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Giuseppe Mazzini
La Giovine Italia
NUOVA
EDIZIONE
a cura di MARIO
MENGHINI
ROMA
SOCIETÀ
EDITRICE DANTE ALIGHIERI
1902
INDICE.
INDICE DEL I FASCICOLO
Prefazione
Della Giovine Italia
Orazione per Cosimo Damiano Del Fante
Romagna
Un cenno ad onore dell'estinto Pietro Colletta
La Voce della Verità
Società degli Amici del Popolo
Discorso pronunciato da Raspail Presidente degli Amici del Popolo
1831
Rivoluzione di Parigi
Agli Italiani
INTRODUZIONE.
Il giornale La Giovine Italia, indicato nel frontispizio come una
«serie di scritti intorno alla condizione politica, morale e
letteraria della Italia, tendenti alla sua rigenerazione», è un de'
rappresentanti maggiori, se non il migliore, di quella raccolta di
periodici mazziniani, che s'inizia con l'Indicatore Genovese, che si
chiude con la Roma del Popolo, e che aspetta sempre uno studioso di
coscienza, il quale ne indaghi le vicende e ne stabilisca
l'importanza, certamente moltissima, che tiene tra la stampa
periodica italiana negli anni piú splendidi del nostro
Risorgimento(1). Divenuto raro sin da' primi anni della sua
pubblicazione, tanto per le difficoltà che incontrava nel
diffondersi all'interno ed all'estero, quanto per il pericolo che
minacciava tutti coloro che ne possedessero qualche fascicolo,
dacché, una volta scoperti, avrebbero scontato «l'errore con una
vita di dolore(2)», il periodico si sarebbe dovuto ristampare per le
cure stesse del Mazzini, di modo che, ristretto nel materiale,
sfrondato degli articoli di minore importanza, avrebbe potuto ancor
degnamente rappresentare l'eco di nobilissimi propositi, i quali,
anche sette anni dopo, possedevano il pregio dell'attualità: inerte,
torpido, prostrato sotto il vigile occhio dell'Austria e dei governi
d'Italia essendo sempre il paese, che il grande apostolo tentava
ancora una volta di galvanizzare, uscente da quella tremenda
tempesta del dubbio dapprima, e dal doloroso raccoglimento di poi,
in cui rimase per oltre anni, quando una persecuzione senza tregua
lo ebbe obbligato ad abbandonare la Svizzera e avere un piú sicuro
asilo in Inghilterra.
La ristampa doveva compiersi a Parigi, per i tipi della vedova
Lacombe, casa editrice ben nota agli studiosi del nostro
Risorgimento, in quanto ad essa gli esuli italiani di Francia
affidarono gran parte de' loro scritti, perché fossero divulgati per
le stampe. Alla fine di maggio del 1840 uscì infatti il seguente
manifesto che annunciava la nuova edizione del periodico:
«L'edizione della Giovine Italia essendo da piú anni esaurita,
alcuni italiani hanno pensato che una ristampa potrebbe riuscire
giovevole all'educazione della gioventú italiana ed avviamento a
nuovi lavori. Ma tra gli scritti contenuti in quella raccolta, molti
uscirono dettati dall'impulso di circostanze oggi modificate, e non
importa ripubblicarli; altri, dotati di valore storico piú che
teorico, spetterebbero ad una collezione ordinata con intento
diverso da quello degli editori di quest'annunzio. L'intento è
quello di presentare agli Italiani, raccolti in un libro, que'
scritti soli che contengono il programma primo della Giovine Italia,
e insegnano nello spirito dell'associazione il fine da prefiggersi
agli sforzi della nazione, e i mezzi opportuni a raggiungerlo. E
que' scritti spettano presso che tutti a un solo fra i
collaboratori, Giuseppe Mazzini. Gli editori si sono dunque rivolti
a lui richiedendolo d'ordinar quegli articoli, condurre a termine
quei ch'erano rimasti, pe' casi de' tempi, imperfetti, modificare e
aggiungere dov'ei credesse. Risultato di un lavoro siffatto è il
libro che qui si propone alla sottoscrizione, col titolo: La Giovine
Italia, raccolta di scritti pubblicati in diversi tempi da Giuseppe
Mazzini. Oltre un'introduzione e un articolo scritto ora
espressamente dall'autore, ecco i titoli degli argomenti che
entreranno in questa ristampa: La Giovine Italia, programma
politico; D'alcune cause che impedirono finora lo sviluppo della
libertà in Italia; - Dell'Unità Italiana; - Della guerra
d'insurrezione; - Ai preti Italiani; - Ai poeti, pensieri; -
Fratellanza de' popoli; - Cose di Savoia; - Lettera alla Gioventú
Italiana, ecc. ecc. - Due volumi. Prezzo 6 franchi per i
sottoscrittori, 8 per gli altri, ecc. Parigi». Ma il periodico aveva
suscitato troppo fermento in Italia, perché tutti i governi non si
commovessero all'annuncio che ancora una volta si tentasse
diffonderlo nel popolo. Cominciarono quindi i preparativi per
impedirgli l'entrata all'interno, tanto piú che la pubblicazione di
esso segnava il cominciamento d'un nuovo periodo di riscossa, alla
quale il Mazzini s'accingeva con metodi piú pratici, migliori ad
ogni modo di quelli che già gli aveano procurate due amare
delusioni, lanciando quel memorando invito agli Italiani, perché
s'aggregassero alla Giovane Italia e operassero «tutti concordemente
colla massima attività pel conseguimento del divisato intento». Una
circolare a tutti i commissari superiori di polizia nel
Lombardo-Veneto avvertiva il 25 luglio dello stesso anno: «Con
apposito avviso a stampa la tipografia di Madama Lacombe di Parigi
ha pubblicato da poco tempo la comparsa d'una nuova opera divisa in
due volumi in ottavo, ed accordata in via di associazione in Parigi
al prezzo di sei franchi, quale porta per titolo: La Giovine Italia,
raccolta di scritti pubblicati in diversi tempi da Giuseppe Mazzini.
Collo stesso avviso si avverte che l'opera suddetta, compilata
dietro quanto si potea ora esigere dal già seguito mutamento di
tempi e di circostanze, tende specialmente ad istruire la gioventú
nelle massime professate dalle società segrete.
«Rendendone perciò consapevole cotesto..... lo s'invita
simultaneamente a voler attivare le piú energiche ed avvedute misure
di sorveglianza, all'uopo di possibilmente scoprire ed impedire la
clandestina introduzione delle preaccennate diaboliche produzioni,
quali nel caso di scoperta dovrebbero essere tantosto sequestrate e
rimesse a questa Direzione Generale, cui dovrebbero essere scortati
anche quegli individui che mai ne fossero trovati in possesso, onde
procedere in loro confronto, a norma delle superiori istruzioni»(3).
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Tuttavia la ristampa della Giovine Italia, per ragioni che ora ci
sfuggono, non poté effettuarsi, come era sfumato il disegno,
concepito cinque anni prima, di pubblicare il giornale in una
traduzione francese, che avrebbe dovuto compiersi a Losanna(4).
Probabilmente, le persecuzioni de' governi d'Italia, le rimostranze
de' gabinetti esteri a quello di Luigi Filippo, subdolo quanto mai
in quegli atti del suo governo che si riferivano alle mene contro i
rifugiati politici, contribuirono a fare abortire il nobile
proposito, il quale forse non fu aiutato abbastanza da'
sottoscrittori. La Giovine Italia rimase quindi ciò che si dice una
vera rarità bibliografica, sconosciuta ai più, anche a coloro che ne
parlarono di proposito, ma che ne ignorarono gran parte del
contenuto, perché, ad eccezione di quegli scritti, che il Mazzini
inserì nella raccolta delle sue opere, e che poterono quindi
consultarsi con più agio, l'altra parte, certamente meno importante,
ma forse più curiosa e più utile allo studioso, in quanto riflette
le passioni del momento, e abbonda di particolari di grande
interesse per la storia del Risorgimento, seguitò a rimanere
inaccessibile. Onde parve(5) a noi che ripigliando il proposito del
Mazzini, allargandolo in quei concetti che nel 1840 potevano essere
più plausibili, e ristampando integralmente i sei fascicoli della
Giovine Italia, riproducendo esattamente, o almeno fin dove era
possibile, le caratteristiche esterne ed interne del periodico, si
sarebbe reso, come si dice, un utile servigio agli studiosi della
nostra storia nazionale.
Il còmpito al quale ci siamo assunti è stato poi agevolato dal fatto
che una copia completa della Giovine Italia è conservata nel fondo
Risorgimento della Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele di Roma.
La grande cortesia del bibliotecario, conte Domenico Gnoli, ci
permise di trascriverla tutta, dando agio a me e al tipografo di
riprodurre esattamente il frontespizio e tutte quelle particolarità
che possono offrire al possessore di questa ristampa l'illusione di
aver presso di sé l'originale, dal quale ad ogni modo, non
riproducemmo, liberandoci d'una soverchia pedanteria di editore
diplomatico, gli errori di stampa e l'errata-corrige. Diremo di più
che a piede di pagina abbiamo notato le varianti degli scritti
mazziniani risultate dal confronto tra la Giovine Italia e la prima
edizione degli Scritti editi e inediti intrapresa per le cure stesse
dell'autore nel 1861, perché ci parve che il Mazzini, grande
stilista, più di quanto ai più non sembri, abbia sempre prediletto
di tormentare la forma classica del periodo. Abbiamo di più posto
alla fine della pubblicazione un indice analitico, che servirà allo
studioso per orientarsi e indagare per entro il periodico.
