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Poeta (Recanati 29 giugno 1798 - Napoli 14 giugno 1837). Tra i
massimi scrittori della letteratura italiana di tutti i tempi, nella
sua opera risulta centrale il tema dell’infelicità
costitutiva dell’essere umano, intesa come legge di natura alla
quale nessun uomo può sottrarsi. Lo Zibaldone di
pensieri (pubbl. col tit. Pensieri di varia filosofia e di
bella letteratura, 7 voll., 1898-1900) e soprattutto l'Epistolario
(a cura di P. Viani, 1849; a cura di F. Moroncini e G. Ferretti, 7
voll., 1934-41) vanno considerati non solo come documenti
indispensabili per l'interpretazione dell'anima e della poesia di
L., ma come opere d'arte a sé stanti che, insieme con le
Operette morali (1ª ed. Milano 1827), lo pongono anche tra i
maggiori prosatori italiani.
Vita e operePrimo dei cinque figli di Monaldo e di Adelaide Antici.
Nonostante che la madre fosse poco espansiva e piuttosto rigida e il
padre distratto dai suoi studî, la prima fanciullezza di L. fu
lieta, soprattutto per la compagnia dei fratelli Carlo e Paolina, di
soli uno e due anni più giovani. Sotto la guida di istitutori
privati e del padre medesimo, che avrebbe inizialmente emulato e del
quale avrebbe assecondato le ambizioni con un "grandissimo, forse
smoderato e insolente desiderio di gloria", si avviò
precocemente agli studî, all'età di undici anni
riuscendo tra l'altro a tradurre il I libro delle Odi di Orazio e
scrivendo a quattordici due tragedie, La virtù indiana e
Pompeo in Egitto. Nello stesso 1812 abbozzò un'erudita Storia
dell'astronomia, e nel 1815 il Saggio sugli errori popolari degli
antichi; ma l'adolescente molto altro tradusse e scrisse, di
poderosa filologia ed erudizione. Era cominciato il periodo di sette
anni, come egli stesso disse, di "studio matto e disperatissimo" nel
chiuso della ricca biblioteca paterna, che gli minò la
gracile complessione. Dopo aver stretto amicizia con P. Giordani
(1817), che, intuendone le doti straordinarie, lo confermò
nelle sue ambizioni (continuando poi di volta in volta a incitarlo e
sorreggerlo), e dopo aver composto l'anno successivo l'importante
Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, nel 1819
attraversò un periodo di grave crisi: impeditagli dalle
condizioni fisiche anche la lettura, non gli rimaneva che meditare,
approdando a quella che poi chiamerà "conversione filosofica"
e toccando il fondo della disperazione intellettuale e sentimentale.
Dello stesso anno è un ingenuo tentativo di fuga da Recanati,
facilmente sventato; dal suo "borgo" si allontanò più
tardi con il consenso dei genitori per un deludente soggiorno di
cinque mesi a Roma (1822-23), dove trasse conforto solo dalla stima
e dall'amicizia di alcuni studiosi stranieri. Nel luglio 1825
poté finalmente stabilirsi a Milano stipendiato dall'editore
A. F. Stella, per il quale pubblicò un commento a Petrarca
(1826) e due crestomazie, di prose (1827) e di versi (1828), di
autori italiani. Da Milano nel settembre 1826 si trasferì a
Bologna sempre stipendiato da Stella; dal novembre 1826 all'aprile
1827 fu a Recanati; quindi passò di nuovo a Bologna e in
giugno a Firenze e (inverno 1827-28) a Pisa, dove registrò
poeticamente un "risorgimento" degli affetti. Nel novembre 1828,
cessatogli ogni aiuto, dové peraltro tornare a Recanati;
ormai, come egli credeva, per sempre. Ma il provvido intervento di
P. Colletta, che con delicati sotterfugi lo indusse ad accettare,
per un anno, un aiuto pecuniario suo e di altri collaboratori
dell'Antologia di G. P. Viesseux con cui era entrato in contatto,
gli permise di tornare nel maggio 1830 a Firenze, dove
partecipò senza troppo calore di consensi alla fiorente vita
letteraria e mondana della città. Qui conobbe A. Ranieri, con
il quale, dal dicembre 1830, decise di vivere insieme e di mettere
in comune le proprie risorse (dal luglio 1831 sarebbe riuscito a
ottenere dalla famiglia un modesto assegno mensile). Nel marzo era
stato nominato deputato di Recanati all'assemblea che dopo i moti di
quell'anno si sarebbe dovuta tenere a Bologna, ma, prima ancora
della repressione dei moti, la sua diffidenza nei confronti di
qualsiasi illusione di rinnovamento politico gli impedì
persino di accettare la nomina. Nell'ottobre 1831 L. e Ranieri
partirono improvvisamente da Firenze per Roma, dove si trattennero
sino al marzo 1832, quando tornarono a Firenze. L'improvvisa
partenza meravigliò allora amici e parenti: oltre al
desiderio di L. di accompagnare a Roma l'amico Ranieri, che vi si
recava per seguire l'attrice M. Pelzet di cui era innamorato, c'era
probabilmente qualche altra ragione, più personale, che ci
sfugge. Certo essa non poté consistere, come più tardi
si credette, nell'amore disperato per una signora fiorentina, F.
Targioni Tozzetti: questo amore può ritenersi storicamente
provato, ma il suo inizio è da collocare probabilmente nella
primavera del 1833; esso si concluse con l'estrema delusione due
anni dopo, quando già, sin dal settembre 1833, L. era a
Napoli con Ranieri. A Napoli L. visse gli ultimi suoi tristi anni:
scampato al colera scoppiato nell'ottobre 1836, morì qualche
mese dopo per idropisia e conseguente attacco di asma. La sua salma,
sottratta dal Ranieri alla fossa comune, fu tumulata a Fuorigrotta,
dove più tardi fu eretto un piccolo monumento. I resti di L.
furono poi trasportati nel Parco Virgiliano.
Non è esatto quel che si credeva un tempo, che gli
studî eruditi e filologici di L. appartenessero alla prima
giovinezza di lui e venissero ben presto abbandonati a favore della
poesia: in verità L. alternò le due attività
almeno sino al 1827 e fornì le prove filologiche migliori
negli anni 1823-1827. Abbandonò gli studî di filologia
solo nel 1830, quando consegnò i suoi manoscritti di quella
materia a L. De Sinner, che aveva promesso di pubblicarli; ma anche
negli ultimi anni mandava al De Sinner aggiunte a quei manoscritti,
e non cessò mai di considerarli come opera di grandissimo
pregio. Tali studî, specie quelli di critica testuale, lodati
da B. G. Niebhur, J.-F. Boissonade, F. Nietzsche, U. von Wilamowitz,
sono stati nuovamente valorizzati dalla critica più recente,
che considera L. come uno dei pochissimi filologi italiani del primo
Ottocento che abbia statura europea. Risale al 1816 il suo primo
componimento poetico importante, la cantica Appressamento della
morte; ma il 1818 è l'anno del vero inizio della sua poesia,
con le due canzoni All'Italia e Sopra il monumento di Dante, alle
quali è da collegare strettamente, posteriore di due anni,
quella Ad Angelo Mai. Il giovane poeta s'inserisce, con accenti
proprî, nella tradizione di eloquente lirica civile e morale
che risaliva al Petrarca, avendo come punto di partenza prossimo gli
spiriti eroici di Alfieri e del Foscolo alfieriano. Egli non vede
intorno a sé che ignavia e codardia: si assume il compito di
risvegliare al coraggio e all'azione gli Italiani del suo tempo
immemori del loro passato. Pur obbedendo a un imperativo morale
addirittura eroico, l'indignato confronto tra la nobiltà
degli antichi e la moderna decadenza d'ogni virtù,
anziché ispirarsi alle recenti vicende politiche, sembra
piuttosto nutrito di considerazioni generalmente antropologiche e ha
di mira intanto un orizzonte culturale e letterario, nel quale
infatti risulta più efficace e appropriato. Insieme con
quella al Mai, avrebbe voluto pubblicare, e non poté farlo
per l'opposizione paterna, altre due canzoni di tutt'altro argomento
allora composte (Per una donna inferma di malattia lunga e mortale e
Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal
corruttore per mano di un chirurgo), lasciate da L. anche in seguito
fuori dei Canti, ma criticamente interessanti, poiché
mostrano un poeta che già alterna ai temi civili la
considerazione della privata infelicità. Allo stesso periodo
risalgono anche i piccoli idilli, voce di un L. intimo e segreto,
che non saranno pubblicati se non nel 1825. Tra l'ottobre del 1821 e
il settembre del 1823 furono composte altre sette canzoni (Nelle
nozze della sorella Paolina; A un vincitore nel pallone; Bruto
minore; Alla primavera o delle favole antiche; Ultimo canto di
Saffo; Inno ai patriarchi o De' principii del genere umano; Alla sua
donna), che insieme alle tre precedenti L. pubblicò a Bologna
nel 1824 in un volumetto di Canzoni, accompagnate da erudite
Annotazioni, che ne giustificano le scelte linguistiche, invocando
di volta in volta il buon senso e l'autorità della Crusca. La
canzone a Paolina, che è lo sviluppo d'un abbozzo risalente
forse al 1819, non è lontana nello spirito dalle prime tre,
proponendosi concreti fini educativi: l'uomo superiore non deve
deflettere dalle proprie convinzioni, anche se ciò gli
costerà l'incomprensione o l'ostilità degli uomini
comuni, cioè l'infelicità. Ma già nella canzone
A un vincitore nel pallone appare il concetto che ogni meta è
deludente e vana, che non c'è nessuna vera differenza tra il
combattere per uno scopo che si reputa alto e il combattere per un
gioco. E nella canzone cronologicamente contigua, Bruto minore, L.
procede ancora oltre: la virtù non è che una "larva",
una parola e non una cosa salda. Bruto riconosce che la rovina di
Roma, come la morte di tutto, è una "ferrata
necessità", contro cui è illusorio e vano lottare.
Tuttavia, mentre l'uomo comune si consola del male quando lo
riconosce necessario, l'uomo superiore non si rassegna al destino:
non potendo più fare altro si uccide, e con ciò
diventa vincitore nell'atto stesso d'essere vinto. Ma pochi mesi
dopo L. compone L'ultimo canto di Saffo, nel quale la poetessa greca
si uccide senza intenzioni di rivalsa: si riconosce vinta e,
anziché maledire la vita, se ne distacca sconsolata di
lasciarla senza averla goduta. Il titanismo genericamente romantico
di Bruto giunge così a un passo dalla "fiera compiacenza"
più specificamente leopardiana: dall'orgoglio, cioè,
di avere lui solo il coraggio di affrontare l'orrido vero, di
"strappare ogni manto alla coperta e misteriosa crudeltà del
destino umano", di non piegare il capo a tale destino; e
dall'ebbrezza di dolore che da quell'orgoglio deriva. Questo
particolare titanismo, trasferito dall'azione al pensiero,
sarà, con diverse modulazioni, motivo di poesia costante in
L. sino alla fine, secondo un'estensione del decoro formale
classicistico all'ambito etico e intellettuale.
Solo nel 1825, L. si decise a pubblicare nel Nuovo ricoglitore di
Milano, con il titolo di Idilli, alcune sue poesie composte tra il
1819 e il 1821: quelle che i critici usano chiamare "i piccoli
idilli", cioè (come s'intitolarono definitivamente):
L'Infinito, La sera del dì di festa; Alla luna; Il sogno; Lo
spavento notturno; La vita solitaria. Esse contengono alcune delle
pagine più alte di tutta l'opera leopardiana. Sono
espressioni di una deliberata e fiera solitudine; eppure a esse,
nell'ediz. 1835 dei Canti, L. premise Il passero solitario, composto
assai più tardi, nel quale egli sente come una condanna la
sua impossibilità di partecipare alla gioia e alla vita degli
altri. Tale esclusione si rivela un autentico motivo informatore,
perché dal piano biografico passa facilmente a quello
culturale, connotando la condizione di inferiorità in cui
versa la poesia moderna rispetto a quella degli antichi, e
soprattutto corrisponde all'ideale di linguistica socievolezza cui
L. sottopone tanto la sua opzione classicistica, quanto l'ardua
sostanza intellettuale del suo messaggio. In questo senso,
l'idillismo leopardiano, lungamente preferito dalla critica ai
grandi componimenti degli ultimi anni, realizza effettivamente in
maniera più compiuta il prodigio di un canto ricavato senza
sforzo apparente dalle parole di tutti i giorni e con le immagini
che sono sotto gli occhi di tutti: di un canto perciò capace
di mettere la semplicità e l'immediatezza al servizio della
verità universale del sentimento.
