AL LETTORE ITALIANO
Italia e Roma !
Tasso
Inviato dalli amici, qualche giorno dopo la presa di Milano, a
verificare in Parigi quali speranze mai colà rimanessero alla
tradita nostra causa, trovai quelli uomini di Stato profondamente
ignari delle cose nostre, e per la gravità delle circostanze
scusabilmente immemori d'ogni cosa lontana. E per li indefessi
maneggi delle corti di Torino e Vienna, li rinvenni imbevuti
d'opinioni insoffribilmente vituperose a' miei cittadini, e a tutta
l'Italia.
D'altro non mi rispondevano che delli eroici sforzi del re Carlo
Alberto, stoltamente sventati dalla discordia, viltà e
perfidia nostra. Non aveva, a creder loro, la libertà fra noi
fondamento alcuno di popolo; la moltitudine era fra noi d'animo
tanto austriaco, che a stento l'esercito regio aveva potuto ridursi
in salvamento, e proteggere nell'ardua sua ritirata quei pochi
gentiluomini, i quali nella squisita educazione e nei lunghi viaggi
avevano attinto qualche svogliata e fioca aspirazione di
libertà e nazionalità. Il restante popolo, affatto
lazzarone, attendeva solo il ritorno delli stranieri, per dare di
piglio nelli averi e nel sangue delli amici dell'indipendenza e di
Carlo Alberto; aveva incendiato i sobborghi di Milano; e se non era
la saviezza e prontezza dei generali austriaci a occupare la
città immantinente dopo la partenza del re, l'avrebbe arsa e
saccheggiata, anche per suggestione dei republicani. Si citavano li
articoli della Allgemeine Zeitung , che parimenti attestavano essere
tutto il moto d'Italia raggiro di pochi nobili, di pochi individui
della razza bianca, la quale opprimeva e spolpava la razza bruna,
indigena delle campagne d'Italia, e costantemente e vanamente difesa
dalli amministratori austriaci!
Molti mi predicavano, come avrebbero potuto fare a un Egiziano, che
a conseguir l'indipendenza era mestieri preparare lontanamente le
cose; introdurre in Italia li asili dell'infanzia, le casse di
risparmio e le strade ferrate; distogliere i contadini dal dolce far
niente. In due o tre generazioni il popolo poteva farsi maturo. E mi
dissero parecchie cose che veramente aveva già lette nei
libri del conte Cesare Balbo, e del marchese Azelio e del Dalpozzo.
Ragionamenti di questa fatta mi si facevano da uomini d'ogni
opinione, Cavaignac, Bastide, Cintrat, Mignet, Thierry,
Larochejacquelein, Drouin de Lhuys e cento altri di cui non mi
ricorda il nome. Chi mi palesò animo più propenso e
ospitale, si fu Lamartine; e meglio intendere le cose d'Italia mi
parve Quinet. Ma il vero senso di nazionale amistà, lucida
coscienza dei principii universali della prima rivoluzione francese,
mi parve viver solo nei capi del popolo, nelli uomini senza cariche
e senza dovizie. E ad essi pure manca la notizia dei fatti.
V'è nelle menti delli stranieri un'Italia immaginaria, della
quale i nostri oppressori si giovarono sempre a distogliere dalle
cose nostre i governi che più interesse avrebbero alla nostra
libertà. Noi scriviamo poco per noi; nulla per li altri.
I discorsi che mi facevano, erano tanto strani, e alludevano a
circostanze cotanto sfigurate e capovolte, ch'era forza tacermi;
poichè non poteva io rifar da capo, ogni volta, e con ogni
persona, tutta la tela delle emende, rettificazioni e
giustificazioni. E mi era molesto, e mi pareva indegno.
Mi fu detto di scrivere una relazione delli ultimi fatti. Pensando
che sarebbe riescita troppo lunga a leggersi in manoscritto, e
sarebbe tosto sommersa nell'archivio, la feci a stampa. La scrissi
in settembre; la publicai in ottobre; ma era lontano dalli amici e
dai testimonii; non aveva i documenti coi quali render precise molte
asserzioni, che la malafede delli avversarii avrebbe impugnate. Dei
fatti della guerra non poteva dire quasi nulla; poichè le
notizie giornaliere date dal governo provisorio e dallo
stato-maggiore sì dell'uno che dell'altro esercito, erano
affatto mendaci e insulse; sicchè dal paragone non si poteva
ritrarre costrutto; erano d'ambo li opposti lati continue vittorie.
Reduce in Italia, ebbi diversi documenti a stampa e a penna, tutti
li atti del governo provisorio, varie confessioni fatte dai generali
del re in parlamento, scritti di lunga lena publicati da altri
militari Ho potuto compiere parecchie lacune intorno alla finanza,
alla polizia, alla guerra, e sopratutto alla consegna della
città di Milano. Nel rifare il mio libro in italiano, molto
aggiunsi, nulla tolsi. E mi resi assai lunga e ingrata la fatica,
perchè mi proposi d'inserire per quanto poteva il testo
letterale delle testimonianze, facendo quasi un musaico, poco ameno
certamente a scriversi e a leggersi. Ma pensai che non fosse tempo
ancora di scrivere l'istoria, ma sì di predisporre quasi un
processo. Poichè molti fatti giacciono ancora in profonda
oscurità.
Se mi verranno altri documenti e riempimenti, farò successive
appendici. Sappiano coloro i quali pongono mano alle cose d'Italia
che il giudicio della nazione li aspetta.
Intanto il ministerio democratico di Piemonte fa sequestrare il mio
libro francese; e per mia colpa non possono sperare che nemanco
l'italiano abbia la sua perdonanza. Infelici li eroi che temono
l'istoria!
L'istoria non è più proibita nemmeno in Austria!
Per mia parte, io temo sì poco al mio libro il raffronto con
quelli che si scrivono in Torino, che li cerco avidamente; e li cito
a lunghe pagine; e ben vorrei che il popolo tutto li leggesse
insieme col mio.
Italia, 31 gennaio 1849
I
Antecedenti fino al 1847
All'uopo di chiarire da quali sentimenti movesse la nostra
insurrezione, conviene adombrare alcuni fatti, dei quali fu naturale
e semplice conseguenza.
Nel 1814 la Francia era solamente vinta; l'Italia rimase
conquistata. L'occupazione straniera in Francia era un caso fortuito
e transitorio; in Italia venne perpetuata dal congresso di Vienna;
ed oggidì ancora si decanta come un diritto dell'Austria e
come una condizione alla pace d'Europa. Una fazione retrograda
sopravissuta a tutte le glorie di Napoleone, accolse come una buona
ventura l'invasione austriaca; vide nelle armi straniere la salvezza
d'ogni vieto pregiudicio; vi sperò perfino uno strumento di
dominio. Ignara delle alte ragioni di Stato, immemore della
dignità nazionale, ella sognò di tenersi gli Austriaci
a modo d'una guardia di svizzeri. Vedendo i loro battaglioni
invadere le sue città, plaudiva dicendo: ecco i nostri
soldati; essi ci salveranno dalla rivoluzione.
Codesta fazione pagò prodigamente d'essere protetta
dall'esercito imperiale. Abbandono senza riserva all'Austria il
publico patrimonio; non patteggiò misura alcuna
all'esorbitanza delle imposte. Il denaro nostro fu trasportato con
annua rapina a Vienna; il tesoro imperiale potè ingoiarci a
quest'ora due mila milioni. Così lasciavasi svenare la patria
dallo straniero, purchè difendesse la causa dell'ignoranza.
A conservarsi il regno, l'Austria doveva solo lasciare ai retrogradi
l'illusione che i soldati suoi non altro erano per loro che servi
armati. Ma buon per noi che, al contrario, si fece ella medesima
sovvertitrice de' suoi popoli italiani. Dimenticando che il nome
imperiale discende da un'antica autorità cosmopolitica, la
quale permetteva ad ogni popolo di vivere nelle costumanze de' suoi
maggiori; e non risparmiando ne' sudditi suoi quei sensi d'onor
nazionale che lo spirito di parte non estingue del tutto mai,
l'Austria non volle esser altro in Italia che una potenza tedesca.
Prese modi aspri e superbi; vessò e umiliò gli stessi
suoi seguaci. E ne venne il fatto mirabile ch'essi finalmente
intesero per la prima volta d'essere italiani. Nel 1814 avevano
demolita con giubilo quella nuova istituzione del regno d'Italia, il
quale non altro era agli intelletti loro che un edificio di
ribellione e di empietà. Avevano sperato di spegnere per
sempre quel germe di nazionalità pensante e armigera. E un
governo ingrato e villano li conduceva in breve a farsi seguaci e
martiri d'una fede già da loro aborrita.
Ma se questo nuovo principio entrava negli animi e se ne
impadroniva, pur troppo a dargli pronto effetto non vi era
più l'esercito italiano.
Prima cura degli Austriaci nel 1814 era stata quella d'isolare e
disarmare la nostra milizia, già oppressa dalla sventura di
Napoleone, dal tradimento di Murat, dalla debolezza di Beauharnais.
L'esercito del regno d'Italia erasi fatto compagno di gloria
dell'esercito francese; ma l'assidua asprezza delle guerre vi aveva
reso ben rari i veterani; trentamila valorosi erano caduti in
Catalogna e Valenza; trentamila in Russia; trentamila in Sassonia. E
tuttavia le sue reliquie, raccolte in Mantova nel 1814, nulla
avevano dimesso dell'usato valore. Ad onta dei segreti accordi colla
fazione retrograda, l'esercito degli alleati non potè entrare
in Milano se non quattro settimane dopo la presa di Parigi. Il che
torna a somma lode della milizia italiana, immolata pur sempre agli
avvolgimenti della politica. Se non che, quei soldati vennero tratti
poco stante in una falsa congiura, nella quale si era fatta loro
sperare la cooperazione dei Borboni, come bramosi di ristaurare la
fortuna francese in Italia. Quantunque il congresso di Vienna
sedesse ancora, e le sorti nostre non fossero ancora stabilite,
epperò i nostri soldati non avessero giuramento alcuno o
dovere verso alcun principe, furono sottoposti a giudicio e a
condanna di ribelli. L'esercito fu disciolto; le sue reliquie
disperse nei presidii d'oltralpe; gli officiali per la maggior parte
mandati in congedo; anzi molti, per non prestare un giuramento a cui
l'animo loro italiano ripugnava, prefersero di rimanersi privi del
grado e della pensione. L'Austria disfece il nostro ministerio della
guerra, lo stato-maggiore, l'artiglieria, il genio, i collegii
militari, le fonderie di cannoni, le fabbriche d'armi e di panni, e
da ultimo l'istituto topografico, tutti insomma gli elementi della
milizia, usurpandosi senza compenso un valsente di cento milioni in
apparati di guerra e marina.
Ma la ferita più funesta fu per noi l'essersi tolto ai nostri
soldati l'abito nazionale; poichè l'uniforme austriaca rese
odioso il tirocinio militare ad ogni giovine che avesse senso di
dignità. Epperò ad acquistarsi la perizia d'officiale
poterono d'allora in poi pervenire quasi solo quegli infelici che le
famiglie loro non potevano o non volevano riscattare dalla milizia.
Nel che appare la differenza che è tra l'indole francese e la
tedesca; perocchè l'Austria ne tolse l'esercito che la
Francia ne aveva dato. Come questa ci aveva voluti e ci vuole armati
e forti così quella ci voleva e ci vorrebbe inermi e imbelli;
e si compiaceva di farci ad ogni volta riputar tali a tutta
l'Europa.
E qui giova additare una delle arti colle quali l'Austria ridusse
all'ossequio e all'impotenza le bellicose genti del suo dominio.
Riserva ella ai soldati dell'arciducato d'Austria e di quelle
vicinanze l'esclusivo esercizio dell'artiglieria e di tutte le
più alte parti della pratica militare, rattenendo ciascuna
nazione nell'uso di qualche arme particolare, sicchè non mai
possa avere in sè medesima un tessuto intero d'esercito.
Così li Ungari non hanno altra cavalleria che d'ussari; i
Polacchi, di lancieri; solo i paesi della lega germanica danno la
cavalleria greve. Il Tirolo non tiene cavalli, anzi non ha altro che
fanti leggeri; e le terre italiane, che hanno cinque milioni di
popolo e somministrano cinquantamila soldati, hanno un unico
reggimento di cavalli.
Perchè mai la Casa d'Austria, obliate le vetuste tradizioni
cesaree, s'era messa a seguir solo le esigenze dell'unità
militare? Perchè si era così ciecamente fatta serva
alli interessi della minorità germanica de' suoi popoli?
Finchè i suoi possedimenti d'Italia si ristringevano alli
Stati di Milano e di Mantova, separati da suoi possedimenti di
Germania pei principati vescovili del Tirolo e per le republiche dei
Grigioni e dei Veneti, l'Austria aveva dovuto corteggiare li
interessi e i sentimenti di popoli in tal modo appartati, e padroni
per ciò delle sorti loro. Fu quello il secreto della pace e
della prosperità ch'ebbe il regno di Maria Teresa fra noi. Ma
l'Austria erasi arricchita colle spoglie degli sciagurati amici e
collegati, ch'ella aveva tratti seco nelle guerre francesi. Da
Chiavenna a Ragusa, dai confini dell'Elvezia a quelli dell'Albania,
una delle più belle e più civili regioni del mondo era
adesso immediata e attigua parte dell'imperio. Spinta l'Austria da
sfrenate ambizioni a pertinace rivalità con due potenze
naturalmente e vastamente unitarie, aveva provato grande il bisogno
d'unità. Ma centone informe, quale essa era, di otto o dieci
nazioni, non seppe cercare l'unità se non in una fattizia
compagine ministeriale, che soggiogasse tutti i suoi popoli al
primato della minorità germanica. L'affezione avita dei
sudditi di Maria Teresa fu dunque immolata a una centralità
senza fondamento, a una unità senza nazionalità.
L'Italiano, l'Ungaro, il Polacco ebbero a riconoscersi vassalli ai
Tedeschi dell'Austria, derisi allora e quasi rifiutati dalla patria
germanica. Tutte quelle valorose nazioni o dovevano dunque lasciarsi
cassare e confondere con una gente alla quale non avevano affetto
nè stima, o dovevano anelare a frangere un nodo ch'era pegno
di avvilimento. Codesta smania di materiale unità è la
perdizione dell'Austria. Non poteva essa, per natura delle cose,
essere altro che una federazione di regni.
Dacchè non si può tenere eserciti senza rendite,
l'unità militare trasse dietro l'unità finanziaria.
Popoli di matura civiltà furono messi a fascio con
tribù giacenti ancora nella servitù dei bassi tempi,
rimase anzi alcune nella barbarie primitiva. Una stirpe da tanti
secoli gentile dovè supplire colle sue dovizie allo squallore
di razze inculte ed ispide; i sudditi italiani della Casa d'Austria
ebbero a pagare un terzo delle gravezze dell'imperio, benchè
facessero solo un ottavo della popolazione. E oltreciò le
communi italiane dovettero con altre spontanee sovrimposte provedere
a quelle opere di publico servigio che un governo tanto avido quanto
spilorcio negava di compiere a spese dello Stato; in sole strade
vicinali le communi lombarde spesero più di quaranta milioni.
Tutta l'amministrazione assunse codesta indole di colonia. Il
sistema continentale fu ristabilito a sussidio delle tardigrade
industrie della Boemia e della Moravia. Spinto il prezzo delle
ferraccie al doppio di quello a cui le fornisce l'Inghilterra, ci fu
resa quasi impossibile la costruzione delle vie ferrate.
Una prima ingiustizia è fonte a ingiustizie infinite. Divenne
necessità avvilire la stampa, interdire le discussioni
politiche e amministrative, angustiare l'insegnamento. Milano,
città di duecentomila abitanti o poco meno, e sede principale
allora delle lettere in Italia, ebbe a starsi contenta ad una unica
Gazzetta Privilegiata; in cui traducevasi rue per ruota e huissier
per ussaro. L'Austria si onorò di qualificarci come un popolo
infante, ch'ella durava gran fatica a educare alla sapienza
germanica. Uomini di nome ignoto vennero d'oltremonti con molta
insolenza a rigovernare da capo le università nostre e le
academie, quando Volta e Oriani, l'inventore della pila elettrica e
l'inventore della trigonometria sferica, vivevano ancora fra noi!
Siffatti comportamenti inimicarono li animi prima della cittadinanza
e poscia anco dei patrizii; alcuni dei quali venivano già
mostrandosi vaghi d'una libera costituzione, giusta la moda che per
ogni cosa veniva allora d'Inghilterra. E la letteratura
eziandío, a quei giorni innovatrice, operava a rompere le
ereditarie tenebre, accennando a conciliare la religione colli
studii e il cristianesimo colla libertà.
Ma per conquistare una costituzione, volevasi un esercito, che quei
signori non avevano; poichè nè forse essi volevano
darsi in mano ai soldati di Napoleone; nè conveniva aver
lusinga che nel 1821 i veterani del regno d'Italia si lasciassero
maneggiare da chi nel 1814 li aveva messi in potere del nemico; e
che animi militari e netti potessero capacitarsi di cotali
andirivieni di parte. Quei gentiluomini si volsero dunque alla casa
di Savoia. Perchè non l'avevano dunque già fatto nel
1814?
La piccola potenza savoiarda era rimasa, fino a quel dì,
straniera alla rimanente Italia più assai della casa
imperiale. Reliquia della feudalità francese, si era salvata
dagli esterminii di Richelieu, col dimostrarsi intesa ormai solo a
farsi italiana. Essa aveva bensì un buon esercito; ma non
poteva accondiscendere a imprestarlo ad una causa di libertà
e di novità. La casa di Savoia, anzichè
costituzionale, era assoluta anche più della casa d'Austria;
e in fatto di religione professava una inquisitoria ignoranza.
Assorta nel gesuitismo, essa rifiutò gli acquisti che
potevano venirle dalla libertà. Fu dunque necessario torle
l'esercito per mezzo d'una congiura militare. I nostri cospiratori
di corte si misero in secrete pratiche con un principe della
medesima casa. Era Carlo Alberto di Carignano, ora re. - Il disegno
volgeva al falso; poichè si doveva sovvertire da capo a fondo
l'esercito, nell'atto stesso che volevasi averlo saldo in ordinanza,
per avventarlo contro un gran nemico. L'impresa essendo adunque
fallita, Carlo Alberto, che aveva cominciato col tradire i parenti,
compì col tradire gli amici; dopo di che, se ne andò a
fare un primo atto di penitenza al Trocadero. L'Austria
sepellì nello Spielberg tutti coloro tra i congiurati che non
si salvarono in terra straniera; e perseguitò molti altri dei
migliori cittadini. Ma nell'infierire con tutta la barbarie del suo
carcere contro quelle si poco dannose colpe o quella manifesta
innocenza, ella si fece aborrita al mondo, e cattivò a quelli
infelici la universale pietà.
I tardi e inutili rigori ferirono acerbamente quella parte
eziandío dei patrizii che non era nella congiura, e che
riputavasi degna d'essere mallevadrice all'imperatore
dell'obbedienza d'un regno, ch'essa infine gli aveva volontariamente
donato. Allora per la prima volta l'ira le fece fare viso acerbo
alla corte e starsene alquanto in disparte; e gli officiali
austriaci, ch'erano di casa anche presso le famiglie più
superbe e più selvatiche ai cittadini cominciavano a trovarvi
meno sviscerate accoglienze.
Queste cose abbagliarono l'Europa; e le diedero a credere che il
moto rivoluzionario in Italia movesse dai signori, per calare passo
passo ad una cittadinanza ignara e servile. Nessun maggior errore.
Nell'ordine cittadino era l'anima della nazione; quivi erano
più larghi gli studii, e più generose le
volontà; quivi era inoltre la maggior mole dei beni;
perocchè i patrizii nelle nostre province sono di gran lunga
in minor numero, e hanno minori possedimenti che in tutti li altri
Stati imperiali; stanno infatti alla popolazione solamente come tre
a mille; e non tengono più d'una sesta parte delle terre. Ma
un'opulenza accumulata in grandi porzioni sembra maggiore del vero.
Dopo i giorni di luglio del 1830, i nostri patrizii poco si mossero,
essendochè quella rivoluzione era fatta contro i loro
intendimenti. Ma i giovani dell'ordine cittadino risentirono
maggiormente la scossa; e si arrolarono poscia in buon numero nella
Giovine Italia. Così mentre i patrizii tenevano rivolto
l'animo verso il solo Piemonte, li altri abbracciavano nei voti loro
l'universa nazione. Questo divario di sentimenti dura sempre; ed ha
molta parte in ogni nostra cosa.
Nel 1838, avendo l'imperator Ferdinando assunta la corona ferrea del
regno lombardo-veneto, una incorreggibile nobiltà
accettò come piena satisfazione quella vana comparsa;
tornò alla folle e vile speranza d'acconciare i suoi
particolari interessi colla servitù straniera; e obliata la
casa di Savoia, si strinse di bel nuovo intorno alla famiglia
imperiale, in sequela al gran dignitario Borromeo e al
podestà Casati. Compose una guardia nobile : fece caricare
d'una nuova imposta i beni di tutti i cittadini, per allevare in
Vienna una brigata di nobili poveri, destinati a servir poi
nell'esercito e nelle legazioni. Si videro d'ogni parte spuntar
nuovamente le armi gentilizie e le livree gallonate; si videro i
cocchieri incipriati, e percorsi i cocchi dai lacchè; nello
sfarzoso rammobigliamento delle case signorili si affondarono molti
milioni; e si ebbe l'effetto d'umiliare la modestia cittadina, e
d'accaparrare l'ammirazione e la reverenza della plebe.
All'incoronazione seguitò il perdono dei prigioni e degli
esuli; ma non appena la corona ferrea fu riposta nel sacrario di
Monza, il governo austriaco ritornò com'era prima.
Delusi pertanto una seconda volta, si rivolsero i patrizii una
seconda volta al Carignano. Tutta la loro sapienza di stato si
ristette finora in codesto oscillamento dalla casa d'Austria alla
casa Savoia. - Ma l'antico loro complice era da lungo tempo re. E
questa volta l'esercito era suo; nè doveva egli prima
guastarlo, per farselo strumento di grandezza.
Il ritorno degli esuli aveva tolto ogni intrinsichezza che rimaneva
fra i patrizii e gli officiali austriaci. V'erano tuttavìa
molte famiglie antiquate, che imaginando ancora di vivere ai tempi
del Sacro Romano Imperio, non si riputavano disonorate dalla
presenza dei soldati stranieri. Ma i reduci, valendosi
dell'autorità d'eleganti dettatori che dava loro la lunga
dimora fatta in Londra e in Parigi, ammaestrarono quella stolta
gente a serbare al cospetto delli stranieri i doveri della nazionale
dignità. Non vi furono più danze di frivole spose con
ussari damerini, nè cicalecci di nonne insensate con
decrepiti marescialli. Il governo parlamentare, propagatosi in molte
regioni d'Europa, riverberava d'ogni parte la sua luce sull'Italia,
condannata da uno strano e iniquo privilegio alle tenebre e al
silenzio; anche in seno alla fazione retrograda l'avanzamento delli
intelletti era grande. Ma l'opera non era compiuta; perocchè
al principio dell'indipendenza nazionale mancava tuttavia la
sanzione religiosa.
Dopo la loro ristaurazione, i pontefici si erano dati con tutto
l'animo a rendere odiose ai popoli le idee di nazionalità e
di libertà, come quelle che mettessero in forse il loro
governo temporale, improvido e perverso com'era divenuto.
Epperò, non paghi di mandare al patibolo i forti cittadini,
insultavano con vili calunnie ai loro sepolcri. Pio IX ruppe le
catene ai prigionieri; riaperse la patria alli esiliati; pose mano
per un momento all'opera santa della nazionalità. Il
catolicismo parve far divorzio dal gesuitismo; riabbracciarsi per
sempre la religione e la libertà. Abbandoni ora, s'ei vuole,
Pio IX la causa dell'Italia. - Far tacere la parola che ha
proferito, separare ciò che ha congiunto, inimicare la
religione alla nazionalità, non è più in sua
mano.
Insieme col sacerdozio trassero alla causa della libertà i
contadini e la parte più stupida del partiziato e della
cittadinanza. L'Austria rimase solitaria. Dopo trentaquattro anni di
dominio, non restò vestigio in Italia di fazione austriaca.
Per verità nessuno aveva mai voluto lo straniero come
straniero; sarebbe stato contro natura.
Per la prima volta in Italia, tutti gli animi erano dunque congiunti
in un voto solo. Ma codesta unanimità celava una fonte di
mali. Si doveva fare una rivoluzione, si doveva romper guerra al
passato; e a capo dell'impresa stava una nobiltà adoratrice
d'ogni passata cosa, con un re assoluto e un papa. Adunque le mani
medesime che poco stante ci avevano consegnati al dominio barbaro,
ora dovevano liberarci ! - Non era questo un controsenso aperto? -
Non era assurdo lo sperare da siffatte condizioni un ragionevole
effetto?
Ma perchè mai l'ordine cittadino, il quale aveva il senso e
l'interesse vero alla rivoluzione, non aveva egli impugnato le
redini del movimento? - E' ciò che ci resta da dire.
II
Le dimostrazioni
L'impresa dei cittadini era molteplice, abbracciando ella ad un
tempo l'acquisto dell'indipendenza e quello della libertà.
Per conseguire l'indipendenza era mestieri combattere, e pertanto
avere un esercito; e si è già mentovato come la parte
retrograda, nel delirio della vittoria, avesse immolato all'Austria
sua protettrice i nostri soldati. Da quel giorno non v'era
più esercito. Le nostre leve componevano bensì
parecchi buoni reggimenti; ma erano disperse nei lontani presidii
della Galizia, dell'Ungaria, del Voralberg, di Praga, di Vienna; e i
loro ufficiali; per ciò che abbiamo detto, erano in gran
parte Germani o Slavi.
Un insurgimento di popolo non pareva dunque la prima cosa a cui
pensare. La Lombardia è piccola parte d'un imperio più
vasto della Francia. Sommoverla a tumulto, era esporla senz'esercito
alla vendetta di generali feroci, abbandonare le città nostre
alla rapina, le famiglie nostre alla violenza dei barbari; cimentare
le speranze stesse della libertà. Chi amava la patria, doveva
arretrarsi a quel pensiero, e rivolgere la mente a meno incerti e
men disastrosi disegni. Era fatto palese che le finanze imperiali
stavano in mali termini, e che le diverse nazioni, fatte conscie di
sè, tendevano a smembrare l'imperio. A poco a poco l'esercito
imperiale sarebbe caduto nell'impotenza e nella dissoluzione;
poichè ogni popolo avrebbe cominciato a tenere a sè i
suoi denari e li uomini, e ad armarsi in casa propria. In mezzo a
codesto disfacimento, i doviziosi sussidii che dalla Lombardia sola
si potevano sperare, avrebbero adescato il ministerio medesimo delle
finanze a farsi nostro sostenitore contro li arbitrii della polizia,
e a venderci a ritagli la libertà; e infatti i banchieri
viennesi, nel dissesto imminente delle finanze, avevano già
sollecitato più volte il Consiglio di venire a qualche
temperamento con noi. Ci saremmo dunque avviati alla libertà
per una serie di franchigie, come accadde in Inghilterra e altrove;
il che sarebbe però avvenuto con quella velocità colla
quale ogni principio politico ai nostri giorni si svolge. Ciò
posto, bastava tenere i nostri nemici nel duro e spinoso campo della
legalità; poichè la violenza e la guerra ci avrebbero
in quella vece consegnati alla prepotenza militare, porgendo al
nemico un altro modo di vivere a nostre spese. Ed è
ciò appunto che ora vediamo; poichè l'esercito di
Radetzki è un corpo franco che acquistò pretesto a
vivere di rapina nel più bel paese d'Europa.
Il governo già si avvedeva d'aver battuto una falsa via con
noi e con tutti gli altri popoli, e si sentiva già trascinare
entro il vortice delle concessioni. I suoi magistrati talvolta lo
confessavano. Quando Cobden passò per Milano nella primavera
del 1847, lo si accolse a convito, come si era fatto in tutte le
grandi città del continente. La polizia, avendo imaginato
ch'io avessi a presiedere a quella adunanza, mi aveva chiamato due
volte, per la tema che ella aveva dei discorsi che vi si sarebbero
potuti tenere ; il secretario Lindenau intendeva che i discorsi si
mettessero in iscritto e si rassegnassero alla censura. Avendogli io
risposto molto risentitamente, quel magistrato con mio stupore ad un
tratto mutò modi e parole ; e confessò che il governo
riconosceva la materiale impossibilità di continuare quel suo
sistema ; ma ch'era ben malagevole il dire per qual via si potesse
escirne fuori. Per me, sono persuaso che stava in noi di
trovargliela, e di fargliene precetto, atteggiandoci ad un'esigenza
ragionata, misurata, inesorabile. Ma era ben difficile il tenere
siffatto modo, fra il caldo degli animi, e in popolo tanto
inesperto.
Al contrario, la fazione retrograda, volendo solo vendicarsi
dell'ingratitudine austriaca, volendo solo l'indipendenza esterna e
non la libertà, aveva più semplice impresa. Ella
doveva solo figurarsi tornata al 1814: e questa volta, invece
dell'esercito austriaco, doveva chiamar quello del re Carlo Alberto.
La questione ch'essa doveva sciogliere, non era quella d'una
rivoluzione, ma d'una guerra. Della libertà e del progresso
ella non si curava punto ; il nostro popolo era anzi per lei
già tracorso soverchiamente ; e avrebbe voluto ritrarlo agli
ordini antichi, facendo communela colla nobiltà savoiarda.
Non si trattava d'altro adunque che di sospingere il Piemonte a
romper guerra all'Austria. Al che faceva mestieri dimostrare quanto
agevol opera fosse divenuto il conquisto di Lombardia, e quanto
propizio il tempo; bastava mettere in palese l'avversione concepita
dai popoli al governo; insomma bastava fare dimostrazioni. Il fare
ordinamenti efficaci, il predisporre armi, munizioni e capi, erano
cose nei disegni di quella fazione affatto superflue, anzi
pericolose; poichè le armi in mano di popoli agitati
sarebbero state agli intendimenti suoi novello inciampo.
Codesto principio delle dimostrazioni si affaceva anche alle mire
dei generali austriaci, porgendo loro un titolo a chiamar da Vienna
straordinarie facoltà; perocchè a raffrenare un popolo
tumultuante, il governo avrebbe posto ogni cosa in mano
all'autorità militare. La polizia, poco dianzi così
sospettosa, cominciò dunque a non turbarsi più che
tanto; vedeva e lasciava fare; si frammetteva nelle dimostrazioni
solo quando si voleva perchè non prendessero aspetto
sedizioso, mirando essa a screditare i magistrati civili, e a
palesare l'insufficienza dei provedimenti ordinarii dei tempi di
pace. Pertanto, da due parti opposte, si spingeva a sproporzionato
cimento questo popolo senza esercito e senz'armi; da due parti gli
aveva posto assedio lo spirito del male.
Deliberati di precorrere li eventi e di contrastare ad ogni costo al
risurgimento dell'italica nazionalità, gli Austriaci, in
luglio 1847, avevano machinato in Roma una congiura di sicarii; e
per darle ansa, avevano improvisamente occupato la città di
Ferrara. Ma il colpo in Roma era fallito; e le mosse militari
avevano messo in armi la Romagna, e scossa la Lombardia. Li
Austriaci fecero venir tosto in Italia altri soldati, volendo
combattere, come hanno sempre fatto, prima che l'Italia avesse tempo
di ordinare la sua milizia, eziandío affinchè li
effetti del disordine militare apparissero atti di codardia.
Nello stesso tempo il contegno dell'esercito imperiale si
mutò stranamente. Servo della disciplina, vuoto d'ogni
pensiero e d'ogni volontà, non aveva partecipato mai alle
insolenze dei satelliti della polizia; le città si avvedevano
appena della presenza di quelli stupidi soldati. Ma dal momento che
cominciarono per noi le dimostrazioni, l'esercito si
affratellò alli sgherri, e adeguolli d'acerbità, non
ricordandosi che solo la servile sua disciplina lo aveva fatto
tolerare in paese per tanti anni. Da tutta la rimanente Germania, la
fazione retrograda spronava contro di noi i comandanti austriaci;
sopratutto l'Allgemeine Zeitung abusava malignamente del costume
ch'era in Italia d'appellare tuttavia gli Austriaci col nome
generale di Tedeschi; e li sollecitava a insultare all'Italia per la
gloria teutonica, tramutando quasi in campioni del prisco Arminio i
caporali che a bastonate menavano attorno quel bastardo esercito di
dieci favelle.
Mentre così da un lato si fomentava nelli Austriaci l'odio
contro di noi a nome della Germania, li scrittori del Piemonte, i
Balbo, i Durando, i Gioberti, infiammavano a nome dell'Italia la
nostra gioventù a surgere in armi. Avrebbero essi avuto ben
materia di scrivere a casa loro, vendicando al loro popolo le troppe
tardate riforme, il rinovamento, la costituzione. Ogni passo fatto
in Piemonte avrebbe costretto l'Austria a fare un passo avanti con
noi, a slegarci ognora più la bocca e le mani. Era questo il
consiglio che apertamente dava loro nella Revue des Deux-Mondes e
nella Revue Indépendante Giuseppe Ferrari(1); ma essi lo
accoglievano col dispetto di chi ad altro mira. Essi non vedevano
cosa da farsi in Italia se non la conquista della Lombardia; ma
nella angustia dei loro propositi non abbracciavano la più
sicura via di compiere l'ambita impresa. Tacevano essi che l'Austria
potè aver pacifico dominio delle terre d'Italia, solo
perchè li altri governi erano quivi tutti peggiori del suo.
Tacevano che l'Italia non era serva dell'Austria, non era serva di
quelle fragili armi straniere, ma delle storte idee de' suoi
reggitori. Involti ancora in vecchie brighe coi gesuiti, e curvi
sempre al cospetto della corte romana, non si avvedevano costoro
d'esser rimasi al dissotto dell'ignoranza austriaca. Il barbaro si
poteva cacciare solo in nome della libertà; ed essi avevano
più paura della libertà che del barbaro. Non avevano
dunque i Piemontesi sofferto nel 1821 la costui presenza piuttosto
che subire una costituzione? Balbo, uomo dell'altro secolo, andava
in collera quando si diceva che il popolo avesse a metter mano nelle
cose dello Stato; non piacevagli la publicità del sistema
rappresentativo; non amava veder calare il governo in piazza.
Codesti servitori di corte non intendevano ad altro che a movere una
guerra per dare una provincia di più al loro padrone. Unum
porro est necessarium, dicevano essi, parlando dell'indipendenza
italiana; ma ciò ch'era veramente necessario nelle menti loro
era che il Piemonte si avesse la Lombardia. Vociferavano, fuori i
barbari; e pensavano solo a prendere in Italia il posto dei barbari.
Nella medaglia che la mano medesima di Carlo Alberto regalava di
soppiatto a' suoi fidi, l'aquila birostre non figuravasi conculcata
dall'Italia, ma spennacchiata dal lione di Savoia. La costituzione
di cui Carlo Alberto non graziò finalmente i suoi popoli, se
non dopo che il trionfo di Palermo ebbe fatta concedere la
costituzione anche a Napoli, fu solo una necessità; o al
più un manifesto di guerra, per cacciare sotto i primi colpi
delli Austriaci la nostra gioventù.
A Milano, dopo la morte dell'arcivescovo Gaisruck, l'Austria
trovossi costretta a dare quella grassa prebenda a un Italiano; e il
popolo volle onorarlo come un vessillo della nazione. Il 1
settembre, passando io per caso avanti ad una caserma, aveva visto
che le guardie di polizia facevano arrotare le sciabole; e
ripassando tre ore dopo, aveva visto continuarsi quel sinistro
preparativo. Essendomi avvenuto in uno delli impiegati della
municipalità, il sig. Galliani, lo aveva pregato di volerla
ragguagliare del fatto; e ne feci anco parola a parecchi amici. Ma
contro l'aspettativa mia, invece di prendere qualche provedimento a
premunire i cittadini da quelle scelerate insidie, i municipali
misero tutto l'animo a fomentare l'effervescenza dell'inerme e
animoso popolo. Avevano parato a festa le vie colle insegne gloriose
della lega di Pontida; avevano posto a fregio delli archi trionfali
le vittorie di Milano contro Federico imperatore, e la fondazione
d'Alessandria. Quattro volte una moltitudine innumerevole, venuta da
ogni parte della vastissima diocesi, venne congregata; alla sera del
sabbato, per accogliere l'arcivescovo fuori le porte; al mattino
della domenica, per fargli accompagnamento al Duomo; alla sera, per
mirare avanti al suo palazzo una vaga illuminazione a gas,
spettacolo nuovo ai cittadini; e la sera del mercoledì, per
mirarla nuovamente; il che poi finì col sangue. Dal lato suo
la polizia incalzava i suoi disegni; poichè invece di metter
fine a quelle inusate festività, come avrebbe fatto in altro
tempo: invece d'imporre rispetto al popolo, dispiegandogli inanzi le
numerose soldatesche del presidio : gliene tolse perfino la vista,
racchiudendole tutte nelle caserme; nascose quasi la propria
presenza. Poi d'un tratto le sue guardie, simulandosi inermi, ma
celando le sciabole nude sotto ai cappotti, si avventarono dalli
agguati loro in mezzo alla moltitudine che cantava inni a Pio IX; e
ad un segnale del famoso conte Bolza, si misero a far sangue. E'
manifesto che la polizia non aveva voluto disperdere la folla, ma
bensì ricavar vantaggio dall'occasione, e farsi merito d'aver
raffrenato un popolo ribelle. E da quel momento, si riputò in
diritto di dimandare lo stato d'assedio, il giudizio statario, e
tutti li altri supremi rigori; la legge doveva tacere, regnare
onnipotente la polizia.
Ma il sangue non fece quello spavento che si era forse sperato; e
l'indegno inganno accese anzi li animi del popolo. Le dimostrazioni
continuarono più che mai; per più mesi, dai primi di
settembre a mezzo marzo, non si cessò di mostrare al governo
sotto le più varie forme il più aperto disprezzo.
Quando giunse la novella della vittoria dei Palermitani, una folla,
quale non erasi mai veduta, empiè il Duomo e le vie
circostanti, a renderne grazie solenni a Dio, al cospetto del
vicerè che stava a consiglio con Radetzki nell'attiguo
palazzo. Si sarebbe detto che il popolo fosse arrolato tutto in una
vasta congiura; e il popolo nulla sapeva; eppure ad ogni più
nuova proposta improvisamente si moveva tutto come una sola persona;
strana guerra fra un paese intero e un governo, che tanto sottili
provedimenti aveva speso per tanti anni, a farlo ignaro d'ogni cosa
di Stato e ciecamente ossequioso. Fu manifesta allora tutta la
vanità di quell'arte metternichiana, che l'Europa aveva
troppo lungamente venerata e temuta. Tutti vedevano con esultanza
giganteggiare di repente la potenza sin allora spregiata della
publica opinione. Ma pur troppo non badavano che la polizia mandava
sempre inanzi il suo proposito di lasciar che il popolo apertamente
si chiarisse, per poterlo sottomettere all'arbitrio dei militari,
che volevano dar di piglio nelli averi e nel sangue. E' superfluo
venire annoverando i particolari di tutte le dimostrazioni. Valga il
dire che ve n'ebbe d'ogni fatta; per la chiesa e per il teatro: per
il gioco del lotto e per il privilegio dei tabacchi: ve n'ebbe
perfino dei consiglieri municipali provinciali e centrali, uomini
scelti accuratamente dal governo fra i più devoti ad ogni
autorità; ve n'ebbe perfino del nuovo procurator fiscale, il
Guicciardi al cui padre doveva la casa d'Austria l'acquisto della
Valtellina.
Fra le dimostrazioni spesso frivole o inutilmente pericolose, se ne
introducevano alcune d'altra natura, e di molto momento per
l'avvenire, come gravami per li abusi, rappresentanze intorno alle
male leggi, proposte sempre più larghe d'innovazioni. Le
camere di commercio e le congregazioni, ordinate nel reggimento
austriaco a mera parata e a delusione dei popoli, ora comprese di
vita novella, e sorrette dal publico voto, compievano per la prima
volta i veri officii loro, a meraviglia universale. Questa
opposizione legale stringeva il governo alla vita, e lo avrebbe
disferrato da quella sua tardità, e smentita in modo solenne
la lode di paterno ch'ei soleva darsi beatamente da sè
medesimo. Anche senza la speranza di conseguire le desiderate
innovazioni, era già un vantaggio e un avvedimento il venirle
publicamente additando e dichiarando. Era omai troppo fastidioso
l'udire li Austriaci vantarsi delle nostre pratiche intorno alle
communità, al censo, alle strade, alle irrigazioni, alli
argini, alle espropriazioni, e alle providenze di salubrità e
carità, appunto come se fossero cose apportate fra noi da
quei loro paesi, ove sono e lungamente saranno lontani desiderii. -
Codeste savie istituzioni sono cosa nostra, essendoci tramandate
alcuni dai nostri antichi, e fondate altre da quei liberi nostri
pensatori ai quali Maria Teresa aveva lasciato governare i suoi
ducati di Mantova e Milano. L'opposizione illuminava il paese,
mostrando che il bene era di casa nostra, e omne malum a
septentrione.
Ma mentre questa lutta legale introduceva fra noi certa disciplina,
accostumandoci ad assecondare un impulso commune, ella ci piegava
altresì a seguir coloro i quali il governo austriaco aveva
potuto incaricare d'esser capi del paese. Si radunavano essi intorno
a Casati e Borromeo. Il conte Gabrio Casati, podestà di
Milano, non aveva la dignitosa indolenza delli altri patrizii; ma
irrequieto e avido di titoli e decorazioni, non si vergognava di
farne incetta. Erasi meritato dall'Austria l'ordine della corona
ferrea, e la reiterata nomina di podestà. Ma quando gli parve
intravedere che la casa Savoia potrebbe avere occasione d'allargarsi
in Italia, egli, per tenersi presto ad ogni evento, erasi
procacciato anche l'ordine savoiardo di S. Maurizio. Equilibratosi
così fra i due governi, attestava ad ambedue la sua
devozione. Quando una delle arciduchesse d'Austria andò sposa
ad uno dei duchi di Savoia, egli fece pagar le spese della duplice
fedeltà ai Milanesi, sciupando il valsente di sessantamila
franchi in un inusitato dono nuziale alla coppia austro-sarda. Il
conte Casati si sarebbe fatto in due per servire ad ambedue le
corti. Non potendo spartir sè medesimo, spartì la sua
famiglia, mettendo un figlio nell'artiglieria di Carlo Alberto e un
altro nell'università tedesca di Innspruck. - Il conte
Vitaliano Borromeo seguitava, alquanto più signorilmente, li
esempli del podestà; mendicava alla corte austriaca il toson
d'oro, scudo inviolabile contro li arresti; costringeva un figlio a
entrare nella prelatura romana ai più tristi giorni di
Gregorio XVI; e un altro figlio a vestire l'uniforme austriaco.
S'ingegnava così d'essere ad un tempo cesareo e pontificio,
guelfo e ghibellino. - Codesti ciambellani, che si erano messi ora a
capo delle dimostrazioni del popolo, del quale in tutta la privata
loro vita si dimostravano pur troppo non amanti e schivi, non
potevano uscire dal cerchio magico delle idee d'anticamera;
nè aspirare a maggior cosa che a mutar padrone.
III
Prime ostilità
Il generalissimo Radetzki, attorniato da uno stato maggiore di
teutomani, agognava al momento di far sangue e roba, millantandosi
di voler rifare in Italia le stragi di Galizia. Come dubitarne,
quando si vedeva comparire nello stesso tempo in Brescia con
autorità militare il carnefice Benedek, e con autorità
civile il fratello del carnefice Breindl? Al primo di gennaio, i
giovani di tutto il regno si erano invitati fra loro a non fumar
più tabacco, per togliere alla finanza austriaca una delle
sue principali entrate. Lo stato-maggiore distribuì tosto
trentamila cigari ai soldati, e dando loro quanto denaro bastasse a
ubriacarli, li mandò ad accattar briga in città. I
medici delle prigioni riconobbero nelle vie bande di condannati,
alcuni in atto di fumare per irritare il popolo, altri in atto
d'urlare dietro ai soldati che fumavano. Alla sera del 3 gennaio,
granatieri ungaresi e dragoni tedeschi si avventavano colle sciabole
sulla gente che moveva pacifica per la città; evitando i
giovani, ferivano e uccidevano vecchi e fanciulli. Si seppe che
arrestati molti cittadini si trovarono senz'armi; onde fatta
manifesta la vile insidia dei militari, molti dicevano apertamente:
un'altra volta noi pure saremo armati; e si vedrà!
Frattanto l'opposizione preparava i materiali della riforma. Poco
dopo il 3 giugno, il matematico Gabrio Piola propose che l'istituto
delle scienze facesse rapporto sull'insegnamento e sulla stampa.
Nominati tosto in commissione Pompeo Litta, Piola, Restelli, Rossi
ed io, che fui il relatore, temperandoci dall'acerba censura del
presente, ordinammo il nostro scritto all'ulteriore sviluppo
dell'insegnamento, valendoci di forse quaranta rapporti speciali che
furono alacremente forniti dai colleghi. Dimandammo le riforme
suggerite dai tempi, nell'alte scienze, nell'agricultura,
nell'industria, nel servigio sanitario. Intorno alla milizia, io
proposi che il collegio dei sessanta nobili, ististuito poco dianzi
in Vienna, e che ci costava quanto ambo le università di
Padova e Pavia, fosse restituito in paese, e trasformato in numerosa
scuola politecnica militare e civile; proposi inoltre che, essendo
il nostro regno quello che pagava di più, i nostri soldati
fossero anco ammaestrati a quei generi di milizia ch'erano i
più costosi, come la cavalleria e l'artiglieria. Ma non mi si
sarebbe nemmen lasciato il tempo di compromettermi; poichè
nello stesso dì che la polizia mi seppe relatore in
quell'argomento aveva dimandato licenza a Vienna di deportarmi, in
uno con Rosales, Soncino e Battaglia. Ebbi poi un dispaccio, trovato
presso la polizia, nel quale il vicerè Raineri, approvando la
deportazione per li altri, dichiarava per me non ancora (noch nicht)
venuto il tempo. Del che fui debitore al mio spettabile amico Enrico
Mylius, il quale, trapelata la cosa, ne aveva gettato un motto di
lagnanza a un consigliere del vicerè. In tal modo punivasi in
noi il compimento d'un dovere; poiché l'istituto era, per
regolamento imperiale, l'organo del governo in quelli argomenti.
Ma poco parendo omai le deportazioni, la polizia impetrò il
giudizio statario, cioè l'autorità di processare e
impiccare entro due ore. L'infame legge doveva prender vigore al
martedì grasso, quando appunto cominciava, giusta il rito
ambrosiano, quel prolungamento di carnevale ch'è festevole
convegno in Milano a migliaia di famiglie delle vicine città.
Il popolo interdetto dalli usati solazzi, e dai guadagni, mirava
taciturno quel delirio de' suoi governanti; egli si sentiva
nell'animo l'ora del conflitto.
Il truculento Radetzki armava il castello; faceva partire da Milano
il governatore Spaur uomo mansueto; faceva partire il vicerè
e la sua famiglia; voleva averci affatto in mano de' suoi.
Avezzo a tarda veglia, io potei contare dalle mie stanze in due ore
ben nove pattuglie; in quelle notti carnevalesche, già
sì festose, non altro si udiva che la greve e tarda pedata
del soldato. Ogni giorno, deportazioni improvise rapivano altri
cittadini; le donne tremavano; l'ansietà cresceva; eppure
nessuno fuggiva; un lume di speranza era in fondo ai cuori. Le
novelle d'ogni giorno accendevano sempre più le menti; un
giorno, era ribellione a Palermo; un altro, la costituzione a
Napoli; un altro, a Firenze, a Torino; un altro la republica a
Parigi. Il falso, aggiunto al vero, accresceva la febre; si
sussurava di sessantamila fucili, già preparati per noi da
Carlo Alberto, lungo la frontiera; - di quarantamila, già
introdutti per noi in Milano; - d'un contingente chiamato all'armi
in Torino; di due contingenti, di tre, di quattro; - entro due mesi,
entro uno, a giorni a giorni, ogni cosa sarebbe presta alla guerra.
E li Austriaci dal canto loro publicamente dicevano, che, per
frenare il Piemonte, erasi dimandata in pegno Alessandria; e
vantavano prefisso alla loro entrata colà il 6 di Marzo.
IV
La sollevazione
La sera del 17 marzo uno degli amici miei, che veniva all'istante
dalla casa del conte O'Donnel vicepresidente del governo, avendomi
annunciato che una nuova sedizione in Vienna ci apportava
l'abolizione della censura, io deliberai tosto di por mano pel
dì seguente alla publicazione d'un giornale. Parevami
propizio il momento d'indirizzare i cittadini a estorcere
immantinente all'attonito governo quanto più si potesse
d'armamenti e di libertà ; e recarci sopratutto in poter
nostro i nostri soldati. Conveniva metterci in grado di dar
principio alla lega italica con mani guernite, sicchè il
vicino regnante, fattosi costituzionale da troppo pochi dì e
solo per nostro amore, ci fosse alleato se voleva, ma non padrone.
Ricordo nuovamente, che l'impresa dei cittadini comprendeva il
conquisto dell'indipendenza insieme e della libertà. Una
indipendenza servile, una indipendenza all'austriaca o alla russa,
non mi pareva cosa da farsi se non per disfarla da capo. Per
siffatte mezze imprese non mi pareva lecito insanguinare la patria.
Aveva appena finito di scrivere in fretta il mio primo foglio,
quando poco dopo l'alba due amici vollero entrare da me,
ragguagliandomi che il podestà Casati, dopo mezzodì,
doveva recarsi dal Municipio al governo, per dimandare a nome del
popolo alcune concessioni; volevano essi avere l'avviso mio su
ciò ch'era per loro a farsi, nel quasi inevitabile evento
d'un conflitto. Questa smania di correre immantinente alla forza,
quando nulla si era fatto per possederla e ordinarla, mi pareva
troppo favorevole al nemico, che sapevamo presto e bramoso. - "Il
podestà farà mitragliare i cittadini, io dissi; egli
va da cieco dove spingono; ma voi con che forze volete assalire una
massa di ventimila uomini, che si è preparata di lunga mano a
fare un macello, e lo desidera? Quanti combattenti avete?" - Quei
giovani non avevano a mano che qualche dozzina d'altri cacciatori. -
"Non vedete, risposi, che vi vogliono parecchie migliaia d'uomini
bene armati e ben comandati?" - Mi dissero che tutta la città
si sarebbe mossa, e che si avevano pronti quarantamila fucili. -
"Questi quarantamila fucili li avete visti?" - "Non li abbiamo
visti, ma sappiamo che il comitato-direttore li aspettava di
Piemonte." - "Andate dunque prima a vedere se sono arrivati ; andate
al comitato-direttore. E siete poi certi che codesto comitato vi
sia?" - "Senza dubbio; tutti ne parlano." - "Ebbene, vedrete che
infine non avremo nè comitato nè fucili. Io conosco da
un pezzo codesti ciambellani; hanno una fede cieca in Carlo Alberto;
e saranno corrisposti come al solito. Carlo Alberto non ama la
libertà; e non può amarla. Bisogna pigliar tempo per
armarci, e perchè tutta l'Italia si metta in grado
d'ajutarci; non ci vuol di meno che tutta l'Italia. Andiamo adagio;
non cacciamo in bocca al cannone un popolo disarmato, finchè
almeno non ci mettano alla assoluta necessità della difesa."
- Li amici se ne andarono poco di me contenti. Ne vennero altri; e
si fecero li stessi discorsi; altri m'invitarono a non so quale
adunanza, a due ore, nella Galleria; io intanto portava a uno
stampatore il mio manoscritto.
Il podestà andò veramente a fare la sua visita al
governo. Credeva d'aver fatto solamente un'altra delle sue
dimostrazioni. E la ribellione scoppiava; e contro ogni suo intento,
vedevasi correre a volo per la città il tricolore cisalpino.
- A quella vista, le guardie austriache restavano immote e
stupefatte! - Se un uomo metteva capo a una finestra, il popolo
gridava che il posto degli uomini era nella strada; i giovani
uscivano d'ogni parte con pistole, sciabole, e bastoni. Ma dei
quarantamila fucili da truppa, di cui ci era fatta bugiarda
promessa, io per quanto avidamente cercassi, non ne vedeva un solo.
Non mi riescì di penetrare al governo; erano già
barricate le vie, disarmate le guardie, e alcune uccise. Esce dalla
turba un giovine d'animo deliberato, Enrico Cernuschi, e detta al
conte O' Donnel tre decreti : licenza d'armarsi alla guardia civica
: abolita la polizia : consegnate le armi della sua guardia, e ogni
suo potere, al municipio. Poi condusse seco il conte prigioniero; e
s'avvia, col podestà e col regio delegato della provincia, in
mezzo alla folla armata, verso il palazzo municipale. Giunta la
comitiva nella via del Monte, è accolta dal fuoco d'un
centinaio di soldati. Il podestà col prigioniero si rifugia
nella casa Vidiserti. Ed è per questo fortuito incontro, che
l'autorità municipale, ricapito dei cittadini e quartier
generale dei combattenti, si trovò in luogo sì remoto
dalla sua sede. Il che Radetzki ignorando, circondò alla sera
da due parti il palazzo municipale; fece sfondare le porte a
cannonate, sperando di trovarvi a concilio tutto quel
comitato-direttore, intorno a cui volgeva con pari illusione il
cieco odio del nemico e l'incauta fiducia dei cittadini; e
trascinò prigionieri in castello quanti vi si trovavano a
cercare ordini o novelle. La risolutezza e l'audacia che fin dal
primo istante mostrarono i combattenti, fecero credere al nemico che
una mano forte e sapiente governasse ogni loro moto; il che appare
dalla relazione che Radetzki stesso inserì nella Gazzetta
Universale. Impauriti dal suono a martello che sommoveva tutta la
città, preoccupati dal pensiero d'assicurare le
communicazioni fra i tanti posti quà e là sparsi, e di
salvare i loro officiali e impiegati, li Austriaci si turbarono la
mente, obliarono ogni più opportuno provedimento, e fino a
due milioni di denaro sonante, deposti nelle varie casse della
città. Il vecchio Radetzki medesimo, dopo avere affaticato
sei mesi a scavare il sanguinoso abisso in cui sperava precipitare
il popolo, si salvò con vil fuga in castello, dimenticando
nel suo palazzo perfino il suo farsetto e quella sua spada, ch'egli
nei grotteschi suoi proclami millantava da sessantacinque anni
irresistibilmente vittoriosa.
Alle otto della sera, Radetzki scrisse ai municipali, intimando loro
di disarmare la guardia civica; conchiudeva dicendo: "mi riservo poi
di far uso del Saccheggio e di tutti li altri mezzi che stanno in
mio potere, per ridurre all'obbedienza una città ribelle;
ciò mi riescirà facile, avendo a mia disposizione un
esercito agguerrito di centomila uomini e duecenti pezzi di
cannone".
Il castello è un ampio quadrato, centro dell'antica fortezza,
di cui Napoleone fece smantellare il poligono esterno;
perlochè resta diviso dalla città per vasto spazio. Da
quel ricovero, Radetzki spingeva le due braccia dell'esercito lungo
al curva dei bastioni, cingendo e minacciando da quelli alti
terrapieni tutta la città e separandola dalla campagna. Ad
ogni porta aveva collocato un grosso di soldati con artiglieria; e
di là spingeva li assalti per i corsi più diritti e
spaziosi che convengono al cuore della città. E quivi pure
tennero i soldati per tre giorni tutti i principali edificii, il
Duomo, i palazzi del Vicerè, della Giustizia, del Tesoro, del
Municipio, del Comando Generale, del Genio Militare, molte caserme,
e tutti li offici della polizia. In agguato sulle aguglie marmoree
del Duomo, i cacciatori tirolesi ferivano qua e là per le
vie, e perfino nell'interno delle case, li uomini e anche le donne.
I quartieri a bella prima occupati dai cittadini non potevano dunque
nemanco communicare fra loro; e quello in cui un caso fortuito aveva
condotto il quartier generale, seguiva a mezzaluna le due vie del
Monte e del Durino e nulla più. All'intorno erano vie larghe,
poco popolose, epperò malagevoli a serrare e difendere, e
aperte ai lontani tiri del nemico. Per tutta la prima notte, il
quartier generale non era difeso verso Porta Nuova se non da due
deboli barricate, e da una sessantina di giovani, che divisi in
sezioni passarono la notte esercitandosi, armati, com'era forse la
metà di loro, con fucili da caccia.
Si è fatto computo che in quella prima notte la città
tutta non avesse a fronte del nemico più di tre a
quattrocento fucili d'ogni sorta; poichè temendo che da
giorno a giorno uscisse precetto di rassegnare le armi molti le
avevano mandate in villa.
Al vedere il misero armamento della città, irrequieto e
ansioso io sollecitava, durante la notte, li amici che vegliavano
innanzi alla casa Vidiserti, a trasferire in sito men pericoloso il
quartier generale; essendochè allo spuntar del mattino quel
luogo, posto fra due strade come il palazzo municipale, sarebbe
stato in egual modo assalito e preso, con quanti mai v'erano. Mi
rispondevano, che avrebbero venduto caro la vita. Ma io replicava
che non dovevano prepararsi a soccumbere, ma piuttosto a vincere e
vivere; epperò a nulla trascurare di ciò che poteva
dar vittoria. L'avviso mio, già presso al mattino, finalmente
prevalse. Cernuschi si adoperava intanto per farli accomodare in
casa del conte Carlo Taverna, posta dall'altro lato della via de'
Bigli, ch'è angusta, tortuosa e agevole a serragliare. Il
giardino confinava con altri; onde prima che il quartier generale
fosse accerchiato, si avrebbe agio a trasferirlo altrove. Cernuschi
si procacciò la chiave d'un cancello che s'apriva dietro i
giardini, di fronte alla casa di Alessandro Manzoni; fece traforare
il recinto del giardino Belgioioso; e pose sentinelle sui muri delli
altri; per modo che quel primiero rifugio della casa Vidiserti
divenne quasi un'opera avanzata, dietro la quale erano più
linee successive di difesa, con sicure vie d'uscita. Siffatto gruppo
di recinti e di barricate aveva nel mezzo quella casa con un cortile
rivestito di freschi del cinquecento, detta la casa Taverna antica ,
dimora del console francese; ove, a lato del tricolore cisalpino,
sventolava quello della sua republica. La vista di quel vessillo e
la fede nell'amicizia di quella nazione poderosa, non furono senza
effetto nel terribile momento nel quale un intero popolo con
sì esigue forze si cimentava sulla sanguinosa via della
libertà.
Tutto ciò era fatto avanti lo spuntar del giorno e
immantinenti si fece toccare a martello e gridare all'armi. A tutta
prima stavamo con certa apprensione che il notturno riposo avesse
mai rallentato li animi; ma a poco a poco si videro uscire i
cittadini e accorrere baldanzosi alle prime barricate; e in pochi
stanti ai capi delle vie già tuonava intorno d'ogni parte il
cannone nemico.
In quel monento il generale Rivaira comandante dei gendarmi, visto
il decreto O' Donnell che affidava ai municipali la polizia,
mandò ad offerire al podestà i trecento gendarmi
ch'erano in Milano. Codesto reggimento, unico di tal milizia
nell'imperio e riservato alla Lombardia e al Tirolo italico, era
assai rispettato dai popoli, e poteva inoltre fornire officiali e
sottofficiali. Ma il podestà che voleva mutare il governo
senza disobbedirgli, scrisse al Torresani capo della polizia
austriaca, dimandando il permesso d'accettare l'offerta. E
così se ne rimetteva a quella polizia medesima ch'era
incaricato di scacciare e di surrogare. Certo che quel Casati
avrebbe fatto volentieri una ribellione colla licenza
dell'imperatore! - Ma la proposta sua, di ricorrere al Torresani,
sollevò un sì generale mormorio, che fu costretto a
lacerare la supplica. Scrisse adunque accettando i gendarmi; ma era
tardi, acceso già il combattimento, interrotto ogni passo.
L'esserci mancata in sì arduo momento l'adesione aperta di
quella milizia, mise grave inciampo al moto de' popoli, sopratutto
in Lodi, Crema e Mantova; ciò ch'ebbe fatali effetti
sull'esito della guerra.
Tutto quel secondo giorno si pugnò nelle diverse parti della
città senza commune disegno, sforzandosi ciascuno presso le
sue case d'acquistar terreno, di abbarrarsi, di scoprire armi e
munizioni e toglierle al nemico. A sera, alcuni giovani, infiammati
dal combattimento e inaspriti dalla penuria delle munizioni e delle
armi mentre il Casati faceva complimenti alla polizia e il comitato
direttore non dava più segni di vita, dimandavano altri capi.
I più sdegnosi volevano si proclamasse immantinente la
republica, e si mandasse a raccogliere armi e officiali in Isvizzera
e in Francia; altri dicevano che certi personaggi, odiando ben
più la republica che l'Austria loro antica protettrice, si
sarebbero piuttosto rifuggiti in Castello con Radetzki; e che
l'opposizione loro avrebbe disanimato il popolo, il quale fidando
nelle loro dimostrazioni si era avvezzo a seguitarli. - D'altra
parte, come mai, sotto quella forma di governo, ottenere aiuto dalli
altri Stati d'Italia, tutti ancora principeschi, e solo da qualche
settimana raffazzonati a costituzione? - Non sapevamo ancora, che in
quei medesimi giorni il nome di republica risurgeva in Venezia.
Allora si propose un governo provisorio. Intorno a ciò, io
dissi che, se in siffatto governo dovevano aver parte quei medesimi
cortigiani, sarebbero stati di grave impaccio durante il
combattimento; e se non vi avevano parte, l'avrebbero tosto
discreditato e atterrato, valendosi della momentanea allucinazione
del popolo e dei soldati del re di Sardegna. Non trattavasi d'altro
per il momento che di combattere; bastava adunque fare un Consiglio
di Guerra, di pochi e deliberati, e solo per dare unità alla
difesa, e cacciare il nemico. Il quale incarico, come quello che
offriva solo pericoli, non sarebbe ambito granchè da quei
ciambellani. Accolto questo avviso, si cominciò a scrivere i
nomi dei presenti, per procedere ad una qualche forma d'elezione. Ma
molti altri ad ogni momento entravano, in cerca d'armi, di munizioni
e d'indirizzo; e in quell'onda di gente sempre rinnovata, era
mestieri ripetere da capo ragionamenti e spiegazioni, a cui nel
caldo di quei momenti poco badavano. Frattanto si faceva notte; e
Casati era sparito.
Cernuschi ne andò in traccia, e infine lo ricondusse.
All'alba del terzo giorno, entrai nella sala ove parevano vigilarlo
quasi come un prigioniero; e trovai che molti lo sollecitavano
ancora a fare un governo provvisorio. Al che rispondeva seccamente,
non voler egli uscire dalla legalità, voler egli essere altro
che il capo del municipio. Lo sollecitavano eziandío a
chiamare li officiali veterani per dirigere il combattimento; e ne
citavano a nome parecchi; ma egli pregava non lo inviluppassero con
uomini già compromessi. E infatti alcuni di quei veterani
erano stati nella congiura militare del 1815. - Era adesso il 1848!
Alla fine, invece d'un governo, Casati s'indusse a nominare alcuni
Collaboratori al Municipio. Erano i più della lega
cortigiana, come Durini e Porro; altri anco funzionarii austriaci,
come Guicciardi. Affidò pure la polizia ad altro funzionario,
Bellati; e perchè questi era stato preso nel palazzo
municipale e chiuso in Castello, lo supplì con Grasselli, pur
funzionario di polizia. Ecco l'ordinanza:
"La Congregazione Municipale della città di Milano.
20 marzo 1848, ore 8 ant.
Considerando che, per l'improvisa assenza dell'autorità
politica, viene di fatto ad aver pieno effetto il decreto 18
corrente della Vicepresidenza di Governo, col quale si attribuisce
al Municipio l'esercizio della polizia, nonchè quello che
permette l'armamento della guardia civica a tutela del buon ordine e
difesa degli abitanti, s'incarica della polizia il signor delegato
Bellati, e in sua mancanza il signor dottore G. Grasselli aggiunto,
assunti a collaboratori del Municipio il conte Francesco Borgia, il
generale Lecchi, Alessandro Porro, Enrico Giucciardi, avvocato
Anselmo Guerrieri e conte Giuseppe Durini."
Così al terzo giorno d'una ribellione vittoriosa, ch'egli
chiamava gesuiticamente un’improvisa assenza dell'autorità,
Casati si appigliava al decreto d'un vicepresidente prigioniero,
onde permettere ai cittadini d'armarsi e difendersi.
Infastiditi di codesti avvolgimenti in faccia al pericolo, ci
raccogliemmo in altra stanza per fare il Consiglio di Guerra
proposto già nella notte. Il mio nome trovandosi il terzo
nella lista che si rifaceva dei votanti, parecchi mi dissero di
comporre io medesimo il Consiglio, prendendo meco li altri tre nomi
qualsiansi che fossero primi in lista. Riputando necessità in
tal frangente d'accettare quel segno di fiducia, separai con un
tratto di penna quei primi nomi ch'erano: Giulio Terzaghi, Giorgio
Clerici, Carlo Cattaneo, Enrico Cernuschi; e scrissi in capo al
foglio: Consiglio di Guerra, composto per ora dai quattro primi
iscritti.
Rimovendo ogni controversia di forme politiche e di confini
principeschi, noi deliberammo di parlare immantinente a nome
dell'Italia e della Libertà. In fronte a tutti li atti nostri
era scritto: Italia Libera.
V
Il Consiglio di Guerra
Il primo servigio che un Consiglio di Guerra doveva rendere, era
quello di collegare fra loro li sforzi finallora sconnessi, del
popolo combattente. I corpi che il nemico teneva nel cuore della
città, si poterono con mosse molto semplici e agevoli
avviluppare; parecchi rimasero prigioni. Restò in nostra mano
la famiglia del direttore di polizia Torresani; e venne trattata con
ogni riguardo. Anche il conte Bolza, il più disperato de'
suoi satelliti, quello che aveva diretto le stragi di settembre e
gennaio, restò senza scampo. Mentre si cercava un
nascondiglio, alcuni popolani vennero a dimandarmi, se trovandolo
dovevano negargli quartiere. - "Se lo ammazzate, risposi, fate una
cosa giusta; se non lo ammazzate fate una cosa santa." - Fu salvo. -
Si dice ora ch'egli abbia rifiutato di mettersi all'infame mestiere;
e che anzi sia andato a cercar pace a' suoi rimorsi in terra
lontana. E' di fatto, che, fuori del combattimento, i nostri non
versarono una stilla di sangue. Per confortare quei generosi
sentimenti, il Consiglio di Guerra sparse per la città il
seguente avviso:
"Prodi cittadini! - Conserviamo pura la nostra vittoria. Non
discendiamo a vendicarci nel sangue di que' miserabili satelliti che
il potere fugitivo lasciò nelle nostre mani. E' vero che per
trent'anni furono il flagello delle nostre famiglie. Ma voi siate
generosi, come siete prodi. Puniteli col vostro disprezzo."