Sono abbastanza note, perché le narrò, forse con troppo parsimonia,
lo stesso Mazzini in alcuni di quei preziosi Ricordi autobiografici
sparsi ne' primi volumi dei suoi Scritti editi e inediti, le origini
del periodico. Esso fu ideato, insieme con l'associazione omonima,
nel forte di Savona, dove il Mazzini era stato rinchiuso, dopo che
la delazione di Raimondo Doria aveva rivelate al governo sardo le
deboli fila della Carboneria genovese, alla quale aveva aderito
qualche tempo prima il grande Italiano, allora agli inizii della sua
carriera di cospiratore, «Ideai - dice egli stesso - in quei mesi
d'imprigionamento in Savona, il disegno della Giovine Italia;
meditai i principii sui quali doveva fondarsi l'ordinamento del
partito, e l'intento che dovevamo dichiaratamente prefiggerci:
pensai al modo d'impianto, ai primi ch'io avrei chiamato ad
iniziarlo con me, all'inanellamento possibile del lavoro cogli
elementi rivoluzionari Europei»(6). Liberato dal carcere, a
condizione che scegliesse tra un soggiorno, che non fosse Genova, né
Torino, né un punto qualsiasi delle spiagge liguri, e l'esilio,
preferì quest'ultimo. E nell'esilio, dopo la lettera a Carlo
Alberto, che gli procurò l'ira del governo sardo, dopo tante
delusioni ch'ebbe per l'abortita insurrezione dell'Italia centrale e
per la mancata prima spedizione in Savoia, mise ad effetto il
disegno che avea maturato nel forte di Savona, cioè «la fondazione
della Giovine Italia» a cui provvide quando dalla Corsica ritornò a
Marsiglia, e «fermo nell'idea d'iniziare la doppia missione segreta
e pubblica, insurrezionale e educatrice», s'affrettò a stampare il
manifesto del periodico, che fu divulgato sul finire del 1831, a
poca distanza dalla pubblicazione del primo fascicolo(7).
Ben modesti furono gl'inizi del giornale, perché quasi tutti gli
esuli erano «dissestati in finanza». Tuttavia Giacomo Ciani, un de'
due fratelli che tanto diedero d'opera e di danaro in que' primi
movimenti patriottici, fece «guarentigia per ottomila franchi al
periodico»(8); il Mazzini «andava economizzando quanto più poteva
sul trimestre che gli veniva dalla famiglia»(9); altri aiutarono in
diverse guise, come quel La Cecilia «allora dirittamente buono», che
giunto in Marsiglia dalla Corsica, dove s'era rifugiato dopo
l'infelice tentativo di Lione, si fece compositore di caratteri, e
ad un tempo collaboratore; come Giuseppe Lamberti, l'amico, il
segretario fidato del Mazzini, che assunse la correzione delle
bozze. Insomma fu un affratellamento de' più eroici, accesi tutti
del nobile entusiasmo di divulgare scritti che avrebbero infiammato
i giovani italiani del santo amore della patria. «Vivevamo uguali e
fratelli davvero - assicura il grande cospiratore, - d'un solo
pensiero, d'una sola speranza, d'un solo culto all'ideale
dell'anima; amati, ammirati per tenacità di proposito e facoltà di
lavoro continuo dai repubblicani stranieri; spesso - dacché
spendevamo, per ogni cosa, del nostro, - fra le strette della
miseria, ma giulivi a un modo e sorridenti d'un sorriso di fede
nell'avvenire. Furono, dal 1831 al 1833, due anni di vita giovine,
pura e lietamente devota, com'io la desidero alla generazione che
sorge. Avevamo la guerra accanita abbastanza e pericoli, com'ora
dirò, ma da nemici dai quali l'aspettavamo. La misera tristissima
guerra d'invidie, di ingratitudini, di sospetti, e calunnie da
uomini di patria e spesso di parte nostra, l'abbandono immeritato
d'antichi amici, la diserzione della Bandiera, non per nuovo
convincimento, ma per fiacchezza, vanità offesa e peggio, di quasi
una intera generazione che giurava in quegli anni con noi, non aveva
ancora non dirò sfrondato o disseccato l'anime nostre, amorevoli
oggi e credenti siccome allora, ma insegnato a noi pochi
La vïolenta e disperata pace,
il lavoro senza conforto di speranza individuale, per sola riverenza
al freddo, inesorabile, sacro dovere»(10).
Ma a questi pericoli i quali il Mazzini poteva prevedere, agli
altri, che pur troppo furono un fatto compiuto e si chiusero,
tragicamente, col sangue, altri ancora s'addensavano sui capi di
quei magnanimi, dacché la vigile polizia sarda a Marsiglia ne spiava
attentamente i più riposti propositi, riferendoli al governo
centrale di Torino. Infatti, nel dicembre del '31 il consolato sardo
a Marsiglia era in grado di scrivere al suo governo: «Mi annunziano
che una società di rifugiati italiani, alla testa dei quali si trova
l'avvocato Mazzini, si sta attualmente occupando per trovar mezzo di
pubblicare un giornale sotto il titolo di Giovine Italia, proprio ad
esaltare gli spiriti e indurli alla rivolta, coll'idea poi di
spanderlo a profusione per tutta Italia»(11); il mese dopo, il
Morra, governatore d'una città di frontiera del Piemonte, scriveva
al ministro Tonduti della Scarena: «Coll'ultimo corriere di posta
m'è pervenuto dal solito corrispondente di Marsiglia una nota
contenente in ispecie alcune ben interessanti indicazioni sia
riguardo alla società sotto il titolo di Giovine Italia, quanto
principalmente sui corrispondenti, che li capi di detta Società
trovansi avere tanto in Genova che a Bologna. Il solito
corrispondente, essendo non senza difficoltà pervenuto a procurarsi
il manoscritto del prospetto di quel giornale sotto il nome di
Giovine Italia, che alcuni fuorusciti hanno intenzione di stampare
in Marsiglia, me ne ha coll'ultimo corriere trasmessa copia. Da
quanto egli mi annunzia, il primo numero di quel tal giornale verrà
senza fallo pubblicato il l° del prossimo mese di febbraio, e non
ostante tutte le precauzioni che i redattori prendono, perché non
capiti nelle mani che dei soli loro, mi lusingo nulladimeno di
averne regolarmente un esemplare. Sto altresì occupandomi per
conoscere di quali altri mezzi, oltre li indicati, potranno per
avventura prevalersi li detti redattori dello stesso giornale in
Italia»(12). Prosa, come si vede, sporca e negletta, come l'abito
della spia. La quale, seguendo il suo ufficio con assai diligenza,
scriveva da Marsiglia alla Polizia torinese nel marzo dello stesso
anno: «Enfin l'ouvrage périodique vient de paraître, et il a été
distribué hier matin à tous les abonnés..... Il m'a été assuré par
quelqu'un qui est à même de le savoir que le principal envoie en
Italie aura lieu par le bateau à vapeur le Francesco Primo, commandé
par le capitaine(13) De Martino, qui partira de cette ville le 31 de
ce mois. Le capitain est l'intime ami de Mazzini, et ce qui est
cause qu'on compte plus sur lui qui tout autre. Mais indépendemment
de celà, on se propose de profiter de toutes les occasions
favorables qui peuvent se présenter. Ils ont des abonnés à Gènes, à
Milan, mais sortout dans les quatres légations»(14).
Ma, nonostante le molte persecuzioni che forse si saranno usate per
impedirne la pubblicazione, il 18 marzo del 1832 era pronto, per
essere irraggiato su tutta la penisola, come un astro nuovo, puro,
virgineo, che riscaldava di calore insolito l'intorpidita coscienza
degl'Italiani, il primo fascicolo di quella raccolta periodica di
scritti, i quali, osserva uno storico che fu tra' piú temuti
avversari del Mazzini, e qui intendo accennare a Nicomede Bianchi,
«col battesimo in fronte di Giovine Italia, erano indirizzati dal
Mazzini a preparare una rivoluzione popolare di concorso e di
attuamento; comecché invero essi dettati fossero in una lingua ardua
non solo alle plebi, ma a molti eziandio che non si stimano
plebe»(15). Ma, questa, che nella mente del Bianchi (e non del solo
storico della Diplomazia europea in Italia) potè sembrare un difetto
della Giovine Italia, era invece una delle sue forze. Sino allora,
se ne togli qualche rarissimo opuscolo, ad esempio il tremendo
libello del Panizzi contro il Duca di Modena, la letteratura
patriottica dal 1821 in poi deve considerarsi una specie di
accademia; sembra, infatti, che gli scrittori, piú del contenuto!,
si preoccupino della forma nelle loro argomentazioni; piú della
patria, delle persone; e questo effetto produce la lettura di quella
miriade di libri, di opuscoli, di fogli volanti usciti pro e contro
coloro che avevano partecipato ai moti rivoluzionari del 1831
nell'Italia Centrale. Invece la Giovine Italia, sotto l'impulso del
suo direttore, che volse e diresse le coscienze italiane ad altri
ideali, con la santissima formula che non finí mai di ripetere,
essere la vita una missione, una virtú il sacrifizio, che alla
distanza di settanta anni sono oggi sempre gli stessi, o almeno
dovrebbero esser tali, ebbe un diverso obbiettivo. «A principio -
scrive il Mazzini nel settembre del 1832 a Pietro Giannone, -
volendo pure cacciare innanzi il sistema nostro, ho dovuto esaltare
la gioventú, e ingigantirla a' suoi proprii occhi. Vinto oggi, o
quasi, quel primo tumulto ch'io prevedeva, ch'io suscitai
deliberatamente, perché mi pareva necessaria una separazione fra chi
vuole esser forte, e chi è debole, o peggio, io scemerò gradatamente
le mie lodi a' giovani, serbandole a' fatti». E qui sta tutto il
segreto della potenza di Giuseppe Mazzini; né alcuno meglio di lui,
che aveva la parola dell'ispirato, la purezza di costumi d'un
angelo, la tenacia di proposito d'un uomo veramente superiore, le
predizioni d'un profeta, alcuno meglio di lui, ripetiamo, con buona
pace di Nicomede Bianchi, che destinò molte pagine d'un suo libro
per dimostrare il contrario, poteva degnamente prestarsi al nobile
assunto.