Dal 1823 al 1828, a parte l'epistola Al conte Carlo Pepoli (1826),
L. tace come poeta. In questi anni egli porta alle ultime
conseguenze il suo pessimismo. L'infelicità umana non
è frutto di contingenze particolari a questo o a quell'uomo;
e neppure nasce, come aveva creduto in un primo tempo per influsso
dei pensatori settecenteschi, da situazioni storiche, dal prevalere
della ragione sulla fantasia per effetto dell'avanzare della
civiltà, del costituirsi degli uomini in società, che
necessariamente tarpa le ali alla libertà e alla
spontaneità individuale; ma è una legge di natura,
alla quale nessun uomo in nessun tempo, anzi nessun essere
può sottrarsi. È quello che gli studiosi chiamano il
"pessimismo cosmico" leopardiano. L'uomo non cerca altro che la sua
felicità, l'amor sui è l'unica molla della vita; e
tuttavia la natura non si propone la felicità degli
individui, ma tende soltanto alla propria conservazione, per la
quale come sono necessarie le nascite così sono necessarie le
morti. La vita non è che un più o meno lento morire:
assistiamo intorno a noi, dentro di noi, al progressivo inesorabile
sfiorire e morire d'ogni cosa, finché non interviene lo
stacco supremo, dopo il quale soltanto si ha, nell'annullamento
totale, il definitivo riposo. La vita dunque non è che
un'"inutile miseria": e l'accento del poeta batte soprattutto su
questa inutilità. Donde il "tedio", la grande malattia
spirituale dei romantici, di cui L. è il cantore italiano
più alto e l'interprete più acuto: la vanità
del tutto è per lui implicita nelle aspettative di
felicità. Intorno a tali temi, impostano una interrogazione
radicale le Operette morali, venti delle quali, il corpo dell'opera,
furono tutte scritte dal gennaio al dicembre 1824 (ne scrisse
un'altra nel 1825, e ancora due nel 1827, e due nel 1832). La
conclusione logica di questa concezione della vita non può
essere che una: la necessità del suicidio. E tuttavia, se
Porfirio, nel dialogo che s'intitola a lui e a Plotino,
energicamente afferma quella necessità, Plotino lo dissuade:
non ci è lecito, è da barbari, privarci della
consolazione che ci viene dall'affettuosa presenza delle persone che
ci vogliono bene, togliendo a queste la consolazione della nostra
presenza. È la felice contraddizione da cui nasce la poesia
leopardiana. Le Operette sono per lo più dialoghi, in cui
spesso L. fa sibilare lo staffile del suo sarcasmo contro gli uomini
illusi e vili che si rifiutano di fissare gli occhi sull'orrido
vero. A questi toni sarcastici lo scrittore si concede volentieri,
riuscendo a governare con mano ferma stridori e dissonanze: nelle
Operette è del resto più genericamente ammirevole la
lucidità con cui è colta una realtà così
totalmente negativa che sembrerebbe non potersi esprimere che con un
grido o un disperato gesto. Questa fermezza e questa lucidità
si riflettono nella sostenutezza dell'elaboratissimo stile, pur qua
e là percorsa e in certo senso sottolineata da abbandoni
sentimentali.
Le Operette nascono dunque nella più triste stagione
leopardiana: nella quale il poeta è veramente solo, non
soccorso dalla sua pietà, dal bisogno di consolare e d'essere
consolato. Quando, nel 1828, uscirà da questo orribile stato,
dirà che è rinata in lui finalmente la facoltà
di piangere, che credeva gli fosse preclusa per sempre. E può
quindi comporre poesie "col cuore d'una volta". Aveva nel
Risorgimento (1828) celebrato questo rinascere in lui non della
speranza, ma della vita sentimentale: seguono, dallo stesso 1828 al
1830, i canti leopardiani che si designano come "grandi idilli", e
che segnano secondo molti l'apice della sua poesia: A Silvia; Le
ricordanze; La quiete dopo la tempesta; Il sabato del villaggio; Il
canto notturno di un pastore errante dell'Asia, e probabilmente
anche Il passero solitario. Il pessimismo cosmico assume il suo vero
volto poetico: la pietà cosmica. Con il pianto, cioè
con la pietà per gli altri e per sé stesso, non sono
compatibili né lo sdegno e il disprezzo per i codardi,
né l'esaltazione del proprio coraggio. Ma anche quel Pastore
errante, che è vittima e non combattente e che non vede
intorno a sé bersagli a cui mirare, bensì compagni di
pena da compiangere, anche egli non si rassegna, non viene a patti
con il destino; e perciò in sostanza combatte ancora:
sconsolato titano sconfitto, a cui però resta l'amaro
conforto di non essere stato e di non essere vile. In questo gruppo
di mirabili poesie, sui toni agonistici e titanici, che pur non
mancano, prevalgono quelli di raccolto solidale dolore; i quali a
loro volta non erano mancati neppure nel L. eroico-alfieriano, e non
mancheranno mai. La pietà di L. è attiva, vuole
consolare; e consolare non si può chi per viltà chiude
gli occhi al vero, accetta la realtà supinamente o per
"fetido orgoglio". Pietà e consolazione non possono volgersi
a chi soffre, e in primo luogo ai giovani, che per la loro ingenua
fiducia nella vita, per la loro inesperienza non sono in grado di
capire la legge universale dell'infelicità, e s'illudono di
essere felici, e soprattutto di esserlo domani. Intorno al Canto
notturno, gli altri grandi idilli si possono considerare tessuti
tutti sul tema della speranza, una speranza vista non nel suo valore
positivo, forza della vita, bensì considerata con la
tenerezza di chi ne conosce la vanità: lo sbocciare e il
fruttificare della speranza in Silvia, in Nerina, in sé
stesso giovane, la morte e la vita stessa che la tradiscono, in A
Silvia e nelle Ricordanze; l'aspettativa d'una gioia che non
verrà, nelle appena accennate figure del Sabato; il risorgere
dell'alacre gioia, dell'attaccamento alla vita dopo la tempesta, in
quelle altre umili figure che affollano nitide la Quiete. Se la
speranza è per L. giovinezza, giovinezza è per lui,
sempre, compagnia: la gioia di ciascuno si riflette e ha senso nella
gioia corale del borgo: il poeta del Passero solitario si rammarica
appunto di non saper partecipare, pur giovane, a questo coro; dunque
di non sapere essere giovane.
Dopo il 1830, si ha un'altra pausa nell'attività poetica di
L., colmata nel 1832 dalle due ultime Operette. Poi, l'estrema
illusione, l'estremo inganno: l'amore per F. Targioni Tozzetti, da
vicino e da lontano, che come abbiamo detto deve essere collocato
probabilmente negli anni 1833-35. Nascono cinque altre poesie,
costituenti un ciclo, detto "di Aspasia". Dall'estasi d'un dolce
Pensiero dominante, che rafforza l'intransigenza morale, lo sdegno
per ogni umana viltà; dall'esaltazione dell'amore come del
piacere maggiore che si trova nel mare dell'essere, fratello in
ciò solo della morte (Amore e morte; Consalvo, che è
la meno intensa drammatizzazione della precedente poesia), si passa,
quando la grande illusione sarà caduta, ai secchi, terribili
versi di A se stesso, lirica epigrafe mortuaria, e poi alla
rappresentazione, più pacata ma carica di amarezza, delle
circostanze dell'inganno (Aspasia). Si alternano in questo ciclo i
toni eroici della speranza impossibile, con le invettive e i
sarcasmi della disperazione, che sembra quasi suggerire i modi
rinnovati di una espressione in cui ormai coincidono
intensità e rigore. Gli ultimi anni napoletani sono
caratterizzati, come sempre nei periodi leopardiani di più
nera depressione, da scritti satirici (la Palinodia diretta a G.
Capponi; lo scherno dei tentativi risorgimentali nei Paralipomeni
alla Batracomiomachia, della fede religiosa nei Nuovi credenti). Ma
insieme c'è un lento risalire dalla china, come mostrano, non
tanto le canzoni Sopra un basso rilievo antico sepolcrale e Sopra il
ritratto di una bella donna, quanto la già citata La
ginestra, e soprattutto Il tramonto della luna, nel quale canto vi
sono gruppi di versi degni della proverbiale eloquente
felicità dei grandi idilli. Postumi furono pubblicati, con le
cose minori, il ricco Epistolario (a cura di P. Viani, 1849; a cura
di F. Moroncini e G. Ferretti, 7 voll., 1934-41) e lo Zibaldone di
pensieri: 4526 pagine nel manoscritto, nelle quali L. dal 1817 al
1832 andò via via segnando, con maggiore o minore frequenza,
quanto le sue letture e la sua meditazione gli andavano suggerendo
sui più svariati argomenti (pubbl. col tit. Pensieri di varia
filosofia e di bella letteratura, a cura di una commissione di
studiosi presieduta da G. Carducci, 7 voll., 1898-1900; la
più recente ed. critica, col tit. Zibaldone di pensieri,
è a cura di G. Pacella, 3 voll., 1992); da esso per la
maggior parte L. stesso trasse e rielaborò i centoundici
Pensieri, pubblicati postumi (in Opere di G. L., a cura di A.
Ranieri, 2 voll., 1845). Dei Canti si ebbero due diverse edizioni in
vita di L.: presso Piatti (Firenze 1831) e presso Starita (Napoli
1835); più complessa la storia delle Operette morali, la cui
1ª ed. in volume apparve a Milano nel 1827 e la 3ª,
incompleta, a Napoli nel 1835. Le prime edd. critiche si debbono a
F. Moroncini: Canti (2 voll., 1927); Operette morali (2 voll.,
1928); Opere minori approvate (2 voll., 1931). Oltre alle edd.
complessive (Tutte le opere di G. L., a cura di F. Flora, 5 voll.,
1937-49; Tutte le Opere, a cura di W. Binni e E. Ghidetti, 2 voll.,
1969), sono disponibili varie sillogi e singole edd., con ottimi
commenti, apparati, riproduzione degli autografi. È stata
avviata la pubblicazione degli scritti filologici e sono state
approntate le concordanze dell'intera opera poetica.
Centro nazionale di studi leopardiani. - Fu fondato a Recanati nel
1937 dal conte Ettore Leopardi; ha avuto come direttori M. Porena,
E. Leopardi, R. Vuoli, U. Bosco, F. Foschi. Possiede una biblioteca
specializzata di circa 7000 titoli e le fotografie di tutti gli
autografi leopardiani esistenti nelle biblioteche di Firenze e di
Napoli, di gran parte di quelli custoditi nell'attiguo palazzo
Leopardi, e varî altri. Promuove convegni internazionali (L. e
il Settecento, 1962; L. e l'Ottocento, 1967; L. e il Novecento,
1972; L. e la letteratura italiana dal Duecento al Seicento, 1976;
L. e il mondo antico, 1980; Il pensiero storico e politico di G. L.,
1984; Le città di G. L., 1987; Lingua e stile di G. L.,
1991); cura una Bibliografia analitica (il volume che la aggiorna al
1980 è uscito a Firenze nel 1986); una collana di Documenti e
studi; una collana di Scritti inediti o rari del Leopardi.
*
DBI
di A. Tartaro
Primogenito del conte Monaldo e di Adelaide dei marchesi Antici,
nacque il 29 giugno 1798 a Recanati, alla periferia dello Stato
pontificio. Visse gli anni della fanciullezza in un clima familiare
improntato a un cattolicesimo reazionario e ancorato a radicati
pregiudizi nobiliari. In questo periodo fu centrale la figura del
padre che, interdetto dall'amministrazione domestica e sostituito
dalla moglie, seguì personalmente l'educazione dei figli
maggiori, Carlo e Paolina oltre al L., coadiuvato da precettori
ecclesiastici (G. Torres, V. Diotallevi e, dal 1807, S. Sanchini). I
giochi infantili, le inclinazioni testimoniate dal padre e dai
fratelli, i saggi annuali alla presenza dei parenti sulle materie di
studio costituiscono un patrimonio aneddotico certo insufficiente a
chiarire la rapida evoluzione della sua personalità.