Un officiale, oriondo inglese, per nome Cracroft e il conte di
Thun-Hohenstein furono i due primi che vennero condotti prigionieri
al Consiglio di Guerra. Pretendevano con molta baldanza di non esser
captivi ma parlamentarii, e dimandavano di venire ricondotti. -
"Come? parlamentarii? io dissi; il vostro esercito deve già
essere a ben tristi termini, se si adatta così presto a
spedir parlamentarii a ribelli!" - Alcune settimane dianzi, quel
conte Thun, presso al palazzo di suo zio il ministro Fiquelmont,
aveva avuto una rissa col cittadino Borgazzi, che lo aveva disarmato
e battuto in viso. L'Allgemeine Zeitung, stipendiata a invelenire la
Germania in odio nostro, aveva spacciato quella baruffa per un
assassinio atroce, poco men che premeditato da tutta la nazione
italica. Avendo io dimandato al prigioniero, come avesse egli
tollerato quell'abuso sleale del suo nome, mi rispose sommessamente
ch'era così piaciuto ai superiori. Solo nei conventi dei
frati può trovarsi cosa che simigli a codesta disciplina
austriaca. - In quel momento, essendosi condotti nella sala tre
altri ufficiali, i due primi non osarono più negare d'esser
veramente prigionieri; e l'inglese, dicendosi amico del console
britannico a Venezia, Clinton Dawkns, ch'io pure conosceva, mi
pregò di dargli una muta di biancherie; il che non gli negai.
Tale fu sempre il nostro procedere, mentre li austriaci fucilarono
quasi tutti i prigionieri, e tennero per trentasei giorni senza
cambio di camicia anche li innocenti ostaggi. D'ora in ora
annunciavamo ai cittadini le buone novelle; il che li teneva animosi
e lieti. In quelle righe comunque brevi gettavamo, ove si poteva, un
motto di politica.
"Cittadini! - Il generale austriaco persiste, ma il suo esercito
è in piena dissoluzione. Le bombe ch'egli avventa sulle
nostre case, sono l'ultimo saluto della tirannide che fugge.
Molti officiali si danno prigioni. Interi corpi atterrano le armi
avanti al tricolore italiano. Alcuni, trattenuti dall'onor militare,
domandano a deliberare un istante, supplicandoci di sospendere il
vittorioso nostro foco.
Cittadini, perseverate sulla via che correte; essa è quella
che guida alla gloria ed alla libertà
Fra pochi giorni il vessillo italico poggerà sulla vetta
delle Alpi. Colà soltanto, noi potremo stringerci in pace
onorata colle genti che ora siamo costretti a combattere. Cittadini,
fra poco avremo vinto; la patria deciderà de' suoi destini;
ella non appartiene ad altri che a sè. I feriti sono
raccomandati alle vostre cure; alle famiglie povere provederà
la patria."
Si fece appello a quei veterani che esitavano a mettersi fra i
combattenti. - "Non è mai delitto difendere la patria", si
diceva loro. Si suggeriva al popolo che nell'atto di cacciare il
nemico dai publici stabilimenti, non lasciasse commetter guasti; e
il popolo salvò le raccolte scientifiche, i dipinti, le
carte, e i denari. Si publicarono i nomi dei poveri cittadini che
con ammirabile astinenza e fedeltà consegnavano li oggetti
preziosi venuti in loro mano. Il saccheggio e l'incendio furono armi
lasciate ai nostri nemici.
Verso il meriggio del terzo dì, un parlamentario venne
scortato dai cittadini al Consiglio; era un maggiore de' Croati
Ottochan; credo quello stesso Sigismondo Ettingshausen che poscia
trattò la resa di Peschiera. Decoroso della persona, e
ravvolto poi nel mantello come in atto di farsi ritrarre, ei
dichiarò che il generalissimo Radetzki lo mandava a rilevare
quale fosse la mente dei magistrati della città. Ciò
udito, noi lo indirizzammo nella sala ov'era la municipalità
coi nuovi suoi collaboratori. Dopo un quarto d'ora, il Casati fece
invitare noi pure a prender parte al colloquio; e avendoci esposto
come il generalissimo, cedendo a un senso di umanità, avesse
dato al maggiore l'incarico che si è detto, aggiunse che il
municipio proponeva un armistizio di giorni quindici; il quale
intervallo pareva necessario, affinchè il maresciallo potesse
far conoscere in Vienna il nuovo stato delle cose, e ottenesse le
facoltà di fare le opportune concessioni. Casati, intendendo
dunque che il generalissimo consegnasse nelle caserme tutti i
soldati, e impegnandosi dalla sua parte a far desistere dal
combattimento i cittadini, desiderava di sapere se il Consiglio di
Guerra volesse a tal uopo interporsi presso i combattenti.
Esplorato con uno sguardo l'animo de' miei colleghi, mi rivolsi al
conte Casati, facendogli considerare, che non mi pareva già
più possibile distaccare i combattenti dalle barricate. -
Casati rispose, che lo si potrebbe ottenere a poco a poco. - Gli
dimandai allora se, dato il caso che lo si potesse, eravamo ben
certi che la prima notte che avremmo dormito nei nostri letti, non
saremmo tutti sorpresi e appiccati -.
Il maggiore, mostrandosi offeso, m'interruppe dicendo: - "Signore,
non contate voi per niente l'onor militare?" - "Credete voi,
signore, io gli risposi, che l'onor militare ci assicuri dalla
polizia e dal giudizio statario? Chi può dire che le
ostilità sospese non vengano a ripigliarsi da un momento
all'altro, per il fatto proprio d'un soldato o d'un cittadino? Dopo
aver provato le primizie della vittoria, è difficile che i
cittadini si rassegnino a soffrire più a lungo la presenza
dei soldati stranieri. E' già il terzo giorno che il tocco
delle nostre campane chiama all'armi il paese intorno; il fragore
del vostro cannone deve essersi udito fin dentro la frontiera
svizzera o piemontese. Senza dubbio, in questo istante i nostri
amici sono in via per soccorrerci; assediati come siamo nel centro
della città, non ne abbiamo certa notizia; pure dall'alto dei
campanili scorgiamo moti insoliti. E' ben certo ad ogni modo che il
suono a martello deve giungere d’un campanile all'altro sino ai
confini del regno. Se, data la parola dell'armistizio, vedessimo poi
le vostre truppe approfittarsene per piombare al di fuori sui nostri
amici, noi non potremmo rimanere testimonii impassibili, senza esser
chiamati vili da loro; nè potremmo uscire a soccorrerli,
senza esser chiamati perfidi da voi. Signor maggiore, una delle due:
o il combattimento deve continuare per tutta la superficie del
paese: o l'incendio si deve spegnere allo stesso tempo dappertutto,
col separare dappertutto i due elementi nemici. Se il vostro
maresciallo è veramente mosso da senso di umanità, una
cosa sola può fare; può lasciare nel regno i soldati
italiani, che formano una parte considerevole del suo esercito, e
condur fuori dal confine tutti li altri. I soldati italiani, i
gendarmi e le guardie civiche sono ben più che non bisogni a
conservar l'ordine sino a che arrivino le nuove istruzioni da
Vienna.
Il parlamento facendo allora un atto di sdegno: - "Come, signore! mi
disse, volete che un maresciallo con cavalleria e artiglieria si
ritiri inanzi ai cittadini?". -
"Mi pareva, io gli risposi, che non m'aveste parlato d'operazioni di
guerra, ma di misure di pace e conciliazione, che sono poi suggerite
al vostro maresciallo anche dai veri interessi del suo governo. Se
nella settimana passata egli riputò opportuno di far partire
i granatieri italiani, egli può trovare egualmente opportuno
in questa settimana di far partire i granatieri ungaresi e
richiamare li italiani. Si tratta solo d'un cambio di presidii; il
quale può ben essere divenuto convenevole per effetto dei
grandi e impensati avvenimenti, poichè le ultime novelle di
Vienna sono tali, che l'autorità militare ha il diritto, anzi
il dovere, di riformar le misure pocanzi prese. Quei ministri che
avevano comandato di mitragliare e bombardare senza riguardo al
sesso e all'età, sono in questo intervallo caduti. Come mai
gli ordini che hanno slanciato allora, potrebbero vincolare adesso
il depositario d'un'alta autorità militare? Certo, che s'egli
non ne sospende l'adempimento fino a che i loro successori abbiano
parlato, è forza dire che non pensa punto alla gravissima
risponsabilità che si assume." -
Il maggiore ripetè con molta gravità ch'era sempre
"una ritirata".
-"Chiamatela pure, se vi piace, una ritirata ; tanto meglio, se,
colla scusa d'un mutamento di massima, avete l'occasione di fare una
sicura e onorevole ritirata. Il grido d'allarme e la campana a
martello avranno fra poche ore sollevato tutti i popoli fino alle
Alpi. Essi ponno intercettare le gole dei monti, che senza il loro
aiuto in questa stagione non si passano; essi ponno togliervi ogni
ritirata e ogni soccorso. Al contrario, col separare i due elementi
nazionali già divenuti irreconciliabili, il vostro
generalissimo potrà vantarsi d'essere entrato nel nuovo
ordine europeo, e di conformarsi ad alte ragioni di Stato; e
frattanto in verità, avrà salvato il suo esercito."
Durante tutto questo diverbio, il tetro volto del podestà
Casati mi accennava profonda ansietà e riprovazione. Sempre
ciecamente persuaso che bastasse acquistar tempo a Carlo Alberto
d'arrivare in nostro soccorso, quando in fatti poi Carlo Alberto non
si mosse se non dopochè fu ben certo della nostra vittoria,
egli si lagnava che noi, pocanzi contrarii al combattimento, ora
fossimo così poco propensi ad arrestarlo. I suoi
collaboratori mostavano tutti la stessa persuasione. Ma io mi vedeva
secondato da miei colleghi, e da molti giovani che a poco a poco si
erano messi nella sala, tutti ansiosi e frementi che si volesse
porre inciampo a un combattimento vittorioso, e si desse alla
polizia il tempo di raccapezzarsi, e di tesserci un tradimento.
Entrò in quell'istante un prete della chiesa di San
Bartolomeo, a ragguagliarci che li Austriaci vi avevano trucidato
allora allora il predicatore quaresimale, e commesse altre
enormità. Il maggiore, che stava appunto vantandoci
l'umanità e il buon volere de' suoi, ne parve assai turbato,
e si volse a interrogare il prete. Frattanto li astanti si
raccoglievano in crocchi, caldamente disputando intorno
all'armistizio. Ciò vedendo Casati, richiese il maggiore che
volesse ritrarsi nella sala vicina, affinchè i cittadini
potessero deliberare fra loro della risposta.
Il maggiore, sedendo nella sala del Consiglio di Guerra, mirava
attonito quella gioventù che in folla entrava e usciva, e che
al vederlo colà, e all'udire la cagione della sua venuta,
prorompeva unanumie nel più sdegnoso biasimo d'ogni tregua.
Dopo un quarto d'ora, Casati fece rientrare il parlamentario, e gli
disse: "Signore, non abbiamo potuto metterci d'accordo. Vogliate
dunque rappresentare a Sua Eccellenza, da una parte, i sentimenti
della municipalità, e dall'altra, quelli dei combattenti,
affinchè possa prendere in conseguenza le sue risoluzioni". -
Fu ben dolorosa la meraviglia che a tutti i presenti cagionò
quella dichiarazione, in cui la municipalità pareva separare
la sua causa dalla nostra.
Il maggiore prese allora congedo. Sceso sotto il portico,
sostò ad aspettare che gli si bendassero li occhi. Ma non fu
fatto; non parve esservi cosa in città che fosse prezzo
dell'opera celargli. Commosso visibilmente da quanto aveva veduto,
strinse la mano ad uno dei cittadini che lo avevano accompagnato,
dicendogli col suo straniero accento: addio, brava e valorosa gente.
- Da un'intera generazione, era quella forse la prima volta, che uno
straniero diceva al nostro popolo una parola di giustizia!
Si publicò tosto il rifiuto della sospensione d'armi; ma
senza accennare il tristo dissenso ch'era stato fra noi. Questo
riserbo spontaneo risparmiò allora al Casati e a’ suoi la
diffidenza e lo sdegno del popolo.
A un'ora dopo il meriggio di quello stesso dì, la
municipalità dichiarò publicamente d'assumere ogni
potere, sino al ristabilimento dell'ordine e della
tranquillità, e d'aggiungere a suoi collaboratori Stringelli
e Borromeo. Il futuro governo di S. M. Sarda era dunque già
costrutto; gli macava solo di ripudiare apertamente il nome
austriaco, e di riconoscere il nuovo padrone. Faceva senso doloroso
a molti l'identità del nome, fra parecchi di coloro che ora
mettevano le mani sul potere, e coloro che nel fatale interregno del
1814 ci avevano fatti servi dell'Austria. Più sollecitata di
mettere radice alla sua potenza che non di vincere, la
municipalità istituì, quel giorno stesso, comitati di
non so quale finanza e di non so quale polizia, ove pose in gran
numero i suoi clienti, riservandosi poi d'allontanare a miglior
tempo quelli che allora non poteva escludere. Contrapose al nostro
Consiglio di Guerra un Comitato di difesa; ma com'era naturale, gli
riescì composto d'uomini coraggiosi e stranieri alla corte;
onde, invece d'assecondare le misteriose insinuazioni sue, si
affratellò lealmente con noi. Lo componevano Carnevali, Luigi
Torelli, Ceroni, Antonio Lissoni e Augusto Anfossi; il quale ultimo,
fu il dì seguente ucciso da una palla in fronte.
In quelle prime giornate, avidi alcuni d'avere armi e polvere si
spingevano a cercarne anco fuori delle barricate; e si ponevano alle
porte delle case, sperando che sopravenisse qualche drappello di
nemici per corrergli sopra e afferrarlo e disarmarlo, essendo che
l'Austriaco è naturalmente meno destro e meno audace
dell'Italiano. A S. Francesco da Paola, vidi il cadavere ancora
spirante d'un soldato, che un giovine, balzando fuori da un vicolo,
aveva disarmato e coll'arme stessa ucciso, sotto li occhi d'un
intero battaglione.
La penuria delle armi dava un aspetto singolare alla pugna;
poichè il popolo non le voleva vedere in mano di chi non gli
paresse ben esperto a maneggiarle. Rare volte si spendeva un colpo,
dove la vicinanza del nemico non lo rendesse quasi certo.
Al quartier generale si distribuiva ai combattenti la polvere quasi
a prese; contenti d'averne anche solo per uno o due colpi, correvano
a lontane barricate; poi tornavano a cercarne ancora. Alcuni
studenti, ai quali si dimandò perchè non tirassero se
non di concerto e l'uno dopo l'altro, risposero che temevano di
spendere due tiri per uccidere un Croato solo. Il nostro foco era
dunque lento e raro, ma micidiale, mentre il nemico, ridondante
d'armi e munizioni, e manifestamente sgomentato, prodigava il suo,
cacciando le palle di cannone a fracassare fin presso al tetto
balconi e finestre. Intorno alle barricate, i ragazzi facevano mille
burle al nemico, sviando il suo foco sopra qualche gatto, o qualche
cappello calabrese confitto sopra un manico di scopa, e dando
così agio ai nostri d'appostarlo con maggior sicurezza.
Radetzki, nella sua relazione, attribuì l'efficacia della
nostra difesa, non a questa cura nostra di fare il miglior uso delle
poche forze, bensì alla perizia d'officiali stranieri ! Ma
dopo il terzo giorno, dopo la presa di tanti edificii, nei quali il
nemico aveva accumulato molte materie di difesa, quella penuria ebbe
fine.
Le barricate intanto divenivano sempre più numerose ; se ne
contavano nella città da mille e settecento; e caricate
assiduamente con sassi, potevano resistere anche al cannone. Intorno
ad una, ch'era di fronte al Castello, ed era costrutta con lastre di
granito legate con catene e ingombre di terra, si raccolsero
settantadue palle. Li allievi del Seminario barricarono coi loro
letti il largo di Porta Orientale, sotto il più violento
foco. Attraversate alle vie si vedevano balle di merci, mobiglie,
carrozze eleganti; v'erano mucchi di tegole sull'orlo dei tetti,
mucchi di sassi ad ogni finestra; rotti in molti luoghi i ponti;
sfondati i sotterranei canali.
Presso la sera del terzo giorno, la bandiera tricolore fu inalberata
sulla aguglia del Duomo da Luigi Torelli e Scipione Bagaggia. Nella
terza notte, anche il corpo che aveva espugnato il palazzo
municipale, e contava parecchie centinaia di soldati, vedendosi
stretto e tempestato d'ogni parte, si salvò vergognosamente a
tutta corsa, trascinando stupidamente seco i bambini del Bellati e
sua moglie, ch'era pur figlia del marchese Ragazzi, il più
zelante tra i censori delle stampe; poco dipoi per effetto del
crudele trattamento uno dei fanciulli morì.
I soldati facevano cose atroci; nelle case dei Fortis trucidarono
undici persone inermi, rubando quanto v'era di stoffe e di denari;
al cadavere d'un soldato si trovò in tasca una mano feminile
adorna d'anelli; brani di corpi feminili si trovarono mal sepolti in
castello; più d'una famiglia fu arsa viva; infilzati sulle
baionette i bambini; nel ruolo dei morti si contarono più di
cinquanta donne; essendo però vero che alcune di esse erano
fra i combattenti, anzi combattevano audacemente. Si udivano
officiali ben nati aizzare a crudeltà il soldato, dandogli a
credere bugiardamente che i cittadini facessero scempio dei
prigionieri. Tanto la condotta dei nostri nemici disonora la
civiltà germanica quanto quella del nostro popolo onora la
infelice Italia.
Eravamo omai padroni della cerchia più interna e popolosa
della città, sino a quella larga fossa che i nostri antichi
scavarono per difendersi dall'imperator Federico, e che venne poi
rivolta ad uso della navigazione. Per communicare coi combattenti
omai lontani, imaginò Cernuschi una specie di posta,
adoperandovi principalmente li allievi d'un collegio d'orfani, che
passano il giorno in città ad apprendere i mestieri,
riconosciuti pel loro vestimento, attraversavano rapidamente la
folla che custodiva le barricate, prestando opera sollecita e
sagace.
Ma era pur mestieri sapere ciò che avvenisse fuori della
fossa interna, d'onde sino alla cerchia de' bastioni il nemico
teneva vasta parte della città; ed era da esplorare anche la
circostante campagna. A tal d'uopo il Consiglio di Guerra
invitò li astronomi e li ottici a collocarsi su li
osservatorii e i campanili; e di là spedirci d'ora in ora
brevi note; anzi, per non perdere tempo a scendere e salire per
lunghe scale, alcuno imaginò d'attaccar quelle note a un
anello che si faceva scorrere lungo uno filoferro. E poco di poi si
pensò di mandare in aria palloni, che seco portassero i
nostri proclami. Li Austriaci, accampati sui bastioni, stavano
attoniti mirando quelli aerei messaggeri sorvolare alle loro linee,
e li bersagliavano con vani colpi.
"Fratelli! diceva uno dei proclami, la vittoria è nostra. Il
nemico in ritirata limita il suo terreno al castello e ai bastioni.
Accorrete; stringiamo una porta tra due fochi ed abbracciamoci."
In codesti scritti volanti cercavamo d'associare all'insurgimento un
principio d'ordine militare:
"A tutte le città e a tutti i communi del Lombardo Veneto. -
Milano vincitrice in due giorni, e tuttavia quasi inerme, è
ancora circondata da un ammasso di soldatesche avvilite, ma pur
sempre formidabili. Noi gettiamo dalle mura questo foglio per
chiamare tutte le città e tutti i communi ad armarsi
immantinenti in guardia civica, facendo capo alle parochie, come si
fa in Milano; e ordinandosi in compagnie di cinquanta uomini, che si
eleggeranno ciascuna un comandante e un proveditore, per accorrere
ovunque la necessità della difesa impone. Aiuto e vittoria."
-
Molti di quei palloni caddero in luoghi ove li abitanti non avevano
udito il suono del cannone, o non ne avevano sospettato la causa;
altri giunsero fin oltre il confine svizzero, piemontese,
piacentino. In molti dei nostri territori furono segnale di
sollevamento; dappertutto misero in fermento i popoli. Turbe di
contadini condutte da studenti, da medici, da curati, da doganieri,
movevano d'ogni parte verso Milano. Dall'alto dei nostri campanili
si videro fra le campagne le strade biancheggianti oscurarsi e
ingombrarsi all'arrivo di quelle moltitudini; e inanzi ai loro colpi
fuggire le vedette nemiche. Cinquecento uomini giunsero dalla
Svizzera italiana, la quale per la sua vicinanza aveva non meno di
noi patito del nostro malgoverno; congiunti coi montanari del lago
di Como e ai giovani di quella città, vi avevano assediati e
presi quattrocento nemici con cinquanta cavalli in Borgo Vico, e
ottocento presso Porta Torre. Poi, sollevando nel passaggio loro
tutte le ville, e combattendo con nuova vittoria a Monza, erano
giunti sotto le nostre mura, verso tramontana. Si accozzavano quivi
con una colonna che aveva preso trecento uomini a Varese; e con
un'altra sfuggita appena sul lago Maggiore ai satelliti del
versatile Carlo Alberto, che avevano comando di disarmarla. Dal lato
di mezzodì, una squadra partiva dalle vicinanza del Po,
dietro le novelle apportate da un pallone; uno di suoi capi, Gui di
Milano, venne ferito a morte sotto i bastioni; e Trabucchi di
Belgioioso, povero padre di famiglia, fatto prigioniero mentre
apportava armi e polvere, fu tratto a Lodi e contro il diritto delle
genti vilmente ucciso. Il comitato di Lecco armava quel territorio,
la Val Sassina, la Valtellina, e sommoveva la lenta Brianza. Bergamo
mandò parecchie centinaia de' suoi cittadini e valligiani.
Gerolamo Borgazzi, ispettore della via ferrata di Monza, raccolti
duemila uomini, penetrò furtivo in città verso il
meriggio del quarto giorno, per convenir con noi dell'ora in cui
quella sera assalire dal di dentro e dal di fuori il bastione. Venne
trascelta la Porta Tosa, presso la via ferrata di Venezia. Se non
chè, nell'atto poi di guidare fra l'oscurità i suoi
all'assalto, cadde ucciso dalla prima palla nemica; e la presa di
quel luogo restò differita sin presso la sera del quinto
giorno.
Intanto in città un popolo ingegnoso e infervorato divisava
mille modi di far fronte alle esorbitanti forze del nemico. Si
facevano cannoni di legno cerchiati di ferro, tanto che reggessero a
certo numero di colpi; si faceva polvere e cotone fulminante; si
fondevano palle; si raccoglievano con cura i proiettili nemici, e vi
si rinvenivano grosse medaglie di ferro fuso, improntate per
dileggio coll'imagine di Pio IX. I nostri scritti incalzavano senza
posa il popolo:
"Si vanno fondendo bombe e cannoni. Rimanderemo alla tirannide
straniera le sue palle, con suvvi scritto libertà italiana.
Viva Pio IX."
E poco dopo: "Alcuni acquedutti che passano sotto ai bastioni sono
asciugati, e ci mettono in communicazione col di fuori. Il palazzo
del Genio Militare fu preso dai nostri prodi colla baionetta; in tre
giorni hanno già imparato a battersi come veterani. Al di
fuori, cinquanta uomini di Marignano hanno sorpreso con un'imboscata
un battaglione di cacciatori, che credendosi in faccia a corpo
numeroso si diedero alla fuga, abbandonando morti e feriti. Il
nemico manca di viveri; li officiali furono visti con pezzi di pane
nero in mano. Il nemico ci chiede un armistizio, certamente per
potersi raccogliere e ritirare, ma è troppo tardi; le strade
postali sono ingombre d'alberi abbattuti; la sua ritirata diviene
già difficile. Coraggio; avvicinatevi d'ogni parte ai
bastioni; date la mano alli amici che vengono a incontrarvi; questa
notte la città dev'essere sbloccata da ogni parte. Valorosi
cittadini, l'Europa parlerà di voi; la vergogna di trent'anni
è lavata. Viva l'Italia."
E pochi istanti dopo si ripeteva: "Prodi avanti ! la città
è nostra; il nemico si raccoglie sui bastioni per avvicinarsi
alla ritirata. Fategli premura; tormentatelo senza riposo; questa
notte tutte le porte devono essere sbloccate. Ottomila uomini
raccolti dalla campagna stanno per darvi la mano: le truppe
straniere dimandano tregua: non lasciate tempo ai discorsi.
Coraggio; finiamola per sempre. Viva l'Italia."
I discorsi, onde lagnavasi il Consiglio di Guerra, si tenevano
veramente. I consoli delle potenze si erano frapposti fin dal
principio del combattimento, e per dovere verso i loro, e per amore
d'umanità; e avevano a tal uopo con Radetzki e Wallmoden un
carteggio che fu già publicato. Ora, mentre dopo il
mezzodì del quarto giorno stavamo concertando con Borgazzi
l'assalto al bastione, la municipalità ci invitò a
convenir seco lei della risposta da darsi ai consoli, che sarebbero
venuti a riceverla verso le tre.
Proponevasi, diversamente dal giorno inanzi, non armistizio di
quindici giorni, ma di tre; libera una porta, si all'entrata delle
vittovaglie, che all'uscita delli stranieri, ed anco dei cittadini;
ma non estesa la tregua alla campagna.
Casati, assentendovi per sè pregò il collaboratore
Giuseppe Durini a ripeterci un sottile ragionamento che aveva
già fatto ai municipali, provando che l'armistizio avrebbe
giovato più a noi che al nemico che lo dimandava! I
collaboratori e i loro seguaci se ne mostravano già tutti
persuasi; tranne Achille Mauri, che pure faceva già loro da
secretario.
Invitato da' miei colleghi ad esprimere il loro voto, osservai che
dopo un nuovo giorno di vittoria, il richiamare dal combattimento i
cittadini era divenuto ancora più difficile; e che non
conveniva dar tempo al nemico di ritorcere tutte le forze sulla
campagna. - E infatti lettere intercette ci scopersero poi, che,
s'ei si avviliva a dimandare quella tregua, era solo perchè i
tre giorni gli abbisognavano per avere in Milano mille e duecento
grosse bombe, sbarcate allora in Piacenza.
Feci poi considerare che quell'intervallo, oltre al dar agio al
nemico di far macello dei nostri soccorritori, avrebbe rallentato il
vittorioso impeto dei cittadini, i quali sarebbero atterriti poscia
dallo spettacolo forse dei trucidati amici. Feci considerare che
l'esempio apportava contagio; che il primo giorno, la città
sarebbe abbandonata dai forestieri, dalle donne e dai timidi; il
secondo, lo sarebbe dai prudenti; e il terzo, anche dalli animosi.
Conveniva ritenere i forestieri fra noi; erano sempre un ostacolo
all'incendio e al saccheggio, non si poteva imaginare che il
vessillo francese, sventolante a lato al nostro, non dovesse imporre
qualche freno alli eccessi. -
Allora il conte Brorromeo raccomandò di non dimenticare che
si difettava di munizioni, e si avevano viveri solo per
ventiquattr'ore. - Dopo le cose più sopra narrate, non fu
millanteria in me il rispondergli che il nemico, avendoci fornito
fin allora le munizioni, ce le avrebbe fornite ancora. Quanto ai
viveri, che dovevano durare solo per ore ventiquattro, gli risposi,
aver io sciupato in cose statistiche quanto tempo bastava per
potergli far sicurtà che computi così precisi non si
potevano fare: - "Del resto, gli dissi, ventiquattr'ore di viveri, e
ventiquattr'ore di digiuno saranno molto più ore che non ci
sia mestieri. Il nemico sui bastioni non può reggere;
è una linea troppo prolungata (erano dodici chilometri); gli
deve già riescire assai malagevole la distribuzione dei
viveri; e difatti in giro alla città Croati e Tedeschi sono
già ridutti a vivere di ruba. Questa sera, se riescono i
concerti fatti or ora, sarà spezzata la sua linea lungo i
bastioni; e per poco che tardi a mettersi in ritirata, non
troverà più strade. - Infine, quando pur ci dovesse
mancare il pane, meglio morir di fame che di forca". -
I conti Casati, Durini e Borromeo, propugnando fra quella tanta
effervescenza d'animi l'armistizio, si erano messi affatto a nostra
discrezione; poichè si udivano affollati all'uscio i giovani
vociferare sdegnosamente contro qualsiasi aggiustamento. Dopo essere
uscito a tranquillarli, io pregai Casati a por fine a un diverbio
oramai ozioso; poichè troppo era manifesta
l'impossibilità di far deporre alla gioventù le armi,
che aveva sì felicemente impugnate.
Dopo pochi momenti, giunsero vestiti dei loro uniformi i consoli; e
udirono il rifiuto dell'armistizio dalla bocca dell'eroico
podestà. Ancora quella volta, noi concedemmo ai nostri
avversarii un immeritato vantaggio; tanto è vero che non
operavamo per ambizione di parte, ma per sentimento di cittadini.
Strinsi la mano a quei rappresentanti dell'Inghilterra e della
Francia, senza frammettere allusione veruna ai nostri dissidii. E'
verissimo però che nella lettera indirizzata dal Casati ai
Consoli, e da questi publicata, il rifiuto dell'armistizio venne
attribuito al volere del popolo.
Erano quei signori appena usciti, che apparve in seno all'assediata
città il conte Enrico Martini, inviato allora del re Carlo
Alberto a noi, come, poche settimane dopo, fu inviato nostro a Carlo
Alberto. Codesta correvolezza a pigliare incarichi fra loro
contraposti, ci ricorda il fu poeta Sgricci, che quando improvisava
le tragedie, si posava a destra per far la parte di Giasone, e poi a
sinistra per far quella di Medea.
Il Martini doveva dirci, che se volevamo solamente far dedizione del
nostro paese a quel re, l'esercito suo verrebbe immantinenti in
nostro aiuto; si trattava dunque di costruir subito un governo
provisorio, che potesse indirizzargli una dichiarazione valevole. -
Ed ecco il Consiglio di Guerra invitato un'altra volta dal conte
Casati e collaboratori a dire il suo parere. E' chiaro che la
politica della municipalità ci dava quasi più facende,
che non la guerra col maresciallo Radetzki.
Prendendo la parola per i miei colleghi, dissi, che il paese era dei
cittadini; che toccava loro a disporne come intendevano; che nessuno
aveva facoltà di darlo, senza il voto loro, a chicchessia.
Ora, non era quello il momento di chiamarli a siffatte votazioni.
Intenti a difendere le vite loro e le famiglie, non potevano in
quell'istante lasciare il combattimento per dedicarsi alle
deliberazioni politiche. Era altresì probabile che surgessero
a tal proposito dispareri, e fors'anco gravi dissidii. - "Signori,
il giorno della politica non è questo; abbiamo trovato
intempestivo il pronunciare jeri l'altro la republica; non è
meno intempestivo il pronunciare quest'oggi il principato.
Dacchè Dio ci manda la libertà, teniamola almeno per
qualche giorno. Vi è dunque così molesto d'essere, una
volta in vita vostra, padroni di voi? Iniziate l'era novella col
rispetto a tutti i diritti e a tutte le opinioni, e col rispetto
anche alle illusioni generose della gioventù, almeno fintanto
ch'essa sta combattendo per voi. Quando l'avremo finita col nemico,
quando la causa sarà vinta, allora vedremo. Allora potremo
come nelli altri paesi liberi, dividerci in quante mai parti
vorremo." -
I servili tornarono allora a ramentarmi il difetto delle munizioni e
l'insufficienza generale delle forze. - "Ciò dimostra, io
dissi, che non occorreva spronare con tanta fretta il popolo a una
sollevazione per cui nulla si era preparato. Il Consiglio di Guerra
vide così chiara questa insufficienza, che fin dal primo
istante parlò sempre dell'Italia. E' necessario aver tutta
l'Italia; e forse nella presente scompagine delle sue forze,
potrebbe non essere ancora sufficiente all'impresa. Ora, se noi
cominciamo a darci al Piemonte, non potremo aver con noi li altri
Stati d'Italia. Tornerà l'antica istoria dei re longobardi e
dei duchi di Milano, che misero in sospetto e nemicizia tutta la
penisola." -
Mi risposero allora che la rimanente Italia non poteva apportarci
soccorsi ben pronti nè considerevoli, che il re Carlo Alberto
era alle nostre porte; ed era necessario metterci in sua mano se non
volevamo sopportar soli tutto il peso della guerra. Io risposi : -
"Se con Carlo Alberto volete far patti, non è il momento;
sareste come il povero sulla porta dell'usuraio. Se volete darvi
senza patti, nessuna maggiore imprudenza. Come mai fidarvi a un
principe che vi ha già traditi un'altra volta, e che in
questo momento medesimo vi lascia qui sotto alla mitraglia? - E
infine, siete stati contenti d'esservi dati nel 1814 alla casa
d'Austria?". -
Tutti m'interruppero con somma veemenza, dicendomi che la casa
d'Austria era straniera. - "Sì, straniera; ma allora non ci
avete voluto badare, come adesso non badate a molte altre cose.
Signori, le famiglie regnanti son tutte straniere. Non vogliono
essere di nessuna nazione; si fanno interessi a parte, disposte
sempre a cospirare colli stranieri contro i loro popoli. Io ho ferma
credenza che dobbiamo chiamare alle armi tutta l'Italia, e fare una
guerra di nazione. Se poi il vostro Carlo Alberto sarà il
solo che venga a soccorrerci, avrà egli solo l'ammirazione e
la gratitudine dei popoli; e nessuno potrà impedire che il
paese sia suo. In ogni modo è inutile che voi glielo diate;
perchè, s'egli vince, il paese resta suo; e se non vince, non
sarà mai suo, nemmeno se glielo aveste a dare cento volte." -
La discussione si accalorò; lascio a ciascuno degli
interlocutori la briga di ricordare qual parte vi prese. -
Poichè vedendo quanto stringesse di precorrere, se pur si
poteva, la fazione servile, mi ritrassi con Cernuschi in angolo
appartato per fare immantinente un appello a tutta l'Italia, e dare
a Carlo Alberto alleati, da frenarlo se si poteva, e da proteggere
la nostra libertà. Far di più io non sapeva, oscuro
cittadino qual era, e tratto dal caso troppo lontano da quella via
nella quale solamente le forze mie mi concedevano di servire alla
patria. -
"La città di Milano per compiere la sua vittoria e cacciare
per sempre al di là delle Alpi il comune nemico d'Italia,
dimanda il soccorso di tutti i popoli e principi italiani, e
specialmente del vicino e bellicoso Piemonte." -
Mentre si stampavano queste brevi righe, da spargersi tosto coi
palloni, ne fecimo correre alcune copie manoscritte; e in pochi
momenti le presentammo alla municipalità, colle firme di
forse duecento cittadini. Il Casati rimase allora assai perplesso. E
pel momento non si arrese al Martini, che lo incalzava a dichiarare
immantinente un governo provisorio, che facesse la dedizione a Carlo
Alberto.
Frattanto il conte Giulini, che si era messo allora fra i
collaboratori del municipio, aveva scritto un umile e flebile invito
a Carlo Alberto, perchè avesse la misericordia di salvare
Milano da quella razza che l'aveva altre volte distrutta.
Attraversando l'anticamera, ov'egli leggeva a un crocchio il suo
scritto, gli dimandai di qual distruzione parlasse : - "Come vuole,
signor conte, che li Austriaci possano oramai distruggere una
città, nella quale appena possono reggere per qualche altra
ora?". – “Ma si può sempre temere”, egli mi rispose. - "Non
è il luogo, gli dissi; non v'è altri in tutta la
città che mostri paura." - Egli rimise docilmente in tasca la
supplica.
Poco dipoi, penetrò nella nostra cameretta il Martini,
lagnandosi delle dubiezze e debolezze del Casati e del Borromeo, e
perciò sollecitandomi a comporre io medesimo un governo
provisorio, che facesse la formale dedizione dal re Carlo Alberto
desiderata e aspettata. - "Sa ella, mi disse, che non accade tutti i
giorni di poter prestare servigi di questa fatta a un re?" - Gli
risposi che il far servigi ai re non era cosa di mia portata; e che
del resto io teneva fermo doversi invitare tutta la nazione; era da
molti secoli la prima volta che avveniva di poter muovere a un solo
fine e un solo sentimento tutti i popoli d'Italia. Se poi ciò
non riesciva, e Carlo Alberto restava il solo nostro alleato, e
occupava coll'esercito il paese, ne restava naturalmente padrone. In
questo caso, purchè solamente vincesse, i cittadini
coll'acquisto dell'indipendenza forse si consolerebbero della
perduta libertà; ed egli potrebbe riposarsi sulla loro
gratitudine e rassegnazione; ma non doveva esigere adesso il prezzo
d'un servigio che peranco non ci aveva reso. Il conte Martini
avendomi allora pregato di mettere in scritto questi sentimenti, io
gli diedi la lettera seguente.
"Dal Consiglio di Guerra, 21 marzo 1848.
La città è dei combattenti che l'hanno conquistata;
non possiamo richiamarli dalle barricate per deliberare. Noi
battiamo notte e giorno le campane per chiamare aiuto. Se il
Piemonte accorre generosamente, avrà la gratitudine dei
generosi d'ogni opinione. La parola gratitudine è la sola che
possa far tacere la parola republica, e riunirci in un sol volere,
Lo saluto cordialmente.
“Carlo Cattaneo.”
Senonchè, le sollecitazioni del Martini, e più ancora
la crescente sicurezza della vittoria, dovevano in breve determinare
la municipalità a dichiararsi governo provisorio.
Considerando adunque che in tal caso cesserebbe in noi
quell'apparenza officiale che poteva dare qualche effetto alla
nostra opinione, abbiam voluto raccomandare ancora una volta ai
cittadini la federazione militare di tutti i popoli d'Italia:
"Oramai la lutta nell'interno della città è finita. E'
tempo che le città vicine si scuotano e imitino l'esempio di
questa. Noi invitiamo tutte e ciascuna a costituire un Consiglio di
Guerra che lasci le cose di consueta amministrazione ai municipii
costituiti in governi provisorii. Per noi vi è un solo e
unico affare, quello della guerra, per espellere il nemico straniero
e le reliquie della schiavitù da tutta l'Italia. Invitiamo
tutti i Consigli di Guerra a limitarsi a questo. - Ci sarà
grato ricevere loro immediate novelle e intelligenze, per mezzo di
commissarii che abbian animo degno dell'impresa. Noi domandiamo ad
ogni città e ad ogni terra d'Italia una deputazione di
baionette, che venga a tenere un'assemblea armata a piedi delle
Alpi, per fare l'ultimo nostro concerto colli stranieri. Si tratta
di ridurli a portarsi immantinente dall'altra parte delle Alpi, ove
Dio li renda pure liberi e felici come noi." -
Non conosco la precisa forma della chiamata che la
municipalità indirizzava a Carlo Alberto; ma credo che quel
giorno non osasse invocarlo se non come alleato. Ma il conte
Martini, che si era incaricato di recar prontamente la dimanda a
Torino, fu arrestato alle ultime barricate e ricondutto al
Consiglio; fatto accompagnare nella notte fino al bastione,
ritornò ancora; e non uscì poi di città
finchè non fu libera e aperta.
Vedendo che la vittoria avrebbe determinato la formazione d'un
governo, io, benchè me lo vedessi inanzi pur troppo
già formato nei collaboratori del municipio, andava pensando
se non si potesse trar profitto della loro esitanza, per comporne un
altro che ispirasse fiducia alle famiglie timorose, ma fosse men
servile che si potesse. Ne gettai un motto al conte Pompeo Litta,
che, come vecchio militare, mi pareva rappresentar la presente
necessità di pensare solo alla guerra e non divagare dietro
le ambizioni politiche. Ne parlai anche al marchese Cusani, che
avrebbe potuto arrecare nelle nostre finanze una capacità
esercitata in grandi industrie; ma egli non voleva incarichi che
avessero publico apparato; ora, è questo appunto che
più ci necessitava. Vedendomi involto in sì spinoso
negozio, Terzaghi e Cernuschi mi sollecitavano a passi più
deliberati. Anzi credo dettassero una dichiarazione, in cui pare
assumessero apertamente pel Consiglio di Guerra l'incarico di
comporre un governo provisorio; e intendevano poi di persuardermi a
firmarla, dicendosi sicuri che la gioventù ci assisterebbe.
Ma ciò non poteva essere se non cosa del momento; io non
m'illudeva; non poteva credere che un governo, il quale non fosse
devoto alle cupidigie di Carlo Alberto, potesse reggere al peso
dell'occupazione militare ormai inevitabile. Conosceva quel
principe, esercitato a sedurre e tradire, a lusingare e fucilare. Li
indefessi suoi facendieri avrebbero in pochi dì empita ogni
cosa di discordie e di rancori, al cospetto come saremmo, d'un
nemico solito a risurgere dalle sue disfatte. Le dimostrazioni a i
giornali di Torino e di Genova sucidamente adulatori avevano
allucinati sino all'insania molti buoni; i quali, solo da sè,
e a forza di fatti e di disinganni, potevano ricondursi a più
sana estimazione delle cose.
Tutte codeste pratiche si tenevano alla sfuggita, negli intervalli
che i combattenti ci lasciavano; ma le ore scorrevano veloci; e il
conte Martini non partiva mai. Infine, la notte tarda, la
municipalità, temendo che noi c'inducessimo una volta a
prevenirla, deliberò di torsi la maschera della
legalità austriaca, e dichiararsi governo provisorio.
All'alba del giorno 22, entrato nella sala del presidente Casati,
fui il primo a rassegnarmi; le necessità che avevano reso
possibile il Consiglio di Guerra erano cessate; perocchè
l'officio nostro era stato solamente di riparare alla
pusillanimità dei municipali, di dare al moto popolare
un'impronta schietta d'insurrezione, e di rompere apertamente la
sudditanza austriaca. Dissi al conte Casati, che deponevamo il
potere di cui per fatto dell'insurrezione ci eravamo investiti; ma
che, siccome molti operavano a nostro dettame, noi, se ciò
pareva opportuno, avremmo continuato a dirigerli nel combattimento,
d'accordo col Comitato di Difesa. In tal caso, giovava congiungerci
seco in un unico Comitato di Guerra, a cui presiederebbe un membro
del governo provisorio. Dovendo in sostanza poi le costui funzioni
esser quelle d'un ministro della guerra, io dimandai vi venisse
destinato Pompeo Litta, che era già stato nella milizia del
regno d'Italia. Il Casati aderì; e scrisse in un foglio:
"Comitato di Guerra; Presidente: Litta; Membri: Cattaneo, Cernuschi,
Terzaghi, Clerici, Carnevali, Lissoni, Ceroni, Torelli". -
Ma il governo provisorio non ebbe l'animo d'annunciarsi apertamente,
Parlò della sua venuta, solo per incidenza e di passaggio,
nel conchiudere un'ordinanza d'altro argomento. In essa faceva
menzione, per la prima volta, dell'armistizio nei due precedenti
giorni "rifiutato ad istanza del popolo"; dichiarava adottati dalla
patria i figli dei morti in battaglia; assicurava ai feriti
gratitudine e sussistenza; poi soggiungeva:
-"Cittadini: questo annuncio vi vien fatto dai sottoscritti,
costituiti in governo provisorio; che reso necessario da circostanze
imperiose e dal voto dei combattenti, viene così proclamato."
-
Codesto modo quasi furtivo di mettersi alla testa d'una rivoluzione,
era consono alli altri atti di quella fatale congrega, che in
quattro mesi condusse per torte strade un popolo fidente e generoso,
dalla vittoria, all'impotenza e alla disperazione.
Grandi furono tosto le lagnanze, pel silenzio assoluto che in quella
dichiarazione il governo serbava sulla sua futura condotta.
Perlochè, nel giorno medesimo, deliberò rimovere il
sospetto dei cittadini, sostituendo nel seguente indirizzo alla
subdola reticenza una promessa mendace.
-"Finchè dura la lutta, non è opportuno di mettere in
campo opinioni sui futuri destini politici di questa nostra
carissima patria. Noi siamo chiamati per ora a conquistarne
l'indipendenza; e i buoni cittadini di null'altro debbono adesso
occuparsi che di combattere. A causa vinta, i nostri destini
verranno discussi e fissati dalla nazione." -
Era necessario porgere questi particolari, perchè rimanesse
dimostrato quanto false siano le accuse date poscia dai servili alli
amici della libertà; i quali, alieni dall'operare per amor di
parte, esercitarono anzi una longanimità che poteva parer
quasi dimenticanza dei loro principii. Senonchè, essi
confidavano nella potenza che i principii recavono dalla prova del
fatto e nel seno del tempo.
Il Consiglio di Guerra contribuì a dare unità, vigore
e legalità al moto del popolo; sventò due volte que'
tentativi d'armistizio, che spegnendo l'ardore della gioventù
e dando agio al nemico di riaversi, ci avrebbero rimessi subito
nell'atroce sua mano. Col motto a causa vinta additò la sola
via di conservare fino al dì della pace la concordia che ci
faceva vittoriosi. Volle conciliare il voto dell'indipendenza col
rispetto alla libertà; volle sostituire alla conquista
piemontese la nazionalità italica, appellando tutta l'Italia
sul campo dell'onore, riservando l'arbitrio del futuro al congresso
della nazione. Si adoperò tanto a dilatare e infiammare
l'insurrezione, quanto i suoi avversari si adoperarono a esaminarla
ed ammorzarla. Ma il Consiglio di Guerra visse solo quarant'otto
ore.
VI
Il Comitato di Guerra
L'esercito di Radetzki non aveva più forza di domare la
città. Rimaneva a noi di dargli lo sfratto. A tal uopo
bastava intercidere la sua linea sui bastioni; poichè i corpi
ch'egli aveva accampati ad ogni porta, sarebbero rimasi subitamente
privi d'indirizzo e di vittovaglie. Ma nel Comitato di Guerra i
pratici inculcavano di non far punte, e di allargarsi equabilmente
in tutto il giro delle mura; sicchè seguendo quella norma,
avremmo dovuto giungere al bastione nella parte di levante, ossia di
Porta Tosa, che è la più vicina al cuore della
città. Ma è quartiere di poco popolo; onde mi pareva
che ad occuparlo legassimo molta parte delle nostre forze, senza
potervi trovare di che ingrossarle. Non opponendomi a codesto
disegno, anzi prestandomi quanto per me si poteva ad effettuarlo,
pensava nondimeno che convenisse liberare immantinente un rione
anche più lontano, solchè potesse fornire gente e
armi. La quale mi pareva una regola ben chiara di quella nuova
dottrina militare delle barricate, che Dio destina a svergognare e
conquidere li eserciti stanziali, solo ostacolo ormai alla
libertà delle genti. Avrei dunque anteposto di far impeto
verso Porta Ticinese, quantunque doppiamente lontana. Chiamata non a
torto cittadella, ha quasi un popolo suo proprio; e protende anche
fuori le mura due sobborghi, tra mezzodì e ponente, in riva
ai due navigli; sicchè avrebbe intercetto a molto maggior
distanza le comunicazioni del nemico, e preclusagli una via di
ritirata. Mi volsi per tanto a quella parte; ove per giungere si
varcava la Fossa interna della città, sovra una barca
attraversata, presso al ponte dei Fabri. Al di là l'aspetto
dei quartieri dominati dal nemico faceva strano senso. L'occhio
attonito vi cercava indarno le vie frementi di baldanzoso popolo
come nell'interna città; li spazii erano affatto deserti; le
porte e le finestre gelosamente serrate; il rintuono di due batterie
vicine e il grandinare dei fucili si udivano soli in quella morta
solitudine; un denso fumo velava ogni cosa; era presso il meriggio,
e pareva sera. Le case communicavano fra loro secretamente per
aperture praticate nelle camere, nelle cantine, nelli orti; e nel
percorrerle si smarriva ogni riconoscimento dei luoghi. Ad un
tratto, si rinvenivano congregate in certi loro ricoveri molte donne
con infiniti fanciulli, a farsi animo tra loro e aiutarsi. Le
più povere, non essendo state in tempo a ricevere al sabbato
i pochi denari della settimana, non sapevano più come fare;
poichè era già il mercoledì. I nemici in quel
vicinato avevano arso donne e infanti; e per fare spavento e
strazio, bersagliavano dal bastione le case; quelle genti parlavano
di loro come d'indemoniati. Mi dimandavano s'era vero che colle
bombe avessero già disfatto il Duomo. Più inanzi,
famiglie d'amici miei erano talmente serragliate per salvarsi dalle
palle le quali trapassavano finestre e usci, che in mezzo al vicino
rimbombo ci fu forza vociferare più d'un quarto d'ora per
farle affacciare alle finestre ad assicurarsi ch'eravamo amici. Ma
non appena ebbimo fatto intendere che dovevamo solo spingere
attraverso alla via carri e carrozze; e quasi per incanto balzarono
fuori d'ogni parte giovani armati; e ancor prima di chiudere bene
quei ripari, bersagliavano audacemente i nemici accosciati sull'orlo
del bastione. Il coraggio è attaccaticcio come la paura.
Intanto file di donne, traendo a mano i figliuoli, e recandosi sotto
il braccio il fardello delle cose più care, uscivano dalle
case ov'erano assediate, era già il quinto giorno; e chine
dietro le barricate e per i fori delle muraglie, si avviavano in
salvo, rendendoci affettuose grazie che fossimo venuti a levarle di
mano a quei mostri.
Traforando un altro muro e strappando un'inferriata, giunsimo dopo
mezzodì entro l'ampio recinto della dogana di Viarenna, che
tocca il bastione, e lo domina in luogo ove non è più
largo di cinque a sei metri. Il Naviglio che esce dalla
città, passa quivi per disotto al bastione; ma i gabellieri
erano fuggiti colle chiavi del cancello; e si fece vana prova di
forzarlo. I giovani impazienti cominciarono, contro le mie istanze,
a tempestare dalle finestre della dogana il bastione, abbattendo
anche alcuni ussari che portavano ordini; il nemico s'accorse che si
stava per aprir quivi la città; i Reisinger per una viuzza
laterale accerchiarono la dogana. Furono respinti; nel ritorno in
città trovammo due dei loro cadaveri attraversati alla via.
Ma il cancello non si potè più aprire; e il pittore
Borgo Carati che più tardi vi si cimentò, ebbe a
ritornare col suo cappello calabrese forato da due palle, senza
potervi peranco riescire.
Qualche ora dopo, il bastione veniva occupato, alquanto più a
tramontana, dalla compagnia del cittadino Colombo. Intanto dalla
parte opposta della città, quelli ch'erano con Luciano
Manara, facendosi avanti con barricate mobili, fatte di grosse
fascine rotolanti, espugnavano la Porta Tosa, difesa da forse
duemila uomini e sei cannoni. E a sera, li insurti della campagna
aprivano di forza Porta Comasina. L'intento mio nel porgere questi
particolari, non è di fare una descrizione del combattimento,
al che mi mancano troppi fatti; ma di additare quelle circostanze
che dimostrano come Radetzki non potesse assolutamente sostenersi
più a lungo in città. Le masse colle quali occupava
isolatamente le porte, venivano in quella sera ad essere fra loro
separate; e sarebbero poi state ad una ad una accerchiate dal di
dentro e dal di fuori, e oppresse dal numero. La ritirata era
inevitabile, urgente. È un fatto capitale; e vuolsi mettere
bene in chiaro. Poichè si è poi asserito molto
vanamente, che se Radetzki uscì disordinatamente di Milano
alla sera del 22, fu per sottrarsi all'esercito piemontese; il quale
veramente non comparve sotto le nostre mura se non dopo il
mezzodì del 26. La risoluzione di romper guerra all'Austria
fu presa a Torino la sera del 23, per effetto del tumulto che
produsse nel popolo la nuova della nostra liberazione. Quel
manifesto di guerra fu il primo frutto della nostra vittoria; e non
viceversa. La cronologia è l'occhio dell'istoria.
Radetzki, per celare la sua ritirata, giovossi della prima
oscurità; faceva battere tutti i suoi tamburi e tuonare tutti
i cannoni, quasi intraprendesse un disperato assalto; aveva messo il
foco a varie case. Mentre io mi sforzava riconoscere da luogo alto
la posizione delli edificii che si vedevano ardere a levante e
settentrione, ad un tratto divampò verso ponente, dietro i
torrioni del Castello, una colonna altissima di fiamme, come se il
nemico fosse a distruggere quel ricovero che non poteva difendere.
Ma era solo una vasta congerie di paglia, di carri e di masserizie
ch'egli abbruciava nel gran cortile d'armi, per consumare, a quanto
sembra, i cadaveri de' suoi, giusta il suo costume di occultare
quelle tristi prove della sconfitta. - Dicesi ardesse, morti o vivi,
anche alcuni prigionieri e ostaggi, dei quali nulla più si
seppe, e nessuna reliquia rimase!
Mentre il bagliore delli incendii e la furia delle artiglierie
teneva intento il popolo, le colonne nemiche, richiamate da ogni
parte e ammassate dietro il Castello, sfilavano dense e furtive sui
viali del bastione. Ma molti dei cittadini, fatti accorti della
mente del nemico, accorrevano a tribolarlo, prodigando oramai essi
pure il foco; dacchè nella sola caserma dell'Incoronata
avevano rinvenuto ventiquattro migliaia di polvere. Al di fuori, i
montanari si aggrappavano sugli arbori e sui tetti delle case per
trarre di piano sul bastione. Di tempo in tempo, e quando quella
molestia era troppo grave, i battaglioni nemici sostavano,
rispondendo con poderose scariche. Li assidui colpi cingevano la
città d'un semicerchio scintillante; col mutare del vento
udivasi, ora più da una, ora più da altra parte, il
battere a stormo dei sessanta campanili ormai tutti liberi.
Il nemico s'inoltrava lento e stanco fra mille ostacoli; in qualche
luogo trovò il bastione già ingombro di piante
atterrate; spese tutta la notte a trarsi fuori della città.
Doveva condurre seco le artiglierie, le bagaglie, i feriti,
più di trecento famiglie d'officiali e d'impiegati stranieri,
i decrepiti generali, li sventurati che il capriccio militare aveva
fatti ostaggi, e qualche migliaio di soldati italiani. Molti di
costoro erano stati saldi contro i colpi dei fratelli; ma non tutti
sapevano rassegnarsi a seguire nella fuga lo straniero. Alle
crociere delle vie, dove era facile sottrarsi, i generali paravano
loro in faccia la bocca del cannone; alla menoma esitanza, si
udivano li officiali gridar loro: o avanti o morti!
Alla fine il nemico fuggiva. Quei cinque giorni gli erano costati
quattromila morti(2). Di quattrocento cannonieri erano avanzati
cinque; l'artiglieria era data a condurre ai cacciatori tirolesi.
Ecco ov'era giunto in breve quel vecchio provocatore, che colle sue
violenze aveva tratto un popolo mansueto a farsi disperatamente
ribelle, minacciava per barbara iattanza di domarlo con le bombe e
il saccheggio e li altri mezzi! Egli è ben certo che quella
risoluzione di fuggire con un esercito avanti a una turba di
quiriti, con tanto sacrificio della superbia militare e dell'odio
inveterato, fu atto d'animo bassi, ma forte; fu tanto ignominioso,
quanto prudente e necessario. Solo poche ore di dubbiezza; e le
strade gli erano rotte intorno; e Verona e Mantova, ribelli come
Milano e Venezia, li serravano le porte sul viso. La vasta Mantova
era presidiata di tre battaglioni, in gran parte italiani.
Scampato da Milano sul far del giorno, e voltosi a Lodi,
poichè la via più alta e asciutta per le terre di
Bergamo e Brescia era già preclusa, l'esercito vinto si
trovò nel mezzo del paese irriguo, lungo strade in ogni senso
incrocicchiate e orlate di fossi. Non era arduo per noi rompere
tutti i ponti, rovesciare nei rivi le strade, arrestare le aque e
farle rigurgitare sui prati, atterrare le continue piantagioni che
li orlano e li attraversano, avviluppare il nemico in una palude
artificiale, ove il passo dei cannoni e dei carri fosse impossibile.
Fra noi si suol dare a quella moltitudine di fossati il nome appunto
di rete : e tale precisamente appare a chi la vede disegnata nelle
carte. Ma l'esperienza non aveva rivelato ancora al popolo quanta
efficace difesa egli vi avesse.
Inoltre era mestieri a ciò ch'egli fosse venuto in governo
d'altri uomini che non erano quei ciambellani malcontenti. Ed era
mestieri che costoro avessero almeno un disegno meditato, e tempo, e
uomini, e forze, e denari, e cose molte che non escono da terra
all'improviso, e che forse, per ciò che si è detto,
coloro non amavano avere. Infine da cinque giorni non avevamo
riposo; molti, dal primo momento in poi non avevano riveduto le loro
case; appena si potevano reggere in piedi. Per fermo ci eravamo ben
messi all'opera con tutto l'animo. Era voto universale che
s'incalzasse il nemico; ma volevasi qualche ora a lasciar respiro ai
più affaticati, a far rassegna della gente buona di
camminare, ad accozzare un armamento meno imperfetto che si potesse,
a scegliere i capi, a farli conoscere tra loro, a fornir tutti di
polveri, cibo e denaro, e sopratutto a stabilire precisamente ove
andare, e che fare. Fra un nembo di notizie esagerate e guaste che
piovevano d'ogni parte, mi parve unico consiglio fermare per un'ora
in tutta la città il martellio delle campane, per
raccapezzare almeno da qual parte tuonasse il cannone. - Si
udì solo verso Marignano. - Era dunque chiaro, che li uomini
di quella terra, o del Lodigiano, da sè e ad insaputa nostra,
contendevano al nemico il passo del Lambro. Pertanto indirizzammo
subito a quella volta i più volonterosi di Milano, e quei che
giungevano da Como, da Lecco e dalla Svizzera. Ma siccome il nemico,
nel suo passaggio, diceva dappertutto d'uscire di Milano solo per
adunar viveri, e di volere fra due giorni o tre ripiombare sulla
città, colle forze raccolte di tutti i presidii vicini, e
colla gente che arrivava dal Veneto; e siccome noi nulla sapevamo
ancora della sollevazione operata in Brescia, in Cremona, in Venezia
: così fu forza raccomandare ai nostri combattenti sì
mal provisti e male ordinati, di tenersi sempre fra il nemico e le
nostre mura.
In quel mezzo la città s'era ripiena di gente venuta da tutte
le terre intorno. Alcuni avevano armi; altri venivano a cercarne;
altri a salutare li amici usciti del pericolo, o a non trovarli
più; altri solo a satisfarsi nel vedere le vestigia della
pugna. Le turbe dei contadini stavano immote come greggie a rimirare
i cocchi e i mobili pomposi accavallati in mezzo alle vie, li
spezzami delle tegole sul terreno sconvolto, le mura crivellate
dalle palle, le logge di granito spaccate dal cannone, le reliquie
tuttavia fumanti dell'incendio, i cadaveri stesi da riconoscere
nelli ospitali, o malsepolti in Castello e abbandonati nelle fosse;
e in mezzo a tanti orrori, mover serene quelle donne, che colle mani
loro aveva divelto i selciati e caricate le armi, e quel popolo
placido e faceto, che godeva a udirsi dire valoroso e vittorioso da
quei duri uomini dei campi e delle montagne.
Ma la turba oziosa per poco non mutava quel terribile momento in uno
spasso da carnevale. La folla e la confusione ci crescevano impaccio
nel dare alloggiamento ai volontarii e viveri e armi; laonde ci
parve mestieri fare a buona distanza della città quasi un
cordone, che diradasse quanto si poteva l'arrivo delli uomini
disarmati. E invitammo il governo a ordinare alle communi di
trattenerli alle case loro quanto si poteva. Lo invitammo anche a
inviare in ogni distretto uomini capaci di volgere a frutto
quell'ardore dei popoli. Ma di ciò non si fece nulla.
Una compagnia di cittadini s'incaricò di vegliare notte e
giorno il circuito delle mura, e andar fuori pattugliando sulle
strade maestre; cento Bresciani s'incaricarono d'esplorare armati a
maggior distanza; un'altra compagnia si avviò verso Melzo,
per raccogliere certi Croati vagabondi, e certi cannoni affondati
fra le risaie. Una compagnia d'ingegneri fu deputata a sopravedere
le barricate in città; e un'altra a curare che nel premunire
le strade al di fuori, non si facesse superfluo guasto delle
piantagioni e costruzioni publiche e private.
Nello stesso primo giorno della nostra libertà, invitammo i
cittadini a dare il nome, o nella guardia civica, o nelle colonne
mobili che dovevano occupar subito le Alpi. Non si potevano volgere
a più adatta impresa quei giovani, tanto generosi quanto
inesperti dell'arte militare. Su quell'aspra frontiera, potevano ad
un tempo combattere e studiare, costringendo intanto il nemico a far
la guerra in paese sterile, e a tutta sua spesa; epperò con
pochi soldati, e con nessun vantaggio de' suoi cavalli e delle
artiglierie. E il nome stesso delle Alpi, e del confine d'Italia, e
dell'italica fraternità, doveva accendere le menti. Ed
è l'idea che vincerà tutte le altre, le quali dai
cortigiani vennero poste inanzi; ma non sono di lunga mano eguali di
grandezza e semplicità e verità.
E i giovani, quanto più culti, accoglievano tanto più
volonterosi quell'invito alla guerra delle Alpi. E anteponevano
mettersi a spalla la carabina, all'andare colle insegne d'officiali
recando fra le moltitudini armate il frutto dei loro studii.
Pure, l'esperienza mi ha persuaso non doversi commendare
l'istituzione dei battaglioni academici e delle legioni sacre,
irrilevanti sempre per numero fra le masse inerti. Egli è
come se in corpo vivente si separassero i nervi dai muscoli;
l'intelligenza non ha dove incorporarsi; e la forza rimane senza
lume e senz'impeto.
Si raccoglievano cavalli per cominciare un reggimento; Carnevali
metteva scola d'artiglieria; il toscano Montemerli di fanteria. Si
riscattavano le armi disperse; si facevano rimovere li ostacoli
posti dall'Austria al commercio delle armi; negozianti svizzeri,
tedeschi e altri, sin da quando la città era assediata,
avevano già incarico da noi di recarsi nei loro paesi a
raccogliere quanto d'armi e d'altre cose da guerra si potesse. La
fabricazione delle polveri ebbe vasto incremento.
I promotori delle dimostrazioni avevano accattato l'aura popolare,
ma non avevano fatto ordinamento alcuno dei popoli; ci fu
necessità adoperarvi tosto qualunque volonteroso giovine ci
venisse fra quella agitazione alla mano. Li deputavamo a munire i
paesi in pericolo, a levar uomini, a dar loro quelle armi, quei capi
e quell'indirizzo che si poteva; e a trasmettere eziandío
simile incarico ad altri nei territori circostanti, ove per noi
medesimi non si conosceva persona da ciò. Tutte queste cose
si facevano con precipitosa sollecitudine, e piuttosto per mettere
in capo agli altri di fare, che per fiducia che avessimo di compiere
noi quanto necessitava. Il mio protocollo, del solo giorno 23 di
marzo, conta 172 numeri; e ancora molte ordinanze non si trovano
registrate. L'esecuzione era pronta, e talora chiamava nel giorno
medesimo altre ordinanze.
“Al Comitato di guerra.
23 marzo
"Secondo li ordini ricevuti, raccolsi la piccola truppa e m'avviai
sulla strada postale di Lecco, lanciando piccoli distaccamenti verso
il Bergamasco per osservare il nemico e molestarlo alle spalle. La
mia truppa si è ingrossata col fare della strada; e m'avvio a
Lecco, spargendo nella Brianza altri piccoli distaccamenti. Noi
guardiamo lo stradale militare che mette allo Stelvio; faremo
saltare quella galleria, e preparammo già minato il ponte di
Lecco. Quella truppa che tanto si distinse all'assalto di Porta
Comasina, si distingue ancora per la sofferenza e
l'infaticabilità.
A Monza alloggio alla Villa già Reale; e domattina parto. Il
municipio di Monza non si distingue per il suo ordine, e per la sua
cura. Tanto credo di loro annunciare di tutta fretta, aspettando a
Lecco una loro risposta.
F. Ticozzi
Nella medesima sera si provedeva.
Dal Comitato di Guerra, 23 marzo
"Si autorizza il sig. Giuseppe Scanzi a volersi recare
istantaneamente in Monza, onde prendere gli opportuni concerti, per
riordinare la difesa di quella città.
Giulio Terzaghi
Perchè si veda come non si ristette per noi d'incalzare a
forza di popolo il nemico cedente, ci sia lecito recare le
istruzioni che ancora in quel primo giorno di nostra libertà
dettammo di fuga ad Attilio Cernuschi uno dei sette che deputammo in
diverse parti del Cremonese.
"Il commissario a Cremona, è specialmente incaricato di
estrarre della massa dei soldati che si sono sottomessi, alcune
colonne mobili; le quali condotte da capi di buona volontà e
abilità (proveduti questi di aiutanti con cavalli), si
dirigano prudentemente sopra il nemico. - Il primo intento
sarà quello di mantenere coi debiti riguardi le
communicazioni tra Lodi, Cremona e Crema, spezzando il paese
interposto, interrompendo le strade con fossi e barricate di terra e
piante, massime dove siano chiuse fra due aque, e formandovi ridotti
chiusi per ogni lato. - I corpi essendo privi d'artiglieria e
cavalleria, marceranno accompagnati da certo numero di carri,
destinati parimenti a formare improvisi ripari in qualunque
situazione. Non bisogna dimenticare, che nello spazio tra Cremona e
Brescia si trova la gran massa delle forze nemiche; in mezzo alle
quali non bisogna avvilupparsi con masse irregolari, e senza
ordinamento fra loro. Bisogna sopratutto approfittare delle
molteplici linee d'acqua che interrompono il paese, difendendo e
fortificando e punti di communicazione.
Bisogna premunire Cremona, spiegando qual sia il modo tenuto dai
Milanesi nel barricare le loro città; la cui efficacia fu
provata dall'esito felice, e dalla continua impotenza del nemico.
Bisogna eccitare i Cremonesi a costituire immediatamente un Comitato
di Guerra, formato dai giovani più arditi e influenti, con
qualche uomo d'antica esperienza; ed esortarli a nutrire con assidui
proclami l'entusiasmo popolare. Il Comitato di Cremona dovrebbe
inviare immediatamente un rappresentante pressi questo Comitato
centrale. Deve provedersi di denaro, per mantenere le
communicazioni, e mettere in attività gli uomini del popolo.
Deve instituire tanto la guardia civica per la custodia della
città, quanto le colonne mobili per le operazioni
sopradescritte di campagna. Il comandante d'ogni colonna mobile si
metterà in relazione col capo dello stato maggiore generale
delle colonne mobili il sig. Giorgio Clerici.
La grandezza delle gloriose nostre circostanze deve suggerire mille
altri ovvii consigli e partiti. E sopratutto deve destare una nobile
emulazione nella primaria classe delli abitanti i quali non devono
rimanersi addietro di ciò che i loro parenti e amici fecero
in Milano.
Salute e vittoria.
23 marzo
Carlo Cattaneo
Il Comitato di Cremona fu istituito; e molte cose operò; e ne
diede ragguaglio; ma non ho la sua lettera; trovo però la mia
risposta;
"Vi si rendono grazie della cara vostra di ieri. Ciò che
avete operato merita lode; ma non perdete tempo. Il nemico è
in ritirata; e non potendo più valersi della postale di
Mantova, nè di quella di Brescia, va stentatamente
ravvolgendosi per tortuose vie verso la pianura bresciana, sia per
riescire nel campo di Montechiaro, sia per raggiungere i forti di
Mantova, questa città essendo già in potere delli
abitanti. Raccogliete in colonne mobili i più animosi fra gli
uomini che avete; avvicinatevi più che si può al
nemico per tribolarlo nella sua lenta ritirata, ch'egli non
può operare se non in ragione di sei o sette miglia al
giorno; - fategli rompere le strade sulla fronte. - Mettetevi in
relazione colli officiali, facendo loro offerta di buon trattamento,
se si arrendono. - Nei movimenti appoggiatevi ai luoghi abitati, per
non essere ad ogni evento sorpresi dalla cavalleria o
dall'artiglieria. Fatevi accompagnar da carri ingombre di fascine e
materassi, per farne barricate ambulanti. - Mettetevi in relazione
colla colonna mobile bresciana; e colla milanese e svizzera del
comandante Manara, che deve trovarsi verso Soncino, all'avanguardia
delli ausiliarii piemontesi. Operate, operate, empite la vostra
pagina, come noi abbiamo empito la nostra. Vogliate scriverci ogni
giorno.