Il primo fascicolo della Giovine Italia uscí, insieme col
secondo(16), il 18 marzo 1832. Tipografo ne era Giulio Barile,
amministratore e gerente Vittorio Vian. Parecchi illustri esuli,
quali Guglielmo Libri, Antonio Benci, Giovanni Berchet, Giuseppe
Pecchio, avevano promesso la loro collaborazione, che poi non
effettuarono mai, onde il Mazzini si lamentava giustamente d'essere
rimasto quasi solo(17). Egli però doveva essere molto contento del
successo ottenuto, poiché nel novembre del 1832 scriveva a Carlo
Didier, l'autore della Rome Souterraine: «Le journal a suscité une
telle clameur, dès sa première apparition qui, inexplicable pour
tout étranger non initié à nos querelles d'organisation politique,
ne l'est pas pour moi. Cette clameur je l'avais prévue et calculée
d'avance. Elle se rattache aux évènements politiques qui ont agité
l'Italie à la surface en 1831. Je dis à la surface, parce que là gît
tout le levain de discorde entre nous et les vieillards; c'est à la
surface qu'ils agitent et agiteront toujours l'Italie, car ils
craignent l'orage, ils ont peur de soulever de tempêtes au milieu
desquelles leurs faibles mains ne puissent pas gouverner; nous nous
voulons remuer cette terre jusqu'aux entrailles; nous voulons
bouleverser cette eau morte, soulever le flot de l'activité
populaire; que si le débordement nous entraînera nous les premiers,
peu importe; nous en sommes à ce point, auquel il faut prononcer le
grand mot, dût-il coûter la vie à celui qui le prononce»(18). Ma
quante fatiche per metterlo insieme e quante astuzie perché potesse
circolare in Italia! «Eravamo, Lamberti, Usiglio, un Lustrini, G. B.
Ruffini ed altri cinque o sei modenesi, quasi tutti soli, senza
ufficio, senza subalterni, immersi l'intero giorno e gran parte
della notte nella bisogna, scrivendo articoli e lettere,
interrogando viaggiatori, affratellando marinai, piegando fogli di
stampa, legando involti, alternando tra occupazioni intellettuali e
funzioni di operai»(19). Tuttavia il lavoro di contrabbando, vitale
per la Giovine Italia, irto di pericoli e di responsabilità per chi
lo compieva e per chi lo commetteva, era mirabile. «Un giovane,
Montanari, - scrive il Mazzini ne' suoi Ricordi autobiografici, -
che viaggiava sui vapori di Napoli rappresentandone la Società, e
morí poi di colèra nel mezzogiorno di Francia, altri, impiegati sui
vapori francesi, ci giovarono moltissimo. E finché l'ira dei governi
non fu convertita in furore, affidavamo ad essi gli involti,
contentandoci di scrivere sull'involto destinato per Genova un
indirizzo di casa commerciale non sospetta in Livorno, su quello che
spettava a Livorno un indirizzo di Civitavecchia e via cosí:
sottratto in questo modo l'involto alla giurisdizione doganale e
poliziesca del primo punto toccato, l'involto serbavasi
dall'affratellato sul battello, finché i nostri, avvertiti, non si
recavano a bordo dove si ripartivano le stampe celandole intorno
alla persona. Ma quando, svegliata l'attenzione, crebbe la vigilanza
e furono assegnate ricompense a chi sequestrasse, e pronunziato
minacce tremende agli introduttori - quando la guerra inferocí per
modo che Carlo Alberto, con editti firmati dai ministri Caccia,
Pansa, Barbaroux, Lascarène, intimò, a chi non denunzierebbe, due
anni di prigione e una ammenda, promettendo al delatore metà della
somma e il segreto - cominciò fra noi e i governucci d'Italia un
duello che ci costava sudori e spese, ma che proseguimmo con buona
ventura. Mandammo i fascicoli dentro barili di pietra pomice, poi
nel centro di botti di pece intorno alle quali lavoravamo, in un
magazzinuccio affittato, la notte: le botti, dieci dodici, si
spedivano numerate per mezzo d'agenti commerciali ignari a
commissionari egualmente ignari ne' luoghi diversi, dove taluno dei
nostri, avvertiti dell'arrivo, si presentava a mercanteggiare la
botte che indicava col numero il contenuto. Cito un solo dei molti
ripieghi che andavamo ideando»(20).
Nonostante, quindi, le immense difficoltà e la vigilanza quasi
febbrile della polizia, la Giovine Italia entrava di soppiatto ne'
luoghi dove poteva maggiormente riscaldare e far palpitare. Da
Marsiglia e da Lugano, co' metodi indicati dal Mazzini e con altri
che usavano i patriotti, facendo a gara d'astuzia con la polizia, il
verbo della nuova associazione si diffondeva per la penisola. «Fra
le risultanze processuali apparve che la filatura di cotone di
Castiglione, presso Lecco, era una fucina contro lo straniero, e che
ivi i fratelli Grassi ricevevano i pacchi della Giovine Italia e del
Tribuno»(21). Da Genova, dove giungevano per la via di Marsiglia, i
fascicoli erano distribuiti ad Alessandria, Casale, Vercelli «per il
tramite Ruffini-Pianavia-Girardenghi-Bossi-Stara»(22); né valse che
una volta, il 4 luglio 1832, la polizia, avutane notizia da qualche
vile delatore, scoprisse a colpo sicuro molte copie del periodico
nel doppio fondo di un barile diretto dal Mazzini alla madre:
perché, se vigili e talvolta bene informate, erano le polizie
italiane, audacissimi si dimostravano gli affigliati della Giovine
Italia.
Ma non erano solo i governi a combattere ad oltranza il periodico,
in quanto i giornali, apparsi nell'Italia centrale subito dopo la
rivoluzione del 1831, quasi a distruggere le idee liberali che si
andavano sempre piú sviluppando, si fecero paladini e corifei de'
governi reazionari, comprendendo subito che il nemico col quale
doveano cimentarsi era veramente terribile. «Che cosa è la Giovine
Italia?» si domandava un di questi giornali(23), il piú feroce di
tutti, la Voce della Verità di Modena, diretto apparentemente
da Cesare Galvani, dacché gl'ispiratori erano il Canosa e il balí
Sanminiatelli, i due piú ascoltati consiglieri del Duca di Modena. E
rispondeva: «La Giovine Italia è un magazzino di sferravecche del
filosofismo del secolo passato, è una compilazione alla vecchia moda
rivoluzionaria di Francia scritta nel vecchio gergo del 1793.
«La Giovine Italia ha per iscopo di ricondurre fra noi l'anarchia,
gettando in mezzo al popolo il vecchio balocco dell'indipendenza e
dell'eguaglianza, sotto il patronato dei vecchi nostri Bassà a tre
colori, e dei nostri vecchi espilatori.
«La Giovine Italia ha per sistema la vecchia tattica dei sofisti
oltremontani, di mettere a traffico la credulità dei gonzi,
obbligandoli a giurare in verba magistri sopra una quantità di cose
incredibili, l'inesperienza dei giovani, allontanandoli
dall'investigazione delle cose passate, e l'accidia degli adulti,
dispensandoli dal peso incomodo dei doveri per trattenerli continuo
di una quantità di diritti fabbricati nella vecchia fucina del 1789.
«La Giovine Italia infine ha per ausiliarî tutti i vecchi
miscredenti, i vecchi giacobini, i vecchi bonapartisti, i vecchi
mercanti di rivoluzioni, e tutte le vecchie arpie della tirannide
forestiera, che aspirano a gettarsi di bel nuovo sulla nostra
penisola e ad ingrassare, giusta la vecchia usanza, colle rapine
pubbliche e private»(24).
Ma ben piú villane, piú gesuiticamente esposte, erano le ingiurie
della Voce della Verità, prima e dopo che i fascicoli uscissero alla
luce. Avuta infatti notizia, dalle spie assoldate a proprie spese, o
pure da comunicazioni del governo sardo, il quale, come vedemmo,
poteva averle piú direttamente, che il periodico si stava
preparando, pubblicava nel num. 70 del 17 gennaio 1832 una
dichiarazione che vale la pena di riportare qui: «Un'empia
associazione si è formata in Marsiglia dal rifiuto e dalla feccia
degli emigrati italiani, e la quale impudentemente si dà il titolo
di Giovine Italia. Essa non accetta nel suo novero che quelli i
quali sono nati entro il secolo corrente, o quelli al piú che non
oltrepassano i 40 anni, onde esser certa che il foco della gioventú
spinta alle colpe dall'esempio e dai dommi di una età corrotta e
corrompitrice, non sia frenato da una esperienza di disinganno. Essa
ha per primo scopo quello di non risparmiare spesa alcuna e pericolo
personale per portare di nuovo in Italia il fuoco della discordia e
della rivoluzione: essa ha per secondo quello di pubblicare un
giornale, e diffonderlo nella nostra bella Penisola, il quale serva
alla Propaganda Infernale , e susciti di nuovo alla rivolta ed al
sangue. Essa spera di restare occulta fra noi, e di operare in
segreto: ma noi sappiamo che sono alla sua testa Mazzini di Genova,
Santi di Rimini e il Piemontese conte Bianco: noi conosciamo i nomi
de' suoi corrispondenti in Ginevra, in Genova ed in Bologna: noi
compiangiamo la rovina che essi vogliono trarre sul loro capo e
sull'altrui. Intanto rendiamo pubblica questa infame intrapresa,
perché si sappia che la Voce della Verità raccoglie il guanto che
costoro gettano all'Italia, e che combatterà le inique loro
dottrine. Entrino essi nel campo: noi stiamo Mantenitori della
lizza. Operino essi in segreto: noi in pieno sole, e con alzata
visiera».
È noto che il Mazzini, nel primo fascicolo della Giovine Italia,
ribatté con la sua prosa alta e vibrata quella degli uomini del
Canosa e del Duca, rimproverandoli alla sua volta di ravvolgersi nel
velo dell'anonimo nell'atto di lanciar contumelie; onde parve al
Galvani un atto di grande coraggio sottoscrivere il seguente
articolo, che il Mazzini sdegnò di ribattere.
«Ai Redattori della Giovine Italia, i Redattori della Voce della
Verità».
«Noi scrivevamo nel nostro num. 70...(25).
