§28 Storia delle classi subalterne. Di Lucien Herr sono stati pubblicati nel 1932 due volumi di Choix d’écrits
Umanesimo e Rinascimento
§64 Traducibilità delle diverse culture nazionali. Parallelo tra la civiltà greca e quella latina e importanza che hanno avuto rispettivamente il mondo greco e quello latino nel periodo dell’Umanesimo e del Rinascimento.
§70 Rinascimento. Sulla figura e l’importanza di Lorenzo il Magnifico sono da vedere gli studi di Edmondo Rho.
La funzione di Lorenzo è importante per ricostruire il nodo storico italiano che rappresenta il passaggio da un periodo di sviluppo imponente delle forze borghesi alla loro decadenza rapida ecc. Lo stesso Lorenzo può essere assunto come «modello» della incapacità borghese di quell’epoca a formarsi in classe indipendente e autonoma per l’incapacità di subordinare gli interessi personali e immediati a programmi di vasta portata. In questo caso, saranno da vedere i rapporti con la Chiesa di Lorenzo e dei Medici che lo precedettero e gli successero.
Chi sostiene che il Savonarola fu «uomo del Medio Evo» non tiene sufficiente conto della sua lotta col potere ecclesiastico, lotta che in fondo tendeva a rendere Firenze indipendente dal sistema feudale chiesastico. (Per il Savonarola si fa la solita confusione tra l’ideologia che si fonda su miti del passato e la funzione reale che deve prescindere da questi miti ecc.).
Risorgimento, fine Ottocento
§32 Storia del Risorgimento. Polemica tra B. Spaventa e il padre Taparelli della «Civiltà Cattolica» sui rapporti tra Stato e Chiesa.
A proposito dei rapporti tra Stato e Chiesa è da vedere l’atteggiamento del gruppo del «Saggiatore» (nel febbraio 1933 un articolo in proposito, al quale si accenna nella «Critica Fascista» del 1° maggio). La formula della religione «affare privato» è di origine liberale e non propria della filosofia della praxis come crede il collaboratore di «Critica». Evidentemente è una formula politica immediata, che può essere fatta propria come formula di compromesso, in quanto non si vuole scatenare una guerra religiosa, né ricorrere alla forza materiale ecc.
Dalla polemica dello Spaventa appare che neanche per i liberali la religione è un affare privato in senso assoluto, ma liberalismo ha sempre più significato un metodo di governo e sempre meno una concezione del mondo e pertanto è nata la formula come formula «permanente».
§41 Risorgimento italiano. In una recensione («Nuova Italia» del 20 aprile 1933) del libro di Cecil Roth (Gli Ebrei in Venezia, Trad. di Dante Lattes, Ed. Cremonese, Roma, 1933, pp. VII‑446, L. 20) Arnaldo Momigliano fa alcune giuste osservazioni sull’ebraismo in Italia. «La storia degli Ebrei di Venezia, come la storia degli Ebrei di qualsiasi città italiana in genere, è essenzialmente appunto la storia della formazione della loro coscienza nazionale italiana. Né, si badi, questa formazione è posteriore alla formazione della coscienza nazionale italiana in genere, in modo che gli Ebrei si sarebbero venuti a inserire in una coscienza nazionale già precostituita. La formazione della coscienza nazionale italiana negli Ebrei è parallela alla formazione della coscienza nazionale nei Piemontesi o nei Napoletani o nei Siciliani: è un momento dello stesso processo e vale a caratterizzarlo.
Come dal XVII al XIX secolo, a prescindere dalle tracce anteriori, i Piemontesi o i Napoletani si sono fatti italiani, così nel medesimo tempo gli Ebrei abitanti in Italia si sono fatti Italiani. Il che naturalmente non ha impedito che essi nella loro fondamentale italianità conservassero in misura maggiore o minore peculiarità ebraiche, come ai Piemontesi o ai Napoletani il diventare Italiani non ha impedito di conservare caratteristiche regionali».
In Italia non esiste antisemitismo proprio per le ragioni accennate dal Momigliano, che la coscienza nazionale si costituì e doveva costituirsi dal superamento di due forme culturali: il particolarismo municipale e il cosmopolitismo cattolico, che erano in stretta connessione fra loro e costituivano la forma italiana più caratteristica di residuo medioevale e feudale.
Che il superamento del cosmopolitismo cattolico e in realtà quindi la nascita di uno spirito laico, non solo distinto ma in lotta col cattolicismo, dovesse negli ebrei avere come manifestazione una loro nazionalizzazione, un loro disebreizzarsi, pare chiaro e pacifico.
Ecco perché può esser giusto ciò che scrive il Momigliano, che la formazione della coscienza nazionale italiana negli ebrei vale a caratterizzare l’intero processo di formazione della coscienza nazionale italiana, sia come dissoluzione del cosmopolitismo religioso che del particolarismo, perché negli ebrei il cosmopolitismo religioso diventa particolarismo nella cerchia degli Stati nazionali.
§44 Risorgimento italiano. Cfr articolo di Salvatore Valitutti La grande industria in Italia nella «Educazione Fascista» del febbraio 1933, scritto per accenni e rapide allusioni, ma abbastanza interessante e da rivedere all’occasione.
Non è però esatto porre la quistione così: «Era vero … che l’economia dell’Italia meridionale era agricola, feudale e che quella della restante Italia era più industriale e moderna». Nell’Italia meridionale c’era e c’è una determinata attività agricola e il protezionismo agrario giovò più al Nord che al Sud, perché fu protezione sui cereali, di cui il Nord era grande produttore (relativamente più del Sud). La differenza tra Nord e Sud era anche e specialmente nella composizione sociale, nella diversa posizione delle masse contadine, che nel Sud dovevano mantenere col loro lavoro una troppo grande quantità di popolazione passiva economicamente, di redditieri ecc.
Né si può dire che «la pratica di raccoglimento e di modestia» nei primi trent’anni del regno – una pratica più modesta di quella che realmente si ebbe, «avrebbe fermato il progresso delle attività economiche più bisognose di movimento e di ricchezza ed, esercitata nell’interesse del meridionale, avrebbe conseguito l’effetto di rifondere e di riorganizzare la vita italiana sulla base del Regno di Napoli». Perché poi esercitata nell’interesse del meridionale? Nell’interesse di tutte le forze nuove nazionali contemperate e non gerarchizzate dai privilegi. Invece la struttura arretrata meridionale fu sfruttata, resa permanente, accentuata perfino, per drenare il risparmio delle sue classi parassitarie verso il Nord.
§52 Risorgimento italiano. Serie di interpretazioni. A proposito del libro del Rosselli su Pisacane. Le interpretazioni del passato, quando del passato stesso si ricercano le deficienze e gli errori (di certi partiti o correnti) non sono «storia» ma politica attuale in nuce. Ecco perché anche i «se» spesso non tediano.
Una quistione che il Rosselli non pone bene nel Pisacane è questa: come una classe dirigente possa dirigere le masse popolari, cioè essere «dirigente»; il Rosselli non ha studiato cosa sia stato il «giacobinismo» francese e come la paura del giacobinismo abbia appunto paralizzato l’attività nazionale. Non spiega poi perché si sia formato il mito del «Mezzogiorno polveriera d’Italia» in Pisacane e quindi in Mazzini. Tuttavia questo punto è basilare per comprendere Pisacane e l’origine delle sue idee che sono le stesse che in Bakunin ecc.
Così non si può vedere in Pisacane un «precursore» in atto del Sorel, ma semplicemente un esemplare del «nichilismo» di origine russa e della teoria della «pandistruzione» creatrice (anche con la malavita). L’«iniziativa popolare» da Mazzini a Pisacane si colora delle tendenze «populiste» estreme. (Forse il filone Herzen indicato da Ginzburg nella «Cultura» del 1932 è da approfondire).
Txt.: Nello Rosselli - Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano
§76 Risorgimento italiano. Recensione del libro di Nello Rosselli su Pisacane pubblicata nella «Nuova Rivista Storica» del 1933 (pp. 156 sgg.). Appartiene alla serie delle «interpretazioni» del Risorgimento così come il libro del Rosselli. Anche l’autore della recensione (come il Rosselli) non intende come ciò che è mancato nel Risorgimento sia stato un fermento «giacobino» nel senso classico della parola e come il Pisacane sia figura altamente interessante perché dei pochi che intese tale assenza, sebbene egli stesso non sia stato «giacobino» così come era necessario all’Italia. Si può osservare ancora che lo spauracchio che dominò l’Italia prima del 1859 non fu quello del comunismo, ma quello della Rivoluzione francese e del terrore, non fu «panico» di borghesi, ma panico di «proprietari terrieri», e del resto comunismo, nella propaganda di Metternich, era semplicemente la quistione e la riforma agraria.
§59 Risorgimento Italiano. I. La funzione del Piemonte nel Risorgimento italiano è quella di una «classe dirigente». In realtà non si tratta del fatto che in tutto il territorio della penisola esistessero nuclei di classe dirigente omogenea la cui irresistibile tendenza a unificarsi abbia determinato la formazione del nuovo Stato nazionale italiano. Questi nuclei esistevano, indubbiamente, ma la loro tendenza a unirsi era molto problematica, e ciò che più conta, essi, ognuno nel suo ambito, non erano «dirigenti». Il dirigente presuppone il «diretto», e chi era diretto da questi nuclei?
Questi nuclei non volevano «dirigere» nessuno, cioè non volevano accordare i loro interessi e aspirazioni con gli interessi ed aspirazioni di altri gruppi. Volevano «dominare» non «dirigere», e ancora: volevano che dominassero i loro interessi, non le loro persone, cioè volevano che una forza nuova, indipendente da ogni compromesso e condizione, divenisse l’arbitra della Nazione: questa forza fu il Piemonte e quindi la funzione della monarchia.
Il Piemonte ebbe pertanto una funzione che può, per certi aspetti, essere paragonata a quella del partito, cioè del personale dirigente di un gruppo sociale (e si parlò sempre infatti di «partito piemontese»), con la determinazione che si trattava di uno Stato, con un esercito, una diplomazia ecc.
Questo fatto è della massima importanza per il concetto di «rivoluzione passiva»: che cioè non un gruppo sociale sia il dirigente di altri gruppi, ma che uno Stato, sia pure limitato come potenza, sia il «dirigente» del gruppo che esso dovrebbe essere dirigente e possa porre a disposizione di questo un esercito e una forza politico‑diplomatica.
L’importante è di approfondire il significato che ha una funzione tipo «Piemonte» nelle rivoluzioni passive, cioè il fatto che uno Stato si sostituisce ai gruppi sociali locali nel dirigere una lotta di rinnovamento. È uno dei casi in cui si ha la funzione di «dominio» e non di «dirigenza» in questi gruppi: dittatura senza egemonia. L’egemonia sarà di una parte del gruppo sociale sull’intiero gruppo, non di questo su altre forze per potenziare il movimento, radicalizzarlo, ecc. sul modello «giacobino».
II. Studi rivolti a cogliere le analogie tra il periodo successivo alla caduta di Napoleone e quello successivo alla guerra del ’14‑18. Le analogie sono viste solo sotto due punti di vista: la divisione territoriale e quella, più vistosa e superficiale, del tentativo di dare una organizzazione giuridica stabile ai rapporti internazionali (Santa Alleanza e Società delle Nazioni). Pare invece che il tratto più importante da studiare sia quello che si è detto della «rivoluzione passiva», problema che non appare vistosamente perché manca un parallelismo esteriore alla Francia del 1789‑1815.
E tuttavia tutti riconoscono che la guerra del ’14‑18 rappresenta una frattura storica, nel senso che tutta una serie di quistioni che molecolarmente si accumulavano prima del 1914 hanno appunto fatto «mucchio», modificando la struttura generale del processo precedente: basta pensare all’importanza che ha assunto il fenomeno sindacale, termine generale in cui si assommano diversi problemi e processi di sviluppo di diversa importanza e significato (parlamentarismo, organizzazione industriale, democrazia, liberalismo, ecc.), ma che obiettivamente riflette il fatto che una nuova forza sociale si è costituita, ha un peso non più trascurabile, ecc. ecc.
§60 Risorgimento italiano. Cavour. Cosa significa nel libro di Alberto Cappa sul Cavour, l’insistere continuamente nell’affermazione che la politica del Cavour rappresenta il «giusto mezzo»? Perché «giusto»? Forse perché ha trionfato? La «giustezza» della politica del Cavour non può essere teorizzata a priori; non può trattarsi di una «giustezza» razionale, assoluta ecc. In realtà non si può parlare di una funzione da intermediario in Cavour, ciò che diminuirebbe la sua figura e il suo significato.
Cavour seguì una sua linea, che trionfò non perché mediasse opposti estremismi, ma perché rappresentava la sola politica giusta dell’epoca, appunto per l’assenza di validi e intelligenti (politicamente) competitori. Nel Cappa il «giusto mezzo» rassomiglia molto al «giusto prezzo», all’«ottimo governo» ecc.
Che il Cavour abbia, come metodo di propaganda politica, assunto una posizione da «giusto mezzo» non ha che un significato secondario.
In realtà le forze storiche cozzano tra loro per il loro programma «estremo». Che tra queste forze, una assuma la funzione di «sintesi» superatrice degli opposti estremismi è una necessità dialettica, non un metodo aprioristico. E saper trovare volta per volta il punto di equilibrio progressivo (nel senso del proprio programma) è l’arte del politico non del giusto mezzo, ma proprio del politico che ha una linea molto precisa e di grande prospettiva per l’avvenire.
Il Cappa può essere portato come esempio nell’esposizione della forma italiana del «proudhonismo» giobertiano, dell’antidialettica dell’opportunismo empirico e di corta vista.