Vi salutiamo caramente.
28 Marzo
Carlo Cattaneo
Non si lasciava di dirigere e spingere i volontarii che giungevano
d'ogni parte.
Ai bravi Genovesi accampati sulla strada di Pavia.
N. 135.
Milano, 23 marzo.
Vi siamo riconoscenti del soccorso fraterno che ci recate. Avete
caro sapere che la nostra città è salva e libera e
affatto sgombra del nemico sino da ieri sera.
Il nemico dirige le sue masse confuse e avvilite principalmente
verso la strada di Lodi, Crema, Cremona e Mantova in gran parte
già attraversate e guaste. I suoi movimenti divengono ogni
istante più tardi e difficili. Valorosi amici ! Se volete
avere la vostra parte alla vittoria, non perdete tempo, sollecitate
i vostri passi sulle vestigia del nemico fuggente.
Dio ci voglia felici, come ci volle liberi e gloriosi.
Viva l'Italia
Carlo Cattaneo - Giorgio Clerici.
Altri furono invitati a sollevare a tergo del nemico il Mantovano;
Luigi Torelli fu mandato il 24 in Valtellina, a sollecitare che si
occupasse lo Stelvio, a far atto d'amicizia coi Tirolesi dell'alto
Adige che hanno favella tedesca, a legarsi per passo d'Aprica colla
Val Camonica, e quindi pel Tonale col Tirolo italico, ove nello
stesso tempo deputavamo un cittadino di quel paese. A quei primi
giorni in Trento, ove tutte le famiglie più potenti stavano
per noi, vi erano in tutto duecento soldati. - Ci rivolgemmo perfino
al comandante dei civici di Bologna, perchè varcasse il Po, e
occupati i colli Euganei e i Berici, turbasse tosto al nemico le
strade di Padova e di Vicenza.
Non perciò fidavamo solo in quell'impeto dei popoli e nella
instabile volontà d'un principe. Il Comitato nostro doveva
essere il trapasso a un ministerio di guerra, che ordinasse un
esercito regolare. Certo era ad aspettatrsi che i ministri e
generali del re alleato mostrassero tutta la proverbiale loro
alterigia a chi non avesse fatto altra milizia che quella delle
barricate. Chiamammo dunque presso al Comitato i veterani
dell'esercito italico; molti de' quali erano già colonnelli e
generali sul campo di battaglia prima del 1814, e quando i generali
presenti di Carlo Alberto erano ancora tenenti o guardie d'onore. Il
rispetto militare che al loro grado e all'esperienza si doveva,
sarebbe stato un riparo anche alli altri cittadini.
Ma con ciò mettevansi a capi della libertà armata
uomini avvezzi dalla gioventù alla riverenza del comando
assoluto, e irrugginiti inoltre da trent'anni d'ozio. Pensavamo
ovviare, ponendo loro a lato giovani solerti, che in breve si
appropriassero il frutto di quella perizia antica. Ma la calda
gioventù non amava rinunciare alle lusinghe della bella
guerra, per incarcerarsi nelle stanze d'un ministerio; e i veterani
poi non volevano intendere qual parte d'opera la patria da loro si
aspettasse. Volevano imporre al moto spontaneo d'un popolo le
consuetudini d'un tempo d’obedienza, e le forme solenni d'un ordine
stabilito. Volevano, a cagion d'esempio, costituire subitamente un
ministerio completo in tutte le sue sezioni; al qual modo avremmo
avuto in quei primi giorni più gente nel ministerio che non
nell'esercito; poichè si stava ancora per fare il primo
reggimento. Li feci pertanto accontentare d'una sola secreteria,
colle tre sezioni che la necessità delle cose sempre vuole :
il personale, il materiale, i conti.
Ponendo in mano a quei veterani napoleonici la nomina dei nuovi
officiali, volevamo sopratutto preservarci da quella cancrena
funesta al Piemonte, d'accomodare i gradi dell'esercito ai gradi
servili di corte. E v'era di peggio. Poichè al 26 marzo, il
giorno medesimo dell'ingresso dei nostri alleati in Milano, il
governo provisorio, senza udire il nostro avviso, si era avvinto a
commettere l'istruzione del nostro esercito a officiali piemontesi
fuori di servigio. E come tali gli si mandavano poi slealmente da
Torino uomini già scacciati dall'esercito dal re; a cagion
d'esempio, un Farcito De Vinea, il quale venne messo tenente-
colonnello del primo reggimento, a fianco dell'onorato nostro
colonnello Sessa; ed ebbe poscia a dimettersi, perchè
l'Italia del popolo, publicò i documenti del suo disonore. Ed
è chiaro che quando il Piemonte dopo trenta e più anni
di pace chiamava in campo ogni sorta di soldati, li officiali
valenti e volenti non potessero trovarsi fuori di servigio: ma di
ciò si dirà diffusamente a miglior luogo.
Non solo il governo provisorio lasciava per tal modo indegnamente
avvelenare l'esercito nascente; ma propendeva a indugiarne la
formazione. Lasciava lungamente oziosi, poi sbandava, forse tremila
soldati italiani che si erano ribellati all'Austria in Cremona e
Pizzighettone, e ben altri settemila ribellati altrove. Metteva
impaccio di mille sottigliezze all'armamento. Nel primo giorno della
nostra liberazione, i nostri commessi avevano comperato in Lugano
quattrocento fucili, i soli che vi si trovassero in quel momento; e
il governo tergiversava al pagamento, onde estorcere un'agevolezza
di mezza lira per fucile; e intanto il cannone di Radetzki tuonava a
Marignano; e quella terra era in fiamme.
Noi avevamo naturalmente dato ai nostri l'uniforme verde ch'è
il nazionale d'Italia; ma il governo provisorio voleva di queto
metterci addosso la divisa dei soldati del re. Certo doleva a quei
retrogradi che risurgesse colla tradizione dei gloriosi suoi colori
l'esercito ch'essi nel 1814 avevano tradito all'Austria. E citavano
frivole scuse, ora dicendo che il panno verde non si sarebbe
trovato; ora dicendo che quello era il colore men di tutti durevole.
- Vedrà bene un giorno quella gente servile il verde della
bandiera d'Italia sventolare al sole della libertà, quando la
croce bianca e la coccarda azzurra saranno ricordi d'un tempo che
non ritorna.
La nostra gioventù non volle vestire altro colore che il
verde!
Il 25 marzo fu dato dal governo provisorio il comando del futuro
esercito a Teodoro Lechi. Negò egli ai volontarii la licenza
di combattere, citando la regola vecchia di non opporre in campo
aperto gente irregolare a soldati regolari. E fosse pure; ma siccome
non avevamo altra gente, egli era come dire che per allora non si
combattesse più. E spinse l'osservanza della sua regola fino
a lacerare li ordini, che avevamo spedito ai volontarii prima della
sua nomina a comandante. Recatomi tosto a lui per dimandargli
schiarimento del suo procedere, non appena ebbi agio ad aprir bocca
ch'egli corse ad abbracciarmi; e li altri vecchi suoi colonnelli e
commissarii mi soprafecero tutti di carezze. Non sapendo omai
più come lagnarmi: "Volete dunque, dissi loro, che quei
poveri volontarii che hanno fatto quattro marcie per avere lo sfogo
di tirare una fucilata alla bandiera austriaca, tornino ai loro
monti come sono venuti, perchè voi siete inesorabili in una
regola che non val più. Non volete che si avventurino in
campo aperto contro corpi regolari? Prima di tutto, è assai
dubbio che un esercito il quale si ritira in disordine e senza
cannonieri, possa dirsi in regola; è dubbio parimenti che sia
da chiamare campo aperto un paese tutto intralciato di campi e di
fossi, anzi di vere paludi, i mosi di Crema. E poi dove si
può dunque inseguire il nemico, se non dov'egli è?" -
I veterani terminarono coll'adattarsi al mio parere; e subito il
generale spedì a Manara e Arcioni, ch'erano a Treviglio colle
loro colonne impazienti e frementi, l'ordine d'andare inanzi. Al
mattino del 28, entrarono in Crema, nel momento che la retroguardia
di Radetzki usciva per la porta opposta. Furono primi a varcare il
Serio, l'Ollio, il Clisio; in tre giorni erano giunti sopra
Salò, e vi coglievano i nemici in atto d'ammanire una cena e
d'estorcere una contribuzione. Saliti tosto sulle vaporiere del lago
di Garda, che i bravi litorani avevano già prese,
costeggiarono per Desenzano; e si spinsero fino a bersagliare i
cannonieri nemici sulle batterìe di Peschiera. Nei primi
d'aprile tragittarono il lago; si cacciarono tra Peschiera e Verona;
e sotto il cannone nemico predavano cinquecento barili di polvere.
Il lago di Garda è il nostro confine verso la Venezia e il
Tirolo. Nella terra della patria, il campo a noi sortito era libero.
Onore ai volontarii ! Essi tennero quella frontiera, pugnando non
solo contro il nemico, ma contro li alpestri ghiacci e la più
cruda penuria. La tenevano ancora ai primi d'agosto, quando il
magnanimo re era già fuggito nel suo regno.
All'efficace e immediata formazione d'un esercito si opponevano
difficoltà morali che nessuna solerzia e costanza poteva
superare. I servili avevano desiderio e lusinga che si potesse far
senza un esercito veramente nostro. Pareva loro che bastasse
consegnare il paese al re; a lui toccherebbe poi conservarselo a suo
modo; sarebbe affar suo; volevano conquistar per procuratore
vittoria e libertà. A fronte di sì stolte e codarde
risoluzioni, non potevamo noi rimanere lungamente a capo
d'un'amministrazione di mero apparato, senza soggiacere un giorno a
vituperosa responsabilità. Vedevamo prepararsi non remoto un
finale disastro; e l'avevamo annunciato nella sala medesima del
governo provisorio fin dal 24; e con parole che allora parvero
acerbe, e che in fine furono ripetute da molti. E ora più che
mai.
Già si vedeva che in poche settimane ogni cosa rimarrebbe
assorta nel vertice dell'autorità regia. Si parlava
già di affidare il nostro ministerio della guerra a un
generale piemontese. D'allora in poi dipendeva da Carlo Alberto, e
dalli ambigui suoi interessi di principe, l'aver noi un esercito, o
non averlo.
Il governo provisorio, impaziente di por fine a quelle cose di
popolo, e di rimettere ogni cosa nella rotaia dell'obbedienza, ci
aveva già due volte invitati a sottoporre alla sua firma ogni
scritto che il Comitato di Guerra publicasse, e perfino le notizie
che solevamo dare della guerra. Voleva bendare li occhi al popolo; e
lo fece; e lo trasse seco al precipizio. Chi da quel giorno in poi
disse una parola di vero, fu additato spia dell'Austria; la
verità, era oro austriaco. Il governo che si spacciava eletto
dal popolo fra le barricate, ripudiò, al terzo dì
della sua vita, il sacro principio della publicità. Ed era,
perchè in quell'istante medesimo gli giungeva avviso che
Carlo Alberto nella sera precedente aveva deliberato passare il
Ticino. Speravano li ingrati non aver più bisogno del popolo.
L'ultimo di marzo, io e li altri tre membri del primitivo Consiglio
di guerra dichiarammo con un manifesto al popolo d'aver compiuto
quanto ci spettava. Avendo fin dal primo giorno invocato l'Italia e
la Libertà, compiemmo invocando l'Unità d'Italia: -
"Potesse Pio IX presiedere fra pochi giorni in ROMA, il CONGRESSO di
tutti i popoli italiani!"
Nel dì seguente, il governo provisorio, dichiarandoci
benemeriti della patria, intraprese tosto a disfare ogni nostro
avvisamento; decretò doversi ricomporre il Comitato di Guerra
in regolare ministerio, riordinarsi tutti li officii, riservarsi a
lui la scelta dei funzionarii. Profittò d'una malattia di
Litta, per mettere ogni cosa in mano al Colegno, e poscia al
Sobrero; ambedue piemontesi e fatti generali dal re. Fin d'allora
l'esercito e il paese non furono più nostri; le sostanze
nostre, la vita e l'onore furono in arbitrio altrui.
Ritornando dopo quei dodici giorni di vita publica al consueto mio
ritiro, non volli però lasciare interrotta una cosa ch'io mi
era posto in mente per relazioni che aveva con alcuni studiosi
Ungari. M'era persuaso che quella gente potesse cattivarsi con
qualche effetto alla nostra causa; poichè Austriaci e Croati
erano tanto i nemici suoi quanto i nostri. E siccome alcuni tra i
prigionieri e i feriti erano di lingua magiarica, proposi a Litta di
restituirli alla patria loro. Visitati a tal uopo secolui li
ospitali, scrissi tosto un indirizzo a quella nazione. -
5 aprile 1848.
"Prodi Ungari!
Fra i molti prigioni e feriti che un'assidua pugna di cinque giorni
pose nelle nostre mani, sono alcuni nativi del nobile vostro regno.
Noi vi rimandiamo quelli tra loro che appartengono all'ordine
ecclesiastico, e perchè le sacre loro persone non devono
soggiacere alle leggi della guerra, e perchè vi annuncino la
mente nostra di rendere liberi a voi, senza riscatto e senza cambio,
anche li altri vostri prigioni e feriti. A tale uopo abbiamo
visitato questi ospitali; e facciamo indagare nel deposito dei
captivi anco delle vicine città; e adunatili tutti in Pavia e
Cremona, attenderemo che mandiate vostri opportuni commissarii per
condurli con buon ordine e colle cure che il loro stato richiede, su
le vaporiere del Po e dell'Adriatico, sino al porto di Fiume. Dio li
scorga salvi e lieti ai loro focolari! Dio ha voluto che la nostra
vittoria li redimesse da una milizia ch'era una servitù.
Testimoni delle tremende angustie che il nostro popolo quasi inerme
ha superate, essi vi potranno dire a quali atti d'incredibile
crudeltà proruppero in quei giorni i satelliti dell'antica
tirannide. Quando essi vi narreranno dei vecchi, delle donne e delli
infanti sbranati e arsi vivi, intenderete da quale abisso di miseria
la providenza ci abbia salvati.
Quando vi narreranno che nondimeno il nostro popolo in mezzo all'ira
accolse come fratelli i feriti e i prigionieri, vedrete quanto sia
degno dell'amicizia di tutti li uomini generosi; e abborrirete tanto
più la diffidenza e l'odio che le volpi auliche avevano messo
tra la vostra nazione e la nostra.
Prodi Ungari ! quando nel 28 aprile 1814, quattro settimane dopo la
presa di Parigi, noi liberamente e volontariamente accogliemmo nella
nostra città l'esercito austriaco, era a condizione che un
principe del sangue di Maria Teresa ci reggesse con governo nostro e
indipendente.
In quella vece abbiamo patito trentaquattro anni di perfida
oppressione e di depredazione continua. E ciò che più
ci affliggeva si era che con indescrivibili artificii non solo noi,
ma tutta la nazione italica era fatta apparire agli occhi del mondo
una stirpe degenere e imbelle. Il sangue di trecentomila nostri
combattenti che nelle guerre francesi aveva irrigato i campi di
Colberg, di Austerliz, di Raab, di Genova, di Valenza, di
Càttaro, di Malo-Jaroslavetz, di Bautzen, di Dresda, di
Lipsia, di Hanau, di Mantova, fu perduto; perduto per il nostro
onore.
Siamo grazie a Dio, che ci concesse alfine la mitraglia di Palermo e
di Milano.
Il nostro popolo si sente ora come un gentiluomo che si è
sciolto dalla calunnia con un duello.
Questo popolo vi tende dunque la mano consacrata dalla vittoria e
pura di vendetta e di crudeltà. Egli non vi dimanda di
violare i doveri che avete verso il vostro paese. Egli vi dimanda
quella nobile amicizia che nelli antichi tempi annodava anche tra
campioni costretti dal destino a combattersi. Voglia Dio toccare i
perversi cuori di coloro che, arbitri delle sorti delle genti, le
spingono a vicendevole distruzione.
Sarebbe degno della luce dei tempi che i popoli non traessero
più la spada se non nella difesa della terra natale.
Per molti secoli l'Ungaria nella sua lutta con li Osmanli ebbe a suo
destro fianco Venezia, al sinistro la Polonia. Compagno allora di
gloria, queste tre genti furono poi prese ad un solo laccio
d'astuzia e di tradimento. Dio le voglia ancora compagne nell'armi e
nella vittoria.
Il comune nemico ora viene dal settentrione. O prodi Magiari!
ricordatevi dei fratelli Polacchi.
Ricordatevi che al di là della terra nemica, là preso
li Urali, giace nelle tenebre dell'ignoranza e della servitù
la patria de' vostri antenati. Ricordatevi eziandío quanto
dovete alla madre Italia. Fu italico il primo aratro che
solcò la terra della Teissa; furono itale le mani che
imposero al vostro Danubio il primo ponte; tutta la vostra patria
è sparsa dalle reliquie dei nostri padri. L'Italia vi
portò la fede di Cristo; l'Italia vi prestò per dieci
secoli la lingua delli altari e delle leggi, il primo vincolo della
vostra nazionale unità.
Nel nuovo diritto delle genti, tutti possiamo essere amici;
perchè tutti eguali e contenti nelli inviolabili confini
della patria.
La più cara cosa, dopo la vittoria che ci rese la
libertà, ci fia sempre la vostra amicizia. Dio vi salvi.
Eljen a' Magyar!
Tradutto in lingua ungarica, e spedito per sicura via, quello
scritto ebbe sollecito riscontro dal comitato di Pesth : - "Abusare
lo straniero delle dovizie e del sangue delli Ungari; all'annuncio
del moto italico aver essi eccitato i ministri a richiamare i loro
reggimenti; alla lettura del nostro indirizzo aver esclamato non
potersi più tolerare l'iniqua guerra; aver proclamato a nome
del popolo ungarico non esser figlio di quella libera terra chi
combattesse contro la libertà; essere loro fervoroso voto che
Italia e Polonia fossero libere, per la felicità loro e di
tutta l'Europa".-
Il governo provisorio, parecchi giorni dopochè il nostro
scritto era publico, lo adottò; e vi appose allora la sua
firma; ma già non aveva voluto assentire che si liberassero i
militari, bensì due capellani solamente; e in seguito
lasciò cadere ogni pratica. Obediva in tutto ai generali
piemontesi, i quali mirabilmente ignari di tutte quelle cose, non si
potevano capacitare dell'importanza che avrebbe avuto l'avventare
immantinente le nostre armi sulla frontiera illirica; lo scuotere li
Ungari ancora isolati e dubiosi; il chiudere in mezzo i Croati, e
trascinarli seconoi colla forza, coll'oro, e colla irresistibile
parola della libertà.
E così tutto si rimase in alcune cortesie che li Ungari
fecero sul campo di battaglia ai nostri, e principalmente ai
Toscani. Per tal modo, i popoli dell'imperio austriaco vollero
facendo da sè soccumber tutti: dum singuli pugnant, universi
vincuntur.
In quei medesimi giorni, i negozianti e manifattori d'Austria e
Boemia, riputando di loro interesse la conservazione delle provincie
italiche, volevano armare contro di noi un corpo di volontarii.
Scrissi loro a tal proposito una circolare: - "La guerra aver chiuso
le porte delle Alpi; la pace solo poterle riaprire. - Se l'Austria
non facesse una pace volontaria e pronta, ella sarebbe la sola terra
per sempre e per giusto castigo esclusa dal nostro commercio. Mai
più non entrerebbe in Italia un fiorino di sua mercanzia.
Guai alla Boemia e all'Austria, se lanciassero contro l'Italia una
sola banda di volontarii ! - Quanto al commercio maritimo, le
numerose navi di tutti i lidi d'Italia renderebbero impenetrabile
l'Adriatico, sinchè dura la guerra. Mai non entrerebbe in
Trieste e in Fiume una sola nave, se prima non avesse posto sulla
sua prora l'olivo della pace. La questione della posta delle Indie
era in nostra mano; padroni dell'Adriatico, noi potevamo
prescriverle di scegliere quel porto e quel passo delle Alpi che ci
parrebbe. - I banchieri, i negozianti, i manifattori, i capitalisti
d'Austria, Moravia e Boemia erano dunque in nostro potere per molti
e grandi interessi del presente e del futuro. Se volevano gettare i
loro capitali nella voragine della guerra, tanto peggio per loro. -
E intanto ogni commercio tra noi e loro sarebbe per sempre troncato;
e la plebe dei loro sobborghi o morrebbe di fame, o diverrebbe pei
colpevoli un terribile flagello di Dio. - Precorrendo tutte le altre
nazioni in un trattato di pace e di commercio con noi, essi
avrebbero i vantaggi di pace e di commercio con noi, essi avrebbero
i vantaggi d'una commerciale primogenitura. Se no, no! Dio ispirasse
loro buoni consigli, prima che fosse tardi". -
La plebe dei sobborghi di Vienna avverò entro sei mesi la
nostra minaccia, ma inutilmente per noi; poiché le armi
nostre erano già messe a terra dal re. E anche quello scritto
ebbe a partire colla firma di Pompeo Litta, e come cosa che
riguardasse i volontarii nemici e la guerra. Nessuno in governo
aveva incarico d'affari esteri; anzi nessuno aveva portafoglio
proprio, tranne Litta per la guerra; e anch'egli per fatto nostro; e
non durò a lungo. Il Casati e il Durini stavano saldi al
principio austriaco della collegialità, affinchè, in
quella confusa promiscuità nessuno avesse a rispondere col
suo nome delli atti suoi. Dal quale principio venne in molta parte
la nostra ruina.
VII
La politica di Carlo Alberto
Carlo Alberto era mosso alla guerra da molte ragioni.
Voleva anzi tutto continuare l'avita tradizione della sua casa di
scendere coi secoli e col Po. Giungendo sino alla foce del Mincio,
acquistava negli Stati di Milano, Parma e Modena quattro milioni di
abitanti, e raddoppiava, o poco meno, il numero dei sudditi.
Voleva poi salvare in Italia la parte retrograda, a cui
nell'ebbrezza d'una mendace popolarità era sopraggiunta
minaccevole la fuga di Luigi Filippo e di Metternich. L'improvviso
risurgere della republica francese apriva il campo a un profondo
rimutamento di tutta l'Europa. La corte di Torino doveva supplire
all'officio che la vacillante Austria non poteva sostenere omai
più, di proteggere e appuntellare le opinioni stantìe.
Lo Stato lombardo-veneto, giovandosi della debolezza estrema alla
quale la sapienza falsa del Metternich aveva condotto l'Austria,
doveva scuotere l'odiato giogo. Arbitro delle sue sorti, ben poteva
ritenersi contento all'acquisto dell'indipendenza. Ma poteva
altresì mettersi con impeto sulla via della libertà.
Ora, tutte le istituzioni in Italia hanno da tremila anni una radice
di republica; le corone non vi ebbero mai gloria. Roma, l'Etruria,
la Magna Grecia, la Lega di Pontida, Venezia, Genova, Amalfi, Pisa,
Fiorenza, ebbero dal principio republicano gloria e potenza. Mentre
in Francia il vocabolo di republica suona tuttavia straniero, nella
istoria d'Italia risplende ad ogni pagina; s'intreccia alle memorie
del patriziato e della chiesa; sta nelle tradizioni delle genti
più appartate. Gridar la republica nelle valli di Bergamo o
del Cadore è così naturale come gridare in Vandea viva
il re! L'avversione d'una parte dei nostri patrizii per la republica
essa è di recente origine; provenne loro dagli stranieri; e
per effetto d'avvenimenti che non appartengono alla patria nostra.
La republica era dunque all'usurpatore di Genova più
pericolosa vicinanza che non fosse il cognato suo l'arciduca. Pare
anzi certo che in un manifesto a tutte le corti d'Europa il re
attestasse, che invadendo il lombardo-veneto, egli intendeva solo
impedire che vi surgesse una republica; la quale poi di terra in
terra, e per mera virtù d'imitazione, avrebbe abbracciato
tutta la penisola. Temeva però del pari che vi si annidasse
qualche nuovo principe.
Il nome della libertà attraeva li animi nostri verso la
Francia. Necessitava dunque d'intercettare quella vibrazione
magnetica che moveva dalla Transalpina alla Cisalpina. Tale è
l'officio avito e perpetuo della casa di Savoia. Doveva ella
pertanto precorrere in Italia le influenze francesi; volgere a suo
prò quel tedio della gloria, quell'affettazione di vulgare
interesse, onde Luigi Filippo avevali infetti, e per la quale
s'erano sviati dall'adempiere il voto fondamentale della loro
rivoluzione, ch'è d'essere occasione di libertà al
genere umano.
Carlo Alberto non si era tampoco avvisato di riconoscere la rediviva
republica. In sostanza, quel principato savoiardo è una
reliquia della defunta feudalità francese ; v'è dunque
fra esso e la republica un odio domestico e necessario. E' meno
amaro a quella corte l'essere calpestata dall'Austria, che protetta
dalla Francia. Meglio perire che implorare quelli aborriti soccorsi.
Far da sè.
Fu con quella fatale parola che Carlo Alberto si strinse in alleanza
con noi(3).
Codesta avversione al chiamar partecipe della nostra guerra la
Francia, doveva anzi aggiungere stimolo a questa di parteciparvi,
porgendole indicio d'una grave importanza che per essa vi fosse.
Rimovendo anche ogni geniale impulso, la Francia non poteva vedere
con pace che le forze d'Italia cadessero in mano di chi potesse
torcerle contro di lei. Se la Francia profonde nell'esercito e nella
marineria più d'un milione al giorno, egli è
perchè sa d'avere nemici molti e potenti. Ora, i nemici suoi
sono i nostri; noi siamo l'antiguardo del popolo francese.
Dovendo Carlo Alberto affacciarsi a Milano come conquistatore in
fatto, e come campione del popolo in apparenza, era in
necessità d'affastellare in uno l'ossequio e la
libertà : le cose cadenti e le nascenti : la croce del feudo
di Savoia e il tricolore del popolo d'Italia(4). Doveva prestare in
Torino alla fazione servile un'orditura ch'ella no poteva compiere
da sè medesima in Milano; e intanto doveva illudere di
superbi pensieri i giovani; dar loro a credere che all'ombra
dell'esercito regio l'Italia potesse d'un atto levarsi, e assidersi
poderosa fra le nazioni; fargli prendere a sdegno l'amistà
della republica e anco il nome. Infine doveva, al modo di Luigi
Filippo, comprare con le cupidigie e le vanaglorie i capi del
popolo: o al modo gesuitico, metterli in voce d'uomini esorbitanti e
strani, finchè maturasse l'ora d'opprimerli.
Tuttociò s'andava da lunga pezza maneggiando a Parigi, a
Milano, a Firenze, a Roma; il re intitolava cavaliere ogni scrittore
che lo lodasse; faceva offrire gradi e cariche tanto più
inverecondamente quanto più alcuno gli era avverso; si era
racconciato colli esuli italiani d'ogni setta e d'ogni terra, e con
quei medesimi ch'egli aveva in altro tempo dannati al patibolo.
Giovanni Berchet che aveva messo in canzone la viltà sua,
diveniva suo raccomandatore ; e Gioberti deponeva la dignità
di filosofo, per farsegli facendiero. Colla promessa d'una guerra
vendicatrice dell'Italia, aveva il re dissipato da quelle anime
infantilmente credule, o senilmente stanche, la religione della
libertà e la memoria dei tradimenti e delle persecuzioni.
Pareva aver rifatto la sua fama; e quasi la persona; onde era in
tempo a ricorrere da capo l'antica via.
Il Piemonte era agitato dai moti d'Italia e da quelli di Francia;
Genova pareva prossima a ribellare per rimbalzo della ribellione di
Palermo, avendo ella in pari dispetto la dominazione di Torino, che
i Siciliani quella di Napoli; l'unità principesca e
ministeriale ripugna alla natura italica, indelebilmente municipale
e federale. Carlo Alberto, per farsi accettabile a Milano, aveva
finalmente nell'8 di febraio promesso a' suoi popoli un patto
costituzionale. Aveva già errato egli nel lasciare che il re
di Napoli lo precorresse di dieci giorni in siffatta concessione;
poichè pareva pigliarselo a modello, cedere alla voce solo
della rivalità o della tema. Per ogni detrimento che la
costituzione potesse apportare ai privilegii dei cortigiani
piemontesi, la conquista medesima della Lombardia doveva fornire
abondevole risarcimento e lucro. Era, in somma, necessità
varcare il Ticino. Pure il re al 18 marzo tentennava ancora. La
mitraglia in quel momento vomitava in Milano incendii e morte; egli
lo sapeva. E si contentava di spedire a noi il Martini, a chiedere
non so quale licenza di recarci aiuto. Il rimbombo del cannone udito
per cinque mortali giorni entro la frontiera piemontese, teneva in
dolorosa angoscia i popoli, quando giunse loro come lampo elettrico
l'annuncio della nostra libertà. Sgomentato dall'esplosione
dell'unanimità popolare, persuaso dell'impossibilità
di più lunghi indugi, timoroso di vedere surgere in Milano
una republica o un principato, che gli levasse quell'ambita
provincia, egli, che sino a quel dì aveva mandato all'Austria
parole d'amicizia, egli, che contrastava allora allora le armi ai
volontari genovesi e piemontesi, e faceva arrestare sul lago
Maggiore i Milanesi stessi accorrenti colle armi a salvare le
straziate loro famiglie, egli segnò finalmente alla sera del
23 di marzo il manifesto di guerra(5).
Aveva ben diritto io di esclamare il dì seguente, nella sala
del governo provisorio: Viva il Piemonte e infamia a Carlo Alberto!
Certo che non aveva momento di temporeggiare. Appellati alle armi
per noi tutti i popoli e principi d'Italia, si sarebbero trovati
seco sul campo. Il nostro destino non rimaneva allora in arbitrio
solo di lui; riservato a un congresso dell'Italia, e forse
dell'Europa, sarebbe stato argomento a disputa grave e solenne;
dalla quale illuminato il popolo sarebbe venuto a deliberazione che
potesse almeno dirsi valida. E tutti li altri principi, per porre
limite all'ambizione dell'alleato, dovevano favorire la nostra
libertà. Per fare adunque tutta sua la nostra vittoria,
doveva correre ad accamparsi sul Mincio, primo se poteva, e solo.
- E doveva oltrepassare il Mincio? -
L'ambizione è come l'avarizia; cupidigie senza confine, che
il timor solo o l'impotenza raffrena. Carlo Alberto pur troppo
appetiva assai più; e i satelliti suoi parlavano già
di spossessare anche i principi che lo avevano preceduto nel
promettere ai popoli la libertà. E Gioberti, con sottigliezza
da disgradarne i sofisti dell'era macedonica, aveva appuntato
l'arguzia che l'unione era meglio che l'unità. Insomma la
servitù di Milano era avviamento all'obbedienza di tutta
l'Italia. Li ambasciatori, i commissarii ambulanti, i vecchi
partigiani traditi sempre e sempre fiduciosi, si spargevano come
locuste per tutta la penisola. Appiccavano briga coi Toscani, per
certi poveri casali, ascosi fra i castagni dell'Appennino; tentavano
il popolo di Livorno e li avvocati di Firenze; tessevano pratiche
per furare Bologna allo Stato Romano; quei nuovi Guelfi del conte
Balbo stavano per farsi scommunicare come vecchi Ghibellini. Ma poi
facevano votare al secondogenito del re la corona di Sicilia,
inalzando futuri ostacoli in Palermo a quell'unità medesima,
nel cui nome volevano prendere Firenze e Milano.
Convien dire che la casa di Savoia fosse già ebra delle
future vittorie, se si dava a sperare che tanti popoli e principi
correrebbero ciecamente a perigliarsi, per farla grande e infeudarsi
a lei. Nè a ciò le bastava plauso d'adulatori e di
sofisti; ma doveva attendere il giudicio dell'Europa; la quale
appena forse le avrebbe fatto indulgenza del suo acquisto di
Lombardia. Per verità si era già notato da molti, e
più dai militari, come questa regione fosse dell'imperio solo
un'appendice che da tre lati non lo toccava affatto; fosse
interrotta da alpi e fiumi e laghi anche dove lo toccava; malagevole
pertanto a occuparsi, impossibile a premunirsi. Ma oltrepassare il
Mincio, era altra cosa. Perocchè il Tirolo Italico era
avvinto alla federazione germanica; e la Venezia, congiungendosi
alla Liguria, avrebbe costituito un nuovo Stato Maritimo, che mutava
le condizioni dell'Inghilterra nel Mediterraneo.
Se li amatori della libertà d'Italia avevano avverse all'alta
impresa le potenze settentrionali, non avevano almeno contrarii li
interessi naturali delle republiche. Non così li amatori del
nuovo regno. Poichè li Svizzeri avevano bensì caro
l'allontanamento dell'Austria, tanto infesta alla loro pace; ma non
potevano per ciò desiderare che, colla sottomissione di
Milano, tutta la loro frontiera meridionale, dal Jura al Tirolo, e
le vie dei due mari, venissero in arbitrio della sola corte di
Savoia, nemica della libertà, intollerante alla religione
altrui, e cresciuta necessariamente in superbia col crescere della
potenza. Ed è perciò che nello stesso giorno in cui
l'esercito di Carlo Alberto varcava il Ticino, li ausiliarii
Svizzeri avevano scritto una protesta - "contro l'occupazione
militare del paese per la casa di Savoia, e contro il disegno
già palesato dal governo provisorio di fare una sola famiglia
colla Sardegna". E alcuni dei più autorevoli uomini di stato
di e guerra nella Svizzera, al primo annuncio della ribellione di
Milano, parlavano di scendere con un esercito in favore della
libertà; ma visto come si volesse solo mutare di re, si
rattennero. E fecero sdegnosi con noi; e assai più che
onestà non vorrebbe. E il re fece dir loro dall'Inghilterra
che non li voleva.
La republica francese poi ben vedeva che Carlo Alberto non potrebbe
mai esserle amico; poichè oppressore diuturno in casa sua
delle idee libere, doveva odiar la nazione che le andava predicando.
Nè la Prussia, nè l'Austria, nè la Russia
potevano odiare al pari di lui la Francia, giacchè da
un'invasione dei Francesi non avevano come lui a temere di vedere
sconvolto da capo a fondo il regno.
Per tal modo Carlo Alberto non poteva giovarsi nè dei re,
nè delle republiche.
La sua politica era piena di contradizione. - S'egli considerava
solo l'Italia, doveva afferrare il principio della
nazionalità, andare avanti risolutamente, nè fermarsi
più sino alla cima delle Alpi. - Se considerava l'Europa,
doveva mostrare che nell'occupazione della Lombardia procedeva quasi
contro animo, e nell'interesse commune dei principi per porre
ostacolo al nascimento d'una republica. Doveva pertanto andar con
misura; non parlare delle Alpi, non toccare il Tirolo, e nemmeno la
Venezia. Doveva in somma attingere i suoi disegni di guerra nelle
convenienze della politica, non nelle regole della guerra. Non era
un capitano che avesse solamente a vincere. Era un re.
Pertanto non solo gli era d'uopo rattener l'impeto popolare entro i
claustri dello Stelvio e del Tonale; ma soffrire in pace che la
linea del nemico circuisse l'estremità settentrionale del
lago di Garda, minacciandogli dalle valli del Clisio la sinistra e
le spalle. Perocchè il diritto europeo aveva sancito nel
congresso di Vienna che quell'ente irrazionale, parte tedesco e
parte slavo, che si chiamava Confederazione Germanica, si
distendesse fin in qua di quel lago, italiano più che mai,
ombroso d'oliveti e di cedri, e consacrato dalla musa di Catullo.
Non poteva dunque corrispondere all'invito della bellicosa gente del
Tirolo. E siccome i nostri volontarii erano usciti di Milano col
proposito in mente di penetrare appunto in quella terra, e
rivendicare i confini d'Italia là dove la natura li ha posti
e la ragione li addita, egli doveva preporre a quell'impresa
condottieri suoi fidi, i quali la sventassero e la menassero a male,
da che impedirla non si poteva.
Egli si era messo in altre spine per le fallaci speranze che
l'avvicinarsi dell'esercito suo faceva sorgere nelle città
venete. - Come campione della nazionalità e dell'indipendenza
doveva risolutamente e ad ogni costo salvare quelle città,
solo perchè italiane, e senza dettar loro patto alcuno;
nè poteva stringer pace che lasciasse l'Austria sul Mincio. -
Come regnante e membro della santa alleanza, doveva, in prezzo del
soccorso, esigere che le città venete ripudiassero il
principio republicano, e abbandonassero Venezia, ove questa pure non
facesse divorzio colle tradizioni della passata sua
sovranità. - Come conquistatore della Lombardia, e bisognoso
di farsi perdonare dalle altre corti quella rapina, doveva immolare
le città venete, e far sul Mincio una pace da egoista. Anzi
gli era opportuno far seminare da' suoi generali il disordine nelli
alleati di Romagna e di Napoli; essendochè non potevasi far
la pace sul Mincio, finchè per essi si continuasse la guerra
di là del fiume. Diveniva pertanto suo piano di guerra: -
rimaner sempre intorno al Mincio, sempre affettando di voler
avviarsi alle Alpi, - far la guerra di principe, sempre affettando
di far la guerra di nazione. Tristo e temerario pensamento, privo di
gloria e pieno di pericoli; poichè bisognava esporsi a tutti
i casi della sconfitta, senza tentare tutti i casi della vittoria.
Questa politica ancipite e mozza è nei reali di Savoia
naturale e antica; e non è meraviglia se camminando senza
volontà chiara e fra perpetue contradizioni, quegli ipocriti
spesero dieci secoli ad acquistar quattro tappe di regno. Se Carlo
Alberto si fosse fatto sinceramente e deliberatamente campione
dell'Italia, senza più badare a ingordigie o paure di
principe, avrebbe mirato a dirittura alle Alpi; avrebbe difeso
fraternamente le città venete, armato il Tirolo, il Cadore,
il Friuli, l'Istria, la Dalmazia, affrontato Nugent sull'Isonzo,
costretto i Croati a cader di fame sulla squallida loro frontiera.
Vittorioso, discendeva le Alpi arbitro e re. Vinto, non aveva le
amarezze e le ignominie d'un'ambizione delusa.
Il re doveva accettare il consiglio che, pur troppo contro l'animo
nostro, gli mandavamo dal mezzo delle barricate: esser generoso coi
generosi. - Ma non appena aveva trapassato la frontiera: non appena
i titubanti suoi scorridori avevano raggiunto i vittoriosi
volontarii nostri sul Benaco e sul Mincio : e già stendeva la
mano sleale a mendicare l'anticipata paga delle sue fatiche,
facendoci bassamente intendere ch'egli sino a quando quel prezzo non
fosse chiaramente pattuito, non farebbe opera decisiva. Vaneggiava
che la vittoria rimarrebbe aspettando sempre il suo regal
beneplacito.
Intanto i suoi satelliti si maneggiavano in Piacenza, per fargli
decretare prematuramente la sovranità di quello stato, in
luogo del Borbone, come se un altro Borbone non regnasse in Napoli.
Il quale, costretto parimenti dal volere dei popoli, spediva pure
soldati in difesa della causa italiana. Onde, fin da quei giorni mi
ricorda d'aver rimproverato a certi settarii di Carlo Alberto, che
quelle brighe loro avessero già spento nel nascere la lega
dei principi d'Italia, onde Carlo Alberto si ridurrebbe a sostener
da solo e con forze inadeguate la nostra guerra. - "Come potete mai
sperare che il re di Napoli si presti ora a servire le cupidigie di
un altro re? Se foste suoi consiglieri, potreste voi esortarlo ad
aiutare il principe che gli spoglia i parenti? Il re di Napoli non
ha fama di mansueto e maneggevole; ma se fosse pur tale, potrebbe
mai porgere la mano al nemico della sua famiglia?" - Ora, chi diede
cagione a Ferdinando di rompere la lega e togliere dalla nostra
alleanza i suoi soldati, lo pose necessariamente in contrasto con
coloro che l'avevano costretto alla guerra. Egli non poteva uscire
dalla lega, senza entrare in una sanguinosa reazione. Dopo i quali
fatti, è vano indagare se nella strage che in quei giorni
afflisse Napoli, il primo colpo venisse dalla mano d'un cittadino o
d'un provocatore. La precipitosa ambizione di Carlo Alberto aveva
reso inevitabile il luttuoso conflitto. Sarìa stata ben
maggiore onestà, ed eziandío maggiore avvedimento, il
farsi conciliatore tra Ferdinando e i Siciliani, affinchè in
quel fatale momento nel quale da un pugno di soldati poteva
dipendere la salute e l'onore d'Italia, le forze tutte d'un regno di
otto e più millioni si fossero applicate alla nostra guerra.
Ma parve più bello a Carlo Alberto il soffiare in quelle
fiamme, per aver poi modo a intrudere la sua casa sul trono di
Sicilia. E così li strazii di Napoli e di Messina pesano
quasi egualmente sull'anima d'ambo i re.
Senonchè, l'effetto si fu che, essendo dimostrato impossibile
il tenere in freno e in concordia i nostri principi, fu dimostrato
altresì non potersi rifare l'Italia se non colla diretta
unione dei popoli. - Ed è il solo frutto vero di quella
politica torinese, tanto falsa, quanto temeraria e ostinata.
Presi a quei lacci i membri del governo provisorio, non intendevano
in quali difficoltà stessero per avvilupparsi, coll'adottare
la proposta di fusione della Lombardia col Piemonte, vale a dire,
l'assoluto sacrificio del principio popolare e federale. Invaniti
d'esser partecipi d'un gran raggiro principesco, e già
plaudendo a sè medesimi, quei malaccorti si figuravano di
portar d'un tratto in Milano e in mezzo al loro fortunato
conciliabolo, il trono di Savoia, non antivedendo li infiniti
ostacoli che lo avrebbero impedito.
E per verità se quella corte si fosse trasferita subitamente
in Milano, avrebbe tratto seco le famiglie che la compongono, e
quelle che traggono da lei sostentamento. Ed ecco ricader tosto a
condizione provinciale quella città di Torino, fatta grande
per forza artificiale d'una corte che in quella assoluta obedienza
poteva tutto e faceva tutto.
Ma Carlo Alberto avrebbe poi voluto desolare in tal modo la sua
città? immolarla a Milano? obliare li interessi di re, fino a
torsi da quella salda rocca della feudalità e del principato,
per edificare sovra una mobile arena? disertare un popolo educato
dai secoli ad ereditaria devozione, per un popolo incredulo e
raziocinatore : trapassato e feltrato per ogni maniera d'inganni e
disinganni : il quale abbisogna solo del favore del secolo e d'un
breve agio di tempo, a svolgere nel suo seno una possente e indomita
democrazia? Non sarebbe far come Napoleone, quando pospose la donna
del suo amore alla principessa non curante e infida? - No! Carlo
Alberto non avrebbe mai sbarbicato dalla terra di Piemonte l'arbore
annoso della monarchia, per farne in Milano un palo senza radice.
Ora, se Torino doveva rimaner capitale, toccava dunque a Milano di
esinanirsi a vita provinciale, altra difficoltà non minore.
Si supponga per un momento che Brusselle, unita alla Francia,
volesse farsi capitale di Parigi. Egli sarebbe assurdo, quando anche
Parigi avesse un quarto solamente della presente sua popolazione. Or
bene, altretanto era assurdo che Torino potesse primeggiare in
Italia sovra Milano.
Hanno talune città un tempo di fortuna, ma poi decadono,
senza più risurgere. Ma tali altre città, dopo
qualsiasi lutto, risorgono sempre a novelle grandezze. Egli è
perchè la potenza loro non proviene da fatto d'uomo, ma da
cause materiali e di natura.
Tra siffatte città è Milano. Fin dall'era celtica era
essa principale nell'alta Italia: Mediolanum Gallorum caput. Divenne
poi convegno della civiltà romana; Virgilio vi andava
scolare: æmula Romæ. Nei bassi tempi, la chiesa
ambrosiana fu la sola che avesse lena di resistere a Roma; serbava
lungamente le nozze ai sacerdoti; e ancora oggidì tiene un
documento d'apostolica libertà nel suo rito orientale. Nel
risurgimento, il popolo di Milano fu il primo d'Europa a serrarsi in
fanteria contro la cavalleria feudale; soggiogò anzi a legge
scritta le consuetudini arbitrarie dei baroni, libri feudorum;
disfece l'imperatore in pugna campale; spianò le castella;
ricacciò la feudalità in una lista di terra lungo i
monti del Friuli, del Tirolo, del Piemonte, del Monferrato,
dell'Apennino. Quando l'Italia trapassò ai dittatori
ghibellini, il signore di Milano per poco non si coronò re
d'Italia. Rimasta poi quasi senza Stato, pur si trovò alla
calata di Bonaparte la sola città ch'egli potesse far capo
della sua republica e del suo regno, quando di Torino faceva senza
ostacoli un dipartimento francese. Al ritorno del dominio austriaco,
Milano rimase seggio delle nuove lettere e del pensiero nazionale.
Alla sua ribellione, si levò in armi tutta l'Italia.
L'interesse che ha qualunque città di non divenire provincia,
le consuetudini d'indipendenza che le stesse famiglie cortigianesche
contraggono dal viver lontano dalla corte, lo spirito democratico
del secolo, l'aria di libertà che vien tratto tratto di
Francia, ogni cosa insomma, avrebbe contribuito a far di Milano,
subordinata dai brigatori a Torino, la indomita città
dell'opposizione.
Quanto più il regno fortissimo si sarebbe dilatato in Italia,
tanto più centrale si faceva la posizione di Milano, tanto
più strana quella di Torino. E' in Milano che le grandi vie
mercantili s'incrociano, per una configurazione di terreno che la
politica non può mutare; quivi la navigazione dell'Adriatico
e del Po si collega a quella dei grandi laghi; quivi le locomotive
possono indirizzarsi da un lato all'Adriatico, dalli altri verso il
Mediterraneo e il Reno, i passi dell'Alpi e dell'Apennino; quivi la
congerie delli interessi commerciali si sarebbe venuta accumulando
intorno al centro dell'opposizione. No, era troppo forte impresa per
Carlo Alberto ridurre Milano alla umile condizione di Genova.
Nè li occhi della polizia, nè le mani dei soldati,
potevano farlo in siffatte condizioni sicuro del suo proposito, se
non giungeva a intercettare a Milano le spontanee fonti della sua
potenza. Sarebbe stato mestieri sottoporla a meditata e inesorabile
oppressione, compiendo quel decreto d'artificiale decadimento a cui,
per farla docile a Vienna, l'aveva indarno condannata l'imperatore
Francesco: Milano deve decadere. Il primo passo si era già
fatto il 1 di maggio, molto prima che si proponesse la fusione,
quando Giacinto Collegno, classificandola piazza militare di seconda
classe, la subordinò quetamente a Torino.
Qual sarebbe stato fra Torino e Milano l'esito del conflitto?
E' una delle quistioni codesta, il cui sciogliemento si attende
talora per secoli. Ma un esito molto ovvio e naturale sarebbe stato,
che le provincie di nuovo acquisto avrebbero aderito a Milano,
sollevandosi contro quell'insolita capitale, e quella retrograda
corte. E allora, in uno ai soldati del re, correvano pericolo
d'esser cacciate anche le temerarie famiglie, che in
quell'occupazione militare avevano cercato un sussidio all'imponente
loro ambizione. E forse la guerra civile avrebbe precorso il termine
della guerra straniera.
E fors'anche quel moto non sarebbesi circoscritto alle nuove
provincie; poichè molte eziandío delle presenti terre
del Piemonte sono antiche e vicine membra dello Stato di Milano, e
ricordano ancora quei vincoli aviti e geniali. Onde nei primi giorni
della nostra libertà, quando le città finitime si
volgevano tutte a noi con festivo saluto, Alessandria
rammentò d'essere "quasi figlia ai Milanesi"; e Valenza,
d'avere con noi partecipato "al giuro di Pontida"; e Vercelli si
disse "gloria d'avere appartenuto all'Insubria". A Genova poi si
parlava aperto di farsi appoggio in Milano contro la poco amata
Torino. Perlochè quando ebbe compimento la sudata fusione di
Milano col Piemonte, Torino palesò certa inquietudine, e poco
meno che pentimento, quasi si sentisse sull'orlo d'un vortice il cui
centro era Milano. Ma Milano non parve farvi mente: e perchè
in quel tempo era presta a obliare ogni cosa per l'alto obietto
dell'indipendenza: e perchè forse era conscia della sua
forza, e la supremazia di Torino non le pareva evento da temersi. Si
sa che Carlo Alberto, il quale all'esercito veramente pensava solo
alla politica, uscì sovente a dire che Milano gli dava a
pensare!
Come re Carlo Alberto, era avverso ai nostri volontarii, i quali
potevano spargerli nell'eserciti pensieri di libertà; come
conquistatore, era non meno contrario ai nostri soldati regolari, i
quali avrebbero potuto, dopo la guerra, essere d'ostacolo alla
soggezione in cui ci doveva tenere. Non pago d'averci imposto
officiali che non potevano incutere rispetto, nè potevano
fondare nei nuovi reggimenti una virile e spontanea disciplina,
volle ancora che ogni cosa la quale concernesse l'ordinamento
dell'esercito fosse in sua propria mano; e perciò fece
consegnare ai suoi generali il portafoglio della guerra. E il primo
avvedimento di quella losca politica si fu, di tener fuori dai nuovi
reggimenti i giovani più generosi e culti, relegando in
battaglioni separati quanto più si poteva degli studenti
d'università, di licei, di seminarii, nonchè delle
guardia nazionali che volevano aver parte nella guerra, e le bande
dei volontarii che difendevano la frontiera tirolese, e lo stesso
battaglione delli istruttori, che pure erasi divisato all'uopo
appunto di somministrare officiali all'esercito. Queste segregazioni
si conducevano in modo che paressero spontaneo effetto dell'ardore
di quella generosa gioventù; ma nulla si faceva perchè
non avvenissero. Nei deserti quadri dei reggimenti si donavano
intanto i gradi al più inverecondo favore. Uomini senza
studii e senza pratica d'armi : inesperti impiegati del ministero,
il merito dei quali era stato solamente d'aver avuto mano in qualche
frivola dimostrazione: uscirono fra i publico stupore rivestiti
improvisamente di cospicui titoli militari. Li stessi officiali
piemontesi non dissimulavano una giusta disistima per quelle
maschere militari, benchè di loro fattura.
Ma per essere più certi dell'intento loro, i ministri di
Carlo Alberto, avevano per convenzione col governo provisorio
intercetti i denari che dovevano sopperire alla fondazione del
nostro esercito.
E qui viene necessario accennare anche i diportamenti del governo
provisorio. Il che poi fa sempre continuazione alla politica del re,
essendo stato quello il suo più docile istrumento.
VIII
Il Governo Provvisorio
Un articolo della convenzione medesima del 26 marzo, che aveva
chiamato ad ammaestrare il nostro esercito li officiali disimpegati
dal re, mise a nostro carico "ogni sussistenza dell'esercito".
Inoltre, un decreto del 1° aprile, con insolito esempio,
autorizzò senza verun confine tutti i comuni ad incontrare le
spese che occorressero pel mantenimento delle truppe sì di
stanza che di passaggio, a prender denaro a mutuo senza limite alla
misura dell'interesse, e a requisire le derrate necessarie; bastava
che le somministrazioni all'esercito del re fossero giustificate con
ricevute dei capi; l'ammonto verrebbe poi rimborsato ai comuni dalla
nazione.
Una sì larga promessa, contratta senza determinare il numero
dei soldati, senza necessità, senza ponderazione, anzi
all'insaputa dei cittadini e senza facoltà sufficienti, dai
municipali d'una città del regno, - poichè le
provincie avevano ancora in quei giorni separati governi - fu la
chiave di quella pubblica povertà d'un paese ricco, di quella
fondamentale impotenza della Lombardia, che parve ai cittadini
inesplicabile arcano, e più d'ogni altra cosa
contribuì a disarmarli ed avvilirli.
Senza qui mentovare le ingenti somme che vennero contribuite dai
municipii e dai comuni, costò direttamente al tesoro quella
promessa, in quattro mesi, più di 15 millioni di lire
correnti. Ora, il nostro incasso ordinario essendo di 77 millioni
incirca, non poteva ne suddetti quattro mesi riuscire se non da 25 a
26 millioni. Perlochè, difalcata la sussistenza dell'esercito
piemontese, rimaneva una decina di millioni; e questa pure andava in
gran parte a smarrirsi nelle spese di percezione. E così non
v'era denaro nemmeno per le spese ordinarie di pace. E inoltre era
ad aspettarsi che pel turbamento generale dei traffici e degli
officii, inaridisse notabil porzione anco delle solite entrate;
tanto più che il nemico depredava barbaramente la provincia
di Mantova, e vi poneva ostacolo al commercio colla Venezia e
coll'Adriatico onde viene parte dell'introito alla finanza.
Solamente per l'interesse quadrimestre del Monte dello Stato
necessitava poco meno di tre millioni. Il governo provisorio si era
dunque reso impossibile il pagamento delli interessi. E in
conseguenza, non tardò due giorni a palesare il paese in
fallimento. Senonchè il Casati, colla circollocuzione
gesuitica a lui consueta, significò la cosa come affatto
innocente, dichiarando coll'avviso del 28 marzo, che "la prefettura
del Monte dello Stato era conservata, e che verrebbe con apposito
decreto fatto conoscere il giorno in cui ripiglierebbe il corso
delle ordinarie sue operazioni". Queste operazioni ordinarie, vale a
dire i pagamenti, non si ripigliarono più!
Nessun disordine poteva esser maggiore. Il governo austriaco, per
appuntellare il malfermo suo credito, aveva fatto impiegare in
quelle carte i capitali dei luoghi pii, di molte altre publiche
instituzioni, dei pupilli, e di quanti avessero a fare depositi e
sicurtà per pubblici contratti. E non era un valsente di
Borsa scaturito da imprestiti venturosi. La rendita del Monte
derivava per lo più da risarcimenti con difficili prove
avverati, e spesso iniquamente mutilati, e da altri buoni titoli; ed
era assicurata nel trattato di Vienna sul regno lombardo-veneto, col
patto medesimo della sua fondazione.
Poco invero doveva importare a Carlo Alberto, che, colla fermata
delli interessi, i pupilli rimanessero improvisamente affamati, e i
luoghi pii lasciassero destituiti e vagabondi i loro clienti. Ma
doveva bene importargli alquanto di non guastarci a bella prima il
credito, senza il quale, nei tempi difficili che correvano, non era
a sperare imprestito; nè, senza imprestito ben pronto e ben
largo, potevamo improvisare il nostro esercito. Ora, il tenerci
privi d'esercito era il punto al quale tendeva in quel tempo la
politica insulsamente scaltra del re. Il quale mirava sempre fisso
alla servitù della Lombardia; non alla libertà
dell'Italia.
Ma ben più strano era che il governo provisorio, assediato da
ogni maniera di bisogni, con una lega di principi resa vana
dall'ambizione del re, col regno per metà occupato dal
nemico, colla guerra lasciata crescere ogni giorno, senza soldati
proprii, senz'armi, senza finanze, senza credito, si studiasse
d'aggravare ancora più le pubbliche difficoltà,
coll'abolire il testatico, il lotto, il dazio della catena, il dazio
di transito, l'esazione delle tasse arretrate, il bollo delli
avvisi, e in gran parte il dazio del sale e del zucchero, il porto
delle lettere, la tassa della caccia, il dazio di magazzino, il
bollo della carta, e il dazio dei vini piemontesi, delle lane e di
molte altre derrate. Sarebbe bastato il decretare tutti codesti
alleviamenti per il primo dì dopo la guerra vinta; e tener
sempre l'animo del popolo confitto in questa meta suprema.
Qual era in ciò la mente dei membri del governo?
Avevano essi dichiarato il 29 marzo di voler "alleggerire il peso
delle publiche imposte a favore delle classi men doviziose". Pareva
a tutta prima che volessero solamente accettar l'aura popolare,
allettare a sè con quei vani ristori la moltitudine credula,
sicchè non avesse a prestar orecchio alli amici della
libertà. Pareva a tutta prima che volessero solamente
attaccar l'aura popolare, allettare a sè con quei vani
ristori la moltitudine credula, sicchè non avesse a prestar
orecchio alli amici della libertà. Ma venne poi chiaro che
volevano proprio avviluppare i cittadini in una rete d'inestricabili
angustie, per costringerli assolutamente a darsi subito al re. E
infatti, nel preambolo al decreto del 12 maggio, nel quale
comandavano al popolo, contro la data fede, di votare intorno
all'immediata sommissione a Carlo Alberto, gli provavano la
necessità di quel duro e vile sacrificio, citando appunto la
guerra grossa, le sussistenze dovute alli alleati, le finanze
bisognevoli di rimedio pronto ed efficace, le influenze ostili della
diplomazìa, le provincie venete in gran parte già
rioccupate dai barbari. - Le quali cose tutte provenivano dalla
convenzione del 26 marzo, dalla maliziosa dissipazione delle finanze
e del credito, dall'usurpazione di Piacenza, dall'abbandono del
Tirolo e del Friuli, e dalla sciagurata subordinazione della guerra
del popolo alla politica del re.
Dopo avere colla succitata convenzione svuotato il tesoro e spolpati
i communi, il governo, nel dì seguente, 27 marzo, aveva
proveduto a rendere impossibile ogni considerevol prestito,
dimandandone bensì uno di 24 millioni, ma soggiungendo che
non intendeva pagare interessi. Allontanò così tutte
le serie ed efficaci esibizioni sì dei cittadini che dei
forestieri; e mutò il prestito in un'elemosina alla patria.
Gli dava poi la forma più infesta all'opinione del paese,
cioè quella d'una carta moneta. La suddivideva in minutissimi
viglietti da venticnque lire; i quali furono sempre considerati di
pericolosa circolazione, anche nei paesi accostumati a siffatti
valori. Offriva d'accettarli come denaro sonante, in conto delle
imposte. E non pensava, che, rientrati una volta nelle publiche
casse, difficilmente troverebbero la via d'uscirne ancora;
dimodochè il faticoso prestito si riduceva in fine a una mera
anticipazione d'imposte. Pare che questi avvedimenti scaturissero
dal conte Giuseppe Durini; il quale aveva voce di gran pratico,
principalmente pel disprezzo che professava ai libri.
Il rimborso doveva cominciare entro un anno, e compiersi nei due
seguenti; promessa che non poteva non esser vana; epperò
feconda a maturo tempo di discredito.
Si accettava poi come denaro ogni maniera d'oggetti preziosi. Si
vedevano le giovinette offrire un fermaglio, un monile; i vecchi una
posata, un candeliere d'argento, un acquasantino. A chi considerava
la tremenda gravità delle circostanze e dei pericoli, pareva
in verità che si facesse doloroso scherno della
generosità e della fiducia del popolo. Con siffatte bricciole
non potè giungere a compiere nemmeno la decima parte della
proposta somma. E le importunità che a tal uopo si facevano,
e l'assidua lista delle donate cianfrusaglie che si sciorinava ogni
giorno nella gazzetta, e i ringraziamenti del governo colla seguente
preghiera per una più abondante elemosina, costituivano un
sistema nuovo e strano nella istoria delle finanze e della guerra; e
davano a quei signori aspetto, non so, se di mendicanti o di frati.
“Persone d'ogni ceto, si diceva a nome suo, accorsero ed accorrono,
a deporre sull'altare della patria il loro òbolo. Pie ed
esemplari concittadine si spogliano volontariamente delli stessi
preziosi arredi... Vogliano dunque tutti coloro, cui la Providenza
concedeva cospicue fortune, vogliano affrettarsi a sorreggere con
benefica mano una causa la più giusta, la più santa.”
Si pregavano i cittadini "a offrire i loro cavalli per la causa
santissima". Si faceva "appello ai facoltosi a radunare i cavalli da
sella per l'esercito sardo". Lo stesso ministerio della guerra,
deposta la militare truculenza, confidava nella generosità
delli agiati cittadini, i quali volessero donare le selle per
l'artiglierìa, o almeno imprestarle! Si chiedeva alle donne
tela per la biancheria; si chiedeva ai communi "nella generale
scarsità della tela, di supplire almeno col fustagno greggio
per l'allestimento dei sarrò". Si faceva dimandare
dall'arcivescovo alle chiese, in via di prestito, una porzione dei
sacri argenti. Mai non si vide altro governo regnar così
ginocchione. Per mandare un battaglione a soccorrer Venezia, fece
fare la cerca dei fucili. Per comperare altri duemila fucili,
fondò una società anonima. Infine volle sapere quante
posate d'argento ciascuna famiglia avesse.
Il paese rimaneva stupefatto e avvilito. Aveva sempre avuto
un'opinione dell'opulenza sua, maggiore anche del vero. Cadeva ora
nel più profondo discredito di sè medesimo. A ottener
il qual fine sempre più, il governo sospendeva la
liquidazione dei debiti antichi dello Stato; e ad ogni istante
dimandava misere anticipazioni d'un mese o di due sulle imposte
prediali; il che dava impaccio alle famiglie, senza recare stabile
sollievo allo Stato; poichè, in capo al mese o ai due mesi,
doveva risorgere la stessa difficoltà. Laonde, quando si
volle rianimare il languore del prestito coll'offerta
dell'interesse, non si trovò più chi volesse affidare
allo Stato i suoi capitali. Il credito era spento.
In procinto di far votare l'unione col Piemonte, il governo volle
far sentire ai cittadini tutto il peso delle circostanze con un
cumulo d'insolite gravezze. Il decreto del 13 maggio impose d'un
solo fiato un'anticipazione sul censo, una sovrimposta pure sul
censo, una sulle arti e il commercio, una tassa sulle arti liberali,
e una sui crediti ipotecarii. Si aggiunse poco dipoi una diminuzione
alli stipendii delli impiegati e alle pensioni; se ne mutilò
in certi casi perfino la metà. L'imposta sulle ipoteche,
oltre al rompere la fede dei contratti, e preparare una generale
alterazione nella misura delli interessi, scompigliava il credito
privato, propalando le secrete afflizioni delle famiglie; e destava
una selva inestricabile di dubii e di liti, per ragioni
evidentissime ch'è lungo riandare.
L'aggravio sul censo non raggiungeva nemanco un'ottava parte del
solito tributo annuale; dimodochè le borse delli ottimati non
venivano tampoco a conferirvi un mezzo millione. Per pudore, venne
poco di poi cresciuto; e allora pesava troppo sui possidenti poveri.
Un'indulgenza ancora maggiore per sè medesimi avevano avuto
quei signori, eziandío nel riformare la legge sulla carta
bollata; poichè, a cagion d'esempio, un'eredità di
ventimila lire era tassata nell'uno per mille; e un patrimonio di
seicentomila lire, solamente nell'uno per diecimila!
Col suddescritto ripiego delle offerte volontarie li ottimati
scampavano dal flagello delle tasse proporzionali. Famiglie da
trecentomila lire d'entrata, che si sarebbero potute tassare di
centomila lire, senza scemar loro alcuna morbidezza del vivere, si
traevano d'impaccio col dono d'un paio di cavalli o di un cannone. E
il popolo, che non poteva fare altrettanto, li ammirava e li
benediceva.
Non appena fu votata la fusione, essendo conseguito il fine di
sgomentare la moltitudine, il governo, col decreto del 1 giugno,
trasformò le tasse del 13 maggio in un prestito fruttifero.
Nuova assurdità. Ogni più povera famiglia, che
possedesse un tugurio censito a una dozzina di scudi, e che
perciò riescisse tassata in meno d'una lira, doveva ricevere
dal governo un documento, portante la rendita annua di meno di un
soldo ! Erano divisamenti puerili e impraticabili. Nelli imprestiti
ordinarii, le famiglie che hanno capitali accumulati, li sovvengono
all'erario; e tutto il paese, ossia tutte le altre famiglie, ed esse
medesime, devono poi fornire l'interesse; ognuno fa ciò che
può. Ma il governo provisorio, composto quasi solo di signori
o di umili loro clienti, non volendo prendere i capitali là
dov'erano, offriva impiego fruttifero a chi non li aveva. Quei
cortigiani, immemori e improvidi del tremendo pericolo, erano con
tutto l'animo in quelle misere avarizie. Sognavano di ripristinare
anche fra noi le esenzioni e le ineguaglianze d'ogni maniera, che la
corte di Torino così stentatamente ha trascinate seco fino a
questo secolo; come se noi dovessimo aver combattuto, non per avere
la libertà, ma per discendere più basso nel
pendìo della servitù.
Fino dal suo nascere, il governo provisorio aveva abolite le
delegazioni, cioè i governi delle provincie, e le aveva
concentrate nelle congregazioni; ch'è quanto dire, aveva
messo tutti li abitanti in balia delle rappresentanze delli
ottimati. Nè ciò era perchè le delegazioni
avessero origine austriaca, poichè le congregazioni erano
pure nominate dalli Austriaci, e fra li uomini più
ossequiosi.
Conculcava nello stesso nello stesso tempo il principio sacrosanto
dell'indipendenza e inamovibilità dei giudici, sciogliendo
d'un tratto tutti i tribunali, per poi rifarli a beneplacito del
presidente Guicciardi, e d'altri antichi capi e disertori della
fazione austriaca.
Le congregazioni e i presidenti ebbero facoltà di scacciare,
senza forma alcuna di giudicio e nemmeno d'accusa, tutti li
impiegati che loro paressero non confermabili. Era quello un render
laude all'Austria, la quale, per far contenti al miserissimo
stipendio i suoi impiegati, voleva, se non altro, che fossero
difficilissime e di rarissimo esempio le destituzioni.
Declamava il governo contro la polizia austriaca; ma non adoperava
la publicità per dibarbicare le sue radici e rivoltarle al
sole. Anzi per cupidigia di raccorre quella fetida eredità,
fin già dal 27 marzo, sporgeva alle vecchie spie il mantello
del secreto; faceva fede ai cittadini che "le liste delle spie non
esistevano, e non potevano esistere". E i servili così
salvavano intatte e secrete al nemico quelle armi, dopo essersi pur
troppo imbrattati a maneggiarle.
Fingeva il governo provisorio, quando millantava abolita la polizia;
poichè in effetto conservò la polizia vecchia nel suo
nido di S. Margarita, sotto nome di Publica Vigilanza; e ne fece una
nuova nel suo palazzo del Marino, sotto nome di Publica Sicurezza.
Dalla quale dovevano poi uscire altre diramazioni in ogni provincia
e distretto e commune, giusta il decreto del 13 aprile, che
proponeva circa tremila nuovi funzionarii per quella sterile e
malvagia istituzione. Dapertutto ella doveva innestarsi sul fusto
della polizia vecchia, potendo i suoi comitati "utilizzare il
personale delli officii soppressi; il quale perciò sarebbe
stipendiato". Ora come annunciare abolito e soppresso un personale
che si stipendiava e si adoperava?
Verso la fine di giugno, si aggiunse una terza polizia di stato, una
specie di consiglio di dieci; e vi furono chiamati il conte
Francesco Arese e Alfonso Litta Modigliani. E doveva "scoprire le
corrispondenze che potessero avere nell'interno li esterni nemici".
Non scoperse mai nulla; o in verità era intesa unicamente a
vessare li uomini liberi, che non si potevano comprare nè
infamare. Le corrispondenze secrete colli esterni nemici non erano
se non tra i guerrieri gesuiti del quartier generale del re, come la
prova delli effetti dimostra.