«Il giornale è uscito alla luce col 1 marzo; noi ce ne siamo
procacciato un esemplare, ed abbiamo scorti che non ci eravamo
ingannati nel nostro giudizio; essi hanno tenuta la loro promessa, e
noi terremo la nostra.
«Ma vi è di piú. A pagina 91 del primo fascicolo è uno scritto del
Mazzini in risposta alla nostra disfida. Che in esso egli accumuli
il veleno e la rabbia bene gli sta: noi non compreremo né
aspetteremo giammai le carezze dell'inimico. Ch'egli ci
maledica(26), gliel perdoniamo agevolmente; perché la parola
maledizione è la chiusa consueta d'ogni periodo dei liberali, e
perché ci tornano in gioia i loro anatemi. Soltanto, come egli
ignora o finge di ignorare quali noi siamo veramente, cosí noi
vorremo svelargli il piú intimo del nostro cuore.
«Sí, noi professiamo odio per le opinioni che sovvertono il mondo.
Le combattiamo, le combatteremo; e consacrammo a sí nobile fine
quelle forze, che, qualunque esse siano, ci furono largite da Dio.
Sí, noi dunque professiamo di odiare e di combattere le opinioni
della Giovine Italia, né cesseremo finché si possa di sclamare e di
ragionare contro di esse. Questo è l'odio che abbiamo nell'anima,
questa è la vendetta che ci lusinga. Odio agli errori, vendetta
della verità sull'errore... Ma in queste anime nostre che temono
Iddio, che a lui si volgono, e che ardentemente desiderano amarlo e
servirlo; in queste anime nostre l'odio e la vendetta non passa
oltre le dottrine e i delitti. Gl'incorreggibili autori del
disordine si compiangono, si lasciano all'arbitrio della giustizia,
e si bramerebbe il ravvedimento degli sciagurati, anziché il
necessario castigo.
«Voi che in queste pagine stesse della Giovine Italia santificate
l'assassinio e il veleno, potete voi dirci altrettanto a fronte
sicura?
«Voi sfrontatamente accumulando, come piú vi giova, parole di lode o
di disprezzo, di apoteosi o di vitupero, lusingando le passioni,
liberando da ogni freno gli affetti, spargendo il dubbio e
l'incertezza sovra ogni principio piú santo, ponendo in campo una
nuova filosofia di disperazione che porta il vuoto del sepolcro
sull'aurora della vita, togliendo di mezzo ogni idea di placida
virtú, di vergine innocenza, di gratitudine, di pure dolcezze, per
sostituirvi immagini di sangue e deliri di un fanatismo fatale; voi
rivestendo questi fantasmi con ampollosità di suoni, con ebbrezza di
vaticini, con terrizioni di minacce e di bestemmie; voi travolgete
le incaute fantasie de' giovani, e dalla vita reale le trasportate
ai sogni affannosi di un tumulto di vicende decretato da destino
inesorabile, a un'ansia di perigli e di licenza, a un desiderio di
vendetta, a un'impazienza d'indugi, di ostacoli, di leardi e di
doveri. Miserabili! E se voi rinunziaste alle speranze di un beato
eterno avvenire, perché trascinare nel vostro abisso tanti infelici?
Se voi contristaste le canizie de' vostri genitori, se portaste lo
sconvolgimento fra le mura della patria, per quale infernal gioia
volete che questi peccati si moltiplichino, e si perpetuino?
«Se invece (e noi pure siam giovani, e la Voce della Verità è stesa
per la piú parte da scrittori non anco maturi), noi invece chiamiamo
i nostri fratelli di studi e di età a quei principî di vero
immutabile, di ordine eterno, di provata rettitudine, di consolata
coscienza, coi quali solo l'uomo vive tranquillo in sé, utile ai
simili suoi. Né sia chi ci accusi di voler raffreddare qualsiasi
affetto forte e generoso, ché a noi Dio concesse cuori che sentono
quant'altri mai, che rispondono ad ogni energico eccitamento, che
vorrebbero tutta la gioventú italiana gagliarda e magnanima, ma
gagliarda e magnanima quale conviensi al cristiano e al soldato
d'onore; non feroce e arrabbiata quale è l'assassino e il settario.
Noi amiamo la patria nostra, e perché l'amiamo, la vorremmo grande,
bella, felice; e tale sarà sempre all'ombra dei legittimi troni. E
voi, miserabili, voi che profanate ad ogni istante il suo nome, voi
la vorreste veder di nuovo dibattersi prima fra le convulsioni
intestine e le stragi cittadinesche, poi doversi necessariamente
incurvare di nuovo alle falangi straniere. Voi, voi siete i veri
nemici, i veri sicari della Patria.
«Qui potremmo por fine alle nostre parole, e lasciare il giudizio a
chiunque conosca e le reciproche dottrine, e le scambievoli azioni.
Ma voi ci avete dati dei consigli, e noi vogliamo rispondervi.
«Voi volete atterrirci gridando che già il decreto della nostra
rovina è segnato dal secolo, dallo sviluppo degli intelletti,
dall'odio alla tirannide, dai volti che impallidendo al vederci ci
rivelano un nemico, dalle tante famiglie che sono un centro di
congiura contro di noi. Voi volete atterrirci? Disingannatevi! Il
terrore nasce dal rimorso o dalla vigliaccheria, e il Cielo ci ha
scampati finora dall'uno e dall'altra. Cosí ne fossero immuni i
nostri nemici!
«Voi ci chiamate al Tribunale di Dio? Oh, non provocate questo
giudizio! Noi crediamo in questo Scrutatore cui nulla è occulto, e
appunto il timore di lui ci fa difendere la causa sua contro la
rabbiosa vostra guerra. Cosí ci donasse Egli coscienza in tutto,
come in ciò, tranquilla: cosí ci doni di non invanire perché noi
deboli ha scelti a strumenti della sua pugna. Ma voi... Deh possano
gli anni ed i casi mutarvi innanzi quell'ora tremenda!
«Voi ci consigliate a tenere il nostro compianto per quella dinastia
in oggi errante in cerca d'asilo sulla quale fondavamo tutte le
nostre speranze. E che! insultereste ancora con empia ironia alla
virtú sventurata? Sorridereste dunque di infame letizia all'esiglio,
e alle amarezze di quelli che dai fratelli vostri furono cacciati di
soglio per non poter sopportare i continui loro benefici, e il loro
perdono? Vigliacchi! è questa la maggiore delle villane codardie. Io
che scrivo queste linee stenderei, lo giuro, la mano al Mazzini, se
percosso dalle meritate sciagure, mi chiedesse un soccorso; ed egli
gode delle pene di un vecchio che ha per sé otto secoli di gloria
domestica, e il trionfo di Algeri; di una principessa che bevve fin
dall'infanzia tutto il calice de' dolori, e incanutisce tra nuovi
affanni; di una madre cui il pugnale del liberalismo tolse il
marito, e avrebbe tolto il figlio, se l'inferno vomitava due Louvel;
di un innocente fanciullo ch'era l'amore della Francia, come ne è
ora la sola speranza! Ma noi ci gloriamo di ammirare e di amare
questa eroica famiglia. Potessimo così offrirle qualche tributo più
efficace del solo affetto.
«Voi ci chiamate uomini di Canosa e del Duca. Sia pure: noi avremo
ad onore di esser riconosciuti degni seguaci del Principe più
Religioso ed Intrepido: dell'Uom di Stato più irremovibile del secol
nostro.
«Voi dite che millantiamo di combattervi a visiera alzata, mentre
abbiamo le baionette d'intorno, e il carnefice a fianco. Ipocriti!
Forse che ignoriamo la morte di Kotzebue? Forse che le baionette e
il carnefice ci difenderebbero da quelle coltella che voi invocate e
dite sante; se non ce ne facesse sicuri Dio, e quel coraggio che ci
viene da lui?
«Voi finalmente imputate chi vi svelò nel n. 70 di ravvolgersi nel
velo dell'anonimo, mentre voi segnate il vostro nome. Voi mentite,
Cesare Galvani che allora scrisse di voi, e qui scrive di nuovo, non
si è occultato, né si occulterà mai, perché non vi teme. Egli fin
dal n. 30 del suo Giornale pubblicava in simile circostanza il suo
nome; egli si fa gloria della propria opinione, e degli insulti che
gli versano sopra i nemici di Dio e dei legittimi Re»(27).
Né qui sostarono gli eroici redattori della Voce della Verità,
perché nel supplemento al n. 106 il Canosa volle farsi anche
paladino di quei Borboni di Napoli, che aveva così ben serviti,
meritandosi poi, come premio, la via dell'esilio, e precisamente
polemizzando col La Cecilia, il quale, nel Cenno storico ad onore
dell'estinto Pietro Colletta aveva affermato esser la ferocia il
«primo attributo dei Borboni».
L'articolo, che non ristampiamo, perché edito già molte volte, era
preceduto da questa dichiarazione: «Pubblichiamo una lettera scritta
da un valente difensore dell'Altare e del Trono, in confutazione del
primo fascicolo della Giovine Italia, riserbandoci di pubblicare
ancora le nostre osservazioni sopra questa sozza insolente, che per
comando della sediziosa propaganda di Parigi tiene i suoi torchi nei
bordelli di Marsiglia». Ed infatti il periodico tenne la sua parola.
Quattro giorni dopo, nel n. 108, pubblicava Alcune riflessioni sopra
un articolo della Giovine Italia, firmato U. D. F.», cioè
sull'Elogio di Cosimo Delfante scritto dal Guerrazzi, elogio alla
lettura del quale l'autore delle Riflessioni provò un fremito
paragonabile «a quello che agitava il suo cuore quando una mesta
curiosità lo condusse a por piede, ad osservare, a dar ascolto nel
reclusorio d'Aversa», dove, come si sa, stanno i pazzi delinquenti.
Al Canosa successe il balí Cosimo Andrea Sanminiatelli, nel n. 149
del 19 luglio 1832, con un articolo intitolato Brevi parole agli
scrittori e partigiani della «Giovine Italia»(28); e di nuovo, nel
supplemento al n. 180 del 29 settembre, il feroce consigliere di
Francesco IV, che prese la difesa de' Borboni contro gli attacchi
ripetuti del La Cecilia.