Nel 1812 il padre prese atto che il L. non aveva più nulla da
imparare dal modesto Sanchini. Già da tre anni egli mostrava
una precoce passione per lo studio, che lo spingeva a isolarsi nella
biblioteca paterna (apprese da solo greco e ebraico) e ai cui
eccessi imputò in seguito la fragilità fisica e
l'avergli reso "l'aspetto miserabile, e dispregevolissima tutta
quella gran parte dell'uomo, che è la sola a cui guardino i
più" (lettera a P. Giordani, 2 marzo 1818).
Prose e poesie del 1809-10 documentano la fase dell'istruzione
scolastica del L., dedicata all'apprendimento del latino e agli
studi retorico-letterari, sulla scorta del De arte rhetorica di
Domenico da Colonia. I temi arcadici (nelle canzonette de La
campagna), classici e biblico-religiosi evidenziano la tendenza a
ripercorrere strade già battute, anche minori (favolistica
morale in versi, versi burleschi), con l'obiettivo di mostrarsi
padrone di un'intera tradizione tecnico-espressiva. Forse su
suggerimento del canonico G.A. Vogel, profugo alsaziano allora
residente a Recanati, cui sembra risalire anche
l'idea dello Zibaldone, il L. tradusse le Odi e l'Arte poetica di
Orazio nella metrica "barbara" di G. Fantoni; mentre la sua materia
andava dilatandosi nella struttura del poemetto narrativo (Il
Baalamo, Le notti puniche, Il diluvio universale) o nel composito
disegno del Catone in Affrica, vero campionario di forme poetiche.
Di uno stadio scolastico più avanzato sono le Dissertazioni
filosofiche (1811-12) su questioni di logica, di metafisica, di
fisica e di morale (la felicità, le virtù etiche e
intellettuali). A parte la prontezza con cui il L. affronta una
problematica del tutto nuova, le Dissertazioni si muovono nel solco
della teologia cattolica sei-settecentesca (F. Suárez, F.
Jacquier, J. Sauri, il cardinale M. de Polignac ecc.), dalla quale
il giovane L. trae le ragioni di una verità affrancata dagli
esiti del materialismo sensistico e in grado di competere con
l'Illuminismo e con il razionalismo.
L'esperienza letteraria degli scritti puerili si prolunga nelle
tragedie in tre atti La virtù indiana (1811, che riprendeva
l'esotismo del Montezuma di Monaldo) e Pompeo in Egitto (1812).
Sulla scia dei più recenti studi filosofici, il L. confutava
intanto i negatori del libero arbitrio (Dialogo filosofico sopra un
moderno libro intitolato "Analisi delle idee ad uso della
gioventù", 1812), puntando sulla leggerezza della forma
dialogica, secondo modelli antichi e moderni (Platone, Cicerone,
Luciano, Fontenelle, F. Algarotti). Ma nel 1813 rivelò i suoi
principali interessi nella Storia della astronomia dalla sua origine
fino all'anno 1811.
La Storia ribadiva la fede nel progresso, nell'ottica di una
sapienza coincidente con gli insegnamenti della religione. Il punto
di vista, illuministico-cristiano, si univa a una minuziosa
esplorazione di testimonianze erudite, accompagnate a loro volta da
un vivo interesse filologico. Il L. fu anche un filologo in senso
tecnico, attivo soprattutto tra 1813 e 1815, poi nel 1816-17,
1822-23 e 1827, con lavori su autori e opere della tarda
grecità (Esichio Milesio, la Vita Plotini di Porfirio, i
retori e gli scrittori di storia ecclesiastica dei primi secoli).
Corredava i testi, originali o tradotti, con commentari per lo
più in latino, elenchi di varianti e ingenti note
bio-bibliografiche. L'impegno filologico affiorava quando il L.
avanzava le proprie congetture. Su questo terreno dette il meglio di
sé, senza confronti. Anche A. Mai, alle cui scoperte di
codici si collegò molta sua produzione filologica (dai lavori
su Frontone e su Dionigi d'Alicarnasso del 1816-17 a quelli sulla
Cronica di Eusebio e sul De re publica di Cicerone del 1823), fu
mediocre conoscitore delle lingue classiche (specie del greco); le
sue cure si esaurivano nell'illustrazione dei dati puramente
esterni, storico-geografici e antiquari. Oltre che nei contributi
legati a Mai - prima ammirato ma, dopo la canzone a lui dedicata,
giudicato con il tempo in termini aspramente liquidatori - le
qualità della filologia leopardiana si confermarono nel
periodo romano, culminando nello studio di moralisti e satirici
dell'antichità classica, nelle osservazioni testuali su
Libanio e i retori greci e in quelle suggerite dall'edizione dei
Papiri torinesi curata da A. Peyron (1824-27).
Già nel 1815 l'attività filologico-erudita del L. ebbe
qualche risonanza fuori di Recanati. A Roma lo zio materno, Carlo
Antici, aveva sottoposto i suoi scritti all'esame di F. Cancellieri.
Questi ne parlò nella Dissertazione intorno agli uomini
dotati di gran memoria (Roma 1815), enfatizzando il parere
equilibratamente elogiativo sul Porfirio dell'epigrafista e
diplomatico svedese J.D. Akerblad (che però aveva anche
espresso alcune sostanziali riserve su un'opera che prima di essere
pubblicata richiedeva una più estesa consultazione del
materiale manoscritto). Antici, apprese dal Cancellieri le obiezioni
di Akerblad, le comunicò al cognato (che ne rese edotto il
L.), non senza auspicare che il figlio lasciasse la filologia per la
carriera ecclesiastica, cui sembrava portato e nella quale era
prevedibile per lui un avvenire ricco di soddisfazioni.
Consapevole o meno del suggerimento, il L. continuò a
coltivare gli interessi eruditi nel Saggio sopra gli errori popolari
degli antichi (1815): quasi in coincidenza del suo "passaggio […]
dall'erudizione al bello" (Zibaldone, 1741). Rispetto alla Storia
della astronomia, da cui provengono alcuni dei temi trattati, la
prosa del Saggio acquista in scioltezza e mobilità; nel gioco
fra il puntiglio dell'informazione (attinta in prevalenza ai poeti
greci e latini) e la varietà dei toni - ironici, riflessivi o
coinvolti nell'intrinseca suggestione dei miti - si intravede la via
alle Operette morali. L'attenzione formale è tutt'uno con
un'ideologia sensibilmente mutata. Ferma restando l'inclinazione
illuministico-cristiana del discorso, l'inventario degli "errori
popolari" (le superstizioni che ostano alla conoscenza del "vero"
metafisico, fisico o naturale) si sottrae all'idea provvidenziale di
un progresso immancabile. L'ignoranza degli antichi, per quanto
confutata e corretta, si protraeva ancora nei pregiudizi di un
secolo che pure si diceva "illuminato"; allo scrittore altro non
restava se non farsi banditore della ragione cristiana contro la
credulità del volgo, arroccandosi nella fiducia che il
"vivere nella vera Chiesa è il solo rimedio contro la
superstizione" (Tutte le opere, I, p. 867).
Il distacco del Saggio dall'ottimismo provvidenziale e apologetico
della Storia della astronomia annuncia l'emancipazione del L.
dall'ideologia familiare. La strada imboccata male si conciliava con
la precedente professione di una milizia cattolica volta alla
celebrazione del progresso umano sotto le bandiere della fede.
L'ultimo suo tributo alle posizioni paterne fu l'orazione
Agl'Italiani, in occasione della liberazione del Piceno (1815), per
la vittoria degli Austriaci su Gioacchino Murat a Tolentino. Il L.
vi condannò la "tirannia" di Napoleone e dei suoi; con la
Restaurazione l'Europa tornava alla pace dopo lo sconvolgimento
della Rivoluzione. Da ciò l'immagine idilliaca di un'Italia
sotto l'"amministrazione paterna di Sovrani amati e legittimi",
garanti della pace e quindi della vera felicità dei popoli,
contro ogni illusoria promessa di libertà e indipendenza;
alla luce di un patriottismo diviso fra pragmatismo benpensante
("Italiani! rinunziamo al brillante ed appigliamoci al solido") e
orgogliosa rivendicazione di un primato artistico resistente ai
saccheggi perpetrati dalle armi francesi (Tutte le opere, I, pp.
872, 873).
Il "passaggio" al bello, "non subitaneo, ma gradato" (Zibaldone,
1741), significava intanto, nel 1816, la conversione alla poesia.
Tale passaggio si rispecchia in una serie di impegnate versioni
poetiche, oltre che nelle contraffazioni di un Inno a Nettuno (1816)
e di due anacreontiche (le Odae adespotae) fatte passare per antiche
(1816), e ha i primi significativi sbocchi nell'idillio funebre Le
rimembranze e soprattutto nella cantica Appressamento della morte
(fine 1816).
Rispetto alla versione delle Odi di Orazio, ferma al gusto
genericamente classicheggiante di tanta Arcadia, le traduzioni del
1815-17 mostrano una sensibile correzione teorica. Tradurre è
ora, per il L., riprodurre i colori dell'età classica,
piegando la lingua alla "naturalezza" e "semplicità" del
greco di Mosco o affrancandola da frigide interpretazioni letterali
nel caso della burlesca Batracomiomachia, senza rinunciare al "sapor
greco" dell'originale (Tutte le opere, I, p. 388). Tale fu il
criterio della traduzione del I libro dell'Odissea, del II libro
dell'Eneide, del volgarizzamento del Moretum (La torta) e della
successiva versione della Titanomachia, dove un linguaggio
studiatamente energico mira a riprodurre il primitivismo che sarebbe
stato di Esiodo. Allo stile delle traduzioni si collegano i
componimenti originali alle soglie della maggiore stagione
leopardiana. Nei limiti del divertimento letterario (che sostenne
anche il falso volgarizzamento del Martirio de' Santi Padri,
scambiato per autenticamente trecentesco da A. Cesari e pubblicato
nel 1826) il suo classicismo torna nel dettato solenne e favoloso
dell'Inno a Nettuno, denso di grecismi e latinismi, e in odi in
greco sul modello di Anacreonte intessute di ricordi da Omero,
Saffo, Euripide, Teocrito e Virgilio. Un ricordo della versione di
Mosco resta nella fattura de Le rimembranze, debitrice della
raffinatezza di S. Gessner (mediata dalla traduzione di F. Soave),
sul registro elegiaco poi costitutivo degli Idilli. Sta a sé
l'Appressamentodella morte, dove l'esperienza di traduzione si
innesta nel tentativo di una poesia autobiografica che si leva a
denunciare i mali dell'esistenza, dalla follia amorosa
all'empietà e violenza dei tiranni. Il poemetto (cinque canti
in terzine), carico di figurazioni allegoriche e concitatamente
predicatorio, deve molto a Dante, al Petrarca dei Trionfi, alle
Visioni di A. Varano e alla Bassvilliana di V. Monti.
Per il L. l'Appressamento della morte fu un punto fermo della sua
"carriera poetica"; ne pose l'inizio, ritoccato, tra i Frammenti che
chiudono il libro maggiore, ma già nel 1820 ne citò la
conclusione a prova della propria capacità di dare voce a
"certi affetti" quando "le sventure [lo] stringevano e [lo]
travagliavano assai" (Zibaldone, 144). La testimonianza riguardava
in effetti un momento fondamentale. Pur con enfasi moralistica e
artificialità d'impianto, l'Appressamento della morte
rifletteva una crisi profonda; le precarie condizioni fisiche
portavano al pensiero assillante di una fine vicina (ripreso, nel
1817, nel sonetto Letta la vita dell'Alfieri scritta da esso),
mentre nuove, irrinunciabili esigenze - a partire da quella di
lasciare Recanati - rafforzavano la percezione di una
felicità negata.