§63 Risorgimento italiano. Cfr Attilio Monaco, I galeotti politici napoletani dopo il Quarantotto, Roma, Libreria Internazionale Treves ‑ Treccani ‑ Tumminelli, 1933, pp. 873, in 2 voll., L. 50.
Il libro del Monaco deve essere molto interessante per varie ragioni: 1) perché mostra che gli elementi attivi politici furono nel Napoletano più numerosi di quanto si potesse pensare (100 000 sospetti e sottoposti a misure di polizia è un bel numero in tempi in cui i partiti erano embrionali); 2) perché dà informazioni sul regime carcerario borbonico per i politici e per i comuni (che si trovavano insieme): 157 politici morirono in galera, almeno 10 divennero pazzi; 3) si può, dal libro, vedere quale partecipazione dettero all’attività politica le diverse categorie sociali. Il bagno di Procida fu il più popolato di politici: nel 1854 ve ne erano 398.
Machiavelli
§2 Machiavelli. Si pone il problema se i grandi industriali abbiano un partito politico permanente proprio. La risposta mi pare debba essere negativa. I grandi industriali si servono volta a volta di tutti i partiti esistenti, ma non hanno un partito proprio. Essi non sono perciò «agnostici» o «apolitici» in qualsiasi modo: il loro interesse è un determinato equilibrio, che ottengono appunto rafforzando coi loro mezzi, volta a volta, questo o quello dei partiti del vario scacchiere politico (con eccezione, si intende, del solo partito antagonista, il cui rafforzamento non può essere aiutato neppure per mossa tattica).
È certo però che se ciò avviene nella vita «normale», nei casi estremi, che poi sono quelli che contano (come la guerra nella vita nazionale), il partito dei grandi industriali è quello degli agrari, i quali hanno invece un proprio partito permanente.
D’altronde esistono interessi permanenti stretti tra agrari e industriali (specialmente ora che il protezionismo è diventato generale, agrario e industriale) ed è innegabile che gli agrari sono «politicamente» molto meglio organizzatori degli industriali, attirano più gli intellettuali, sono più «permanenti» nelle loro direttive ecc.
La sorte dei partiti «industriali» tradizionali, come quello «liberale‑radicale» inglese e quello radicale francese (che però si differenziò sempre molto dal primo) è interessante (così quello «radicale italiano» di buona memoria): che cosa rappresentavano essi? Un nesso di classi grandi e piccole, non una sola grande classe; perciò il loro vario divenire e sparire; la truppa di «manovra» era data dalla classe piccola, che si trovò in condizioni sempre diverse nel nesso fino a trasformarsi completamente. Oggi dà la truppa ai «partiti demagogici» e si comprende.
In generale si può dire che in questa storia dei partiti, la comparazione tra i vari paesi è delle più istruttive e decisive per trovare l’origine delle cause di trasformazione. Ciò anche nelle polemiche tra partiti dei paesi «tradizionalisti» dove cioè sono rappresentati «scampoli» di tutto il «catalogo» storico.
§4 Machiavelli. Elementi di politica. Bisogna proprio dire che i primi ad essere dimenticati sono proprio i primi elementi, le cose più elementari; d’altronde, essi, ripetendosi infinite volte, diventano i pilastri della politica e di qualsivoglia azione collettiva.
Primo elemento è che esistono davvero governati e governanti, dirigenti e diretti. Tutta la scienza e l’arte politica si basano su questo fatto primordiale, irriducibile (in certe condizioni generali). Le origini di questo fatto sono un problema a sé, che dovrà essere studiato a sé (per lo meno potrà e dovrà essere studiato come attenuare e far sparire il fatto, mutando certe condizioni identificabili come operose in questo senso), ma rimane il fatto che esistono dirigenti e diretti, governanti e governati.
Dato questo fatto sarà da vedere come si può dirigere nel modo più efficace (dati certi fini) e come pertanto preparare nel modo migliore i dirigenti (e in questo più precisamente consiste la prima sezione della scienza e arte politica), e come d’altra parte si conoscono le linee di minore resistenza o razionali per avere l’obbedienza dei diretti o governati.
Nel formare i dirigenti è fondamentale la premessa: si vuole che ci siano sempre governati e governanti oppure si vogliono creare le condizioni in cui la necessità dell’esistenza di questa divisione sparisca? cioè si parte dalla premessa della perpetua divisione del genere umano o si crede che essa sia solo un fatto storico, rispondente a certe condizioni?
Occorre tener chiaro tuttavia che la divisione di governati e governanti, seppure in ultima analisi risalga a una divisione di gruppi sociali, tuttavia esiste, date le cose così come sono, anche nel seno dello stesso gruppo, anche socialmente omogeneo; in un certo senso si può dire che essa divisione è una creazione della divisione del lavoro, è un fatto tecnico. Su questa coesistenza di motivi speculano coloro che vedono in tutto solo «tecnica», necessità «tecnica» ecc. per non proporsi il problema fondamentale.
Posto il principio che esistono diretti e dirigenti, governati e governanti, è vero che i partiti sono finora il modo più adeguato per elaborare i dirigenti e la capacità di direzione (i «partiti» possono presentarsi sotto i nomi più diversi, anche quello di anti‑partito e di «negazione dei partiti»; in realtà anche i così detti «individualisti» sono uomini di partito, solo che vorrebbero essere «capipartito» per grazia di dio o dell’imbecillità di chi li segue).
L’individualismo è solo apoliticismo animalesco; il settarismo è «apoliticismo» e se ben si osserva, infatti, il settarismo è una forma di «clientela» personale, mentre manca lo spirito di partito, che è l’elemento fondamentale dello «spirito statale». La dimostrazione che lo spirito di partito è l’elemento fondamentale dello spirito statale è uno degli assunti più cospicui da sostenere e di maggiore importanza; e viceversa che l’«individualismo» è un elemento animalesco, «ammirato dai forestieri» come gli atti degli abitanti di un giardino zoologico.
§6 Machiavelli. Concezioni del mondo e atteggiamenti pratici totalitari e parziali. Un criterio primordiale di giudizio sia per le concezioni del mondo, sia e specialmente per gli atteggiamenti pratici è questo: la concezione del mondo o l’atteggiamento pratico può essere concepito «isolato, indipendente» con tutta la responsabilità della vita collettiva su di sé, o ciò è impossibile e la concezione del mondo e l’atteggiamento pratico può solo essere concepito come «integrazione», perfezionamento, contrappeso ecc. di un’altra concezione del mondo e atteggiamento pratico?
Se si riflette, si vede che questo criterio è decisivo per un giudizio ideale sui moti ideali e sui moti pratici e si vede anche che esso ha una portata pratica non piccola.
Uno degli idoli più comuni è quello di credere che tutto ciò che esiste è «naturale» esista, non può a meno di esistere e che i propri tentativi di riforma, per male che vadano, non interromperanno la vita, perché le forze tradizionali continueranno ad operare e appunto continueranno la vita. In questo modo di pensare c’è del giusto, certamente, e guai se così non fosse, tuttavia questo modo di pensare oltre certi limiti diventa pericoloso (certi casi della politica del peggio) e in ogni modo, come si è detto, sussiste il criterio di giudizio filosofico, politico e storico.
È certo che, se si osserva in fondo, certi moti concepiscono se stessi come marginali; presuppongono cioè un moto principale in cui innestarsi per riformare certi presunti o veri mali, cioè certi moti sono puramente riformistici. Questo principio ha importanza politica perché la verità teorica che ogni classe ha un solo partito è dimostrata, nelle svolte decisive, dal fatto che aggruppamenti varii, ognuno dei quali si presentava come partito «indipendente», si riuniscono e bloccano in unità. La molteplicità esistente prima era solo di carattere «riformistico», cioè riguardava questioni parziali, in un certo senso era una divisione del lavoro politico (utile, nei suoi limiti); ma ogni parte presupponeva l’altra, tanto che nei momenti decisivi, cioè appunto quando le quistioni principali sono state messe in gioco, l’unità si è formata, il blocco si è verificato.
Da ciò la conclusione che nella costruzione dei partiti, occorre basarsi su un carattere «monolitico» e non su quistioni secondarie, quindi attenta osservazione che ci sia omogeneità tra dirigenti e diretti, tra capi e massa. Se nei momenti decisivi, i capi passano al loro «vero partito» le masse rimangono in tronco, inerti e senza efficacia.
Si può dire che nessun moto reale acquista coscienza della sua totalitarietà d’un colpo, ma solo per esperienze successive, cioè quando s’accorge, dai fatti, che niente di ciò che è, è naturale (nel senso bislacco della parola) ma esiste perché ci sono certe condizioni, la cui sparizione non rimane senza conseguenze. Così il moto si perfeziona, perde i caratteri di arbitrarietà, di «simbiosi», diventa davvero indipendente, nel senso che per avere certe conseguenze crea le premesse necessarie e anzi sulla creazione di queste premesse impegna tutte le sue forze.
§7 Machiavelli. Elezioni. In un giornale polacco (la «Gazeta Polska» degli ultimi giorni di gennaio o dei primi di febbraio del 1933)
§8 Machiavelli. Diritto naturale. Uno degli imparaticci dei teorici di origine nazionalista (es. M. Maraviglia) è quello di contrapporre la storia al diritto naturale. Ma cosa significa una tale contrapposizione? Nulla o solo la confusione nel cervello dello scrittore. Intanto il «diritto naturale» è un elemento della storia, indica un «senso comune politico e sociale» e come tale è un «fermento» di operosità. La quistione potrebbe esser questa: che un teorico spieghi i fatti col così detto «diritto naturale», ma questo è un problema di carattere individuale, di critica a opere individuali ecc. e in fondo non è altro che critica al «moralismo» come canone d’interpretazione storica, Roba che ha la barba.
Ma in realtà, al di sotto di questo sproposito c’è un interesse concreto. Quello di voler sostituire un «diritto naturale» a un altro. E infatti tutta la teoria nazionalista non è basata su «diritti naturali»? Si vuole al modo di pensare «popolare» sostituire un modo di pensare non popolare, altrettanto mancante di critica del primo.
§10 Machiavelli. Sociologia e scienza politica (vedere i paragrafi sul Saggio popolare). La fortuna della sociologia è in relazione con la decadenza del concetto di scienza politica e di arte politica verificatasi nel secolo XIX (con più esattezza nella seconda metà, con la fortuna delle dottrine evoluzionistiche e positivistiche). Ciò che di realmente importante è nella sociologia non è altro che scienza politica. «Politica» divenne sinonimo di politica parlamentare o di cricche personali. Persuasione che con le costituzioni e i parlamenti si fosse iniziata un’epoca di «evoluzione» «naturale», che la società avesse trovato i suoi fondamenti definitivi perché razionali ecc. ecc. Ecco che la società può essere studiata col metodo delle scienze naturali. Impoverimento del concetto di Stato conseguente a tal modo di vedere.
Se scienza politica significa scienza dello Stato e Stato è tutto il complesso di attività pratiche e teoriche con cui la classe dirigente giustifica e mantiene il suo dominio non solo ma riesce a ottenere il consenso attivo dei governati, è evidente che tutte le quistioni essenziali della sociologia non sono altro che le quistioni della scienza politica. Se c’è un residuo, questo non può essere che di falsi problemi cioè di problemi oziosi.
Se è vero che l’uomo non può essere concepito se non come uomo storicamente determinato, cioè che si è sviluppato e vive in certe condizioni, in un determinato complesso sociale o insieme di rapporti sociali, si può concepire la sociologia come studio solo di queste condizioni e delle leggi che ne regolano lo sviluppo? Poiché non si può prescindere dalla volontà e dall’iniziativa degli uomini stessi, questo concetto non può non essere falso.
Il problema di che cosa è la «scienza» stessa è da porre. La scienza non è essa stessa «attività politica» e pensiero politico, in quanto trasforma gli uomini, li rende diversi da quelli che erano prima? Se tutto è «politico» occorre, per non cadere in un frasario tautologico e noioso distinguere con concetti nuovi la politica che corrisponde a quella scienza che tradizionalmente si chiama «filosofia», dalla politica che si chiama scienza politica in senso stretto.
Se la scienza è «scoperta» di realtà ignorata prima, questa realtà non viene concepita come trascendente in un certo senso? e non si pensa che esiste ancora qualcosa di «ignoto» e quindi di trascendente? E il concetto di scienza come «creazione» non significa poi come «politica»? Tutto sta nel vedere se si tratta di creazione «arbitraria» o razionale, cioè «utile» agli uomini per allargare il loro concetto della vita, per rendere superiore (sviluppare) la vita stessa.
§11 Machiavelli. Il concetto di «rivoluzione passiva» nel senso di Vincenzo Cuoco attribuita al primo periodo del Risorgimento italiano può essere messo in rapporto col concetto di «guerra di posizione» in confronto alla guerra manovrata?
Cioè esiste una identità assoluta tra guerra di posizione e rivoluzione passiva? O almeno esiste o può concepirsi tutto un periodo storico in cui i due concetti si debbano identificare, fino al punto in cui la guerra di posizione ridiventa guerra manovrata?
È un giudizio «dinamico» che occorre dare sulle «Restaurazioni» che sarebbero una «astuzia della provvidenza» in senso vichiano.
Un problema è questo: nella lotta Cavour‑Mazzini, in cui Cavour è l’esponente della rivoluzione passiva – guerra di posizione e Mazzini dell’iniziativa popolare – guerra manovrata, non sono indispensabili ambedue nella stessa precisa misura? Tuttavia bisogna tener conto che mentre Cavour era consapevole del suo compito (almeno in una certa misura) in quanto comprendeva il compito di Mazzini, Mazzini non pare fosse consapevole del suo e di quello del Cavour; se invece Mazzini avesse avuto tale consapevolezza, cioè fosse stato un politico realista e non un apostolo illuminato (cioè non fosse stato Mazzini) l’equilibrio risultante dal confluire delle due attività sarebbe stato diverso, più favorevole al mazzinianismo: cioè lo Stato italiano si sarebbe costituito su basi meno arretrate e più moderne.