Abbiamo detto che, nonostante la guerra feroce che gli si muoveva,
il periodico continuava le sue pubblicazioni, alle quali il Mazzini
sorvegliava con grande cura, rimediando alle mille difficoltà che
sorgevano per la compilazione di esso, resa ancor più difficile
quando il grande Italiano, espulso da Marsiglia, dové nascondersi
ne' pressi della città, e colà vivere intanato come una bestia
feroce, sino al giorno in cui, cedendo alle infinite persecuzioni,
fu costretto a rifugiarsi nella Svizzera. Seguitò a pubblicarsi
anche dopo il tentativo d'invasione savoiardo, anzi nel sesto
fascicolo trovarono luogo que' preziosi documenti con i quali il
Mazzini rese conto presso gli Italiani della sua parte di
responsabilità; ma questo sesto fascicolo uscito nel giugno 1834, fu
l'ultimo della serie; e cosí veniva a spegnersi la «prima rassegna
del Partito Nazionale Italiano, ispirata, dal bisogno di ordinare a
sistema le idee sconnesse ed isolate frementi
nell'associazione»(29). «Stamperemo anche il settimo - scriveva il
Mazzini al Rosales il 20 luglio di questo anno; - appunto perché i
governi non vogliono; ma per non aver vincoli, non riceveremo
abbonamenti. Faremo pagare a volumi»(30); nondimeno il proposito non
ebbe effetto per molte ragioni, finanziarie e politiche. Alle prime
il Mazzini accenna in varie sue lettere alla madre e al Rosales; le
seconde crediamo riconoscere nel fatto che altri orizzonti, piú
vasti, lumeggiati di ben altre tinte, si erano aperti alla mente di
questo «sultano della libertà», rischiarando il cammino ad altre
mète piú gloriose, se bene irte di pericoli ancor piú
insormontabili; egli stava vagheggiando la fratellanza dei popoli
europei, dapprima con la Giovine Svizzera, poi con la Giovine
Europa, antiveggendo fin d'allora, in momenti di tristissimo
servaggio per tutte le popolazioni europee, una nuova epoca di
progresso sociale. Credette quindi troppo inadeguato allo scopo il
giornale di Marsiglia, come mezzo di diffusione delle sue idee; un
anno dopo il Proscrit, quindi la Jeune Suisse e nel 1840
l'Apostolato Popolare erano gli organi della nuova generazione, la
quale, sia pure indirettamente, assorbiva la parola calda, e
fascinatrice del Mazzini, e si preparava alle grandi lotte del
Risorgimento, non solo, ma di tutta Europa, dalle rive della Senna,
a quelle del Danubio, della Sprea, e di là per altri paesi, dovunque
la feroce catena del dispotismo tenesse avvinti i popoli, sviandoli
dal pensiero di liberi sensi.
Roma, 10 marzo 1902.
M. Menghini.
La
GIOVINE ITALIA.
SERIE DI SCRITTI INTORNO ALLA CONDIZIONE POLITICA,
MORALE, E LETTERARIA DELLA ITALIA, TENDENTI
ALLA SUA RIGENERAZIONE.
Italiam! Italiam!..
Virg.
Ma voi, che solitari, o perseguitati sulle antiche sciagure della
nostra patria fremente, perché, non raccontate alla posterità i
nostri mali? Alzate la voce in nome di tutti, e dite al mondo, che
siamo sfortunati, ma né ciechi, né vili..... Scrivete. Perseguitate
con la verità i vostri persecutori.
Foscolo.
MARSIGLIA.
TIPOGRAFIA MILITARE DI GIULIO BARILE.
1832.
DELLA GIOVINE ITALIA
Les jeunes gens de vingt à trente-cinq
ans ont grandi dans la révolution.....
Eux seuls sont notre espérance(31).
Victor Cousin.
Le parole di Cousin, poste in fronte all'articolo, racchiudevano,
parmi, un alto senso politico, e compendiavano in certo modo la
scienza del moto sociale nel secolo xix. Egli le proferiva parlando
allo Zschokke, e Zschokke, canuto, ma d'anima giovine e
repubblicana, le raccoglieva con amore, e le registrava in fronte a
un suo libro, intravvedendovi una profezia di vittoria e di civiltà.
Quando Cousin parlava quelle parole, la Francia era schiava a un
dipresso, com'oggi noi siamo. I miracoli repubblicani tornati in
nulla, le corruttele de' governi nulli, intermedi fra la Convenzione
e Bonaparte, le servilità dell'Impero, che trasparivano attraverso
il manto di gloria steso dal genio dell'uomo del destino, poi la
tirannide del ristoramento, le brighe sacerdotali e gesuitiche, le
delusioni e la cortigianeria prevalente avevano diffuso un sonno
sulle menti degli uomini dell'89, una pace stanca, un silenzio di
rovina, che vietava ogni speranza di meglio. Le forze della
generazione nata fra i due secoli xviii e xix, s'erano consumate nei
quaranta anni di guerra ostinata e di sagrifici, spesi a ricadere
nel fango d'onde avea voluto levarsi. Gli uomini che aveano veduto
il primo e l'ultimo giorno d'una rivoluzione destinata a mutare le
sorti europee, disperavano del progresso. Tante credenze s'erano
accumulate in quello spazio di tempo, e tante volte la prepotenza
de' fatti le avea soffocate, che gli animi erano giunti a rinnegare
ogni fede, e gl'intelletti giacevano sconfortati, avviliti,
sfiduciati dell'avvenire. Le teoriche filosofiche, perduta ogni
attività d'esame, ogni eccitamento di contrasto, dormivano nel
materialismo del secolo xviii, e confinavano l'uomo nell'esercizio
delle facoltà individuali. Letteratura non v'era, tranne nelle
accademie, vendute al potere, qualunque si fosse, e inerti per
natura d'ogni collegio privilegiato. Era quel momento di riposo, che
segna l'ultimo moto d'una razza la cui missione è compiuta, e il
primo d'un'altra che raccoglie le proprie forze a incominciare lo
sviluppo di quella, che ogni nuovo secolo affida a' suoi figli.
Il secolo xix sentiva la propria missione. I fatti accumulati dal
secolo passato erano troppi, perché le conseguenze potessero
cancellarsi con un trattato. L'elemento giovane fermentava
tacitamente. Troppo debole ancora per combattere a visiera levata la
tirannide politica, ne' suoi dominii, s'agitava intorno al vecchio
edificio sociale novamente puntellato, avvezzandosi a guardarlo, a
misurarlo senza paura e venerazione, studiandone il lato piú
fragile, logorandolo, poiché al centro non poteva, per ogni dove
all'intorno. Mancava la unione, mancava la concordia in alcuni
principii fondamentali allo sviluppo dei quali si concentrassero gli
sforzi individuali; mancava un simbolo alla religione che cominciava
a farsi via tra le rovine d'un culto perduto, che i re tentavano
rinvigorire col terrore delle baionette; ma lo studio, non
foss'altro, che gl'ingegni nati col secolo ponevano nelle diverse
molle sociali, la tendenza che spingeva le menti alle scienze
storico-filosofiche, l'affetto che viveva nelle grandi memorie,
protestavano contro agli inetti, che negavano il progresso o
s'attentavano d'arrestarlo. Allora sorsero alcuni uomini, potenti
d'intelletto e di dottrina, che avevano desunta dalle pagine di Vico
e d'altri la teorica d'un perfezionamento progressivo indefinito, e
si consecrarono apostoli del rinnovamento morale. Rinnegarono
l'autorità, rinnegarono quanto d'esclusivo si racchiudeva nei mille
sistemi, creazione e pascolo dello spirito umano. Guardarono con
occhio d'aquila le linee storiche del passato, risuscitarono la idea
spirituale, eressero un altare alla civiltà nel santuario della
coscienza, e chiamarono la giovine Francia a sagrificare su
quell'altare salutandola speranza della patria, potente,
rigeneratrice. La giovine Francia rispose a quel grido: La giovine
Francia ardita, impaziente, fiduciosa, e spronata dall'entusiasmo,
non aveva raccolto del passato che i sommi principii, risultati de'
fatti, senza aver subíta l'iniziazione spesso funesta dei fatti
stessi, e si slanciò dietro a quella bandiera. Tentò quante vie
s'affacciavano: assunse a tempo quante forme si offrivano interpreti
del pensiero generoso. Fu romantica, ecclettica, protestante. Si
arrestò, appassionandosi, intorno al medio evo, sulle teoriche
trascendentali, nelle incertezze del misticismo. Ma sempre,
attraverso tutte le fasi, sotto le varie gradazioni che avviavano
l'intelletto alla verità, nelle lettere, nell'arti, nella filosofia,
traspariva la coscienza d'una forza indipendente da' vincoli
materiali, traspariva lo spirito di libertà, solo eterno, solo
onnipotente a mutare in meglio le condizioni civili; ma dietro a
quella gioventú desiosa, insisteva una voce che gridava: innanzi!
innanzi! - Protestantismo, Romanticismo, Ecclettismo erano tendenze
di transizione: preludi nei quali l'intelletto sviluppava,
esercitava le proprie forze prima d'intraprendere dirittamente la
via del rinnovamento. Bensí, quei primi, che il caso avea cacciati a
condottieri di tanta impresa(32), avevano forze ineguali
all'ufficio. Piú eloquenti che logici, piú vasti che profondi nelle
loro osservazioni, piú ambiziosi forse che caldi veramente della
fiamma santa che crea il genio protettore delle razze umane, avevano
intravveduto un istante la missione del secolo, e s'erano smarriti
davanti alla sua grandezza. Come Pietro Eremita, avevano sollevato
lo stendardo d'una Crociata senza ammetterne, senza intenderne le
inevitabili conseguenze. Tentennavano fra diversi sistemi,
malcontenti di tutti, non rifiutandone alcuno, senz'ardire per
distruggerli, senza fede o potenza per crearne un nuovo. Rivelati
alcuni principii, procedevano paurosi nelle applicazioni, titubavano
nello sviluppo delle proposizioni che avevano prefisso a' loro
libri, a' loro insegnamenti, a' loro giornali. Volevano insomma
rovinare il passato, ma senza creare l'avvenire, senza accettare
l'eredità de' padri, senza sacrificarsi per essa.
