativa cartesiana fra soggettivismo e oggettivismo, e così nell’aver reso possibile un profondo rinnovamento della psicologia, basato sul riconoscimento dell’intenzionalità e del suo ruolo mediatore nella costituzione dell’esperienza.

Dizionario di Filosofia (2009)

Dal gr. φαινόμενον, participio sostantivato del verbo φαίνομαι («mostrarsi»). Ciò che appare o si manifesta ai sensi. In questa accezione il termine fu utilizzato da Aristotele, il quale, in analogia con il concetto di f. come «apparizione del cielo», adottato in astronomia da Eudosso di Cnido e Arato di Soli, ne fece il criterio su cui si fondano le scienze naturali. In un altro senso, il f. come apparenza sensibile si contrappone alla realtà e assume, per es. in Platone, un significato piuttosto negativo proprio per il suo opporsi al «vero essere», che si manifesta non ai sensi ma al pensiero. Per lo scetticismo antico il f. è pura affezione, la «rappresentazione soggettiva» di un oggetto e, come tale, variabile da individuo a individuo: se il f. è f. per noi , non vale interrogarsi circa la sua corrispondenza alla realtà e lo scettico può comportarsi coerentemente solo attenendosi al modo in cui le cose gli appaiono. Se la filosofia medievale non si discosta sostanzialmente dalle elaborazioni di Platone e Aristotele, l’analisi dei f. assume un ruolo centrale nella filosofia a partire dall’epoca moderna, registrando un significativo spostamento di accento: la questione non è più tanto se il f. manifesti o no l’essere reale, quanto piuttosto quella delle condizioni in cui appare l’oggetto specifico della conoscenza umana. Per Hobbes la nozione di f., inteso come «apparenza in generale», perde ogni connotazione valutativa circa la sua realtà o illusorietà per diventare piuttosto l’oggetto possibile della conoscenza umana, alla cui base Hobbes pone la sensibilità: il senso è l’origine di tutte le «apparenze», «poiché non vi è concezione dello spirito umano, che non sia dapprima, in tutto o in parte, generata dagli organi di senso. Il resto deriva da quella origine».

Lungo questa via si muovono sia Locke, con la sua l’indagine sull’estensione e i limiti della conoscenza, sia Hume, con il suo approccio sperimentale alla natura umana, che risolve l’analisi dei f. mentali nei processi psicologici che danno luogo alla credenza.

Sempre lungo la via aperta da Hobbes, Locke e Hume si muovono i teorici del cosiddetto associazionismo psicologico, i quali, rifiutando qualsiasi concezione sostanzialistica della mente, si concentrano sull’analisi dei f. della mente umana (come recita il titolo della principale opera filosofica di James Mill), ricostruendo a partire dai f. semplici della sensibilità la formazione dei f. mentali più complessi, in analogia con i processi della composizione chimica. In una direzione diversa, la collocazione della tematica dei f. nell’ambito dei limiti e delle condizioni della conoscenza assume un ruolo centrale nella filosofia di Kant con la distinzione operata tra le cose considerate come f., cioè conosciute secondo le forme pure spazio-temporali della sensibilità e le categorie dell’intelletto, e le cose in sé o noumeni, puramente intelligibili, cioè pensate secondo i principi della ragione, al di là di ogni esperienza possibile.

Nella filosofia contemporanea, l’elaborazione più rilevante della nozione di f. è quella da cui prende nome la fenomenologia di Husserl. In quella che Husserl presenta come l’autentica scienza filosofica, il f. non significa più soltanto, come per Kant, ciò che l’uomo può conoscere sotto determinate condizioni, ma indica l’immediato e diretto manifestarsi della cosa all’intuizione, il «rivelarsi» della sua essenza che consegue al processo di riduzione fenomenologica, l’operazione di messa in parentesi del mondo, la neutralizzazione di tutte le nostre credenze naturali e interessi pratici. Sviluppando l’impostazione husserliana, Heidegger distingue ulteriormente tra f. e apparenza. Se il f. è propriamente il puro «mostrarsi dell’essere come veramente è», il suo autodisvelarsi nella sua oggettività, l’apparire è piuttosto «un non mostrarsi», un annunciarsi di qualcosa che in realtà non viene alla luce e rimane nascosta.