In questo quadro ha grande importanza la corrispondenza epistolare
con P. Giordani, intanto per la cordialità con cui lo
scrittore affermato, avuta in omaggio dal L. la traduzione del libro
II dell'Eneide, si dispose verso il giovane. Le lettere del L.,
particolarmente fitte fra 1817 e 1821, rivelano una fiduciosa
espansività. Le confidenze personali (l'insopportabile
costrizione recanatese, la precarietà fisica, il desiderio di
veder riconosciute le proprie qualità, il tarlo della
malinconia) si intrecciano con riflessioni e progetti letterari. Il
L., eletto a guida l'interlocutore, lesse i trecentisti con
l'interesse prima riservato agli autori del Cinquecento ma
soprattutto colse l'occasione di aprire un varco nella propria
solitudine intellettuale. A Giordani egli parve il "perfetto
scrittore d'Italia", il nobile virtuoso e dotto a lungo vagheggiato,
l'ottimo conoscitore delle lingue classiche persuaso che "il solo
scriver bello italiano può conseguirsi coll'unire lingua del
trecento a stile greco" (lettera del 21 sett. 1817). Il L.,
lusingato, non tardò a indirizzarsi all'eloquenza civile, che
nel settembre-ottobre del 1818, poco dopo una visita dell'amico a
Recanati, dette forma al patriottismo di marca liberale delle
canzoni politiche (All'Italia, Sopra il monumento di Dante).
Il poeta si sentì ufficialmente introdotto nella cultura
letteraria neoclassica, in appoggio della quale era intervenuto con
una Lettera (non pubblicata) alla Biblioteca italiana, in risposta
all'articolo di madame de Staël Sulla maniera e
l'utilità delle traduzioni (1816). Gli interessi comuni lo
collegavano già a Mai, allora bibliotecario dell'Ambrosiana,
successivamente prefetto della Vaticana, ma Giordani lo mise in
relazione con numerosi intellettuali del côté
classicista: lo storico e filologo greco A. Mustoxidi (dedicatario
del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi), D. Strocchi, lo
storico C. Rosmini, C. Arici, F. Reina (editore di Parini), G.
Mezzofanti, B. Borghesi, A. Peyron, e poi ancora G.B. Niccolini, M.
Angelelli, F. Schiassi, G. Marchetti, G. Roverella, G. Grassi, L.
Trissino (a cui il L. dedicò la canzone Ad Angelo Mai). Alla
stessa cerchia apparteneva G. Perticari, genero e collaboratore di
Monti, del quale il L. cercò l'amicizia attraverso il cugino
F. Cassi; il loro legame sarà però superficiale e in
definitiva deludente. Altra consistenza ebbe l'amicizia con G.
Montani, legato al gruppo del Conciliatore, poi a quello fiorentino
dell'Antologia. Questi intuì lo spessore delle canzoni civili
("mi conferma nell'opinione, che allora avremo grandi poeti quando
avremo gran cittadini": lettera del 5 maggio 1819); e nel 1827,
recensendo le Operette morali, colse l'originalità di quella
"musica - altamente melanconica - le cui voci tutte si rispondono e
recano all'anima la più grave delle impressioni" (Scritti
letterari, a cura di A. Ferraris, Torino 1980, p. 197). Tra gli
amici di Giordani e presto del L. fu infine, a Bologna, il
servizievole P. Brighenti, cultore di letteratura e musica, ex
giacobino e funzionario napoleonico poi divenuto, dopo rovesci
economici, confidente della polizia austriaca.
L'amicizia non cancellava la sostanziale differenza fra il
classicismo di Giordani, eminentemente accademico, e quello del L.,
che prese le distanze dalla sua poetica astrattamente normativa
difendendo la legittimità del "brutto" in sede estetica e ne
respinse il consiglio di esercitarsi nelle traduzioni in prosa prima
di tentare le difficoltà del linguaggio poetico (lettera del
30 apr. 1817).
Il L. continuava a sperimentare le risorse del linguaggio in
più direzioni: da quella tragica dell'appena abbozzata Maria
Antonietta (1816) a quella comica dei Sonetti in persona di ser
Pecora fiorentino beccaio (1817) contro G. Mansi, bibliotecario
romano colpevole di "parole indegne" verso Giordani e Monti (Tutte
le opere, I, p. 318), a quella introspettiva, vistosamente
petrarcheggiante (diversa dal contemporaneo diario in prosa, teso
alla schiettezza del resoconto sentimentale) dell'Elegia I,
intitolata poi Il primo amore - cui seguì nel 1818 l'Elegia
II - collegata all'infatuazione per Geltrude Cassi Lazzari, cugina
del padre, di passaggio a Recanati (1817).
In quest'ambito le canzoni All'Italia e Sopra il monumento di Dante
che si preparava in Firenze si offrono come altrettante incursioni
nella lirica eloquente, sulla scia del Petrarca civile ma con
l'occhio ai pindarici seicenteschi (G. Chiabrera, F. Testi); assunta
a chiave interpretativa dell'attualità politica, la
classicità si tradusse in vibrata esortazione civile.
L'impostazione parenetica delle due canzoni (che aprirono i Canti,
avviando la cronologia ideale del capolavoro) fa leva sul contrasto
con la stagione del patriottismo, smarrito nei tempi perversi della
Restaurazione. Nella seconda canzone il L. si identifica con Dante,
nuovo Omero; ma soprattutto nella prima, rifacendo il canto di
Simonide di Ceo, il poeta tenta di rivivere la dimensione
dell'antichità, oggetto di una nostalgia culturale e morale
le cui motivazioni riguardano c0ncetti fondamentali del suo
pensiero.
Lo Zibaldone di pensieri - l'imponente diario steso dal
luglio-agosto del 1817 al 1832, documento insostituibile della sua
storia intellettuale - esordisce perentoriamente: "La ragione
è nemica d'ogni grandezza: la ragione è nemica della
natura: la natura è grande, la ragione è piccola"
(14). Quasi identicamente si esprime il Discorso di un italiano
intorno alla poesia romantica (1818). La fedeltà ai classici
e alla tradizione nazionale, proclamata nella risposta alla
Staël, è argomentata più ampiamente, in polemica
con le Osservazioni di L. di Breme. Ai romantici il L. risponde
contrapponendo alla condizione moderna, dominata dalla ragione,
l'aurora del genere umano, l'età felice della fantasia e
delle illusioni non compromesse dall'incivilimento. La poesia,
destinata a dilettare con gli inganni dell'immaginazione e
perciò contraria al vero razionale, deve ispirarsi alla
natura; i poeti moderni, guastati dalla civiltà e
dall'intelletto, devono calarsi nel primitivismo di Omero, Esiodo,
Anacreonte, Callimaco. È questo il nodo di un classicismo
innervato di passione patriottica e politica (nell'apostrofe ai
giovani italiani alla conclusione del Discorso e nelle canzoni
civili), volto a privilegiare il postulato antropologico della
polemica letteraria, quel conflitto natura-ragione che, causa
dell'infelicità umana, è presto al centro
dell'indagine pessimistica del Leopardi.
Egli situò nel 1819 un altro passaggio, quello dal bello al
vero filosofico: una "mutazione totale", identica al trapasso
dell'umanità dalla condizione primigenia alla moderna. Un
forte abbassamento della vista, impedendogli la lettura, gli fece
sentire l'infelicità in modo "assai più tenebroso", e
lo portò a "riflettere profondamente" e a provare
"l'infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla"
(Zibaldone, 143-144).
La nuova conversione comportò una sorta di paralisi della
fantasia, il venire meno della capacità di reagire anche a
spettacoli naturali; escluso perciò l'accesso alla poesia
vera, quella antica e dell'immaginazione, non restava che attingere
alla materia sentimentale e filosofica, sola consentita a un
moderno. Esemplificando l'accaduto, il L. citava la sua produzione
del 1819, dove la facoltà inventiva si sarebbe limitata ad
"affari di prosa", mentre nei versi le immagini sarebbero sgorgate a
stento, lasciando posto esclusivamente al sentimento. L'allusione
alla prosa riguardava i cosiddetti Ricordi d'infanzia e di
adolescenza, una congerie di appunti autobiografici per un romanzo
di argomento amoroso e politico, in parte epistolare, sul modello
del Werther e dell'Ortis. Egli intendeva riprodurre i momenti
salienti di una vita interiore dominata dall'attesa della morte, ma
palpitante di passione antitirannica e attratta dalla bellezza
femminile e dal desiderio d'amore, evocando esperienze anche minime
- sensazioni visive e acustiche, raccordi spontanei, fantasie - del
proprio passato intimo. Sul progetto tornò in seguito (nel
1825 pensò a una Storia di un'anima scritta da Giulio
Rivalta), non andando oltre rapide annotazioni. L'accenno ai versi
alludeva a due canzoni poi rifiutate, Per una donna inferma di
malattia lunga e mortale e Nella morte di una donna fatta trucidare
col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo,
nelle quali l'"infelicità certa del mondo", verificata e non
solo nota concettualmente, si era espressa come effusione
sentimentale a forti tinte emotive, incline nella seconda canzone a
certa crudezza patetica già rimproverata ai romantici. Lo
sperimentalismo leopardiano, ribadito peraltro dalla Telesilla
(dramma pastorale incompiuto ricavato dal poema cinquecentesco
Girone il cortese di L. Alamanni, riletto in chiave tragicamente
conflittuale), risultava qui scarsamente produttivo: gli spunti di
una problematica esistenziale destinata a grandi sviluppi riuscivano
banalizzati, come sopraffatti dalla concitazione.
Altrimenti redditizio fu il percorso avviato sempre nel 1819 da
L'infinito e proseguito probabilmente nello stesso anno da Alla luna
e dal Frammento XXXVII (originariamente: Lo spavento notturno). Il
L. intraprendeva il ciclo che disse degli Idilli e che avrebbe
pubblicato solo nel 1825, dedicato a rappresentare "situazioni,
affezioni, avventure storiche del [suo] animo" (Tutte le opere, I,
p. 372).
Sciolto l'ingorgo sentimentale delle canzoni rifiutate, il L.
fissò alcune intense sensazioni e suggestioni: il perdersi
nella dimensione mentale, prelogica, dell'infinito spazio-temporale
(L'infinito); il piacere del ricordare, pur nella coscienza di un
destino doloroso, nel passato come nel presente (Alla luna);
l'attrazione culturale del primitivo, recuperato nelle movenze di
una svagata fantasia pastorale (Frammento XXXVII). Le avventure
idilliche non eludevano le verità generali su cui andava
costruendo un "sistema" di pensiero, perché ne accertavano
l'urgenza e fondatezza razionale, verificandole sul terreno del
vissuto. In questa prospettiva il confronto con il "ver0"
poté trapassare dalle emozioni private a considerazioni di
assoluta portata storico-morale (La sera del dì di festa,
1820); oppure insinuarsi nella trama letteraria de Il sogno
(1820-21), dove il tema petrarchesco convoglia motivi e toni del
Monti dei Pensieri d'amore; o infine scandire drammaticamente le ore
del giorno su una traccia che tradisce l'influenza congiunta di
Parini e di Pindemonte (La vita solitaria, 1821).
Intanto un ingenuo tentativo di fuga, nel luglio del 1819, era stato
la spia di una situazione fattasi insostenibile. Non appena
maggiorenne il L. si risolse a rompere con la famiglia e con
Recanati. Un conoscente del padre, S. Broglio d'Ajano, gli ottenne
il passaporto per il Lombardo-Veneto, ma Monaldo bloccò
l'iniziativa. In una lettera al padre acclusa a un'altra indirizzata
al fratello Carlo, il L. lo accusò di condannarlo a "vivere e
morire come i [suoi] antenati"; abbandonarsi "a occhi chiusi" -
scrisse a Carlo - "nelle mani della fortuna" era l'unico modo di
sottrarsi a una miserabile vita di "orribili malinconie", laddove
egli preferiva "essere infelice che piccolo" (lettera a Carlo e
Monaldo, fine luglio 1819). Il padre si convinse ancor più
che il figlio fosse male influenzato da Giordani; il L. tornò
a sperimentarne l'ingombrante tutela quando, nel 1820, composta la
canzone Ad Angelo Mai, la inviò a Brighenti con le due
dell'anno precedente in vista di una pubblicazione a Bologna. Quando
Monaldo si oppose a questo e a una ristampa di All'Italia e Sopra il
monumento di Dante, egli poté solo protestare contro
l'interferenza, estesa anche a Nella morte di una donna, il cui
titolo avrebbe fatto immaginare al genitore "mille sozzure
nell'esecuzione, e mille sconvenienze del soggetto". Il L.
stampò la sola canzone a Mai (presto vietata nel
Lombardo-Veneto), il cui titolo non poteva impensierire il padre,
non sospettandone questi l'"orribile fanatismo" (lettera a P.