Ma la eredità de' padri era tale, e santa di tanta solennità di
sventura, che i figli non potevano rinunziarvi per amor de' maestri.
Per venti anni d'eroismo, e di sagrificio non v'è fiume d'oblio, e
la gioventú ridestata una volta, trascorse altre ai confini che le
segnavano. I padri avevano predicata una fede, i padri l'avevano
suggellata col sangue; ma, come il secondo Gracco, avevano cacciata
una stilla di quel sangue verso il Cielo, sclamando: frutti il
vendicatore! - Quel sangue ardeva nelle vene dei figli, e la fede
dei padri s'affacciava ad essi raggiante, pura, piú cara, perché
incoronata della palma del martirio, bella di speranze, o
d'un'eterna promessa. La rivoluzione dell'89 aveva mostrato in
compendio tutta la carriera di riforma che dovea corrersi. Una
generazione l'aveva divorata coll'ansia di chi scopre una nuova
terra, a balzi, a slanci, senza arrestarsi. I primi intraprenditori
delle rivoluzioni sono vittime consecrate, e si muoiono; ma i
principii non muoiono, e le generazioni che tengono dietro
s'assumono d'educarli, di svolgerli, di trarre da' primi contorni un
quadro immortale, di ricorrere piú lentamente, ma piú stabilmente la
via che i primi hanno segnata. La grande rivoluzione sociale, della
quale la rivoluzione francese aveva dato il programma, incominciava
appena, quand'altri s'illudeva d'averla spenta. E la gioventú, fatta
accorta della propria potenza, accettò la missione: si strinse, si
raggruppò, stette attenta, vegliando il momento che dovea sorgere
nello spazio. Il momento sorse, la gioventú lo afferrò. Il cannone
dell'Hôtel de Ville tuonò la chiamata. La gioventú si levò come un
sol uomo: la gioventú vinse. Cortigiani, baionette, trono, tutto
rovinò davanti all'impeto d'un principio. Il sole del 27 aveva
diffusa la luce sopra ogni cosa: il sole del 29 non salutò che una
bandiera: - la bandiera del secolo. Gli uomini, che alcuni anni
addietro avevano comunicato l'impulso senz'antivederne gli effetti,
s'erano ritratti atterriti; poi, quando la gioventú riposò dalla sua
creazione, si cacciarono addosso al cadavere d'una monarchia,
usurparono la gloria d'averla morta, e giudicarono l'ossa de' sette
mila essere convenevole base al sistema ch'essi avevano predicato
utilmente, viva e prepotente la tirannide. Ora, parlano tuttavia di
progresso, - e vorrebbero che s'arrestasse dove essi s'arrestano:
magnificano le glorie del Luglio, - e vorrebbero che una nazione non
si fosse levata se non a mutare un nome nella sua storia: protestano
del loro amore alla libertà, - e l'hanno rivestita d'un manto
d'infamia, - l'hanno cacciata ludibrio a' re, sospetto mortale ai
popoli. Due secoli, il xviii, e xix, li rinnegano: come que' codardi
che Dante pone alle porte del suo Inferno, si stanno tra l'infamia e
l'oblio: l'oblio per la loro eloquenza che prima eccitava i giovani,
oggi s'è prostituita al potere: - per la loro letteratura, campo di
prova agli ingegni, ove essi vorrebbero confinare per sempre
l'anelito al moto perenne, che affatica lo spirito umano; - pel loro
ecclettismo, sistema di transizione, che intendono perpetuare: la
infamia per la gretta e fredda politica individuale, alla quale
hanno sacrificate le grandi speranze sociali suscitate per essi -
pel sangue de' popoli che hanno pattuito coi re a mendicare una pace
che non otterranno - pel loro trovato del giusto medio, ecclettismo
politico, senza passato, senz'avvenire, senza logica, senza
sviluppo, sistema paralitico, che non s'attenta rifiutare i
principii rigeneratori, ma s'industria a strozzarli in fasce. E sia
cosí, poi che vogliono! - il secolo li aveva circondati dell'affetto
giovenile e di plauso: poi tentarono sostituirsi al secolo, e il
secolo li affogherà. - Chi può cacciare un principio, e voler che
non frutti? - Chi può dar moto all'intelletto, e gridargli:
arrestati dov'io m'arresto?
In Italia, siccome in Francia, la tirannide, tanto piú esosa quanto
piú impudente, produsse il suo effetto di reazione, e l'anime
inferocirono nell'odio, crebbero smaniose d'indipendenza. - In
Italia, prima che in Francia, gl'ingegni intolleranti di freno
versarono nella scienza la idea di progresso che non potevano
applicare agli ordini civili, e levarono il grido di libertà del
pensiero nel campo delle lettere(33). - In Italia, siccome in
Francia, gli uomini che cacciarono i primi semi di libertà furono
oltrepassati da chi venne dopo, però che la sventura è maestra piú
potente d'ogni teorica, e ogni anno, ogni evento, ogni tentativo
fecondò la Italia di nuova rabbia, di sangue e di insegnamenti. Ed
oggi, gli uni contendono per la eccellenza dei metodi che
predominarono soli, e fruttarono negli anni addietro: gli altri,
cresciuti col secolo, predicano la parola del secolo, e si assumono
di esserne interpreti. Bensí la differenza sta in questo, che in
Francia, gli uomini ch'or vorrebbero arrestare il moto,
addotrinarono la crescente generazione, e i loro sforzi furono
talvolta coronati dalla vittoria: in Italia, le circostanze, avverse
sempre e prepotentemente fin'ora, vietarono a ogni uomo di
convalidare il proprio sistema coll'autorità del trionfo, e
gl'Italiani non raccolsero ammaestramento a fare che dai rovesci, e
da quel tanto di sviluppo che i fatti continui impongono
all'intelletto. - Però, ogni questione s'agita fra due opinioni,
nessuna delle quali ha generato finora risultati positivi. Noi siamo
schiavi: per quali mezzi si riacquista da schiavi la libertà? - e
stabile? - ed efficace? Quali principii hanno a reggere i tentativi?
- Gli antichi, recentemente praticati, fallirono. Fu legge di cose,
necessità di tempi, o vizio inerente al sistema, che, mutati gli
elementi, dovea mutarsi? Forse fu la prima cagione; non pare a ogni
modo che a favorir quei sistemi giovi il mal esito. La tendenza del
secolo ne predica altri; e le tendenze non nascono a caso, non
prevalgono per capriccio di pochi: emergono da' bisogni, trionfano
col voto dei piú.
A noi, dovendo spesso nelle pagine della Giovine Italia, occorrere
di combattere il sistema che i casi - e non le nostre parole, -
dimostrano ogni dí piú sistema vecchio e impotente a rigenerare una
nazione caduta in fondo, corre obbligo, corre necessità di spiegarci
una volta per tutte sulle nostre intenzioni a riguardo d'un partito
politico, che rappresenta cotesto sistema, e che pur numera - forse
a torto - ne' suoi ranghi molti uomini puri, incorrotti e deliberati
nemici d'ogni tirannide, a' quali la Italia, comunque spinta dalla
forza delle cose per altre vie, serberà gran tempo venerazione e
affetto di gratitudine. Le denominazioni di Giovine Italia e
d'uomini del passato increscono a primo tratto a que' molti che non
s'addentrano nelle cose. La mediocrità è sospettosa, e intravvede
offese per ogni dove. Gli uomini che invecchiarono in un sistema
d'idee, che hanno combattuto e sofferto per esso, mutano
difficilmente. La educazione politica non si rifà, se non ne'
pochissimi creati a camminare fino alle esequie cogli anni,
immedesimati col moto progressivo della civiltà; e l'affetto che si
genera dall'abitudine è potente quant'altro mai. D'altra parte la
gioventú, fervida, impaziente s'affaccia briosa alla vita
dell'avvenire, si sente fremere dentro potente il concetto
d'emancipazione, e rompe guerra al passato: nol guarda, o se il fa,
guarda dispettosa, o sprezzando. Quindi l'ire aspreggiate dalla
sventura: quindi le accuse reciproche, e ciò che spesso è colpa di
fati, attribuito all'una o all'altra opinione. Da siffatte guerre
non esce che danno alla patria. E però vogliamo interpretare que'
termini, che potrebbero prestare alimento a gare funeste: vogliamo
snudare tutta intera l'anima nostra, perch'altri non vi sospetti un
pensiero che ogni Italiano rifiuta. È duro dover discendere a
spiegazione di ciò che tutti dovrebbero intendere: è duro l'esser
tratto a scolparsi di tacce che tra noi nessuno avrebbe sognato.
Bensí, la unione(34) anzi tutto - e v'hanno tali materie, nelle
quali giova rimovere anche il nudo sospetto.
Noi lo dichiariamo solennemente: - Per Giovine Italia noi non
intendiamo che un sistema, voluto del secolo: quando noi
combattiamo, la vecchia, noi non intendiamo combattere che un
sistema, rifiutato dal secolo.
Le denominazioni giovine e vecchia Italia non sono nostre; e perché
vorremmo noi gravarci l'anima d'un rimorso, creando una divisione,
dove i fatti non ci strozzassero(35) a riconoscerla, dove il
progresso inerente alle umane cose non ci soggiogasse col
mostrarcela inevitabile? Abbiamo dieci secoli d'oltraggi a
vendicare(36): abbiamo a distruggere un servaggio di cinque secoli.