Al 5 aprile, quand'era più che mai necessario di profittare
della vittoria, e spingere a Verona e Mantova, in Tirolo, in Friuli,
tutti li uomini atti alle armi, e confidare per l'ordine interno
nelle guardie nazionali, e in quella nobile esaltazione del popolo
che aveva quasi fatto sparire i delitti : il ministerio della
guerra, non solo non si valeva del reggimento dei gendarmi per la
difesa del paese; ma per rinforzarlo agli usi della polizia, vi
chiamava "ottocento volontarii di nuova leva".
E il governo infliggeva poi tosto a quel corpo una degradazione che
l'Austria gli aveva sempre risparmiato, poichè sottraeva al
comando militare il suo ordinamento, per farlo dipendere dalla nuova
polizia (13 aprile).
Si tentò avvilire per egual modo la guardia nazionale,
scegliendo nel suo seno un corpo prima di seicento uomini e poi di
mille, sotto nome di guardia di publica sicurezza (28 e 29 marzo); e
doveva esserne colonnello il Fava, presidente della nuova polizia; e
i suoi assistenti dovevano formare lo stato maggiore. E ognuno di
quei mille doveva essere "di noti principii politici e di specchiata
moralità", degno insomma, secondo il § 6, "d'essere
comandante delle guardie di publica vigilanza "cioè, dei
vecchi poliziotti austriaci, dei quali si vagheggiava la
risurrezione. Ma questa non si poteva così tosto operare;
nè i cittadini della guardia nazionale tolerarono poi che il
colonnello presidente della polizia venisse a fare sopra ciascun di
loro l'impertinente scrutinio "dei noti principii e della specchiata
moralità".
Per cacciare fino tra la feccia delle prigioni le influenze e il
favore della fazione dominante, la quale per atterrire i buoni
voleva guadagnare i tristi, s'instituì una commissione di
grazia. Doveva "liberare le infelici vittime di pessime leggi e
d'arbitrarie procedure". E il presidente di essa, e pertanto
emendatore delle procedure e delle leggi, venne fatto ancora il
Fava, ch'era medico o chirurgo. Vi fu allora un Carcano,
giureconsulto e praticante di tribunale, ch'ebbe la facezia di
chiedere in vista di ciò al governo provisorio d'esser messo
direttore di un ospitale di partorienti.
Dal corpo dei 160 officiali di pace si fecero uscire, colle buone o
colle cattive, quasi tutti li uomini d'animo libero; e perchè
non si potevano cacciar tutti senza aprire li occhi alla ammaliata
cittadinanza, vi si aggiunse quietamente un corpo aggregato, d'altri
quaranta officiali. E delli uni e delli altri sempre presidente il
Fava.
Tutto questo labirinto di vigilanza, di pace e di sicurezza era
piantato a inciampo e spavento dei liberi cittadini. La delazione,
che sotto l'Austria scorreva solo per meati immondi, cominciò
sotto li auspicii dei gesuiti torinesi a infilarsi entro le vene
della società. Per bassezza d'animo, e per furor di setta, vi
si arruolarono persone cospicue; e addestravano a farci la guardia i
loro servi e i nostri. Uomini di nobil nome ci facevano arrossire
per loro, quando li vedevamo inseguire alle tavole rotonde i
viaggiatori francesi e svizzeri. Dissigillavano le lettere, anche ai
consoli delle potenze; correvano matutini a frugar nelle carte del
canonico Ambrosoli; correvano notturni ad arrestare, una volta
Giulio Terzaghi e due volte Enrico Cernuschi. Dissi un giorno ad una
di quelle anime depravate, che davvero "rigeneravano questa volta il
popolo, poichè avevano già nobilitato il mestiere
della spia!".
La delazione porgeva la mano alla diffamazione e alla minaccia.
Uomini frivoli e sleali, intrinsecati colla nuova polizia,
spargevano le più odiose voci fra un popolo che, per naturale
ingenuità, e per manco d'esperienza politica, era tuttora
facile ad allucinare. E non pensavano, che, rotto una volta a quelle
male pratiche, non tarderebbe guari ad accorgersi ch'era ben altro
l'interesse suo da quello dei cortigiani di qualsiasi re. Mani
abiette, ma non sempre callose, scrivevano sulle pareti delle case
note d'infamia; e con lettere cieche turbavano la pace domestica,
consigliando l'esilio, e minacciando la morte. Questa brutta guerra,
fatta all'ombra delle armi regie, rimase privilegio di quella sola
setta. Servi, servite, è il peggio che rispondessero loro sui
muri li amici della libertà. Poichè i più di
questi parevano immemori d'ogni cosa fuorchè dell'esercizio
delle armi; e parecchie migliaja stavano a militare sui confini del
Tirolo, e sotto Mantova, o alla difesa di Vicenza e di Treviso; e li
altri miravano con disprezzo, e quasi con pietà, una fazione
che faceva col popolo sì temerario gioco, e sì poco
durevole. Il primo respiro di libera stampa, la prima contradizione
alle opere dei governanti, fu repressa coll'invasione violenta della
stamperia del Lombardo; il quale ebbe tosto a cessare. Molti onesti
giovani furono fatti perseguitare dalla polizia con bastoni e
coltelli. I garzoni che vendevano per le strade i giornali liberi,
furono vilmente manomessi. Ma le radici della libertà erano
già fitte nelli animi; la stampa libera metteva un nuovo ramo
ogni giorno; e la stampa servile si faceva ogni giorno più
fiacca e melensa. E la guerra intanto nelle mani a Carlo Alberto
languiva; e i barbari, non che fuggire, ritornavano d'ogni parte;
onde ogni giorno era più chiaro, che, se la dedizione a Carlo
Alberto doveva farsi a guerra vinta , non si sarebbe fatta mai.
Perlochè i suoi satelliti si agitavano; e mentre da un lato
tentavano incuter timore, si studiavano dall'altro d'adescare i
creduli con fallaci speranze. Mandavano narrando ai trafficanti che
stava in fresco un imprestito di sessanta millioni; ma che i
capitalisti, in gran parte genovesi, ponevano per condizione
anticipata che Milano si desse prima a Carlo Alberto. E ciò
fatto, non solo i rivi dell'oro avrebbero inaffiato il paese e
ristorato il commercio, ma la guerra avrebbe sollecita fine.
Poichè intenerito il re da un tal pegno di fiducia e d'amore,
avrebbe tosto fatto venir di Piemonte tutte le sue riserve; e
impugnando risolutamente la spada, la spada d'Italia, come li
adulatori dicevano, avrebbe messo i nemici veramente alle strette.
Il che dicendo, non s'avvedevano di confessare che il re faceva
pertanto di poca fede e di mezza voglia la guerra.
Il governo provisorio non solo aveva detto di nuovo al suo popolo:
"attendete che ogni terra italiana sia libera; liberi tutti,
parleranno tutti (29 marzo)"; ma aveva detto al popolo veneto che "a
causa vinta la nazione avrebbe deciso"; aveva detto al popolo
genovese : "prepariamoci ad assestare tranquilli, dopo la vittoria,
le sorti della patria italiana (29 marzo)"; l'aveva perfino promesso
al sommo pontefice: "a causa vinta la nazione deciderà".
Aveva finalmente istituito una commissione, che studiasse un
progetto di legge sulle assemblee popolari, "avendo egli fisso di
convocare nel più breve termine possibile una rappresentanza
nazionale, affinchè un voto libero, che fosse la vera
espressione del poter popolare, potesse decidere i futuri destini
della patria (8 aprile)". Alle quali promesse del governo consonava
la regale parola di Carlo Alberto, che nell'atto d'intimare la
guerra aveva detto ai Lombardi e Veneti: "le mie armi vengono a
recarvi l'aiuto che il fratello aspetta dal fratello, l'amico
dall'amico"(6). E appena posto il piede sulla nostra terra, aveva in
Lodi protestato generosamente: "Io vengo fra voi, non curando di
prestabilire alcun patto; vengo solo per compiere la grand'opera dal
vostro valore incominciata. Le mie armi, abbreviando la lotta,
ricondurranno fra voi quella sicurezza, che vi permetterà
d'attendere con animo sereno e tranquillo a riordinare il vostro
interno reggimento".
Ma come mai poteva compiere, sulle alpi Giulie, la grande opera
italiana, egli, da una pedestre politica incatenato sul Mincio? -
Mai non sarebbe dunque giunto il momento, nel quale avrebbe potuto
dire al popolo: la causa è vinta; nè richiedergli il
premio della corona ferrea. Gli era dunque mestieri fare il suo
contratto anzi tempo; e farsi conferire un diritto su quella
metà del regno che teneva, affinchè il popolo non
potesse costringerlo a perigliarsi nel difficile acquisto dell'altra
metà. Ed era mestieri farlo incontamente; e prima che la
languida guerra, e l'immobilità dell'esercito, e le sventure
alle quali la sua diplomatica astinenza condannava le città
venete, manifestassero il crudele inganno.
Senonchè, doveva egli sembrare sollecitato dai popoli stessi
a prendersi anticipata la sua mercede; ed il suo governo provisorio
doveva sembrare costretto dal voto publico ad offerirla. A tale
intento, i suoi facendieri facevano mover l'onda da lontano. La
movevano perfino da Firenze, d'onde il Salvagnoli e il Ricasoli, col
pretesto di conferire il premio della cittadinanza fiorentina al
Casati e al Borromeo e alli altri indomiti, che avevano "diretto il
valor milanese nella gran lutta", scrivevano che i fiorentini (Dio
lo perdoni), anzi "tutti i veri italiani, desideravano ardentemente
che fosse formato lungo le Alpi un altro baluardo più solido,
contraponendo per sempre alli Austriaci un grande e fortissimo
Stato, il quale divenisse il vero custode dell'indipendenza e
libertà d'Italia". - Quel bell'ingeno del Salvagnoli aveva
davvero la febre e il delirio del regno fortissimo e della custodia
sempiterna. Egli non pensava che le cose nuove e grandi si fanno
colle forze morali, e non col vano tumore e ingombro della materia
militare.
Altri facendieri intanto, Leopoldo Bixio, e Paolo Farina, e il
Pareto, e un Doria che forse non aveva letto le istorie di casa sua,
brigavano a nome del popolo genovese, pregando Milano a farsi
suddita di quel re sì poco a Genova accetto; e promettevano,
senza fondamento alcuno di verità, di farla capitale del
nuovo regno: "Il nostro cuore si slancia verso di voi. Uniti ai
fratelli sardi, piemontesi e savoiardi, vi protendiamo le braccia
anelanti all'amplesso fraterno colla vostra città, fatta
nuovamente capitale di floridissimo regno, libero e costituzionale".
E la guardia civica di Genova rinovava poscia la tentazione; e
prometteva nuovamente al popolo milanese, in luogo della
libertà, i regni del mondo :"Due vie vi stanno inanzi. L'una
vi dà primato su tutti i popoli della penisola; vi apre una
fonte larghissima di ricchezze e di forze. L'altra vi riporta
inevitabilmente alla guerra civile; schiude nuovamente l'adito al
barbaro. In quali vene scorre un sangue più republicano del
nostro? Eppure noi soffochiamo con ogni possa i nostri istinti
republicani; e facciamo di buon grado un olocausto, affine di
cooperare alla unificazione italiana". E citavano anche la Sicilia,
che voleva essere governata da un re costituzionale. Ma quel
desiderio dei Genovesi d'esaltare Milano, veniva dall'odio loro
contro Torino; e putiva assai più di guerra civile, che non
l'attendere onoratamente a cacciare il barbaro dalla Venezia, e
tener sacra la data promessa. Era poi falso che non vi fosse per il
Lombardo-Veneto e i Ducati cispadani veruna alternativa fuori di
quella della republica o della sommissione a Carlo Alberto.
Perocchè nulla impediva che costituissero più
principati: o un solo: o che aderissero alla Toscana; il qual ultimo
disegno avrebbe rimosso parecchie difficoltà diplomatiche;
poichè la casa d'Austria non rimarrebbe spossessata, ma solo
distribuirebbe in nuovo modo i suoi possedimenti. E perciò vi
sarebbe stato meno a combattere prima, e meno a temer poi; e otto
millioni d'anime, da Venezia all'Elba, facevano un regno
bastevolmente forte per terra e per mare, e certamente meno
gesuitico, e men feudalesco, e più libero, e anco più
italiano. Nè dico che ciò fosse a fare, ma dico che il
dilemma Bixiano era fallace e sleale. Ed era sempre indecoroso che i
cittadini di Genova confessassero di tradire il loro sangue e
rinegare la nobile loro natura; dovevano tacere, o combattere. O
almeno, lasciarci combattere da noi, così come s'era
incominciato.
Da ogni città d'Italia i regii sollecitatori si davano
ricapito in Milano; e coll'aiuto del governo, convocavano, senza
pudore, a publiche deliberazioni nel circolo costituzionale di S.
Redegonda i loro seguaci. Di là mandavano offrendo impiego e
patrocinio ai bisognosi; agli agiati, nobiltà di corte e
spallini d'argento e d'oro; titoli più sonori e più
buffi ai già titolati; accuse e minacce ai ritrosi. Facevano
venire con grande aspettazione l'abate Gioberti, che, per mezzo d'un
Massari da Napoli suo portavoce, teneva dal balcone della locanda
quaresimali contro la republica e contro l'alleanza francese.
Partiva deriso. Mandavano satelliti ad annunciare alle provincie la
decisa volontà della capitale; e li facevano ritornare per le
poste nella capitale ad annunciare il volere imperioso delle
provincie. E il governo, dopo aver consunto nell'indegna comedia i
pensieri e l'autorità che doveva spendere contro il nemico,
usciva a lagnarsi ipocritamente : "che li animi non si fossero
contenuti nei limiti d'una discussione nel suo ardore già
pericolosa; che in molte provincie si fossero raccolte firme a
migliaia, preludendo al voto della nazione con propagande fra loro
contrarie, suscitando passioni, alimentando speranze; popoli,
governi, città esortarlo a uscire di quel campo in cui si era
trincerato". - Ma invece di frenare i perturbatori cittadini, e dare
lo sfratto ai non cittadini, e rivocare con gravi parole i popoli al
supremo intento della guerra, archietettava nel decreto del 12
maggio un dilemma, più storto ancora di quello di Bixio: "o
il popolo riprenda il suo impegno di non voler parlare di politica;
o si decida per quella fusione, che sola è naturale, sola
possibile". O bisognava pertanto ammutolire: o giurarsi sudditi di
Carlo Alberto. In questo grido stava pel governo provisorio tutto il
possibile della politica.
Ripeteva poi l'esortazione - "a fare dell'Alta Italia un
inespugnabile baluardo, sotto quella augusta casa a cui la storia
aveva assegnato il glorioso titolo di guardiana delle porte
d'Italia". - Trista raccomandazione invero, quando l'istoria
d'Italia dimostrava come non vi fosse stata terra mai con più
sciagurata e vana guardia custodita. Infine il governo, dandoci a
mordere l'esca genovese, si millantava che i fratelli di Torino "non
altro anelando che d'aver consorti i Milanesi, fossero pronti a
rimoversi in lor favore delle più legitime ambizioni".
Composto il governo provisorio con frammenti di congregazioni e
municipalità, scaturito pertanto dall'Austria e non dal
popolo, si era patteggiato la tolleranza dei combattenti col
promettersi neutrale. Era come una sicurtà lasciata dalla
parte forte e generosa alla greggia delli imbelli e delli avari, non
ansiosi della patria, ma solo della quiete e della roba. Erano corsi
dalla promessa soli cinquanta giorni; la guerra non era vinta, anzi
volgeva manifestamente al peggio; era chiara l'impotenza del re; la
questione della forma di governo non era discussa, nè tampoco
proposta; la rappresentanza nazionale non era convocata; la legge
elettorale era ancora un secreto d'officio. Il decreto adunque che
infliggeva ai cittadini il perentorio precetto di votare entro due
settimane, contro la fede, senza lume di discussione, senza sussidio
alcuno di rappresentanti del popolo, e prima che la condizione
suprema della pace e della vittoria si avverasse, era flagrantemente
invalido. Venne poi a constare invalido dal fatto; poichè non
solo non adempì "alla suprema necessità che l'Italia
intera fosse liberata dallo straniero, e continuata la guerra
dell'indipendenza"; non solo non apportò indipendenza,
nè libertà; ma disfatta, e ignominia, e tradimento. E
il "guardiano glorioso" non vide mai tampoco quelle porte delle Alpi
che doveva difendere; e riconsegnò di persona al barbaro le
porte stesse della nostra città.
La questione dal deliberarsi non era una sola; e perciò non
poteva onestamente ridursi a una semplice alternativa d'un sì
o d'un no. Prima si voleva interrogare i cittadini se consentissero
o no a sciogliere così tosto il solenne patto di guerra
vinta; poi qual forma di reggimento preferissero; e qualora avessero
anteposto il principato, se lo amassero commune ad altri stati, come
si voleva a Napoli: o veramente solo e separato, come si voleva in
Sicilia; e qualora lo avessero voluto commune con altri Stati, era a
vedere quali e quanti fossero gli Stati; e se consentissero; e a
quali patti d'unione; e sopratutto con quali riserve pel congresso
generale d'Italia e per la nazionale unità. Ed era ben
possibile che il Piemonte non volesse ai nostri patti accettare; e
che ai patti suoi non potesse venire accettato. Onde finalmente
poteva rimanere ancora la scelta del principe, o in quella medesima
casa, o in altra.
Se tutte codeste questioni non erano regolarmente discusse e
deliberate, in seno a una rappresentanza d'uomini giudicati capaci
dai cittadini e da loro deputati a ciò, potevano i servili
raffazzonare a forza di male pratiche una vana immagine di
votazione; potevano li uomini liberi, per amore di concordia, e per
odio supremo al nemico, e per pietà e pudore della patria, e
sopratutto per fiducia nel corso ineluttabile del secolo, tacere un
momento e soffrire. Ma dissipato un istante quel misero
polverìo, avrebbersi veduto accorrere d'intorno il popolo
disingannato, e la gioventù sempre sincera e magnanima; e
allora non avrebbero potuto rimanere inoperosi, senza farsi
giudicare codardi. La votazione dei 12 maggio era dunque, presto o
tardi, un patto di guerra civile.
Ella era peggio. Poichè, ponendo il paese in arbitrio altrui,
facendolo roba di re, da darsi e torsi a piacimento, al gioco della
guerra politica e della diplomazia, e sopratutto consegnandolo a
mano istoricamente perfida, lo diede fin d'allora al nemico. Il
governo provisorio, per quanto era in lui, consumò sin da
quel giorno il tradimento.
I contadini, i quali dal dì del loro nascere non avevano
sotto il governo dell'Austria udito mai verbo di politica, furono
chiamati d'un tratto al suffragio universale presso i curati, ai
quali i vescovi, non eletti dai fedeli ma dall'Austria, avevano
comandato di fare ciò che il governo avrebbe detto. Si
lasciarono votare i forestieri, e le tante migliaia di Piemontesi e
Genovesi ch'erano in Milano (compreso il mio cuoco ch'era da
Gambolò). Si fecero votare li officiali piemontesi, intrusi
allora allora nei nuovi reggimenti, e in presenza loro e sotto le
loro monizioni e minacce i soldati; l'ordine del ministerio della
guerra era così villanamente imperioso che si dovè
mutare. Per affettazione di puntualità si fecero votare
perfino i condannati in presenza dei loro carcerieri, e con promessa
d'indulgenze. I mendicanti ebbero a far la croce, sì se
volevano aver poi l'elemosina o l'entrata all'ospedale, come
publicamente loro si diceva. Alli avventori del confessionale, in
certe parochie si minacciò il rifiuto dell'assoluzione; alli
avari minacciarono multe; ai timidi si scrisse morte sul muro della
casa. I facendieri misero tanta solerzia in codesti imbrogli, che in
parecchi luoghi v'ebbero più voti che non vi fossero
abitanti. V'erano uomini talmente infervorati nella fusione, che
correvano a votare in più parochie: in quella della casa e in
quella della bottega: in città e in villa, e in quante ville
riescivano a farsi inscrivere. Altri toglievano i registri ai curati
esitanti; e li portavano per le case, incaricandosi di firmare per
chi non voleva o non sapeva; centinaia di voti erano scritti da una
stessa mano; e molti erano nomi ignoti e imaginarii. Il numero
materiale dei voti non era il terzo di quello che venne asserito; e
i voti veramente deliberati e validi non furono molti. Infatti
sull'oggetto del sì e del no si dicevano ai votanti le
più strane cose; si diceva che da una pagina era il regno, e
dall'altra la republica; dall'una i Tedeschi, e dall'altra Pio Nono;
dall'una la republica, e dall'altra la vera religione! Ai riluttanti
per istinto di libertà si diceva a rovescio che il regno
sarebbe scala alla republica; che il re sarebbe soltanto strumento
di guerra; e a pace fatta si caccerebbe con tutta la sua gente; e
quei sacrileghi aggiungevano: quando tempo verrà, rifaremo le
barricate.
L'alternativa veramente posta ai votanti si fu: darsi a Carlo
Alberto immantinenti, o aspettare a guerra vinta. Chi avesse voluto
rispondere; nè ora nè mai, non aveva pagina ove
scrivere il suo nome. Ed erano molti; e quasi tutti coloro che
sarebbero stati li eletti dal popolo a deliberare; e uomini anche di
diverse opinioni, purchè solo avessero senso di fede publica
e di privata dignità. E tutti questi ebbero a schifo di
accostarsi al turpe registro; e perciò la pagina della guerra
vinta rimase deserta. Nella provincia di Cremona, che ha più
di duecento mila abitanti, si trovarono scritti nella pagina
negativa soli 24 nomi; in quella di Pavia 9; nella Valtellina 3.
Ov'erano dunque "le firme raccolte a migliaia, dalle propagande loro
contrarie, con ardore pericoloso, alimentator di speranze,
suscitator di passioni?" Nella provincia di Como si votò
sopra un'altra formula, nella quali si poneva a patto l'unione coi
Veneti; onde, attesa la politica del re incompatibile con
quell'unione, il voto della provincia sarebbe caduto indarno.
Infine, a togliere quella gravità colla quale i magistrati
devono deliberare della salvezza e dell'onore d'un popolo al
cospetto delli altri popoli, il governo provisorio, fattosi
letteralmente eunuco, brigò uno squittinio di donne; le quali
volevano "presiedere al connubio di due frazioni di nazione".
All'ombra dell'occupazione militare, i brigatori poterono con poco
pericolo proprio far minacciare la vita alli oppositori,
all'istorico Vignati in Lodi, al Campana in Brescia, allo Scalini in
Como, al Rota in Bergamo, a molti e molti in Milano. A Calcio, sotto
pretesto d'incendio, si fece suonare a stormo per atterrire
l'arciprete Lombardini, il quale non voleva che uno Scotti portasse
fuori dal presbiterio i registri; e il governo non fece arrestare lo
Scotti, ma l'arciprete; e il vescovato di Cremona voleva interdirlo
dalle sue funzioni. Le ribalderie di questa fatta furono
innumerevoli; e non sarebbe senza castigo dei colpevoli, nè
senza beneficio della patria, l'andarle raccogliendo e publicando.
Spargendo nelli animi onesti e liberi un senso di sdegno e di
fastidio, contribuirono più d'ogni altra cosa a rendere
possibile il ritorno del nemico.
Le città che i soldati del re, al loro arrivo, avevano
trovato pronte a valorosa difesa, al loro ritorno dal Mincio erano
cadute in profonda inerzia.(7)
IX
Li oppositori
Si dimanderà che facessero in questo mezzo lo oppositori.
Li amici della libertà non si trovavano fin da principio
ordinati in setta come i servili; i quali, essendo in sostanza li
antichi seguaci dell'Austria, si erano fin dal 1814 congregati
all'ombra del governo medesimo nella Pia Unione, e nel Casino di S.
Giuseppe, e nelle Congregazioni, e in Corte, e altrove; e per
l'esiguo loro numero, avevano unità d'interessi e di mire.
Nella opinione libera s'incontravano uomini di diverse condizioni e
d'interessi disparati, ignoti fra loro di persona e di costumi;
poichè sotto la vigilanza austriaca non avevano potuto
costituirsi nè chiarire mutuamente i loro pensieri; nè
avevano stampa libera, o discussioni parlamentari, o comitati
elettorali, o altre istituzioni che porgessero loro ansa a radunarsi
e fare accordi e conoscenza.
Al momento dell'insurrezione, unica cura dei liberali fu cacciare il
nemico; molti non si diedero altro pensiero mai che li esercizii
militari o la guerra; erano li uomini d'impeto e di sacrificio.
Alcuni partendo pel Tirolo e per la Venezia, lasciavano publica
istanza ai cittadini di volere onestamente riservare fino al loro
ritorno le deliberazioni politiche, e non tradire chi andava a
perigliarsi per tutti.
Alcuni si erano associati colli ausiliarii svizzeri nella già
mentovata protesta del 25 marzo. E al 29 avevano tenuto un’altra
adunanza; ed eravi presente Cesare Correnti, ch'era già fatto
secretario del governo, ma fu creduto per lungo tempo d'altra
opinione. E vi avevano deliberato una nota, nella quale dimandavano
la immediata convocazione d'un'assemblea preparatoria di deputati
dei 127 distretti della Lombardia; per costituire un governo
centrale con mandato di popolo; per conservare i vincoli attuali coi
Veneti, Tirolesi, Istriani e Dalmati; per fare una legge elettorale.
Ma il governo provisorio, non volendo cose di popolo, si
procacciò la qualifica di centrale, aggregandosi un membro da
ogni provincia; e in ciò preferse li uomini già
più devoti all'Austria; per esempio il conte Moroni da
Bergamo, il consigliere Rezzonico da Como, il Turoni da Pavia,
professore spregiato dai giovani per l'elogio che aveva stampato
dell'imperatore Francesco. Nè volle già una legge
elettorale decretata da deputati dei popoli; ma solo uno studio di
legge, elaborato a lume del governo da una commissione. La quale,
avendo avuto l'incarico all'8 aprile, e avendolo già compiuto
al 9 di maggio, ebbe a vedersi delusa la sua fatica dal turpe
decreto della fusione. Il governo, per allucinare i cittadini, vi
aveva compreso, fra li altri, De Boni, Berchet, Basevi, Robecchi,
Pagnoncelli.Ma poi non vi badò altrimenti. E non avrebbe
tampoco fatto stampare il loro rapporto, se non avessero minacciato
di stamparlo essi medesimi. Compreso io pure in quella commissione,
aveva appunto dimandato che i protocolli fossero ad ogni seduta
publicati. Il che non essendosi consentito, me ne tenni fuori,
persuaso che sarebbe una vana e insidiosa mostra.
In varie occasioni i cittadini dimandarono malleverie del futuro. La
guardia nazionale ottenne promessa d'essere conservata, e che non si
porrebbe limite alla libertà della stampa e al diritto
d'associazione. Ma il governo non ne fece un patto perpetuo
dell'unione col Piemonte. E ne diede sicurezza soltanto fino alla
prima assemblea, che si sarebbe tenuta insieme alli altri sudditi
del re; nella quale la illimitata libertà si sarebbe
certamente diminuita.
Pregavano i cittadini che si demolisse il castello di Milano. Ma il
governo stette sempre fermo a non demolirlo, pensando forse che il
re avrebbe avuto di siffatti arnesi lo stesso bisogno che ne aveva a
Genova. Già nella notte in cui Radetzki lo aveva sgombrato,
il Casati parlava di mozzar solo due torrioni. Io gli dissi che
appunto per l'altezza loro erano poco utili alla difesa, e che si
potevano pur tollerare anche come monumenti; ma radere piuttosto
tutto il rimanente; poichè un edificio vasto e solido, libero
verso la campagna, e messo così nei fianchi della
città, ad ogni occasione sarebbe sempre tornato una fortezza.
Il Casati fece publicare (25 marzo) che in giornata il castello
sarebbe reso inoffensivo; ma veramente levò solo qualche
palmo dei torrioni.
In una nota di dimande da farsi al governo, essendosi poi toccato
quell'argomento, e chiesta la demolizione di tutti i luoghi forti
che potessero adoperarsi a spavento delle nostre città, il
Fava, qualificandola come proposizione incendiaria, fece arrestare
Pietro Agnelli che l'aveva stampata, e Giulio Terzaghi che
dichiarò di avergliela data a stampare. Le assidue istanze
dei cittadini, a quell'uopo associati da Pecchio e da Mauro Macchi,
ottennero dopo tre mesi un nuovo decreto (26 giugno) che
dichiarò "destinato il castello a uso civile". Ma furono
baie; e il governo provisorio non accondiscese a disfarlo, nemmeno
quando vide sovrastare il ritorno del nemico. Il quale può
rendergli grazie d'aver trovato ancora quel nido, ove con poche
opere esterne può farsi lungamente sicuri contro ogni sforzo
dei poveri cittadini.
Fecero i liberali altre molte dichiarazioni e proteste; ma non
procedevano in modo seguente e pertinace. La guerra sembrava essere
in cima d'ogni loro pensiero; vedevano i retrogradi e i barbari solo
in Austria; e non badavano ai retrogradi e ai barbari che erano in
Italia; perchè ogni terra ha i suoi. Alle mene politiche non
si pensava di proposito se non dalla gente del re. Inoltre i buoni
temevano troppo delicatamente d'esser detti artefici di discordie al
cospetto del nemico; e non pensavano, che l'arme più temuta
dal nemico era quella parola di libertà che si lasciavano
strozzare in bocca. L'Italia cadde altre volte per effetto delle
dissensioni. Questa volta, pur troppo, ella cadde per un furore di
concordia ad ogni costo.
Quando poi il governo ebbe spenta la fiamma popolare, e alienati li
amici italiani e stranieri, e snervate le finanze, e consegnato
l'esercito ai generali del re, e messa ogni cosa nostra in sua
balia, e dato al nemico l'agio di riaversi, i servili andavano
sussurrando che non conveniva offendere con atti troppo liberi
l'unico nostro difensore. E l'abate Gioberti, nei discorsi che
andava facendo qua e là per l'Italia, non ebbe rossore di
additare, quasi minacciando, l'esempio delle città venete,
pei loro capricci republicani lasciate in preda a Radetzki(8).
Li oppositori, evitando adunque ogni atto che potesse parer seme di
discordia, si ristavano a sollecitare indefessi il governo,
perchè operasse con vigore; e facesse fondamento sul popolo e
sull'Italia, e spingesse con veemenza la difesa. E il generale Bava
ne fa testimonio, ove si lagna che nel momento in cui Vicenza
cadeva, "una deputazione del governo provisorio veniva dichiarando,
che se non si fosse marciato avanti, tutto era perduto; ed essere
necessario alla nazione vittorie su vittorie, quando non si volesse
veder trionfare il partito republicano". E soggiunse: "Due giorni
dopo, Sua Maestà mi annunciò che la deputazione
lombarda assolutamente desiderava una marcia in avanti"(9).
Una marcia! Si vede che il re non voleva fare; e il governo
provisorio voleva solo che facesse mostra di fare. Nè curava
che si salvasse ad ogni rischio Vicenza combattente; ma che di
facesse solo una marcia per far tacere i republicani. - E qui
s'intende pur troppo quanta parte i terrori di Parigi ebbero sulle
prime vittorie del popolo francese! e quanta parte la nostra
mansuetudine e i rispetti umani ebbero sulla caduta!
Tuttavia quel modo d'opposizione, sì molle e inefficace a
primo aspetto, aveva conciliato a poco a poco l'approvazione e la
fiducia dei cittadini, e sventate le calunnie delli avversarii;
poichè sembrava saggezza e virtù ; e infine i
più accecati venivano ogni giorno capacitandosi che le cose
nostre erano in mani infedeli. Frattanto la stampa aveva avuto tempo
di metter radice; la guardia nazionale l'aveva fatta rispettare dai
cagnotti del governo e del circolo costituzionale. I servili
vedevano dileguarsi d'ora in ora la frodata popolarità; e
molti dicevano loro sul viso che conveniva lasciarli fare,
affinchè disingannassero essi il popolo così come
l'avevano ingannato. E al pari delli altri prepotenti che cadono,
erano già costretti d'appellarsi alle vecchie infamie di
polizia; delle quali sarebbe troppo nausea istoriare i particolari.
Essendone io, ad onta dell'assoluta mia immobilità, l'assiduo
bersaglio, mi ridussi a chiudere a tutti la mia casa, ch'era sempre
stata, anche sotto il governo austriaco, l'amichevole convegno
d'uomini studiosi d'ogni opinione. E infine, per lo stomaco che mi
faceva quell'influenza cadaverica di corte e di gesuitismo mi prese
una smania di lasciare la patria, ch'io non aveva mai provato.
Cercai con male parole al Fava un passaporto, che mi fu mandato l'8
giugno. Sì presso ancora ai cinque giorni! E poi non sapeva
risolvermi; e di giorno in giorno prolungava miseramente quella vita
da prigioniero.
Dirò che i liberali ebbero più longanimità o
dignità che forza e coscienza. L'unica eccezione fu quella
dell'Urbino, che al 29 di maggio il giorno in cui si chiudevano i
registri della fusione, volle approfittare del fremito ch'era in
molti buoni cittadini, e tentò costringere i membri del
governo a dimettersi. Ma quelli ch'ei volle sostituire, non lo
conoscevano, essendo egli tornato di Parigi da poco tempo; e
perciò rimase naturalmente derelitto. Nè alcuno di
essi avrebbe accondisceso ad accettare il frutto della violenza. E
quelli studenti e militari e membri della guardia nazionale ch'erano
veramente presti, anzi desiderosi, di metter fine colle mani alla
dappocaggine del governo provisorio e all'uopo si offrivano, vennero
sempre con gravi parole dissuasi. Il male era profondo; era
necessario lasciargli corso e sfogo. Il popolo non conosceva il
pregio della libertà che gli era caduta fra le mani.
L'Urbino fece anzi buon'opera al governo, dandogli occasione
d'interessare alquanto con una farsa l'imaginario pericolo la parte
più fiacca e timorosa dei cittadini, e mettendo una
convulsione di servilità nella guardia nazionale, che aveva
già cominciato a rammentare al governo i suoi doveri.
Si annunciò ai cittadini che l'Urbino aveva con una mano
strappata la fascia tricolore al Casati, e coll'altra imbrandito un
pugnale. Lo sgraziato aveva una mano sola! Il Fava, sempre eguale a
sè, stampò tosto ch'egli aveva "la consolazione
d'annunciare che i fili della trama erano troncati. Speriamo, egli
diceva, che il processo rivelerà quali siano stati li illusi,
quali i compri dall'oro austriaco, che anche per questa volta, fu,
come a Roma e Livorno, inutilmente gettato". E si cominciò,
poi si ricominciò da capo, un processo, nel quale il
presidente supremo Guicciardi, già fiscale austriaco,
s'incaricò di far involgere nomi onorati; ma per
l'onestà dei giudici, e specialmente di Caporali e Bazzoni,
non riescì se non a disonorare se stesso. In sostanza si
accusava l'Urbino d'aver tentato deporre il governo provisorio,
salvo alcuni membri, credo Pompeo Litta, Anelli e Guerrieri, i soli
che avessero mostrato più o meno renitenza a frangere la data
fede; e d'aver voluto aggiungere altri cittadini, tra i quali
dicevano mi avesse pur compreso. Insomma, ai promotori delli
armistizii, delle dedizioni e delle fusioni preferiva li oppositori.
Converrebbe che i servili accusatori spiegassero che cosa Radetzki
vi guadagnasse, sicchè dovesse spendervi quel suo oro. In
nessuna occasione poi, i Correnti, i Broglio, i Mauri e li altri
scribi provisorii diedero più fratesco volo alla loro
eloquenza(10).
Si può rimproverare alli amici della libertà d'aver
pensato troppo tardi ad una qualunque resistenza; di non essersi
ordinati in numerose e popolari società; d'aver tolerato
troppo a lungo che i rinegati della loro fede rimanessero
intercessori e mezzani fra loro e un governo che tradiva la sua
parola; d'aver lasciato troppo agio ai retrogradi d'intorpidire e
avvilire i cittadini predicando l'opportunità di quella
sommissione, il cui primo annuncio era parso favoloso, e aveva mosso
ripugnanza e sdegno. Si può rimproverarli di non aver gridato
immantinente alla lega d'Italia e al congresso di Roma, il quale
sarebbe stato il custode della nostra padronanza e libertà;
di non aver voluto appellarsi in tempo alla republica francese,
perchè ammonisse l'alleato infedele a rispettare il patto col
quale era venuto in casa nostra. Si può rimproverar loro
d'essersi arresi a sacrificare il fatto della libertà per la
speranza della vittoria; di non aver cercato l'indipendenza per la
diritta via della libertà; di non aver detto in piazza tutto
il vero; di non aver chiamato il popolo dei sobborghi e delle
campagne alla pratica delle armi, alla fraternità del
bersaglio, a studiare le difese ne' suoi monti, nelle selve, nei
fossi, nelle muraglie; di avergli lasciato fare un arcano della sua
guerra e del suo governo e delle sue finanze; di non avergli nei
giornali parlato subito e sempre collo stile patriarcale di
Franklin, nè con modi semplici e forti come le sue barricate;
ma d'avergli incartocciato il discorso di formule metafisiche e di
circollocuzioni mistiche e di frondi e di fumo e di tenebre;
sicchè dopo quella valanga di carte, poveri e ricchi rimasero
in supina ignoranza dei fatti loro, e preparati a cadere eternamente
nelli stessi lacci. Sì ; dovevasi ripetere ogni giorno alla
nazione italiana l'istoria dei tradimenti passati, a torre
quell'imbecille fiducia che si riponeva nei traditori. Si doveva
mormorare e fremere ogni giorno contro la guerra svogliata e molle;
e non si doveva lasciare che ogni scaramuccia, ogni ricognizione
senza proposito e senza frutto, si celebrasse in battaglia
napoleonica e più che napoleonica; nè si glorificasse
tanto una spada che usciva sì malvolentieri dalla vagina, e
che nella prima battaglia campale rimase spezzata. I profeti della
libertà non dovevano porsi a sedere e tacere, quasi neutri e
forestieri, lasciando che le ambizioni cortigianesche prevalessero
senza contrasto alla salvezza e alla gloria della nazione. Pur
troppo in cuor loro essi fornicarono colla potenza regale; sperarono
veramente più da quella che dalla forza del popolo, nel quale
professavano di confidare unicamente. Tradirono li eterni principii
per il piatto di lenti che la forza materiale aveva loro promesso.
Erano pronti a soffrire, che, colla invasione della Lombardia, e
colla diserzione della Venezia e del Tirolo e dell'Istria, e col
furto della Sicilia, si ricominciasse una nuova e più
durevole scissione delle terre d'Italia. Lasciarono mettere sulla
santa bandiera il polveroso ragnatelo dei baroni di Savoia; e
acconsentirono al patto che rimetteva la guerra del popolo in
procura d'una corte, e dava in paga al mercenario la gemma della
libertà.
X
L'esercito del re
E' superfluo il dire come Carlo Alberto facesse ricusare apertamente
o destramente eludere le molte esibizioni dei volontarii francesi,
polacchi e svizzeri; i quali tutti avrebbero fornito li esperti
officiali che il Piemonte non aveva in numero opportuno a condurre
due eserciti. L'ajuto delli Svizzeri, formalmente offerto al Casati,
ebbe ripulsa.
Proni e devoti al re, li uomini del governo provisorio non
coltivarono le pratiche che si avevano in Tirolo, in Istria, in
Dalmazia, in Ungaria; tutto fecero per isolarci, e sviare da noi
quel favore che l'Europa libera doveva nutrire ben più per la
nostra causa che non avesse già fatto per la causa greca;
poichè l'Austria era odiosa e temuta a tutti; come
inesorabile nemica d'ogni libertà e nazionalità. Che
più? li avversarii del governo austriaco erano molti e
frementi, anco in Vienna. E di tuttociò nessun sussidio si
ritrasse per la nostra guerra.
Abbiamo notato quali interessi consigliassero al nostro
conquistatore di allontanare dal campo li ausiliarii italiani.
L'amicizia della rimanente Italia non eragli più gradita che
quella della Svizzera e della Francia. E il suo pensiero ebbe
così felice adempimento , che il 19 giugno il suo generale
poteva già scrivergli: "All'ora presente, noi siamo senza
alleati. Tutti sono scomparsi dal campo di battaglia"(11).
E il generale proseguiva: "I soccorsi che ci vengono annunciati
dalla Lombardia, non potranno acquistare una certa importanza che
fra tre o quattro mesi". Eppure vi erano parecchie migliaia di
soldati ribelli all'Austria, e parecchie migliaia di congedati. E
invece di richiamar questi, si sbandavano anche quelli, con
meraviglia e molestia delle popolazioni, alle quali si dimandavano
nello stesso tempo nuovi coscritti. Laonde, per la urgente guerra, i
veterani non si volevano adoperare; e i coscritti non si potevano; e
il paese intanto rimaneva disarmato.
I veterani vennero poi chiamati, ma quando per la lentezza della
guerra, e le sventure del Tirolo e della Venezia, ripullulava in
loro l'opinione della nemica potenza, e la tema d'esser mandati al
supplicio cadendo prigioni. Nè si prese cura alcuna
d'armarli, nè di vestirli, nè d'ammaestrarli al nuovo
servizio piemontese; cosa necessaria, dopochè per le solite
trame politiche si erano misti in ogni battaglione cinquecento dei
nostri con trecento delli infimi soldati piemontesi. - "Giunsero
infine dodici battaglioni di riserva misti di Piemontesi e Lombardi,
scrive il Bava, ma erano senz'armi e senza divisa; non vollero
prestare il debito giuramento; e ad alta voce si facevano intendere
che non si sarebbero battuti se non quando fossero ammaestrati e
vestiti, per non venire dal nemico tenuti in conto di rivoltosi, ed
esposti quindi al pericolo della fucilazione. Laonde, sebbene la
forza d'ogni battaglione misto fosse di ottocento uomini, di cui
soli trecento e tutti piemontesi potevano dirsi soldati, ed anche
deboli soldati, perchè tutti tratti dalle classi antiche e
quindi da molti anni dimoranti alle lor case e disusati alle armi,
tuttavolta se ne faceva ascendere la forza fino a trentaseimila
uomini; ivi compresi i dodici battaglioni tutti lombardi, che ad
ogni istante dovevano mostrarsi sul teatro della guerra, comandati
dal barone De Perron; ma che mai non si facevano vedere"(12).
E questi veterani mai non si facevano vedere alla fronte
dell'esercito, ove pure avrebbero potuto trarre a sè i loro
commilitoni rimasi ancora entro le linee di Radetzki, e avrebbero
potuto, in mano d'un generale audace e destro, servire a utili
sorprese e inganni militari. E ciò era perchè "vestiti
com'erano all'austriaca, e con abiti di Ungaresi abbandonati nei
magazzini di Milano, avrebbero potuto dare origine a qualche funesto
errore"(13). Nè codesto De Perron, era giudizioso e savio
ordinatore; anzi, a' suoi detti, parrebbe un insensato anzi che
no(14).
Come non si volevano i veterani, così non si voleva parimenti
dar ansa d'agguerrirsi alle guardie nazionali.
Quando i cittadini milanesi si offersero a marciare in soccorso
della Venezia invasa, Giuseppe Durini e Cesare Correnti, incaricati
del governo, dichiaravano di poterli accettare solamente a
condizione che non portassero "aggravio allo Stato!" E invitarono le
generose guardie nazionali, spontaneamente accorse all'appello della
patria, a volersi provedere dell'uniforme, e a volersi
altresì procurare il fucile possibilmente militare,
ottenendolo anche dai privati in dono o in prestito. E citavano li
urgenti bisogni della patria, la quale, a detta loro, non poteva
fornire nemmeno le trentacinque lire per un miserabile uniforme di
tela(15).
Per quanto il Durini avesse già fatto a guastare in quaranta
giorni le finanze, un sì esiguo risparmio non poteva esser la
vera cagione per la quale si accoglieva tanto scortesemente
l'offerta che i poveri cittadini facevano del sangue loro a salvare
i fratelli veneti. Dovevano essere misteriosi ordini del magnanimo
padrone. E più volte si vide chiaro come non si amassero in
mano alle guardie nazionali i fucili di portata militare. Tosto o
tardi la frodata popolarità doveva giungere a tristo fine; e
quelle armi dei cittadini si sarebbero ritorte contro i traditori. E
perciò si studiava che i buoni fucili venissero portati
lontano. Ma fortunatamente, in mano a quei valorosi fratelli, furono
più giovevoli a Malghera e a Mestre, che non sarebbero stati
nella tradita Milano.
Nè alle guardie che rimanevano si dava forte ed efficace
ordinamento, col preporre loro officiali che avessero animo
militare. Ai giovani che si erano segnalati nel combattimento si
anteposero perfino quelli che nei cinque giorni erano stati
notoriamente nascosti in cantina. Per tal modo le città
furono inabilitate a difendersi; e in effetto, quelle medesime che
erano insurte con maggiore ardimento, al ritorno del nemico non
opposero la valorosa resistenza delle città venete. Pertanto
i generali regii, ch'erano consapevoli e complici di quelli
scaltrimenti dei loro partigiani, ebbero a lagnarsi di non poter
disporre liberamente dei loro soldati, per non lasciare scoperte le
inermi nostre città(16).
A crescrere le difficoltà, le malattie, la confusione, si
assegnavano a sproposito i luoghi da difendersi alle diverse
compagnie di volontarii; i pianigiani cremonesi erano mandati a
stancarsi sulle montagne del confine trentino; i montanari comaschi
a prender la febbre nelle basse di Cremona; nessuno era a portata di
difendere la patria più vicino che si potesse alle sue case.
Il ministro aveva poi sempre cercato di togliere ogni efficacia alli
sforzi dei volontarii, lasciandoli stremi d'ogni più
necessaria cosa, lasciandoli senza scarpe sui dirupi, senza cappotti
alla difesa dello Stelvio, ch'è il più elevato e
nevoso di tutti i passi delle Alpi (2800 metri). Teneva celati al
publico i quotidiani loro combattimenti; e propalava e spesso
inventava i fatti che potessero discreditarli.
Del buon volere delli studenti, che vollero andar tutti al campo,
nessun profitto si ricavò. Il re pensava piuttosto a farli
sudditi che a farli soldati. Scriveva il general De Perrone che "il
ministro della guerra gli aveva palesato il desiderio manifestato
dal re, d'incorporare i due battaglioni delli studii in una
divisione piemontese"(17).
Quando li allievi di teologia vollero arrolarsi colli altri
studenti, e chiesero divisa militare, il governo rispose che per il
momento le strettezze dell'erario non lo concedevano; onde si videro
giovani volenterosi far l'esercizio sulla Piazza d'Armi, in veste
talare e cappello tricorne. Infine il ministro, costretto dalla
vergogna a far qualche cosa, fece acconciar loro i vecchi uniformi
dei poliziotti austriaci. mutando solo le mostre gialle in rosse.
Non si fece mai provedimento alcuno di difesa nelle campagne e nei
monti; non si prepararono leve in massa o altri ordinamenti di
popolo. Il canonico Vimercati che con una compagnia di sacerdoti
offrivasi d'andar predicando la guerra santa ai contadini, ebbe
altiere ripulse; e non fu accettato, se non quando non era
più tempo.
Anime basse e torbidi intelletti guastarono per tal modo il
più generoso e spontaneo moto di popolo che si fosse visto in
Europa dopo le crociate. Pur troppo non ebbimo a capitanarlo un
Goffredo, nè un Cor-di-leone.
Di questa maniera il re, non amando li ausiliarii stranieri,
nè i fratelli italiani, nè i soldati e volontarii
nostri, insomma non volendo altro esercito che il suo, ridusse le
forze d'una nazione di venticinque milioni e de' suoi poderosi
amici, alle milizie regolari d'un piccolo stato di cinque millioni.
La guerra sua, non solo non era europea, ma non era italiana.
È a notarsi inoltre che il suo governo non aveva potuto in
poche settimane tramutarsi d'assoluto a costituzionale. Le cose e le
persone rimanevano quali le aveva fatte un'oppressione gesuitica di
trentaquattro anni. La guardia nazionale non era armata, nè
compiutamente e sinceramente stabilita; perlochè il re,
nemmeno volendo, avrebbe potuto consegnare ai cittadini genovesi la
custodia delle loro fortezze, i cui cannoni erano rivolti ancora
contro la città. Gli fu dunque necessario lasciare indietro
considerevol parte dell'esercito. Laonde non potè condur seco
alla guerra nemmeno tutte le forze regolari del Piemonte. Di guerra
italica, che doveva essere, non riescì tampoco guerra
piemontese. E qui si vede uno dei modi pei quali la libertà
cresce le forze dei popoli, e il governo assoluto le scema.
Le riserve, che gettate fin dapprincipio sul nemico cedente, lo
avrebbero soprafatto; e che mandate ai passi del Tirolo e del
Friuli, gli avrebbero intercetto o almen tardato ogni soccorso,
mandate tardi, supplirono appena alle lacune fatte dalle ferite e
dalle infermità. E così aspettando l'arrivo delle
riserve, il re rimase in brutta e dannosa inerzia a mirare la ruina
di Vicenza(18).
Carlo Alberto, non potendo, per diffidenza o disistima che aveva de'
suoi generali, commetter loro l'esercito, e prendendo perciò
egli stesso il comando, rese inoperoso il fiore anco dei soldati che
aveva seco; poichè dovevano anzi tutto custodire la sua
persona. Apportava inoltre impaccio coi molti equipaggi; intralciava
con vane formalità e pompe le operazioni da lui medesimo
comandate; e col capriccio naturale ai principi, s'ingeriva a
turbare i particolari disegni de' suoi generali. E questi
perciò rimproveravano a sè medesimi, d'aver accettato
"un comando ch'era solo di nome" pag. 28(19).
Carlo Alberto, per esser generale, non cessava d'esser re. La guerra
pertanto non era l'unico nè il principale suo pensiero; ma
divideva la sua mente con la diplomazia, l'amministrazione e
sopratutto la polizia: faceva mestieri preservare soldati e sudditi
dall'esempio d'un popolo ch'era in atto di ribellione, e che pel
momento non si poteva ricondurre ad alcun riguardo di scritti e di
parole.
Carlo Alberto, come rampollo della casa di Savoia, doveva continuare
fra i sacrestani suoi ministri e generali, le sante affettazioni de'
suoi predecessori; e mettere pertanto alli ordini del giorni ben
assai più messe e rosarii, che non facesse il vecchio
Radetzki. Giunto dopo la disfatta presso Cremona, si trattenne per
due ore in una chiesa, a cantare le litanie col suo stato maggiore,
mentre l'esercito andava in perdizione. Per fermo era una prosapia
veramente troppo antiquata, che si era scelta a rifare un gran
popolo e condurre a compimento una gran rivoluzione.
Carlo Alberto non aveva esperienza di guerra, aveva visto un solo
giorno di battaglia; e non come generale. Era il granatiere del
Trocadero e nulla più.
Nè i suoi generali avevano più esperienza di lui. Una
pace di trentaquattro anni non era stata propizia alla pratica delle
armi(20).
Giova riferire quanto il ministro della guerra, generale Franzini,
disse publicamente inanzi alla camera dei deputati intorno a
sè medesimo e ai comandanti dei due corpi dell'esercito, Bava
e Sonnaz. "Io feci al re per iscritto la rimostranza, che tutta la
nostra esperienza sul campo di battaglia, per quanto a me, non
constava che di tre anni, come luogotenente d'artiglieria a cavallo
delle armate francesi. Per quanto al comandante del primo corpo
d'armata, non constava che di due o tre anni del grado di capitano,
abbandonato avendo l'armata francese all'età d'anni 21.
Quanto al comandante del secondo corpo d'armata, non constava che di
due anni di servizio, come tenente nelli ussari d'onore. Sua
Maestà, nella prima volta che mi vide, mi disse che l'Italia
doveva far da sè; e che non accettava la proposta d'un
maresciallo francese, ch'io proponeva come valente a raddoppiare il
valore della sua armata."
Nel lungo suo regno, il re aveva sempre trovato migliori quei
generali che professavano opinioni più stantie, e che
reprimessero con gesuitica oculatezza ogni libero pensiero nei loro
officiali. Nelle città, la polizia era commessa ai comandanti
militari, era principalissima loro occupazione, e sommo titolo di
merito. E perciò l'esercito era piuttosto in governo di
gendarmi che non uomini di guerra.
Laonde conoscendo l'imperizia di quei generali ch'erano fatti
secondo l'animo suo, non poteva fidar loro la minima libertà
di movimento. E nel medesimo tempo alli uomini d'altra fatta, alli
uomini valenti e generosi, non voleva lasciar adito a farsi nome e
raccogliere pericolosa popolarità. E così mentre la
sua politica esterna incatenava il suo esercito sulle rive del
Mincio, la sua politica interna gli toglieva anche in quell'angusto
campo la mobilità e risolutezza che ne poteva aumentare le
forze.
Il re, per timori di polizia, non aveva mai voluto mandare i giovani
a far pratica nelle guerre altrui, per esempio, nell'assidua scola
dell'Algeria, ch'era pure così vicina alla sua Sardegna.
Tuttavia, poichè i generali provetti non avevano più
esperienza dei giovani, avrebbe fatto meglio a preferire nel comando
questi, ch'erano almeno in età d'imparare, o ben piuttosto,
nell'età delli audaci pensieri e delle splendide
inspirazioni. Nè suoi generali, alle dubiezze dell'età
matura si aggiungevano le dubiezze dell'imperizia; poichè,
come dice Vico, chi non sa, sempre dubita. Laonde non si potevano
sperare quelli ardimenti strategici che sconcertano il nemico,
costringendolo a mutar subitamente l'ordine di marcia e di posizione
e d'approvigionamento. E pertanto il decrepito nemico potè
operare imperturbabilmente sui disegni che aveva visto eseguire in
quelli stessi luoghi cinquant'anni addietro, e che i suoi officiali,
da più di trent'anni, andavano studiando sul terreno, e
preparando colle fortificazioni e le aque e le strade.
Un'intera generazione militare si era consunta in Piemonte
nell'oziosa vita di presidio, e diremo pure, nell'ignoranza,
nell'ipocrisia, nel gioco. Non era addottrinata, non esercitata alle
grandi evoluzioni e alle mosse e cautele del campo. Dopo aver
cicalato tre anni di cacciare i barbari, e inorientare la casa
d'Austria, i generali del re vennero alla guerra senza carte. Quando
lo dissi primieramente, nell'opuscolo che publicai a Parigi, vi fu
chi mi protestò ch'era veramente incredibile. Ora su questo
punto, come su molti altri, ho la confessione dei colpevoli.
"Credetti, dice il general Bava, dover soffermarmi e serenare, per
non esporre la colonna a trovarsi fra le tenebre in presenza d'un
nemico padrone di posizioni a noi sconosciute; poichè lo
stato maggiore generale non aveva potuto provederci di carte
geografiche e topografiche del teatro della guerra; ed a noi era
stato impossibile il procurarcene, attesa la precipitosa partenza
pel Ticino"(21).
Si sarebbe potuto perdonare alli officiali francesi che furono
gettati nel 1830 sui lidi d'Algeria, se non avessero avuto le carte
d'una terra sulla quale non si erano sognati di capitare. Ma nelli
officiali piemontesi il non aver carte d'un regno finitimo, della
parte più importante d'Italia, della terra classica delle
guerre napoleoniche, è prova di un'indegna incuria e
ignoranza dell'arte loro. Avendo sempre osservato con ansioso
desiderio tutto quel poco bene che si faceva in Piemonte e nella
rimanente Italia, io pur troppo m'era già bene accorto che
l'esercito sardo difettava di stato maggiore. E lo aveva detto a
molti amici, fin da quando m'era venuta alle mani quell'informe
compilazione che con magnifiche apparenze aveva publicato, sulle
Alpi militarmente considerate, il quartier mastro generale, conte
Saluzzo, colli altri suoi officiali. Ma ebbi tuttavia a stupire
dolorosamente e sdegnosamente, quando andato nelle botteghe con
officiali piemontesi a raccogliere quelle carte che si potevano
trovare, vidi che nella scelta non mostravano veruna pratica; non
discernevano le carte compilate per triviale guadagno, purchè
nuove, dalle squisite carte militari, se menomamente logore loro si
esibivano. Il nostro Istituto topografico, che aveva fatto le grandi
carte del Lombardo Veneto, dei Ducati e dell'Adriatico, e molti
speciali lavori di topografia militare, era trasferito da qualche
anno a Vienna, insieme col suo deposito; e perciò la vendita
che vi si faceva, era sospesa; il mercante, in cui mano era poi
passata, aveva abbandonato il suo negozio; e pare eziandío
che lo Stato maggiore austriaco, conoscendo l'imprevidenza delli
officiali del re, mettesse in quella vendita una certa gelosia.
Avvenne poi che l'amico mio, il maggiore Angelo Tedesco di Trieste,
ebbe a fare imprimere a proprie spese una piccola carta, per
commento a certe dimande che diresse al ministro della guerra
Sobrero intorno alla difesa della riviera di Salò.
Perocchè, dalle risposte che il general piemontese gli
faceva, ebbe ad avvedersi che scambiava quella posizione, lungo il
lago di Garda, con quella del torrente Càffaro di sopra al
lago d'Idro; dimodochè gli rispondeva sempre ch'era
proveduto.
Codesti dannosi errori non si sarebbero commessi, se invece di far
ministro della guerra il Sobrero e il Collegno, solo perchè
nati piemontesi, quantunque generali di nome e dati essi pure ben ad
altro che a vita militare, si fosse fatto continuare nelle sue
fatiche il semplice nostro Comitato di guerra. Il quale, fin dal
primo dì che la città fu aperta e si potè
pensare alla campagna, si era dato cura di raccoglier carte. E ne fa
prova una lettera, rimasa in mia mano, del consigliere Fermo Terzi,
che, già fin dal susseguente giorno 24 marzo, rispondeva
all'invito nostro; e ci accompagnava la nota di tutte le copie che
ne' suoi officii si trovavano, sì delle carte provinciali d'1
a 115,200, sì delle grandi carte distrettuali d'1 a 32,000.
L'orgoglio, compagno sempre all'ignoranza, fece poi che si
rifiutasse il servigio di quei nostri officiali topografi, che nei
primi giorni, un poco per zelo, e un poco per compassione, vollero
accompagnare i generali del re; fra i quali era l'altro mio amico
Antonio Litta Biumi, autore della carta delli Stati Pontificii. E
non è a maravigliarsi che quei generali poi ci narrino d'aver
cacciato li sventurati battaglioni "in angoli o quasi imbuti,
sicchè non riesciva possibile di uscire dal labirinto, se non
col mezzo d'una marcia retrograda di circa la metà d'un
miglio. Quindi è che dopo inutili sforzi per ottenere che la
brigata Guardie sormontasse quelli ostacoli, si credette miglior
partito mantener la posizione"(22). Il che significa, che il
generale, privo di carte, mandò il fior delle truppe sotto la
mitraglia in luogo ove non si poteva andare inanzi nè
indietro ! E questo è il fatto di Santa Lucia; e la colpa era
del ministro della guerra, Franzini; che aveva fatto l'ordine del
giorno.
Tuttociò non tende a provare che il Piemonte non avesse
valenti officiali; e volentieri m'inchino all'autore della carta e
descrizione dell'isola di Sardegna. Ma tende a provare, che, per
quella venefica influenza dell'anticamera, del confessionale e della
polizia, la guerra regia cadeva necessariamente in mano ai
più ignari.
Qual era lo stato maggiore, tale era l'intendenza dei viveri. Per la
misteriosa convenzione del 26 marzo, il governo provisorio doveva
fornirli; ma i commissarii del re dovevano amministrarli. E pare che
nessuno ne dovesse render conto. Ne addivenne che ognuno di quei
soldati ci costò il doppio del necessario. Eppure l'esercito
patì la fame!
Si dimandò per ogni soldato 28 once di pane, 9 di carne, 9 di
riso, mezz'oncia di lardo e di sale, mezzo bocale di vino. Il nostro
tesoro ne pagò una quantità doppia; altra roba senza
termine fu somministrata dalle città, dai communi, dai
privati, sì per li ospitali che per li alloggiamenti.
L'esercito non fece mai lontane marcie, dietro cui non potessero
seguire i magazzini; si aggirò sempre a una giornata di
marcia da quell'eterno Goito e quell'eterna Peschiera. Eppure
patì la fame!
I trasporti sul campo di battaglia non erano affidati a un corpo
regolare; ma bensì a carrettieri avventizii, non soggetti ad
alcuna disciplina o regolare comando. Il generale stesso chiede:
"come aver fiducia che quelli uomini, senza alcuno che li dirigesse,
e non conoscendo che la loro volontà, avrebbero, specialmente
di notte, eseguito li ordini che loro venivano dati"(23).
Li effetti dovevano essere, nei fatti d'arme, gravissimi, decisivi,
fatali. "Il ritardo nel ricevere i viveri impediva la partenza
all'ora prescritta"(24). "Il duca di Genova mi fece sapere non poter
egli partire alle ore undici, sempre a motivo del ritardo dei
viveri. Il nemico, per effetto di questi malaugurati ritardi, aveva
avuto campo di farsi forte"(25). "La strada era ingombra di
carriaggi carichi di viveri per venire a incontrarci. Se i
prìncipi fossero partiti almeno poco dopo l'ora prescritta,
avremmo trovato l'esercito nemico in marcia e diviso"(26). "I viveri
furono sempre la pietra di scontro ( vuol dire, d'inciampo) in tutte
le nostre imprese. Non già che i magazzini ne fossero
sproveduti. Per rimediare a così fatto disordine, credo cosa
indispensabile l'organizzazione regolare d'un corpo incaricato del
trasporto delli effetti dei reggimenti e dei loro viveri."(27).
E Dio lo voglia. Era ben necessario cacciare i barbari, come
gridavano il conte Balbo, il marchese d'Azeglio e il general
Durando; ma prima era necessario deporre le vanità, e imitare
quelle istituzioni alle quali i barbari dovevano la strana potenza
loro in mezzo a noi.
Dice il general Bava, che questo servizio dei viveri "era
sconosciuto come li altri". Ebbene, fra codesti altri servigi
sconosciuti pare vi fosse il sanitario: onde schifose
infermità guastarono l'esercito, diradarono le file nei
momenti supremi, contaminarono il paese. Si seppe già questo
da una sguaiata circolare del generale Lechi (13 giugno), che invece
di riparare il male insultava l'esercito.
E la colpa non era tanto dei medici, quanto dei generali, che
tennero i soldati per più mesi a dormire sulla nuda terra e
sotto il nudo cielo, senza che si spogliassero mai delle vestimenta;
onde veniva quello squallore che faceva stupire i popoli(28). Ma vi
è di peggio. Sul campo vi erano solo otto chirurghi per una
divisione di diecimila combattenti; e non avevano i più
necessarii strumenti dell'arte, o li avevano a mala tempra; onde a
Santa Lucia, per operare le amputazioni, ebbero a prenderli in
prestito dalla brigata di Parma; e ciò per le avare riforme
fatte sotto il ministro Villamarina, e per quel proposito gesuitesco
di preparare li eserciti, non per la guerra e contro i nemici della
patria, ma per la pace e contro i popoli. E l'animo freme a udire
che quando dalle membra lacere sgorgava a rivi il sangue, non vi
fossero fasce da stagnarlo; e si dovesse adoperarvi i fazzoletti
delli officiali; e i carri delle ambulanze fossero sì pochi,
ch'era forza posare i poveri feriti sui cassoni dell'artiglieria; e
quei pochi fossero così male assestati, che le scosse davano
spasimi e sangue(29).
Pare che mancasse tutto il servizio d'esplorazione e d'avamposti,
anzi ogni servizio di cavalleria leggera; al che sarebbero stati
tanto opportuni li isolani di Sardegna. E in ciò pure sembra
che si potesse andare a scola dal barbaro. Il gnerale si lagna
d'avere inutilmente proposto "che venissero organizzati drappelli di
cavalleria armati alla leggiera, senza lancia, forniti di scelti
cavalli; officio dei quali esser dovesse quello di recarsi alla
spicciolata, ed anche in corpo se occorresse, ad indagare dalla
parte del nemico, sorprenderlo, disturbarlo, inquietarlo, e cacciar
sovente l'allarme nelle sue file ed alle sue spalle, come usasi in
ogni bene ordinato esercito, e come appunto operava il nostro
avversario"(30). Sembra però che il generale, nel disapprovar
l'uso della lancia in codesta milizia, abbia dimenticato che nelli
eserciti russi viene appunto assegnato a quell'arme.
Pare che si mancasse affatto d'un nuovo ramo d'artiglieria, quello
delle racchette da campo, mentre il nemico ne aveva apposite
batterie.
Pare che si mancasse pure nel servizio delli ingegneri. "Si
riconobbe che la mancanza d'utensili aveva di molto ritardato i
lavori"(31). "Un grave difetto ebbesi a notare in tutto il corso
della campagna nelle scuri dei zappatori d'ogni reggimento, le quali
non erano che semplici oggetti di parata , inutili affatto nelle
circostanze, difetto a cui non era possibile il poter provedere,
mentre non esisteva quasi parco presso il corpo del genio"(32).
Pare che si mancasse di polizia militare e di tribunali. "I
più grandi delitti restavano senza immediata punizione, o
perchè ne era serbato la cognizione ai Senati, o per lentezza
colpevole nel giudicarli; cosicchè, pei frequenti movimenti
delle truppe, dovendosi trascinar dietro i delinquenti, trovavano
questi facilmente un mezzo alla fuga, e si vedevano poi
ritornare"(33).
L'esercito austriaco, a forze eguali, non potè mai tener
fronte al francese; è d'un metallo più basso; ma pure
è un esercito che ha tutte le membra necessarie. Avvezzo a
fare di frequente la guerra, e a temerla perpetuamente,
perchè mescolato sempre in tutte le violenze che si fanno ai
popoli, conserva anche in pace l'attitudine ad ogni particolar
servizio di guerra. Ma i soldati del re non solo avevano avuto un
trentennio di pace, ma per il ventennio precedente erano stati fusi
nell'esercito francese; insomma, da un mezzo secolo erano un
complesso di reggimenti, ma non più un esercito con
personalità propria e intera. Dopo la battaglia di Millesimo
nel 1796, se si eccettua la passeggiata militare fatta in Francia
nel 1815, quell'esercito non aveva più operato da sè
in campo; mancava di molte membra, come i suoi capi confessano, e
non si era previamente addestrato a movere insieme. Il re fu poi
punito d'averlo lasciato snervare da influenze imbelli; onde non vi
potevano essere quelli spiriti intellettivi e generosi, che danno
improviso lampo in mezzo ai pericoli.
Pare infatti, che li officiali, nominati in gran parte per influenza
di pace e d'anticamera, non avessero proporzionata istruzione. In
Piemonte, per i tristi effetti dell'insegnamento gesuitico, il
numero dei giovani capaci d'esser buoni officiali era molto
più scarso che in Lombardia; i sottofficiali dovevano poi
essere rarissimi, per la vergognosa mancanza di scole popolari.
Eppure si era voluto estendere il loro servigio anche ai battaglioni
lombardi. Non è dunque meraviglia che restassero "compagnie
d'una forza sproporzionata, con quadri insufficienti(34). A questi
detti consuona ciò che il generale e ministro Da Bormida
confessò publicamente al senato del regno nella seduta del 21
ottobre. Dopo una campagna di quattro mesi, egli diceva : "questi
officiali sono in gran parte ancora poco istrutti; realmente abbiamo
troppi uomini, relativamente ai nostri quadri".
Epperò, invece di contrariare il saggio desiderio che si
chiamassero officiali e sottofficiali francesi e svizzeri
nell'esercito lombardo, sarebbe stato meglio introdurli in larga
copia anche nell'esercito piemontese, principalmente per i "servizii
sconosciuti".