Brighenti, 28 apr. 1820).
Enunciando nello Zibaldone il passaggio dal "bello" al "vero", egli
mise a fuoco l'aspetto forse più delicato della propria
identità di scrittore: il nesso strettissimo tra riflessione
filosofico-morale e miti poetici, dato acquisito dalla critica
postidealistica contro una lettura frammentaria intesa (da F. De
Sanctis a B. Croce) a sorprendere nei Canti una liricità
indenne da sovrastrutture intellettualistiche, ma anche contro
semplicistiche riduzioni della poesia a meccanico rispecchiamento
delle idee. La poetica del vero sottendeva una funzione conoscitiva,
intrinsecamente filosofica, della letteratura e diveniva base di un
pensiero a cui concorrevano il momento zibaldoniano della
concettualizzazione e quello che diremmo della riflessione lirica,
condotta con gli strumenti della poesia (si rimanda agli studi di W.
Binni, C. Luporini, S. Timpanaro; e fra i più recenti a
quelli di C. Galimberti, L. Blasucci, A. Dolfi, M. Santagata).
L'impossibilità di rivivere la condizione degli antichi
avviò la fase di rimpianto dello stato naturale, che
durò nella storia del L. fino al 1822. La natura, madre
benefica e previdente, aveva garantito un'esistenza felice
all'umanità primitiva, ignara della verità ma animata
da illusioni e passioni; il prevalere della ragione in età
moderna aveva inaridito le facoltà vitali e introdotto, con
l'egoismo, la noia, il vuoto e la nullità del mondo. Su
questa tematica e le sue articolazioni nello Zibaldone ruotano le
canzoni degli anni 1820-22. In Ad Angelo Mai, quand'ebbe trovato i
libri di Cicerone della Repubblica (1820), l'impegno civile illustra
la frattura fra passato e presente con un motivo foscoliano, la
rassegna dei grandi italiani (da Dante ad Alfieri), testimoni di una
realtà decaduta nell'attuale squallore. La condanna del
"secol morto", nel ritrovato impianto parenetico delle canzoni del
1821, Nelle nozze della sorella Paolina e A un vincitore nel
pallone, addita gli esempi da seguire nella classicità: la
romana Virginia, per le donne consapevoli del ruolo di spose e di
madri; la "sudata virtude", principio di una pedagogia che,
valorizzando l'esercizio fisico e l'agonismo, educhi la
gioventù italiana alla virile abnegazione dei Greci a
Maratona. Nel Bruto minore (pure del 1821) alla delusione dell'eroe
dopo la battaglia di Filippi seguono il rinnegamento della
virtù e la denuncia della sua illusorietà, con la
scelta alfieriana e ortisiana di darsi la morte per una passione
libertaria che non sottostà a proibizioni religiose. La
nostalgia dell'età perduta si accampa nella canzone Alla
Primavera, o Delle favole antiche (1822), dove con ricercata
eleganza il L. collega i miti classici alla stagione della piena
armonia degli esseri umani con la natura, quando quest'ultima,
fantasticamente animata, non era ancora resa estranea dall'"atra
face del ver". Nello stesso anno l'Ultimo canto di Saffo, denso di
elementi ossianici e preromantici, presentò il suicidio in
termini diversi dal Bruto minore. Lo stato d'animo che aveva portato
la poetessa, priva di bellezza e non corrisposta nell'amore per
Faone, a togliersi la vita era più teneramente dolente e
ricco di sfumature. La requisitoria contro la natura, pervasa del
sentimento di un'ingiusta esclusione, era ristretta a un caso
personale (leggibile peraltro in chiave autobiografica) ma sul punto
sempre di divenire larga considerazione dell'esistenza e del dolore
umano. L'Ultimo canto fa intravedere il ribaltamento del concetto
della natura materna. Ma la felicità primitiva ridiventa,
nello stesso 1822, oggetto di rimpianto nell'Inno ai patriarchi, o
De' principii del genere umano: grandioso affresco biblico, dove
l'idea originaria di un canto religioso (secondo un progetto di Inni
cristiani risalente al 1819) diviene rimpianto dei tempi propizi
all'"umana stirpe" e polemica verso i moderni, che in nome di una
pretestuosa missione civilizzatrice esportano la propria
infelicità presso popoli che vivono nella beata
inconsapevolezza voluta dalla "saggia natura".
Per quanto esposta a dubbi fin dal 1819, la concezione positiva
della natura resisté nel L. finché ritenne che l'umana
sofferenza nascesse alla fine dell'antichità, con l'avvento
della ragione e del vero. Un primo mutamento è implicito
nella "teoria del piacere", riconoscimento su basi sensistiche (in
pagine dello Zibaldone del 1820-21) del meccanismo psicologico che,
stimolando i viventi a cercare una felicità senza limiti, li
condanna alla frustrazione di un desiderio fatalmente inappagato.
Esso divenne radicale con la scoperta del pessimismo antico,
accennata nella Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di
Teofrasto vicini a morte (1822) e confermata nel soggiorno romano
dalla lettura del Voyage du jeune Anacharsis di J.-J.
Barthélemy e di Plutarco. L'infelicità era insita
nella natura; non poteva non cadere ogni nostalgia verso il passato.
Dal 23 nov. 1822 al maggio 1823 il L. fu a Roma presso lo zio
Antici. Le lettere ai genitori e ai fratelli testimoniano una grande
delusione; la grande città lo sgomentò e i monumenti
lo lasciarono indifferente, ma fu deluso soprattutto dalla cultura
romana, che lo accolse come filologo ed erudito. Nel 1819 aveva
richiesto a Broglio il passaporto per il Lombardo-Veneto o in
alternativa per la capitale pontificia, dove sperava di esprimere le
sue inclinazioni meglio che a Recanati, ma ora Cancellieri gli parve
"un coglione, un fiume di ciarle, il più noioso e disperante
uomo della terra" (lettera a Carlo Leopardi, 25 nov. 1822).
Giudicò negativamente, con qualche ingiustizia, la moda
antiquaria e archeologica; al senso di estraneità si
accompagnava in lui solo il "piacere delle lagrime", come dinanzi al
sepolcro del Tasso (allo stesso, 15 febbr. 1823). Apprezzò
invece gli intellettuali stranieri conosciuti perlopiù
attraverso J.G. Reinhold, plenipotenziario dei Paesi Bassi: il
grecista F.W. Thiersch, professore a Monaco, suo convinto
estimatore, l'archeologo C. Bunsen, B.G. Niebuhr, ministro di
Prussia, il belga A. Jacopssen. Con un nuovo interesse per la
filologia prese a catalogare i codici greci della Barberiniana e
accolse l'offerta di F. De Romanis, editore delle Effemeridi
letterarie e del Giornale arcadico, di tradurre tutti i dialoghi di
Platone. Ma il progetto non ebbe seguito, così come cadde la
speranza di ottenere un impiego a Roma.
Il L. aveva rinunciato all'aspirazione a lungo coltivata - per la
quale chiese aiuto allo zio, a Perticari e a Mai - di una
collocazione alla Biblioteca Vaticana; la morte di Pio VII e la
sostituzione di E. Consalvi alla segreteria di Stato vanificarono
anche le promesse fatte al Niebuhr (e, dopo la partenza di questo, a
Bunsen) di sistemarlo come cancelliere del Censo, mentre
seguitò a rifiutarsi di prendere i voti in vista della
carriera ecclesiastica vagheggiata per lui da Antici. Il ritorno a
Recanati gli riservò un'ulteriore delusione. Nella
Barberiniana aveva scoperto un'orazione di Libanio, che avrebbe
voluto pubblicare, ma fu preceduto da Mai, imbattutosi nello stesso
testo in altri manoscritti; a torto o a ragione il L. pensò a
un "dispetto" personale (lettera a G. Melchiorri del 14 luglio 1823)
e interruppe i rapporti con Mai.
Con il mito della natura materna poté pensare che venisse
meno anche la condizione della poesia, travolta da una problematica
a cui più si addicevano la ragionevolezza e il distacco della
prosa. Siamo vicini alle Operette morali e al periodo del silenzio
poetico, che sarebbe terminato nel 1828. Prima dell'interruzione la
canzone Alla sua donna (1823), deponendo la sostenuta eloquenza e
gli ardimenti stilistici delle precedenti, proclamò
un'aspirazione assoluta di bellezza e di amore e, a fronte della
negatività del reale, rivendicò la consistenza e
l'autosufficienza della pura creazione mentale, fuori da evasioni
metafisiche, platoniche e spiritualeggianti, precluse dall'abbandono
(fra 1821 e 1822) della fede religiosa. Solo nelle Operette morali,
nel 1824, il L. corresse espressamente la sua posizione sulla
natura; la correzione venne in corso d'opera con il Dialogo della
Natura e di un Islandese, affidata all'immagine mostruosa e
smisurata di una donna indifferente alla sorte delle sue creature e
unica responsabile delle loro sofferenze.
Il disegno delle Operette, risalente al 1819-20 ("Dialoghi satirici
alla maniera di Luciano": Tutte le opere, I, p. 368) era stato
avviato in abbozzi di "prosette satiriche" di cui il L.
accennò a Giordani il 4 sett. 1820 (Novella: Senofonte e
Niccolò Machiavello, Dialogo… Filosofo greco, Murco senatore
romano, popolo romano, congiurati, Dialogo di un cavallo e un bue,
Dialogo Galantuomo e mondo). Intendeva trattare in chiave comica la
corruzione morale dei moderni, anticipando rispetto al Bruto minore
il tema della virtù rinnegata e dando risalto a un'aspra
critica contro l'antropocentrismo. Le Operette stemperarono
l'aggressività in ironia sulla presunzione degli uomini, non
rassegnati alla loro infima parte nell'universo; la brama di
felicità si commisurò alla realtà disperante
del "tedio"; la distinzione fra "esistere" e "vivere" culminò
nell'individuazione di rimedi solo negativi al supremo patimento
della noia (distrazione, ebbrezza, ricerca del pericolo,
"dimenticanza di se medesimi"). Il discorso - di volta in volta
narrazione, apologo, dialogo, brano lirico-riflessivo - si
aprì con l'allegoria solenne della Storia del genere umano,
tramata di ricordi platonici; proseguì sulla falsariga
comico-realistica del modello lucianeo (Dialogo d'Ercole e di
Atlante) e con spunti paradossali e satirici di derivazione
più vicina (pariniana nel Dialogo della Moda e della Morte;
da T. Boccalini nella Proposta di premi fatta dall'Accademia dei
Sillografi e forse da Voltaire nel Dialogo di un Folletto e di uno
Gnomo). Accantonata l'irrisione, ma non la reinvenzione fantastica,
affrontò il problema della felicità e del piacere
(Dialogo di Malambruno e di Farfarello, Dialogo della Natura e di
un'Anima), tornando quindi alla maniera ironica di Luciano (Dialogo
della Terra e della Luna, La scommessa di Prometeo) prima di
ritrovare le ragioni di un fermo scetticismo verso gli illusori
progressi della scienza (Dialogo di un Fisico e di un Metafisico),
come già della tecnica. Personaggi storici, a partire dal
Tasso, furono introdotti a esemplificare gli assunti del poeta: il
confronto fra la realtà e l'immaginazione o il sogno, in
rapporto alla noia (Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio
familiare); la scoraggiante difficoltà di conseguire la
gloria specialmente nella letteratura filosofica (Il Parini, ovvero
Della gloria); la piacevole naturalezza del trapasso dalla vita alla
morte, paragonabile a quello dalla veglia al sonno (Dialogo di
Federico Ruysch e delle sue mummie). Interrotti dalla "singolare"
filosofia socratica di un personaggio d'invenzione (Detti memorabili
di Filippo Ottonieri), gli exempla riprendono a proposito
dell'utilità del rischio per vincere la noia dell'esistenza
(Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez); mentre alla
remota sapienza del neoplatonico Amelio l'Elogio degli uccelli
attribuisce l'esaltazione, fra seria e paradossale, di una vita
totalmente affrancata dai pesanti condizionamenti terreni. Alla luce
della verità antinaturalistica emersa nel frattempo nel
Dialogo della Natura e di un Islandese, il L. suggellò
l'opera in senso apocalittico accreditando fantasticamente una
tradizione cabalistica conveniente allo "spaventoso" mistero
dell'esistere (Cantico del gallo silvestre). Ma a chiudere il libro
nell'edizione del 1827 provvede il Dialogo di Timandro e di
Eleandro, per il carattere apologetico e insieme di consuntivo: non
l'odio verso i suoi simili ha ispirato le Operette, ma
l'insofferenza per ogni infingimento e la constatazione della
"infelicità necessaria di tutti i viventi", da cui discende
la scelta di rispondere con il riso ai mali comuni.