I padri, i padri de' padri, e gli avi remoti ebbero tutti la loro
parte di quell'oltraggio: tutti hanno bevuto a quel calice che Dio
serbava all'Italia, e del quale la fortuna assegnava a noi l'ultime
goccie - e le piú amare forse. E noi gemiamo per tutti, fremiamo per
tutti; e se a rigenerare una terra guasta da cinquecento anni di
servitú muta bastasse levarsi e combattere(37) gli uomini del
passato, quanti insorsero e morirono per la patria da Crescenzio
fino al Menotti, sarebbero nostri fratelli alla pugna, dove alcuno
potesse evocarli dalla loro polvere. - Ma il sangue solo santifica,
non rigenera una nazione. Stanno contro di noi non le sole baionette
straniere, ma le discordie cittadine inveterate per lunga memoria di
stragi, rieccitate sordamente dalla tirannide artificiosamente
ineguale e corrompitrice: stanno i vizi, che si generano nelle
catene, e la intolleranza di freno, ottimo elemento per distruggere,
pessimo per fondare, e piú ch'altro sta la mancanza di fede: di
quella fede, che sola crea le forti anime e le grandi imprese, di
quella fede che sorride tranquilla nel sagrificio, perché trae seco
sul palco, o nel campo la promessa della vittoria nell'avvenire.
Queste cagioni di servitú durano tuttavia prepotenti, e a superarle
conviene giovarsi di quanti elementi, di quante forze fermentano
tacitamente in Italia, ridurle a centro, calcolarle colla maggiore
esattezza - e ogni anno le modifica, le tramuta, le aumenta - poi
mormorare ad esse la parola di fede, spirarvi dentro l'alito d'una
vita potente, animarle di quello spirito che dagli elementi inerti
crea il moto d'un mondo, e vi stampa sopra l'orma di Dio. Ma il
segreto del secolo sta nelle mani dei nati col secolo. - Né il
linguaggio che suscita le passioni, e le dirige a grandi cose, e
insegna a santificarle consecrandole coll'altezza d'un intento
sociale, si rivela ad altri che a coloro, i quali hanno sorbito(38)
col primo alito le passioni del secolo, e l'ansia di moto che
affatica l'anime de' fratelli. Or, perché illuderci, quando ogni
illusione frutta rovine? - e che giovamento può nascere dal
rinnegare la nostra potenza e dissimularci la missione d'intelletto
che la natura ci assegnava cacciando la nostra culla alla sorgente
delle rivoluzioni, per paura che l'ossa de' padri s'agitino
irrequiete ne' loro sepolcri, irate ai figli perché intraprendono
franchi e deliberati la via ch'essi calcarono incerti e timidamente?
- Oh! da que' grandi ch'ora dormono l'ultimo sonno, non viene
fremito a noi se non d'incoraggiamento e di conforto ad osare: - da
que' sepolcri non esce voce che non esclami: - «siate migliori di
noi! siate grandi, come la vostra sciagura, come l'epoca nella quale
vivete: grandi nell'atto come noi nel pensiero! Noi fummo a tempi,
ne' quali il solo concetto di rigenerazione era un trionfo sulla
tiranide; la rivoluzione sociale era un'alba(39), e noi, avvezzi
alle tenebre, non potevamo misurare la luce del giorno venturo, né
oprare risolutamente animosi, quando fiacchi e forti, tranne
pochissimi, stavano contro di noi, e la esperienza era muta. Ma voi
nasceste ne' moti, e v'allevaste tra i moti: ammaestratevi nelle
nostre disavventure: abbiate le nostre virtú, ma rinnegate i nostri
errori».
Le denominazioni giovine e vecchia Italia, non sono nostre: noi non
le abbiamo create: le ha create una tal potenza contro la quale non
valgono né ciance d'uomini, che sentono sfuggirsi di mano una
influenza già consumata da' fatti, né rancori e sospetti d'inetti
maligni, che vorrebbero occupare il secolo delle loro meschine
ambizioni, e della loro vita incognita al mondo. E la potenza de'
fatti: - la potenza che mutava alcuni anni addietro nella Germania
il Tugenbund(40) (fratellanza della virtú) in Jugenbund (fratellanza
di gioventú): - la potenza che concentrava in Polonia poco tempo
avanti la rivoluzione le molte società patriottiche nella grande
associazione della gioventú condotta da Lelewel: - la potenza che
commettendo alla giovine Francia la impresa di luglio e i fati
Europei, strappava di bocca a Cousin le parole che noi ponemmo in
capo allo scritto - e Cousin eccitatore un tempo della gioventú
francese, è pure in oggi un di que' tanti che s'industriano a
distruggere l'opera loro, tentando confinare nel cerchio angusto
d'una dottrina immutabile e inapplicata gli uomini del progresso; ma
la verità vuole il suo dritto, e si fa via tra' sistemi. La verità
si rivela continua e progressiva attraverso gli eventi; e se gli
eventi ci sono propizii d'ispirazioni politiche: - se il secolo ci
suggerisce una nuova via di successo, perché rifiuteremo noi di
seguirla?(41) perché diremo al secolo: tu se' diseredato di mente:
trascorri inutile alla umanità?
Bensí, dalla nostra credenza non esce spregio, o biasimo assoluto
alle vecchie credenze politiche, né perché abbiamo opinione che le
cose nuove debbano trattarsi con metodi nuovi, gittiamo l'anatema
dell'ingrato alle teoriche applicate sinora. Quelle teoriche sono
storia, e come storia le veneriamo: come storia vi leggiamo dentro
una manifestazione del principio adattata a' tempi e alle
circostanze. Soltanto in oggi le vicende, le sciagure, e
gl'insegnamenti de' fatti hanno svolti nuovi elementi, hanno messa
in luce chiarissima la idea, che prima giaceva oscura ne' simboli.
Allora conveniva accennare il principio; ora ci par giunta l'epoca
d'una manifestazione solenne. - Ogni cosa ha il suo tempo: ogni
sistema ha la propria necessità d'esistenza nella condizione morale
dell'epoca. Chi schernisce o maledice al passato, è stolto o
maligno: egli dimentica come dai vagiti e da' modi informi e plebei
di Guittone Aretino esciva la bella lingua dell'Alighieri, di
Petrarca e Boccaccio, né senza quei primi e timidi tentativi
politici, non parleremmo(42) in oggi queste parole. Ma noi non
malediciamo al passato, se non quando c'incontriamo in uomini, i
quali s'ostinano a farne(43) presente, e quel ch'è peggio, avvenire.
Le rivoluzioni son tali fatti che non si compiono in un istante o
con un solo sistema, perché non v'è momento nello spazio, o sistema
nella mente umana che valga a raccogliere, a concentrare in una
unità potente d'azione tutti quanti gli elementi che mutano faccia
agli stati. I sistemi politici non sono per noi che i risultati
degli elementi d'azione che stanno a un dato tempo in un popolo,
calcolati e ordinati pel meglio. Se ogni popolo potesse rassegnarsi
ad attendere in pace il momento nel quale l'elemento morale
rivoluzionario equabilmente diffuso e coordinato fosse giunto a tale
un grado di potenza che assorbisse l'elemento materiale, le
rivoluzioni non avrebbero che un sistema. - Ma la natura non ha
voluto che dalla morte nascesse a un tratto la vita; e la
rigenerazione d'un popolo non balza fuori nella sfera de' fatti,
potente e compiuta, come Minerva dal capo di Giove. La natura non ha
voluto che le rivoluzioni si operassero senza lunghe fatiche, forse
perché i popoli imparassero a gradi e attraverso le delusioni il
prezzo della libertà; né una nazione cresce grande davvero, se non è
consecrata all'eternità della missione sociale nel sacramento del
dolore. E d'altra parte, la tirannide soverchiante, e inquieta per
coscienza d'infamia, non concede che la guerra fra gli elementi del
progresso e la inerzia si consumi sordamente e mutamente nella
società, e l'urto non si manifesti che quando il trionfo è sicuro;
ma inferocita nei sospetti e nei terrori che l'affaticano, caccia
nell'arena, come un guanto a' popoli, qualche testa di prode - e i
forti di sdegno e d'audacia titanica traggono anzi tempo le
moltitudini incerte al giudicio di Dio. Quindi le vittorie brevi, e
le dubbie vicende, e gli errori. E dalle dubbie vicende e dai molti
errori hanno vita, incremento e perfezione i sistemi.
E v'è un periodo nella vita de' popoli, come in quella degli
individui, nel quale le nazioni s'affacciano alla libertà, come
l'anime giovani all'amore: per istinto - per bisogno indefinito e
segreto - perché la natura creando l'uomo gli scrisse nel petto
libertà e amore - ma senza conoscenza intima della cosa bramata,
senza studio de' mezzi, senza determinazione irrevocabile di
volontà, senza fede. Allora la libertà è passione di pochi
privilegiati a sentire e soffrire per tutta una generazione, a
spiare il progresso e il voto de' popoli, a intendere il gemito
segreto che va dalle moltitudini al trono di Dio - a vivere profeti
e morire martiri; per gli altri è desiderio, sospiro, pensiero, e
null'altro. Allora le rivoluzioni si tentano artificialmente colle
congiure: gli uomini liberi si raccolgono a metodi d'intelligenza
misteriosa: s'ordinano a fratellanze segrete: costituiscono setta
educatrice, e procedono tortuosi. Però che le moltitudini durano
inerti, e i piú vivono astiosi al presente, ma spensierati
dell'avvenire - e se taluno rompe guerra al tempo, e tenta rivelarlo
a' milioni, i milioni lo ammirano onesto, ma la scherniscono
sognatore di belle utopie. Il sagrificio solenne è venerato anche
allora, perché nel core degli uomini v'è un istinto di verità che
mormora: quel sangue è sparso per voi; quelle vittime si stanno
espiatrici delle vostre colpe; que' martiri equilibrano a poco a
poco la bilancia tra le creature ed il creatore. È venerato, perché
v'è un sublime nel sagrificio, che sforza i nati di donna a curvare
la testa davanti ad esso, e adorare; perché s'intravvede
confusamente che da quel sangue, come dal sangue di un Cristo,
escirà un dí o l'altro la seconda vita, la vita vera d'un popolo -
ma la venerazione si consuma sterile e solitaria, nel profondo del
core, nel gemito dell'impotenza; non crea imitatori; non risplende
maestosa e fidente intorno al simbolo della nuova fede, ma soggiorna
paurosa nelle iniziazioni d'un culto proscritto, e piange d'un
pianto che non ha conforto neppur di fremito. - La condizione de'
tempi impone allora doveri particolari ai pochi che s'assumono
l'opera rigeneratrice; allora il voler sanare gli estremi mali cogli
estremi rimedi è piú follia che virtú; perché dove il male è
inviscerato nella società e ti preme d'ogni lato predominante, o
tenti struggerlo alla radice, e cadi tra via deriso da' tristi; o
fai guerra ineguale a' rami, e tu sei(44) gridato tiranno da' buoni.