Insistere nello svolgimento del concetto che mentre Cavour era consapevole del suo compito in quanto era consapevole criticamente del compito di Mazzini, Mazzini, per la scarsa o nulla consapevolezza del compito di Cavour, era in realtà anche poco consapevole del suo proprio compito, perciò i suoi tentennamenti (così a Milano nel periodo successivo alle cinque giornate e in altre occasioni) e le sue iniziative fuori tempo, che pertanto diventavano elementi solo utili alla politica piemontese.
Certo è da considerare a questo punto la quistione del passaggio della lotta politica da «guerra manovrata» a «guerra di posizione», ciò che in Europa avvenne dopo il 1848 e che non fu compreso da Mazzini e dai mazziniani come invece fu compreso da qualche altro; lo stesso passaggio si ebbe dopo il 1871 ecc. La quistione era difficile da capire allora per uomini come il Mazzini, dato che le guerre militari non avevano dato il modello, ma anzi le dottrine militari si sviluppavano nel senso della guerra di movimento: sarà da vedere se in Pisacane, che del mazzinianismo fu il teorico militare, ci siano accenni in questo senso. (Sarà da vedere la letteratura politica sul 48 dovuta a studiosi della filosofia della prassi; ma non pare che ci sia molto da aspettarsi in questo senso. Gli avvenimenti italiani, per esempio, furono esaminati solo con la guida dei libri di Bolton King ecc.).
Pisacane è tuttavia da vedere perché fu il solo che tentò di dare al Partito d'Azione un contenuto non solo formale, ma sostanziale di antitesi superatrice delle posizioni tradizionali. Né è da dire che per ottenere questi risultati storici fosse necessaria perentoriamente l’insurrezione armata popolare, come pensava Mazzini fino all’ossessione, cioè non realisticamente, ma da missionario religioso.
L’intervento popolare che non fu possibile nella forma concentrata e simultanea dell’insurrezione, non si ebbe neanche nella forma «diffusa» e capillare della pressione indiretta, ciò che invece era possibile e forse sarebbe stata la premessa indispensabile della prima forma. La forma concentrata o simultanea era resa impossibile dalla tecnica militare del tempo, ma solo in parte, cioè l’impossibilità esistette in quanto alla forma concentrata e simultanea non fu fatto precedere una preparazione politica ideologica di lunga lena, organicamente predisposta per risvegliare le passioni popolari e renderne possibile la concentrazione e lo scoppio simultaneo.
Dopo il 1848 una critica dei metodi precedenti al fallimento fu fatta solo dai moderati e infatti tutto il movimento moderato si rinnovò, il neoguelfismo fu liquidato, uomini nuovi occuparono i primi posti di direzione. Nessuna autocritica invece da parte del mazzinianismo oppure autocritica liquidatrice, nel senso che molti elementi abbandonarono Mazzini e formarono l’ala sinistra del partito piemontese; unico tentativo «ortodosso», cioè dall’interno, furono i saggi del Pisacane, che però non divennero mai piattaforma di una nuova politica organica e ciò nonostante che il Mazzini stesso riconoscesse che il Pisacane aveva una «concezione strategica» della Rivoluzione nazionale italiana.
Txt: G. Mazzini - La giovine Italia
Txt: G. Mazzini - Dei doveri dell'uomo
§15 Machiavelli. Il rapporto «rivoluzione passiva ‑ guerra di posizione» nel Risorgimento italiano può essere studiato anche in altri aspetti. Importantissimo quello che si può chiamare del «personale» e l’altro della «radunata rivoluzionaria». Quello del «personale» può essere appunto paragonato a quanto si verificò nella guerra mondiale nel rapporto tra ufficiali di carriera e ufficiali di complemento da una parte e tra soldati di leva e volontari‑arditi dall’altra.
Gli ufficiali di carriera corrisposero nel Risorgimento ai partiti politici regolari, organici, tradizionali, ecc., che al momento dell’azione (1848) si dimostrarono inetti o quasi e furono nel 1848‑49 soverchiati dall’ondata popolare‑mazziniana‑democratica, ondata caotica, disordinata, «estemporanca» per così dire, ma che tuttavia, al seguito di capi improvvisati o quasi (in ogni caso non di formazioni precostituite come era il partito moderato) ottennero successi indubbiamente maggiori di quelli ottenuti dai moderati: la Repubblica romana e Venezia mostrarono una forza di resistenza molto notevole.
Nel periodo dopo il 48 il rapporto tra le due forze, quella regolare e quella «carismatica» si organizzò intorno a Cavour e Garibaldi e diede il massimo risultato, sebbene questo risultato fosse poi incamerato dal Cavour.
Questo aspetto è connesso all’altro, della «radunata». È da osservare che la difficoltà tecnica contro cui andarono sempre a spezzarsi le iniziative mazziniane fu quella appunto della «radunata rivoluzionaria». Sarebbe interessante, da questo punto di vista, studiare il tentativo di invadere la Savoia col Ramorino, poi quello dei fratelli Bandiera, del Pisacane ecc., paragonato con la situazione che si offrì a Mazzini nel 48 a Milano e nel 49 a Roma e che egli non ebbe la capacità di organizzare.
Questi tentativi di pochi non potevano non essere schiacciati in germe, perché sarebbe stato maraviglioso che le forze reazionarie, che erano concentrate e potevano operare liberamente (cioè non trovavano nessuna opposizione in larghi movimenti della popolazione) non schiacciassero le iniziative tipo Ramorino, Pisacane, Bandiera, anche se queste fossero state preparate meglio di quanto furono in realtà.
Nel secondo periodo (1859‑60) la radunata rivoluzionaria, come fu quella dei Mille di Garibaldi, fu resa possibile dal fatto che Garibaldi si innestava nelle forze statali piemontesi prima e poi che la flotta inglese protesse di fatto lo sbarco di Marsala, la presa di Palermo, e sterilizzò la flotta borbonica. A Milano dopo le cinque giornate, a Roma repubblicana, Mazzini avrebbe avuto la possibilità di costituire piazze d’armi per radunate organiche, ma non si propose di farlo, onde il suo conflitto con Garibaldi a Roma e la sua inutilizzazione a Milano di fronte a Cattaneo e al gruppo democratico milanese.
In ogni modo lo svolgersi del processo del Risorgimento, se pose in luce l’importanza enorme del movimento «demagogico» di massa, con capi di fortuna, improvvisati ecc., in realtà fu riassunto dalle forze tradizionali organiche, cioè dai partiti formati di lunga mano, con elaborazione razionale dei capi ecc.
§17 Machiavelli. Il concetto di rivoluzione passiva deve essere dedotto rigorosamente dai due principii fondamentali di scienza politica: 1) che nessuna formazione sociale scompare fino a quando le forze produttive che si sono sviluppate in essa trovano ancora posto per un loro ulteriore movimento progressivo; 2) che la società non si pone compiti per la cui soluzione non siano già state covate le condizioni necessarie ecc.
S’intende che questi principii devono prima essere svolti criticamente in tutta la loro portata e depurati da ogni residuo di meccanicismo e fatalismo. Così devono essere riportati alla descrizione dei tre momenti fondamentali in cui può distinguersi una «situazione» o un equilibrio di forze, col massimo di valorizzazione del secondo momento, o equilibrio delle forze politiche e specialmente del terzo momento o equilibrio politico‑militare.
§25 Machiavelli. Sempre a proposito del concetto di rivoluzione passiva o rivoluzione‑restaurazione nel Risorgimento italiano è da notare che occorre porre con esattezza il problema che in alcune tendenze storiografiche è chiamato dei rapporti tra condizioni oggettive e condizioni soggettive dell’evento storico.
Appare evidente che mai possono mancare le cosidette condizioni soggettive quando esistano le condizioni oggettive in quanto si tratta di semplice distinzione di carattere didascalico: pertanto è nella misura delle forze soggettive e della loro intensità che può vertere discussione, e quindi nel rapporto dialettico tra le forze soggettive contrastanti.
Occorre evitare che la quistione sia posta in termini «intellettualistici» e non storico‑politici. Che la «chiarezza» intellettuale dei termini della lotta sia indispensabile, è pacifico, ma questa chiarezza è un valore politico in quanto diventa passione diffusa ed è la premessa di una forte volontà.
Tra il Partito d'Azione e il Partito moderato quale rappresentò le effettive «forze soggettive» del Risorgimento? Certo il Partito moderato, e appunto perché ebbe consapevolezza del compito anche del Partito d'Azione: per questa consapevolezza la sua «soggettività» era di una qualità superiore e più decisiva. Nell’espressione sia pure da sergente maggiore, di Vittorio Emanuele II: «Il Partito d’Azione noi l’abbiamo in tasca» c’è più senso storico‑politico che in tutto Mazzini.
§47 Machiavelli. Articolo di Sergio Panunzio nella «Gerarchia» dell’aprile 1933 (La fine del parlamentarismo e l’accentramento delle responsabilità). Superficiale.
Il Panunzio in realtà ragiona per figurini, cioè formalisticamente, peggio dei vecchi costituzionalisti. Ciò che egli dovrebbe spiegare, per il suo assunto, è come mai sia avvenuto il distacco e la lotta tra parlamento e governo in modo che l’unità di queste due istituzioni non riesca più a costruire un indirizzo permanente di governo, ma ciò non si può spiegare per schemi logici ma solo riferendosi ai mutamenti avvenuti nella struttura politica del paese, cioè realisticamente, con un’analisi storico‑politica. Si tratta infatti di difficoltà di costruire un indirizzo politico permanente e di vasta portata, non di difficoltà senz’altro.
L’analisi non può prescindere dall’esame: 1) del perché si siano moltiplicati i partiti politici; 2) del perché sia diventato difficile formare una maggioranza permanente tra tali partiti parlamentari; 3) quindi del perché i grandi partiti tradizionali abbiano perduto il potere di guidare, il prestigio ecc. Questo fatto è puramente parlamentare, o è il riflesso parlamentare di radicali mutazioni avvenute nella società stessa, nella funzione che i gruppi sociali hanno nella vita produttiva ecc.?
Pare che la sola via di ricercare l’origine del decadimento dei regimi parlamentari sia questa, cioè sia da ricercare nella società civile e certo in questa via non si può fare a meno di studiare il fenomeno sindacale; ma ancora, non il fenomeno sindacale inteso nel suo senso elementare di associazionismo di tutti i gruppi sociali e per qualsiasi fine, ma quello tipico per eccellenza, cioè degli elementi sociali di nuova formazione, che precedentemente non avevano «voce in capitolo» e che per il solo fatto di unirsi modificano la struttura politica della società.
Sarebbe da ricercare come sia avvenuto che i vecchi sindacalisti sorelliani (o quasi) a un certo punto siano divenuti semplicemente degli associazionisti o unionisti in generale. Forse il germe di questo decadimento era nello stesso Sorel, cioè in un certo feticismo sindacale o economistico.
§48 Machiavelli. I. Studio delle parole d’ordine come quella del «terzo Reich» delle correnti di destra germaniche, di questi miti storici, che non sono altro che una forma concreta ed efficace di presentare il mito della «missione storica» di un popolo. Il punto da studiare è appunto questo: perché una tale forma sia «concreta ed efficace» o più efficace di un’altra.
In Germania la continuità ininterrotta (non interrotta da invasioni straniere permanenti) tra il periodo medioevale del Sacro Romano Impero (primo Reich) e quello moderno (da Federico il Grande al 1914) rende immediatamente comprensibile il concetto di terzo Reich.
In Italia, il concetto di «terza Italia» del Risorgimento non poteva essere facilmente compreso dal popolo per la non continuità storica e la non omogeneità tra la Roma antica e quella papale (in vero anche tra la Roma repubblicana e quella imperiale non c’era omogeneità perfetta). Quindi la relativa fortuna della parola mazziniana di «Italia del popolo» che tendeva a indicare un rinnovamento completo, in senso democratico, di iniziativa popolare, della nuova storia italiana in contrapposto al «primato» giobertiano che tendeva a presentare il passato come continuità ideale possibile col futuro, cioè con un determinato programma politico presente presentato come di larga portata.
Ma il Mazzini non riuscì a radicare la sua formula mitica e i suoi successori la diluirono e la immeschinirono nella retorica libresca. Un precedente per il Mazzini sarebbero potuti essere i Comuni medioevali che furono un rinnovamento storico effettivo e radicale, ma essi furono sfruttati piuttosto dai federalisti come Cattaneo. (L’argomento è da porre in rapporto con le prime note scritte nel quaderno speciale su Machiavelli).
§50 Machiavelli. Sul concetto di previsione o prospettiva. È certo che prevedere significa solo veder bene il presente e il passato in quanto movimento: veder bene, cioè identificare con esattezza gli elementi fondamentali e permanenti del processo. Ma è assurdo pensare a una previsione puramente «oggettiva». Chi fa la previsione in realtà ha un «programma» da far trionfare e la previsione è appunto un elemento di tale trionfo. Ciò non significa che la previsione debba sempre essere arbitraria e gratuita o puramente tendenziosa.
Si può anzi dire che solo nella misura in cui l’aspetto oggettivo della previsione è connesso con un programma esso aspetto acquista oggettività:
1) perché solo la passione aguzza l’intelletto e coopera a rendere più chiara l’intuizione;
2) perché essendo la realtà il risultato di una applicazione della volontà umana alla società delle cose (del macchinista alla macchina), prescindere da ogni elemento volontario o calcolare solo l’intervento delle altrui volontà come elemento oggettivo del gioco generale mutila la realtà stessa.