L'edizione del '27 comprese anche il Dialogo di un lettore di
umanità e di Sallustio, escluso in quella napoletana del
1835. La seconda edizione fiorentina (1834) incluse due operette
composte nel 1832 (Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un
passeggere, Dialogo di Tristano e di un amico); invece dopo qualche
incertezza il L. risolse di non pubblicarne due del 1827 (Il
Copernico, dialogo e il Dialogo di Plotino e di Porfirio): nel 1835
una stampa napoletana, che le prevedeva assieme al Frammento
apocrifo di Stratone da Lampsaco del 1825, anch'esso inedito, fu
bloccata a causa della censura.
La sofferenza umana è intrinseca a un "perpetuo circuito di
produzione e distruzione" (Tutte le opere, I, p. 117) ordinato alla
conservazione dell'universo, che solo interessa alla natura. Il
Dialogo della Natura e di un Islandese formula l'interrogativo
ultimo: a chi giova che il mondo si conservi "con danno e con morte
di tutte le cose che lo compongono"? L'assenza di risposta rivela il
punto di vista ormai seccamente antiprovvidenziale del L.; un
pessimismo "cosmico", che B. Zumbini distinse da quello "storico"
precedente, rimasto definitivo nel suo pensiero.
Il L. trasse i termini di una spiegazione scientifica e atea del
male di esistere dalla cultura settecentesca, specie sensistica;
suoi interlocutori più o meno diretti furono Rousseau,
Montesquieu, Voltaire, Condillac, Verri, Beccaria, Helvétius,
Holbach, La Mettrie. La denuncia del degrado etico-esistenziale dei
moderni divenne odio per la natura; la commiserazione della
condizione umana si unì alla negazione del principio, sia
illuministico sia cattolico-liberale, della perfettibilità e
del progresso; la vana tensione dell'uomo al piacere esaltò
la contraddizione fra la consapevolezza che il bene autentico
consiste nella morte e il tenace attaccamento alla vita, l'istinto
attraverso il quale la natura perpetra un suo orrido inganno per
assicurarsi il mantenimento della specie.
Il materialismo meccanicistico, ribadito nel Frammento apocrifo di
Stratone da Lampsaco (1825), si accordava con l'interesse del L. per
la morale ellenistica e segnatamente stoica, durato fin verso il
1827 e certificato dalle traduzioni di Isocrate e soprattutto del
Manuale di Epitteto. Pur credendo impossibile l'atarassia,
l'imperturbabilità stoica gli sembrò l'atteggiamento
migliore, per i moderni più che per gli antichi; se la
realtà consente solo una rassegnata accettazione, la morale
dell'astensione è scelta obbligata per un "animo forte e
grande" (la definizione è nel Parini), cosciente che ogni
pretesa di incidere sui fatti del vivere è fallace. La
polemica con il razionalismo e la indiscriminata avversione per gli
effetti dell'incivilimento trapassarono in una valutazione
più articolata. Anche se fa "strage delle illusioni", il
sollevarsi dei popoli alla cognizione della vanità delle cose
è un valore intrinseco, ancorché nel caso italiano
origini un cinico allentamento dei legami sociali: in un'ottica,
comunque, non disposta a confondere l'ingenuità degli antichi
con la "barbarie" delle superstizioni e pregiudizi medievali, dai
quali ci avrebbero liberato Rinascimento e Illuminismo (Discorso
sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani, 1824 o forse
1826; Tutte le opere, I, pp. 969, 978). L'avvenuta riabilitazione
della ragione illuministica, in senso chiaramente laico e
antispiritualistico (sulla linea già dei Paralipomeni della
Batracomiomachia e de La ginestra), si associò alla
più recente persuasione - testimoniata nell'Epistola al conte
Carlo Pepoli (1826), unica eccezione (di gusto tra oraziano e
pariniano) al silenzio poetico di quegli anni - circa i "diletti"
del vero: quelli della filosofia, cui il L. pensava di dedicare
"l'ingrato avanzo della ferrea vita" (vv. 139, 152).
Nel frattempo si era data la tanto desiderata opportunità di
lasciare Recanati. Invitato dall'editore A.F. Stella a dirigere
un'edizione delle opere di Cicerone, il L. partì per Milano
nel luglio 1825, giungendovi il 30 dopo un breve soggiorno a
Bologna. Per circa due mesi fu ospite dello Stella; dal tardo
settembre al 3 nov. 1826 fu a Bologna dove, trascorsi alcuni mesi in
famiglia, tornò il 26 apr. 1827; il 20 giugno proseguì
per Firenze, dove rimase fino all'ottobre, quando si trasferì
a Pisa, attratto dal clima, fino agli inizi di giugno del 1828.
Rientrato nel capoluogo toscano, ne ripartì nel novembre per
Recanati in compagnia di V. Gioberti, conosciuto un mese prima al
Gabinetto Vieusseux.
L'incontro con Milano fu negativo. A parte il vecchio Monti, che il
L. visitò appena arrivato, la cultura milanese, manzoniana e
romantica, gli rimase estranea, così come quella della
Biblioteca italiana, che non gli era stata né gli sarebbe
stata mai amica, a partire dal direttore G. Acerbi (l'"infame
diffamato mascalzone […] che tutti predicano per spia pubblica":
lettera di P. Giordani del 31 dic. 1817). Isolato, e pentito di
avere accettato l'incarico dello Stella, dopo aver redatto due
Manifesti e la Notizia bibliografica per un'edizione di tutte le
opere di Cicerone ripartì per Bologna. Qui intraprese per lo
stesso Stella l'ingrato commento alle Rime di Petrarca (pubblicato
nel 1826), cui seguirono presso il medesimo editore la Crestomazia
italiana della prosa (1827) e la Crestomazia italiana poetica
(1828); tradusse poi, fra novembre e dicembre del 1825, il Manuale
di Epitteto. A Bologna vide la luce anche la raccolta dei Versi
(Stamperia delle Muse, 1826), che affiancarono le dieci Canzoni
edite nel 1824 nella stessa città (per i tipi del Nobili, a
spese dell'autore e con la mediazione del Brighenti); e dove
ripubblicò i sei Idilli apparsi nel 1825 sul milanese Nuovo
Ricoglitore, le due Elegie, i Sonetti in persona di ser Pecora
fiorentino beccaio, la Guerra dei topi e delle rane (e cioè
la traduzione della Batracomiomachia già stampata nel 1816) e
il volgarizzamento della Satira di Simonide sopra le donne. Vi
stampò infine l'Epistola all'amico Pepoli, letta dal L.
nell'Accademia dei Felsinei il lunedì di Pasqua del 1826.
A Bologna il poeta si invaghì della quarantunenne contessa
fiorentina Teresa Carniani Malvezzi, colta traduttrice di Cicerone e
di A. Pope, amica di Monti; non ricambiato, ruppe presto ogni
rapporto. Nello stesso periodo svanì la speranza nel posto di
segretario della Accademia di belle arti, per il quale il Bunsen gli
aveva procurato l'appoggio del cardinale G.M. Della Somaglia,
segretario di Stato di Leone XII; stesso esito ebbe l'aspettativa
per una cattedra di eloquenza latina e greca nella Sapienza romana o
di qualche sistemazione nella Biblioteca Vaticana. Agli ostacoli
burocratici una relazione del cardinale P.F. Galeffi a Leone XII
unì riserve sul L., amico di "persone già note per il
loro non savio pensare" e che aveva rivelato "sentimenti assai
favorevoli alle nuove opinioni morali e politiche in certe odi
italiane da lui stampate" (le Canzoni del 1824); le sue
qualità avrebbero dato più frutto nella capitale,
sotto gli "occhi del Governo" (A. Giuliano, G. L. e la
Restaurazione, pp. 105-110).
Dopo il rientro a Recanati e il secondo soggiorno bolognese il L.
entrò in diretto contatto con la fiorentina Antologia.
Già nel 1824 Vieusseux lo aveva invitato a fornire alla
rivista articoli sulle "novità scientifiche e letterarie
dello Stato pontificio"; ma il poeta, oltre ad alcune sensate
osservazioni, aveva fatto presente la difficoltà per lui di
un'adeguata informazione nel "deserto" in cui viveva (lettere di
Vieusseux, 15 genn. 1824, e del L., 2 febbraio). Nel 1826,
inviandogli il numero dell'Antologia dove (su pressioni di Giordani)
erano apparse tre delle Operette morali, Vieusseux gli aveva di
nuovo prospettato una collaborazione fissa con scritti satirici di
impegno sociale, ma il L. si era detto "nella filosofia sociale […]
un vero ignorante", condannato alla solitudine ("anche in mezzo alla
conversazione, nella quale, per dirlo all'inglese, io sono
più absent di […] un cieco e sordo") e la cui filosofia non
era del "genere che si apprezza ed è gradito in questo
secolo" (lettere di Vieusseux, 1° marzo 1826, e del L., 4
marzo). A Firenze, oltre a Vieusseux, conobbe di persona i
cattolico-liberali della sua cerchia, in particolare G. Capponi, G.
Montani, G.B. Niccolini, P. Colletta e N. Tommaseo (che gli fu
sempre ostile, forse per il giudizio giustamente severo da lui
formulato, senza conoscerne l'autore, sui criteri dell'edizione
ciceroniana elaborati per lo Stella). Incontrò anche Manzoni
e avvicinò alcuni degli esuli napoletani allora a Firenze (C.
Troya, G. e A. Poerio, P.E. e M. Imbriani); nel 1828, tramite A.
Poerio, conobbe A. Ranieri, compagno nell'ultima parte della vita.
La permanenza a Pisa, pur turbata al termine dalla morte del
fratello Luigi (4 maggio 1828), fu di eccezionale benessere fisico e
psicologico. Il L., confortato dalla mitezza del clima, fu
finalmente a suo agio in una città di dimensioni umane: "un
misto di città grande e di città piccola, di cittadino
e di villereccio, un misto così romantico, che non ho mai
veduto altrettanto" (lettera a Paolina Leopardi, 12 nov. 1827). Pisa
fu anche un luogo di relativa spensieratezza mondana e di cordiali
amicizie. Vi consolidò il legame con lo scienziato e
linguista G. Cioni, conosciuto a Firenze nell'ambiente
dell'Antologia, tramite il quale entrò in familiarità
con G. Carmignani, insigne giurista appassionato di letteratura. Ma
soprattutto divenne amico di G. Rosini, docente di eloquenza
italiana e scrittore eclettico, della cui Monaca di Monza (composta
in quel periodo) rivide poi la forma.
L'Epistola a Pepoli annunciò le Operette morali, apparse nel
1827 (ed. Stella); e corrispose, per l'esplicita rinuncia alla
poesia, a una decisione che il L. poté credere definitiva.