Pare che li officiali mancassero anche d'istinto, e per così
dire, d'occhio militare. "Una batteria nemica, che si era spinta
avanti, fu talmente battuta di fronte e di fianco dalla nostra
artiglieria, che i pezzi vennero lasciati in abbandono per
più d'un quarto d'ora. E certo sarebbero stati nostri, se li
officiali superiori sapessero qualche volta operare da
sè"(35).
Se poi qualche officiale aveva più vivace intelletto, fra li
ozii di quell'immobile campo. lo spendeva, a dire del ministro e
generale Franzini, sindacando inutilmente i generali, "nei
caffè di Valleggio e Somma Campagna, come avrebbe fatto nei
caffè della Via di Po in Torino".
Pare inoltre che l'officialità d'anticamera, messa sul campo,
desse biasimevoli esempi al soldato. "Nel combattimento di Santa
Lucia, dice il generale, molti delli officiali superiori si fecero
vedere a piedi , durante tutto il fatto; molti cessarono di far uso
delli spallini . Si dice che li spallini espongono li officiali ad
essere il bersaglio dei tiratori nemici(36). Anzichè
permettere che l'officiale si celi nella calca, seguitiamo l'esempio
delli eserciti dell'Impero; esigiamo che all'approssimarsi del
pericolo, ognuno faccia orgogliosa mostra della sua divisa da
parata, senza timore di essere la mira delle palle nemiche, le quali
spesso colgono, più che l'ardimento, il vigliacco"(37).
Il generale ha qui posto il dito sulla piaga; ma non ha osato dire
tutta la verità. E perciò rimane da dire al Piemonte e
all'Italia, che per avere un esercito da campo e da vittoria, e non
da parata e da fuga, non solo è necessario accomunare al
merito tutti i gradi della milizia; ma è necessario negare
l'adito nell'esercito a tutti i cortigiani nati, che non abbiano
fornito prova di vero merito; perocchè, a merito pari, ed
anche molto minore, riesciranno sempre a farsi preferire. I
cortigiani devono essere accettati nell'esercito per eccezione!
Questo divorzio dell'esercito e dell'anticamera, questa
purificazione severa, è una condizione suprema, senza la
quale quei soldati non potranno mai tornar capaci di stare in campo
di fronte o di fianco ai soldati della republica francese. Bisogna
persuadersi che guerra di corte non vale guerra di nazione.
Resta a vedere come fossero i soldati
"Generali, officiali e soldati, tutti erano nuovi al mestiere", dice
il generale(38). - "I soldati vedendo i loro superiori senza i
distintivi prescritti dalla legge, credettero naturalmente poterli
imitare; e cominciarono quindi a liberarsi dei loro sakò; poi
delli spallini e delle cravatte; quindi di tutto quanto lor pareva
essere d'impaccio. Posta così da banda la tenuta militare,
non tardarono a farsi sordi anche alle leggi disciplinari"(39). -
"Mi venne fatto di notare che una squadra di bersaglieri aveva
lasciati i suoi sacchi in linea sul terreno, per esser più
leggera e disposta al combattimento. Trovai irregolare ed
arrischiata codesta risoluzione, che poteva privare il soldato de'
suoi effetti durante tutta la campagna"(40).
Senonchè, a questa licenza si sarebbe potuto riparare col
rigore; ma vi era al male un principio profondo, che non si poteva
levare sul campo. I popoli liberi possono farsi tutti soldati; tali
sono da cinque secoli li abitanti dell'antica Svizzera,
perchè da cinque secoli trattano le armi per proprio
sentimento e interesse, in patria e fuori, come loro conviene; e al
momento del bisogno insorgono tutti spontaneamente, poichè
nessuno sarebbe che li potesse forzare. I popoli servi possono
venire arrolati tutti nella milizia, e aver la divisa militare e la
militare obedienza; ma per i limiti insuperabili delle finanze, non
possono rimanere in armi quanto tempo basti a divenire buona materia
militare. Non possono acquistare la coerenza mecanica del soldato di
mestiere; e non hanno l'ardenza del soldato cittadino. E'
però a dirsi che quei soldati, appunto perchè non
induriti alla milizia, hanno umanità coi popoli; e in
ciò vuolsi onorare oltremodo l'esercito piemontese, in
paragone all'austriaco, ove tanti furono impunemente rapaci,
impunemente crudeli, incendiarii, uccisori di donne e di bambini. E
anche la morta corruzione gesuitica, per la superbia di quella
setta, non era discesa nella moltitudine dei poveri soldati; era un
morbo e una lordura del capo, non di tutte le membra. Il Piemonte,
fra l'immenso favore dei nostri popoli, sopratutto alpini, e contro
un nemico già conquassato sui bastioni di Milano, avrebbe
forse potuto con poche migliaia d'uomini robusti e squisitamente
ammaestrati, e proveduti d'ogni servigio da campo, con officiali non
d'anticamera nè da confessionale, e con un generale pugnace e
indefesso, spazzar la campagna, affrontare le orde croate
sull'Isonzo, chiudere le Alpi. I generali nemici riparati nelle
fortezze, appena valevano a frenare l'interno fermento dei
cittadini, e assicurare da subito impeto quei vasti recinti,
ordinati solo per resistere al di fuori; non si poteva durare alla
turbulenza dei soldati, e alle influenze d'un clima estranio. Ma dal
Piemonte fu spinta sul Mincio, a sforzate marcie, una gente d'ogni
statura e d'ogni configurazione, staccata appena dalli aratri e da'
telai, male ammaestrata nelle armi, e arrugginita pei lunghi congedi
provinciali. "Deboli soldati, li chiama il loro generale, e disusati
alle armi." E perciò la prima sua cura, quando giunse
sull'Ollio, non fu quella di conquidere il nemico già vinto e
avvilito, e non lasciargli agio a depredare le provincie ed empir di
roba le fortezze; ma "il momento di riposo fu messo a profitto per
introdurre un pò di disciplina nelle truppe, e per esercitare
i nuovi venuti al maneggio delle armi, di che avevano estremo
bisogno"(41). - Questi deboli e cattivi soldati ben potevano in
buona parte ordinarsi in corpo di carrettieri, di scorte, e
d'infermieri.
A chi udì parlare dei centotrentamila soldati del re, faranno
stupore, se prima non le conoscevano, le dichiarazioni fatte al
senato del regno dal ministro della guerra, generale Da Bormida, il
21 ottobre. "Non si fa un esercito di uomini ammogliati, di uomini
che passano pochi mesi sotto le armi, e poi vanno alle case loro.
Abbiamo cominciato la guerra e non avevamo ottomila uomini
d'ordinanza. Come sanno tutti, si chiamano uomini d'ordinanza quelli
che fanno otto anni di servizio; ebbene sanno loro, quante
promozioni, quanti sottocaporali si sono fatti durante la guerra?
Quasi settemila! Certamente la cosa sarebbe fin ridicola; parrebbe
che tutti i soldati d'ordinanza siano divenuti caporali: però
furono fatti caporali anche alcuni provinciali. Signori, questi
provinciali non erano uomini istrutti. Dunque vogliamo dire che
certamente abbiamo i bassi officiali poco istrutti e troppo uomini.
Io sono convinto, che, invece di tanti uomini sotto le armi,
varrebbe meglio che ne avessimo qualche migliaia di meno. Se
avessimo alcuni uomini di meno sotto le armi, saremmo più
forti. Questi uomini che abbiamo di troppo, sapete voi che uomini
sono? sono uomini di 33 o 36 anni; sono padri di numerose famiglie,
uomini che per alcune provincie sono non solo attempati, ma direi
decrepiti. Ebbene io sostengo che se ci fosse permesso di mandare a
casa loro una parte di questi uomini, il nostro esercito si
rinforzerebbe. Dunque l'esercito di 130 mila uomini non è
forte nemmeno come uno di 100 mila, nè come uno di 80 mila."
Al loro arrivo sull'Ollio, "il ponte era in parte disfatto; e alla
custodia e difesa di esso vegliava la compagnia Griffini con
alquanti volontarii dei contorni, essendochè, nel mattino di
quello stesso giorno un forte distaccamento, composto delle tre
armi, si fosse portato a cannoneggiarli in quella direzione". - Or
bene, quali furono i primi esempii che la disciplina regia diede ai
combattenti del popolo? Udiamolo dal generale. - "Ad un'ora
mattutina, alcuni Tirolesi si avanzarono carponi e fecero una
scarica sui cavalli e cavalieri... Il piccolo posto, sentendo il
foco alle spalle, credette conveniente ritirarsi più che di
passo. L'esempio fu imitato, attraverso ai campi, dalla guardia di
fanteria; perlochè riescì facile ad una quarantina
d'ulani di lanciarsi sui nostri cavalieri, non ancora riavuti dalla
sorpresa, e farne nove prigionieri con otto cavalli"(42). "Intanto
una ricognizione s'incontrava in un distaccamento che era di
ritorno; e non conoscendosi l'un l'altro, perocchè fitta era
la notte, si scambiarono alcuni colpi di fucile; per cui un soldato
fu morto, e alcuni altri toccarono ferite. Ho creduto dover chiamare
l'attenzione su questo primo incontro; perchè ognuno possa
giudicare quanto difficile incarico essere non dovesse quello di
condurre truppe in cui era difetto così visibile dei primi
elementi dell'arte di combattere. - Alcuni colpi di fucile mi si
fecero sentire. Accorsi senza indugio; e vidi fuggire in colonna
tutto intero un battaglione. Spintomi inanzi per ben conoscere la
cagione di quei colpi, potei convincermi ch'erasi dato adosso ad
alcuni mugnai di quel dintorno, i quali scambiati si erano in
nemici! Questo piccolo allarme si propagò subito al di
là dell'Ollio; e tutto un reggimento di cavalleria, che
tranquillamente ritornava, credendo d'essere attaccato in coda di
colonna da numerosa cavalleria nemica, partì in carriera.
Così venne a gettarsi lo spavento in tutte le
popolazioni"(43). "Le nostre truppe erano in continuo orgasmo; nella
notte, più accessibile alle vane paure, pareva loro di vedere
dovunque il nemico: i colpi di fucile si facevano sentire ad ogni
momento. Questi sussulti, questi allarmi che furono assai frequenti
durante il soggiorno del re, furono più o meno continuati per
tutta la campagna"(44).
Qual dolorosa differenza tra queste scene di paura notturna che
circondavano "il soggiorno del re" e il bellicoso tripudio del
nostro popolo, che perseguita sui bastioni lo sconfitto nemico! Qual
differenza tra chi combatte per obedienza al cenno altrui, e chi
combatte per passione sua propria, per vendetta delle ingiustizie
sofferte, per genio di libertà? Il nemico, avvezzo a
dileguarsi alla vista dei cappelli calabresi, senza dubbio
provò un gran ristoro alla prima vista delli spallini
d'argento. Le cose però non andarono sempre così. La
pasta del soldato italiano è buona; e il nemico era veramente
avvilito. Ma appena ebbe raccolto di che sfamarsi, ed ebbe soccorso
da' suoi, e vide la dappocaggine che guidava la guerra italiana,
egli tentò e ritentò finchè vinse. E alla prima
sventura, i poveri provinciali non furono più soldati.
"L'esercito, dice il generale, composto com'era di soldati
provinciali, trovavasi privo del gran movente che distingue il vero
soldato dal contadino armato; il quale s'è capace d'uno
slancio momentaneo, non lo è parimenti di sostenere le lunghe
fatiche e i pericoli d'una ritirata. Un soldato così fatto,
vuole vittoria, movimento; il minimo rovescio lo prostra, nè
forza umana può impedire il disordine"(45).
Dopo la prima rotta si spedirono invano officiali ai ponti
sull'Ollio "per trattenere quelle bande indisciplinate. Fu
impossibile il fermarle; imperocchè forzarono ogni ostacolo
opposto alla loro marcia furiosa; e con inconcepibile
velocità, corsero fino in Piemonte, spaventando con
menzognere novelle li infelici abitanti(46). Erasi pure manifestato
un insolito scoraggiamento nei corpi più valorosi; i quali
non si vergognarono di ritirarsi quasi senza combattere, davanti ad
un nemico a loro inferiore e qualche volta immaginario.(47)
Dacchè si era in ritirata, in generale si aveva ripugnanza di
rimanere all'estrema retroguardia, per cui coglievasi il più
piccolo pretesto onde schernirsene. Erano divenuti così
pusillanimi, temevano persino l'ombra del pericolo; nè
più si reputavano in sicurtà, se non quando trovavansi
riuniti in grandi masse. pag. 87. - Una trentina di vigliacchi si
abbandonarono distesi al suolo, protestando di più non poter
proseguire la marcia; preferirono di venir calpestati dai cavalli.
Erano taluni rassegnati a soffrire ogni danno, fosse anche la morte,
senza dolersi, senza far motto: purchè non si trattasse di
combattere. Questa ostinazione era desolante; ma era nel tempo
stesso una prova di più, come nei rovesci della guerra resti
poco a sperare da un sistema militare, il quale non porge
all'esercito che padri di famiglia"(48).
Come potessero poi codesti soldati delle provincie aver odio a un
nemico che non avevano mai visto, se non come amico e alleato del
loro principe contro la Francia e contro l'Italia, come potessero
avere il furore dell'indipendenza italica, non si vede. Il re,
coll'opera dei ciambellani, dei gesuiti, dei fratelli ignorantini,
delle dame del sacro core, li aveva tenuti in tenebre e in gelo.
Ogni voce che sonasse di libertà e d'Italia, era stata per
molti anni ferocemente strozzata in gola alla gioventù dai
satelliti regii. E si doveva morire per quel vessillo tricolore,
l'avere un lembo del quale, nascosto nel più secreto
penetrale della casa, era pochi mesi addietro un delitto di morte?
Se il re voleva giovarsi di quei colori per fare una conquista,
doveva ben prima d'allora, aver simulato di pregiarli e onorarli!
Intanto che le nostre fortune, la vita e l'onore erano appoggiati a
sì fragile canna, i settarii del re, invece di sollecitare
notte e giorno il popolo ad armarsi, e avventarlo senza indugio
contro il nemico, e chiudere le alpi, e mettere in disperata difesa
città e campagne : fomentavano nei cittadini una mendace
sicurtà; e giuravano loro anni gloriosi e sereni,
purchè solo andassero a deporre nei muti registri il
sacrificio della libertà. Chi non apprezza la libertà,
si rassegni a vivere servo.
Uno scritto, che il governo millantò segnato da diecimila
firme, diceva: "Officiali e soldati! Il vostro marziale entusiasmo,
la vostra mirabile disciplina, il vostro eroismo e quello di chi vi
guida nella vittoria, ci rallegrano e c'inorgogliscono!
Poichè nostre sono le glorie, come nostre e vostre sono le
speranze e le vittorie di tutti i figli d'Italia. - Noi ci studiamo
di consolidare colla concordia, coll'unione, colle civili
virtù l'opera dei vostri bracci gagliardi, delle vostre
formidabili spade! - Sia lode immortale all'esercito d'Italia ed al
suo gran capitano!"
E le povere donne, che furono anch'esse distorno e inciampo
gravissimo a chi voleva davvero salvarle, sollecitate dai regii
facendieri facevano eco a quelle insensate tumidezze; e scrivevano
alle donne piemontesi, glorificando "quei guerrieri, di cui avevano
ammirate le splendide assise, l'aspetto marzialmente severo, (le
infelici non sapevano delli spallini messi in tasca a Santa Lucia),
quelli animosi guerrieri, che avevano già sul Mincio
gloriosamente affrontate le palle dell'Austriaco, a cui era
assegnato il posto d'onore nella gran battaglia dell'indipendenza
italiana".
E chi vedeva imminente, terribile, il pericolo della patria, chi
sapeva la vanità di quelle adulazioni, e la debolezza di
quella regia larva, era additato nemico della patria, e consigliato
all'esilio, e minacciato di pugnale! - Nessun popolo si
avventò mai più ciecamente e sordamente nel
precipizio; nessun popolo fu mai sì voglioso della sua ruina.
XI
La guerra
Il sollevamento del regno lombardo-veneto era universale. Senza
accordi, inaspettato, divampava nello stesso giorno in Milano e in
Venezia, per effetto contemporaneo delle novelle di Parigi e di
Vienna. Zichy, comandante di Venezia, rese per capitolazione tutti i
forti della laguna, e s'imbarcò per Trieste con sette mila
uomini. I presidii di Osopo e Palma Nova furono disarmati; i
montanari della Carnia e del Cadore interruppero le strade che
vengono dall'Austria; il Tirolo si mostrava agitato; v'erano in
Trento soli duecento soldati, e la nuova fortezza presso Bressanone
era sguernita. I giovani di Lecco, di Bergamo, di Val Tellina, di
Val Camonica occuparono i passi che vengono dal Tirolo nelle valli
dell'Adda e dell'Ollio. La Rocca d'Anfo, nell'alta valle del Clisio,
era presa. Il mare e le alpi erano chiuse al nemico.
Nell'interno, le città venete, che riputavansi tepide nella
causa dell'Italia, insursero tutte arditamente. Schwartzenberg,
comandante di Brescia, patteggiò l'andata. In Bergamo un
figlio del vicerè, rimaso per un momento in potere dei
cittadini, riescì appena a partire co' suoi. I volontarii
liberarono Varese, Como, Monza, facendo prigioni tutti i soldati. A
Cremona, tremila italiani disertarono e diedero sei cannoni;
quattrocento ussari chiesero d'essere lasciati partire. I forti di
Pizzighettone e Piacenza colle loro artiglierie furono abbandonati :
ottocento ungaresi del presidio di Parma capitolarono a Colorno; i
presidii di Modena e Reggio cercavano di rifugiarsi in Mantova.
Colonne di volontarii, invano contrariate da Carlo Alberto, venivano
da Genova, da Alessandria, da Casale, da Aqui, da Saluzzo. La
Toscana, la Romagna, il regno di Napoli si apprestavano alla
crociata nazionale.
Smarriti in quel vasto moto, i generali stranieri si chiedevano fra
loro a vicenda un soccorso che non si potevano dare; i loro dispacci
venivano portati a noi. Scriveva nel 20 marzo il comandante di
Verona : "È verosimile che il reggimento Fürstenwerther
sia rattenuto a Venezia dal tenente maresciallo conte Zichy; e
finchè non arrivi, è impossibile lasciar partire di
qui il reggimento Arciduca Ernesto; perchè da un minuto
all'altro la ribellione può farsi aperta. Tutti portano
nastri tricolori; si allettò il popolo con pane e con vino.
L'autorità dei magistrati non ha più forza".
Scriveva nel 19 marzo un figlio del vicerè: "I signori
distribuiscono denari e coccarde tricolori; tutti girano
tumultuando, e gridando viva l'Italia. Abbracciano i Croati come
fratelli; e lo stesso fanno al caffè Bra colli officiali, che
sembrano assai titubanti. Portarono intorno sulle spalle un
officiale delli ussari, gridando evviva ai fratelli ungaresi!". E
nel dì seguente scriveva : "In casa abbiamo sempre due delle
loro guardie. Oggi pretendevano già di mettere un posto ad
ogni porta della città e ad ogni castello; e dicesi che
invece di quattrocento, siano già armati mille e cinquecento;
i quali alla prima occasione agiranno contro le truppe".
Così nelle grandi piazze d'armi di Venezia, di Verona, di
Mantova i presidii consueti non potevano resistere all'impeto delle
popolazioni; e se vi si rifugiavano altre forze, non vi era
proporzionata copia di viveri; poichè la rapacità dei
capi li aveva sviati.
L'esercito di Radetzki si travagliava intanto a trarsi fuori di
Milano. Uscito all'alba del 23, si trascinò quel giorno fino
al ponte di Marignano sul Lambro, e lo trovò rotto. Una mano
di giovani, si dice che fossero quarantacinque, osò fargli
fronte; e sulle prime avevano messo le mani sul generale Wratislaw;
ma poi la soldatesca empì d'ogni parte il paese,
incendiò molte case, scannò, saccheggiò; rimise
il ponte. Vivendo essa omai da una settimana a cielo scoperto, sotto
dirotte pioggie, tratto tratto senza pane, funestata notte e giorno
dal furore dei popoli, appena toccò Lodi, appena vide salvo
il ponte dell'Adda, si sdraiava in terra, appiè delle case,
rotta di fatica e di fame. Li officiali erano avviliti; udendo della
fuga di Metternich, dello sconquasso delle finanze, dell'agitazione
universale in Boemia, in Polonia, in Ungaria, perfino nel santuario
di Vienna, credevano disfatto l'imperio, pensavano allo scampo;
molti abbandonavano i loro battaglioni. Nel basso Bresciano i
sollevati presero uno stuolo di sessanta officiali fugitivi, con due
colonelli e uno dei fratelli Schönhals, prussiani di nascita,
credo, e predicatori all'esercito di furibonda teutomania. Mi si
fece dimandare se si potesse per avventura procurare una pensione
vitalizia a certi officiali dello stato-maggiore, ch'erano disposti
a fare qualunque nostro desiderio. La somma richiestami poteva
equivalere al capitale d'un mezzo millione; ma si dimandava che la
promessa fosse firmata da tre membri del governo provisorio. Non mi
riescì d'ottenere se non l'assenso di un solo; li altri mi
significarono che quelle mie sollecitudini erano inopportune :
l'esercito del re stava per arrivare; pareva, a giudicio loro, poca
cortesia l'averlo invitato a guerra del tutto finita. - Il Radetzki
lo prenderemo egualmente, diceva il Durini. Il Casati poi riputava
che sarebbe stata una vittoria immorale; Casati, il facendiero della
fusione.
Non intendevano che il momento era fugace. In verità Radetzki
aveva perduto in Milano una vera battaglia; tant'è quando un
esercito è costretto a cedere il terreno, avendo molti morti
e feriti, e ritirandosi in disordine per insolite strade. Trovando
intercette le tre strade militari di Lecco, Brescia e Cremona, era
costretto a sfilare stentatamente da Crema verso Orzinovi e Leno,
sopra una sola linea di tortuose e sconnesse vie provinciali, chiusa
fra terre irrigue, palustri, ingombre di piante e di fossi. In
quelle continue strette, una colonna lunga ventisette miglia,
assalita di fianco, non avrebbe potuto concentrarsi; nè
alcuna sezione dar pronto soccorso ad un'altra, per l'impaccio
infinito dei carri, delle carrozze, dei feriti, delle donne, dei
prigionieri, delli ostaggi, dei soldati italiani anelanti alla
diserzione o alla rivolta, e delli altri diversi di lingua, tutti
nemici fra loro, spaventati, famelici, derelitti dalli officiali. La
caduta d'un cavallo, la rottura d'un carro, bastava a fare inciampo
e disordine. L'urto d'un esercito regolare, e anche solo il fragore
improviso e notturno del cannone, avrebbe potuto cagionarvi una
confusione da Beresina. Se i comandanti piemontesi avessero avuto
facoltà di risolvere, e impeto militare, avrebbero potuto
lanciare i loro reggimenti per la via ferrata a Treviglio, al
momento medesimo del loro arrivo che fu al 26. Ma il Casati, per
fare dimostrazione di servile ospitalità, non badò al
nostro consiglio; e ci ordinò di farli alloggiare nel
Castello; inutile impaccio, perchè i nemici avevano lasciato
quel luogo in un disordine indescrivibile. Così si consunsero
ventiquattr'ore. Credo la vanguardia avesse quattromila fanti,
quattrocento cavalli e qualche artiglieria. A Treviglio poi v'erano
già tremila volontari con due cannoni. Si sarebbero dunque
trovati la sera stessa del 26 sul fianco di Radetzki, alla distanza
d'una marcia; potevano minacciargli il ponte dell'Ollio; continuare
almeno a turbargli i sonni. E siccome era privo di cannonieri, e non
aveva molta cavalleria; nè il luogo pieno di fossi e di
piantagioni era agevole a quell'arme, non correvano molto pericolo
nell'avvicinarsi. Anche il dì seguente, trovandomi alla via
ferrata per dare alcune disposizioni di loro servigio, non mi feci
riguardo di sollecitarli a profittar del felice momento; ma pur
troppo quelli officiali non erano avvezzi a stimar parola che non
venisse da uomini dell'arte loro, che poi così poco avevano
praticata. E la guerra non era più nostra.
Il retrogrado austriaco stava ancora a Crema al mattino del 28; era
il sesto giorno dacch'era uscito di Milano; e la distanza era di
sole trenta miglia. Una marcia confortata da così lunghi
riposi, invece di accrescere il disordine, lo aveva riparato; aveva
dato anche il tempo di raccogliere d'ogni parte i distaccamenti
vagabondi, e i presidii fugitivi di Pavia, Piacenza, Parma, Bergamo
e Brescia. In quel momento di fortuna, Carlo Alberto avrebbe potuto
inoltrarsi velocemente su l'uno o l'altro fianco dell'impacciato
nemico, per le due libere strade militari di Brescia e Cremona, e
per una via ferrata; aveva un'altra strada affatto sicura per
Piacenza sulla destra del Po; poteva giovarsi dei molti attiragli
che il lusso della città e l'agricultura opulenta delle
basse, in quel momento di fervore non ancora guasto, gli avrebbe
fornito; finalmente le vaporiere del Po potevano, in dodici ore,
trasportare tremila uomini dalla foce del Ticino a quella del
Mincio; potevano rimurchiare all'ingiù quante barche si
volessero raccogliere dai nostri Canali. Gli era dunque agevole
precorrere sotto Mantova, e anche sotto Verona, un nemico che appena
si trascinava come serpe ferita. Non faceva più di cinque o
sei miglia al giorno. Dando animo e braccio all'intestino moto delle
agitate cittadinanze, poteva Carlo Alberto sorprendere un'entrata in
quei vasti e mal difesi claustri. Infine, nel sollevamento
universale d'Italia, e nella impotenza momentanea del nemico, poteva
per qualche tempo far base di guerra ovunque, sull'Adda, sul Po,
sulla Laguna, trovar pane e ospitali dapertutto. Ma lo ripeto, del
Macedone al quale li adulatori lo paragonavano, altro non aveva
avuto mai che l'odio della libertà
Quali erano le forze di Radetzki in quel momento?
Nella sua cancelleria si rinvenne la nota dei corpi che componevano
il suo esercito; al 13 marzo. Le cifre nominali dei battaglioni e
squadroni quivi indicati farebbero 85 mila uomini; ma le cifre vere,
se si prende norma di quanto si accertò d'alcuni battaglioni,
non potevano oltrepassare 70 mila. Aveva avuto incirca 10 mila
disertori, 7 mila prigionieri e feriti, e 4 mila morti; onde coi 7
mila imbarcati a Venezia, la diminuzione avvenuta nei cinque
gloriosi giorni saliva a 28 mila combattenti; erano due quinti
dell'esercito. Vuolsi poi computare il molto materiale di guerra e
di marina lasciato in Venezia, e nelle minori fortezze di Comacchio,
Palma Nova, Osopo, Rocca d'Anfo, Piacenza, Pizzighettone,
nonchè in Milano e tutte le altre città. Credo che in
Piacenza fossero da cinquanta cannoni, perchè quei cittadini
da principio ce li offersero; ma il governo provisorio non si
curò di mandarli a prendere.
Restavano dunque al nemico in tutto il regno 42 mila uomini, fra i
quali erano ancora molti italiani; una parte delle forze era avvinta
alla custodia di Ferrara, Legnago, Mantova, Peschiera e Verona; una
parte errava col Daspre intorno a Padova; una parte, uscita dalle
diverse città, cercava raccozzarsi, ed era facile
intercettarla. Infine le ferite e le infermità dovevano a
guerra rotta, e sotto il nostro cielo, diradare ben presto
ciò che rimaneva. Al contrario, le nostre forze dovevano
accrescersi ogni giorno e per numero e per arte.
Lasciate a parte le forze regolari e irregolari conferite da tutta
la rimanente Italia, giova indicare qual fosse la forza e
composizione dell'esercito condutto in Lombardia dal re.
Nel primo corpo, comandato da Bava, le due divisioni Arvillars e
De-Ferrère erano composte dalle brigate Regina e Aosta l'una,
Casale e Aqui l'altra, rispettivamente sotto i generali Trotti, Aix
di Sommariva, Passalaqua, Villafalletto. Ogni brigata aveva due
reggimenti.
Nel secondo corpo, comandato da Sonnaz, le divisioni Broglia e
Federici erano composte dalle brigate Savoia e Savona, Piemonte e
Pinarolo; sotto il generale Usillon la prima, sotto Bès la
terza, sotto Manno la quarta. Ma della brigata Savona vi era un sol
reggimento.
La divisione di riserva era composta dalle brigate Guardie e Cuneo,
sotto i generali Biscaretti e Avernioz.
Erano 19 reggimenti di fanteria. Una seconda divisione di riserva
venne poi formata da quattro reggimenti provisorii, sotto il barone
Visconti.
Ognuna delle quattro divisioni attive aveva un battaglione di
bersaglieri. Inoltre colla prima divisione v'era il battaglione Real
Navi.
I reggimenti di cavalleria erano sei: Genova nella prima divisione;
Nizza nella seconda; Novara nella terza; Piemonte nella quarta;
Aosta e Savoia nella riserva.
Ogni divisione aveva due batterie; dieci in tutto; tre delle quali a
cavallo.
Vogliono che non fossero oltre ai 50 mila combattenti.
L'arrivo di Radetzki a Lodi represse il moto di quella città
e di Crema, tanto più che a Brescia e a Bergamo, certi capi,
essendosi impacciati a capitolare coi generali austriaci, non
avevano ingiunto loro la condizione almeno di ritirarsi incontanente
in Austria per la diretta via dei monti; il perchè poterono
rivolgersi per l'opposta strada e ricongiungersi con Radetzki, che
veniva a incontrarli in Crema. Questa città, già
tumultuante, si trovò improvisamente presa tra due fochi; la
spinta che avevamo data d'ogni parte ai popoli, d'interrompere in
quella parte, inanzi alla colonna nemica i ponti e le strade, rimase
sventata. Il generale Teodoro Lechi, anzichè recarsi di
persona a spronare e guidare all'opera i suoi Bresciani e i
Cremonesi, e i volontarii che piovevano d'ogni parte, si recava
placidamente a Pavia, per far baciamano al magnanimo re. E mi
ricorda d'averne fatto veemente lagnanza a' suoi veterani nel
comitato di guerra, dicendo loro che veramente la gioventù li
aveva cercati per cani da lupo, non per cagnolini d'anticamera. Il
governo poi faceva già intendere a tutti che oramai
l'esercito farebbe ogni cosa; epperò gli pareva meglio che il
popolo non si mescolasse a impacciare la guerra del re. Così
trovò Radetzki liberi per ottanta miglia tutti i ponti dopo
quello del Lambro. Il 28 passò l'Ollio col centro della sua
colonna; il 30 era a Ghedi, ch’è incirca al meridiano di
Brescia; era già ingrossato a 26 mila uomini con 1500
cavalli; e inviava altri 6 mila soldati per Leno.
L'esercito regio, marciando intanto a suo bell'agio, raggiunse il
nemico solamente al confine di Lombardia; ebbe il primo fatto d'armi
l'8 d'aprile al ponte Goito sul Mincio. Ma giunto sopra i colli di
Somma Campagna, che signoreggiavano l'altra riva, parve preso di
repentina immobilità. La conquista della Lombardia pareva
già compiuta, già finita la guerra, maturo il tempo
del riposo e della mercede; a questa unicamente agognava il re. I
suoi generali si accasarono nelle amene ville dei Veronesi e
Mantovani; appena quei signori di corte degnavano lasciarsi vedere
ai soldati. I quali intanto attendevano a imparare "il maneggio
delle armi, di che avevano sommo bisogno". Tutti quei fatti d'arme
di Rivoli, di Pastrengo, di Bussolengo, di Santa Lucia, di Goito,
nei quali si prodigò senza disegno un sangue prezioso, e un
tempo ch'era un dono di Dio nè si può sperare ad ogni
volta, avvennero intorno a Peschiera, entro il raggio d'una giornata
di cammino. Era il circolo magico segnato dalla politica del re.
Questo io scriveva in Parigi, temendo pur sempre che i rei,
dall'inesorabile opinione dei popoli appellati a dar conto delle
opere loro, potessero un giorno additare un pensiero qualsiasi che
li avesse governati. Ma dopo ciò che i generali confessarono
inanzi ai senatori e ai deputati, e ciò che diffusamente
scrissero, si fa sempre più manifesto il vero di ciò
che primamente dissi : non esservi stato in quella guerra pensiero
militare; avervi dominato il solo pensiero politico, di tener
occupata la Lombardia, finchè l'Austria fallita segnasse una
nuova pace di Campoformio, e i popoli scorati e stanchi vi si
rassegnassero.
Se si giudica dalle loro confessioni, i generali del re non
abbracciarono mai colla mente tutto il campo della guerra. Il quale
si spiegava in vasto cerchio, dal confine tra il Tirolo e i
Grigioni, lungo lo Stelvio, il Tonale, i laghi d'Idro e di Garda, il
Mincio, il basso Po, le lagune venete, e le fortezze di Palma Nova e
d'Osopo al passo della Ponteba; e di là, seguendo la cresta
delle Alpi e involgendo la Carnia e il Cadore, ricongiungevasi al
Tirolo, chiudendo in seno i campi tante volte insanguinati del
Vicentino e del Trivigiano. In questo circuito, di quattrocento e
più miglia, i generali del re, affatto rinunciando alli
esempi della napoleonica agilità, si circoscrissero da
principio a quel breve arco di venti miglia che segue il corso
superiore del Mincio da Peschiera a Mantova; si allungano poi a
sinistra fino a Rivoli, a destra sino alla foce del Mincio; ma
sempre facendo immobile siepe inanzi alla Lombardia, con quel modo
di guerra che soleva farsi un secolo addietro; e che non potendo
essere offensivo, alla fine dei conti non riesce nemmen difensivo.
Dal lago di Garda ai Grigioni, la siepe rimase sempre formata dai
soli volontarii, quantunque nelle antecedenti guerre lo stesso
nemico avesse fatto sempre irruzione anco per quelle valli, a tergo
della linea del Mincio. Alla prima partenza dei volontarii, avevamo
raccomandata loro una pronta discesa in Tirolo, sì per
propagare l'insurrezione sino ai naturali confini d'Italia,
sì per assicurare a tergo e a fianco l'esercito regolare.
Anzi se una parte considerevole dell'esercito vi avesse fatto subito
impeto, poteva, traendo seco quei popoli sollevati e i montanari
veronesi, discendere a rovescio sui colli di Verona, raccogliere a
sè i crociati ch'erano a Montebello, sforzare la città
tumultuante, certamente stringerla, torre al nemico la
libertà di provedersi predando, e di ricever gente dalle
alpi. Presa la piazza d'armi, nulla più importavano li
angusti antemurali di Peschiera e di Legnago; e il cielo di Mantova
avrebbe divorato quella qualunque moltitudine d'uomini che per lungo
tempo vi dovesse rimanere.
Ad ogni modo i volontarii si dovevano mandare nel Tirolo in numero
considerevole, anche per non ingannare e tradire i nostri amici; e
tali erano stati li accordi fatti a Montechiaro. Conveniva poi dar
loro capitani audaci e combattenti, e qualche scorta di regolari
scelti, di cavalli e d'artiglierie. E per verità, quando si
voleva poi fare stabile distaccamento a Rivoli col lago alla
schiena, era meglio averlo fatto a Riva, a sommo il lago, ove sicuro
della ritirata avrebbe potuto combattere più fermo. Conveniva
infine munire i volontarii di denaro, di cappotti, di calzari, di
pane; perchè il paese non è ricco, e non si doveva
porsi a carico delli amici. Ma i generali del re, assentendo di mal
animo all'impresa perchè non la intendevano, cominciarono a
ritenere alla loro avanguardia le colonne Thannberg, di Torres, di
Griffini, la Mantovana, la Pavese, e altre; e ridussero la
spedizione a due mila volontarii, senza regolari, senza cavalli,
senza cannoni(49), senza polvere, senza pane, senza abito e
calzatura da guerra; e ciò quando il primo impeto di marzo
era già passato, e le forze nemiche da duecento uomini
s'erano accresciute a quattromila con cannoni e cavalli; e
perciò in quel popolo era rinato il timore.
Tuttavia, quando al 10 d'aprile passarono il confine, sopra il lago
d'Idro, furono bene accolti. "In Tione ergevasi l'arbore della
libertà col vessillo tricolore, e creavasi un governo
provisorio"(50). Alla sera del 13 si entrava nel forte castello di
Sténico; il 14, si giungeva alle Sarche. "I nostri, dopo i
primi colpi, spingevansi colla baionetta all'assalto del ponte, e in
pochi minuti lo passavano vittoriosi; conquistavano in seguito, casa
per casa, il paese delle Sarche, costringendo il nemico a
rinserrarsi nel castello di Toblino. Non prevalendo il consiglio di
assalire il castello la sera stessa, essendo noi privi
d'artiglieria, la notte passavasi nel far barricate intorno, e nel
tagliare i ponti che conducono a Trento e Riva. Alla mattina del 15
arrivava ai nemici rinforzo da Trento. Così rafforzato, il
nemico tentava una sortita; ma dovette ritirarsi nuovamente in
castello. Poco dopo tentava una nuova sortita, che veniva dai
nostri, con egual valore della prima, respinta. Disperando allora di
poter ricacciare i nostri al di qua delle Sarche, e vedendo di non
poter più oltre sostenersi in castello, risolvevasi ad
abbandonarlo, e piegavasi in ritirata verso Trento. I nostri
inseguivano il nemico; gli toglievano due carri; ferivano parecchi
dei fugitivi; indi una quarantina d'uomini si spingevano sin oltre
Vezzano; e quivi piantava l'arbore della libertà, fra li
applausi del popolo, e le benedizioni del curato in pompa
sacerdotale. Giuntovi il resto del battaglione, si disponeva a quivi
pernottare, avendo già collocati li avamposti di fronte al
nemico; ma ricevuto l'ordine di ritirarsi, ripartiva verso
mezzanotte, verso Toblino.
Il giorno 16, giungeva l'ordine di ritirarsi a Stènico.
Trovava i soldati stanchi dalle fatiche campali di due giorni e due
notti, malcontenti per la deficienza d'ogni materiale da guerra,
circondati dal nemico, indeboliti dalla fame, dalle fatiche. Eppure
questi soldati non volevano abbandonare il posto. Li officiali
radunatisi fecero un indirizzo al comandante, pregandolo a non voler
lasciare una posizione conquistata con tanti stenti e col sangue dei
loro generosi soldati. Promettevano di difendere fino all'ultimo
respiro la conquistata posizione tutto quel giorno e la notte
successiva, sperando che in questo tempo arriverebbero le munizioni.
Quei generosi avevano divisato in caso d'attacco di fare le poche
scariche che avevano; poi in ogni modo spingersi colla baionetta fra
le schiere nemiche". Al cadere della notte, una lettera del generale
Allemandi, in data di Salò del 14 aprile, annunciava : "Non
doversi far nulla senza il concorso dell'armata piemontese; e questo
soccorso venir per ora rifiutato. Il 17 si metteva a disposizione
d'Arcioni la colonna Beretta e due pezzi d'artiglieria, che dovevano
essere a Tione la sera del 16. Ma Beretta non v'era; e il capitano
Chiodi rispondeva, aver ricevuto ordine dall'Allemandi di non
avanzarsi coi cannoni, oltre Tione. L'Allemandi chiamava in Tione a
consiglio tutti i capi delle compagnie; e questi ricevevano per
istrada l'avviso: Allemandi essere andato a Milano; non sarebbe
quindi venuto a Tione"(51).
Intanto le colonne Sedaboni e Molossi, volgendosi verso Arco e
Tenno, erano assalite più volte. Faceva freddo, pioveva
dirottamente, e le strade erano in pessimo stato. Il 19, seicento
nemici con travestimento di volontarii e insegne tricolori,
tentarono sorprendere 400 dei nostri; ma furono respinti dopo tre
ore di combattimento, nel quale cadde dei nostri una ventina. Alcuni
feriti che si mandarono verso Stènico, furono, per
similitudine dei nomi, portati dai loro compagni a Sclemo, ov'erano
i nemici. Il colonnello Zobel ne fece fucilare diecisette sotto le
mura di Trento, fra le maledizioni dei cittadini. Zobel non è
croato; non nacque nemmeno suddito dell'Austria. Qual biasimevole
modo di provocarci alla vendetta ! qual modo di rimeritare la
generosità del nostro popolo verso i prigionieri !
Si sapeva intanto il nemico aver ricevuto rinforzo d'alcune migliaia
d'uomini. Stènico era difficile a difendere con poche truppe;
quelli del paese supplicavano a non volerli perdere, restando
più oltre fra loro; giacchè tutte le case essendo
coperte di paglia, al primo colpo il paese sarebbe andato in fiamme.
I soldati cominciavano a diffidare. "Dicevano ad alta voce d'essere
non solo abbandonati, ma traditi dall'Allemandi, dal ministrerio
della guerra e dai governi provisorii. I viveri erano in poca
quantità; ritirandoci in castello, dopo due o tre giorni
avremmo dovuto arrenderci per fame. Partimmo da Stènico. In
Tione ci giungeva l'ordine del giorno, che annunciava lo
scioglimento dei corpi franchi. L'intenzione del governo di Milano
era di non agire più oltre in Tirolo"(52). Il governo aveva
adottato li avvedimenti diplomatici del re; era entrato secolui
nella via della perfidia. I volontarii, fremendo e piangendo,
uscirono il 21 da quella terra bagnata del loro sangue; videro li
abitanti nascondere e ardere le insegne tricolori, cercare di
salvarsi dalla vendetta austriaca col nero e col giallo; invano;
poichè molti furono tratti prigionieri in Germania.
"La mattina del 24 si entrava in Brescia. Fummo accolti non
già come Italiani, ch'erano stati a battersi per la
libertà della patria; non già come fratelli dovevano
essere accolti da fratelli; ma come si sarebbe potuto accogliere lo
straniero, che venisse a imporre nuovo giogo. Dappertutto silenzio e
freddezza. Alcuni impiegati insultarono perfino la colonna Manara.
La marcia degli ultimi giorni erasi eseguita sotto una dirotta
pioggia; facevano pietà li stenti e le fatiche che dovevano
sopportare i nostri soldati; moveva sdegno il pensare, in quale
stato d'abbandono ci avevano lasciati coloro che pretendono dirigere
la rivoluzione; irritava il vedere come coloro che si mettono alla
testa della novella Italia, trattavano quei generosi che per
redimerla sacrificavano i loro interessi, li agi della vita, la vita
stessa. Pochi erano muniti di cappotto o di mantello. Quasi tutti
avevano le scarpe sdruscite, e pressochè inservibili;
più di centocinquanta, non è esagerazione, più
di centocinquanta viaggiavano a piedi nudi.
"In Brescia dimandammo come si potesse entrare in un'armata
regolare. La sera del 25 aprile, si spediva per organizzarci il
colonnello Cresia coll'uniforme delle truppe di sua Maestà
Sarda; con officiali tutti com'egli, in abito e soldo di Carlo
Alberto; e ci proponeva paga di Carlo Alberto, disciplina di Carlo
Alberto. Questo fatto tolse il velo dalli occhi nostri; forse
sciogliemmo allora l'enigma, del perchè eravamo così
malmenati. All'ordine del giorno del colonnello Cresia, i nostri
soldati rispondevano: voler essi bensì entrare in qualunque
armata che italiana fosse; non volersi mai porre sotto li ordini di
un re, nè di una frazione qualunque d'Italia; esser dessi
colli Italiani, Italiani: in faccia ai Toscani, ai Piemontesi o a
tutt'altra frazione d'Italia, Lombardi. Al grido di Sua
Maestà il re, risposero con voce concorde: viva la Republica
Italiana.
Il dì 28 la nostra colonna entrava in Milano; ed era accolta
in modo che, se colmò di gioia i nostri soldati, fa grande
onore ai Milanesi, mostrando che se sanno ben battersi di fronte al
nemico, non sono sconosciuti a chi, come loro, espone vita e beni,
per la commune libertà(53).
Si voleva che la nostra colonna ritornasse in Lombardia coll'onta d'
una sconfitta. - Noi avremo contro di noi, quelli che non hanno fede
nella rivoluzione, che non hanno fede nel popolo lombardo, che sono
contenti di cangiar basto, senza aver l'ardire di pensare a
liberarsi: ma avremo con noi tutti i generosi. E questi generosi
vedranno quali uomini abbiano ora in mano i destini di Lombardia,
vedranno s'egli è in questa guisa che si procura l'alleanza
di tutti li elementi atti a far trionfare la rivoluzione; che si
inspira fiducia a coloro che denno abbandonare i loro focolari per
combattere lo straniero. E conosceranno avere l'Allemandi, o il
ministro della guerra, o chi altri ne ha colpa, fatto il loro
possibile per allontanare questi generosi, per alienarli dalla
nobile impresa, per denigrarli in faccia al popolo lombardo, e
denigrare il popolo lombardo in faccia all'Europa. Voglia il cielo
che la Lombardia non abbia mai più ad essere ridutta a
ricorrere a loro contro l'invasore straniero"(54).
L'abbandono del Tirolo era il primo passo alla nostra ruina; ma
Carlo Alberto in quei medesimi giorni ci tradiva anche sulla
frontiera illirica. Lasciava che Nugent raccogliesse tranquillamente
al di quà delle Alpi, sulle pianure dell'Isonzo un esercito
per soccorrere Verona; lasciava che attorniasse Udine; che riducesse
i pusillanimi suoi magistrati ad aprirgli, nella disperazione d'ogni
soccorso, le porte. Fu al 23 aprile; nel giorno in cui si compieva
il primo mese dalla sua liberazione.
Dato per tal modo al nemico il Friuli e il Tirolo, cioè le
valli del Tagliamento e dell'Adige, rimase isolato il Cadore, valle
dell'alta Piave. Qui non è a tacersi che il veterano Giovanni
Manzoni, ch'era stato a lungo per quei monti in opere censuarie,
aveva proposto al ministerio della guerra di preparar chiusi tutti
quei passi delle Alpi, facendo ripari e mine in pochi luoghi
opportunissimi; dimodochè, per poca difesa di buone armi che
vi si facesse, nemico veruno non potesse facilmente discendere in
Italia, nè uscirne. Ed era spesa di nessun momento. Non vi si
badò; i settarii del re portavano improntato nell'anima
Campoformio. Tuttavia quei poveri alpini, senza soccorso alcuno,
nemanco di buone parole, si sostennero per due mesi contro un nemico
che tentò irrompervi da sette diverse vie, e che togliendo
loro il commercio colla pianura veneta, potè affamarli.
L'animo s'accende d'ira, al vedere si generosi popoli immolati a una
politica di fango.
Fin dal 17 aprile, avendo ricevuto dal Tirolo e dal Friuli novelle
che facevano presagire vicini quei disastri vinsi la ripugnanza, e
mi recai presso il governo provisorio, palesando a quelli improvidi
la gravezza del pericolo. Derelitto il Tirolo, diveniva
topograficamente impossibile difendere la Venezia. Anche nel 1813
l'esercito italiano di Beauharnais l'aveva dovuto abbandonare,
arretrandosi d'un tratto, e senza combattere, dalla Sava al Mincio,
per effetto della defezione de' Bavari; eppure questi erano allora
in possesso solamente della Merania, e non del Trentino, come ora li
Austriaci. Aggiunsi, che se l'esercito regio non era sicuro del
Trentino, non avrebbe nemmen potuto conservare a lungo quella sua
posizione in aria tra il Mincio e l'Adige, vera isola fra quattro
fortezze. Il nemico a cavaliere d'ambo i fiumi, avrebbe posizione
sommamente offensiva, appenachè dal Tirolo e dall'Isonzo
potesse ricevere soccorsi. E potrebbe pel Tirolo stesso discendere
sopra Salò e Brescia, come aveva sempre fatto, e costringere
l'esercito a lasciare il Mincio, o per lo meno a dividersi. Era
posizione sotto ogni aspetto falsa. Perchè lasciare al nemico
quelle pingui provincie da divorare? perchè tradire
così Venezia? Qual principio di difesa era quello che
abbracciava una sola metà del nostro regno? Carlo Alberto
faceva la politica, non faceva la guerra. Gravi disastri si
preparavano per noi. Era giusto che sapessimo almeno chi doveva
risponderne alla nazione; era tempo che il governo dimettesse il
principio austriaco della collegialità e ripartisse fra i
suoi membri i ministerii. Il Casati mi rispose essere cosa
impossibile; i membri del governo provisorio essersi già
troppo esposti, e non volersi aggravar più oltre.
Mi ringraziò gesuiticamente del buon volere; ma con
incredibile pervicacia e per decreto di quel medesimo giorni 17,
richiamò tutti i volontarii dal Tirolo a Brescia e Bergamo,
sotto colore d'ordinarli e vestirli. Le infelici famiglie trentine,
spinte, solo una settimana inanzi, a sollevarsi contro l'Austria,
abbandonate ora all'austriaca vendetta, e profughe dietro i passi
dei volontarii, fecero udire per la prima volta fra noi quell'accusa
di tradimento che si alzava a quei medesimi giorni in Udine, e che
con più funesto suono si ripetè alla fine nella nostra
città.
Nugent passava il Tagliamento e la Piave; pure, dovendo egli tener
presidiate Udine e Belluno, e custoditi molti ponti, non avrebbe
potuto fare grave impressione nella Venezia, derelitta dal re, ma
soccorsa dai fratelli romani e napolitani. Ebbene, Carlo Alberto da
una parte, colli inverecondi maneggi contro il Borbone di Piacenza,
aveva inimicato il re Ferdinando; e dall'altra, era riescito a
imporre per generale ai Romani uno dei Durando. Sì poco
destri quei generali regii a condurre i proprii soldati, si
arrogavano d'essere capitani e maestri d'arme a tutta l'Italia. Nei
loro opuscoli e giornali s'intitolavano moderni Macedoni, destinati
ad atterrare l'imperio dei barbari. Di Macedoni, avevano solo l'odio
della libertà. Durando indugiò prima a passare il Po;
indugiò poscia a munire il passo della Piave; indugiò
a combattere; combattè divisamente; mancò all'intento
della sua spedizione; cadde in sospetto; fu accusato. A torto. Era
solamente il servo del suo re; il tradimento era nella guerra regia;
poichè, mirandosi solo ad una pace di Campoformio, si era
fisso che l'Austria ristaurasse il suo dominio nella Venezia. Non
sarebbe stato prudente consiglio nel re, lasciar sopravivere
colà una repubblica, sì presso a Milano, sì
presso alla città che doveva essere inevitabilmente sede
dell'opposizione.
Quelle infelici venete città erano nei calcoli del re
già devote allo straniero; eppure egli frattanto simulava di
volerle congiunte al suo regno; e dimandava loro fra quei terrori e
quelle angoscie un libero voto di fusione col Piemonte. Era solo per
disgiungerle da Venezia, e trarle sotto al comando d'alcuno de'
suoi, che potesse all'opportunità capitolarle al nemico.
Queste malizie non si potevano celare perfettamente; laonde il
governo provisorio fu costretto a richiedere il marchese Pareto,
agente del re, di dar qualche schiarimento di certe lettere scritte
dal campo romano "nelle quali, deplorandosi i recenti fatti militari
delle provincie venete (cioè l'abbandono della Piave e il
passaggio di Nugent), si cercava di spiegarli, imputandoli
più che a necessità di guerra, a ordini pervenuti dal
quartier generale dell'esercito piemontese, quasi si volesse far
cader dubio sul leale procedere del governo di Sua Maestà". E
il Pareto, cortigianamente negando, confessava "non essere la prima
volta che gli giungevano all'orecchie rumori di questo genere"(55).
Fra queste brutture, era giunto il mezzo maggio; e Nugent era sopra
Treviso e Vicenza. Per buona ventura, i nostri volontarii vi avevano
apportato il disprezzo del nemico e la semplice arte delle
barricate; erano stati come scintilla sull'accensibil esca popolare.
La difesa fu bella e felice a Treviso e a Vicenza. Allora Nugent si
rimise in via per Verona, e si congiunse a Radetzki. Il quale,
così rinforzato, cominciò allora la sua guerra,
tentando di nuovo Vicenza; e la fece assalire il 23 maggio da 18
mila uomini con quaranta cannoni, che la fulminarono per
diciott'ore. Vi perdette duemila uomini, ma invano. Fu per l'Italia
il più glorioso fatto di tutta la guerra(56).
Il re frattanto non pensava intensamente se non a sollecitare,
contro i patti, la sommissione della Lombardìa. E qui
è tempo di dar cenno seguìto dei fatti del suo
esercito; il che faremo valendoci delli scritti del Bava e del
Ferrero.
Il 23 di marzo, passava il Ticino; entrava in Pavia; il 5 aprile,
era all'Ollio; l'8 al Mincio; furono ottanta miglia in quindici
giornate. Quando era a Lodi, il nemico era a Crema, lontano dieci
miglia. Invece di passar l'Adda e andarlo a urtare nella sua
confusione, si volse a destra verso Piacenza; era il rovescio
preciso della marcia di Bonaparte. Sul Mincio, il nemico mal destro,
nel far saltare il ponte di Goito, lasciò sussistere il
parapetto. Privo poi, come già si disse, di cannonieri, fu
costretto in breve dal foco superiore dei Piemontesi ad
allontanarsi. "Fu allora che alcuni soldati ebbero il coraggio di
passare sul parapetto, e inseguire il nemico che si ritirava a
precipizio"(57). Si fece un centinaio di prigionieri; ma rimasero
feriti tre valenti officiali, Della Marmora, Maccaroni e Wright. Nel
dì seguente, fu arso il ponte di Monzambano; ma venne tosto
ristabilito dai regii, che vi ebbero due feriti. All'11 si prese
senza contrasto anche l'altro ponte, tra Borghetto e Valleggio;
poichè Radetzki, non potendo tener la campagna, e pensando ad
assicurarsi nelle fortezze contro i cittadini ricalcitranti, e
fornirle di viveri, aspettava i soccorsi dal Tirolo e dal
Friuli(58).
Per nostra disavventura i generali del re non incalzavano la
fortuna. Il governo cominciò a disanimare i veggenti, dicendo
fin dal 13 aprile: "l'esercito piemontese conserva la linea del
Mincio". Pareva che non fosse il caso di conservare ciò che
per noi già s'era preso; ma di prendere pur qualche cosa. Si
fece, quello stesso giorno 13, un puerile tentativo di sgomentare il
vecchio comandante di Peschiera col rumore di venti pezzi
d'artiglieria da campo; poi gli si mandò un parlamentario a
intimargli la resa, che fu naturalmente negata.
"Trovandosi intanto, dice il Bava, la guarnigione di Mantova mal
proveduta di viveri, alcuni distaccamenti operavano frequenti
sortite per procacciarsene nel dintorno; cosicchè rapivano
alli abitanti, non solo cereali e bestiami, ma tuttociò che
veniva loro alle mani."(59). Condusse infatti il nemico a Mantova,
in una sola razia, mille e duecento bovi. Perchè non avevano
pensato i regii a porre quei bestiami in salvo? Perchè non
perlustrarono tosto tutto il circondario della città, facendo
rimovere a considerevole distanza i viveri e i veicoli, poi
interrompendo le strade, e facendovi ripari, coll'opera dei popoli
ancora infervorati? Solo il 19 d'aprile, pensarono essi
"d'accostarsi alla piazza, per fare prigionieri alcuni posti, non
senza lusinga che un tal movimento potesse risolvere la popolazione
a sollevarsi contro il presidio"(60). Ma non pensavano che un mese
era stato troppo lungo intervallo per un popolo rinchiuso, in balia
del truce nemico già riavuto dal digiuno e dallo spavento. Il
generale si lagna a torto che quei popoli si mostrassero freddi; il
freddo spirava dal campo del re. E i popoli che vivono intorno alle
grandi fortezze, avendo per necessità e per tradizione certo
intendimento delle cose militari, dovevano presentire in quelle
esitanze, in quei riposi prima della battaglia, in quella toleranza
delle ladronerie nemiche, l'esito della guerra.
La "ricognizione" fece rientrare il nemico nel Forte Belfiore,
d'onde fece vivo foco; tentò qualche uscita; ma venne
raffrenato dai bersaglieri. Sopravenne quindi il re; passò a
rassegna la brigata; considerò attentamente la fortezza. Poi
comandò di tornare alli alloggiamenti.
"Le nostre truppe, e particolarmente la cavalleria, prosegue il
generale, avevano durante questo riposo, eseguito frequenti
ricognizioni verso Roverbella e Villafranca. Alcuni vantaggiosi
scontri provavano, non essere mente del nemico il contrastare la
riva sinistra del Mincio; talchè il primo corpo non ebbe
ostacolo da superare nel giorno 26 aprile, durante la sua marcia a
Roverbella. Ebbi ordine di recarmi il 28 ad occupare le posizioni di
Custosa, Somma Campagna e Sona, passando per Villafranca. In questa
città fummo ricevuti come veri liberatori. Il secondo corpo
passò parimenti il Mincio; cinse Peschiera sulle due sponde
del fiume; e prese nel tempo stesso posizione a Castelnovo, Santa
Giustina e nel dintorno. La divisione di riserva occupò
Oliosi, e la cavalleria S. Giorgio in Salice. Così trovavasi
condutto a pieno termine il blocco di Peschiera.
Tuttavia un corpo austriaco occupava ancora sulla diritta dell'Adige
l'imboccatura delle valli del Tirolo. Ciò determinò a
farlo attaccare; questo fu il combattimento di Pastrengo. Intanto
che si combatteva, la linea da Sona a Somma Campagna fu attaccata da
alcuni corpi nemici venuti da Verona; ma furono assai facilmente
respinti"(61).
Quei favorevoli scontri, avvenuti nei tre ultimi dì d'aprile,
a Pacengo e Colà presso il lago di Garda, sui colli di
Sandrà, Piovezzano e Somma Campagna, e finalmente a Pastrengo
presso all'Adige, chiusero affatto al nemico l'intervallo tra il
lago e il fiume, ch'è di sei miglia incirca; ma quei preludii
di vittoria non furono coltivati(62). Giungevano intanto anche
cinque mila Toscani, e qualche migliaio di Napolitani; e venivano
messi a far siepe presso al lago di Mantova. E prendevano parte alle
pugne anche 1500 soldati parmigiani, giunti allora con 4 cannoni e
40 cavalli.
Il re, che aveva più intendimento a reprimere i popoli che
non a sollevarli, sperava intanto che in Verona pure li abitanti
dovessero insurgere al suo primo apparire. Deliberò dunque di
fare, come a Mantova, uno di quei movimenti che si chiamano
ricognizioni, quando però precedono le grandi battaglie e le
preparano. Ma per poca esperienza dell'arte militare, e per non
essersi in quel lungo riposo fatta alcuna prova di grandi
combinazioni campali, i reggimenti ebbero li ordini solo alle sette
ore del mattino stesso del 6 maggio, in cui dovevano combattere. "Di
qui, dice il generale, spiegasi il ritardo dei corpi e la nessuna
simultaneità dell'attacco. La sola brigata Aosta, seguita a
gran distanza dalla divisione di riserva, si trovò al suo
posto a S. Lucia. Al punto in cui stavano le cose, non era
più possibile l'arrestarci, nè rimaneva che operare
audacemente, e spingersi sempre avanti"(63).
Così alla brigata Aosta toccò il glorioso quanto arduo
officio di sostener sola l'impeto delle forze nemiche, non lungi dal
cimitero ch'era alla nostra destra, occupato gagliardamente
dall'avversario. Col battaglione dei cacciatori Guardie, mi resi
padrone alla sinistra della Pellegrina, fortemente tenuta dal
nemico. Ritornai quindi presso la brigata Guardie, intorno alla
quale, nonchè a quella d'Aosta, avevano assai faticato e si
adoperavano tutti li officiali del mio stato maggiore, onde fermare
la mossa retrograda di qualche battaglione che fuggiva. Era circa
un'ora pomeridiana, quando mi venne fatto di chiaramente distinguere
l'attacco a destra di S. Lucia, eseguito da una parte della seconda
divisione. Fatta battere la carica, in un subito fu assalito e
conquistato il villaggio, d'onde prospettavasi Verona; ma nulla dava
indizio del più piccolo movimento popolare nell'interno. E
siccome si ebbe notizia che l'attacco di sinistra della terza
divisione, a Croce Bianca, non era riuscito a buon termine, e che in
ispecie il reggimento Savona si trovava in fuga, fu decisa la
ritirata(64).
In questo frattempo, un reggimento di Cuneo, lasciato a S. Lucia,
respinse un vivo attacco. Fu allora che molti tiratori nemici
riuscirono ad occupare inosservati alcune case avanti alle colonne
della seconda divisione, che sorprese dall'attacco inatteso si
diedero a fuggire, non valendo a rattenerle li sforzi e le preghiere
delli officiali che si opponevano. Alcuni vennero fino a gettare il
sacco; e senza l'intrepidezza dei loro capi, senza l'opposizione
presentata al nemico dalla mezza batterìa del luogotenente
Salino, e dalla compagnìa Griffini (di volontarii lodigiani),
senza la natura boscosa del terreno, che impediva alla cavalleria
(nemica) di vedere quanto succedeva, e di operare in conseguenza, la
divisione avrebbe sofferto perdite immense"(65).
Pare infatti che in quell'inutile e assurdo assalto di fronte,
contro una fortezza che non si voleva assediare, si avessero quasi
mille tra morti e feriti. E ciò ch'è peggio, si
rivelò ai soldati l'imperizia dei generali; e si tolse loro
quell'impeto che viene dalla coscienza d'essere ben guidati. Prima
di ritirarsi, non pensarono nemanco a distruggere il recinto del
cimitero e li altri ripari, che servivano d'antemurale alla
fortezza(66).
Il generale Bava interrompe qui la sua narrazione per querelarsi
della stampa, che dava "relazioni così smilze, così
fredde, così oscure". Sarebbe più giusto querelarsi
dell'ingannevole sicurezza in cui si tenevano i cittadini con
adulatorie notizie, le quali attribuivano la sconnessione delle
mosse, non a dappocaggine dei capitani, ma bensì a smodato
ardore dei soldati; e tacevano della fuga di cui le Guardie stesse
avevano dato l'esempio; e tacevano dei volontarii lodigiani, che
salvarono due cannoni dimenticati dai regolari fuggiaschi. Ora che
il velo è caduto, non si può leggere senza sdegno il
pomposo bollettino del generale Salasco: "Lo slancio, con cui le
nostre truppe si spinsero all'attacco, sprezzando ogni pericolo, fu
cagione che le ale del corpo d'armata, che dovevano coadiuvare la
presa delle posizioni assalendole di fianco, non poterono giungere
abbastanza in tempo". E non solo non accennava al disordine della
ritirata; ma si vantava viceversa, che li Austriaci non avessero
posa, se non quando giunsero sotto i cannoni di Verona(67).
L'illusione cagionata nei cittadini da quella supposta vittoria,
diede animo al governo di farsi fare da' suoi cagnotti una
dimostrazione il giorno 11, per aver pretesto a dettare il 12 lo
sleale decreto della fusione. Il Lombardo si era fatto tacere colla
violenza; li altri giornali liberi cominciavano appena a spuntare. E
chiunque avesse contradetto al vanto della vittoria, sarebbe parso
strano e cattivo; e i faziosi avrebbero scritto sui muri ch'era spia
del nemico. La cecità era insanabile ed erano irreparabili li
effetti. Li avvenimenti che sembrano arbitrii della fortuna, hanno
le secrete radici nell'animo dei popoli; officio dell'istoria si
è di additarle.
Dal 6 di maggio alla fine, l'esercito stette immobile sui colli
inanzi a Peschiera; già rallentato dall'ozio d'aprile, si
contristava e snervava nell'ozio di maggio(68). Peschiera difettava
di vittovaglie; un presidio di 1200 Croati, senza cavalleria, non
aveva forza di far prese di viveri intorno; nè aveva carri da
trasportarli; e fin da principio, i nostri volontarii, dalle
vaporiere del lago e dalla penisola di Sirmione, avevano interrotto
le communicazioni col Tirolo. Li arrivi da Verona, mal provista per
sè in quei primi giorni, furono tosto turbati dall'ardimento
dei volontarii stessi; e col cader d'aprile furono finalmente
intercetti dalle posizioni dei regii. Si dice che i Croati, avendo
rubato in Milano, in Lodi, in Crema e in Peschiera medesima, un
enorme valsente di denaro, argenti e gioie, desiderassero sopratutto
di mettere la preda in salvo. Onde, dopo la metà di maggio,
quando videro giunta finalmente l'artiglieria d'assedio,
cominciarono a fare di mal animo il servigio, parlando sempre
d'andare a difender le case loro dalli Ungari; e si dice ancora che
nottetempo gettassero nel Mincio le farine che rimanevano. I
cannonieri erano sempre stati pochissimi, come si è detto; e
alcuni erano stati uccisi dalle carabine dei volontarii e dalle
bombe piemontesi; non rimanevano più di 60, avendo in cura
127 cannoni. Laonde benchè le batterie dei regii in quel
suolo palustre fossero riescite male, non reggendo alle pioggie
dirotte e alla scossa delle artiglierie, epperò il recinto
dei bastioni fosse perfettamente intatto, il vecchio generale Rath
mandò a rendere la fortezza il maggiore Ettingshausen. Questi
non trovò i pertinaci avversarii che aveva trovati in Milano,
e potè patteggiare coi regii che i Croati fossero
accompagnati salvi, colle spoglie del popolo, fino in Ancona; ove si
restituirono loro anche le armi. L'onore voleva che quei ladroni non
si dovessero accettare se non a discrezione; e si facessero
restituire colle mani loro la roba a luogo a luogo ove l'avevano
rapita. Ma in verità non v'era tempo a perdere. Se Peschiera
avesse durato solamente un giorno di più, l'esercito regio
sarebbe caduto due mesi prima. Peschiera fu la sola ed unica
conquista di Carlo Alberto; e non è a dire qual prò ne
facessero i suoi settarii, in quei giorni tanto infesti alla nostra
libertà.
Li Austriaci, per fomentare nel re una falsa sicurezza, si facevano
dipingere nei giornali tedeschi e inglesi come già rassegnati
alla perdita della Lombardia. Ma credo che non ne avessero mai avuto
il pensiero. E lo dissi fin d'allora, e più d'una volta, al
corrispondente del Times, che fu lungamente a Milano, e da inglese,
mostrava buon concetto di quel nuovo regno costituzionale. Gli dissi
che l'Austria non cederebbe mai nulla; ma trastullerebbe il re,
finchè ella non avesse adunato forze bastevoli per
discacciarlo. Pare anzi che s'intavolasse qualche pratica. Nella
Raccolta delli atti del governo provisorio, si legge: "alcuni giorni
dopo la resa di Peschiera, un inviato austriaco, con credenziali del
ministro di Sua Maestà l'imperatore al presidente del governo
provisorio di Lombardìa, giungeva in Milano per trattare di
pace; e offriva da parte del suo governo la ricognizione
dell'indipendenza della Lombardìa sino all'Adige"(69).
Intanto Radetzki, avendo avuto due mesi per riordinare i soldati, e
reprimere in loro lo spirito di nazionalità e diserzione; ed
avendoli confortati con assidue passeggiate militari che li empivano
di cibo e di preda; e avendo infine ricevuti dal Veneto i rinforzi
di Nugent, anzi già tentato il secondo assalto di Vicenza,
fece passare il 27 maggio molte truppe per Isola della Scala a
Mantova.
Attraversando per Mantova il lago, assalì con 16 mila uomini
a Montanara e Curtatone i cinquemila toscani e napolitani; i quali,
sotto il comando del De Laugier, si erano già onorevolmente
provati contro due minori assalti, il 9 di maggio e il 13.
Quantunque narri il general Bava d'aver preveduto ogni disegno dei
nemici, e d'aver saputo nel 28 che il giorno inanzi erano partiti da
Verona per Mantova, egli non mosse per tutto quel giorno un soldato.