Solo chi fortemente vuole identifica gli elementi necessari alla realizzazione della sua volontà.
Perciò ritenere che una determinata concezione del mondo e della vita abbia in se stessa una superiorità di capacità di previsione è un errore di grossolana fatuità e superficialità.
Certo una concezione del mondo è implicita in ogni previsione e pertanto che essa sia una sconnessione di atti arbitrari del pensiero o una rigorosa e coerente visione non è senza importanza, ma l’importanza appunto l’acquista nel cervello vivente di chi fa la previsione e la vivifica con la sua forte volontà.
§72 Machiavelli (Nuovo Machiavelli, cfr quaderno speciale ecc.). A proposito del Rinascimento, di Lorenzo dei Medici ecc., quistione di «grande politica e di piccola politica», politica creativa, e politica di equilibrio, di conservazione, anche se si tratta di conservare una situazione miserabile.
Accusa ai francesi (e ai Galli fin da Giulio Cesare) di essere volubili ecc. E in questo senso gli italiani del Rinascimento non sono mai stati «volubili», anzi forse occorre distinguere tra la grande politica che gli italiani facevano all’«estero», come forza cosmopolita (finché la funzione cosmopolita durò) e la piccola politica all’interno, la piccola diplomazia, l’angustia dei programmi ecc., quindi la debolezza di coscienza nazionale che avrebbe domandato una attività audace e di fiducia nelle forze popolari‑nazionali.
Finito il periodo della funzione cosmopolita, rimase quello della «piccola politica» all’interno, lo sforzo immane per impedire ogni mutamento radicale. In realtà il «piede di casa», le mani nette ecc. che tanto sono rimproverati alle generazioni dell’Ottocento non sono che la coscienza della fine di una funzione cosmopolita nel modo tradizionale e l’incapacità di crearsene una nuova facendo leva sul popolo‑nazione.
§5 Passato e presente. La crisi. Lo studio degli avvenimenti che assumono il nome di crisi e che si prolungano in forma catastrofica dal 1929 ad oggi dovrà attirare speciale attenzione.
1) Occorrerà combattere chiunque voglia di questi avvenimenti dare una definizione unica, o che è lo stesso, trovare una causa o un’origine unica. Si tratta di un processo, che ha molte manifestazioni e in cui cause ed effetti si complicano e si accavallano. Semplificare significa snaturare e falsificare. Dunque: processo complesso, come in molti altri fenomeni, e non «fatto» unico che si ripete in varie forme per una causa ad origine unica.
2) Quando è cominciata la crisi? La domanda è legata alla prima. Trattandosi di uno svolgimento e non di un evento, la quistione è importante. Si può dire che della crisi come tale non vi è data d’inizio, ma solo di alcune «manifestazioni» più clamorose che vengono identificate con la crisi, erroneamente e tendenziosamente. L’autunno del 1929 col crack della borsa di New York è per alcuni l’inizio della crisi e si capisce per quelli che nell’«americanismo» vogliono trovar l’origine e la causa della crisi. Ma gli eventi dell’autunno 1929 in America sono appunto una delle clamorose manifestazioni dello svolgimento critico, niente altro.
Tutto il dopoguerra è crisi, con tentativi di ovviarla, che volta a volta hanno fortuna in questo o quel paese, niente altro. Per alcuni (e forse non a torto) la guerra stessa è una manifestazione della crisi, anzi la prima manifestazione; appunto la guerra fu la risposta politica ed organizzativa dei responsabili. (Ciò mostrerebbe che è difficile nei fatti separare la crisi economica dalle crisi politiche, ideologiche ecc., sebbene ciò sia possibile scientificamente, cioè con un lavoro di astrazione).
3) La crisi ha origine nei rapporti tecnici, cioè nelle posizioni di classe rispettive, o in altri fatti? Legislazioni, torbidi ecc.? Certo pare dimostrabile che la crisi ha origini «tecniche» cioè nei rapporti rispettivi di classe, ma che ai suoi inizi,, le prime manifestazioni o previsioni dettero luogo a conflitti di vario genere e a interventi legislativi, che misero più in luce la «crisi» stessa, non la determinarono, o ne aumentarono alcuni fattori. Questi tre punti: 1) che la crisi è un processo complicato; 2) che si inizia almeno con la guerra, se pure questa non ne è la prima manifestazione; 3) che la crisi ha origini interne, nei modi di produzione e quindi di scambio, e non in fatti politici e giuridici, paiono i tre primi punti da chiarire con esattezza.
Altro punto è quello che si dimenticano i fatti semplici, cioè le contraddizioni fondamentali della società attuale, per fatti apparentemente complessi (ma meglio sarebbe dire «lambiccati»).
Una delle contraddizioni fondamentali è questa: che mentre la vita economica ha come premessa necessaria l’internazionalismo o meglio il cosmopolitismo, la vita statale si è sempre più sviluppata nel senso del «nazionalismo», «del bastare a se stessi» ecc. Uno dei caratteri più appariscenti della «attuale crisi» è niente altro che l’esasperazione dell’elemento nazionalistico (statale nazionalistico) nell’economia: contingentamenti, clearing, restrizione al commercio delle divise, commercio bilanciato tra due soli Stati ecc.
Si potrebbe allora dire, e questo sarebbe il più esatto, che la «crisi» non è altro che l’intensificazione quantitativa di certi elementi, non nuovi e originali, ma specialmente l’intensificazione di certi fenomeni, mentre altri che prima apparivano e operavano simultaneamente ai primi, immunizzandoli, sono divenuti inoperosi o sono scomparsi del tutto.
Insomma lo sviluppo del capitalismo è stata una «continua crisi», se così si può dire, cioè un rapidissimo movimento di elementi che si equilibravano ed immunizzavano. Ad un certo punto, in questo movimento, alcuni elementi hanno avuto il sopravvento, altri sono spariti o sono divenuti inetti nel quadro generale. Sono allora sopravvenuti avvenimenti al quali si dà il nome specifico di «crisi», che sono più gravi, meno gravi appunto secondo che elementi maggiori o minori di equilibrio si verificano.
Dato questo quadro generale, si può studiare il fenomeno nei diversi piani e aspetti: monetario, finanziario, produttivo, del commercio interno, del commercio internazionale ecc. e non è detto che ognuno di questi aspetti, data la divisione internazionale del lavoro e delle funzioni, nei varii paesi non sia apparso prevalente o manifestazione massima.
Ma il problema fondamentale è quello produttivo; e, nella produzione, lo squilibrio tra industrie progressive (nelle quali il capitale costante è andato aumentando) e industrie stazionarie (dove conta molto la mano d’opera immediata).
Si comprende che avvenendo anche nel campo internazionale una stratificazione tra industrie progressive e stazionarie, i paesi dove le industrie progressive sovrabbondano hanno sentito più la crisi ecc. Onde illusioni varie dipendenti dal fatto che non si comprende che il mondo è una unità, si voglia o non si voglia, e che tutti i paesi, rimanendo in certe condizioni di struttura, passeranno per certe «crisi».
§26 Noterelle di economia politica. Luigi Einaudi ha raccolto in volume i saggi pubblicati in questi anni di crisi. Uno dei motivi su cui l’Einaudi ritorna più spesso è questo: che dalla crisi si uscirà quando l’inventività degli uomini avrà ripreso un certo slancio. Non pare che l’affermazione sia esatta da nessun punto di vista. È certo che il periodo di sviluppo delle forze economiche è stato caratterizzato anche dalle invenzioni, ma è esatto che in questo ultimo periodo le invenzioni siano state meno essenziali e anche meno numerose? Non pare: si può dire, tutt’al più, che hanno colpito meno le immaginazioni, appunto perché precedute da un periodo di tipo simile, ma più originale.
Tutto il processo di razionalizzazione non è che un processo di «inventività», di applicazioni di nuovi ritrovati tecnici e organizzativi. Pare che l’Einaudi intenda per invenzioni solo quelle che portano all’introduzione di nuovi tipi di merci, ma anche da questo punto di vista forse l’affermazione non è esatta. In realtà però le invenzioni essenziali sono quelle che determinano una diminuzione dei costi, quindi allargano i mercati di consumo, unificano sempre più vaste masse umane ecc.; da questo punto di vista quale periodo è stato più «inventivo» di quello della razionalizzazione? Anche troppo inventivo, a quanto pare, fino all’«invenzione» della vendita a rate e della creazione artificiosa di nuovi bisogni nel consumo popolare.
La verità è che pare quasi impossibile creare «bisogni» nuovi essenziali da soddisfare, con nuove industrie completamente originali, tali da determinare un nuovo periodo di civiltà economica corrispondente a quello dello sviluppo della grande industria. Oppure questi «bisogni» sono propri di strati della popolazione socialmente non essenziali e il cui diffondersi sarebbe morboso (cfr l’invenzione della «seta artificiale» che soddisfa il bisogno di un lusso apparente dei ceti medio borghesi).
§43 Noterelle di economia. Nella Riforma Sociale di marzo‑aprile 1933 è contenuta una recensione firmata tre stelle di An essay on the nature and significance of economic science, by Lionel Robbins, professore di economia all’Università di Londra (London, Macmillan and Co., 1932, pp. XII‑141). Anche il recensore si pone la domanda «che cosa è la scienza economica?» e in parte accetta, in parte rettifica o integra i concetti esposti dal Robbins.
Pare che il libro corrisponda all’esigenza posta dal Croce nei suoi saggi di prima del 1900 sulla necessità di far precedere ai trattati di economia una prefazione teorica in cui siano esposti i concetti e i metodi proprii dell’economia stessa, ma la corrispondenza deve essere intesa con discrezione: non pare che il Robbins abbia quel rigore filosofico che il Croce domandava e sia piuttosto un «empirico» e un logico formale.
Il libro può essere interessante come il più recente saggio di questa linea di ricerche, dipendente dalla insoddisfazione che si nota spesso da parte degli economisti a proposito delle definizioni della loro scienza e dei limiti che ad essa si sogliono porre.
Il Robbins «esamina quali sono le condizioni che caratterizzano l’attività umana studiata dagli economisti ed arriva a concludere che esse sono: 1) la diversità dei fini; 2) la insufficienza dei mezzi; 3) la possibilità di usi alternativi. In conseguenza definisce l’economia come quella scienza che studia il modo di comportarsi degli uomini quale relazione tra i fini ed i mezzi scarsi che abbiano usi alternativi».
Pare che il Robbins voglia liberare l’economia dal così detto principio «edonistico» e separare nettamente l’economia dalla psicologia, «rifiutando gli ultimi residui di quella che è stata l’associazione passata tra utilitarismo ed economia» (ciò che probabilmente significa che il Robbins ha elaborato un nuovo concetto dell’utile diverso e più comprensivo di quello tradizionale).
A parte ogni apprezzamento sul merito della quistione, è da mettere in rilievo quali attenti studi gli economisti moderni dedichino a perfezionare continuamente gli strumenti logici della loro scienza, tanto che si può dire che una gran parte del prestigio che gli economisti godono è dovuto al loro rigore formale, all’esattezza dell’espressione ecc.
La stessa tendenza non si verifica nell’economia critica che si vale troppo spesso di espressioni stereotipate, e si esprime in un tono di superiorità a cui non corrisponde il valore dell’esposizione: dà l’impressione di arroganza noiosa e niente altro e perciò pare utile mettere in rilievo questo aspetto degli studi economici e della letteratura economica.
Nella Riforma Sociale le pubblicazioni del tipo di questa del Robbins sono sempre segnalate e non sarà difficile avere una bibliografia in proposito.
È da vedere se l’impostazione che il Robbins dà al problema economico non sia in genere una demolizione della teoria marginalista, quantunque pare egli dica che sull’analisi marginale è possibile costruire «la complessiva teoria economica in modo perfettamente unitario» (cioè abbandonando completamente il dualismo ancora sostenuto dal Marshall, nei criteri della spiegazione del valore, cioè il doppio gioco della utilità marginale e del costo di produzione). Infatti se le valutazioni individuali sono la sola fonte di spiegazione dei fenomeni economici, cosa significa che il campo dell’economia è stato separato dal campo della psicologia e dell’utilitarismo?
Per ciò che riguarda la necessità di una introduzione metodico‑filosofica ai trattati di economia, ricordare l’esempio delle prefazioni al primo volume di Economia critica e al volume di Critica dell’Economia politica: ognuna di esse è forse troppo breve e scarna, ma il principio è seguito: d’altronde nel corpo dei volumi molti accenni metodici filosofici.
Mat. Bibl.: Marginalismo
§45 Noterelle di economia (cfr p. 26). Il rapporto tra l’economia politica e l’economia critica non è stato saputo mantenere nelle sue forme organiche e storicamente attuali. In che cosa le due correnti di pensiero si distinguono nell’impostazione del problema economico? Si distinguono attualmente, nei termini culturali attuali e non già e più nei termini culturali di ottanta anni fa?
Dai manuali di economia critica ciò non appare (per esempio dal Précis), eppure è questo il punto che interessa subito i principianti e dà l’orientamento generale per tutta la ricerca posteriore. In generale questo punto viene dato non solo per noto ma per accettato senza discussione, mentre nessuna delle due cose è vera.
Così avviene che solo gli spiriti gregari e che fondamentalmente si infischiano della quistione sono avviati allo studio dei problemi economici e ogni sviluppo scientifico è reso impossibile.
Ciò che colpisce è questo: come un punto di vista critico che richiede il massimo di intelligenza, di spregiudicatezza, di freschezza mentale e di inventività scientifica sia divenuto il monopolio di biascicazione di cervelli ristretti e meschini, che solo per la posizione dogmatica riescono a mantenere una posizione non nella scienza, ma nella bibliografia marginale della scienza.