Ancora nel 1827, d'altra parte, incrementò il numero delle
prose filosofiche. Ne Il Copernico la satira dell'antropocentrismo
lasciò spazio, fra l'altro, a giocose osservazioni sul ruolo
della poesia e della filosofia, in rapporto rispettivamente alla
giovinezza e all'età matura; mentre la ripresa del tema del
suicidio, nel Dialogo di Plotino e di Porfirio, se fu occasione di
ampliare (e rafforzare) la visuale del Bruto minore, accolse anche
motivazioni sentimentali che, connesse con il "senso dell'animo" che
ci sollecita a perseverare nella vita, militano contro l'"atto fiero
e inumano", egoisticamente dimentico del dolore provocato in amici e
parenti. Sulla poesia, però, il L. continuava a riflettere,
affermando nel 1826 il primato della lirica ("espressione libera e
schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito": Zibaldone, 4234),
in sintonia con ragioni teoriche che, riassunte nel titolo Canti,
informano specialmente i componimenti pisano-recanatesi del 1828-30.
A parte la constatazione semiseria di quanto poco conti il lavoro di
lima per uno scrittore moderno (Scherzo, 1828), il ritorno alla
poesia - confidato alla sorella Paolina in una lettera da Pisa del 2
maggio 1828 ("ho fatto dei versi quest'aprile; ma versi veramente
all'antica […]") - è fatto coincidere con la rinascita del
cuore, la rinnovata capacità di sentire, su cui insiste Il
Risorgimento (1828) nelle agili movenze di una canzonetta arcadica
modellata su Il brindisi di Parini. La recuperata vitalità e
reattività affettiva non riaccende la speranza, perché
coesiste con l'"infausta verità" sempre immanente. La fine
della capacità di sognare e sperare, all'"apparir del vero",
si fissò poi nella figura di una giovane morta precocemente,
nel gioco fra ricordo autobiografico e trasposizione simbolica. In A
Silvia (1828) riemergono gesti e pensieri della giovinezza,
restituendo al poeta - nel metro di una canzone libera, affabilmente
discorsiva - il calore della loro beata, virginale inesperienza,
drammaticamente confrontata con la scoperta degli inganni della
natura. Su un'altra delicata immagine femminile, Nerina, si condensa
la tensione memoriale negli endecasillabi sciolti de Le ricordanze
(1829): nella piacevolezza e anzi dolcezza del ricordare
(indipendenti dai ricordi in se stessi), consistenti nell'illusione
di rinverdire la fiducia nel futuro propria della fanciullezza,
irrompono "il pensier del presente", la certezza
dell'irrevocabilità del passato, la straziata percezione del
finito per sempre, che trasformano il "dolce rimembrar" in
"rimembranza acerba". Alle esperienze personali il L.
continuerà ad attingere nei canti seguenti, riproducendo
scene di vita borghigiana, evidentemente recanatese, a cui si
collegano - nella struttura della canzone libera, bipartita fra un
momento descrittivo e uno ragionativo - inconfutabili verità:
il carattere solo negativo del piacere, sensisticamente inteso come
privazione del dolore (La quiete dopo la tempesta, 1829); e, ancora,
l'illusorietà della speranza, esemplificata nell'aspettativa
del giorno festivo, posta a confronto con la "tristezza e noia" che
questo puntualmente arreca (Il sabato del villaggio, 1829). Deposta
la materia autobiografica e la connessa poetica della ricordanza,
nel Canto notturno di un pastore errante dell'Asia (1829-30) il L.
ritrova il proprio pessimismo radicale, che chiude una lunga
elaborazione lirico-concettuale, tesa a imprimere nelle strofe
libere (o lasse, propriamente) i segni di una sapienza remota,
collocata fuori di un tempo determinato e di uno spazio
circoscritto.
Dedicando la prima edizione dei Canti (ed. G. Piatti, Firenze 1831)
agli "amici suoi di Toscana" il L. sciolse un debito di gratitudine
per la generosa iniziativa che gli aveva consentito di vivere per un
anno a Firenze a loro spese e si accomiatò "dalle lettere e
dagli studi", compromessi dalle peggiorate condizioni fisiche, nella
prospettiva di ripiombare peraltro nell'inferno recanatese (Tutte le
opere, I, p. 53). Ma a Recanati non tornò più. Al
seguito di Ranieri si aprì il travagliato periodo conclusivo
di un'esistenza afflitta dalle difficoltà economiche oltre
che dallo stato di salute, che lo vide diviso tra Firenze e Roma e
poi a Napoli, dal 1833 alla morte.
Dalla fine del 1828 alla primavera del 1830 era tornato a
sperimentare la costrizione di una vita alla quale pareva
impossibile sottrarsi. Venuto meno il compenso pattuito con lo
Stella ed escluso il ricorso all'aiuto paterno, per lasciare
Recanati gli occorreva un lavoro compatibile con le precarie
condizioni fisiche, l'ufficio pubblico che non aveva ottenuto
né nello Stato pontificio, "dove ogni cosa è per li
preti e i frati", né fuori, dove "un forestiero" non aveva
"speranza d'impieghi" (lettera a P. Colletta, 16 genn. 1829). Andati
a vuoto ripetuti tentativi di Bunsen, compresa l'eventualità
- frustrata nel 1826 dalle solite ragioni di salute - di una
cattedra di letteratura italiana a Berlino o a Bonn, non rimase al
L. che sperare nell'aiuto degli amici. Nel 1829 F. Maestri, genero
del medico e scienziato G. Tommasini, conosciuto a Bologna,
cercò di sistemarlo nell'Università di Parma come
insegnante di storia naturale; Colletta ipotizzò un
insegnamento a Livorno, nell'ateneo di cui riteneva prossima
l'apertura; Giordani, sconsigliandogli per il clima l'offerta
parmense, del resto presto sfumata, insisté con Vieusseux su
un trasferimento a Firenze. E proprio alla volta di Firenze,
accettando - dopo che alle Operette morali non andò il premio
di 1000 scudi bandito dall'Accademia della Crusca (vinto dalla
Storia d'Italia di C. Botta: il L. ebbe forse l'appoggio del solo
Capponi) - un sussidio mensile per un anno offertogli da Colletta a
nome di un gruppo di "amici", il L. partì da Recanati il 29
apr. 1830; vi giunse il 10 maggio, dopo una breve sosta a Bologna.
Nell'estate A. Poerio lo presentò a Fanny Targioni Tozzetti
nata Ronchivecchi, donna in vista nella società fiorentina,
assai probabile ispiratrice dei canti del cosiddetto "ciclo di
Aspasia"; strinse inoltre amicizia con il filologo svizzero L. de
Sinner e dette inizio al settennale sodalizio con Ranieri, che
vorrà farsene memorialista in un infelice scritto pubblicato
nel 1880.
Il 20 marzo 1831 il L. fu nominato rappresentante di Recanati
nell'Assemblea convocata dal governo provvisorio delle Provincie
unite a Bologna, ma il mandato fu vanificato dal ritorno degli
Austriaci. Apparve intanto la prima edizione dei Canti, accolti con
freddezza da Colletta per la loro "medesima eterna, ormai non
sopportabile, melanconia" (Lettere di G. Capponi e di altri a lui,
I, Firenze 1884, pp. 331 s.). Nell'ottobre lasciò Firenze per
Roma con Ranieri, che voleva raggiungere un'attrice sua amante,
l'ungherese Maria Maddalena Signorini di Pelzet. Tornato a Firenze
nel marzo del 1832, in una lettera al Vieusseux pubblicata
nell'Antologia smentì la paternità degli anonimi
Dialoghetti sulle materie correnti nell'anno 1831 ("quei sozzi,
fanatici dialogacci": lettera a G. Melchiorri, 15 magg. 1832).
Infine il 2 sett. 1833 partì con Ranieri per Napoli, dove
giunse il 2 ottobre dopo una sosta a Roma. Anche Napoli finì
per deluderlo. I cattolico-liberali della rivista Il Progresso
(fondata nel 1832 e diretta da G. Ricciardi sulla linea
dell'Antologia, nel frattempo soppressa) gli furono subito ostili,
respingendone l'ideologia pessimistica e materialistica.
Già prima del suo arrivo C. Dalbono lo aveva escluso da una
rassegna della poesia lirica contemporanea; altrettanto fece Matteo
Baldacchini, malgrado la simpatia personale di cui darà prova
in alcuni versi a lui dedicati; R. Liberatore uscì invece
allo scoperto, mettendo a confronto l'Inno ai patriarchi con quello
omonimo di T. Mamiani ed esprimendo la sua preferenza per l'autore
degli Inni sacri (destinato, certo non casualmente, a esemplificare
ne La ginestra l'insulso ottimismo degli spiritualisti). Gli umori
antileopardiani, testimoniati nel 1836 da una lettera di A. Poerio -
di recente rientrato a Napoli - a Tommaseo, rifluiscono in scritti
di S. Baldacchini, come la novella in versi Claudio Vanini e
soprattutto il saggio Del fine immediato d'ogni poesia (1836). S.
Baldacchini (fratello di Matteo), amico di C. Troya e anticipatore
di ideali neoguelfi, nel proprio modello culturale commisto di
platonismo cristiano e vichismo, segnato da gusto antiromantico e
segnatamente antibyroniano, tracciava una linea maestra della nostra
letteratura moderna che da Parini, Alfieri e Monti giungeva al
culmine con Manzoni, lasciando fuori Foscolo e il Leopardi. La
solitudine intellettuale del poeta non fu risarcita dalle rare
manifestazioni di simpatia, come quelle di A. von Platen, autore nel
suo diario di un indimenticabile ritratto leopardiano, o di T.
Gargallo, umanamente solidale dinanzi alle reazioni negative a
Napoli alla II edizione dei Canti (ed. S. Starita, 1835). Una
calorosa pubblica dichiarazione di stima di F. Fuoco non fu
raccolta, e assolutamente episodica restò la buona
accoglienza ricevuta nella visita alla scuola di B. Puoti, rievocata
da De Sanctis ne La giovinezza. La delusione del L. fu accentuata
dalla forzata rinuncia a stampare le proprie opere con il libraio
Starita. Alla nuova edizione delle poesie (estesa al cosiddetto
ciclo di Aspasia, al dittico delle "sepolcrali" e alla Palinodia al
marchese Gino Capponi, oltre a Il passero solitario) sarebbe dovuta
seguire una terza edizione in due volumi delle Operette morali (con
l'inclusione del Copernico, del Dialogo di Plotino e di Porfirio e
del Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco). Ma il progetto, che
prevedeva altri tre e forse quattro volumi di scritti pubblicati
sparsamente o ancora inediti, come i Pensieri, fu interrotto
dall'intervento della censura ("La mia filosofia è
dispiaciuta ai preti, i quali e qui ed in tutto il mondo, sotto un
nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto":
lettera a L. de Sinner, 22 dic. 1836).
A smentire presto il congedo dalla letteratura nella dedica agli
"amici suoi di Toscana" avrebbero provveduto i canti del ciclo di
Aspasia, legati all'amore per la Targioni Tozzetti: espressione di
una poetica che, lasciata alle spalle l'esperienza
pisano-recanatese, fece leva sulla recente lettura della lirica
predantesca - Cavalcanti oltre a Dante e a Petrarca (D. De Robertis)
- alla luce di una rinnovata sperimentazione stilistica e di un
atteggiamento energicamente contestativo che segna l'intero ultimo
tempo della poesia leopardiana.
Il ciclo di Aspasia ricostruì - in strofe libere di
endecasillabi sciolti - le fasi della passione per Fanny: dallo
"stupendo incanto" dell'animo che si inebria del sentimento amoroso,
pur conoscendone la natura illusoria, fino a dimenticare "tutto
quanto il ver" (Il pensiero dominante, forse 1831); al desiderio di
morire, imparentato al "fier desio" dell'amore in quanto promessa di
pace nella consapevolezza della vanità delle cose (Amore e
Morte, forse 1832); all'oggettivazione della propria avventura
sentimentale, nelle linee di una patetica proiezione narrativa
(Consalvo, forse 1832); al disinganno conclusivo, esteso dalla
vicenda personale alla certezza della negatività del vivere
(A se stesso, forse 1833); all'acre sfogo misogino che, tornando sul
tema svolto in Alla sua donna, contrappone alla passione esaurita
l'intatta verità dell'idealizzata immagine femminile
(Aspasia, forse 1834).