Al mezzodì del 29, quando i Toscani erano assaliti, egli era
a Goito, sei o sette miglia lontano dal campo di battaglia.
"Partecipai al generale De Laugier il mio arrivo a Goito con
cavallerìa; gli annunciai prossimo il soccorso di fanteria :
e dopo avere convenientemente appostati i bersaglieri, e il
reggimento Nizza cavalleria colla batteria leggera, ritornai a Volta
all'incontro delle truppe. Erano le tre pomeridiane, quando giunsi a
Volta, dove trovai Sua Maestà. E da quella magnifica
posizione noi rivolgemmo i nostri cannocchiali nella direzione di
Mantova; dove si scopriva una casa in fiamme, ed il foco
dell'artiglieria che pareva avvicinarsi a noi. Un officiale toscano
arrivò nello stesso tempo; e prevenne il re che tutto
l'esercito austriaco aveva attaccato le ridutte di Curtatone e
Montanara; e che il suo generale, non potendo sperare di difenderle,
andava a ripiegarsi sopra Goito. Sua Maestà giudicò
prudente di non abbandonare la posizione di Volta, cui fece
custodire dai nove battaglioni che avevamo con noi. E ritornò
quindi al suo quartier generale, ch'era stato trasportato a
Valleggio"(70).
Nella politica del re li alleati erano un intoppo; ed era quindi
espediente avvisarli dell'arrivo, prometter loro il prossimo
soccorso, e lasciarli al macello.
Quei ragazzi intanto, come il vecchione nemico li chiamava,
perchè molti erano studenti coi loro professori, gli fecero
spendere su quei ridutti una lunga giornata, sempre aspettando il
prossimo soccorso dell'infido amico. Ne caddero quattrocento morti o
feriti. Tra quelli il geologo Pilla napolitano; tra questi il
Montanelli, e molti altri dei capi, De Laugier, Campìa,
Ghigi, Giovanetti, Caminati. Quasi tutti i cannonieri spirarono
sulle loro batterie; fu ammirato Giuseppe Elbano che vedendo ardersi
intorno le vestimenta, gettolle; e durò nudo ed impavido al
suo cannone. L'indugio salvò il re; il quale, avviluppato
nelle ambagi della sua politica, non pensava in qual pericolo egli
medesimo fosse.
Infatti Wratislaw, passando sui cadaveri dei Toscani, e rimontando
la riva destra del Mincio, riesciva dietro i Piemontesi, che stavano
presso al fiume e al di là; ma per l'ostacolo trovato a
Curtatone, non giunse a Goito il 29, nè in tempo d'opprimere
quella stazione isolata, e d'intercettare il passo del ponte. Vi
giunse solo alle tre dopo mezzodì del 30, quando il re aveva
con tutto agio raccolti 24 mila uomini e 44 cannoni, in quella
posizione preparata e forte.
Dopo un combattimento d'artiglieria sulla fronte, si impegnarono i
bersaglieri; questi nel ripiegarsi trassero seco in disordine la
brigata Cuneo; successero le Guardie; e queste pure ebbero a
retrocedere; ma fiancheggiate dal maggiore Mollard colla brigata
Aosta, ripresero l'offensiva valorosamente. A sera, il nemico si
ritirò, inseguito a tiro di cannone dalla cavalleria d'Aosta
e di Nizza. Si fecero onore li artiglieri Prié, Cuggia,
Sallier, Giacosa, Bocca; e fra i pochi Toscani e Napolitani che
quivi avevano potuto ripiegarsi, Abuderame e Bartolomei. Ebbero i
regii 45 morti e 260 feriti; e pretendono che il nemico avesse una
perdita ben dieci volte maggiore. A Milano, il governo, vanissimo e
ignorante, annunciò che il nemico con 130 cannoni aveva fatto
"tremenda battaglia per sette ore continue"; ch'era fuggito
dirottamente, lasciando cinquemila morti; e che si era fatto
parlamento, per sepellire i cadaveri accatastati, che facevano
corrotta l'aria per lungo tratto di paese.
Ma quel combattimento era una sola parte della nemica impresa.
Mentre Wratislaw tendeva a chiuder Goito, Daspre coll'ala sinistra
si spandeva sulla pianura; e con ampio circuito pareva tendere ai
colli dietro Peschiera; sulla quale nello stesso tempo s'indirizzava
di fronte una colonna venuta dall'Alto Adige. Quivi ottocento
Tirolesi, venuti il 28 sul lago di Garda, avevano desolata la terra
di Bardolino. L'assalto avrà cominciato da quella remota
estremità per trattenere colà le forze regie, lungi
dal Mincio. Il 29, vi sopravenne altro corpo di quattro a cinquemila
uomini, che discesi sino a Colmasino, si fortificarono nel cimitero.
Ma vennero scacciati dal general Bes coi bersaglieri e li studenti
Torinesi e la brigata Piemonte. I nostri ebbero 2 morti e 14 feriti.
L'aver però fatto quivi il nemico con forze considerevoli
sì lieve spinta, fa credere che aspettasse il movimento del
restante esercito. Ma il comandante di Peschiera, visto presso la
riva del lago quel combattimento senza effetto, disperò del
soccorso; e il dì seguente capitolò.
Ciò che più manifesta i disegni del nemico erano i
grandi trinceramenti che presso Goito aveva preparati alle sue
spalle. "Quantunque la pioggia cadesse a torrenti nella notte del
30, dice il generale, i nostri avamposti annunciarono d'avere
inteso, dietro quelli del nemico e verso Sacca, un rumore
distintissimo. Pareva che si atterrassero piante e si percotessero
con martelli le muraglie;(71). Si trovò poi che aveva
atterrato più di trentamila piante, fatto barricate in ogni
punto, per coprire la sua artiglierìa, e merlato (feritoiato)
tutte le case e i villaggi"(72).
Il nemico in quell'ardita e minaccevole posizione di Goito, veniva
ad avere a destra e sinistra le sue fortezze di Mantova e Peschiera;
alle spalle le vie di Cremona e Brescia; trincerava quella di
Cremona con quella sollecitudine che il generale ha descritto;
faceva occupare quelle di Brescia dal general Daspre. Nulla impediva
che questi si spingesse quindi sino a toccar Peschiera; d'onde,
valendosi anche di quel presidio, poteva facilmente congiungersi coi
corpi che frattanto temporeggiavano a Bardolino e Colmasino. Compita
quell'operazione, l'esercito regio riesciva intercetto sul Mincio,
stretto ai fianchi dalle fortezze, malsicuro alle spalle. Era in
necessità di sboccare da' suoi ponti di Goito e Valleggio, e
vincere una battaglia per riaprirsi le strade di Cremona e Brescia.
Non vincendo, rimaneva senza viveri e senza base. Vincendo, doveva
su quelle trincere difese da tutto l'esercito nemico pagare
sì cara la vittoria, che non avrebbe avuto più animo
di guardarsi indietro, nè forza d'intraprender nulla. Ma la
giornata di Curtatone diede tempo al re di farsi forte a Goito; la
giornata di Goito gli diede tempo di chiamare a sè anche la
brigata Savoia, e le altre ch'erano disseminate di là dal
Mincio. Potè adunque dopo la battaglia mettere in postazione
ferma 40 mila uomini e 80 cannoni. Intanto Peschiera era aperta.
Peschiera gli assicurò un imperturbabile passaggio dall'una
all'altra riva del Mincio; egli poteva tentar Verona, mentre
Radetzki non poteva più accorrervi se non pel lontano
circuito di Mantova. Tutto il gioco del nemico era dunque disfatto;
disfatto dal generoso sacrificio dei Toscani, e dall'avarizia dei
ladroni Croati. Radetzki perdè Peschiera, perchè
soffriva che i suoi soldati fossero ladri; come aveva perduta
Milano, perchè li aveva sofferti assassini. E se Carlo
Alberto fosse stato semplice guerriero, e non re e gesuita, sarebbe
volato per impeto d'animo al soccorso di quella prode
gioventù toscana; e ributtato in Mantova Wratislaw, e avrebbe
potuto intercettar Daspre sulla strada di Brescia; poi attraversata
rapidamente l'aperta Peschiera, sarebbe stato in tempo a investir
Verona, ove il nemico aveva lasciata poca gente; l'avrebbe fatta
assalire a tergo dai Romani e Vicentini, e al di dentro dal popolo,
acceso dal grido della sua vittoria. Pare che pensieri di questa
fatta circolassero nel suo esercito(73).
In quei giorni di gravissimo e non creduto pericolo, non v'era tra
l'esercito nemico e Milano un solo battaglione. Il frivolo governo e
li abbindolati cittadini erano tutti assorti nei loro registri. Il
Collegno, il Perrone e li altri estrani in cui mano era la difesa
della nostra città, non avevano preparato il più lieve
ostacolo. La cavalleria del Daspre si sparse sulla riva del basso
Ollio e del Clisio; si mostrò impunemente ad Asola, a Castel
Goffredo, a Mèdole; ridestò per la prima volta nelle
terre bresciane e cremonesi l'obliato terrore del nome austriaco. Il
generale Bava scrive che Radetzki aveva sperato una reazione
austriaca dei popoli Lombardi; ma Radetzki non si pasceva di
siffatte speranze, nè faceva sittatti sogni. E il ministro
Collegno, ancora il 21 dicembre, ebbe a dire nel senato di Torino,
che Radetzki avesse positivo accordo colli amici della
libertà a Milano; e ciò, perchè nel dì
medesimo del fatto di Curtatone, in Milano si chiudevano i registri
dei voti; nè una cotanta perfidia potè compiersi senza
qualche opposizione e qualche tumulto. Chi coi tumulti volle esigere
l'osservanza della data fede, e difendere la sua padronanza e
libertà, potè aver torto nel modo, ma non nella cosa.
Ma per apporgli che avesse infame accordo col nemico, si vorrebbe
additarne qualche prova, e ben chiara; massime da chi ebbe allora in
mano sua la polizia e i tribunali. Quanto alla coincidenza del
giorno 29 maggio, era quello il dì prefisso dal governo, che
volle così profanare l'anniversario di Legnano,
l'anniversario della vittoria d'una republica contro un re.
Bensì quel generale Bava che sapendo le mosse e la mente del
nemico, e sapendo deserti sul campo i fratelli Toscani, e
promettendo loro soccorso, e avendo sotto la mano cavalleria e
artiglieria volante e nove battaglioni, se ne va sul colle magnifico
di Volta a rimirar col cannocchiale le fiamme dei loro
alloggiamenti, e lascia che il re se ne torni indietro a dormire
placidamente a Valleggio, senza spezzargli inanzi la spada : - e
quel ministro della guerra Collegno, che chiamato a ordinare la
difesa d'un paese, non ha posto fra l'esercito nemico e la capitale
un solo riparo, non un ponte minato, non un fosso, nè un
cannone, nè un soldato : - costoro non possono farsi
accusatori altrui; perchè stanno essi sul sedile delli
accusati. Il generale almeno ha parlato, e ha confessato la colpa
sua. E la nazione attende che il ministro pure confessi, o si
scolpi.
Se Radetzki potesse acconciarsi mai con alcuno in Italia, ciò
che non credo, non sarebbe poi certamente coi republicani;
perchè v'è ripugnanza assoluta, e
incompatibilità di vittoria. Non così coi servili; coi
quali avrebbe solo a rannodare accordi antichi e diuturni. Dio nol
soffra !
Il Daspre stava ancora sulla via di Brescia, anzi ancora il 3 di
giugno, assaliva con truppe leggere la cavalleria del re, mentre
molti drappelli della sua spaventavano impunemente il contado. Il 4,
rientrava finalmente in Mantova, seguito sino a Curtatone dai regii,
che tosto ritornavano ai loro alloggiamenti. Il re se ne andò
a Rivoli, e pareva far pensiero di mettervi un ponte sull'alto
Adige; ma spese poi meglio il tempo trattenendosi col Casati, che
gli apportò in quei giorni con fanciullesco giubilo il
trionfale estratto de' suoi registri. E in premio ebbe un bacio dal
re.
Intanto Radetzki potè uscire di Mantova dalla parte opposta,
varcare l'Adige in Legnago; proseguire fino ad Este; poi volgendosi
a sinistra, e compiendo, come in paese senza nemici, l'imperturbato
viaggio d'un centinaio di miglia, riescire dietro Vicenza da
mezzodì e levante, con 32 mila soldati e 70 cannoni;
intercettare ai difensori ogni communicazione colle città
venete, e ogni rifugio. Perciò Durando non potè
ritirarsi e fu costretto a combattere. E così non potè
obedire all'inumano e infraterno comando del ministro della guerra,
"che gli prescriveva di ricoverarsi a destra, mentre Vicenza non
sarebbe nello stesso modo salvata; e in conseguenza era meglio
lasciarla, com'era, in baìa del nemico"(74).
E qui si consideri con quale atroce immoralità quei generali
dimenticassero che questa non era solo guerra di principi, ma
eziandío di popoli e di ribellione; e che le città,
dovendo aspettarsi crudeli vendette, non erano da prendere e
lasciare, come se fossero mere posizioni militari, selve o sassi, e
pezzi da scacchiera.
Col sanguinoso sacrificio di qualche migliaio d'uomini, il nemico
espugnò il monte Berico che signoreggia Vicenza da
mezzodì. Il Durando, non avendo avuto forse intenzione vera
di combattere, aveva accumulato soverchia parte delle sue forze
entro la città; il nemico, potè farsi perciò
padrone del monte,(75). e di là fulminarla irresistibilmente,
per sette ore continue. Durando aveva dichiarato potersi difendere
per otto giorni; doveva dunque essersi accertato d'aver quanto era
necessario. Ma, cme tutti i generali del re, amava meglio le
capitolazioni che le battaglie disperate; amava meglio salvare le
città che difenderle; e mise fuori per la prima volta quella
brutta formula, che, dopo simiglianti promesse, venne applicata
similmente a Milano : non esservi munizioni nel magazzino; il
generale aver pensato a salvare la città, assicurando alli
abitanti la vita e i beni e la licenza di partire coi soldati.
Similmente come poscia a Milano, si videro i soliti strepiti e
furori, che nelle città tradite succedono alla cieca e
tracotante fiducia nei traditori. I cittadini, che avevano disertato
l'antica madre Venezia, per fondersi nel regno fortissimo, e
mettersi in mano di generali che sentenziavano esser meglio
lasciarli in balìa del nemico, uscirono a turbe, colle donne,
e li infanti e i feriti, piuttosto che soffrire entro le loro case
l'arroganza dei barbari, e vederli depredare e contaminare la
gentile loro città. E li altri Veneti, che poche settimane
prima, avevano trovato nella coscienza della libertà il
coraggio di resistere, or quasi snervati e fatati da servile e
immorale influenza, cedettero con inopinata facilità.
Il governo provisorio aveva narrato, che l'attacco di Vicenza non
poteva esser fatto se non coll'intento di coprire la ritirata del
nemico verso la Piave e la Germania; poichè davvero
s'imaginava d'averlo messo alla disperazione co' suoi registri.
Narrando poi freddamente l'avvenuta ruina, aggiungeva che il re, non
avendo per allora giudicato di salvare Vicenza, ben presto
però prenderebbe Verona, anzi anche tutto il rimanente(76).
Vantarono i regii, a compenso del grave danno, l'incruento abbandono
che il nemico aveva fatto del colle di Rivoli; e allora, dicevano
ch'era stato per paura e viltà sua. Al presente dicono
ch'egli era perchè non fosse prezzo dell'opera contrastarlo.
"Lo splendido nome di Rivoli; dice il generale, fu famoso
all'esercito d'Italia, perchè allora era il solo sbocco per
l'austriaco; ma oggi quel nome era per noi senza alcuna
importanza"(77). E poteva ben aggiungere, come il fatto
dimostrò poi, che padrone il nemico del Tirolo e di Verona,
poteva farsi di Rivoli una insidia, da prendere i nostri soldati tra
il monte, l'Adige e il lago.
Carlo Alberto aveva lasciato spaziare a beneplacito il nemico,
anzichè vigilarlo, e sovrastargli assiduamente; e se avesse
accennato d'assalir Verona, lo avrebbe forse richiamato a difendere
il nido; e sviata almeno in parte la procella di Vicenza. "L'arrivo
nostro sull'Adige, confessò il ministro della guerra nella
camera dei deputati, non avrebbe potuto a meno di produrre l'effetto
di liberare Durando, perchè avrebbe richiamato Radetzki
sull'Adige". Forse tentando almeno in qualunque luogo il passo
dell'Adige, si sarebbe costretto il nemico a raccogliersi, e a
dissolvere il cerchio che aveva teso intorno a Vicenza, e lasciare
una qualche uscita a Durando; sicchè almeno non fosse
costretto a ritrarsi dalla guerra con tutti i combattenti Vicentini
e Pontificii. Ma il re aveva per un guadagno il liberarsi dalli
alleati.
Volendosi poi affacciare all'Adige, era inutile il farlo a Rivoli,
tanto sopra Verona e sì lontano dal nemico; ma sì
sotto Verona, presso la foce dell'Alpone, e più presso che si
poteva a Vicenza, in modo di fargli temere del ritorno in Verona,
Non v'è là in faccia il glorioso argine d'Arcole e il
colle di Caldiero? Che se i nemici si ritorcevano ad assalirlo con
tutte le forze, poteva rinovare al ponte dell'Adige la difesa
già fatta al ponte di Goito. E avrebbe avuto un vantaggio che
a Goito non aveva, d'essere sulla giusta sua base, col Mincio alle
spalle e Peschiera sua. In quel giorno 10 di giugno, l'esercito
italiano, computati i Veneti, Romani, Svizzeri, Parmigiani,
Modenesi, Napolitani, Toscani era doppio per lo meno di quello del
nemico, e ancora pieno di spiriti generosi. E il nemico, facendo pur
troppo grandissimo assegnamento sulle titubanze del re, e
sull'imperizia strategica e topografica de' suoi consiglieri, aveva
dimenticato in quel giorno tutte le consuetudini della prudenza
militare; e aveva abbandonato sprezzantemente ogni base di guerra.
Se i regii lo avessero prevenuto dietro l’Alpone, egli avrebbe
dovuto assalirli a condizioni sfavorevoli; poichè, se non
vinceva subito e appieno, non rientrava in Verona. Perduta Verona,
era impossibile rimanere in Italia; poichè Mantova, nella
stagione che correva, gli avrebbe consunto l'esercito in pochi mesi.
Vicenza fu attorniata il 9, cannoneggiata il 10, aperta l'11. "Il re
ordinò, dice il generale, alle nostre truppe di riunirsi nel
successivo giorno 12 presso Roverbella, Valleggio e Sona; onde
concentrarsi il 13 presso Villafranca, per marciare sopra Verona, e
tentare colà un colpo di mano, durante l'assenza del
nemico"(78). Ora, fin dal 13, il nemico vi era già tornato
vittorioso. Senonchè i Veronesi in quei giorni, per la
debolezza del presidio, s'erano messi in pensiero d'assalirlo dal di
dentro, e sforzare qualche parte del vasto recinto; e si erano tanto
infervorati, che mandarono persona a dire al re, che lo avrebbero
tentato, ancora il dì seguente, "se noi, come dice il
generale, avessimo fatto impeto con forze considerevoli, non ostante
che il maresciallo nella mattina stessa fosse entrato con rinforzi.
- Sua Maestà aderiva a così lusinghiere speranze; e
ordinavami d'impartire all'esercito le disposizioni necessarie, per
l'attacco nel mattino vegnente. - Sulle due del matino, fui
dimandato dal re. - Vi trovai il sopradetto abitante; il quale mi
disse che essendosi trasferito a Villafranca, per dare ai cittadini
il noto segnale consistente in un gran falò, il comandante
della piazza non glielo aveva voluto permettere. - Sua
Maestà, a fronte di questo malaugurato contratempo, e del
ritorno in Verona del maresciallo, m'impose d'ordinare il ritorno
delle truppe ai loro alloggiamenti"(79). Fa poi sdegno il vedere la
perfida loquacità, colla quale i regii manifestano colla
stampa al nemico la congiura dei settecento veronesi, come se questi
infelici non fossero ancora in potere del nemico e il loro secreto
non fosse in balìa delle sue torture. Italiani, se volete
liberarvi, non vi affidate a quelli uomini e ai loro tarlati e
depravati sistemi.
Intanto Zucchi, chiuso in Palma Nova, non faceva quanto aspettavasi
dal combattente di Raab, dal capitano che nella campagna di Sassonia
aveva sempre sostenuto i pericolosi onori dell'avanguardia o della
retroguardia. Non raccolse in tempo vittovaglie; non oppresse i
nemici quand'erano deboli e spaventati; non preparò
militarmente il circondario della fortezza; nè infine attese,
prima di arrenderla, che la breccia fosse aperta. Reo di stato,
vecchio prigioniero, pareva solamente ansioso di non lasciarsi
levare ogni uscita. Palma Nova doveva essere affidata a un militare
al quale non si potessero, nell'ultimo caso, contendere i diritti
della guerra e delle genti. O almeno doveva il re, colla minaccia
delle rappresaglie, costringere li Austriaci a trattar giusta le
consuetudini della buona guerra anche i Lombardi e i Veneti, ch'essi
mandavano al supplicio come masnadieri. Aveva egli inviato in Palma
Nova per unico soccorso una compagnia di cannonieri; si è poi
publicata in varii giornali d'Italia una dichiarazione di molti
cittadini ch'erano allora in Palma, i quali attestano "che in ogni
circostanza si mostrò scaltro e fervido maneggiatore della
resa, assediando lo Zucchi, il cavalier Cuggia, capitano delli
artiglieri Sardi"(80). Come appare dalla capitolazione, alla quale
si sottoscrisse anche il Cuggia, la città si arrese anzi
tempo, e se ne fece merito col nemico. Il Cuggia operava da
servitore del re, non da cittadino. E perciò i giuramenti o
non si devono fare, o si devono fare alla patria e alla legge; non
alle persone dei principi(81).
Con siffatti comportamenti, il nostro capitano ci aveva perduta in
due mesi la metà del regno. Gli restava da perdere l'altra
metà; e già i nemici accennavano di traboccare a
destra e sinistra del suo esercito. Discendevano sul Po a
interrompere la navigazione per Venezia, e sommovere in Modena i
settarii del Duca; e dal Tirolo, troppo stoltamente lasciato loro in
preda, salivano ogni istante a tentare l'entrata delle nostre valli,
annidandosi omai stabilmente sopra il lago d'Idro. Eppure, dopo la
caduta di Vicenza, il re stette per più d'un mese
marmoreamente immobile. L'esercito, stagnante nelle sue trinciere,
non aveva più l'ardore primamente concepito nel tocco d'una
rivoluzione e nella coscienza di combattere una guerra generosa. Era
indebolito anche di numero per i molti feriti e infermi. Allora
apparve quanto avesse errato il re nell'attraversare l'ordinamento
dell'eserciti lombardo, nell'umiliare i volontari, anzichè
disciplinarli e guidarli, nel ributtare li ausiliarii stranieri,
nell'abbandonare senza soccorso i combattenti veneti, toscani e
romani.
I liberali, che finalmente avevano impugnato li strumenti
dell'opinione, additavano nei giornali il pericolo della patria; un
moto universale di riprovazione surgeva contro il governo; il quale,
vaglia il vero, mostrava più sgomento delle invettive del
Cernuschi nell'Operaio, che non della ruina dei Veneti. Infine quei
signori, dopo tre mesi di facinorosa ignavia, si atteggiarono a
repentina e convulsiva sollecitudine; e il 25 giugno, con una
simultanea salva di ordinanze, decretarono che andasse immantinente
e per battaglioni al campo; decretarono leva straordinaria di
coscritti; richiamo di tutti i veterani che avevano dispersi, e non
solo dei giovani, ma dei quadragenarii, offrendo anzi a tutti lo
stipendio di caporali; rinovarono la logora promessa di smantellare
il castello di Milano; fecero allocuzioni ai parochi; dimandarono in
prestito li argenti delle chiese; congedarono il ministro Collegno,
benchè accettassero poi nel generale Sobrero un successore
egualmente svogliato; protestarono, e quasi giurarono in nome del
magnanimo re, non esser vero che si tramassero armistizii sul
Mincio. Finalmente acconsentirono ad istituire, fuori del ministerio
della guerra, e senza mescolarvi gente del re, un Comitato
d'Armamento, che dovesse avere una diramazione in ognuno dei 127
distretti; e sia per onorevole ammenda, sia per necessità di
prender li uomini dov'erano, vi ammisero alcuni dei più
aperti republicani. E uscivano con un ampolloso piagnisteo a
confessare che "l'inesperienza politica e il fascino della fortuna
li potevano aver condutti in errore; e invocando e pregando pace e
concordia cittadina, chiedevano il consiglio e l'aiuto di tutti i
buoni. Pregavano il popolo a mostrarsi eroico per riflessione,
com'era stato per entusiasmo". E datavano l'era della patria, non
più dal 22 marzo, cioè da sè medesimi; ma dal
primo giorno del combattimento, dal giorno del popolo.
Si videro finalmente partire i nuovi battaglioni; ma in quale stato!
Vestiti di tela, con valigie di tela, con giberne di tela, che non
salvavano dalla pioggia le polveri; i più con berretto;
alcuni con cappelli di feltro, di paglia, d'ogni foggia; alcuni
dragoni a cavallo, per lo più senz'elmo; quelli che non
avevano cavallo, si davano il nome di veliti, e andavano alla guerra
a piedi. Il popolo, che le arroganze dei faziosi avevano veramente
rivocato dall'entusiasmo ad austera e sdegnosa riflessione, vedendo
pompeggiare ancora per le vie la carrozze dei grandi, gridava: i
cavalli al campo! Quei reggimenti informi, che parevano alli
stipendii del più pitocco popolo del globo, sotto officiali
improvisati, - molti dei quali s'erano procacciati per male strade
il titolo; altri per l’onesta via di liberalità fatta alla
patria, ma senza capacità di condurre i cittadini al tremendo
gioco della vita e della morte, - marciavano in battaglioni slegati,
senza cannoni, senza stato- maggiore, senza ordine di viveri e di
carriaggi, senza bandiera; e andavano a mangiare poco utilmente il
pane dei soldati, collocandosi a destra e a manca della linea
piemontese.
Al 13 luglio l'esercito, che, dopo la presa di Peschiera, sembrava
non aver più nessun disegno di guerra, e rimaner quasi ad
aspettar le risoluzioni del nemico, cominciò ad allungare la
sua destra fino alla foce del Mincio. Poi, come se una linea
immobilmente stesa dal monte Baldo al Po, non fosse già in
pericolo su tutti i punti, prese ad attorniare Mantova anche da
settentrione e levante. Si voleva intraprenderne il blocco, ora che
i predatori nemico avevano avuto più di tre mesi per empirla
di vittovaglie.
Li Austriaci avevano già preso animo di passare il Po, e
ritentare il ducato di Modena, ove li scandali della fusione avevano
scorato i generosi, e rimesso in credito i tristi. Perlochè
il general Bava, il 17 luglio, si offerse al re di recarsi a quella
volta. Ma mentre stava presso Borgoforte, studiando il luogo
opportuno a fare un ponte, il comandante nemico Lichtenstein si
ritirò di qua del fiume, accampandosi presso Ostilia.
Pensò allora il Bava di liberare anche la foce del Mincio.
Fatti pertanto imbarcare celatamente sul Po i bersaglieri del
capitano Lions, s'incamminò egli stesso lungo l'argine con
tre battaglioni, fiancheggiato a poca distanza dal general Trotti
con un reggimento. Giunti al Mincio, intanto che i feritori e
cannonieri impedivano al nemico di demolire il ponte di Governolo, i
bersaglieri sbarcarono inaspettati dietro il ponte, e assalirono
alle spalle il nemico; il quale, fuggendo allora verso Mantova, si
trovò sotto i colpi del reggimento che il general Trotti
aveva schierato lungo la destra del Mincio; e fu perseguitato
inoltre da tre squadroni di cavalleria che passarono di corsa il
ponte. Furono presi quattrocento Austriaci, con otto officiali, due
cannoni e una bandiera del reggimento Rukavina. Fu quello il fatto
d'armi meglio pensato e più destramente eseguito di tutta la
guerra; e fu l'ultimo raggio della fortuna. Il general Bava, che
aveva pure comandato al passaggio del Mincio in Goito, mostrò
in ambo i casi la perizia d'un generale di brigata; ma non appena
era scorsa quella settimana, mostrò pur troppo di non saperne
più oltre. E qui siamo ormai giunti alla battaglia che
conchiuse infelicemente la guerra.
Il 22 luglio, una moltitudine di nemici, che nel giorno antecedente
erasi raccolta nell'alta valle dell'Adige, assalì alla Corona
le brigate Pinarolo e Savona; le quali difesero per alcune ore quel
posto, altretanto forte, quanto isolato e assurdo; e vista poi la
sproporzione del numero, e il pericolo d'essere intercette, si
ritirarono in buon ordine. Anzi strada facendo, il maggiore Danesio
con rapida mossa avviluppò i Tirolesi, e sconcertò
tutta la colonna nemica. Sopravenuto allora Sonnaz col rimanente di
Savona, ripigliò la pugna; e quantunque non avesse ancora se
non cinquemila uomini contro dodicimila, riprese Caprino; nel qual
fatto un generale austriaco cadde ucciso. Ma Sonnaz, sospettando
forse che il nemico cedesse non senza insidioso proposito il
terreno, deliberò ritirarsi verso Peschiera.
Infatti, quella stessa sera, sotto furioso temporale, uscivano
tacitamente di Verona ventiquattro mila Austriaci, indirizzandosi in
tre colonne verso il Mincio. Allo spuntare del 23, non aspettati dai
regii i quali non avevano servizio di cavalleggeri nè
d'avamposti, arrivavano appiè dei colli, da Sona fino a Somma
Campagna; e li trovavano difesi da soli sei mila uomini. A Somma
Campagna, un reggimento di Pinarolo e uno di Toscani rimasero
oppressi dal torrente nemico, che continuando l'impeto occupò
tutta la catena delle colline. A Sona, ove la strada era chiusa con
riparo bastionato, Savoia e Parma poterono tener fermo alcune ore. E
intanto Sonnaz sollecitava la sua ritirata, quantunque per via gli
cadessero molti uomini, vinti dalla fatica, dal digiuno, dalli
ardori. A notte s'accampò sul poggio di Cavalcaselle inanzi a
Peschiera, facendo fronte verso li Austriaci, che si erano
già distesi fino al Mincio.
Al matino del 24 il barone Visconti ch'era in riserva dietro al
fiume, e aveva fatto levare i ponti di Monzambano e Valleggio,
tentò contrastare il varco con due soli cannoni che aveva, e
due battaglioni della riserva provisoria "ch'erano in grave difetto
d'istruzione e d'abbigliamento." Ma il nemico, da Saliunce,
spazzò con dieci cannoni la riva, mitragliò un
drappello di studenti, mise un ponte di battelli, tragittò
diecimila uomini, occupò Ponti e Monzambano. Intanto Sonnaz,
passava il fiume in Peschiera, e scendeva lungo la riva destra, per
ricongiungersi verso Volta col centro dell'esercito, del quale
ignorava le sorti; perocchè le communicazioni erano affatto
intercette, essendo il nemico, a giorno tardo, disceso dietro i
colli ad occupare Valleggio.
Il momento era supremo; era mestieri che il centro salvasse
Valleggio e Volta per riannodarsi a Visconti e Sonnaz. Ma vi furono
due ostacoli; l'uno che il re, incerto de' suoi pensieri, tenne a
mezza giornata un consiglio di guerra che durò cinque ore;
l'altro che la brigata Aosta, la quale era primamente destinata a
difender Valleggio, e poscia a ricuperarlo, si trovava già
sul matino "estremamente stanca, venendo essa fin da Castellaro (al
di là di Mantova), dopo una marcia di tutta la notte; e stava
ancora a Mozzecanne; i viveri appena giungevano; ed importava
inoltre evitare le ore calde, che nel giorno prima avevano cagionato
la morte di molti soldati"(82).
Non badando a questo, il re volle far operare subito e isolatamente
le altre tre brigate che teneva presso Villafranca. E non già
per ricuperare Valleggio e rannodarsi, e acquistar tempo all'arrivo
del rimanente esercito; ma per riprendere le antiche sue posizioni
di Somma Campagna, che pel momento, e dopo la ritirata di Sonnaz,
nulla importavano. La brigata Guardie si diresse a sinistra, e
occupò Monte Torre; quindi Cuneo in mezzo, prese Cà
del Sole; e Piemonte, a destra, potè allora impadronirsi del
castello di Somma Campagna. Si combattè da tre ore fino a
notte; il nemico raccogliendosi dietro i colli; lasciò
prigionieri due mila uomini con quarantotto officiali e una
bandiera. Sul terreno pareva una vittoria, sulla carta era un
precipizio.
Al mattino del 25 , si volle continuare il movimento e discendere
dai colli verso il Mincio. Ma i combattenti, per difetto di cibo,
non poterono moversi prima di mezzodì. La brigata Aosta
andò finalmente allora verso Valleggio; ma fece duro
incontro, giacchè l'avversario aveva avuto un intero giorno
per munirsi e ricever gente. E anche sui poggi, la linea nemica si
faceva sempre più fitta, per l'arrivo dei rimanenti
battaglioni. La brigata Piemonte fu assalita di fianco, minacciata
da tergo. "Il caldo era soffocante; si respirava appena; i nostri
soldati soccombevano alla fatica; il numero dei feriti cresceva
smisuratamente. Alle quattro pomeridiane l'offensiva non era
più per noi"; pag. 69.
Rimaneva speranza che frattanto Sonnaz, venendo da Peschiera,
scendesse in riva al fiume, di fronte a Valleggio, e aiutasse a
rimovere l'ostacolo che fendeva in due l'esercito. Ma egli avendo
parimenti stanchi i soldati, mandò un annuncio di poter
giungere solo alle sei. "Si durò qualche tempo in penosa
rassegnazione"; poi non si potè più tener fermo; e fu
forza abbandonare i colli indarno recuperati. Nè ciò
solo; ma fu necessario pensare a ritirarsi di qua dal Mincio, avanti
che il nemico vi tragittasse tutte le sue forze. Bisognava dunque
fare un circuito di quindici miglia; cioè, raccogliersi prima
in Villafranca, allontanandosi dal fiume; poi avvicinarvisi di
nuovo, e passarlo a Goito.
È forse che il re non avesse equipaggi di ponte, come li
aveva il nemico, sicchè non potesse passare, in qualunque
luogo, e immantinenti, un fiume di sì mediocre larghezza? Non
lo sappiamo. Ma il male non era in siffatte cose di seconda mano. Il
re nel giorno precedente ponendo la mira, non a Valleggio, ma a
Somma Campagna, all'estrema destra, aveva voluto, con un esercito
sorpreso e sconnesso, anzi con un terzo dell'esercito, assalire di
fianco e intercettare le colonne compatte, uscite allora allora, in
ordine di parata, dalle agiate stazioni di Verona. E così
spingendo troppo a destra e troppo poco a sinistra, si allontanava
sempre più dalle rimanenti sue truppe; e si volgeva sempre
più colle spalle verso l'Adige e le fortezze nemiche, ove non
vi era per lui luogo di riposo, nè ritirata verso i suoi
paesi, nè base di viveri, d'ospitali e di communicazioni.
Quanto più incalzava quella fallace vittoria, tanto
più si metteva in forza del nemico. Se avesse fatto impeto
verso Valleggio, si sarebbe ricongiunto a Sonnaz; il quale invece di
marciare tutto il giorno, avrebbe potuto ripigliare il
combattimento; e uniti avrebbero potuto da Peschiera e Valleggio
stringere ai fianchi il corpo nemico che si era avventurato al di
qua del Mincio. E ad ogni modo, si sarebbero trovati sui colli di
Volta, in luoghi forti, col fiume inanzi, e il lago e Peschiera a
sinistra, e Brescia alle spalle; d'onde si poteva communicare anche
colla linea dei volontarii che faceva riparo verso il Tirolo. Il
nemico non avrebbe osato allargarsi gran fatto sulla pianura; e per
soggezione di Peschiera, sarebbe forse tornato a' suoi quartieri.
È vero che la forza del nemico era omai preponderante anche
in campagna aperta; ma era perchè il re aveva voluto, per una
falsa politica, isolarsi. Ora che vedevasi il frutto dei pravi
consigli, era il tempo omai d'ascoltarne altri più savii e
più onesti.
La ritirata sopra Villafranca, non ostante qualche molestia del
nemico, fu fatta in buon ordine la sera stessa del 25. L'esercito
era come un uomo che non sente ancora l'effetto d'una ferita
mortale; egli è nella ritirata che siffatti mali si
manifestano e si aggravano. Non si potè pigliar respiro. A
mezzanotte si avviavano già verso Goito i meno affaticati,
coi prigionieri, i feriti e li infelici abitanti di Villafranca.
Alle due, tutto il campo era mosso colle sue salmerìe. Giunto
in dodici ore al Mincio, vi s'incontrava col generale Sonnaz; il
quale per un arcano ordine di cui nessuno si riconobbe autore, aveva
lasciato senza contrasto ai nemici il posto di Volta(83).
Il re non gli concesse riposo; gli comandò d'andare a
riprender Volta. A qual prò? Vi giunse a sera, dopo tre ore
di marcia; trovò annidati i nemici nelli orti e nelle case;
li assaltò risolutamente con Savoia a sinistra e Savona a
destra; li cacciò di muro in muro da tutta quella terra,
combattendo fino a mezzanotte; molti soldati uscirono dalla mischia
colle baionette infrante; si trovarono i cadaveri di cinquecento
nemici. In mezzo alle tenebre e al fumo del combattimento e delli
incendii, Novara cavalleria aveva urtato la nostra fanteria, e
ferito e rovesciato in un fosso Broglia, generale della divisione.
Un officiale tedesco si era avvisato d'ingannare i Savoiardi,
gridando loro: a me, Savoia; e se li aveva condotti fin sotto la
mitraglia; ma fu sterminato con tutti i suoi. Non è a dirsi
quante volte li Austriaci tesero di siffatte insidie; i nostri non
mai. Tanto l'esercito di Radetzki, per la mescolanza delle genti e
la crudeltà e perfidia dei generali, quanto il nostro, per la
dappocaggine dei capi e l'ingenuo valore dei combattenti,
ricordarono più volte i primi fatti della guerra cartaginese.
Arrivavano intanto li altri battaglioni austriaci. Sonnaz, inferiore
di forze, abbandonò a due ora dopo mezzanotte l'inutile
acquisto. Senonchè avendo ricevuto in soccorso la brigata
Regina con un reggimento d'Aqui, che giungevano allora allora dal
blocco di Mantova, tornò sull'alba all'assalto. Ma traboccava
omai d'ogni parte, contro quel frammento d'esercito, tutta la mole
nemica. Fu necessità lasciare l'impresa : "Si videro al
mattino del 27 a Goito molti fuggiaschi delle brigate Savoia e
Regina; si cercò rannodarli; ma fu senza frutto,
perchè tutti protestavano il bisogno di nutrimento; e noi
eravamo privi di viveri"(84).
Il giorno 27 era già il sesto, dacchè i singoli corpi
dell'esercito accorrevano dalle sparse loro stazioni, secondo le
varie distanze a frangersi senz'arte contro la moltitudine serrata,
che procedendo colla lenta continuità d'una lava, aveva
potuto venire dall'Adige fino a Volta. Solamente quella mattina
erano giunte sul campo le brigate Aqui e Regina; e non era ancor
giunta la brigata Casale, che coi battaglioni lombardi e altri corpi
era al vano blocco di Mantova. In quell'immensa confusione, i
soldati passavano a poco intervallo dai magazzini, e non lo
sapevano, nè potevano averne ristoro; i convogli giacevano
privi di scorta, e talora di carrettieri e di cavalli; i feriti non
trovavano le ambulanze; le batterie non trovavano la munizione.
L'esercito si scioglieva. I generali, conoscendosi pur troppo fra
loro, non si fidavano; facevano da sè, immoralmente, come
avevano imparato dal loro capo. Aix di Sommariva colla brigata
Aosta, e De Ferrère colle brigate Casale e Aqui, ch'erano le
più intere e fresche, sia per ordini arcani, sia per turpe
infedeltà, lasciarono le altre in faccia al nemico, e se ne
andarono all'opposta riva dell'Ollio. A sera, il re passò in
rassegna il rimanente; verso mezzanotte, levò il campo; e in
tre colonne si avviò verso Cremona.
Il 28 si fecero dodici ore di marcia; molti cadevano spossati sulla
strada; la terza divisione, giunta all'Ollio, e udito nuovamente il
cannone, cominciava a disfarsi. Ma li officiali di Savoia, raccolti
li uomini intorno alle insegne, li esortavano a non abbandonarle; li
schierarono in quadro dietro il fiume; trassero a sè col
forte esempio l'artiglieria e la cavalleria; imposero rispetto al
nemico; serenarono presso Piàdena. Frattanto interi
battaglioni, nella funesta persuasione della sfortuna e della mala
direzione, e nella licenza delle marce notturne, gettavano armi e
valigie, e si spargevano per le strade a sgomento e confusione dei
popoli.
I generali, chiamati a consiglio, deliberarono d'aprire al nemico
tutta la loro sventura, e chiedergli che sospendesse il corso della
vittoria, e concedesse loro di ritirarsi in pace. "Volevano, dicono
essi, pur con qualche condizione onerosa, aver tempo di riposare le
truppe, e riordinare un servigio di viveri più regolare e
più esatto"(85). Erano le ragioni per le quali Radetzki, alla
volta sua, aveva pur chiesto armistizio ai Milanesi; e per le
medesime ragioni ora doveva negarlo. Andarono a quel miserabile
officio i generali Bes e Rossi e il colonnello Della Marmora. Dicono
i generali che il nemico dimandasse d'occupare tutto il paese sino
all'Adda; e ch'essi riputarono cosa esorbitante. E cominciarono
tosto una ritirata, la quale poi non finì all'Adda, nè
al Po; ma giunse senz'altra battaglia sino al Ticino; e diede in
conquista al nemico anche il paese che non era mai stato suo, sino
alli Appennini di Toscana. Ciò che segue non appartiene
più al capitolo della guerra.
XII
La consegna.
Difendere Milano contro un nemico soprastante già di numero,
e animato dalla vittoria, difenderla col solo esercito, con un
esercito che sfiduciato del suo capitano cominciava a dissolversi,
non era sperabile. Associare alla difesa in modo efficace li
abitanti non si poteva, senza rimovere dalla somma delle cose i
pedissequi e i facendieri. Era duopo conciliare e richiamare d'ogni
parte li uomini liberi: lasciandoli parlare il linguaggio loro ai
cittadini, e se accadeva, anche ai soldati; insomma era mestieri
evocare in mezzo all'esercito lo spettro della forza popolare. Il re
non lo poteva; doveva piuttosto piegar le sue tende, e rientrare
vinto e taciturno nella sua reggia.
Ma non poteva dunque chiamare in campo qualche alleato?
Chi erasi millantato forte, e aveva palesato la libidine di farsi a
spese delli amici fortissimo, chi aveva offesi, ripulsi, insidiati
li altri principi d'Italia, non aveva più adito a dimandarli;
e altronde le forze della Toscana erano limitate; male in sesto
ancora quelle di Roma, e già lasciate patteggiare col nemico;
Napoli era lontana, e dopo il furto di Parma e della Sicilia
apertamente nemica; la Sicilia appena bastava a sè medesima.
Chi ha tempo non aspetti tempo; anche l'aiuto francese era divenuto
malagevole. Alle generose professioni del 24 febraio era seguita la
feroce reazione del 24 giugno. Pure ogni speranza non era tolta. Ma
porsi ginocchione innanzi al popolo francese nel primo momento
dell'infortunio, dopo averlo superbamente disdegnato fra gli orgogli
della prosperità, non era da re. Altra cosa era avere
invitato con militare ingenuità, a nome d'un popolo, un altro
popolo a partecipare nei pericoli e nelle speranze della guerra
contro il commune nemico; altra cosa era, dopo breve jattanza,
tendere la mano supplichevole alle ginocchia del forte. Era un
umiliarsi, come i tetrarchi dell'Asia innanzi al popolo romano; era
un infeudare la monarchia alla republica. A tali strette, conveniva
prostituirla piuttosto all'imperio austriaco, il quale era almeno un
essere della medesima natura. S'era re il vinto, era re anche il
vincitore; il principio della regia supereminenza e maestà
non era messo appiedi d'una plebe.
Coll'Austria si poteva rifare amicizia, già tante volte in
tanti secoli rotta, e sempre racconciata. Poteva avere a merito
l'aver guasto e storpiato una ribellione; l'averla rattenuta e
inceppata tra le fortezze dell'Adige, quando agitava già la
sua face nelle valli tirolesi, e dalla Ponteba tendeva la mano alli
Ungari frementi. Infine che cosa aveva tolto all'Austria Carlo
Alberto? Le aveva tolto Peschiera. Ma l'aveva più o meno
aiutata, o lasciata fare, a Udine, a Belluno, a Palma, in Cadore, in
Tirolo, a Treviso, a Curtatone, a Verona, a Vicenza; e ora poteva
renderle ogni cosa perduta. E non ostante la vittoria, l'Austria,
per ristaurarsi in Milano prontamente e prima che altro nascesse,
aveva necessità dell'opera di lui, e doveva essergli ben
grata.
Infatti, se Milano fosse apertamente abbandonata dal re, appunto nel
terrore della vendetta nemica e dell'inevitabile vituperio, poteva
attingere la forza d'una magnanima disperazione. Infine l'esercito
che veniva ad assalirla, battaglione più, battaglione meno,
era il medesimo ch'ella aveva quattro mesi inanzi vomitato fuori
dalle sue mura. Se aveva potuto conquiderlo allora, quando era
padrone delle piazze e delle porte, e la fulminava dal castello e
dal duomo, ed ella era senz'armi e senza capitani, non poteva
soggiacergli senza contrasto ora, che i suoi cittadini s'erano
armati e ammaestrati, ora, che lo straniero cominciava il
combattimento fuori delle mura, tra un labirinto di fosse e di prati
aquidosi, al sole e alle febri d'agosto. Il popolo aveva solo a
imaginarsi, che il dì del ritorno dei nemici altro non era
che il sesto giorno del primiero combattimento. L'intervallo dei
quattro mesi si era lasciato al re, perchè vi facesse le sue
prove. Adesso, che si era dimostrato quanto valesse il regio
fantasma, il popolo riposato e armato poteva cominciare da capo
un'altra delle sue settimane.
Per armarsi non era necessità, come nei cinque giorni,
svellere i fucili di mano al nemico. V'erano 28 mila soldati, in
gran parte veterani, ammaestrati dal nemico stesso, buoni per lo
meno quanto l'altra sua gente. Vi erano quattordicimila volontarii e
studenti, che avevano già durato più mesi ai pericoli
e ai disagi; l'esser chiamati a difendere una città doveva
parer loro un riposo. Tutta la montagna era libera, e dietro i monti
la Svizzera e la Francia; Venezia era nostra; e per salvare Milano
combattente, nessuna delle città vicine avrebbe negato un
drappello d'ausiliarii; e per poco che si tenesse fermo, si poteva
ricevere qualche maggiore e più militare aiuto. E il popolo
poteva sperarlo, perchè combattendo aveva diritto a
dimandarlo; e forse la speranza sola del soccorso gli avrebbe dato
forza di vincere; poichè la prima forza è nell'animo.
A nome del popolo si poteva dimandare alla Svizzera quello stesso
esercito ch'era pronto per noi in aprile. Nè le ricchezze
della Lombardia erano in quattro mesi consunte, sicchè non si
potesse stipendiarlo generosamente. Bastava che non fossero al
timone li avari e i loro facendieri; bastava l'imminente pericolo. I
cinquanta millioni che il ladrone nemico potè tosto emungere
ai vinti, non sarebbero mancati ai combattenti e ai vittoriosi.
Ma poteva il re soffrire che tuttociò avvenisse? Che avrebbe
detto il mondo, se quando egli co'suoi soldati fuggiva, si fossero
veduti i cittadini farsi intrepidi e affrontare il nemico? Io credo
anzi che Piemontesi e Savoiardi, quando pure si fosse voluto
ricondurli alle case loro, al primo suono del cannone sarebbero
tornati a turbe sotto le nostre mura, anche senza i generali e senza
il re.
Poniamo che il nostro popolo fosse stato vinto, e la città
sconvolta dalle mine, saccheggiata e arsa; qual grido di maledizione
non si sarebbe levato contro il re seduttore che avesse potuto farsi
da canto e rimirare in ozio quella ruina! Poniamo al contrario che
il popolo avesse avuto costanza e fortuna; che avesse potuto tenere
le orde straniere a marcire quindici o venti giorni nel fango delle
inondate vicinanze; che avesse fatta qualche notturno assalto di
baionette ai quartieri nemici; insomma, ripreso e continuato col
primiero animo il combattimento di marzo. Poichè qui non si
parla di cose strane e impossibili. Doveva il re lasciare alla causa
popolare siffatto trionfo? concederle un esperimento così
splendido della sua potenza? La causa del regno era perduta e
scornata.
Ma si ponga pure che il popolo avesse rinovato il sacro patto di
guerra vinta, anzi, che a guerra vinta il voto dei più fosse
stato d'inalzare in Milano un trono, non si sarebbe potuto, per
fermo, più assumervi il re disertore. E sarebbe stato
mestieri cercare in altro sangue il re della nuova Italia; e il re
dei vittoriosi sarebbe stato al vinto Carlo Alberto un vicino ben
più molesto d'una republica. Genova avrebbe voluto esser sua;
sarebbe stato mestieri restituire alla corona ferrea tutte le
prische gemme. Perocchè la via del Sempione è fattura
nostra; la Lomellina è nostro patrimonio; Alessandria
è un monumento della nostra libertà.
Diciamo dunque che il re nè poteva più difender Milano
col solo esercito suo; nè poteva sinceramente ed
efficacemente associarsi il popolo: nè poteva invocare
alleati; nè finalmente ritirarsi dalla guerra se il nostro
popolo avesse perseverato a combattere; perocchè sarebbe
stata ignominia lasciarlo perire; e sarebbe stata dappocaggine
lasciarlo vincere da sè, sia poi ch'egli si avesse a
costituire in republica, ovvero in regno.
Insomma: o la casa di Savoia, o da capo la casa d'Austria.
Così è; non si doveva lasciare intervallo di luogo o
di tempo tra Carlo Alberto e Radetzki. I soldati del re non dovevano
essere più d'una tappa lontano da quelli del maresciallo. E
in Milano non dovevano uscire di Porta Vercellina, se il nemico no
era messo in potere di Porta Romana!
Tale era il quesito da sciogliersi; vediamo a parte a parte come fu
sciolto.
La prima cosa da farsi era fomentare quanto più lungamente si
potesse una falsa sicurtà, affinchè i cittadini non
avessero tempo da raccapezzarsi, nè aprirsi altra via di
salvamento. Il nemico era pericolosamente vicino; la distanza da
Peschiera a Milano si stima d'80 miglia. Il general Salasco fece
bandire altamente la vittoria del re. I diecimila nemici che avevano
sforzato a cannonate il passo del Mincio, la mattina del 24, prima
che la battaglia del re cominciasse, erano al suo dire, "una banda
dispersa; i battaglioni di Monzambano non durerebbero fatica a
impadronirsi anche di quei pochi fuggiaschi; l'importante era d'aver
distaccato da Verona il corpo di Radetzki; a dimani lo sconfiggerlo
e farlo prigioniero!"
Nel giorno stesso che i generali comparivano inanzi a Radetzki a
supplicarlo dell'armistizio, si publicava alla sera a Milano :
"l'esercito conserva la sua numerica superiorità; un esercito
di 60 mila combattenti deve ispirare una gran fiducia." Ancora la
sera seguente si publicava che l'esercito "era schierato a Goito, in
perfetto ordine di battaglia". Un maggiore, mandato a Peschiera dal
campo dei volontarii, per avverare le tristi apparenze che si
scorgevano dall'una all'altra riva del lago di Garda, giunse "nel
momento, egli scrive, che un corriere del campo apportava in
Peschiera la falsa novella della presa di Mantova e dell'entrata del
duca di Genova in Verona. Il comandante di piazza mi fece arrestare,
e il generale comandò di sorvegliarmi. La verità
penetrò infine; ma non per questo si dimise il proposito
d'ingannare i popoli e tradire i volontarii. Era fra questi una
voce: a Milano, a Milano! Ma quell'ardore, anzichè fomentato,
venne represso. Si ripeteva, ancora e sempre, che l'esercito regio
basterebbe a tutto; che li Austriaci sarebbero ben presto in
ritirata; che i volontarii dovevano attenderli al varco, al ritorno,
e annientarne le reliquie.(86)"
Dalla presunzione della vittoria si volle che il popolo di repente
piombasse nell'avvilimento della disfatta; poichè, prima di
udirla, ebbe, per così dire, a vederla nelle turbe di soldati
fuggiaschi, che vennero con perfido consiglio sospinti verso Milano.
E senza necessità e senza verun pudor militare,
attraversavanla da un capo all'altro, scalzi, scollati, laceri, col
capo involto in luridi fazzoletti, con visi scarni e febrili, fra lo
stupore e lo sgomento del popolo, non senza pietà veramente,
ma eziandío non senza sdegno dell'improviso disinganno.
E qui abbiamo diritto ad affermare che non si poteva dirigere a
quella volta la ritirata se non per un malvagio proposito.
In truppe sbandate il disordine cresce ad ogni marcia, e peggio se
di notte; i vigorosi si dilungano sempre più dei deboli e dei
pigri; le compagnie si mischiano, i capitani perdono ogni
autorità, i soggetti ogni rossore; si fanno accattoni; la
fame, la sete, le ferite, le miserie tutte non riparate si
aggravano. I disordinati si potevano, fin dal giorno 27, rattenere
ai ponti dell'Ollio; e colla promessa del cibo e del ristoro, e
colla forza dei gendarmi e delle guardie nazionali che dovevasi
tener pronte e indettate a siffatti servigii, si potevano
raccogliere in Casalmaggiore e Cremona, tragittare subito oltre Po,
e ricoverare in Parma e Piacenza, ove avrebbero trovato
un'ospitalità non esausta nè stanca, essendo quei
paesi ancora intatti, ed essendo, pel riparo del Po, meno aperti
allo spavento ed alla confusione. Fermata la marcia, aveva confine
il disordine, anzi non avrebbe avuto campo a nascere.
Ancora al ponte di Pizzighettone, si poteva rivolgere li sbandati
verso la vicina Piacenza; d'onde dietro al Po era breve, tranquillo
e quasi secreto il passaggio in Alessandria. Da Pizzighettone al
confine sardo, per Piacenza è una ventina di miglia; per
Milano sono sessanta. E parimenti dal ponte di Lodi al confine
sardo, per Pavia sono venti miglia di buona e diritta strada, per
Milano sono quaranta. I perfidi generali preferirono la strada
più lunga, e dove lo scandalo e lo sgomento potesse farsi
maggiore.
All'Ollio non si fece resistenza. Se ne scusa il general Bava, e
dice : "mancando il fiume d'aqua, a motivo della stagione, resta mal
difeso e pericoloso per coloro che occupano la riva destra,
trovandosi l'Ollio quasi parallelo al Po, e per conseguenza
esponendo i suoi difensori ad essere rinserrati da un movimento
offensivo nel passaggio dell'alto Ollio. - Credetti conveniente
partito il proporre a Sua Maestà di portarsi sulla linea
dell'Adda"; pag. 81.
Sappiamo già quanto i generali del re valessero in geografia
militare. Tuttavia se avessero solamente messo l'occhio nelle nostre
Notizie naturali e civili sulla Lombardia, vi avrebbero trovato che
la mancanza d'aque nell'Ollio a quella stagione è artificiale
e volontaria, poichè vengono rivolte tutte nelle irrigazioni.
Ora, niente più facile, col buon volere e l'interesse di quei
generosi popoli, ostruire pel momento li incili delli aquedutti, o
rompere le pescaie, e lasciare al fiume tutta l'aqua irrigatoria. E
fa una massa veramente enorme, essendo di 1800 e più once,
ossia di 4600 metri cubici ogni minuto. Perlochè, senza
considerare quella che rimane sempre nel fiume, è già
superiore alla massa d'aque che in quella medesima stagione ha la
Senna in Parigi. E chi è quel general francese, che in
qualsiasi stagione dell'anno, si scuserebbe affatto di difendere il
passo della Senna, per mancanza d'aqua?
Dai calcoli dell'idraulico Lombardini su tutti i fiumi tributarj del
Po, registrati nelle medesime Notizie (Prospetto XI, p. 209), appare
che l'importanza dell'Ollio a Canneto, ov'era a farsi l'accampamento
trincerato, è ancora assai maggiore, anzi più che
doppia, di quella del Mincio a Peschiera, stando fra loro i due
moduli idraulici come 136 a 67. È all'incirca la medesima di
quella del Po a Torino, ch'è come 139.
L'Ollio e li altri nostri fiumi che provengono dai grandi laghi
alpini, hanno più aque appunto nella stagione estiva,
cioè da mezzo maggio a mezzo novembre. È vero che
parte delli aquedutti era sulla sinistra del fiume, verso il nemico;
ma anche da quella riva i più considerevoli si diramano
all'alto, presso il lago d'Iseo, dietro Brescia e i monti della
Francia Curta, entro profondo avvallamento, insomma in luoghi ove il
nemico non avrebbe potuto stabilirsi così tosto, nè
così tranquillamente, da intraprendere siffatti lavori. I
generali, in quattro mesi di tempo, e principalmente dopo
l'incursione del Daspre a Mèdole, dovevano pensare a simili
casi; e consultare i periti del paese, e preordinare la difesa con
movimenti d'aque e di terre, e mine e batterie ai ponti, e adunate
di popolo armato sotto capi militari, e qualche polso di truppe
stanziali. Ma se un uomo savio avesse mai detto, una settimana
inanzi, che giovava fare anche qualche provedimento pel possibile
caso d'una sconfitta, avrebbe mostrato di non fidare ciecamente
nella spada d'Italia, e sarebbesi gridato settario dell'Austria.
Così tutto quell'edificio diroccò, perchè posto
sovra malvagio fondamento d'imprevidenza, d'arroganza e di
soperchieria.
Nè vale parimenti l'asserire che la giacitura del fiume,
nella sua parte bassa e navigabile e quasi parallela al Po,
esponesse così facilmente i difensori ad essere intercettati
nella parte superiore. Poichè per raggiungere questa parte
superiore, cioè Pontevico e Chiari, il nemico doveva prima
attraversare tutta la provincia di Brescia, lasciarsi alle spalle
Peschiera e Brescia medesima, ovvero forzarle; il che non avrebbe
fatto senza tempo e sangue. Brescia ha mura e un castello, e
quarantamila abitanti, e i colli intorno sarebbero stati difesi,
come altre volte, dai valorosi suoi valligiani, e questa volta anche
dai volontarii ch'erano da lungo tempo in quei monti. E in quei
medesimi giorni, oltreciò, la trovai difesa da cinquemila
uomini e diecisette cannoni, appieno tranquilla, quando il nemico
era già in Cremona e in Lodi. Poteva difendersi come Vicenza
e meglio.
Non si può facilmente credere che, se il re si fosse
trincerato risolutamente sul basso Ollio, e non avesse lasciato
partire, o fatto partire, le brigate fresche di De Ferrère e
Sommariva, e avesse chiamato a Gavardo e a Brescia quanti armati
avevano i Bresciani, e a Sàrnico e Bergamo i Bergamaschi, e i
Comaschi a Pontida, il nemico avrebbe avuto animo di passar
così fidamente l'alto Ollio e l'Adda. Perocchè in quei
luoghi è agevole far contrasto, per l'altezza generalmente
superiore della riva destra, attesochè da fiume a fiume il
piano del Po discende sempre d'uno scaglione verso l'Adriatico. Un
piccolo corpo regolare con forte proporzione di cavalli e
d'artiglieria leggere, qua e là compeggiando, avrebbe dato
grande animo ai popoli di difendere tenacemente le città, i
ponti, i boschi.
Accampato il re sul ponte del basso Ollio col suo gran parco
d'artiglieria, non aveva solamente l'appoggio d'un fiume navigabile,
ma parallelamente a quello e al Po aveva la Delmona e li altri
profondi canali di scolo del Cremonese. Poteva valersi delle alte e
continue linee delli argini per le communicazioni e le stazioni dei
popoli armati; e con poche opere poteva spargersi intorno vaste
inondazioni; fra le quali il nemico non poteva più aprirsi il
passo con l'equipaggio di ponte, nè dirigersi colle solite
carte. E infine Cremona medesima, divenuta testa di ponte, si poteva
anche senz'esercito difendere assai più che Vicenza e
Treviso, perchè bastionata, e non dominata da poggi;
perchè ricinta di fossi, di paludi, di rive selvose, e
fiancheggiate da Pizzighettone e dalla foce dell'Adda; perchè
infine popolata d'uomini risoluti, ai quali si sarebbero tosto
aggiunte turbe d'amici da Parma, da Piacenza, da tutto l'Apennino.
In paragone alle città dell'Europa settentrionale, le nostre
per la solida loro struttura possono tutte valere momentaneamente
per fortezze.
Un esercito può sempre difendere a palmo a palmo il terreno,
quando è circondato dal favore dei popoli, e sicuro della
ritirata dietro un gran fiume come il Po. Nè il nemico, per
passione che potesse avere di mostrarsi ancora sotto i bastioni di
Milano, avrebbe osato allontanarsi cento miglia da Verona,
lasciandosi a tergo l'esercito del re, e i volontarii della
frontiera tirolese, e i ventimila uomini del presidio di Venezia, e
a destra Peschiera e Brescia e i suoi monti, e a sinistra l'Ollio e
Cremona. Il piano tra Peschiera e l'Ollio è largo appena una
ventina di miglia, e poteva da ambe le parti in una breve marcia
essere intercetto, essendo pieno d'ostacoli, che la guerra di popolo
doveva rendere più formidabili e numerosi. Ed è strano
che li officiali d'un esercito, che non fece tentativo alcuno di
difesa, riconoscano ch'era une des contrées de l'Europe la
plus facile a défendre(87); e ciò per i molti fiumi, e
li infiniti canali, e le dense piantagioni, che intoppano ad ogni
passo i cannoni, e non lasciano spazio libero alla cavalleria.
Sono moltissimi i casi, nei quali il generale in capo si lagna di
non aver potuto operare, o perchè "il suolo folto di piante
non lasciava vedere al di là di cinquanta passi"; o
perchè il terreno "ovunque sfondato, e i molti fossi che
dividono i poderi erano pieni d'aque, e non restava communicazione
possibile fra le truppe, tranne la sola strada". Le quali cose
abbiamo caro a ripetere, perchè se mostrano ciò che
quei dappoco non fecero, mostrano anche ciò che capitani
d'altra scuola potrebber fare. Ma siffatti impedimenti si
consideravano dai generali del re, sempre e solamente, per non
andare inanzi; e non mai per tenere indietro il nemico. Nè
mai pensarono in alcun caso a imitare ciò che il nemico aveva
fatto in quattro giorni di lavoro, dopo il combattimento di
Curtatone, per chiudere loro quell'identica via di Cremona.
Nè infine considerarono mai la micidiale persecuzione che
avrebbe fatta ai nemici il popolo, se una mano fedele, con ordine
premeditato, l'avesse diretto a stancheggiarli, isolarli, e
tribolarli d'ogni parte.
Come mai si osa affermare che una battaglia per difendere Milano
sarebbe stata sans antécédent militaire? Tutta la
pianura intorno a Milano, da Mantova sin oltre Alessandria, è
una serie di campi di battaglia. Quivi sono le vestigia di
Napoleone, di Souvaroff, di Joubert, d'Eugenio di Savoia, del re
Francesco, di Baiardo, di Trivulzio, di Gaston de Foix, di Prospero
Colonna, di Francesco Sforza, di Barbarossa, di Carlomagno, e
perfino d'Ottone e Vitellio, d'Annibale e Scipione, di Marcello e
Viridomaro. - Milano si difese contro i Romani; contro i Goti; vinse
a Legnano i Tedeschi di Federico I; a Cassano i Saraceni di Federico
II; a Parabiago la cavalleria francese; a Bicocca la fanteria
svizzera. Marignano, Pavia e Lodi sono nomi noti a tutti i popoli. -
Non sappiamo se in un officiale sia peggio ignorare l'istoria
dell'arte sua, o negarla.
Insomma nulla era perduto per la causa nazionale, perchè si
fosse perduto il monte di Rivoli o il poggio di Volta. Nè si
trattava di vincere battaglie campali, ma sì d'indugiare il
nemico e acquistar tempo. E il buon senso naturale mise allora
nell'animo di tutti il medesimo pensiero, di difendersi quanto si
poteva, e frattanto far publica chiamata al popolo francese. Ma il
re, nemico più al nome republicano che non a suoi parenti
d'Austria, appunto non lo fece; e finse gesuiticamente di farlo,
mandando in Francia il Ricci, per mera mostra; anzi peggio.
Poichè, come afferma il colonnello Ludovico Frapolli, era
all'intento, "non già d'operare di concerto con noi, ma
bensì d'addormentarci, e procrastinando impedire ogni
risoluzione del governo republicano". E affinchè i cittadini
per avventura non facessero la dimanda da sè, fece dire dal
governo provisorio, il 31 luglio, che "a rinforzare l'esercito
italiano si aveva lusinga che presto giungesse l'aiuto francese,
stato formalmente dimandato dal ministerio piemontese e dal governo
provisorio di Lombardìa". Quanto al ministerio piemontese,
era un'impostura; poichè anzi, come narra Frapolli, "la
demenza delle camarilla s'accrebbe verso la fine di luglio al punto
di far intendere alla Francia, che, se il generale Oudinot non
sapesse rattenere i suoi soldati, sarebbero ricevuti a cannonate al
Forte Damian, vantandosi che il re teneva a tal uopo da cinque a sei
mila uomini nelle gole del Moncenisio!". Quanto al governo
provisorio, fu infatti inviato a Parigi anche il marchese Guerrieri,
uno de' suoi membri; e si lasciò per qualche tempo tenere a
bada dal Ricci; finchè incalzato dalli altri Italiani che
là erano, e che sapevano dal ministro Bastide che non si era
fatto nulla, ne mosse particolare dimanda a nome nostro; ma tardi,
poichè il re aveva già consegnata Milano al nemico;
era già il nefasto giorno 6 d'agosto. E li altri Italiani, in
una separata dimanda che fecero al generale Cavaignac in quel
medesimo giorno, si lagnarono che il Ricci "esitasse ancora a
dimandare l'immediato intervento". Solo il dimani, quando già
il telegrafo indicava a Parigi inevitabile la resa di Milano, il
marchese Brignole presentò un dispaccio da Torino, che
chiedeva il soccorso della Francia. Gli si diede la risposta omai
solita a mandarsi ai re: troppo tardi.
Afferma il Frapolli che il governo francese nei primi tempi era
veramente desideroso d'essere chiamato in soccorso della
nazionalità italica; e anche dopo che si palesò
l'impotenza del re, non vi si rifiutava; se non chè dovendo
attraversare il suo territorio, non voleva farlo senza di lui
consentimento. Ma il re non volle accettare l'esercito francese
altrimenti che come suo proprio alleato. Il che gli si negò,
con queste memorabili parole: "finchè si tratta di combattere
insieme ai soldati piemontesi, ancora siamo pronti. Ma marciare per
l'interesse del re di Sardegna, avviluppare il vessillo della
republica francese con quello di Savoia, no mai!"(88).