Una forma di pensare ossificata è il pericolo più grande in queste quistioni: è da preferire una certa sbrigliatezza disordinata alla difesa filistea delle posizioni culturali costituite.
§67 Quistione agraria. Cosa deve intendersi per «azienda agricola»? Una organizzazione industriale per la produzione agricola che abbia caratteri permanenti di continuità organica.
§22 Introduzione allo studio della filosofia. Teoria e pratica. Poiché ogni azione è il risultato di volontà diverse, con diverso grado di intensità, di consapevolezza, di omogeneità con l’intiero complesso di volontà collettiva, è chiaro che anche la teoria corrispondente e implicita sarà una combinazione di credenze e punti di vista altrettanto scompaginati ed eterogenei. Tuttavia vi è adesione completa della teoria alla pratica, in questi limiti e in questi termini.
Se il problema di identificare teoria e pratica si pone, si pone in questo senso: di costruire, su una determinata pratica, una teoria che coincidendo e identificandosi con gli elementi decisivi della pratica stessa, acceleri il processo storico in atto, rendendo la pratica più omogenea, coerente, efficiente in tutti i suoi elementi, cioè potenziandola al massimo; oppure, data una certa posizione teorica, di organizzare l’elemento pratico indispensabile per la sua messa in opera.
L’identificazione di teoria e pratica è un atto critico, per cui la pratica viene dimostrata razionale e necessaria o la teoria realistica e razionale. Ecco perché il problema dell’identità di teoria e pratica si pone specialmente in certi momenti storici così detti di transizione, cioè di più rapido movimento trasformativo, quando realmente le forze pratiche scatenate domandano di essere giustificate per essere più efficienti ed espansive, o si moltiplicano i programmi teorici che domandano di essere anch’essi giustificati realisticamente in quanto dimostrano di essere assimilabili dai movimenti pratici che solo così diventano più pratici e reali.
§29 Introduzione allo studio della filosofia. Sul così detto «individualismo», cioè sull’atteggiamento che ogni periodo storico ha avuto della posizione dell’individuo nel mondo e nella vita storica.
Ciò che oggi si chiama «individualismo» ha avuto origine nella rivoluzione culturale successa al Medio Evo (Rinascimento e Riforma) e indica una determinata posizione verso il problema della divinità e quindi della Chiesa: è il passaggio dal pensiero trascendente all’immanentismo.
Pregiudizi contro l’individualismo, fino a ripetere contro di esso le geremiadi, più che critiche, del pensiero cattolico e retrivo. L’«individualismo» che è diventato antistorico oggi è quello che si manifesta nell’appropriazione individuale della ricchezza, mentre la produzione della ricchezza si è andata sempre più socializzando. Che i cattolici poi siano i meno adatti a gemere sull’individualismo si può dedurre dal fatto che essi sempre, politicamente, hanno riconosciuto una personalità politica solo alla proprietà, cioè l’uomo valeva non per sé, ma in quanto integrato da beni materiali.
§31 Introduzione allo studio della filosofia. Dal Saggio popolare e da altre pubblicazioni dello stesso genere si può trarre la dimostrazione del modo acritico con cui determinati concetti e nessi di concetti sono stati accolti da sviluppi delle filosofie tradizionali i più disparati e contraddittori. Occorrerebbe fare la storia di ognuno di tali concetti, riportarlo alle sue origini e riassumerne le critiche a cui ha già dato luogo.
§33 Introduzione allo studio della filosofia. Ecco come nella «Critica fascista» del 1° maggio 1933 è riassunto il punto di vista del «Saggiatore»: «Siamo ... nel campo dell’oggettivismo assoluto. Solo criterio di verità è l’esperimento, l’immanenza del pensiero nel realmente saputo. [1] Sola mediazione fra il pensiero e il reale, la scienza [2]. E realmente voluto è solo quello che l’uomo può fare, e fa, nella sua vita storica, che è vita associata circostanziata, definita dai concreti compiti emergenti dallo svolgimento.
Di questa attività umana, che si realizza nella storia, lo Stato [3] è il controllo e la misura. Esso distingue, praticamente, fra quelle che sono le velleità vaganti dell’individuo disperso e le effettuali posizioni di una volontà operosa che la storia sancisce, unificandole e facendole durevoli nelle creazioni collettive». (1. o nel realmente vissuto? cioè nell’identità di teoria e pratica? 2. ma la scienza non è anch’essa pensiero? invece di scienza, tecnologia, e allora, tra scienza e reale sola mediazione la tecnologia; 3. ma cosa significa Stato? Solo l’apparato statale o tutta la società civile organizzata? O l’unità dialettica tra il potere governativo e la società civile?)
I punti di vista del gruppo del «Saggiatore» sono interessanti in quanto dimostrano l’insofferenza per i sistemi filosofici verbalistici, ma esso stesso è un qualcosa di indistinto e incondito. È però un documento di quanto la cultura moderna sia permeata dei concetti realistici della filosofia della praxis.
§61 Introduzione allo studio della filosofia. 1) Egemonia della cultura occidentale su tutta la cultura mondiale. Ammesso anche che altre culture abbiano avuto importanza e significato nel processo di unificazione «gerarchica» della civiltà mondiale (e certamente ciò è da ammettere senz’altro), esse hanno avuto valore universale in quanto sono diventate elementi costitutivi della cultura europea, la sola storicamente o concretamente universale, in quanto cioè hanno contribuito al processo del pensiero europeo e sono state da questo assimilate.
2) Ma anche la cultura europea ha subito un processo di unificazione, e, nel momento storico che ci interessa, ha culminato nello Hegel e nella critica all’hegelismo.
5) Dalla decomposizione dell’hegelismo risulta l’inizio di un nuovo processo culturale, di carattere diverso da quelli precedenti, in cui, cioè, si unificano il movimento pratico e il pensiero teorico (o cercano di unificarsi attraverso una lotta e teorica e pratica).
8) La filosofia della prassi come risultato e coronamento di tutta la storia precedente. Dalla critica dell’hegelismo nascono l’idealismo moderno e la filosofia della prassi. L’immanentismo hegeliano diventa storicismo; ma è storicismo assoluto solo con la filosofia della prassi, storicismo assoluto o umanesimo assoluto. (Equivoco dell’ateismo ed equivoco del deismo in molti idealisti moderni: evidente che l’ateismo è una forma puramente negativa e infeconda, a meno che non sia concepito come un periodo di pura polemica letterario-popolare).
§65 Introduz. allo studio della filosofia. Cfr il libro di Santino Caramella, Senso comune, Teoria e Pratica, pp. 176, Bari, Laterza, 1933.
Azione Cattolica
§40 Azione Cattolica. Importanza speciale dell’Azione Cattolica francese.
Nella «Civiltà Cattolica» del 6 maggio 1933 si recensisce il volume che raccoglie le relazioni della terza di queste Settimane internazionali (Les grandes activités de la Société des Nations devant la pensée chrétienne. Conférences de la troisième semaine catholique internationale 14‑20 septembre 1931, Éditions Spes, Paris 1932, in 16°, pp. 267, Fr. 15).
È da appuntare la risposta che il prof. Halecki dell’Università di Varsavia dà nella sua conferenza alla domanda: «come va che la Chiesa dopo duemila anni dacché propaga la pace non ha ancora potuto darcela?» La risposta è questa: «L’insegnamento di Cristo e della sua Chiesa s’indirizza individualmente alla persona umana, a ciascuna anima in particolare. È questa verità che ci spiega perché il cristianesimo non può operare che assai lentamente sulle istituzioni e sulle pratiche attività collettive, dovendo conquistare un’anima dopo l’altra e ricominciare questo sforzo ad ogni nuova generazione».
Per la «Civiltà Cattolica» questa è una «buona risposta, che può rafforzarsi con la considerazione semplicissima che l’azione pacificatrice della Chiesa è contrastata ed elisa di continuo da quel residuo irriducibile (sic) di paganesimo che sopravvive tuttora ed infiamma le passioni della violenza. La Chiesa è un buon medico, ed offre salutari farmachi alla società inferma, ma questa ricusa in tutto o in parte le medicine».
Risposta molto sofistica e non di difficile confutazione: d’altronde essa è in contraddizione con altre pretese clericali. Quando conviene i clericali pretendono che un paese è cattolico al 99% per dedurne una particolare posizione di diritto della Chiesa nei confronti dello Stato ecc. Quando conviene, si fanno piccini piccini ecc.
Se fosse vero quello che dice il prof. Halecki, l’attività della Chiesa in duemila anni sarebbe stata un lavoro di Sisifo e così dovrebbe continuare ad essere. Ma che valore dovrebbe darsi a una istituzione che non costruisce mai nulla che si prolunghi di generazione in generazione per forza propria, che non modifica in nulla la cultura e la concezione del mondo di nessuna generazione, tanto che occorre sempre riprendere tutto da capo?
Il sofisma è chiaro: quando conviene la Chiesa è identificata con la società stessa (col 99% di essa almeno), quando non conviene la Chiesa è solo l’organizzazione ecclesiastica o addirittura la persona del Papa. Allora la Chiesa è un «medico» che indica alla società i farmachi ecc. Così è molto curioso, che i gesuiti parlino di «residuo irriducibile» di paganesimo: se è irriducibile non sparirà mai, la Chiesa non trionferà mai ecc.
Intellettuali italiani
§54 Ugo Bernasconi. Scrittore di massime morali, novelliere, critico d’arte e credo anche pittore. Collaboratore del «Viandante» di Monicelli e quindi di una certa tendenza.
§24 Letteratura italiana. È da tener nota della grande Storia della Letteratura Italiana di Giuseppe Zonta,
§37 Letteratura italiana. Nel «Marzocco» del 18 settembre 1932 Tullia Franzi scrive sulla quistione sorta tra il Manzoni e il traduttore inglese dei Promessi Sposi, il pastore anglicano Carlo Swan, a proposito della espressione, contenuta verso la fine del capitolo settimo, impiegata per indicare Shakespeare: «Tra il primo concetto di una impresa terribile e l’esecuzione di essa (ha detto un barbaro che non era privo d’ingegno) l’intervallo è un sogno pieno di fantasmi e di paure».
Lo Swan scrisse al Manzoni. «Un barbaro che non era privo d’ingegno is a phrase, calculated to draw upon you the anathema of every admirer of our bard». Nonostante che Swan conoscesse gli scritti del Voltaire contro Shakespeare, egli non colse l’ironia manzoniana, che era appunto rivolta contro il Voltaire (che aveva definito lo Shakespeare «un sauvage avec des étincelles de génie»).
Mi pare che il fatto sia molto più esteso di quanto non sembri, e renda difficile tradurre dall’italiano non solo ma anche, spesso, comprendere un italiano che parla in conversazione. La «finezza» di cui pare si abbia bisogno in tali conversazioni non è un fatto dell’intelligenza normale, ma il fatto di dover conoscere fatterelli e atteggiamenti intellettuali di «gergo», proprii di letterati e anzi di certi gruppi di letterati.
Critica letteraria
§38 Criteri di critica letteraria. Il concetto che l’arte è arte e non propaganda politica «voluta» e proposta, è poi, in se stesso, un ostacolo alla formazione di determinate correnti culturali che siano il riflesso del loro tempo e che contribuiscano a rafforzare determinate correnti politiche? Non pare, anzi pare che tale concetto ponga il problema in termini più radicali e di una critica più efficiente e conclusiva.
Posto il principio che nell’opera d’arte sia solamente da ricercare il carattere artistico, non è per nulla esclusa la ricerca di quale massa di sentimenti, di quale atteggiamento verso la vita circoli nell’opera d’arte stessa. Anzi che ciò sia ammesso dalle moderne correnti estetiche si vede nel De Sanctis e nello stesso Croce.
Ciò che si esclude è che un’opera sia bella per il suo contenuto morale e politico e non già per la sua forma in cui il contenuto astratto si è fuso e immedesimato. Ancora si ricerca se un’opera d’arte non sia fallita perché l’autore sia stato deviato da preoccupazioni pratiche esteriori, cioè posticce e insincere.
§58 Critica letteraria. Nel fascicolo del marzo 1933 dell’«Educazione Fascista» l’articolo polemico di Argo con Paul Nizan (Idee d’oltre confine) a proposito della concezione di una nuova letteratura che sorga da un integrale rinnovamento intellettuale e morale.
Il Nizan pare ponga bene il problema quando comincia dal definire che cosa è un integrale rinnovamento delle premesse culturali e limita il campo della ricerca stessa. L’unica obbiezione fondata di Argo è questa: l’impossibilità di saltare uno stadio nazionale, autoctono della nuova letteratura e i pericoli «cosmopolitici» della concezione del Nizan.
Inoltre il Nizan non sa porre la quistione della così detta «letteratura popolare», cioè della fortuna che ha in mezzo alle masse nazionali la letteratura da appendice (avventurosa, poliziesca, gialla ecc.), fortuna che è aiutata dal cinematografo e dal giornale. Eppure è questa quistione che rappresenta la parte maggiore del problema di una nuova letteratura in quanto espressione di un rinnovamento intellettuale e morale: perché solo dai lettori della letteratura d’appendice si può selezionare il pubblico sufficiente e necessario per creare la base culturale della nuova letteratura.
Mi pare che il problema sia questo: come creare un corpo di letterati che artisticamente stia alla letteratura d’appendice come Dostojevskij stava a Sue e a Soulié o come Chesterton, nel romanzo poliziesco, sta a Conan Doyle e a Wallace ecc.