Il disprezzo dell'età presente e dei suoi miti
utilitaristici, congiunto al coraggio di guardare in faccia la
realtà nella serena attesa della morte, è il tratto
saliente dell'immagine di se stesso che L. ora propose. Un'immagine
alleggerita nella controfigura affabilmente ironica del Dialogo di
un venditore d'almanacchi e di un passeggere (1832), ma ricondotta,
sempre nel 1832, al ben altrimenti grave Dialogo di Tristano e di un
amico, sunto estremo del suo pessimismo. Qui la finale implorazione
della morte scioglie la finzione palinodica cui è consegnata
la polemica contro la cultura imperante, che emarginando il poeta lo
isola negli interrogativi la cui sola risposta, nelle canzoni
"sepolcrali", è la rinnovata denuncia della crudele
illogicità della natura (Sopra un basso rilievo sepolcrale,
dove una giovane morta è rappresentata in atto di partire,
accommiatandosi dai suoi; Sopra il ritratto di una bella donna
scolpita nel monumento sepolcrale della medesima: 1834-35). Ancora a
una finta ritrattazione affidò dal 1830 la ferma polemica con
l'ottimismo spiritualistico dei cattolico-liberali toscani e
napoletani. Negli endecasillabi sciolti della Palinodia al marchese
Gino Capponi (1835) il L. dette fondo alle ragioni del suo
materialismo e laicismo, rovesciando il mito di una virgiliana
età dell'oro e ribadendo, in un probabile cenno a Tommaseo,
l'intento di sfidare l'impopolarità con un atteggiamento
radicalmente negativo, impermeabile a mode, alle suggestioni del
progresso tecnico-scientifico e a ogni soluzione religiosa. Il suo
sentimento verso il destino, aveva confidato a L. de Sinner, sarebbe
rimasto quello del Bruto minore: alieno dal cercare conforto in una
pretesa felicità futura e ancorato ai risultati di una
"philosophie désespérante" (la stessa invocata nel
Tristano), che chiedeva ai lettori di discutere nei suoi fondamenti
razionali, astenendosi da spiegazioni riduttive, biografiche e
psicologiche (lettera del 24 maggio 1832). Nell'emblema de Il
passero solitario, scritto verosimilmente dopo il 1831 - forse a
Firenze o forse a Napoli, in prossimità dell'edizione Starita
- ma risalente a uno spunto più antico, addirittura del 1819,
ritrasse la condizione innaturale di una giovinezza schiacciata
dalla consapevolezza del futuro. La retrodatazione del testo alla
stagione idillica dissimulava l'anacronismo tecnico (il metro della
canzone libera, di là da venire), accreditando uno stato
d'animo anticipatamente senile, sordo ai richiami della natura e
delle illusioni. Al dramma dell'incomprensione e
dell'alterità dal resto degli uomini, che l'afflisse in
particolare negli anni napoletani, il poeta tentò di reagire
con l'arma della caricatura nel capitolo bernesco I nuovi credenti
(1835-36), escluso dai Canti, e con quella della satira nei
Paralipomeni della Batracomiomachia, il "libro terribile" (Gioberti)
composto in otto canti fra il 1831 e il 1836, sul modello degli
Animali parlanti di G. Casti: documento di un ostinato razionalismo
che dagli obiettivi immediati dell'allegoria politica (la
vacuità dei topi liberali, a fronte delle rane legittimiste e
all'ottuso dispotismo degli Austriaci, raffigurati dai granchi)
giunge a una larga e aspra diagnosi comica delle deformazioni
mentali - soprattutto le mistificazioni dell'ottimismo progressista
e dello spiritualismo - che si frappongono alla conoscenza del vero.
Sul registro dell'aforisma e della prosa morale il L. redasse infine
fra 1832 e 1836 i centoundici Pensieri "sur les caractères
des hommes et sur leur conduite dans la Société"
(lettera a Sinner, 2 marzo 1837). Il materiale, ricavato in buona
parte dallo Zibaldone, restituiva una riflessione oscillante fra la
pensosa severità della critica di costume e la più
distaccata ironia di chi osserva, sulla scena del mondo, i
meccanismi che presiedono ai comportamenti degli individui. Il L. ne
smascherava l'orgoglio e la vanità, la tendenza alla
sopraffazione inseparabile dalla proterva ricerca dell'utile
personale, e quindi la congenita asocialità riconoscibile,
ancorché dissimulata, negli esseri umani. La spinta di una
collaudata vocazione alla scrittura satirica (dalle "prosette" del
1820 ai Paralipomeni, attraverso la scattante incisività di
"detti memorabili" al modo dell'Ottonieri), esaltava i contrasti fra
il dire e il fare, le situazioni oggettivamente paradossali prodotte
dall'impostura o dall'autoinganno.
Nell'aprile del 1836, per sfuggire al colera imperversante a Napoli,
il poeta si rifugiò con Ranieri nella villa di un cognato di
questo, G. Ferrigni, alle pendici del Vesuvio, fra Torre del Greco e
Torre Annunziata.
Vi scrisse gli ultimi canti, La ginestra o Il fiore del deserto e Il
tramonto della luna, che volle includere nel libro maggiore -
riedito postumo nel 1845 - ma in ordine inverso. Nella poderosa
tessitura logico-fantastica e simbolica de La ginestra, accanto al
tema centrale dell'ostilità della natura, ritrovò i
motivi della polemica contro l'antropocentrismo e il sarcasmo verso
le "superbe fole" (v. 154) consolatorie di un risarcimento
ultraterreno. All'ottimismo dei cattolico-liberali continuò a
contrapporre il vero laico del materialismo e dell'Illuminismo, pur
esente dall'illusione del progresso e sulla scorta della cognizione
che la feroce legge naturale permette ai viventi solo di
fronteggiare solidalmente; era così recuperata l'urgenza del
patto sociale. Questo il messaggio della Ginestra, provvisto del
rigore logico di un teorema, di qua da istanze o presagi
etico-politici (il socialismo di cui avrebbe parlato G. Carducci; lo
Stato scientifico o la Società delle nazioni invocati da L.
Salvatorelli). Il L. lo inscriveva in una utopia filosofico-morale
di conversione dell'umanità al vero: la coscienza del
negativo, innervata di memoria storica e dall'esperienza concreta
dell'effimero, segnava il discrimine fra la rassegnazione e
l'atteggiamento, simboleggiato dalla ginestra, di virile opposizione
al male di vivere. La ginestra, come vide l'autore, era il naturale
punto di arrivo dei Canti, anche se l'itinerario era suscettibile -
come dimostrò Il tramonto della luna - di ulteriori riprese e
scavi.
Di ritorno a Napoli, il L. vi morì dopo qualche mese, il 14
giugno 1837, amorevolmente assistito da Ranieri e da una sorella di
questo, Paolina. Il corpo, sottratto dall'amico alla fossa comune
cui erano destinate le vittime dell'epidemia, fu tumulato nella
chiesa di S. Vitale sulla via di Pozzuoli. Sulla tomba una lapide,
dettata da Giordani, ne celebrò la grandezza di filologo, di
"scrittore di filosofia" e di poeta "da paragonare solamente coi
greci". Nel 1939 i resti furono trasferiti presso la cosiddetta
tomba di Virgilio, nel parco di Piedigrotta.
L'edizione di Tutte le opere di W. Binni, con la collaborazione di
E. Ghidetti, I-II, Firenze 1969, ha sostituito quella di F. Flora
(I-V, Milano 1937-49). Inoltre: Tutte le poesie e tutte le prose e
Zibaldone, a cura di L. Felici - E. Trevi, I-II, Roma 1997; Poesie e
prose, a cura di R. Damiani - M.A. Rigoni, con un saggio di C.
Galimberti, I-II, Milano 1987-88. I primi scritti sono stati
pubblicati da M. Corti, "Entro dipinta gabbia". Tutti gli scritti
inediti, rari e editi. 1809-1810, Milano 1972, ristampati a cura di
A. Longoni, Milano 1994, e di T. Crivelli, Dissertazioni filosofiche
(1811-1812), Padova 1995. Per le opere erudite e filologiche:
Scrittifilologici (1817-1832), a cura di G. Pacella - S. Timpanaro,
Firenze 1969; Fragmenta Patrum Graecorum. Auctorum historiae
ecclesiasticae fragmenta (1814-1815), a cura di C. Moreschini,
Firenze 1976; Porphyrii de vita Plotini et ordine librorum eius, a
cura di C. Moreschini, Firenze 1982; Giulio Africano, a cura di C.
Moreschini, Bologna 1997. I Canti sono stati editi da F. Moroncini
(I-II, Bologna 1927), E. Peruzzi (Milano 1981), D. De Robertis
(I-II, Milano 1984); inoltre: A. Bufano, Concordanze dei "Canti" del
L., Firenze 1969; G. Savoca, Concordanze dei "Canti" di G. Leopardi.
Concordanza, liste di frequenza, indici, Firenze 1994. Per le
Operette morali, le edizioni critiche di F. Moroncini (I-II, Bologna
1928) e O. Besomi (Milano 1979). Vedi anche: Concordanze diacroniche
delle "Operette morali" di G. L., a cura di O. Besomi et al.,
Hildesheim 1988. Per lo Zibaldone di pensieri le edizioni di E.
Peruzzi, I-X, Pisa 1989-94; di G. Pacella, I-III, Milano 1991; di R.
Damiani, I-III, Milano 1997. Per la corrispondenza: Epistolario di
G. Leopardi. Nuova edizione ampliata con lettere dei corrispondenti
e con note illustrative, a cura di F. Moroncini, I-VII, Firenze
1934-41 (l'ultimo volume a cura di G. Ferretti, con indice di A.
Duro); Epistolario, a cura di F. Brioschi - P. Landi, I-II, Torino
1998. Altre opere: Crestomazia italiana, I-II, Torino 1968 (La
prosa, a cura di G. Bollati; La poesia, a cura di G. Savoca);
Appressamento della morte, ed. critica di L. Posfortunato, Firenze
1983; Discorso di un italiano alla poesia romantica, ed. critica di
O. Besomi et al., Bellinzona 1988; Scritti e frammenti
autobiografici, a cura di F. D'Intino, Roma 1995; G. Savoca,
Concordanza dei "Paralipomeni" di G. L.: testo con commento,
concordanza, liste di frequenza, Firenze 1998; Discorso sopra lo
stato presente dei costumi degl'Italiani, intr. di M.A. Rigoni,
testo critico di M. Dondero, commento di R. Melchiori, Milano 1998;
Pensieri, ed. critica di M. Durante, Firenze 1998; Poeti greci e
latini, a cura di F. D'Intino, Roma 1999; Teatro, ed. critica e
commento di I. Innamorati, Roma 1999; Appunti e ricordi, a cura di
E. Pasquini - P. Rota, Roma 2000.
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Firenze 1905; G. Ferretti, Vita di G. L., Bologna 1940; I. Origo, L.
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all'incompiuto Studio su G. L. gli scritti di argomento
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di E.M. Cioran, Milano 1997; E. Severino, Cosa arcana e stupenda.
L'Occidente e L., Milano 1997; M. Manotta, L.: la retorica e lo
stile, Firenze 1998; U. Dotti, Lo sguardo sul mondo. Introduzione a
L., Roma-Bari 1999; C. Luporini, Decifrare L., Napoli 1999; L.
Diafani, La "stanza silenziosa". Studio sull'epistolario di L.,
Firenze 2000; A. Dolfi, Ragione e passione. Fondamenti e forme del
pensare leopardiano, Roma 2000; E. Landoni, Questo deserto,
quell'infinita felicità. La lingua poetica leopardiana oltre
materialismo e nichilismo, Roma 2000; G. Tellini, L., Roma 2001.
Importanti gli atti dei convegni promossi dal 1962 a Recanati dal
Centro nazionale di studi leopardiani (tutti pubblicati a Firenze),
tra i quali: L. e il Settecento, 1964; L. e l'Ottocento, 1970; L. e
il Novecento, 1974; L. e la letteratura italiana dal Duecento al
Seicento, 1978; L. e il mondo antico, 1982; Il pensiero storico e
politico di G. L., 1989; Le città di G. L., 1991; Lingua e
stile di G. L., 1994; Il riso leopardiano. Comico, satira, parodia,
1998; Lo "Zibaldone" cento anni dopo. Composizione, edizione, temi,
I-II, 2001. Si veda infine: Lectura leopardiana. I quarantuno
"Canti" e "I nuovi credenti", a cura di A. Maglione, Venezia 2003.