Appena la ritirata dell'esercito fu popolarmente nota, ci
presentammo al governo, dimandando che istituisse un magistrato
dittatorio per difendere la città. Casati era a Torino;
Borromeo voleva schermirsi; gli dissi, che se lo facesse
immantinenti, avrebbe la nostra gratitudine; e se non lo facesse, i
cittadini provederebbero da sè, poichè la città
per rispetti umani non doveva cadere in mano ai nemici. Il governo
promise, ma temporeggiò in quella suprema urgenza un giorno
intero; nominò infine il general Fanti, il dottor Maestri e
l'avvocato Restelli. Erano uomini valenti e onesti, e amatori
più o meno aperti di libertà; anzi pare che due di
essi fossero proposti dal Mazzini; ma il popolo non aveva avuto
campo a conoscerli. Fanti era venuto allora di Spagna, e non era
forse mai stato in Milano. Infine il comitato di difesa non era
supremo e dittatorio. Nè il governo si dimise; nè
seppe sciogliere almeno sè medesimo dalle reti del re. Quando
il comitato mi richiese cortesemente dell'opera mia, gli scrissi che
si facesse publicamente riconoscere dittatore e padrone. Non
accettò il consiglio, e fu cosa fatale.
Anzi chè concentrare le forze e accelerarle, i facendieri le
allentavano e stemperavano, adunando a verbose e molli consultazioni
gente d'ogni colore, e di vario anzi contrario proponimento.
Invitato e sollecitato da Restelli, mi recai, non mi ricorda se il
29 o il 30, a un'adunanza nel palazzo Marino; vi trovai uno o due
generali del re, credo Sobrero, poi Mazzini, e il general Zucchi, e
Garibaldi in tunica scarlatta, il conte Arese, il poeta Berchet,
Filippo de Boni e non so quanti altri contraposti. In quella ch'io
entrava a crescere quello strano miscuglio, si stava conchiudendo
che si dovesse in primo luogo determinare le cose da farsi per
difendere la città; e in secondo luogo le facoltà
dittatorie da conferirsi al comitato di difesa testè eletto.
Il primo punto dava materia senza fine; ed era un porre il carro
inanzi ai buoi; poichè la dittatura era l'atto preliminare
che doveva dare a tutti li altri vigore, ardimento e
velocità, e ove fosse necessario, secretezza. Era chiaro che
al punto della dittatura non si voleva venire; e che i generali del
re si mescolavano con noi, solo per far credere in città che
si facesse a consiglio nostro. Perlochè dopo tre minuti,
senza aver detto parola, nè fattomi scorgere, quetamente me
ne andai. Se ne accorse De Boni, e mi seguì per farmi
rimanere; poichè quei buoni republicani parevano già
contenti di vedersi solamente trattati con un pò di cortesia.
Ma io gli dissi che la prima misura di salvezza era di mandar tutti
i generali del re al campo, ov'era abbastanza da fare; senza
ciò avrebbero continuato a sventare ogni sforzo dei
cittadini; ma mi pareva inutile il dirlo, finchè nessuno
aveva il potere di farlo; e il potere non si sarebbe conferito,
poichè li stessi membri del comitato non volevano intendere
l'apertissima necessità d'averlo, e d'esigerlo, o anco di
prenderlo da sè stessi, appellandosi al popolo.
Pare che il Fava avesse avuto sentore della malvagia intenzione
colla quale il re veniva a Milano; e che per vanità del
secreto di Stato, se ne lasciasse sfuggir di bocca qualche cenno; ma
chi lo intese, n'ebbe serio spavento; e ne parlò a un capo
della guardia nazionale, che andò tosto a farne parola al
conte Arese, collega del Fava medesimo nel consesso supremo di
polizia. Dall'Arese fu mandato con viglietto all'altro collega Litta
Modignani, il quale fece chiamar tosto il Fava. Ma questi con
facezia veneta facilmente tranquillò il collega e li altri
astanti. Era strano assai che il consesso il quale "doveva scoprire
le corrispondenze che potessero avere nell'interno li esterni
nemici", fosse per fare la sua prima e unica scoperta nella persona
del suo presidente e del suo re! I popoli che vogliono esser liberi,
non devono soffrire altra polizia che l'assoluta libertà
della parola e della stampa, e la scelta popolare ed elettiva di
tutti i magistrati. Allora non si possono più tessere vasti
tradimenti.
Pare eziandío che il Fava avesse incarico di disporre che in
qualche repentino impeto di popolo non si facesse ricapito a persona
che attraversasse i disegni del re; e sembra che mirasse primamente
a quelli che come membri del consiglio di guerra si erano mostrati
contrarii alli armistizii e alle dedizioni. Aveva fatto arrestare
già due volte Cernuschi, e una volta Terzaghi; e sempre
inutilmente. La mattina del 1 agosto fece arrestare Giambattista
Frattini, uomo affatto estranio alla politica, assai probo e assai
conosciuto in commercio; il quale veniva sovente da me per
un'impresa che si stava concernendo con banchieri svizzeri per
migliorare la navigazione del Ticino. Mi recai tosto al comitato di
difesa per farlo liberare, e per mostrar loro la necessità di
abolire immantinente quell'officio di Sicurezza, fucina regia di
diffamazione, di discordia e di confusione; mi recai anche dal Fava
e lo svergognai bruttamente in mezzo a suoi aiutanti; ottenni almeno
che nel frangente che poi venne, quelli scioperati non ebbero adito
a fare altro maggior danno. All'officio poi di Santa Margarita venni
a sapere che quell'arresto erasi fatto per delazione suggerita al
mio domestico; e sotto titolo che Frattini avesse tenuto il giorno
prima, con me, in casa mia, discorsi contrarii al governo. Avevano a
tal uopo ubriacato nella notte e regalato il mio domestico; poi
l'avevano arrolato in un reggimento, cosicchè tornò a
casa solo al mattino e per congedarsi; e fu egli medesimo poi che
appostò il Frattini e lo additò a chi doveva
arrestarlo. Così si preparava l'insidia per me; strana sorte,
se mi fossi trovato chiuso a chiave in Castello da quei satelliti,
il dì dell'arrivo di Radetzki!
Il comitato di difesa tentò in quel precipizio di far quanto
poteva; dimandò un prestito forzato di 14 millioni alle
famiglie agiate; chiamò alle armi tutti li uomini dai 18 anni
ai 40; mobilizzò cento uomini per ogni battaglione di guardia
nazionale; adottò uno studio fatto già dal mio amico
ingegnere Filippo Bignami per la difesa dell'Adda; si fece
progettare altre fortificazioni per la campagna e per la
città di Milano; ma non pensò a incendiare e minare il
Castello. Chiamò la leva in massa del paese fra l'Adda e il
Ticino, ordinandola per communi, e destinando a lavorare quelli
ch'erano proveduti solo di strumenti, e a respingere il nemico
quelli che avevano armi. Ma il re non volle destinare alcun corpo di
soldati, intorno a cui questa povera gente potesse rannodarsi, e
spargere con maggior frutto il suo sangue. La volle lasciar sola
lungo la parte superiore dell'Adda, dicendo ch'egli voleva difendere
la parte inferiore; il che poi non fece.
Ordinò il comitato che dalla provincia si apportassero subito
in Milano ventimila sacchi di frumento. Ma senza ciò, v'erano
in Milano ammassi bastevoli ad alimentare per più d'un mese
tutta la popolazione, se vi fosse rimasa. Attestò infatti
Pietro Molossi, capo del magistrato d'annona e uomo integerrimo, che
v'erano a notizia sua 4500 sacchi di riso, 12400 di frumento e
farina, 6500 di grano turco, vino per tre mesi, altre derrate per
tempo assai maggiore. Imagazzini di viveri erano muniti chi per 20
giorni, chi per 30; e da ultimo il timore delle nemiche rapine fece
entrare in città tanti generi.e oltre alle solite masse del
fieno di maggio per l’intera annata, altro in gran copia vi era
entrato in quei giorni, perché il Comitato levò la
gabella. Inoltre molte famiglie, già deliberate a sostenere
un ‘assedio, s’erano raccolte in casa quanto bastasse per loro, e
alcuni anche per li improvidi congiunti e amici. Infine era
impossibile che il nemico potesseavvolgere tosto in efficace blocco
una città sì vasta, in un terreno frastagliato da
tante piantagioni, tanti canali, al cospetto di un esercito che
aveva sei reggimenti di Cavalleria, e fra tanto popolo armato, senza
esporre i suoi posti ad essere da fronte e da tergo, e tagliati a
pezzi. Quanto alle munizioni da guerra, senza comprendere ciò
che l’esercito aveva seco, e ciò che poteva aver tosto dalla
vicina Alessandria, tutti i quartieri delle guardie Nazionali, i
quali erano più di venti, erano provisti a dovizia. Ho
testimonianza scritta che per quelle solamente del Duomo, v’erano in
Campo santo 135 barili di polvere, 12 casse di cartuccie e altre di
capsule e accèndoli. 300 mila cartucce si erano distribuite
ai cittadini nel giorno 3; 300 mila nei giorni precedenti;
cinquecentomila erano in corte; 400.000 al ministerio della guerra;
e inoltre v'erano in altri luoghi 9 mila di kilò di polvere
da cannone, e 45 mila di polvere da fucile. In fine molti privati si
erano provisti largamente e di polvere forestiera e di quella della
polveriera suburbana, che ne aveva messo in vendita per 4 continui
mesi, 600 kilò al giorno. Si era costruito un nuovo molino
nell'interno della città; tutte le spezierie s'erano converse
in fabbriche di polvere e cotone fulmineo, come nei 5 giorni.
S'intendeva di fare grandi mine. Si apprestavano inoltre ogni giorno
350.000 cartucce. Quanto al piombo, nei serrami delle case, nelle
stamperie e in cento rami d'industria e di commercio, ne aveva la
vasta e operosa città per parecchi milioni. Accadde poi che
alcuni barili di polvere, ch'erano nell'armeria del genio,
scoppiarono, con morte di molte persone. E quantunque la
capitolazione fosse già fatta, i generali del re ne menarono
gran rumore, come se non vi fosse più polvere in
città. Il che fece dire a molti che fosse opera loro(89).
Non ommisi per parte mia di suggerire vari provvedimenti, che mi fo’
lecito di accennare, perchè potrebbero forse giovare in altro
tempo e luogo. Raccomandai che all'arrivo del nemico si ostruissero
intorno alla città tutte le aque correnti, che si facesse una
cerchia di fango(90); dal che si avrebbe ostacolo materiale al
libero giro delle artiglierie; confusione di molte strade colle
linee dei canali; separazione dei corpi che intraprendessero il
blocco; guasto inevitabile dei cavalli; impossibilità in
siffatta stagione a quelle genti settentrionali di rimanervi anche
solo pochi giorni, se non esponendosi a rapida distruzione. Infatti,
anche senza ciò, in ottobre ventimila uomini, un quarto
dell'esercito nemico, giaceva nelli ospedali.
Raccomandai di scemare l'effetto dissolvente della fusione, col
preporre alle guardie nazionali capi che si fossero mostrati alla
prova nei combattimenti di marzo, in luogo di quelli che si erano
nominati per libidine di setta, e fuori dell'aspettativa di nuovi
cimenti. E per porgere ai meno bellicosi un titolo a ritirarsi
onorevolmente, proposi che in ogni quartiere, a voto delle guardie
stesse, si deputassero alcuni officiali alla cura delle vittovaglie,
dei poveri e altretali cose, conservando pur loro il titolo e li
spallini. Rendendo elettivi e ordinando per parochie questi
officiali di pace, si poteva liberar la città anche dalla
peste delle tre polizìe. E li uomini forti e sinceri
avrebbero ripreso l'influenza che i facendieri perdevano.
Proposi di richiamar subito dalle montagne i volontarii di Milano e
delle città vicine. Era Milano il punto decisivo da salvarsi.
E quanto più erano i volontarii, tanto men pretesto vi
sarebbe a mettere in città i soldati del re.
Tuttavia, richiamando i volontarii, non si dovevano lasciare aperte
le valli, nè esposta da tergo la linea che si stendeva dal
confine svizzero dello Stelvio sino a Peschiera. Proposi
perciò d'istituire un'altra linea di punti forti, lungo lo
sbocco di tutte le valli sulla pianura, da Peschiera sino al confine
svizzero di Como. Così, con poco sforzo, la metà
montuosa della Lombardia rimarrebbe involta e coperta da tutti i
lati.
Li abitanti di ciascuna valle dovevano attendere solo alla custodia
di pochi e vicini punti, fidando che nelle altre valli si farebbe
altretanto. Una parte dei volontarii formerebbe un corpo volante per
apportare soccorso ai luoghi assaliti. Con ciò si torrebbe il
principal difetto delle leve in massa che, accumulandosi sovra i
punti in apparenza minacciati, lasciano infine scoperti quelli che
il nemico ha veramente di mira; e allontanandosi troppo dalle case
loro, non possono poi durare, per disagio di viveri e
d'alloggiamenti, e abbandono delle cose loro a ignoti pericoli; onde
al primo disastro vanno facilmente in confusione e avvilimento.
Sarebbe piuttosto a chiamarsi armamento territoriale che leva in
massa; impaccio universale al nemico, e appoggio ai difensori.
Il comitato vide l'utilità della cosa; ma si trattava di
determinare i luoghi e le opere da forsi, e ordinare i capi delle
valli, l'armamento, le munizioni, le raccolte di viveri, i messi, i
segnali, i luoghi di salvamento e di graduale ritirata, e altre cose
molte, le quali si sarebbero appena potute prevedere a assestare, se
vi si fosse indefessamente atteso fin dal primo giorno della nostra
liberazione. E il nostro comitato di guerra aveva veramente
cominciato a fare, prima della fatale venuta del re, che ci aveva
come impietriti. Pure il nuovo comintato m'incaricò di fare
quanto poteva, dandomi in compagnia un veterano del genio. Giunto a
Lecco il giorno 2, vidi con meraviglia, come fra
l'imbecillità del governo e de’ generali, quei valorosi
popoli di fossero già posti all'opera da sè, per
difendere almeno il loro territorio. V'erano sentinelle da ogni
parte, come in una piazza di guerra, quantunque 260 di quei giovani
fossero già allo Stelvio; v'erano quattro cannoni sulla
piazza; si erano fabricate in quelle ferriere alcune centinaia di
lancie in forma di daga, e alcune migliaia di forconi; si lavorava a
munire con muraglie e mine la chiusa fra l'Adda e il monte. Ci
chiesero fucili, qualche altro cannone, e sopratutto ordini
risoluti, anche per non sostenere, privati, tutta la
responsabilità dei publici danni. Misi d'accordo quella brava
gente per aggiungere un'altra linea più avanzata, in comune
col distretto di Caprino; al che si trascelsero i due punti di Villa
d'Adda e Cerchiera. Determinammo che i tre distretti di Caprino,
Lecco e Valsàssina, avrebbero costituito una sola sezione, la
quale avrebbe in comune il comando, la difesa, e le successive
ritirate fino al fondo della Valsàssina. E doveva connettersi
con un'altra sezione, che difenderebbe la valle del Brembo, col
popolo dei distretti d'Almenno, Zogno e Piazza. Una terza sezione,
per la valle del Serio, si formerebbe dai distretti d’Alzano,
Gandino e Clusaone: una quarta si formerebbe dalle valli Calepio e
Cavallina colla Riviera d'Iseo; una quinta dalla Val Trumpia; una
sesta dalla Val Sabbia colla Riviera di Salò. Le sezioni di
Val Camonica e di Val Tellina avrebbero atteso solo a resistere
verso il Tirolo. Alcuni distretti però dovevano star pronti a
far fronte da due parti; così Lovere poteva esser chiamato a
concorrere anche colla Val Camonica; la Val Trumpia colla Val
Sabbia. Bergamo, Brescia e Peschiera sarebbero state antemurali
della linea, e avrebbero atterrito il nemico dall'impegnarsi
seriamente entro le valli. Con provedimenti non molto diversi, si
poteva rendere quasi impenetrabile al nemico anche la pianura;
poichè dopo tuttociò, vi era pure un esercito.
A Bergamo trovai Garibaldi con molta bella gente, e fra l'altra un
corpo di volontarii pavesi. I cittadini avevano barricate le porte
della città bassa, e preparavano qualche difesa sul monte, ma
avevano pochi cannoni e nessuna munizione; avevano solo 500 fucili
militari, benchè avessero mandato a Milano 44 mila franchi in
anticipato pagamento d'altri fucili; e avessero mandato alla zecca
mezzo milione d'argenti, senza ritorno di denaro. In Val Calepio si
era tagliato il ponte all'Ollio; e il Berizzi, che poi perì
sul Gottardo, raccoglieva un migliaio di montanari, per sostituirli
in Bergamo a quelli che Garibaldi voleva condurre al soccorso di
Milano. A Brescia si fortificavano i colli; ma il popolo si lagnava
dei capi albertisti, che distoglievano dalla difesa, e consigliavano
di sottomettersi alli Austriaci. In tutti i villaggi si faceva buona
guardia giorno e notte, e tutti erano volonterosi di far qualche
cosa, ma non sapevano dove recarsi, mancavano d'armi e di capi. La
nuova del tradimento di Milano giunse a Bergamo nell'istante che,
abbozzata sui luoghi la linea di difesa, io stava publicando un
indirizzo ai montanari, per chiamarli a darvi una mano. Aveva
mandato Cernuschi a Milano a prender armi; tornò con mille e
duecento fucili; ma giunsero a Lecco la matina del 6, quando le
strade erano affollate di montanari che tornavano già
indietro, senza aver trovato nè armi, nè modo di
combattere. Alla Chiusa Veneta si disfacevano già le
fortificazioni; sulla piazza di Lecco stavano abbandonati i cannoni;
li feci imbarcare; feci prendere il largo a una buona carica di
munizioni. Da tutte le parti si udivano i montanari maledire il re
dei signori!
Aveva il re proseguito la strana e sciocca sua ritirata. "Durante il
cammino mi richiese, dice il Bava, se non vi sarebbe stato mezzo di
difender quella città (di Cremona), per noi tanto
interessante, onde poter almeno far uscire il resto dei nostri
malati e dei nostri magazzini. Ma io mi credetti in dovere di far
osservare, che la cosa era arrischiata anzi che no, con l'Adda alle
spalle. Che nullameno, formando due ponti, traendo partito da quello
di Pizzighettone, e prendendo una buona linea, in quel paese
boschivo e solcato di canali, si sarebbe potuto tentare l'impresa,
forse con successo, per alcuni giorni. Laonde partii subito per
Cremona, onde cercare e stabilire le posizioni.
Verso le 11 del matino, il cannone si fece sentire sulla stada di
Piadena. La brigata Savoia era attaccata. Feci speditamente avanzare
alcune compagnie di bersaglieri, due battaglioni d'Aosta e qualche
squadrone di cavalleria; e i bravi Savoiardi vedendosi soccorsi, si
fermano e contengono il nemico.
Nel matino era stato costrutto un ponte a Grotta d'Adda; si contava
di gettarne un altro alquanto superiormente; un terzo era nella
piazza di Pizzighettone; la quale in fretta veniva messa al coperto
d'un colpo di mano. Così assicurati alle spalle, e in un
terreno ripieno d'ostacoli e preparato previamente, sarebbe stato
facile il difendersi gagliardamente con soldati disciplinati. Ma lo
sconforto andava grandemente crescendo nelle file.
Mi risolvetti di supplicare il re di permettere che l'esercito
uscisse di Cremona(91).
Tutte le divisioni dell'esercito furono alloggiate, quello stesso
giorno, nei villaggi della riva destra dell'Adda, fino al ponte di
Lodi; nella quale citta stavano la divisione lombarda e i Toscani. -
Nella notte del 31, ricevetti avviso dal generale d'Aix, che il
nemico stava sulla sinistra dell'Adda(92).
Nel matino del 1 agosto, si udì qualche colpo di cannone
nella direzione di Grotta d'Adda. E verso le sette mi pervenne altra
lettera del generale d'Aix; nella quale mi avvisava che la sua
artiglieria non poteva essere collocata; che il nemico gettava il
suo ponte; e ch'egli in conseguenza stava riunendo le sue truppe, e
prendeva la direzione di Cornovecchio e Piacenza.
Partii subito, onde contramandare l'ordine della ritirata. Mi
informo di quanto accadde, e mi si risponde che il nemico ha
già passato il fiume! Mi rivolsi verso Pizzighettone, onde
darvi le occorrenti disposizioni per lo sgombro, non essendo la
piazza vittovagliata”(93).
Il Ferrero attribuisce l'abbandono dell'Adda alla viltà del
generale marchese Sommariva; il quale, per la seconda volta, e
sempre impunito, e quindi si può dire, per volontà del
re, abbandonò il campo di battaglia; e condusse
precipitosamente a Piacenza le brigate Aosta e Regina, tre batterie
e alcuni squadroni(94).
"Messa Sua Maestà a parte di quanto accadeva, prosegue il
Bava, dimandai quale direzione volesse tenere. Passando per Piacenza
e Pavia sulla destra del Po, l'esercito sarebbe stato subito al
riparo, dietro un grande ostacolo; e noi rimarremmo sul fianco
sinistro del nemico, s'egli tentasse di marciare su Milano. Ma
siccome non potrebbe dirigervi che un distaccamento, probabilmente
egli rinuncierebbe ad una così fatta impresa; e sarebbe
obligato a tenersi a noi di fronte"(95).
Ma in tal caso il re aveva gelose cure in Milano; e non poteva
lasciarla alli impulsi dell'esaltazione cittadina. Perlochè,
il giorno 2, quando Fanti e Restelli, vedendo abbandonata l'Adda al
nemico, e resi vani i preparativi da loro fatti sulla parte
superiore del fiume, si recarono a Lodi per sapere a che gioco
giocasse Sua Maestà, non furono graziati di udienza dal re;
ma ebbero risposta dai generali che intendeva recarsi a Milano, per
difenderla, contando sull'opera dei cittadini.
Richiamarono dunque dell'Adda a Milano la leva in massa e li
ingegneri, per restringere a tutti li sforzi alla difesa delle mura.
Avevano ripartito la città in quartieri; ad ogni quartiere
era fatto assegno di munizioni, d'ingegneri, di pompieri, di
chirurgi, di sovrintendenti. E parecchie migliaia di braccianti,
collo stipendio di tre lire al giorno, furono posti a munire di
terrapieni le parti men difese.
Senonchè obliarono la prima e suprema di tutte le difese,
chiuder le porte, e rompere sotto pena di morte ogni communicazione
coll'esercito del re, lasciandolo operare nella campagna come gli
convenisse. Infatti, mentre fra l'immensa agitazione del popolo, era
più necessario di lasciarlo reggere da mani nelle quali
avesse conoscenza e fede, il re afferrò quell'infausto
momento per prendere vano e insidioso possesso della Lombardia. Il
giorno 2 di agosto, il governo provisorio dichiarò di
cessare. Il giorno 3, si costituirono commissarii del re, un
generale Olivieri e un marchese di Montezèmolo, uomini dei
quali il popolo nostro mai non aveva udito il nome. Si prestò
ad assisterli nell'impresa Gaetano Stringelli, figlio di quello
ch'era secretario della reggenza, quando Milano fu data alli
Austriaci nel 1814.
Il re doveva prendere, poichè doveva consegnare.
Il governo provisorio si era impadronito del paese in quel giorno
medesimo che Radetzki uscì di Milano; e lo tenne fino a che
Radetzki non fu tornato sotto le mura. I suoi fasti cominciarono dai
tentativi d'armistizio, e finirono colla complicità del
tradimento. E codesti uomini hanno la fronte di esibirsi ancora, al
cospetto dell'Europa, rappresentanti e depositarii della nostra
indipendenza!
Il giorno 2 a mezzodì, i soldati che dovevano consegnarci al
nemico, giungevano alle nostre porte; si accampavano in semicerchio
a mezzodì e levante, dal canale di Pavia a quello dell'Adda.
Primo pensiero dei miseri accecati cittadini era stato di rifornire
d'ogni cosa bisognevole l'esercito, di cui si decantava la disperata
penuria. Il dottor Foldi, partendo da Milano alla sera, per
consegnare a Lodi un convoglio di pane ch'erasi già diretto a
quella volta, incontrò a Marignano i commissarii militari,
che gli dissero esservi sovrabondanza di pane, ed esserne anzi in
ritorno coi soldati venti carri (bare). Dimandarono in quella vece
lardo, riso, sale. Foldi, reduce in Milano, prima di mezzanotte
faceva apprestare le 30 mila razioni richieste; e recatosi al
convegno dei deputati della guardia nazionale, si trovava la lettera
del generale Sonnaz, apportata da Beretta membro del governo, nella
quale manifestava piena sodisfazione per la regolarità dei
provedimenti.
E il matino seguente, nel medesimo convegno, parlandosi di difetto
che fosse di vittovaglia al campo, due dei deputati dissero che anzi
i generali ne mandavano indietro, perchè d'impaccio ai
soldati.
Giunte le truppe, il comitato fece confortare con pane bianco, e
doppia razione di carne arrostita e di salato, di formaggio, di
vino, di sigari, e distribuir loro quarantamila camicie nuove
chieste a tal uopo ai cittadini. Questa volta non v'erano mani
infedeli fra le provisioni e i soldati. "Le truppe erano commosse
dalle fratellevoli cure; e quando le guardie nazionali, e molti
cittadini si recarono nelle file dell'esercito a portarvi le parole
della simpatia e del conforto, risposero loro quelle brave truppe di
voler difendere la città, di voler vincere o morire
insieme"(96).
Era la parte più valorosa dei nostri giovani o trattenuta sul
lago di Garda dalle false nuove, o a Brescia con Griffini, o a
Bergamo con Garibaldi, o nel battaglione di guardie mobili in
Venezia, o collocata dalla strategia del re fuori di città e
dove la sua presenza non desse animo al popolo e nervo alla difesa.
Si adoperavano oltreciò i generali a sconfortare i cittadini.
Sobrero, per vuotare le casse, pagava in quei medesimi giorni mezzo
millione di conti arretrati. I figli stessi del re, trattenendosi
familiarmente coi capi delle guardie nazionali, insinuavano
l'opportunità della resa. Olivieri, chiamati quei capi,
lodò il buon animo e l'ardore che mostravano, esortò
alla disciplina, poi partecipò quasi come una calamità
che potrebbero venir chiamati a combattere in campagna aperta.
"Picchiò e ripicchiò sulle parole campagna aperta;
scrive un di loro. E parmi siasi messo di malumore, quando,
anzichè vederci spaventati dall'imminenza d'una battaglia a
sostenerci da noi novelli soldatucci, ci sentì tutti ad una
voce promettere sulla vita nostra che nessuno si sarebbe mai
ritirato dalle file; e che però noi lo pregavamo a lasciarci
entrare nelle file stesse come semplici soldati, sostituendoci nel
comando militari esperti".
Era il nostro popolo per malignità dei governi disusato alla
milizia; ma aveva nelle vene il sangue de' suoi padri, e la
vicinanza del pericolo glielo accendeva. Onde fin dal giorno 3,
voleva rialzare le barricate; e nei quartieri abitati dalla fervida
plebe già vi si poneva mano. Ma il comitato fece bensì
all'uopo qualche ordinamento, convenendo colli ingegneri, fra le
altre cose, dei varchi da lasciare ai carri dei viveri e delle
artiglierie; ma raccomandò ai cittadini d'attendere il
segnale che si darebbe colle campane. Se nonchè, saputosi
ciò dall'Olivieri, se ne dolse aspramente; e protestò
che valendosi de' supremi suoi poteri, richiamerebbe i signori del
comitato ai limiti del loro incarico, parendogli modo inopportuno di
difesa, e impedimento anzichè aiuto a un esercito.
Al matino del 4 udissi tuonare alle porte il cannone. Il popolo
atterrito, "ma fieramente ansioso" dimandava le armi e le barricate,
dimandava la campana a martello. Scrive uno dei comandanti della
guardia nazionale: "Non ripeto qual entusiasmo destò in tutti
il primo colpo di cannone. Io dovetti usare di quell'autorità
che fino a quel punto non avevo mai conosciuto di avere, per
rattener quelli che guidava al Dazio, i quali volevano correre
disordinatamente al luogo ove il cannone li chiamava. In un batter
d'occhio io ebbi al Dazio più di tre quinti del mio
battaglione. Anche quelli della riserva, solo che fossero capaci di
portar armi, corsero a me, pregandomi di non risparmiarli. Per tutta
Milano era un'allegrissima gara d'onore".
Fanti e Restelli, recatisi tosto dall'Olivieri, gli chiesero licenza
di preparare ad ogni evento le barricate, anche per occupare
coll'apparato e coll'opera della difesa l'animo dei cittadini. Il
satellite ricalcitrava; diceva non doversi fomentare vani spaventi;
essere indecoroso l'ingombrare di siffatti inciampi una città
difesa già da 45 mila soldati. Pur tuttavia promise che,
dovendosi trovare quel giorno a mensa col re, gliene avrebbe mosso
parola.
Quale insania era stata mai quella d'un popolo, che per sua
virtù e per bontà di Dio essendo libero, s'era ridotto
a implorare da quelli ignoti, a implorar quasi ginocchione sotto la
loro mensa, la facoltà di difendere dai nemici la sua
città !
Quale slealtà in quelli officiali, che ancora al presente, e
dopo che ogni speranza di far frode al vero dovrebb'essere in loro
svanita, insultano ai vani sforzi che il nostro popolo faceva di
svincolarsi dal regale tradimento ! "Nous nous attendions à
voir arriver tous ces jeunes Milanais, qu'on nous avait
représentés comme résolus à s'ensevelir
sous les ruines de leur ville. Mais je ne puis citer ici, qu'une
vingtaine d'individus vêtus et armés en héros de
mélodrame, qui sortirent de Porte Romaine au pas de charge,
criant à gorge déployée: Morte ai
barbari!"(97). Il frivolo derisore non sa che la guardia nazionale
aveva uniforme militare? anzi uniforme, dal color verde in fuori,
modellato servilmente su quello dell'esercito piemontese? - Questi
non sono modi da soldato.
Intanto che i generali si adoperavano dentro la città a
sconcertare la difesa, si studiavano d'acquistar tempo al di fuori,
non già valendosi di quel terreno intagliato e di quelle
folte piantagioni, per far trinceramenti d'ogni parte; ma lasciando,
sulla diritta via, crudelmente esposti i loro soldati a non so quale
scelerata contrafazione di battaglia. Avendone più di 40 mila
dei loro o dei nostri, e altra gente che accorreva d'ogni parte, non
mandarono aiuto ai pochi combattenti; li lasciarono assalire di
fianco; lasciarono prendere un cannone, o come altri dice, sei
cannoni; soffrirono che qualche pugno di nemici si mostrasse
impunemente fin sotto i bastioni. Pare che volessero aver pretesto
di ritirarsi entro la città ed occuparla.
All'annuncio di quei nuovi disastri, il comitato, senza rincorrere
più oltre il regio commissario, fece battere la generale,
toccare a stormo tutti i campanili dentro e fuori la città, e
distribuire ai cittadini le armi, che il ministro Sobrero teneva
sepolte ancora nei magazzini. Se ne trovò da dare alla plebe
quante ne volle; e rimasero ancora nelle casse tremila fucili che
intatti furono preda al nemico ! Le guardie nazionali si raccolsero;
i vecchi, le donne, i fanciulli accorrevano a far barricate; a
mezzanotte l'ampia città era un labirinto inestricabile. ogni
tristezza era dissipata; quel torpore servile, che dopo la
poltronerìa della fusione s'era messo nelli animi, si
converse in repentina alacrità; riluceva in tutti i volti la
bellicosa letizia dei giorni di marzo.
Riverberavasi intanto entro le più interne vie il fosco
chiarore delli incendi che li officiali del re ordinavano, per
torre, dicon essi, all'artiglieria nemica ogni riparo(98). Ma prima
di arderle, avrebbero dovuto difenderle; e meglio, farle saltare in
aria quando v'entrassero i nemici. E non si vede come l'incendio dei
tetti o delle porte o delle masserizie, potesse impedire al nemico
d'appiattarsi egualmente dietro le rimanenti mura e feritoiarle.
Aveva forse tetto il cimitero di Santa Lucia a Verona? O credevano
che fossero colà i tugurii di paglia o le case di legno della
Russia, che il foco potesse distruggere fino alle fondamenta? - In
fatto, era per funestare la moltitudine, e far paura a chi aveva
roba.
Alcuni edificii erano già in fiamme per comando del re,
quando un aiutante di campo venne a dimandare in suo nome al
comitato di poter incendiare le case prossime alle mura. Il comitato
rispose meravigliandosi che il re dubitasse che i cittadini fossero
volonterosi a qualsiasi sacrificio. Infatti appena seppero che non
era eccesso di nemica barbarie, ma provedimento di disperata difesa,
salutarono con alti evviva all'Italia quelle gloriose fiamme. E si
videro alcuni dar colle mani loro il foco alle proprie case. Si
estima il danno a qualche millione; e quello delle merci e delle
masserizie vi è per più della metà. Il che
prova come non si operasse tanto per togliere precisamente i ripari
al nemico, quanto per disconfortare all'ingrosso i cittadini.
Abitanti delle vicinanze della città dicono, che la vista di
quelli incendii, e il suono delle campane per tutta quella notte
dopo il tristo silenzio del matino, mise un indescrivibile sgomento
in Radetzki e nè suoi generali. Avevano dunque avuto la
fortuna di vincere con sì poco merito la guerra del re, per
venire a far naufragio un'altra volta sotto quelle infauste mura?
Molti credettero in quell'istante che la inesplicabile ritirata a
Cremona e a Lodi, fosse stata un laccio per trarli lungi dalle loro
fortezze, in mezzo a popoli nemicissimi, e a strade sì facili
a disfarsi; e mandarono a esplorare se mai la campana a martello si
udisse anche alle loro spalle. L'arrivo di Garibaldi con Mazzini, da
Bergamo a Monza, quasi alle spalle delli assalitori, con cinquemila
uomini regolarmente armati, e le immense turbe di montanari che li
seguivano con armi e senza, destarono profondo spavento nel nemico.
Anche il contado di Cremona, dopo il passaggio delli Austriaci,
visto che non erano i centomila che i generali dicevano, anzi
nemanco la metà, si sommoveva d'ogni parte. Brescia e
Peschiera e tutta la montagna erano in armi; i volontarii
combattevano a Lonato; Venezia e Bologna erano pronte a profittare
della pochezza dei nemici sul basso Po. Era venuto il momento in cui
si vedesse quanto poteva una nazione.
Ma in quella medesima notte, alla luce di quelle fiamme, sfilavano
tacitamente entro la città le baionette del re, circuivano le
mura, prendevano fatale possesso di tutte le porte. Che più?
il re medesimo apportava la sinistra sua presenza in mezzo ai
cittadini.
Udiamo il suo generale. "Chiamato al palazzo reale, mi vi condussi
subito, passando per mille barricate che li abitanti inalzavano
festevolmente; e a cui stavano lavorando con un ardore che mi
colpiva. Vidi molte persone portar viveri ai nostri soldati, dir
loro parole di consolazione, somministrare aquavite, apprestar fochi
per asciugarli dalla pioggia sofferta.
Quantunque tutti fossero inzuppati dall'acqua, tutti mostravano
d'esser contenti. - Giunto al palazzo del re, intesi come S. M.
avesse ordinato di radunare i suoi generali, per conoscere il loro
avviso su ciò che fosse stato da operare in sì dure
circostanze. Ci si disse che il gran parco d'artiglieria aveva
naturalmente preso la direzione di Piacenza al nostro arrivo
sull'Adda; quindi la nostra mossa verso Milano l'aveva diviso da
noi. Siccome i piccoli parchi avevano proveduto a sostituire le
cartucce adoperate in quello stesso giorno, non poteva quindi farsi
conto che sulle munizioni da guerra in distribuzione presso i
soldati. Era benissimo nella città qualche provisione di
polvere, ma senza proiettili, segnatamente pei cannoni. Quanto ai
viveri, non ne esistevano che per pochi giorni; ed il tesoro non
ascendeva a più di franchi 120 mila. Queste cattive novelle
persuasero a tutti l'impossibilità d'una lunga e onorata
difesa. Tutti i membri del consiglio non esitarono a dichiarare che
una tale condizione di cose rendeva indispensabile l'entrare al
più presto in communicazione col maresciallo Radetzki, onde
proporgli la resa della città. Si spedì quindi subito
un officiale generale, che trovò il maresciallo a Sandonato;
con cui facilmente si mise d'accordo; poichè L'INTERESSE
D'UNA CONVENZIONE SIFFATTA ERA RECIPROCO!"(99).
Surse l'alba del 5; la città era preparata ad ogni assalto;
li uomini in armi; pronto il soccorso ai feriti; fumavano tuttavia
li incendii intorno alle mura. Ma il cannone taceva. E una taciturna
e tetra agitazione pervadeva i battaglioni del re
Verso le nove, furono chiamati in casa Greppi al Giardino i
municipali; poscia, a richiesta loro, il comitato di difesa e i capi
della guardia nazionale. Trovarono entrando il conte Resta, che
colle lacrime alli occhi accennò loro confusamente di gravi
calamità. Ma nell'anticamera, ov'erano Salasco, Pareto, Bava,
Olivieri e altri siffatti, trovarono straordinarie
cordialità, e sorrisi, e strette di mano. Poscia Olivieri si
mise placidamente a dire, come il re, per difetto di denaro e viveri
e munizioni, e per salvare la città, avesse capitolato;
perlochè faceva loro sapere che l'esercito regio si
ritirerebbe al di là del Ticino; e un'ora prima d'uscire di
Milano, metterebbe il nemico in possesso d'una delle porte; si era
già determinato che fosse Porta Romana. Quanto ai cittadini
compromessi, il maresciallo non garantiva nulla, non mescolandosi
egli in cose di polizia; ma per quanto era in lui, li farebbe
trattare con equità; e concedeva anzi licenza che seguissero,
per la via di Magenta, l'esercito del re, fino alle sei di quella
sera.
Mentre tutti stavano immoti fra lo stupore e lo sdegno, il marchese
Pareto soggiunse: "già ben veggono ch'è inutile
combattere colla necessità: anche l'intervento francese non
sarebbe certo; e in ogni modo non potrebbe quell'esercito arrivare,
se non fra una trentina di giorni".
Restelli disse, che per un siffatto tempo vi erano viveri a
sufficienza; e in un Milano non poteva ad ogni caso esistere il
necessario denaro. Ma Pareto l'interruppe dicendo: "e una
città che attende nel suo seno un esercito, deve trovarsi
sprovista di munizioni da guerra?".
Rispose Paolo Bassi: "ora dimanderò io, come mai un esercito
che si chiude in una città per difenderla, arriva senza
munizioni?"
Restelli allora si rivolse al generale Zucchi, ch'erasi fatto in
quei giorni capo delle guardie nazionali, e disse : "veggo
ch'è cosa fatta, e che dal re e da' suoi nulla più
resta a sperare. Ma dacchè Milano diede il primo esempio in
questa guerra, ora dia anche l'ultimo. E le ceneri di questa
città coprano i nostri cadaveri! Zucchi, voi siete nostro
comandante, non ci abbandonate voi?"
Zucchi dimenando freddamente il capo, rispose : "Che pro ne avrete
voi, dopo che nelle ceneri di questa bella città avrete
sepellito i vostri cadaveri?" Olivieri e Pareto approvarono. Pietro
Maestri, Enrico Besana e Paolo Bonetti stettero con Restelli; ma
Paolo Bassi ch'era podestà, disse che quando il re
abbandonava la città, conveniva rassegnarsi e salvarla
all'ira nemica.
Il maggiore Capretti dimandò a che fossero dunque chiamati?
Non a consiglio, poichè era cosa fatta. Forse perchè
non osando il re assumere in suo nome la capitolazione, volesse
farli responsabili in faccia al popolo? E protestò ch'era
dovere del re dichiararsene autore. Al che tutti li altri cittadini
avendo aderito, Pareto disse che andrebbe immantinente a parlarne al
re. Frattanto si dimandò all'Olivieri, come non si fosse
messa una parola per assicurare i nostri soldati e le guardie
nazionali. Olivieri, dopo lungo circuito di parole, conchiuse poter
essi seguire l'esercito come individui. Capretti gli rispose: "Dal
momento che fu accettata la fusione, noi abbiamo il tristo diritto,
che però non credo sarà riclamato da alcuno, che
l'esercito piemontese sia tenuto una cosa sola col nostro e colla
guardia nazionale". Olivieri disse che avrebbe ordinato l'esercito
in tre colonne, e avrebbe accolto nel mezzo le guardie nazionali che
volessero accompagnarlo. Capretti rispose, che se più della
metà del suo battaglione avesse deliberato d'andare in
Piemonte, egli l'avrebbe seguito; ma ciò non essendo, egli
prenderebbe quella via che gli paresse più opportuna alla sua
salvezza e all'interesse della patria. Olivieri si rivolse a' suoi
confratelli, dicendo : "qui è un caso nuovo; il maggiore
ritiene ch'essi possano ritirarsi in quella via che più loro
piace, come sarebbe in Francia. Io credo di no; perchè nella
capitolazione è detto che devono seguire, l'esercito
piemontese, anzi per la strada di Magenta. Che ne dite voi?" E tutti
li altri confratelli risposero, non esservi dubio.
Si dimandò allora se il marchese Pareto non tornasse colla
dichiarazione del re. Uno dei generali crollò il capo dicendo
che il re già partiva. - Tutti allora uscirono precipitosi.
Il funesto annuncio correva già sordamente per la
città. Pure una scellerata dissimulazione continuava la vile
comedia della difesa. A mezza matina, tre officiali del genio con
dieci soldati della medesima milizia, accompagnati dal cittadino che
comandava il posto delle guardie nazionali a Porta Nuova,
riappiccavano il foco alla casa già mezzo consunta di Gaetano
Scotti; e stavano per ardere anche una vicina casuccia ov'era il suo
scrittoio, quando un altro cittadino, che sapeva già per uno
dei municipali la novella della resa, s'interpose dicendo che si
risparmiassero almeno i registri d'un negoziante, massimamente
dacchè il re abbandonava la città. Li officiali si
ritrassero bensì da quella casa; ma si volsero ad ardere
ciò che rimaneva delle scale e dei palchi delle vicine case
Regazzoni, Castiglioni e Bellezza.
Queste smorfie dei militari facevano parer mendace la novella
già per se tanto dura a intendersi dalli ostinati cittadini.
Anzi li infelici che furono primi a proferirla in mezzo alla plebe,
non solo furono gridati traditori e spie dell'Austria, ma trucidati.
Montignani, uno delli amministratori dell'Italia del Popolo,
perchè disse che la resa era ben possibile, fu preso da
alcuni furibondi, e già stavano per fucilarlo; ed egli
dimandava che lo conducessero sul vicino bastione e lo facessero
almeno uccidere dal nemico, quando un capitano di guardie nazionali
lo riconobbe, lo abbracciò fratello republicano, e lo
salvò: il povero popolo guardava attonito, non intendeva
più nulla. Quelli che avevano più ciecamente creduto,
prorompevano in più disperata rabbia; erano essi, che,
bestemmiando al nome del re, facevano furibonda calca intorno al suo
palazzo. Li arringava il dottor Oldini, ch'era albertista e capo
d'una società di costituzionali che si adunavano sopra il
caffè Cova, e avrebbero voluto la fusione, ma solo a guerra
vinta. Le carrozze già preparate alla fuga del re, furono
capovolte per chiudergli il passo; i generali che si affacciarono
alle finestre a dar parole, furono accolti dai loro partigiani a
fucilate. Alcuni pretendono che il re medesimo toccasse al collo la
scalfitura d'una palla. Alcuni soldati, ch’erano sparsi per la
città con loro parenti, e in fratellanza col popolo armato,
non credendo alla resa, colle lagrime alli occhi pregavano i
cittadini a tranquillarsi e intender ragione. Qualche officiale, non
meno leale, ma più esperto delle cose della sua patria, si
strappò dispettosamente li spallini, dicendo di voler morire
col popolo; e il popolo rispondeva: viva il Piemonte e infamia a
Carlo Alberto! Era la voce stessa ch'io aveva fatto udire nella sala
del governo provisorio il 24 di marzo. Allora poteva essere una voce
di salvamento; oramai era vano strido di disperazione. Chi affida ai
nemici nati dalla libertà la cura di salvarla, s'aspetti di
vederla tradita.
Se il re giudicava impossibile la difesa, poteva rifiutare di
parteciparvi; ma non doveva occupare la città, nè mai
consegnarla di sua mano al nemico. Poteva dire onoratamente : "voi
volete tentare un'impresa disperata; la città è
vostra; fate voi. Non potete però costringermi a prendere
sopra di me la sua ruina. Lasciate dunque ch'io vada co' miei
soldati; e fate ciò che Dio v'ispira."
Ma in tal caso, ecco ancora fra la casa d'Austria e la casa di
Savoia un popolo combattente; ecco l'aborrito spettro della
libertà in Italia. Dunque prima d'uscire da una porta, doveva
il re consegnare l'altra porta al nemico.
Senonchè, vedendo indomito ancora il popolo, non ostante
l'assenza di tutta quasi la gioventù, e temendo di rimanere
fra le convulsioni del gigante egli medesimo avvolto e annientato,
ricorse a nuova simulazione. Fece gridare dal general Bava, che,
ammirando l'animo dei cittadini, aveva deliberato di versar loro
seco il suo sangue e quello de' suoi figli. Il popolo parve
calmarsi; ma un cittadino propose che il re con tutti i suoi magnati
fosse custodito, in pegno della veracità della sua parola;
altri propose che la promessa fosse confermata dalla bocca medesima
del re. Usciva allora Carlo Alberto sulla loggia, tra un frastuono
d'applausi e di maledizioni. Gli si gridò che si voleva
vedere il nero sul bianco, che si voleva una promessa stampata.
Obbedì; fece publicare queste parole: "Il modo energico col
quale l'intera popolazione si pronuncia contro qualsiasi idea di
transazione col nemico, mi ha determinato di continuare nella lotta,
per quanto le circostanze sembrino avverse. Io rimango fra di voi
co' miei figli." E nello stesso tempo mandò il general Bava a
cercare una scorta di soldati, che potesse trarlo fuori di
città. Ma il popolo non voleva dar passo a nessuno. L'astuto
generale disse allora, che se lo tenevano prigioniero, era
impossibile che dirigesse le truppe contro il nemico. "Venni
abbracciato, egli scrive, da più di duecento persone,
perchè le mie guide gridavano ch'io andava a far riprendere
le ostilità; altri poi, che nulla sapevano della mia
missione, mi copersero d'ogni sorta di villanie"(100).
La promessa del re fu accolta con tripudio da pochi insanabili; ma
con tetro sospetto dai più. È fatto notevole, che non
si udì fra tanto tumulto un grido solo che fosse di politica
e non di guerra. Li amici della libertà tennero anche in
quell'estremo la data fede; tennero il giuramento di guerra vinta,
benchè perfidamente infranto dai settarii del re. Lo tengono
ancora oggidì, citando il ministerio Gioberti a mandare in
Roma i deputati del popolo a deliberare anzi tutto della guerra, e
non d'altro finchè non sia vinta la guerra.
Frattanto i soldati sfilavano tacitamente lungo i bastioni, traendo
seco anche le munizioni e le artiglierie dei cittadini. Si erano
levati dalla zecca e si accompagnavano a Torino quattro millioni di
metallo, fuso delli ori e argenti dei cittadini.
Il re doveva consegnar Milano, per avere l'impunità, e
prendere a Piacenza un brano di conquista, una foglia del carciofo.
Poteva farlo, perchè aveva i suoi soldati, e teneva dispersi
i nostri; e ad ogni caso aveva anche i soldati del nemico. Da due
giorni non v'era altra legale autorità che quella de' suoi
commissarii. Il governo provisorio, tramutato in consulta con
diritto di partecipare ad ogni trattato, non era quasi considerato
per nulla nella capitolazione; non fu considerato poi
nell'armistizio; avrebbe dovuto protestare contro il tradimento,
dichiarare sciolto il paese da ogni vincolo verso il fedifrago re.
Preferse di tacere, e di conservarsi con turpe silenzio un posto
nella regia anticamera. Il re faceva spargere nello stesso tempo la
falsa novella che l'esercito di Radetzki, per ausiliarii bavaresi e
d'altri confederati, aveva centomila combattenti. I cittadini,
appena riavuti da lungo delirio, sentivano pesarsi sull'animo la
materiale impossibilità di resistere ad ambedue i nemici.
Quelli che avevano venduto la libertà e le più care
opinioni per la speme dell'indipendenza e per l'ombra della forza
militare, erano attoniti e quasi insensati. Dov'era dunque il regno
fortissimo dell'Alta Italia, dell'Italia Boreale, il cui solo nome
scritto sui registri doveva esser pegno di vittoria e di pace
perenne? In quella orribil notte, l'ansietà, la rabbia, la
disperazione, e in molti il pentimento, tolsero di senno un
centinaio di cittadini. Tutti poi, col cader della speranza,
rinasceva la pietà dei figli e delle donne, e il pensiero
della privata salvezza.
Intanto il Bava, giunto fra i soldati, trovò, che, udite le
voci di tradimento e di morte, alcuni volevano che si entrasse di
forza in città per salvare la vita al re. "Quale spettacolo
avremmo noi presentato all'Europa, egli scrive, se in mezzo ad una
pugna fratricida, fosse venuto Radetzki col suo esercito, per
rimetter l'unione in una famiglia composta d'elementi così
contrarii?"(101). Poteva aggiungere che Radetzki certamente si
sarebbe messo col re; poichè il generale ha già
confessato che avevano entrambi "RECIPROCO INTERESSE".
Alcuni generosi intanto volendo, almeno col proprio sangue, onestare
quella indecorosa fine, uscivano a bersagliare una volta ancora il
nemico, che lentamente veniva occupando i luoghi lasciati vacui dai
soldati del re. Ma il Bava, dic'egli, fe' cessare benchè "con
molta fatica, quelle inutili bravate"(102).
Alle dieci della notte, egli mandò un certo Manzoli a
esplorare a che punto fosse il re; poi si recò egli medesimo
furtivamente fino alla piazza Belgioioso; e quando vide rari i
cittadini, e finito il pericolo, andò a prendere soldati a
Porta Orientale; e nel ritorno incontrò "fra le oscure e
silenziose vie, tentone fra mezzo alle barricate" il re, che fuggiva
a piede, seguito da bersaglieri e guardie. Dicesi che fosse uscito
per una casuccia laterale, travestito da gendarme e menando a mano
un cavallo, e raggiungesse in quell'arnese le guardie, che in
agguato lo aspettavano. Camminò più d'un miglio, fino
al collegio Calchi, accosto alla Porta Romana; ove almeno poteva
avere aiuto anche da Radetzki. "Nel tempo convenuto, le truppe si
trovarono in movimento, dice il generale, eccetto il battaglione che
doveva consegnare al nemico la Porta Romana! A due ore, io partii
dal collegio con S. M. a piedi; e c'indirizzammo a Porta Vercellina,
in mezzo a nuove grida forsennate, che chiamavano il popolo alla
porta medesima, per impedirne al re l'uscita. Seguimmo la strada
delli spaldi (sono più di due miglia), fra spessi colpi di
fucile, che si facevano sentire da tutte le parti, e il suono a
stormo di tutte le campane, circondati da fitte tenebre, rotte solo
di quando in quando dalla tetra luce dei molti incendii, che per
spirito di malvagità e di rapina, si erano messi intorno alle
case"; pag. 100. Si dimentica il generale d'aver narrato, poche
pagine inanzi, che quelle fiamme erano preparate per comando suo,
d'aver detto a pag. 91 : "intanto venivan prese, col pieno consenso
del municipio, le occorrenti disposizioni, perchè se il
nemico avesse obligati i nostri ad abbandonar quelle case, fosse il
tutto pronto onde metterle in fiamme." Pare quasi di assistere alle
confessioni d'un malfattore, fra le cui rotte e incoerenti risposte
balza fuori involontaria la verità.
Il brutto spettacolo non finì alle porte; poichè i
contadini nulla sapendo della resa o d'altri siffatti avvolgimenti,
accorrevano pur sempre alla difesa della città. Dice il
generale, e sia questa l'ultima citazione dal suo libro: "i nostri
soldati, incontrando contadini armati, chè lo erano tutti, ed
erano frequenti, non vedevano in essi che sicarii pronti a sgozzare
la vittima designata; e quindi senza far parola, li disarmavano, li
cacciavano a terra, e così li tenevano, finchè fosse
passato oltre il re"(103).
All'alba del giorno 6, prima che i soldati di Carlo Alberto
consegnassero a Radetzki la Porta Romana, più di cento mila
abitanti, ch'erano stati fermi e sereni al tuono del cannone, si
precipitavano fuori delle altre porte. Donne, infermi, bambini,
famiglie povere che non erano state mai lungi dalle mura native, di
trascinavano fra la polve delle strade e fra i campi, senza saper
bene ove andare, o di che sostentarsi. I soldati piemontesi,
raggiunti dalle miserabili turbe, si staccavano dalle bestemmiate
bandiere per assistere i più infelici, portando fra le
braccia li infanti che non potevano più reggersi in piedi. Al
confine piemontese, i generali avevano già dato la parola
d'ordine d'insultare i rifugiati, per salvare sè medesimi
dallo sdegno che la calamitosa istoria avrebbe acceso nei popoli. A
Novara parecchi dei nostri furono vituperati e battuti, come
traditori dell'Italia e del re.
Ci aveva trovati il re vittoriosi, gloriosi, concordi tutti nel
provido patto della guerra vinta; ci aveva sconcertati, istupiditi,
disarmati, consegnati infine al nemico; rimaneva solo di rapirci
quella pietà che poteva consolare l'esilio. Fu la voce del
nostro tradimento e della nostra viltà, ripetutami in Parigi
per ogni parte ove fosse penetrata persona dell'ambasciata del re,
che mi pose in mano la penna. Potevamo rassegnarci a perdere ogni
cosa, non l'onore.
E resta ancora ad attingere un'ultima citazione dal libro del
Ferrero. "Il 7 agosto, verso le cinque, li officiali di guardia al
ponte del Ticino ebbero la visita di otto giovani officiali
austriaci. Li abbiamo invitati a dividere le frugale nostra mensa,
Accettarono con somma gentilezza. In poco d'ora la più
schietta cordialità regnava fra noi. Dopo due ore i nostri
ospiti si levarono; e ci siamo avviati a condurli fino al di la del
ponte - In mezzo al ponte due sentinelle erano in faccia; vedendo il
buon accordo che regnava tra li officiali, quei bravi soldati
avevano pensato a ravvicinarsi. L'Austriaco tendeva al suo
confratello di guardia la metà della sua pagnotta nera; e il
granatiere savoiardo gli porgeva la sua zucca piena di vino. Quella
vista fu il segnale per noi di nuove proteste di stima, e ci
dividemmo vicendevolmente contenti e superbi;"(104). Il povero
officialetto di Sua Maestà, digiuno d'ogni sentimento
nazionale, non si avvede come questo semplice suo racconto trafigga
nelle viscere un popolo oppresso, disperso e martoriato. Quale
stranezza non era mai stata quella di lasciarci toglier quasi di
mano i nostri nemici; e delegare il materiale incarico d'una guerra
morta a uomini che non avevano sofferto ingiuria, e non sentivano
passione alcuna ! Così è; la guerra regia non poteva
esser più che un sanguinoso tornèo.
Intanto rimaneva chiuso in Peschiera il quarto reggimento provisorio
coll'artiglieria d'assedio. E i generali e ministri, sempre
svogliati e traditori in ogni cosa, non avevano, dopo due mesi di
possesso, rifornita la piazza di grani e di foraggi, nemanco di
sale. E il nemico non tardò, come il re, a bombardarla; fece
fare immantinente undici batterie, due delle quali incrociando i
fochi, interdissero ogni accesso al lago, ove stavano ancora i
volontarii. Già, quattro giorni dopo la presa di Milano, era
esplosa la polveriera e distrutta la caserma dell'artiglieria,
quando al 12, arrivò il cavalier Feccia di Cossato, e
consegnò la fortezza al nemico, per ordine del re; e in
quella malnata furia di dare ogni cosa al nemico, lasciò in
sua balia il parco d'assedio, che ora poi vanamente si riclama.
Aveva parimenti promesso il re di consegnare i forti d'Osopo e
d'Anfo; i quali erano acquisto nostro, e non erano mai stati in
potere delle sue truppe. Ma Osopo non badò a quei vili
accordi, e continuò fino a settembre la difesa cominciata in
aprile.
Rocca d'Anfo fu consegnata da un altro Durando, fratello del
salvatore di Vicenza. Fatto comandante generale dei volontarii, egli
lasciò senza contrasto occupare da cinquecento nemici l'alta
valle del Càffaro, ch'è la chiave di tutti quei monti.
I volontarii gridavano al tradimento, e stettero per ammazzarlo; ma
egli non si smarrì d'animo, e con arte e pazienza seppe
trarli fuori dalla Rocca e da tutti i loro nidi, e ne condusse a
Bergamo settemila. Quivi giunti trovarono un presidio nemico di soli
millecinquecento uomini; il quale atterrito presentò loro le
armi; e lasciò che a tamburo battente e tricolore spiegato,
s'impossessassero del monte sul quale è l'alta città e
il castello. Il bellicoso popolo applaudiva, sperando vedere un
combattimento, e avervi la sua parte. Ma il Durando tenne quieta
ogni cosa; e non volle pure che si sottraesse ai Croati un mezzo
millione ch'era nella cassa provinciale, e che avrebbe fornito il
pane a quelli che volevano combattere. Scrittore e guerriero,
compiè quel nuovo Xenofonte la sua ritirata, girando quanto
più lungi poteva dalla frontiera Svizzera e dai monti, d'onde
qualche scintilla avrebbe potuto scendere su quella generosa
gioventù; passò rasente quasi le porte di Milano, col
turpe foglio di via del generale nemico; e consegnò in
Piemonte i volontarii. Molti dei quali, per necessità
d'esilio, ebbero a giurarsi soldati alla persona del re; e non
più alla libertà, e all'Italia. E quivi rimarranno,
finchè il tempo maturi di ricacciarli in Lombardia.
Così fu rimosso il pericolo che la guerra di popolo
riardesse.
I volontarii d'Apice che da quattro mesi difendevano i varchi
alpestri onde scendono l'Adda e l'Adige, ebbero a disperdersi in
breve per manco di vestimenta e di pane. Saverio Griffini, che aveva
avuto la disgrazia d'esser fatto generale dal re, lo obbedì
consegnando al nemico Brescia; e condusse fuori di paese cinquemila
volontarii. Sia per poca cognizione di carte, sia per simulare
intenzione di resistenza, partendo da Brescia prese la via dei
monti; e a stento potè trarsi fuori del passo d'Aprica,
ch'è quasi impraticabile ai cannoni; ricusò di spazzar
via cinquecento nemici che sorprese isolati e spaventati in Val
Tellina; consegnò uomini e armi ai Grigioni.
Garibaldi fu il solo che tentasse servare accesa la sacra fiamma; ma
era troppo tardi. La gran giornata era al tramonto; era mestieri
rassegnarsi, per cominciarne dall'alba un'altra con meno infidi
auspicii. Garibaldi non seguitò il consiglio da noi
mandatogli, d'inoltrarsi subitamente nell'ampio labirinto delle
montagne che ingombrano tre quarti delli stati imperiali d'Italia;
di trarre a sè le migliaia di volontarii, di regolari, di
cittadini erranti; torli di mano a Durando e Griffini; rannodarsi a
Venezia e Bologna che stavano impavide; profittare
dell'immobilità del nemico, confitto ancora in Milano, e non
senza sospetto del ritorno del re, o della venuta di soccorsi
francesi. Ma per fatale attrazione verso il Piemonte, Garibaldi
preferì rimanersi tra il lago Maggiore, la Svizzera e il
nemico, in luoghi ove, non potendo moversi, o doveva tener
piè fermo contro una forza maggiore, o ricadere in breve
sulla frontiera e lasciarsi disarmare. Tuttavia lasciò co'
suoi fatti d'arme una profonda impressione di terrore nel soldato
nemico.
Sulla fine di ottobre, Mazzini fece ritentare da Dolzino, Medici,
Daverio, Apice ed altri, lo stesso cimento nelle medesime anguste
valli, tra il confine elvetico e i laghi; e già vi
rispondevano dai monti di Pontida le bande d'Alborghetti. Ma secreti
contrordini di Torino tennero immoti i Bresciani, anche in questa
prova minori del loro nome, e ottusi al segno di non comprendere
ancora che in Torino è il più duro ostacolo
all'italica nazionalità. Molti capi negarono poi di trarre a
troppo incerta impresa popoli che fidavano generosamente in loro. La
stagione era troppo avversa; i monti già ingombri di neve; il
professor Gavirati e altri giovani perirono di gelo sul monte Jorio.
E il popolo nelle città non si era peranco riavuto dalla
percossa e dallo stupore, ed era snervato dalla tema dei tradimenti.
Una rivoluzione è una febbre, e non viene a tutto un popolo
per comando di chicchessia. È mestieri aspettarla. E
tornerà.
XIII
Corollarii
A quest'ora le corti d'Italia, liete di vedere atterrato il santo
vessillo l'ombra del quale fu sempre loro infesta, ben volentieri e
apertamente, se vergogna non fosse, porgerebbero all'Austria la
mano, per soffocare la libertà e ripristinare l'ordine
antico. Ma ogni ordine che l'Austria può stabilire in Italia,
è anarchia. Dico anarchia il contrasto tra i pensieri d'una
nazione e il fatto delle sue leggi e della sua vita. Pure, solo da
codesta procellosa e sanguinolenta contradizione può
scaturire la libertà; e dietro essa, e per essa, la
nazionalità. Solamente nell'abisso de' suoi mali può
concepire il popolo quella persuasione de' suoi diritti che ancora
non ha, e che li adulteri della religione posero finora in conflitto
colla sua coscienza.
Fra le sue sventure il nostro popolo ha raccolto due tesori: un
tesoro d'odio; e lo deve al nemico stolto e feroce, che non seppe
adoperar la vittoria se non a farsi aborrire: un tesoro di fiducia;
e lo deve a sè medesimo, perchè sa quanto ha potuto e
quanto può.
Milano non sapeva di potersi destare una matina e senz'armi
scacciare ventimila soldati; nè Vicenza d'esser per
virtù de' suoi cittadini una fortezza; nè il Cadore di
poter divenire isola inaccessibile in mezzo a un imperio nemico;
nè Venezia sapeva d'esser sempre signora delle sue lagune, e
d'avere ancora in sè la serena costanza de' suoi tempi
antichi.
E il Piemonte può volgere a salute la sua disfatta.
Perocchè vide qual floscia tela fosse quella della milizia
del re; vide i capitani ignari, improvidi, infidi, tentennatori,
armistizianti, capitolanti, in somma traditori. Vide sparire sul
campo li sparire bellimbusti di corte; vide dalla più fertile
terra d'Europa riedere scarni e famelici i battaglioni; e dopo tanto
nome d'esercito, e tanta minaccia di scrittori, seppe d'avere avuto
soli ottomila esperti soldati, e di aver mancato delle più
necessarie membra della milizia campale. Ma poco sarebbe, se da
questa dolorosa prova solo uscisse il Piemonte con un esercito
meglio raffazzonato e capitanato. La maggior ventura di quel regno
si fu, che a preparativo di guerra e lenocinio di conquista, abbia
il re mandato inanzi la libertà molta o poca della stampa, la
impunità della parola, la ricognizione più o meno
intera del diritto che ha il popolo d'amministrare per mano delli
eletti suoi la cosa sua. E forse la superbia cortigianesca, se
avesse saputo aggiungersi li splendori d'una facile vittoria, non
avrebbe poscia indugiato a ritogliere al popolo quelli involontarii
doni; si sarebbe appellata di nuovo alli imprescrittibili e divini
diritti della corona; avrebbe strappato l'arbore della
libertà, prima che mettesse radice in quella terra sì
nuova.
Ma la sconfitta palesò la pravità delle istituzioni
che tenevano servo un popolo forte. Le tradizioni feudalesche, che
avevano colà per tanti secoli sopravissuto alle rivoluzioni
d'Italia ed anche a quella di Francia, ebbero finalmente un crollo.
Si chiarì quanto importi che i gradi dell'esercito siano dati
al merito, non venduti dalli spioni, nè aggiudicati nelle
anticamere e nelle sacristie. Se il soldato cittadino sarà
d'ora in poi perseguito dai camerieri di corte, potrà farsi
tribuno del popolo; comandare i battaglioni della guardia nazionale.
Egli è tempo d'esigere la suprema di tutte le riforme
militari: cioè, ridutta l'influenza dei patrizii
nell'esercito alla proporzione medesima ch'è il loro numero
nelle popolazioni, dalle quali si traggono i reggimenti.
Perocchè l'esercito altro non debb'essere che la parte
più giovine e più forte delle popolazioni; e deve
pertanto rappresentarle quali sono, e senza preponderanza e
soverchieria d'alcuno dei loro elementi.
E quelle finanze non devono più lasciarsi rodere in mille
modi da poche famiglie, che, sotto l'ammanto di molteplici titoli
signorili, nascondono un'insatollabile identità. Il popolo
paghi; non non solo per pascere l'alterigia de' suoi disprezzatori.
I vasti poderi, sui quali s'impinguano le confraternite nutrici
all'ignoranza, alla superstizione, alla simulazione, alla delazione,
siano sollecitamente consacrati al culto della scienza e della
verità; poichè la scienza e la verità diventano
forza viva sul campo di battaglia; e le guerre si vincono prima dai
generali col pensiero, poscia dai soldati sul sanguinoso terreno.
Per ultimo, questa guerra diede al Piemonte e alla Sardegna il
tricolore italico, ignoto ancora a quelle regioni, com'era ignoto
l'orgoglio dell'italica nazionalità. Il sogno dei cortigiani
e dei sofisti, il sogno dell'Italia Boreale, dell'Alta Italia,
dell'Italia non Italia, è miseramente dileguato. Il Piemonte
non lo deplori; era una grandezza mendace, una contrafazione della
conquista austriaca; era la tunica avvelenata del centauro;
poichè cominciava con una perfidia; e sarebbe giunta in breve
alla soppressione d'ogni libertà; poscia alla guerra civile;
infine a divorzio dei due popoli, odioso, sanguinoso, sempiterno,
Sia specchio la Sicilia.
Ogni stato d'Italia deve rimaner sovrano e libero in sè. Il
doloroso esempio dei popoli della Francia che hanno conquistato tre
volte la libertà, e mai non l'hanno avuta, dimostra vero il
detto del nostro antico savio, non potersi conservare la
libertà se il popolo non vi tien le mani sopra; sì,
ogni popolo in casa sua, sotto la sicurtà e la vigilanza
delli altri tutti. Così ne insegna la sapiente America. Ogni
famiglia politica deve avere il separato suo patrimonio, i suoi
magistrati, le sue armi. Ma deve conferire alle communi
necessità e alle communi grandezze la debita parte; deve
sedere con sovrana e libera rappresentanza nel congresso fraterno di
tutta la nazione; e deliberare in commune le leggi che preparano,
nell'intima coordinazione e uniformità delle parti, la
indistruttibile unità e coesione del tutto. Finchè
l'Italia avrà governi sconnessi, muniti di forze ineguali,
infetti dalla barbarica ambizione d'assoggettarsi i vicini, la parte
debole o corrotta sarà sempre tentata d'invocare contro il
fratello la spada straniera; e si ripeterebbe eternamente la
scelerata istoria della nostra servitù. Non v'è modo a
obliterare le diseguaglianze, e disarmare le ambizioni e le insidie
dei reguli d'Italia e dei municipii, se non la mutua tutela d'un
congresso nazionale; essendochè i deboli vi costituiranno
sempre la maggioranza; e perciò il voto uscirà sempre
propizio all'equità e avverso alla prepotenza. E non vi
è grandezza, nè forza, nè maestà che sia
maggiore di quella dell'universa nazione. Solo l'Italia può
parlare da eguale alla Germania, alla Francia, all'Inghilterra.