Bisogna a questo scopo abbandonare molti pregiudizi, ma specialmente occorre pensare che non si può avere il monopolio, non solo, ma che si ha di contro una formidabile organizzazione d’interessi editoriali. Il pregiudizio più comune è questo: che la nuova letteratura debba identificarsi con una scuola artistica di origine intellettuale, come fu per il futurismo.
La premessa della nuova letteratura non può non essere storico‑politica, popolare: deve tendere a elaborare ciò che già esiste, polemicamente o in altro modo non importa; ciò che importa è che essa affondi le sue radici nell’humus della cultura popolare così come è, coi suoi gusti, le sue tendenze ecc., col suo mondo morale e intellettuale sia pure arretrato e convenzionale.
Letteratura non nazionale-popolare
§14 Caratteri non popolari‑nazionali della letteratura italiana. Sarà da vedere un discorso sul tema «Gli italiani e il romanzo», tenuto da Angelo Gatti e riprodotto in parte dall’«Italia Letteraria» del 9 aprile 1933.
Una notazione interessante pare quella che tocca i rapporti tra moralisti e romanzieri in Francia e in Italia. In Francia il tipo del moralista è ben diverso da quello italiano, che è piuttosto «politico»: l’italiano studia come «dominare», come essere più forte, più abile, più furbo; il francese come «dirigere» e quindi come «comprendere» per influenzare e ottenere un «consenso spontaneo e attivo». I Ricordi politici e civili del Guicciardini, sono di questo tipo.
Così in Italia grande abbondanza di libri come il Galateo, in cui si bada all’atteggiamento esteriore delle classi alte.
Nessun libro come quelli dei grandi moralisti francesi (o di ordine subalterno come in Gaspare Gozzi), con le loro analisi raffinate e capillari, Questa differenza nel «romanzo» che in Italia è più esteriore, gretto, senza contenuto umano nazionale‑popolare o universale.
§20 Caratteri non nazionali‑popolari della letteratura italiana. Polemica svoltasi nell’«Italia Letteraria», nel «Tevere», nel «Lavoro Fascista», nella «Critica Fascista» tra «contenutisti» e «calligrafi».
Poiché nessuna opera d’arte può non avere un contenuto, cioè non essere legata a un mondo poetico e questo a un mondo intellettuale e morale, è evidente che i «contenutisti» sono semplicemente i portatori di una nuova cultura, di un nuovo contenuto e i «calligrafi» i portatori di un vecchio o diverso contenuto, di una vecchia o diversa cultura (a parte ogni quistione di valore su questi contenuti o «culture» per il momento, sebbene in realtà è proprio il valore delle culture in contrasto e la superiorità di una sull’altra che decide del contrasto).
Quando nel paese arretrato, le forze civili corrispondenti alla forma culturale si affermano ed espandono, è certo che esse non possono creare una nuova originale letteratura, non solo, ma anzi è naturale che ci sia un «calligrafismo» cioè, in realtà, uno scetticismo diffuso e generico per ogni «contenuto» passionale serio e profondo.
Pertanto il «calligrafismo» sarà la letteratura organica di tali complessi nazionali, che come Lao‑tse, nascono già vecchi di ottanta anni, senza freschezza e spontaneità di sentimento, senza «romanticismi» ma anche senza «classicismi» o con un romanticismo di maniera, in cui la rozzezza iniziale delle passioni è quella delle «estati di San Martino», di un vecchio voronovizzato, non di una virilità o maschilità irrompente, così come il classicismo sarà anch’esso di maniera, «calligrafismo» appunto, mera forma come una livrea da maggiordomo. Avremo «strapaese» e «stracittà», e lo «stra» avrà più significato di quanto non sembri.
È da notare inoltre come in questa discussione manchi ogni serietà di preparazione: le teorie del Croce saranno da accogliere o da respingere, ma bisognerebbe conoscerle con esattezza e citarle con scrupolo. Invece è da notare come nella discussione esse siano riferite a orecchio, «giornalisticamente».
§42 Carattere non nazionale‑popolare della letteratura
§74 Freud e l’uomo collettivo. Il nucleo più sano e immediatamente accettabile del freudismo è l’esigenza dello studio dei contraccolpi morbosi che ha ogni costruzione di «uomo collettivo», di ogni «conformismo sociale», di ogni livello di civiltà, specialmente in quelle classi che «fanaticamente» fanno del nuovo tipo umano da raggiungere una «religione», una mistica ecc.
È da vedere se il freudismo necessariamente non dovesse conchiudere il periodo liberale, che appunto è caratterizzato da una maggiore responsabilità (e senso di tale responsabilità) di gruppi selezionati nella costruzione di «religioni» non autoritarie, spontanee, libertarie ecc. Un soldato di coscrizione non sentirà per le possibili uccisioni commesse in guerra lo stesso grado di rimorso che un volontario ecc. (dirà: mi è stato comandato, non potevo fare diversamente, ecc.). Lo stesso si può notare per le diverse classi: le classi subalterne hanno meno «rimorsi» morali, perché ciò che fanno non le riguarda che in senso lato ecc.
Perciò il freudismo è più una «scienza» da applicare alle classi superiori e si potrebbe dire, parafrasando Bourget (o un epigramma su Bourget) che l’«inconscio» incomincia solo dopo tante decine di migliaia di lire di rendita.
Anche la religione è meno fortemente sentita come causa di rimorsi dalle classi popolari, che forse non sono troppo aliene dal credere che in ogni caso anche Gesù Cristo è stato crocifisso per i peccati dei ricchi.
Si pone il problema se sia possibile creare un «conformismo», un uomo collettivo senza scatenare una certa misura di fanatismo, senza creare dei «tabù», criticamente, insomma, come coscienza di necessità liberamente accettata perché «praticamente» riconosciuta tale, per un calcolo di mezzi e fini da adeguare, ecc.
§13 Problemi di cultura. Feticismo. Come si può descrivere il feticismo. Un organismo collettivo è costituito di singoli individui, i quali formano l’organismo in quanto si sono dati e accettano attivamente una gerarchia e una direzione determinata. Se ognuno dei singoli componenti pensa l’organismo collettivo come un’entità estranea a se stesso, è evidente che questo organismo non esiste più di fatto, ma diventa un fantasma dell’intelletto, un feticcio.
È da vedere se questo modo di pensare, molto diffuso, non sia un residuo della trascendenza cattolica e dei vecchi regimi paternalistici: esso è comune per una serie di organismi, dallo Stato, alla Nazione, ai Partiti politici ecc. È naturale che avvenga per la Chiesa, poiché, almeno in Italia, il lavorio secolare del centro vaticano per annientare ogni traccia di democrazia interna e di intervento dei fedeli nell’attività religiosa è pienamente riuscito ed è divenuto una seconda natura del fedele, sebbene abbia determinato per l’appunto quella speciale forma di cattolicismo che è propria del popolo italiano.
Ciò che fa meraviglia, e che è caratteristico, è che il feticismo di questa specie si riproduca per organismi «volontari», di tipo non «pubblico» o statale, come i partiti e i sindacati.
Si è portati a pensare i rapporti tra il singolo e l’organismo come un dualismo, e ad un atteggiamento critico esteriore del singolo verso l’organismo (se l’atteggiamento non è di una ammirazione entusiastica acritica). In ogni caso un rapporto feticistico. Il singolo s’aspetta che l’organismo faccia, anche se egli non opera e non riflette che appunto, essendo il suo atteggiamento molto diffuso, l’organismo è necessariamente inoperante.
Inoltre è da riconoscere che essendo molto diffusa una concezione deterministica e meccanica della storia (concezione che è del senso comune ed è legata alla passività delle grandi masse popolari) ogni singolo, vedendo che, nonostante il suo non intervento, qualcosa tuttavia avviene, è portato a pensare che appunto al disopra dei singoli esiste una entità fantasmagorica, l’astrazione dell’organismo collettivo, una specie di divinità autonoma, che non pensa con nessuna testa concreta, ma tuttavia pensa, che non si muove con determinate gambe di uomini, ma tuttavia si muove ecc.
Potrebbe sembrare che alcune ideologie, come quella dell’idealismo attuale (di Ugo Spirito) per cui si identifica l’individuo e lo Stato, dovrebbero rieducare le coscienze individuali, ma non pare ciò avvenga di fatto, perché questa identificazione è meramente verbale e verbalistica.
Così è da dire di ogni forma del così detto «centralismo organico», il quale si fonda sul presupposto, che è vero solo in momenti eccezionali, di arroventatura delle passioni popolari, che il rapporto tra governanti e governati sia dato dal fatto che i governanti fanno gli interessi dei governati e pertanto «devono» averne il consenso, cioè deve verificarsi l’identificazione del singolo col tutto, il tutto (qualunque organismo esso sia) essendo rappresentato dai dirigenti.
È da pensare che, come per la Chiesa cattolica, un tale concetto non solo è utile, ma necessario e indispensabile: ogni forma di intervento dal basso, disgregherebbe infatti la Chiesa (si vede ciò nelle chiese protestantiche); ma per altri organismi è quistione di vita non il consenso passivo e indiretto, ma quello attivo e diretto, la partecipazione quindi dei singoli, anche se ciò provoca un’apparenza di disgregazione e di tumulto.
Una coscienza collettiva, e cioè un organismo vivente, non si forma se non dopo che la molteplicità si è unificata attraverso l’attrito dei singoli: né si può dire che il «silenzio» non sia molteplicità. Un’orchestra che fa le prove, ogni strumento per conto suo, dà l’impressione della più orribile cacofonia; eppure queste prove sono la condizione perché l’orchestra viva come un solo «strumento».
§53 Storia letteraria o della cultura. L’origine della teoria americana (riferita dal Cambon in una sua prefazione a un volume del Ford) che in ogni epoca i grandi uomini sono tali nell’attività fondamentale dell’epoca stessa, cosa per cui sarebbe assurdo «rimproverare» agli Americani di non avere grandi artisti quando hanno «grandi tecnici», come sarebbe rimproverare al Rinascimento di aver avuto grandi pittori e scultori e non grandi tecnici, si può trovare in Carlyle (Sugli eroi e l’eroismo).
Ma la quistione in generale non pare seria, se impostata sulla necessità che appaiano grandi genii. Si può solo giudicare dell’atteggiamento verso la vita, più o meno conformista o eroico, metastasiano o alfieriano, il che certo non è poco. Non è da escludere che dove la tradizione ha lasciato un largo strato di intellettuali, e un interesse vivace o prevalente per certe attività, si sviluppino «genii» che non corrispondono ai tempi in cui vivono concretamente, ma a quelli in cui vivono «idealmente» e culturalmente. Machiavelli potrebbe essere uno di questi.
Inoltre si dimentica che ogni tempo o ambiente è contraddittorio e che si esprime e si corrisponde al proprio tempo o ambiente combattendoli strenuamente oltre che collaborando alle forme di vita ufficiale.
Pare che anche in questo argomento è da tener conto della quistione degli intellettuali e del loro modo di selezionarsi nelle varie epoche di sviluppo della civiltà. E da questo punto di vista può esserci molta verità nell’affermazione americana.
Epoche progressive nel campo pratico possono non aver avuto il tempo ancora di manifestarsi nel campo creativo estetico e intellettuale, o possono essere in questo arretrate, filistee ecc.
§68 Argomenti di cultura. Origini popolaresche del concetto
§1 Passato e presente. Studi sulla struttura economica nazionale.
§3 Passato e presente. È strano come la identità «Stato‑classe» non essendo di facile comprensione avvenga che un governo (Stato) possa fare rifluire sulla classe rappresentata come un merito e una ragione di prestigio l’aver finalmente fatto ciò che da più di cinquanta anni doveva essere fatto e quindi dovrebbe essere un demerito e una ragione di infamia. Si lascia morire di fame un uomo fino a cinquanta anni; a cinquanta anni ci si accorge di lui. Nella vita individuale ciò sarebbe ragione di una scarica di pedate. Nella vita statale appare un «merito».
Non solo ma il «lavarsi» a cinquanta anni appare superiorità su altri uomini di cinquanta anni che si sono sempre lavati. (Ciò si dice per le bonifiche, i lavori pubblici, le strade ecc. cioè l’attrezzatura civile generale di un paese: che un paese si dia questa attrezzatura che altri si son dati al loro tempo, è conclamato e strombazzato e si dice agli altri: fate altrettanto, se potete. Gli altri non possono, perché l’hanno già fatto al loro tempo e ciò viene presentato come una loro «impotenza»).
§12 Passato e presente. La saggezza degli zulù ha elaborato questa massima riportata da una rivista inglese: «È meglio avanzare e morire che fermarsi e morire».
§18 Passato e presente. Eppure il fatto che lo Stato‑governo, concepito come una forza autonoma, faccia rifluire il suo prestigio sulla classe che ne è il fondamento, è dei più importanti praticamente e teoricamente e merita di essere analizzato in tutta la sua estensione se si vuole avere un concetto più realistico dello Stato stesso.
D’altronde non si tratta di cosa eccezionale o che sia propria di un solo tipo di Stato: pare si possa far rientrare nella funzione delle élites o avanguardie, quindi dei partiti, in confronto alla classe che rappresentano.
Questa classe, spesso, come fatto economico (e tale è essenzialmente ogni classe) non godrebbe di nessun prestigio intellettuale e morale, cioè sarebbe incapace di esercitare un’egemonia, quindi di fondare uno Stato. Perciò la funzione delle monarchie anche nell’epoca moderna, e perciò specialmente il fatto, verificatosi specialmente in Inghilterra e in Germania, che il personale dirigente della classe borghese organizzata in Stato sia costituito di elementi delle vecchie classi feudali spossessate nel predominio economico (Junker e lords) tradizionale ma che hanno trovato nell’industria e nella banca nuove forme di potenza economica, pur non volendosi fondere con la borghesia e rimanendo uniti al loro gruppo sociale tradizionale.
§19 Passato e presente. Estrarre da questa rubrica una serie di note che siano del tipo dei Ricordi politici e civili del Guicciardini (tutte le proporzioni rispettate). I «Ricordi» sono tali in quanto riassumono non tanto avvenimenti autobiografici in senso stretto (sebbene anche questi non manchino), quanto «esperienze» civili e morali (morali più nel senso etico‑politico) strettamente connesse alla propria vita e ai suoi avvenimenti, considerate nel loro valore universale o nazionale.
Per molti rispetti, una tal forma di scrittura può essere più utile che le autobiografie in senso stretto, specialmente se essa si riferisce a processi vitali che sono caratterizzati dal continuo tentativo di superare un modo di vivere e di pensare arretrato come quello che era proprio di un sardo del principio del secolo per appropriarsi un modo di vivere e di pensare non più regionale e da «villaggio», ma nazionale, e tanto più nazionale (anzi nazionale appunto perciò) in quanto cercava di inserirsi in modi di vivere e di pensare europei, o almeno il modo nazionale confrontava coi modi europei, le necessità culturali italiane confrontava con le necessità culturali e le correnti europee (nel modo in cui ciò era possibile e fattibile nelle condizioni personali date, è vero, ma almeno secondo esigenze e bisogni fortemente sentiti in questo senso).
Se è vero che una delle necessità più forti della cultura italiana era quella di sprovincializzarsi anche nei centri urbani più avanzati e moderni, tanto più evidente dovrebbe apparire il processo in quanto sperimentato da un «triplice o quadruplice provinciale» come certo era un giovane sardo del principio del secolo.
§21 Passato e presente. Se si domanda a Tizio, che non ha mai studiato il cinese e conosce bene solo il dialetto della sua provincia, di tradurre un brano di cinese, egli molto ragionevolmente si meraviglierà, prenderà la domanda in ischerzo e, se si insiste, crederà di essere canzonato, si offenderà e farà ai pugni.
Eppure lo stesso Tizio, senza essere neanche sollecitato, si crederà autorizzato a parlare di tutta una serie di quistioni che conosce quanto il cinese, di cui ignora il linguaggio tecnico, la posizione storica, la connessione con altre quistioni, talvolta gli stessi elementi fondamentali distintivi.
Del cinese almeno sa che è una lingua di un determinato popolo che abita in un determinato punto del globo: di queste quistioni ignora la topografia ideale e i confini che le limitano.
§27 Passato e presente. Poiché oggi la storia del Socialnazionalismo tedesco sarà scritta piuttosto a scopi aulici,
§34 Passato e presente. Stella Nera. Giovanni Ansaldo compila a Genova un «Raccoglitore Ligure»,
§35 Passato e presente. Storia dei 45 cavalieri ungheresi. Ettore Ciccotti, durante il governo Giolitti di prima del 1914, soleva spesso ricordare un episodio della guerra dei Trent’Anni: pare che 45 cavalieri ungari si fossero stabiliti nelle Fiandre e poiché la popolazione era stata disarmata e demoralizzata dalla lunga guerra, siano riusciti per oltre sei mesi a tiranneggiare il paese.
In realtà, in ogni occasione è possibile che sorgano «45 cavalieri ungari», là dove non esiste un sistema protettivo delle popolazioni inermi, disperse, costrette al lavoro per vivere e quindi non in grado, in ogni momento, di respingere gli assalti, le scorrerie, le depredazioni, i colpi di mano eseguiti con un certo spirito di sistema e con un minimo di previsione «strategica». Eppure a quasi tutti pare impossibile che una situazione come questa da «45 cavalieri ungari» possa mai verificarsi: e in questa «miscredenza» è da vedere un documento di innocenza politica.
Elementi di tale «miscredenza» sono specialmente una serie di «feticismi», di idoli, prima fra tutti quello del «popolo» sempre fremente e generoso contro i tiranni e le oppressioni.
Ma forse che, proporzionalmente, sono più numerosi gli inglesi in India di quanto fossero i cavalieri ungari nelle Fiandre? E ancora: gli inglesi hanno i loro seguaci fra gli indiani, quelli che stanno sempre col più forte, non solo, ma anche dei seguaci «consapevoli», coscienti, ecc.
Non si capisce che in ogni situazione politica la parte attiva è sempre una minoranza, e che se questa, quando è seguita dalle moltitudini, non organizza stabilmente questo seguito, e viene dispersa, per un’occasione qualsiasi propizia alla minoranza avversa, tutto l’apparecchio si sfascia e se ne forma uno nuovo, in cui le vecchie moltitudini non contano nulla e non possono più muoversi e operare.
Ciò che si chiamava «massa» è stata polverizzata in tanti atomi senza volontà e orientamento e una nuova «massa» si forma, anche se di volume inferiore alla prima, ma più compatta e resistente, che ha la funzione di impedire che la primitiva massa si riformi e diventi efficiente. Tuttavia molti continuano a richiamarsi a questo fantasma del passato, lo immaginano sempre esistente, sempre fremente ecc. Così il Mazzini immaginava sempre l’Italia del 48 come un’entità permanente che occorreva solo indurre, con qualche artifizio, a ritornare in piazza ecc.
L’errore è anche legato a un’assenza di «sperimentalità»: il politico realista, che conosce le difficoltà di organizzare una volontà collettiva, non è portato a credere facilmente che essa si riformi meccanicamente dopo che si è disgregata.
L’ideologo, che come il cuculo, ha posto le uova in un nido già preparato e non sa costruire nidi, pensa che le volontà collettive siano un dato di fatto naturalistico, che sbocciano e si sviluppano per ragioni insite nelle cose ecc.
§36 Passato e presente. Nella «Critica» del 20 marzo 1933 è contenuta una «Postilla» del Croce: Il mondo va verso…. Pare però che il Croce non abbia accennato a tutti gli aspetti della formula che è essenzialmente una formula politica, di azione politica. Riuscire a convincere che il «mondo va verso…» una certa direzione significa niente altro che riuscire a convincere della ineluttabilità della propria azione e ottenere il consenso passivo per la sua esplicazione.
Come questa convinzione si formi è certo un argomento interessante: che vi contribuisca la «viltade» e altre forme di bassezza morale è indubbio: ma anche il fatto che tanta «viltade» e tanta bassezza siano diffuse è un fatto politico che andrebbe analizzato e di cui bisognerebbe trovare le origini concrete.
Questa formula del «mondo che va» a sinistra o a destra o verso un compromesso ecc. ha incominciato a diffondersi in Italia nel 1921 ed era un segno evidente della demoralizzazione che conquistava vasti strati della popolazione. Si potrebbe ricostruire questo movimento intellettuale quasi con una data certa. Che la formula in sé non significhi nulla, è vero. Intanto è comoda l’espressione del «mondo» corpulento che va in qualche parte. Si tratta di una «previsione» che non è altro che un giudizio sul presente, interpretato nel modo più facilonesco, per rafforzare un determinato programma d’azione con la suggestione degli imbecilli e dei pavidi.
Ma se il compito dell’intellettuale è visto come quello di mediatore tra due estremismi e questo compito di mediazione non è affidato allo sviluppo storico stesso, cosa fa l’intellettuale se non collaborare coll’attore del dramma storico che ha meno scrupoli e meno senso di responsabilità? Questo pare sia stato l’atteggiamento del Croce.
Non sarebbe stato più onesto intellettualmente di apparire sulla scena nel vero compito, di alleato «con riserve» di una delle due parti? invece che di voler apparire come superiore alle miserie passionali delle parti stesse e come incarnazione della «storia»?
§39 Passato e presente. Sindacato e corporazione. Difficoltà che trovano i teorici del corporativismo a inquadrare il fatto sindacale (organizzazione delle categorie) e sorda lotta tra sindacalisti tradizionali (per es. E. Rossoni) e corporativisti di nuova mentalità (per es. Giuseppe Bottai e Ugo Spirito).
§49 Passato e presente. Da un articolo di Manlio Pompei nella «Critica Fascista» del 1° maggio 1933: «Nella generica affermazione di una necessaria ripresa morale abbiamo sentito spesso ricordare la famiglia, come l’istituto intorno a cui si deve riannodare questa inderogabile ripresa. Su questo punto non mancano i pareri discordi: una recente polemica sulla letteratura infantile e sulla educazione dei nostri ragazzi ha fatto affiorare il concetto che il vincolo famigliare, gli affetti che legano i membri di una stessa famiglia, possano a un certo punto costituire un intralcio per quella educazione guerriera e virile, che è nelle finalità del Fascismo. A nostro avviso la famiglia è e deve restare la cellula madre della società fascista».
Tutto l’articolo è interessante, sebbene la quistione non sia impostata con rigore. Il Pompei descrive la crisi della famiglia in tutti gli strati sociali, e invero non indica né come tale crisi possa essere arginata o condotta a una soluzione razionale, né come lo Stato possa intervenire per costruire o stimolare la costruzione di un nuovo tipo di famiglia.
Il Pompei anzi afferma che la crisi è necessaria, connessa com’è a tutto un processo di rinnovazione sociale e culturale, e perciò è tanto più notevole l’effettivo disorientamento suo, nonostante le affernazioni generiche costruttive.
§51 Passato e presente. Nella «Civiltà Cattolica» del 20 maggio 1933 è dato un breve riassunto delle Conclusioni all’inchiesta sulla nuova generazione. (Estratto del fascicolo 28 del «Saggiatore», Roma, Arti grafiche Zamperini, 1933, in 8°, pp. 32).
Secondo la «Civiltà Cattolica» il succo dell’inchiesta sarebbe: «La nuova generazione sarebbe dunque: senza morale e senza principi immutabili di moralità, senza religiosità ovvero atea, con poche idee e con molto istinto».
«La generazione prebellica credeva e si faceva dominare dalle idee di giustizia, di bene, di disinteresse e della religione; la moderna spiritualità si è sbarazzata di tali idee, le quali in pratica sono immorali. I piccoli fatti della vita richiedono elasticità e pieghevolezza morale, che si comincia ad ottenere con la spregiudicatezza della nuova generazione. Nella nuova generazione perdono valore tutti quei principi morali che si sono imposti quali assiomi alle coscienze individuali. La morale è divenuta assolutamente pragmatistica: essa scaturisce dalla vita pratica, dalle diverse situazioni in cui l’uomo viene a trovarsi.
La nuova generazione non è né spiritualistica, né positivistica, né materialistica, essa tende a superare razionalmente tanto gli atteggiamenti spiritualistici, quanto le viete posizioni positivistiche e materialistiche. Sua principale caratteristica è la mancanza di qualsiasi forma di reverenzialità per tutto ciò che incarna il vecchio mondo.
Nella massa dei giovani si è affievolito il senso religioso e tutti i diversi astratti imperativi morali, ormai divenuti inadatti alla vita di oggigiorno. I giovanissimi hanno meno idee e più vita, hanno invece acquistata naturalezza e confidenza nell’atto sessuale, sì che l’amore non è più considerato nel senso di un peccato, di una trasgressione, di una cosa proibita. I giovani, diretti attivamente nelle direzioni che la vita moderna indica, risultano immuni da ogni possibile ritorno ad una religiosità dommatica dissolvente».
Pare che questa serie di affermazioni non sia altro che il programma stesso del «Saggiatore», e questo pare piuttosto una curiosità che una cosa seria. È in fondo, un ripensamento popolaresco del «superuomo» nato dalle più recenti esperienze della vita nazionale, un «superuomo» strapaesano, da circolo dei signori e da farmacia filosofica.
Se si riflette, significa che la nuova generazione è diventata, sotto l’aspetto di un volontarismo estremo, della massima abulicità. Non è vero che non abbia ideali: questi solo sono tutti contenuti nel codice penale che si suppone fatto una volta per sempre nel suo complesso. Significa anche che manca nel paese ogni direzione culturale all’infuori di quella cattolica, ciò che farebbe supporre che per lo meno l’ipocrisia religiosa debba finire per incrementarsi. Sarebbe tuttavia interessante sapere di quale nuova generazione il «Saggiatore» intenda parlare.
La filosofia del «Saggiatore», oltre che una reazione plausibile all’ubriacatura attualistica e religiosa, è però essenzialmente connessa a tendenze conservatrici e passive e in realtà contiene la più alta «reverenzialità» per l’esistente, cioè per il passato cristallizzato.
E tuttavia questo gruppo del «Saggiatore» merita di essere studiato e analizzato:
1) perché esso cerca di esprimere, sia pur rozzamente, tendenze che sono diffuse e vagamente concepite dal gran numero;
2) perché esso è indipendente da ogni «grande filosofo» tradizionale e anzi si oppone a ogni tradizione cristallizzata;
3) perché molte affermazioni del gruppo sono indubbiamente ripetizioni a orecchio di posizioni filosofiche della filosofia della praxis entrate nella cultura generale ecc. (Ricordare il «provando e riprovando» dell’on. Giuseppe Canepa come Commissario per gli approvvigionamenti durante la guerra: questo Galileo della scienza amministrativa aveva bisogno di una esperienza con morti e feriti per sapere che dove manca il pane corre sangue).