L'unità nazionale si manifestò già certa in
quell'istante in cui tutta Italia rispose all'invito che si commise
all'ale dei venti dalla assediata Milano. Chi sperava prima d'allora
nelle armi dei Toscani? Chi li aveva attesi sul campo ove quei
magnanimi giovani si diedero in sacrificio all'Italia? E i Tirolesi
non disdegnarono essi le loro memorie semigermaniche per dirsi figli
primigenii della vetusta Etruria, e patire piuttosto con noi, che
trionfare coi nostri nemici? E i Ticinesi, lembo di popolo rapito
dalla libertà elvetica ai nostri conquistatori, si mostrarono
fratelli, prima colle armi, poi coll'ospitalità, indarno
combattuta e dall'Austria, e dalla Svizzera e dall'artificioso
Piemonte. E in questo pure si vide, che oggidì non v'è
altro possibil vincolo fra i popoli che quello della
nazionalità, ossia della lingua. L'alto consiglio elvetico,
colla poco onorevole accoglienza alli esuli italiani, mostrò
di sentirsi magistrato d'una maggioranza germanica; rinegò la
impassibile neutralità della Svizzera antica; antepose il
nemico austriaco al federato svizzero; dimostrò quanto
più possa il vincolo naturale della lingua che non il
fattizio nodo dei patti. E la Savoia pure sembrò accorgersi,
dopo secoli, d'esser parte del popolo francese. E così tutti
codesti edificii, modellati sul principio cosmopolitico della chiesa
e del sacro romano impero, tendono a rifarsi sul lucido e puro e
perenne principio delle nazionalità.
L'errore più grave, assai vulgare però in Italia, e
generale in Europa, si è che la causa italiana sia questione
principalmente, anzi unicamente, militare. Giova ripetere: l'Italia
non è serva delli stranieri, ma de' suoi. L'Austriaco venne
in Italia e vi può rimanere solamente come mercenario d'una
minoranza retrograda, la quale si conosce impotente a dominare da
sè la nazione. E l'Austriaco si è perduto per
l'arroganza sua di far da padrone, ove i suoi patti erano solo
d'essere il servo armato, e l'aguzzino d'un popolo che monsignori e
ciambellani volevano tenere in catena. Come mai ottantamila
stranieri, che vengono da una regione povera, semibarbara e
discorde, potrebbero opprimere colla nuda forza 25 millioni d'un
popolo, cui la natura privilegiò di sì alto animo e
sì vario intelletto? Come lo potrebbero, se non combattesse
per loro l'ambizione e la perfidia dei prelati e dei cortigiani? E'
fatto che ventimila di codesti guerrieri, con sessanta cannoni,
furono scacciati in cinque giorni dal popolo d'una sola e disarmata
città; - che quattromila, i quali al 18 marzo erano di
presidio in Vicenza, ne uscirono senza contrasto, anzi implorando la
scorta si sessanta cittadini armati, che li proteggessero dalle
popolazioni del contado; - che 18 mila furono, il 20 maggio,
vergognosamente respinti a Vicenza da duemila Romani, cento
Milanesi, e millecinquecento Vicentini; - che altre migliaia in
Brescia e in Bergamo, altre centinaia in Varese, in Como, in
Colorno, in Palma Nova, si capitolarono o si diedero prigioni; - che
settemila in Venezia si lasciarono imbarcare, assai più
agevolmente che non sarebbesi fatto di settemila capi di bestiame; -
che in ottobre ventimila uomini di codesta snervata soldatesca erano
fuori di combattimento, accovacciati nelli ospitali. E ottantamila
di costoro saranno l'insuperabile ostacolo ai destini di venticinque
millioni di popolo italiano? - No, non è questo!
Armasse il Piemonte, non centomila soldati, ma cinquantamila, non
dico meglio ammaestrati e ordinati, ma solo non capitanati dai
camerieri del re.
Nella proporzione medesima, e assai mite, dell'uno per cento incirca
della popolazione, tutta l'Italia darebbe 250 mila soldati, e
potrebbe agevolmente sostenerli. E' già il triplo
dell'esercito nemico; e col favore dei popoli frementi e d'un cielo
che divora li eserciti stranieri, e d'una terra munita di monti, di
lagune, di maremme, di fiumi, di canali, d'isole, d'inespugnabili
città, come potrebbe non vincere? Come potrebbe il nemico
sdraiarsi per le nostre terre a suggerne l'adipe agiatamente? E se
non vivesse a nostre spese, come potrebbe nella nativa sua
povertà, e nello sperpero delle sue finanze, alimentare
lungamente un grosso esercito sulle balze del Tirolo e della
Carintia, o dentro le accerchiate fortezze? Anzi potrebbe una parte
dei nostri combattenti, eguale a quella ch'esso tiene in casa
nostra, varcare le Alpi o l'Adriatico. E sarebbe tempo di fare
com'esso fa, e come facevano i nostri antichi, quando combattevano
Cartagine in Africa, e armavano a suo danno li Africani. Tragittare
in Istria; in Dalmazia; cacciarlo da Pola; gettare tra i Croati la
scintilla sacra; riconciliarli al Magiaro; farli una volta
mercenarii della libertà.
Nè si dica che l'Italia non abbia quel numero di soldati. Il
Piemonte ha il doppio forse della parte sua, che sarebbe incirca 48
mila. Venezia ha certo i suoi 22 mila; i suoi 28 mila la Lombardia,
anche senza noverare quelli che una prima vittoria riscatterebbe
dalle verghe nemiche. Il Trentino ne avrebbe a dare 3 mila; Istria e
Dalmazia 8 mila; 5 mila Modena; 5 mila Parma; 18 mila la Toscana; 29
mila Roma; 64 mila Napoli, che senza dubbio li ha, e 20 mila la
Sicilia. E se ciascuno di queste regioni ne desse solo la
metà, sarebbe ancora un numero assai maggiore di quello dei
nemici.
Se vi sono i soldati, non manca in Italia la gioventù
studiosa, e degna di capitanarli; e l'arte della milizia è
semplice; sopratutto ove si tratti di saperne solamente quanto un
povero Croato. E si vide a Curtatone e Vicenza, quali soldati si
facciano in pochi giorni li scolari e i maestri delle nostre
università.
La popolazione dell'Italia è pari di numero a quella che la
Francia aveva al tempo della irresistibile sua rivoluzione! E oso
dore, e potrei dimostrare, che il nostro popolo, se non in Piemonte,
certamente in Toscana, e nel Lombardo Veneto, e nell'Emilia,
è più culto che non fossero allora, e che
oggidì non siano, in Francia i dipartimenti del ponente
sopratutto, e del centro, e del mezzodì. Nè il volere
finalmente manca ai popoli, purchè solo vi sia chi decreti
l'armamento in loro nome. La questione non è dunque tanto
militare, quanto civile. Ora qual sarà il magistrato che lo
decreti?
Certo, dovrebb'essere il magistrato dittatorio creato dalla
Costituente Italica, per governare la guerra, per attivare le
finanze, e le banche, e le vendite dei beni nazionali, per assegnare
le quote dell'esercito ai singoli Stati, per eleggere i comandanti,
per infliggere l’infamia ai vili, la morte ai traditori.
Ma tra il magistrato nazionale e li eserciti stanno le corti dei
principi. E i soldati obbediranno alle corti, e terranno fisso lo
sguardo nel volto del principe. Abbiamo visto i Napolitani andare al
campo e tornare, al mutabile cenno del re. Abbiamo visto i
Piemontesi consegnar, senza rossore, al nemico le città che
dovevano difendere. Necèssita dunque che i decreti della
costituente trovino eserciti pronti a obbedirla fedelmente; ossia
che trovino in ogni Stato un esercito cittadino e non un satellizio
di corte; al quale torni lo stesso combattere i nemici, o trucidare
i cittadini.
Perchè dunque l'efficacia della Costituente sul campo di
battaglia si faccia sentire, vuolsi che abbiano vigor popolare i
parlamenti d'ogni Stato. La Costituente potrà molto nello
Stato Romano, perch'ella è identica col parlamento e col
ministerio. Sarà già men potente in Toscana,
perchè quel parlamento precede da altro fonte elettorale.
Sarebbe inefficace in Napoli, perchè quivi il parlamento non
ha forza di rimovere dal governo dell'esercito satelliti spergiuri e
sanguinarii. Sarà parimenti inefficace in Piemonte,
perchè quantunque la corte siasi ritratta per ora dalla
primiera via del sangue, e tenga modi coperti e decorosi, è
sempre fieramente avversa all'unità nazionale; anzi teme
nella Costituente un freno alle stupide sue cupidigie di conquista;
e ha radici nell'esercito e nel popolo più ferme che non la
corte napolitana. Sarà per ultimo poco efficace in tutta la
Cisalpina, perchè i brigatori torinesi non lasceranno di
frapporvi l'inciampo della fusione, e i giuramenti da loro imposti a
tutti li esuli che vollero rimanere armati.
La Costituente sarà all'Italia un'insegna gloriosamente e
irrevocabilmente spiegata, una meta finale e infallibile, un faro.
Ma l'efficacia dipende dalla potenza e popolarità dei singoli
parlamenti, dall'uniformità e genialità della loro
origine elettorale, insomma dal progresso effettivo della
libertà nei singoli Stati. Col che vorrei avere adombrato che
siasi per me inteso, quando più volte dissi che non si
perviene all'indipendenza, cioè alla vittoria nazionale, se
non per via della libertà.
Gioberti e li altri piaggiatori della corte gridano al contrario che
la libertà è già soverchia; e che prima vuolsi
pensare alla vittoria. Ed è per questa via servile che ci
condussero alla sconfitta, alla fuga, al tradimento. Il tradimento
cominciò fin da quando nel club Arconati di Brusselle
s'impose a tutti li esuli il sacrificio della libertà per
l'indipendenza, cioè, per la guerra regia: cioè, per
la conquista della Lombardia : cioè, per la ripetizione di
Campoformio: infine, per la consegna di Porta Romana.
Perocchè tutti questi furono anelli d'una catena, che sarebbe
loro proposito percorrere tutta da capo. Vorrebbero che si
smarrisse, una terza volta per noi, l'occasione di vendicarci a
libertà verace e intera. Sotto la loro scorta, l'Italia
vincitrice sarebbe rimasa con tutte le più cancherose sue
piaghe prelatizie, fratesche e cortigianesche. L'Italia vinta non
ritenti l'impresa se non per la via della libertà. Prima di
vincere a Verona, era d'uopo aver vinto in Roma, in Napoli, in
Torino.
E vincendo in Roma abbiamo vinto assai. Roma pensi che il suo Stato,
in numero di popolo, vince d'un terzo la Svizzera, e la vince per
elementi di ricchezza naturale e di civile unità; e si
vergogni d'essere tanto più debole, e di non bastare a farsi
sicura contro qualsiasi nemico. Acquistata la libertà, vale a
dire, vinti i nemici intestini, poco è più a temersi
dallo straniero; la guerra diviene impresa consueta e materiale;
nè i popoli stranieri hanno poi sì grandi guadagni a
fare in quella servitù che li ambiziosi loro oppressori
vorrebbero imporci.
La vittoria di Roma sarà scala, tosto o tardi, alla vittoria
di Napoli, ove li animi sono mobilissimi, e sempre aperti alli
impeti generosi e subitanei. Non così facile è la
vittoria della libertà nei cauti e freddi animi dei
Piemontesi. Quivi una servitù dissimulata dal militare
decoro, tiene fondamenta non ancora tocche dall'ariete del disprezzo
popolare. Quivi le logore opinioni hanno difensori non derisi, anzi
autorevoli e lodati. Quivi i più audaci ragionatori, quelli
che sono creduti e si credono di pensare col secolo, non altro
spargono intorno che la polve e i tarli dei secoli andati. Sono
costoro che vogliono operare l'unione d'Italia, non col rapido e
spontaneo moto dei popoli dietro il lampo dell'idea e per impeto del
sentimento, ma colli artificiosi lacci e le ferree stringhe di Luigi
XI e di Richelieu, come se li Italiani dovessero viver paghi di
seguire, a due o tre secoli di distanza, le altre nazioni. Sono
costoro, che dicono oggidì voler essi, al loro ritorno in
Milano, sopprimere immantinenti ogni respiro di libera stampa;
poichè non li lascierebbe inchiodar saldamente le tavole del
fortissimo regno. Infelici ! si facciano indietro; e lascino operare
il popolo, il quale sa più di loro, e più di loro
intende sè medesimo e il secolo, e il decreto della natura e
di Dio.
Sì, l'ultimo dei Trasteverini mostra oggidì più
sagacia politica, e più intendimento dell'Italia e dei tempi,
che non l'Azelio e il Gioberti e le altre stelle del cielo
subalpino. Molte acerbe parole sono in questo libro scagliate contro
Carlo Alberto; ma non come uomo, bensì come a simbolo e
specchio di tutti i cortigiani suoi. Perocchè tra Carlo
Alberto e i Salasco, i Pinelli, i Sommariva, i Lazari, i Cossato, li
Olivieri, i Monetzemolo, li Allemandi, i Cuggia, i Bava, i Durando e
tutti quanti, non è differenza alcuna. E grande e fatale
è pure la similitudine ch'è tra quei reprobi, artefici
della nostra ruina, e li Azelio, i Balbo, i Gioberti. Sono tutti
impedimenti all'unità d'Italia, impedimenti alla
libertà, impedimenti alla guerra passionata, veemente,
vittoriosa. Insomma, sono tutti appigli e amminicoli alla potenza
straniera. No, all'indipendenza non si perviene, se non per via
della libertà.
Non vedono ancora, nemmeno i migliori, in Piemonte, quanto splendore
e quanta potenza sia nel nome d'Italia e di Roma. Non intendono
quale incanto sia nella speme della libertà, che al pari
d'ogni altra bellezza è ancor più cara, desiderata,
che posseduta. Appetiscono, ancora, e sopratutto, d'essere accettati
servi in corte; d'andare a messa col re; sognano beatamente di
ricevere dalla sua meno un ciondolo, una chiave d'oro, e d'essere
fatti degni di sporgergli la coppa, o il piatto, o peggio. Io so che
i facendieri Giuseppe Durini e Andrea Lissoni, quando, andati a
Torino per compiere il baratto della fusione, videro dappresso la
millenaria monarchia, quando videro le parrucche che con devozione
di vestali vegliano a conservare quel masso di perenne gelo che
divide due grandi e generose nazioni, esclamarono : qual deforme
vecchia abbiamo sposato !
E alle servitoresche ambizioni di corte sono complici molte famiglie
illustri di Genova, di Milano, di Piacenza, di Bologna, e perfino di
Firenze e di Venezia, che ignare o immemori dei loro domestici
fasti, immemori dei padri loro che fecero la lega di Pontida e
affrontarono la lega di Cambrai, non sanno che il loro posto
è avanti ai popoli, non dietro ai re, nè a
chicchessia. Non sanno quanto l'Europa li abbia sprezzati e ancora
li sprezzi; poichè li vide come in letto di rose, sdraiati
sul letamaio della nazionale servitù. Sarebbe tempo che si
rizzassero alla sublime superbia della libertà; nè
soffrissero sopra il capo loro più altro che la Legge e Dio;
e imparassero dall'antico popolo fiorentino, il quale, quando aveva
più scienze e più arti che non tutta la rimanente
Europa, non volle altro re che Gesù Cristo. Il loro officio
oggidì non è di fregiare della servile loro presenza
le anticamere dell'ossequiosa Torino, ma d'assistere al risurgimento
della libera Italia in Roma.
E i Milanesi particolarmente e i Cremonesi e i Bresciani, i quali,
non famelici, nè accalappiati da militare giuramento,
accondiscendano a rimanersi in Piemonte, e pongano anzi mano in
quelle publiche rappresentanze, se ancora non intendono che furono
traditi due volte, e che tosto e sempre lo saranno, sono ebeti al
tutto e orbi dell'intelletto. E se intendendo e credendo,
prostituiscono tuttavia la persona loro nel corteo del traditore,
non mostrano dignità d'uomo; e insultano alle miserie della
patria. Il popolo se ne ricorderà un giorno. E più
facilmente oblierebbe d'averli visti ciambellani dell'Austria:
perocchè traditore è peggio che nemico.
Molti sono in Italia propensi ancora a comperare a prezzo della
libertà e della unità li aiuti dell'esercito regio;
sono uomini lenti alla speranza, pronti al dubio e al timore; non
confidano nella guerra di popolo; bench'egli avesse pur vinto i
vincitori del re! Pensano, ancora oggidì, che il Piemonte
potrebbe fare anche senza l'Italia; ma non l'Italia senza il
Piemonte. Io tengo per fermo che il Piemonte abbia mostrato
abbastanza di voler fare da sè e per sè. Tengo per
fermo che il Piemonte anela omai solo ad aver Piacenza, o anche
Parma, facendo pagare in denaro ai popoli il risarcimento dei
Borboni; insomma, come al suo solito, aspira solo a uscire dal
naufragio d'Italia con una scheggia in mano. Tengo per fermo, che
un'altra volta parimenti, non dichiarerà la guerra se non
alla sesta giornata. Finchè non vinceremo, ci lascerà
un'altra volta pericolare, come nei cinque giorni di Milano; ci
lascerà perire, come in Vicenza, in Chiavenna, in Valle
Intelvi, in Pontida. Ma se vinceremo, manderà tosto
l'esercito, coi regii commissarii, e coi registri della fusione, a
sequestrare la nostra vittoria, a confiscare la nostra
libertà.
Il nostro sincero vessillo è in Venezia; e di là
minaccia a tergo e sulle due rive dell'Adriatico i nostri nemici.
Caduta Venezia la guerra italica sarebbe estinta; e l’unanime nostra
rivoluzione verrebbe a chiamarsi non altro più che una
sedizione repressa. Lasciamo il Piemonte nella rete della sua
politica; volgiamo l'animo a Venezia; non lasciamola languire; quivi
è il palladio dell'indipendenza; in Roma è il
santuario della libertà.
I vanitosi marescialli non seppero valersi della cieca fortuna. A
Porta Romana, non tesero una mano cavalleresca al popolo tradito,
salutando la sua bandiera, e giurandogli pace e libertà;
risposero colle fucilazioni alla generosità dei nostri
giovani verso li officiali prigionieri; strapparono dalla nostra
terra tutte le radici dell'antica autorità imperiale. Sono
essi che insegnano la ferocia a tutte le nazioni dell'imperio; le
quali infine daranno loro una tremenda pariglia. I marescialli
rendono l'Austria impossibile.
Ma pur troppo una guerra appassionata, aspra e diuturna è
necessaria a ritemprare all'antico vigore i popoli e rinovare tutte
le nostre istituzioni. Io non desidero una facile e molle vittoria,
che ci lasci servi ancora delli interni padroni, e servi ben tosto
dei padroni stranieri. E quando penso che le guerre intestine
dell'Austria ci assicurano l'occasione d'una lunga guerra: e che una
lunga guerra rifarà la milizia italiana: e che, SENZA IL
PIEMONTE , L'ITALIA TIENE ANCORA VENTI MILLIONI DI POPOLO: io dico,
lo dico con dolore, ma con ferma fiducia: IL PIEMONTE NON È
NECESSARIO!
Mentre io stava per racconciare in italiano questo libro, alla
caduta di Milano conseguitò quella di Vienna, poi quella di
Buda. È ben certo che risurgeranno; poichè la forza ha
differito le questioni, non le ha sciolte. Ma non credo che la
caduta di quelle città sarebbe stato intimo danno al
principio della libera nazionalità. L'Ungaro voleva esser
libero, ma oppressore dello Slavo e del Valacco. Il Viennese voleva
esser libero, ma opprimere e lo Slavo e il Valacco, e l'Ungaro
stesso e l'Italiano. Solo nell'eguaglianza della sventura e nelle
necessita della guerra, potevano quei vanitosi popoli intendere, che
senza fratellanza non è libertà, e ch'è meglio
avere fratelli liberi che servi iracondi. Ogni popolo deve comperare
la libertà col sacrificio d'una barbara ambizione. Non si
dominano le genti straniere senza mole d'eserciti, nè senza
arroganza di generali, che poi colle braccia dei vinti opprimono i
vincitori.
È superfluo omai toccare dei diritti che alcuno dei
dissertatori di Francoforte o di Cremsiera vollero attribuire alli
imperatori germanici e ai loro eredi sull'Italia. Il sacro romano
imperio non era istituzione germanica, ma pontificia, imposta dalla
spada cristiana alla pagana e divisa Germania; e in esso tutti i
popoli cristiani erano eguali, com'erano eguali nella chiesa, come
poi furono eguali nella fratellanza araldica delle crociate.
L'imperatore era re in Italia, com'era re in Germania. I due
Federici, e li altri che violarono i diritti dei loro popoli
d'Italia, furono puniti sul campo dalle città federate; le
quali, anche nella vittoria, non fransero i vincoli che le
stringevano all'imperio; perocchè questo altro non era che la
chiesa stessa nella sua faccia corporea e mondana; e quei popoli
volevano difendere la libertà e il diritto; non già
uscir della chiesa o dello Stato. Quel diritto universale e cesareo,
subordinato al pontificio, ora è del pari estinto in Italia e
in Germania; ma un diritto proprio del regno di Germania sul regno
d'Italia non fu mai.
Affatto inudite sono poi le velleità di potenza maritima che
vorrebbero alcuni insinuare alla federazione germanica sul porto di
Venezia. Venezia non fu mai nemmeno città dell'imperio
d'occidente; poichè al declino di quello non era peranco
nata; e al suo risurgimento era già libera e forte. Ella
traeva la sua vita dai mari d'Oriente; era come nave ancorata al
lito dell'Adriatico. Il suo popolo conservò sempre le
tradizioni di quella origine che doveva a sè solo; e i suoi
naviganti ne fecero quel glorioso cantico
Venezia la xe nostra
L'avemo fata nu.
Senonchè, la corona imperiale, che doveva congiungere in una
famiglia tutte le genti cristiane, cadde in polve prima di compiere
l'annunciato prodigio. Ed ora le nazioni europee devono congiungersi
con altro nodo; non coll'unità materiale del dominio, ma col
principio morale dell'eguaglianza e della libertà. La
Francia, già da sessanta anni scrisse questa verità
nei Diritti dell'Uomo. E le nazioni ora sono mature perchè la
parola s'incarni nel fatto. Solamente quando la Francia avrà
intorno a sè cento millioni d'uomini liberi, non sarà
più costretta a tenere in armi seicentomila soldati,
nè ad affamare il popolo per disfamare l'esercito, i cui
capitani conculcheranno sempre la sua libertà. Poco importa
che il telegrafo ingiunga ai docili e silenziosi dipartimenti il
comando d'un imperatore o d'un re o d'un presidente; il destino
della moltitudine dei Francesi, fuori della cerchia di Parigi, fu
sempre l'obbedienza; ed è una dura necessità per
conservare a fronte della Europa regia l'unità militare. Ma
in mezzo a un'Europa tutta libera e tutta amica, l'unità
soldatesca potrà far luogo alla popolare libertà; e
nell'edificio costrutto dai re e dalli imperatori potrà
rifarsi sul puro modello americano. Il principio della
nazionalità, provocato e ingigantito dalla stessa oppressione
militare che anela a distruggerlo, dissolverà i fortuiti
imperii dell'Europa orientale; e li tramuterà in federazioni
di popoli liberi.
Avremo pace vera, quando avremo li Stati Uniti d'Europa.
Note
1 In uno scritto dell’amico mio Giuseppe Ferrari, inserto nella
Revue Indépendante del 10 gennaio 1848, fra li altri i
seguenti passi, nei quali s’adombravano molte delle cose che in
fatto di poscia avvennero:
« Il nous serait facile de remanier la carte
géographique de la peninsule et les droits dynastiques, de
manière à aboutir immédiatement à
l'unité italienne; mais cette facilité insidieuse de
l'hypothèse n'aurait d'autre résultat dans l'action
politique que de substituer l'erreur à la
réalité et l'intrigue au droit. L'hypothèse de
l'unité s'attacherait nécessairement à un
prince, à une famille royale. Elle inspirerait à tous
les princes menacés l'aliance de l'Autriche; elle
envelopperait l'oeuvre de l'indépendance dans le
mystère d'une cour; la discorde serait dans le camp avant le
combat. La liberté ne doit se fier qu'aux dictatures
octroyées et surtout aux dictature revolutionnaires (pag. 3).
Au lieu d'organiser la libérté!, on prechera l'union,
la concorde; et l’absolutisme debout, organisé, exploitera le
mouvement. Pour le vaincre, il n'aura qu'à le tourner tout
entier et sur le champ contre l’Autriche, en substituant à la
liberté! le mot sacre d'indipendance. - On accusera les
patriotes de semer la division. Les hommes du parti liberal seront
regardés comme des démolisseurs, des communistes, et
en même temps comme des émissaires de l'Autriche! (pag.
14, 15).
L'organisation matérielle et l'armée du Piémont
trompent les yeux; la liberté peut les rendre toutes
puissantes. L'absolutisme tue l'ambiticn, et rend inutiles les
ressources du Piémont. La liberté, par Robespierre,
par Bonaparte, épuisait tous ses efforts pour donner des
conquêtes au Piémont; l'absolutisme s'obstina à
réduire le royaume à la Sardaigne; la cour de Turin
faisait fusiller les Italiens qui voulaient sa grandeur. Les cours
absolutistes ne pourrent jamais regarder en face les insurrections;
les parlements seuls pourront manoeuvrer au milieu des
éventualités révolutionnaires.
On le conçoit, l'indipendance c’est la conquête de la
Lombardie. Cependant la Lombardie ne sera prise qu’au nom de la
liberté; elle est plus avancée que le Piémont
par les idées; elle n'a pas de culte pour les rois; elle n'a
jamais écouté les rêves de l'ultra-catholicisme
piemontais.
Le Lombard est loyal; il comprend les principes. Sans doute la
Lombardie est faible, conquise, disorganisée, mais elle s'est
organisée tout à coup, comme par enchantement, au nom
de la liberté; elle a combattu vaillamment à
côté de Napoléon; elle est resuscitée
soudainement, tandis que le Piemont disparaissait sans
résistance politique. Le duché de Milan, le centre de
la renaissance italienne, a gardé sa fierté,
même dans les fers; et jamais un roi absolu ne pourra le
contenir (pag. 29).
Impuissante à la cour, l'idée prématurée
de l'indépendance égare les patriotes du
Piémont; attachés à leur roi, ils le
présentent comme le libérateur militaire de l'Italie;
ils veulent conquérir l'indépendance italienne, pour
vider ensuite la question intérieure. comme une querelle
domestique. - IIs ne sont pas les maitres de leur
indépendance personnelle, comment pouvent ils
conquérir l'indépendance d'une nation? Qu’ils
conquièrent donc leur propre liberté. La maison de
Savoie s'est ruinée en combattant la liberté
religieuse de la réformation, la liberté politique de
la révolution; en 1814 elle a été mille fois
pire que l'Autriche; en 1821 elle a trahi; en 1834 elle a
été plus cruelle que l'empereur. La cour de Turin a
toujours flotté entre les jésuites et lei carbonari,
entre la France et l'Autriche, entre l'ambition et la peur. Le
libérateur militaire de l'Italie sera toujours, même
involontairement, l'homme de 1821. Au moment de la guerre, lei
patriotes sans chambres, sana ministres responsables, sans lois
inviolables, douteront des généraux, des officiers, de
la cour. On recevra l’ordre de s’arrêter au moment de
l'attaque, de se retirer au moment de la marce, et la
possibilité d'une volteface pourra provoquer ou produire les
effets de la trahison (pag. 30).
S'obstinetion à chercher une vaine indipendance en ajournant
la liberté? On manquera l'une et l'autre (pag. 30).
Dans ce moment l'Italie adore encore sei idoles; elle est paienne et
matérialiste; elle attend un Messie, des libérateurs;
elle demande la justice à des baionnettes. C'est d'elle que
la révolution pourrait dire comme Samuel: donnons lui un roi
pour la punir (pag. 48)".
2 Per chi volesse saper qualche cosa sul numero e la condizione
dei morti dalla parte del popolo, valga il seguente scritto, che
inserii nell'Italia del Popolo del 3 luglio, sotto il titolo:
Registro mortuario delle barricate in Milano.
Le note mortuarie che sogliono publicarsi dalla municipalità
di Milano, portano pei gloriosi giorni di marzo tutto il pregio d'un
monumento istorico.
I giornali della congrega patrizia arrogarono immodestamente e
ingiustamente poco men che tutto a lei il merito di quella battaglia
di cinque giorni che mandò rotto al Mincio l'esercito
austriaco. - Ebbene qui ci sta innanzi il registro funereo. Udiamo
la testimonianza che sorge dai sepolcri sincera come la morte.
Fino al 31 di marzo si registrarono morti di ferite più di
trecento.
Attribuiti all'ordine dei possidenti ne riscontrammo tre soli, e
tutti popolani; un Ettore Zanaboni di Lodi, giovane d'anni 25; e due
vecchi: Antonio Costa della cura di Sant'Eufemia, e Antonio Grassi
del suburbio di Porta Ticinese. - Qui non v'è orma di
patriziato.
Non vogliamo per ciò dire che nessuno di nobil famiglia
offrisse il capo ai colpi nemici; e ben ci ricorda d'averne ammirato
alcuno sempre fra i primi al pericolo; ma non sono codesti generosi
che negano al popolo il suo diritto. Ed è forza pur dirlo,
erano ben pochi; e se così non fosse stato, i casi della
morte che colpirono li altri, non li avrebbero potuti così
perfettamente risparmiare. Bene in grandissima maggioranza erano i
signori là dove si proponevano frattanto li armistizii colla
casa d'Austria, e poi tosto e nello stesso giorno le dedizioni senza
patti alla casa di Savoia; che per quel prim però non
riescirono.
Ma tornando a rimestare il cumulo dei cadaveri, vi ravvisiamo fra i
più segnalati un Augusto Anfossi già mercatante e
militare in Oriente e audacissimo condottiere alli assalti. Vi
troviamo tre giovani ingegneri, Luigi Stelzi, Carlo Carones e Andrea
Cassanini; l'istitutore Boselli e il prete Marco Lazzarini trucidato
nel presbiterio di San Bartolomeo. Troviamo l'ispettore della strada
ferrata di Monza Gerolamo Borgazzi, venuto con una squadra a
soccorso della città; troviamo il giovine ragioniere Tomaso
Barzanò; tre studenti Perimoli, Chiapponi e Campato; due
impiegati, Giacomo Caccia e Carlo De Ceppi; tre scrivani; il
cavallerizzo Foscati e il suggeritore teatrale Misdari.
Il commercio è rappresentato da due mercanti, due mediatori,
e tre o quattro commessi, fra i quali un Petrolini ticinese.
Fra codesti Ticinesi - che furono anche primi a rompere il confine
per soccorrerci, e senz'altra mente che di soccorrerci, - fu lodato
e compianto in quei giorni l'intrepido feritore Giuseppe Broggi.
Soffersero gran numero di morti i commercianti di cose bisognevoli
alla vita, anco perchè più mescolati nei trivj col
popolo combattente. Contammo non meno di 26 venditori di vino,
d'olio, di latte, di droghe, di salumi; di frutta, di pane.
Ma la maggior turba delli uccisi doveva ben essere fra li operai; le
barricate e li operai vanno insieme oramai come il cavallo e il
cavaliere. Il sacro mestiere delli stampatori ebbe cinque morti, e
troviamo fra i morti anche un legatore. Vi sono tre machinisti, un
incisore, un cesellatore, un orefice. Dei lavoratori di ferro e di
bronzo morirono non meno di quindici; onde pare che questa forte
razza fosse tutta sulle barricate. Ed è pur glorioso all'arte
de' calzolai il numero di tredici uccisi. Dei sarti caddero quattro;
tre cappellai; e venti tra verniciatori, doratori, sellai,
tessitori, filatori, guantai e anche un parucchiere. V'ha una decina
di muratori, scarpellini e d'altre arti edilizie. L'agricultura ebbe
le sue vittime nel fittuario Molteni, in un giardiniere, un ortolano
e sei contadini. Un cadavere diedero le guardie di finanza e due i
valorosi pompieri. Abbiamo infine parecchi facchini e giornalieri, e
altri ignoti di mestiere e di nome: sine nomine vulgus. L'unica
relazione che forse potrebbero avere codesti registri col patriziato
è una lista di circa diciotto tra servitori, cocchieri,
cuochi e portinai, alcuno dei quali sarà forse morto per
procura de' suoi padroni. Gloria e potenza a loro; e requie a lui!
Quei feriti che soggiacquero a morte più lenta, saranno nei
registri d'aprile e maggio, che ancora non avemmo.
Grande più che non si crederebbe è il numero delle
donne uccise; alcune lo saranno state per caso, ma molte per
coraggio e per amore; e alcune per ferocia dei nemici, che non solo
imperversarono nelle parti indifese della città, ma nascosti
sopra le aguglie del Duomo, si piacevano ad avventare insidiosi
colpi ai balconi interni e alle finestre mal chiuse. Vediamo
indicata una levatrice, una ricamatrice, una modista e tra quelle
che si dicono alla rinfusa cucitrici, alcune giovinette. Quante
storie di semplice affetto; e d'inosservato dolore vi stanno
riposte! O poeti, interrogate questi sepolcri, e siate poeti della
vostra gente.
Noi raccogliendo solo il sommario significato di questi aridi ruoli,
ripetiamo che il sangue dei cinque giorni fu veramente versato dal
popolo, e al popolo se ne deve gratitudine e gloria. Fu questa la
prima vittoria dell'Italia contro l'oppressore; e diciamolo pure,
fin qui, è l'unica vittoria vera; li altri sono fatti d'arme,
onorevoli quanto si vuole, ma senza valevole acquisto di terreno;
anzi con perdita dolorosa, assidua, vasta, di provincie e di
città.
Dio la cessi! Dio ne conceda capitani che ci conducano una volta
alle promesse Alpi!
Alle Alpi, alle Alpi chi vuol la pace! I patrizii si rammentino che
le paci di Campoformio non furono altro mai che fugaci e perfide
tregue, e che il tributo dei millioni richiesti dal nemico gli
darebbe solo lena e nervo a fare a buon tempo più tremenda
vendetta.
Il prezzo dalla vittoria fu pagato dai poveri. La vendetta del
nemico cadrebbe sui ricchi!
3 “ Fidando dell'aiuto di quel Dio ch'è visibilmente con
Noi, di quel Dio che ha dato all'Italia Pio IX, di quel Dio che con
sì meravigliosi impulsi pose l'Italia in grado di fare da
sè“. Manifesto del 23 marzo .
4 Vogliamo che le Nostre truppe entrando sul territorio della
Lombardia e della Venezia, portino lo scudo di Savoia sovraposto
alla bandiera italiana". Manifesto del 23 marzo .
5 La veille encore ce prince a protesté de son
amitié pour l'Autriche. Alm. de Gotha.
Deposizione fatta di mano propria dal sig. F. Simonetta di Milano,
presso il Comitato di Guerra. - "Francesco Simonetta, trovandosi
lunedì sul battello a vapore del lago Maggiore con uomini
armati N.° 80 in circa, fece avvertire, per mezzo del conte
Gilberto Borromeo, il vice intendente Sardo d'Arona che intendeva
sbarcarvi, per andare a unirsi coi volontarii; ed anche in ogni caso
colle truppe reali sarde, per recarsi al soccorso di Milano.
Ciò gli venne negato. Onde lasciate a bordo tutte le armi, si
recò tosto a Novara a quel Comitato presieduto dal sig.
Gantieri, per dimandare se vi fossero delle disposizioni; e gli fu
risposto che gli conveniva dirigersi verso Pavia, dove si univano
altri volontarii al confine del Gravellone. Ritornato al battello,
gli venne intimato dal vice-intendente che si doveva evacuare dagli
armati il battello e consegnare le armi, tenendone egli responsale
il conte Gilberto Borromeo".
"Il che visto, il Simonetta virò di bordo e andò a
sbarcare colla sua gente ad Angera ove fu bene accolto".
Il lunedì era il giorno 20, già il terzo del nostro
combattimento!
6 Prima ancora che alcun soldato piemontese toccasse il nostro
confine, erano già in corso premeditati maneggi per
assoggettare al re, non solo Milano, ma lo stato di Parma e le
Legazioni in via di preludio all'acquisto del rimanente. Tutti i
principi d'Italia erano per tal modo inimicati a noi, riconciliati
all'Austria; compromessa la guerra; resa impossibile la lega dei
principi; resa necessaria la unione dei popoli.
Ecco brano di lettera scrittami in tali sensi da Torino, fin dal 24
marzo, e col soprascritto: preme!
« E perciò che vi scrivo. - Potete col vostro voto
influire moltissimo sul pubblico, e segnatamente sulli altri
compatrioti che coadjuvano con voi alla grand'opera. La sicurezza di
tutta la penisola vuole, che l'Italia settentrionale costituisca un
regno di circa 12 millioni di abitanti; il quale colla sua forza
materiale e morale, colle sue ricchezze, colla sua intelligenza, si
ponga alla testa della nazionalità italiana, e sia il custode
della commune indipendenza. La confederazione italiana, composta
allora di pochi stati, sarà più compatta; potrà
adunarsi e intendersi meglio, che non se fosse composta di molti,
essendo vizio delle confederazioni la lentezza e la irresoluzione.
Li ex-ducati di Parma e Modena potranno facilmente far parte del
nuovo regno d'Italia. Col tempo, e senza violenza, vi verranno le
Legazioni. E quando per base del nuovo jus publico italiano si
ponga, che i matrimonii non danno alcun diritto ai principi
forestieri di succedere ai principi italiani di cui la linea
finisce, credo che avremo una sicurezza anco per l'avvenire e con
essa un elemento di unificazione. Ma non tocca a me di dire a
voi.» ecc., ecc.
Siano grazie a Dio, che l’unificazione e la servitù di tutta
l'Italia a' gesuitai torinesi erano differite sin dopo che si
fossero fatti tutti i matrimonii, e fossero finite tutte le linee!
Frattanto l'Italia doveva tacere e dormire per non so quante
generazioni. Nel medesimo giorno 24 marzo, io riceveva da Torino
altra lettera in senso opposto, la quale mi diceva come a Torino si
fosse sparso che i Milanesi viceversa non avessero altra voglia che
di farsi sudditi del re. Questa decrepita politica dei Torinesi ha
due becchi come l'aquila di Vienna.
"Qui da tutti si dice che la Lombardia voglia buttarsi in braccio al
Piemonte. - Per amor di Dio, se siamo ancora in tempo, adoperi tutta
la sua influenza, perchè non si faccia. Ho conosciuto
abbastanza il paese, e so quel che dico. Appena arrivato
volerò da lei, e gliene parlerò a lungo. Ella procuri
intanto, almeno di tirare in lungo, e di far prima molti conti e
chiari. Grazie all'inesplicabile inerzia del governo piemontese,
queste truppe non sono arrivate in tempo di prestare il
benchè menomo aiuto nell'eroica lotta. Dunque si può
avere il diritto e il coraggio di fare gran patti. Per
carità, tenga conto di questa mia preghiera, e mi creda per
la vita. tutto suo» ecc., ecc.
7 Troviamo nel Journal d'un officier del Ferrero, a pag 15, in
data del 5 aprile: «Nous arrivons à Crémone; les
routes aux environs de cette ville étaient coupées par
des fossés et des barricades. Dans l'intérieur on
avait fait quelques préparatifs de défense, afin
d'opposer une vive résistance a l'ennemi, s'il en avait
tenté l'attaque; nous y reçumes le plus gracieux
accueil!» Troviamo a pag. 103, in data del 30 luglio:
«Le calme régnait dans la ville; tout l'appareil
militaire et belliqueux du mois d'avril avait disparu, pour faire
place à la tristesse et à la
résignation!» I padroni erano tornati servi.
8 Il discorso di Gioberti alli Anconetani dev’essere per intero
nel giornale fiorentino La Patria del 20 giugno; ne raccolgo un
brano nell’Italia del Popolo del 1 luglio. Il cortigiano e sofista
non ricordava, o dissimulava, che Vicenza pur troppo aveva
abbandonato Venezia e si era fusa nel regno fortissimo. – “Se
è lecito il conghietturare con riserva li arcani consigli che
reggono li umani eventi, IO MI CONFIDO che il caso di Vicenza SIA
PER RIMETTERE SUL BUON SENTIERO una città nobilissima, ma
SVIATA. Ben intendete, ch’io voglio parlar di VENEZIA, la quale
sedotta dalle antiche glorie della sua repubblica, volle rinovarle
fuori di tempo!”.
9 [Eusebio Bava, Relazione delle operazioni militari dirette dal
generale Bava comandante il primo Corpo d’Armata in Lombardia nel
1848, s. i. l. e d. (ma Torino 1848), pp. 50, 51]
10 Vedi nella Raccolta delli atti del governo provisorio (vol. II.
p. 98), il bollettino che comincia : - “Notizie. - Indipendenza,
libertà, unione coll'Italia, nomi cari, e doni del cielo!
Voi, già da secoli, siete il costante sospiro dei più
nobili cuori e delle più elette intelligenze italiane. Ma per
giungere a voi, l'uomo, figlio del dolore, deve percorrere una via
di dolore! Noi però credevamo, che, espulso lo straniero, il
sole della libertà avesse senza nubi tempestose a risplendere
su questa terra... Ma noi provammo ancora un momento di terribile
dolore, di quel dolore che getta l'abbattimento e la sfiducia nelli
animi. Abbiamo veduto i provati amici della libertà, quelli
che esposero per essa la vita, che patirono più lustri
d'esilio, li orrori della prigionia, li abbiamo veduti sfiduciati,
angosciosi. Vedemmo tremolare sui loro occhi la lagrima del dolore.
E per un momento credemmo che l'anarchia fosse venuta a funestare la
nostra patria; e dietro l'anarchia s'affacciava di già
all'attonita imaginazione il funesto bagliore delle baionette
tedesche ecc. ecc.”
le baionette tedesche tornarono; ma d’un’altra maniera; e Porta
Romana non fu consegnata loro dall’anarchia, ma dalla monarchia.
11 [E. Bava, op. cit., p. 116]
12 [E. Bava, op. cit., p. 50]
13 [E. Bava, op. cit., p. 52]
14 Vedi il suo ragionamento ai soldati, del 26 aprile: "Giovani
Lombardi, che nati sotto il giogo austriaco, avete in un baleno
infrante le vostre catene, siccome il fulmine abbatte un'antica
quercia! Voi che formaste l'ammirazione di tutta Europa, cacciando
coi sassi dalle vostre mura il Goliatte austriaco ecc. ecc."
15 Li articoli che saranno a carico dell'individuo, sono i
seguenti:
1.° Sarrò, pantaloni di tela russa e berretto; in tutto
del costo non maggiore di correnti lire 35.
2.° La biancheria e la prima calzatura, rimanendo in seguito
quest'ultima a carico dell'erario.
3.° Il fucile. Si avverte che all'atto della iscrizione ciascuno
dovrà presentare la propria arma, perchè ne sia
esaminata la qualità, che si vorrebbe possibilmente uniforme
e militare; al che potrà essere proveduto anche con opportuni
scambii, interessando a quest'uopo la gentilezza della guardia
nazionale.
Circolare 6 maggio. Raccolta, Vol. I. 476
16 “Resta allora scoperta la Lombardia, e soggetta alle incursioni
delli Austriaci. E se ci dividiamo in frazioni per proteggerla, ci
facciamo deboli su tutti i punti”. [E. Bava, op. cit., p. 115].
17 E. Bava, op. cit., p. 119.
18 “Misi allora sotto li occhi del re lo stato vero dei nostri
combattenti i quali non oltrepassavano i 45 mila, per avere
l'esercito in quel momento molti feriti ed infermi... Gli feci
notare che una marcia in avanti ... sarebbe stata cosa imprudente
... Più utile partito ... si era l'afforzarsi sulla linea
della Molinella e del Mincio; e attendervi i soccorsi”. [E. Bava,
op. cit., p. 51]
19 [E. Bava, op. cit., p. 28] “Obligava l'esercito a tenersi quasi
inerte una considerevol porzione delle sue truppe a custodia
dell'augusta sua persona; rendeva più esposta l'intendenza
generale che gli veniva dietro e faceva immensamente ingombro il
luogo pei molti carri d'equipaggi; era insomma una vera
inopportunità”. [p. 20]
Feci a tutte le truppe le più vive istanze, perchè
seguitassero la strada, e si mettessero sulle direzioni dal re
ordinate; ma si volle aspettar la venuta del re medesimo, sperando
potere essere passati in revista;... il re giunse verso le ore nove;
e l'inconveniente preveduto non mancò d'accadere;
perchè si dovettero gettare più di quattro ore
nell'uscir fuori di quel luogo con tutte le artiglierìe”. [E.
Bava, op. cit., p. 46].
20 “Questa dimenticanza di principii che fu cagione di tante
disavventure, era cosa da doversi aspettare, dopo tanti anni di
pace, e con un esercito composto di generali e soldati che non
guerreggiarono, ed erano assolutamente nuovi in tutti i rami del
servizio di campagna, non sapendo appostarsi, nè governarsi,
nè difendersi“. [E. Bava, op. cit., p. 26].
21 [E. Bava, op. cit., p. 11]
22 [E. Bava, op. cit., p. 23]
23 [E. Bava, op. cit., p. 88]
24 [E. Bava, op. cit., p. 67]
25 [E. Bava, op. cit., p. 68]
26 [E. Bava, op. cit., p. 70,71]
27 [E. Bava, op. cit., p. 72]
28 « Dépuis trois mois ils n'ont pas
quitté leurs vêtements, et ont toujours dormi sur la
terre, n'ayant puor toit que la voute des cieux... Quelques
personnes tournaient en dérision le délabrement de
notre tenue : che brutti soldati; come son laceri » . (
Ferrero, p. 69, 105).
29 « La route était jonchée des mourants
et des blessés, que l'on transportait sur des chariots, des
caissons d'artillerie et des planches... Nos chirurgiens,
dépourvus d'instruments nécessaires aux amputations,
furent obligés d'avoir récours aux Parmesans... Au
combat de Croce Bianca, j'ai vu un pauvre caporal qui avait le bras
emporté par un boulet; le sang sortait à gros
bouillons de sa blessure, sans qu'aucune personne de l'art fût
là pour lui administrer les soins que réclamait son
état... Plusieurs officiers donnèerent leur mouchoirs
pour en faire des compresses... Des blesseés m'ont dit,
qu'ils avaient cruellement souffert dans les voitures de
l'ambulance; en effet ces véhicules sont suspendus sur de si
mauvais ressort, que les cahotements non seulement sont douloureux,
mais provoquent souvent l'hémorrhagie». (Ferrero, p.
44, 46).
30 [E. Bava, op. cit., p. 49]
31 [E. Bava, op. cit., p. 53]
32 [E. Bava, op. cit., p. 54]
33 [E. Bava, op. cit., p. 78]
34 [E. Bava, op. cit., p. 101]
35 [E. Bava, op. cit., p. 36]
36 " Les Tyroliens visent spécialment sur les officiers;
plusieurs ont quitté leur èpaulette , afin de ne pas
servir de point de mire". ( Ferrero , p. 31).
37 [E. Bava, op. cit., p. 29,30]
38 [E. Bava, op. cit., p. 73]
39 [E. Bava, op. cit., p. 29]
40 [E. Bava, op. cit., p. 13]
41 [E. Bava, op. cit., p. 14]
42 [E. Bava, op. cit., p. 9]
43 [E. Bava, op. cit., p. 10]
44 [E. Bava, op. cit., p. 11]
45 [E. Bava, op. cit., p. 79]
46 [E. Bava, op. cit., p. 78]
47 [E. Bava, op. cit., p. 83]
48 [E. Bava, op. cit., p. 88]
49 “Dietro a concerti, presi a Montechiaro il giorno 6 aprile,
risultava, doversi tutti i corpi di volontarii spingere nel Tirolo.
Ci era data certezza che il generale Allemandi avrebbe in persona
ispezionato la truppa in Salò, che noi saremmo stati provisti
di munizioni, d'abiti, di denaro. Eppure noi dovemmo partire da
Salò, senza che il generale si fosse tampoco mostrato, e
avendo penuria di tutto”. - Relazione non officiale della spedizione
militare in Tirolo. Italia, maggio 1848, p. 4
50 [Relazione non officiale della spedizione militare in Tirolo.
cit., p. 5]
51 [Relazione non officiale della spedizione militare in Tirolo.
cit., p. 17]
52 [Relazione non officiale della spedizione militare in Tirolo.
cit., p. 23]
53 [Relazione non officiale della spedizione militare in Tirolo.
cit., p. 23,25]
54 [Relazione non officiale della spedizione militare in Tirolo.
cit., p. 30,31]
Il generale Allemandi mi scrive la seguente lettera, per emendare
due punti che lo concernevano nel mio opuscolo francese.
Il 1° si è ch'egli non fosse nominato dal re Carlo
Alberto, ma dal governo provisorio. - Noi per le cose dette non
facciamo intrinseco divario tra la diretta nomina del ministerio
piemontese e quella indiretta del governo provisorio: lumen de
lumine.
Il 2° si è che il generale si trovasse co' suoi
volontarii sul campo. - La spedizione stette sul territorio tirolese
12 giorni, dal 10 aprile al 21 inclusivamente. Sarebbe semplice e
chiara giustificazione, se il generale indicasse, giorno per giorno,
il luogo ove egli era, e quello ov'erano i combattenti, e la
rispettiva distanza in ore di viaggio.
Finora è dimostrato che fu sempre sul territorio bresciano, a
Salò, Vestone., Rocca d'Anfo, ecc., ove da settimane non
v’erano nemici! Solo alla sera del 13 toccò il suolo
tirolese, senza oltrepassare Tione; e ripartì alla mattina
seguente, senza nemmeno aver veduto i soldati, i quali frattanto
combattevano alle Sarche.
L'opuscolo publicato nel successivo maggio dai suoi volontarii ha
questa dimanda a pag. 26: «E perchè il generale
Allemandi destinato specialmente a compire l'impresa del Tirolo, NON
SI È MAI MOSTRATO in mezzo alle colonne a tal uopo spedite?
».
Quando si consideri che non v'era altro official generale che
facesse frattanto le sue veci al campo; e che in quel corpo
fortuitamente raccolto, e non collegato da militar disciplina, la
presenza d'un capo era di suprema e continua necessità, tanto
più flagrante appare la colpa del generale, e tanto
più ammirabile il valore dei volontarii.
Se l'autorità militare non fosse stata in mani inette, il
generale disertore avrebbe espiato il suo fallo colla vita.
A siffatti casi proveda per la prossima guerra la Costituente
ltalica.
Ecco la lettera del generale Allemandi:
Turin, 4 Janvier 1848 [ma 1849]
Monsieur Cattaneo!
En parcourant votre livre sur les événemens de Milan,
j'ai trouvé, à la page 89, quelques lignes qui me
concernent et qui sont, en partie, inexactes. Comme j'ai appris
qu'une nouvelle édition en langue italienne se fera de ce
livre, je viens, Monsieur, vous prier de vouloir bien y faire les
rectifications que j'ai l'honneur de vous adresser, et cela dans
l'intérét de la vérité, et pour rendre
justice à un de vos compatriotes, qui saisit cette
circostance pour vous témoigner, Monsieur, ses sentimens
d'estime, de sympathie et de dévouement. Vous dites,
monsieur, à la dite page 89 de votre livre, que:
Monsieur Allemandi, général envoyé par Charles
Albert aux volontaires, et qui n'était pas même avec
eux, leur écrivait de ne rien entreprendre sans le concours
de l'armée piemontaise, et ce concours lui avait
été refusé, etc.
- Il est faux que j'aie été envoyé aux
volontaires par Charles Albert;
-Il est faux que je ne me sois trouvé avec eux;
- Il est vrai que Charles Albert m'a refusé le secours de
quelques bataillons piémontais et de l'artillerie, pour
seconder les opérations militaires de me volontaires.
Voici mes explications:
Au prernier signal de l'indépendance italienne, je quittais
la Suisse et mon grade de colonel fédéral que j'y
occupais, pour accourir à Milan offrir mon bras et mon
épée à la cause de ma patrie.
Le gouvernement provisoire me nomma aussitôt
général dans l'armée de ligne italienne avec
brévet du 30 mars 1848; et par un second brévet de
meme date, me nomma commandant suprême de tous les corps des
volontaires suisses, piémontais, lombards, génois,
etc. etc.
Je partis de Milan muni de pleins pouvoirs de la part du
gouvernement provisoire, qui, à cette époque (30 mars)
avait, il faut du moim le croire si j'en juge d'après mes
instructions, de bonnes intentions pour poursuivre l'ennemi et faire
la guerre d'insurrection, guerre qui était la seule capable
de mous sauver.
C'était donc le gouvernement provisoire et non Charles Albert
qui m'avait donné le commandement en chef des volontaires.
Depuis le moment où j’ai accepté le commandement des
volontaires jusqu'à celui où je l'ai quitté,
c'est à dire, du 30 mars au 30 avril, je n'ai jamais
cessé un seul instant d’être au milieu d’eux, en
partageant leur bonne ou mauvaise fortune et depuis Brescia
jusqu'aux porte de Trento; nous avons partant chassé l’ennemi
(!!!) à Salò, à Vestone, Rocca d’Anfo, Caffaro,
Condino et Tione etc. Mes ordres du jour et mes proclamations
datés de ces differents endroits le prouvent suffisamment.
La ville de Trento était le point le plus important et qui
devait devenir le centre de mes opérations militaires pour
couper la retraite à l'ennemi et l'empècher de
recevoir del renforts, comme il les reçut en effet plus tard
par cette route. Mais pour m'emparer de Trento il me fallait
quelques bataillons de troupes regulières piémontaises
pour appuyer mes volontaires, qui manquaient d'organisation,
d'armes, d'habillement, de munitions et méme de nourriture!
C'est alors que je me transportai au quartier général
de Volta, où était le roi, pour lui demander avec
instance ce secours, lui exposant avec chaleur toute l'importance
qu'aurait pour notre guerre la prise de Trento. Charles Albert, qui
d'abord avait paru être de mon avis, me fìt
répondre quelques instans après par le
général Franzini ministre de la guerre, qu’il ne
pouvait pas m’accorder les 4 pièces d’artillillerie et les 4
bataillons des troupes que j’avait demandées, qu'ils
s'attendait à une grande bataille campale, et que par
conséquent il ne pouvait pas détacher del troupes pour
le Tyrol.
Ne pouvant exécuter mon attaque contre Trento, et
d’après les instructions que m’avait données le
gouvernement provisoire, de ne rien entreprendre sans le concours de
l’armée piémontaise, me voyant ainsi réduit
à l’inaction, abandonné dans les gorges
étroites du Tyrol, avec mes volontaires qui manquaient de
tout le nécessaire pour faire la guerre, leurré,
bercé de promesses de secours de la part du gouvernement
provisoire qui n'arrivaient jamais, je me rendis à Milan,
pour protester avec indignation contre l’abandon dans lequel on
laissait des braves qui mouraient pour la patrie. C'est à
cette époque que j'acquis la certitude de la complète
incapacité de ce gouvernement provisoire pour conduire les
affaires de la guerre, dont il ne s’occupait nullement, son temps
étant absorbé par l’intrigue politique pour la
prochaine fusion des deux Etats.
Ne voulant pas être complice d'un sistème que je
reprouvais, et qui ne pouvait que nous conduire à la ruine de
a patrie, je demandai mes démissions avec instance; et on me
les accorda enfin, tout en m'exprimant les régrets les plus
vifs, si j'en juge par la lettre que le gouvernement
m'écrivit à cette époque.
Voilà, monsieur, l'exacte vérité sur les
affaires qui me concernent. Je défìe que l'on puisse
les controuver en aucuns points, et vous serai très
obligé de vouloir bien en faire mention, s'il est encore
possible, dans l'édition italienne de votre
intéressant livre. Je saisis cette occasion, monsieur, pour
vous faire agréer l'assurance de ma haute
considération, avec laquelle je vous prie de me croire
Votre tout dévoné
Général Allemandi
55 Vedi Raccolta del governo provisorio. I, p. 540.
56 Lo riconobbero anche li officiali piemontesi : "Cette
héroïque défense est jusqu'à
présent le plus beau fait d'armes de l'armée italienne
". ( Ferrero, p. 50).
57 [E. Bava, op. cit., p. 13]
58 «Il parait que Radetzki, en quittant Milan, avait
déjà l'intention de se retrancher sur
l'Adige ». ( Ferrero, p. 17).
59 [E. Bava, op. cit., p. 15]
60 [E. Bava, op. cit., p. 15]
61 [E. Bava, op. cit., p. 19, 21]
62 Si nous avions poursuivi les Autrichiens sur la rive gauche,
notre succès aurait été complet; car ils
étaient si démoralisés, qu'ils n'auraient
opposé qu'une très-faible résistance. Nous
avons passé la nuit sur les hauteurs de Pastrengo; les feux
du bivouae ennemi, situé sur la rive gauche de l'Adige,
étaient fort près de nos avant-postes". (Ferrero, p.
32, 36).
63 [E. Bava, op. cit., p. 22]
64 [E. Bava, op. cit., p. 23, 24]
65 [E. Bava, op. cit., p. 25]
66 Je puis certifier que l'armée a eu dans cette
expédition près de 1000 hommes hors de combat.
L'attaque des avant-postes de Vérone a été une
tentative téméraire et mal dirigée; les
différents corps d'armée ont complétement
manqué d'ensemble; il est évident que l'on n'avait
pris aucunes mesures pour connaitre le terrain sur lequel les
opérations devaient s'exécuter; l'on nous a fait
assaillir des rétranchement munis d'artillerie, tandis que
l'effet de nos batteries était nul, ne pouvant approcher
à cause des difficultés du terrain. Il est
fâcheux qu'au lieu d'effectuer notre retraite comme à
la suite d'une grande manoeuvre, on n'ait pas détruits les
ouvrages de Santa Lucia, dont nos troupes s'étaient
emparées ". (Ferrero, p. 42, e 43).
67 Raccolta, vol. I; p. 482.
68 23 Avril. Ce triste état d'inaction, où l'on
épreuve toutes les privations et les fatigues de la guerre,
sans en avoir les émotions saisissantes ". (Ferrero, p. 27).
69 [Raccolta, cit., II, p. 355]
70 [E. Bava, op. cit., p. 33, 34]
71 [E. Bava, op. cit., p. 40]
72 [E. Bava, op. cit., p. 43]
73 4 Juin. Deux jours de pluie continuelle, mirent obstacle
à la poursuite de l'ennemi; du moins l'on objecta au quartier
général, qu'il était impossible de conduire
l'artillerie à travers des chemins fangeux et des terres
détrempées. Cependant c'est à travers ces
mêmes chemins que l'ennemi vaincu avait sauvé la
sienne. Aussitôt après la bataille on aurait donc pu
couper la retraite aux Autrichiens, et par le moyen
d'émissaires instruire les habitants de Vérone,
où Radetzki n'avait laissé qu'une faible garnison ".
(Ferrero, p. 61).
74 V. la risposta del ministro della guerra Franzini al deputato
Brofferio nella seduta del 4 luglio.
75 In uno scritto di Valentino Pasini, inserto nell’opuscolo: Les
derniers événements de Milan. Paris, Dumanine, 1849,
trovo intorno ai fatti dei volontarii, nel Veneto i seguanti passi,
dei quali non fui intempo a giovarmi nella mia narrazione:
“Pugnarono l’8 e il 9 maggio a Molinette e Cornuda; e benché
fossero per la prima volta al foco, e assaliti da forza maggiore, e
il durando, per ragioni che qui non cerchiamo, non li avesse
soccorsi, e fossere privi d’artiglieria, fecero eroica resistenza.
Ritirati poscia a Treviso, respinsero con quelle guardie nazionali
più assalti. Deluso quivi il nemico, e vedendo abbandonato
dal Durandoil passo della Brenta a Fontanaviva, si mosse con 18600
uomini e 35 cannoni; e giunse, un’ora dopo mezzodì del 20
maggio, a Vicenza; la quale munita solo di barricate, resisté
sette ore. Consta che fu difesa da duemila volontarii romani, colle
guardie nazionali della città e un centinaio di Lombardi; in
tutto da 3000 a 3500 combattenti.
Radetzki, rimproverato acerbamente il generale che si fosse lasciato
respingere da un pugno di volontarii e da una città aperta,
lo rimandò, dandogli artiglieria grossa e tre o quattromila
tirolesi. Così con 20 mila soldati e 42 cannoni, sorprese
Vicenza a mezzantte del 22. I Croati, che conoscevano il luogo,
circuirono non visti la prima barricata; ma non ebbero altro
vantaggio. Si si bombardò terribilmente fino alle nove del
mattino. E’ vero che il Durando era venuto il 21 con 5 mila uomini,
per metà Svizzeri e metà regolari Romani; e che lo
stesso giorno era giunto da Venezia Antonini con cinque o sei
cento uomini, e che li Svizzeri e i carabinieri Romani fecero arditi
assalti di baionetta ai Croati; e l’artiglieria regolare fece il suo
dovere. Ma ciò non toglie che i volontarii abbiano difeso la
città verso Verona colla stessa intrepidezza come tre giorni
prima verso Treviso.
Dopo la battaglia di Goito del 30 maggio, il generalissimo austriaco
passò l’Adige a Legnago con 40 mila uomini, sostò a
Montagnana per accertarsi se l’esercito piemontese fosse ritornato
alle stazioni di Valleggio; poi assalì Vicenza non solo verso
Verona e Treviso ma eziandìo da mezzodì. Aveva
imparato a sue spese, che i volontarii supplivano coll’ardimento al
numero ed all’arte; e divisò esser meglio impadronirsi dei
colli a mezzodì della città; perché poteva
quinci sconquassarla, senza che i fucili dei volontarii potessero
colpire la sua gente colassù. Il Durando poi, anziché
interrompere la strada accessibile all’artiglieria che sale sul
dorso dei colli, fu contento a collocarvi alcuni cannoni e li
Svizzeri; insomma, lasciò che li Austriaci mettessero le
artiglierie al medesimo livello. Non mi fo giudice dei divisamenti
di quel generale; certo è però che i nemmici dovettero
a questa circostanza la vittoria.
Il combattimento s’accese la matina del 10. I volontarii difendevano
tutto il circuito della città; e fecero imperterrita
resistenza dall’alba alle quattro dopo mezzodì. Sui colli li
Svizzeri fecero fronte lodevolmente fino a mezzodì, e vi si
distinse un piccolo corpo di volontarii; ma li Austriaci vi presero
posizione, e ogni resistenza divenne inutile; e quando si furono
ritirati li Svizzeri, si affacciarono le artiglierie nemiche sopra
la città pronte a incendiarla. Durando spiegò bandiera
bianca, persuaso di poter solo con una capitolazione salvare la sua
gente, e togliere la città alli orrori d’una pugna disperata.
Ma i volontarii, fermi ancora in tutte le loro posizioni, non
volevano cedere. Furibondi strapparono dalle barricate le bandiere
bianche, e insieme alle guardie nazionali e a tutto il popolo
tempestarono di palle quella ch’erasi posta sulla torre del palazzo.
Allora si sospesero le trattative, fino a notte. Per distogliere i
volontarii e il popolo dall’opporsi alla capitolazione, fu d’uopo
spiegar loro che il Durando non aveva più munizioni, e che
aveva dichiarato per iscritto ai municipali di riputare impossibile
ogni resistenza.” Pag. 70-73
76“La caduta di Vicenza è una grande sciagura; ma è
sciagura riparabile. L'esercito del re Carlo Alberto tiene ancora le
sue forti posizioni, che non poteva, nè doveva abbandonare. A
Verona, è il nerbo della guerra. Presa Verona, tutte le
città della Venezia sono nostre!" (Bollett. 13 giugno).
77 [E. Bava, op. cit., p. 52]
78 [E. Bava, op. cit., p. 46]
79 [E. Bava, op. cit., p. 47, 48]
80 Vedi l'Alba del 16 dicembre 1848.
81 § 4. La compagnia delli artiglieri sardi potrà
ritornare in suo paese, conservando le armi proprie e li onori
militari.
§ 17. La città conoscendo di aver mancato, e
benchè avente mezzi di difesa e viveri, si sottomette,
cedendo la fortezza all'autorità di S. M. e implora la
clemenza della M. S. onde il debito publico, incontrato durante il
blocco, abbia a essere ripartito in tutta la provincia.
82 [E. Bava, op. cit., p. 64]
83 Le roi, ne nous attendait pas à Goito; il exprima son
étonnement au général De Sonnaz, qui lui
répondit, qu'il avait quitté Volta sur un ordre
écrit au crayon, et signé par le Colonel Cossato de
l'état major. Le roi interpella les généraux
Bava et Salasco, qui nièrent l'autenticité de cet
ordre, ainsi que le colonel Cossato. (Ferrero, par. 193).
84 [E. Bava, op. cit., p. 78]
85 [E. Bava, op. cit., p. 79]
86 Récit authentique etc., par A. Tedesco major etc.
87 " Les grands lacs qui baignent le pied des Alpes, les
rivières qui viennent se jeter dans le Po, forment autant le
lignes militaires. De nombreux canaux, des fossés profonds
bordente toutes les routes, et les champs sont palissadés
d'arbres et de haies. La cavalerie ne peut manoeuvrer sur un pareil
terrain, et l'artillerie trouve des obstacles à chaque pas ".
(Ferrero, p. 16).
88 Vedi i documenti annessi all'opuscolo: Les dernies
événements de Milan. Paris, Dumaine, 1849, p. 40, 59,
60.
89«5 août. La poudrière de la ville vient de
sauter; sans doute nous devons à un traite la perte du peu de
munitions qui s'y trouvaient encore. Du reste la capitulation est
signée.» (Ferrero, p. 111).
90 A tutti è nota la battaglia di Marignano, ove
perirono molte migliaia di svizzeri; ma pochi sanno che il danno
loro fu per divisamento ch’ebbe il famoso guerriero Gian Giacomo
Trivulzio d’inondare intorno le campagne. Nell’Istoria di Milano del
Verri, tom. III, pag. 192 si legge il passo seguente della Cronica
di Marco Burigozzo: «Il signor Giovan Jacopo, come astuto
capitano, venendo li Sviceri in campo su certo prato; et lui li
dette l’aqua; per modo che la fu una grande ruina quelli poveri
Sviceri, tanto che a Milano non se ne vedeva altro se non ammalati,
e homeni maltrattati, tutti pulverulenti dal mezzo in suso, e dal
mezzo in giuso bagnati».
Alla battaglia della Bicocca parimenti il popolo milanese si valse
di certi fossi per avviluppare li Svizzeri e ucciderne tre mila.
91 [E. Bava, op. cit., p. 82, 83]
92 [E. Bava, op. cit., p. 84]
93 [E. Bava, op. cit., p. 85]
94 Sans même essayer de défendre ces positions, il
s'est retiré precipitamment sur Plaisance. Reste à
comprendre comment ce général, ayant sous ses ordres
deux excellentes brigades (Aoste et La Reine) trois batteries
d'artillerie, et quelques escadrons de cavalerie, n'a pas su rester
à son poste". (Ferrero, p 104).
95 [E. Bava, op. cit., p. 86]
96 V. Ultimi tristissimi fatti di Milano, 2.a ediz., p.8.
97 [G. M. Ferrero, op. cit., p. 109]
98 "On nous fit incendier quelques maison où l'on craignait
que les Autrichiens ne s'embusquassent avec de l'artillerie".
(Ferrero, p. 108).
99 [E. Bava, op. cit., p. 91, 92, 93]
100 [E. Bava, op. cit., p. 97]
101 [E. Bava, op. cit., p. 98]
102 [E. Bava, op. cit., p. 99]
103 [E. Bava, op. cit., p. 100]
104 [E. Bava, op. cit., p. 116]