§55 Passato e presente. Una delle manifestazioni più tipiche del pensiero settario (pensiero settario è quello per cui non si riesce a vedere come il partito politico non sia solo l’organizzazione tecnica del partito stesso, ma tutto il blocco sociale attivo di cui il partito è la guida perché l’espressione necessaria) è quella per cui si ritiene di poter fare sempre certe cose anche quando la «situazione politico-militare» è cambiata. Tizio lancia un grido e tutti applaudono e si entusiasmano; il giorno dopo, la stessa gente che ha applaudito e si è entusiasmata a sentire lanciare quel grido, finge di non sentire, scantona ecc.; al terzo giorno la stessa gente rimprovera Tizio, lo rintuzza, e anche lo bastona o lo denunzia. Tizio non ne capisce nulla; ma Caio che ha comandato Tizio, rimprovera Tizio di non aver gridato bene, o di essere un vigliacco o un inetto ecc. Caio è persuaso che quel grido, elaborato dalla sua eccellentissima capacità teorica, deve sempre entusiasmare e trascinare, perché nella sua conventicola infatti i presenti fingono ancora di entusiasmarsi ecc. Sarebbe interessante descrivere lo stato d’animo di stupore e [anche] di indignazione del primo francese che vide rivoltarsi il popolo sociliano dei Vespri.
§57 Passato e presente. Da una lettera a Uberto Lagardelle di Giorgio Sorel
§62 Passato e presente. Epilogo primo. L’argomento della «rivoluzione passiva» come interpretazione dell’età del Risorgimento e di ogni epoca complessa di rivolgimenti storici. Utilità e pericoli di tale argomento. Pericolo di disfattismo storico, cioè di indifferentismo, perché l’impostazione generale del problema può far credere a un fatalismo, ecc.; ma la concezione rimane dialettica, cioè presuppone, anzi postula come necessaria, un’antitesi vigorosa e che metta in campo tutte le sue possibilità di esplicazione intransigentemente.
Dunque non teoria della «rivoluzione passiva» come programma, come fu nei liberali italiani del Risorgimento, ma come criterio di interpretazione in assenza di altri elementi attivi in modo dominante. (Quindi lotta contro il morfinismo politico che esala da Croce e dal suo storicismo).
§66 Passato e presente. Nel succedersi delle generazioni (e in quanto ogni generazione esprime la mentalità di un’epoca storica) può avvenire che si abbia una generazione anziana dalle idee antiquate e una generazione giovane dalle idee infantili, che cioè manchi l’anello storico intermedio, la generazione che abbia potuto educare i giovani.
Tutto ciò è relativo, s’intende. Questo anello intermedio non manca mai del tutto, ma può essere molto debole «quantitativamente» e quindi materialmente nell’impossibilità di sostenere il suo compito. Ancora: ciò può avvenire per un gruppo sociale e non per un altro. Nei gruppi subalterni il fenomeno si verifica più spesso e in modo più grave, per la difficoltà, insita nell’essere «subalterno», di una continuità organica dei ceti intellettuali dirigenti e per il fatto che per i pochi elementi che possono esistere all’altezza dell’epoca storica è difficile organizzare ciò che gli americani chiamano trust dei cervelli.
§69 Passato e presente. In una memoria politico-giuridica giovanile di Daniele Manin
§71 Passato e presente. Cfr articolo di Crispolto Crispolti nella «Gerarchia» del luglio 1933 su Leone XIII e l’Italia (sul volume di Eduardo Soderini, Il Pontificato di Leone XIII, vol. II, Rapporti con l’Italia e con la Francia, Mondadori editore). Il Crispolti scrive che l’anticlericalismo italiano (e quindi lo sviluppo della Massoneria) dal 1878 al 1903 (pontificato di Leone XIII) fu una conseguenza della politica antitaliana del Vaticano. Anche il Crispolti non è soddisfatto dei volumi del Soderini. Richiamo al volume del Salata e all’«Archivio Galimberti». Volumi del Soderini «aulici, ufficiali» del Vaticano. L’articolo del Crispolti è interessante.
§30 Americanismo. Il Duhamel ha espresso l’idea che un paese di alta civiltà debba fiorire anche artisticamente. Ciò è stato detto per gli Stati Uniti, e il concetto è esatto: ma è esatto in ogni momento dello sviluppo di un paese? Ricordare la teoria americana che in ogni periodo di civiltà i grandi uomini esprimono l’attività fondamentale dell’epoca, che è anch’essa unilaterale. Mi pare che le due idee possono accordarsi nella distinzione tra fase economica corporativa di uno Stato e fase etico‑politica.
La fioritura artistica per gli Stati Uniti può concepirsi essere quella europea, data l’omogeneità nelle forme di vita civile; così in un certo periodo l’Italia produceva artisti per tutta la cosmopoli europea ecc. I paesi allora «tributari» dell’Italia si sviluppavano «economicamente» e a questo sviluppo è successa una propria fioritura artistica, mentre l’Italia è decaduta: così è avvenuto dopo il Rinascimento per rispetto alla Francia, alla Germania, all’Inghilterra.
Un elemento storico molto importante nello studio delle «fioriture artistiche» è il fatto della continuità dei gruppi intellettuali, cioè dell’esistenza di una forte tradizione culturale, ciò che appunto è mancato in America.
Un altro elemento negativo, da questo punto di vista, è certamente rappresentato da ciò, che la popolazione americana non si è sviluppata organicamente su una base nazionale, ma è il prodotto di una continua giustapposizione di nuclei emigrati, sia pure emigrati da paesi anglosassoni.
§46 Ordine intellettuale e morale. Brani del libro Lectures and Essays on University subjects del cardinale Newman.
§16 Nozioni enciclopediche. Aporia. Dubbio, cioè nesso di pensiero ancora in formazione, pieno di contraddizioni che aspettano una soluzione. Pertanto l’aporia può risolversi, come ogni dubbio, positivamente e negativamente.
Congiuntura. Si può definire la congiuntura come l’insieme delle circostanze che determinano il mercato in una fase data, se però queste circostanze sono concepite come in movimento, cioè come un insieme che dà luogo a un processo di sempre nuove combinazioni, processo che è il ciclo economico. Si studia la congiuntura per prevedere e quindi anche, entro certi limiti, determinare il ciclo economico in senso favorevole agli affari. Perciò la congiuntura è stata anche definita l’oscillazione della situazione economica, o l’insieme delle oscillazioni.
§23 Nozioni enciclopediche. Per le espressioni «Zunftbürger» e «Pfahlbürger» o «Pfahlbürgerschaft» impiegate nel Manifesto è da vedere, per le corrispondenti figure italiane, il libro di Arrigo Solmi L’amministrazione finanziaria del regno italico nell’alto Medio Evo, Pavia, 1932, pp. XV‑288, L. 20 (cfr recensione analitica di Piero Pieri nella «Nuova Italia» del 20 gennaio 1933).
A Pavia esistevano prima del Mille «alcune arti o professioni di mestiere, tenute quasi in regime di monopolio, sotto la dipendenza della Camera o del Palazzo regio di Pavia». Esse appaiono costituite intorno a persone di maggiore esperienza e responsabilità dette magistri: costoro sono di nomina regia, hanno il governo interno dell’«Arte e ne rispondono verso lo Stato, ma provvedono anche a difendere i privilegi del mestiere e a valorizzarne i prodotti.
Nessun artigiano può esercitare l’arte se non è iscritto all’organizzazione, e tutti sono sottoposti a tributi di carattere generale e speciale verso la Camera regia». (Camera: il «ministero delle finanze» d’allora).
§73 Risorgimento italiano. Cfr A. Rossi, Le cause storico‑politiche della tardiva unificazione e indipendenza d’Italia, Roma, Cremonese, 1933, pp. 112, L. 8,00. (Il titolo stesso è curioso e mostra come sia diffusa la concezione mitologico‑fatalistica nello studio del Risorgimento).
§9 Note autobiografiche. Come ho cominciato a giudicare con maggiore indulgenza le catastrofi del carattere. Per esperienza del processo attraverso cui tali catastrofi avvengono. Nessuna indulgenza per chi compie un atto contrario ai suoi principii «repentinamente» e intendo repentinamente in questo senso: per non aver pensato che il rimaner fermi in certi principii avrebbe procurato sofferenze e non averle prevedute. Chi, trovatosi d’un tratto dinanzi alla sofferenza, prima ancora di soffrirla o all’inizio della sofferenza, muta atteggiamento, non merita indulgenza. Ma il caso si pone in forme complesse.
È strano che di solito si sia meno indulgenti coi mutamenti «molecolari» che con quelli repentini. Ora il movimento «molecolare» è il più pericoloso, ché, mentre dimostra nel soggetto la volontà di resistere, «fa intravedere» (a chi riflette) un mutamento progressivo della personalità morale che a un certo punto da quantitativo diventa qualitativo: cioè non si tratta più in verità, della stessa persona, ma di due. (S’intende che «indulgenza» non significa altro che mancanza di filisteismo morale, non già che non si tenga conto del mutamento e non si sanzioni; la mancanza di sanzione significherebbe «glorificazione» o per lo meno «indifferenza» al fatto e ciò non permetterebbe di distinguere la necessità e la non necessità, la forza maggiore e la vigliaccheria).
Si è formato il principio che un capitano non debba abbandonare la nave naufragata che per ultimo, quando tutti si sono salvati, anzi si giunge in alcuni ad affermare che in tali casi il capitano «deve» ammazzarsi. Queste affermazioni sono meno irrazionali di quanto potrebbe sembrare. Certo non è escluso che non ci sia nulla di male a che un capitano si salvi per il primo. Ma se questa constatazione diventasse un principio, quale garanzia si avrebbe che il capitano ha fatto di tutto: 1) perché il naufragio non avvenga; 2) perché, avvenuto, tutto è stato fatto per ridurre al minimo i danni delle persone e delle cose? (danni delle cose significa poi danno futuro delle persone).
Solo il principio, divenuto «assoluto», che il capitano, in caso di naufragio, abbandona per ultimo la nave e anzi muore con essa, dà questa garanzia, senza cui la vita collettiva è impossibile, cioè nessuno prenderebbe impegni e opererebbe abbandonando ad altri la propria sicurezza personale. La vita moderna è fatta in gran parte di questi stati d’animo o «credenze» forti come i fatti materiali.
La sanzione di questi mutamenti, per tornare all’argomento, è un fatto politico, non morale, dipende non da un giudizio morale, ma da uno di «necessità» per l’avvenire, nel senso che se così non si facesse, danni maggiori potrebbero venire: in politica è giusta una «ingiustizia» piccola per evitarne una più grande ecc.
Dico che è «moralmente» più giustificabile chi si modifica «molecolarmente» (per forza maggiore, s’intende) che chi si modifica d’un tratto, sebbene di solito si ragioni diversamente. Si sente dire: «Ha resistito per cinque anni, perché non per sei? Poteva resistere un altro anno e trionfare».
Intanto in questo caso si tratta del senno di poi, perché al quinto anno il soggetto non sapeva che «solo» un altro anno di sofferenze lo aspettava. Ma a parte questo: la verità è che l’uomo del quinto anno non è quello del quarto, del terzo, del secondo, del primo ecc.; è una nuova personalità, completamente nuova, nella quale gli anni trascorsi hanno appunto demolito i freni morali, le forze di resistenza che caratterizzavano l’uomo del primo anno.
Un esempio tipico è quello del cannibalismo. Si può dire che al livello attuale della civiltà, il cannibalismo ripugna talmente che una persona comune è da credere quando dice: – messo al bivio di essere cannibale, mi ammazzerei. Nella realtà, quella stessa persona, se dovesse trovarsi dinanzi al bivio: «essere cannibale o ammazzarsi» non ragionerebbe più così, perché sarebbero avvenute tali modificazioni nel suo io, che l’«ammazzarsi» non si presenterebbe più come alternativa necessaria: egli diventerebbe cannibale senza pensare per nulla ad ammazzarsi. Se Tizio, nel pieno delle sue forze fisiche e morali viene messo al bivio, c’è una probabilità che s’ammazzi (dopo essersi persuaso che non si tratta di una commedia ma di cosa reale, di alternativa seria); ma questa probabilità non esiste più (o almeno diminuisce molto) se Tizio si trova al bivio dopo aver subito un processo molecolare in cui le sue forze fisiche e morali sono andate distrutte. Ecc.
Così vediamo uomini normalmente pacifici, dare in scoppi repentini di ira e ferocia. Non c’è, in realtà, niente di repentino: c’è stato un processo «invisibile» e molecolare in cui le forze morali che rendevano «pacifico» quell’uomo, si sono dissolte. Questo fatto da individuale può essere considerato collettivo (si parla allora della «goccia che ha fatto traboccare il vaso» ecc.).
Il dramma di tali persone consiste in ciò: Tizio prevede il processo di disfacimento, cioè prevede che diventerà… cannibale, e pensa: se ciò avverrà, a un certo punto del processo mi ammazzo. Ma questo «punto» quale sarà? In realtà ognuno fida nelle sue forze e spera nei casi nuovi che lo tolgano dalla situazione data. E così avviene che (salvo eccezioni) la maggior parte si trova in pieno processo di trasformazione oltre quel punto in cui le sue forze ancora erano capaci di reagire sia pure secondo l’alternativa del suicidio.
Questo fatto è da studiare nelle sue manifestazioni odierne. Non che il fatto non si sia verificato nel passato, ma è certo che nel presente ha assunto una sua forma speciale e… volontaria. Cioè oggi si conta che esso avvenga e l’evento viene preparato sistematicamente, ciò che nel passato non avveniva (sistematicamente vuol dire però «in massa» senza escludere naturalmente le particolari «attenzioni» ai singoli).
È certo che oggi si è infiltrato un elemento «terroristico» che non esisteva nel passato, di terrorismo materiale e anche morale, che non è sprezzabile. Ciò aggrava la responsabilità di coloro che, potendo, non hanno, per imperizia, negligenza, o anche volontà perversa, impedito che certe prove fossero passate. Contro questo modo di vedere antimoralistico c’è la concezione falsamente eroica, retorica, fraseologica, contro la quale ogni sforzo di lotta è poco.
§75 Argomenti di cultura. Il dizionario del Rezasco. Vi accenna il Felice Bernabei nelle Memorie inedite di un archeologo