- Allora l'ostinarsi a fondar la vittoria su forze proprie e sui
miracoli del valor nazionale frutta disinganno amaro e talora pure
rimorso, perché le nazioni si rigenerano colla virtú o colla morte;
ma dove non è virtú di sagrificio né furore di gloria, dove nei
cuori non vive un'eco alle grandi passioni, i vasti concetti falliti
e le molte vittime infondono la inerzia, non il coraggio della
disperazione. Quindi la moderazione nell'applicazione de' principii
piú scaltrezza che inconseguenza; quindi la speranza e l'aiuto
accettato dello straniero necessità deplorabile piuttosto che
codardia; e l'arti diplomatiche usate a tempo, pericolose sempre,
pure talvolta efficaci a smembrare le forze nemiche. Ad ogni
operazione politica è base prima il calcolo delle proprie forze; e
dove queste non reggono, è forza cercarne altrove, o ristarsi(45).
Siffatti mezzi non danno libertà mai alle nazioni, bensí conquistano
anime alla santa causa, e insegnano a intendere la libertà ed amarla
dolce, tollerante, incontaminata. - Poi le vicende ammaestrano a
conseguirla.
Ma poi che il pensiero concentrato ne' pochi s'è diffuso alle
moltitudini, e la libertà è fatta sorella dell'anime - quando il
voto segreto s'è convertito in anelito irrefrenabile, e la speranza
in fede, e il gemito in fremito - quando il sangue delle migliaia
grida vendetta agli uomini e a Dio, ed ogni famiglia conta un
martire o un iniziato alla religione del martirio - quando le madri
non hanno piú sonni, l'amplesso delle mogli ha il tremore e il
presagio della separazione, e un pensiero di rancore, un pensiero di
cupa vendetta solca le fronti de' giovani nati all'amore, e al
sorriso spensierato degli anni vergini sottentrano anzi tempo le
cure e le gravi apparenze dell'ultima età - allora - l'ora di
risurrezione è suonata. Guai a chi non si assume tutto il dolore,
tutto il dritto di vendetta solenne, che spetta ai suoi fratelli di
patria! Guai a chi non sente il ministero che le circostanze gli
affidano, e reca le idee mal certe del tentativo nella lotta
estrema, decisiva, tremenda! - Allora la tirannide ha consumato il
suo tempo; le transazioni, e i sistemi di transizione diventano
passi retrogradi; la guerra è tant'oltre che tra la distruzione e il
trionfo non è via di mezzo, e gli ostacoli che un tempo si
logoravano coll'arti della lentezza, vanno atterrati rapidamente. -
Allora la iniziazione è compiuta; alla religione del martirio
sottentra la religione della vittoria; la croce modesta e nascosta
s'innalza(46) nell'alto convertita in Labarum; la parola della fede
segreta fiammeggia segno di potenza scritto sulla bandiera de' forti
- e una voce grida: in questo segno voi vincerete!
E allora la gioventú si leva - raggiante, concorde, serrata a una
lega di pensieri e fatti magnanimi, aspirante un'aura di vittoria,
spinta da una forza di progresso e di moto che insiste sovr'essa,
che la purifica in un oblio d'ogni affetto individuale, che la
ingigantisce nella potenza d'un desiderio sublime. Salute a quella
gioventú! - Date il varco alla generazione, che venne col secolo, e
maledetto colui che la guardasse con occhio d'invidia, o gittasse
dietro ad essa il motto dello scherno amaro, però ch'essa ha intesa
la voce del passato e quella dell'avvenire, ha raccolti
gl'insegnamenti dell'esperienza dalla bocca o sulle tombe dei padri,
e s'è ispirata al soffio della civiltà progressiva, all'armonia
della umanità, che ogni secolo, ogni anno, ogni giorno rivela
all'anime nuove un arco del proprio orizzonte!
Ora - è il tempo, o non è? Siam noi giunti al punto in cui una nuova
rivelazione(47) politica dia moto alle menti, e gli antichi sistemi
esauriti abbiano a cedere davanti a' nuovi suggeriti dalla
esperienza, voluti dai piú, potenti a struggere ed a creare?
La questione è codesta - e noi, uomini del secolo xix, la riteniamo
decisa.
Noi stiamo sul limitare d'un'epoca, e non è l'epoca de' sistemi di
transizione, che gli uomini delle rivoluzioni hanno predicato
finora. L'epoca de' sistemi di transizione è il gradino che la
necessità impone alle nazioni, perché salgano dal muto servaggio
alla libertà. La libertà è troppo santa cosa, perché l'anima della
schiavo la intenda e il suo cuore possa farsene santuario, se prima
non s'è riconsecrato alla vita morale nelle lunghe prove e nel lungo
dolore. Ma noi l'abbiamo consumata quest'epoca: quaranta anni di
tentativi, il battesimo del pianto e del sangue, e la vicenda(48)
europea che s'è svolta davanti a' nostri occhi, hanno fruttato
sapienza ed ardire; e noi siamo d'una terra, che ha dato celerità
singolare agli ingegni, e un battito piú concitato al cuore de' suoi
figli.
Noi guardammo all'Europa. Dappertutto è sorto un grido di nuove
cose, un appello alle nuove passioni, una chiamata a' nuovi
elementi, che il secolo ha posto in fermento. Dappertutto due
bandiere hanno diviso i combattenti per una medesima causa; e la
guerra oggimai non riconosce altro arbitro che la vittoria, però che
gli uni contendono per arrestarsi a' primi sviluppi della idea
rigeneratrice, gli altri per inoltrarsi e spingere i principii alle
legittime conseguenze: i primi avvalorati dal silenzio delle
moltitudini, naturalmente cieche, naturalmente inerti, magnificano
il riposo supremo de' beni, non avvertendo che anche la morte è
riposo; i secondi, forti di logica e di fede negli umani destini,
intimano il moto, come legge, necessità, vita delle nazioni. - La
guerra è implacabile, perché tra il sistema che da noi s'intitola
vecchio e la nuova generazione sta, come pegno d'eterno divorzio,
una rivoluzione portentosa ed europea negli effetti, divorata in un
giorno da pochi codardi e venali, ridotta a un mutamento di nome, e
non altro - sta l'Associazione universale costretta a retrocedere
d'un passo davanti a delusioni siffatte(49), che un secolo di strage
non basterebbe a scontarle, se un'ora di libertà non avesse potenza
di cancellare il passato. La guerra è implacabile, però che le sorti
di mezza Europa sono strette al successo, e non v'è pace possibile,
poiché l'Europa ha imparato fin dove meni la ostinazione d'un
sistema d'inerzia a fronte d'una volontà irrevocabile. L'Europa ne
ha lette le conseguenze al lume degl'incendi di Bristol, e scritte
col sangue de' Lionesi - e noi vorremmo, per la speranza d'una
transazione impossibile, dissimulare la verità ai nostri fratelli,
rinnegare la bandiera che il secolo ci pone alle mani, contrastare
ad un fatto universale, evidente, che sgorga dai minimi incidenti,
da' giornali, da' libri, dai tentativi, da ogni popolo, da ogni
lato? La unione! noi la vogliamo; ma tra buoni, e fondata sul vero.
L'altra, che alcuni paurosi od inetti gridano tuttavia, senza
insegnare il come si stringa, è unione di cadavere colla creatura
vivente: spegne il lume della vita dov'è, senza infonderlo dov'è
morte.
Noi guardammo alla Italia, - alla Italia, scopo, anima, conforto de'
nostri pensieri, terra prediletta da Dio, conculcata dagli uomini,
due volte regina del mondo, due volte caduta per la infamia dello
straniero e per colpa de' suoi cittadini, pur bella ancora di tanto
nella sua polvere, che il dominio della fortuna non basta ad
agguagliarle l'altre nazioni, e il genio si volge a richiedere a
quella polvere la parola di vita eterna, e la scintilla che crea
l'avvenire. Guardammo con quanta freddezza d'osservazione può dare
un desiderio concentrato, un bisogno di afferrarne l'intima
costituzione (e il core ci batteva forte nel petto, perché abbiamo
passioni giovani e l'orgoglio del nome italiano ci solleva l'anima
dentro); ma noi imponemmo silenzio al cuore, e la vedemmo come era,
vasta, forte, intelligente, feconda d'elementi di risorgimento,
bella di memorie tali da crearne un secondo universo, popolata
d'anime grandi nel sagrifizio, e nella vittoria - ma guasta, divisa,
diffidente, ineducata, incerta fra la minaccia delle tirannidi e le
lusinghe perfide dei molti, che adulandola dell'antica grandezza,
l'addormentano sicch'ella non ne tenti una nuova - e tutta la forza
de' suoi elementi controbbilanciata, annientata dalla mancanza
d'unione e di fede - due virtú, che né dieci secoli di sventura
derivata dalle animosità provinciali, né potenza d'intelletto o
fervore di fantasia hanno potuto ancora far predominanti tra noi - e
a fondarle, volersi piú che ogni altra cosa l'autorità d'un
principio alto, rigeneratore, universale, applicabile a tutti i rami
della civiltà italiana, che li riformi tutti purificandoli e
dirigendoli ad un intento - d'un principio uno e potente a cui si
concentrino tutti i raggi, tutti gli elementi di vita; nella cui
fede l'anime si rinverginino, e la coscienza mormori una
destinazione alle masse - perché in oggi manchiamo non di mezzi, ma
d'accordo e di vincolo fra questi; non di materia, ma di moto che la
sospinga; non di potenza, ma di convinzione che noi siamo potenti.
Noi vedemmo la Italia, soffermata ai confini del mondo sociale
dall'individualismo, rimanersi tuttavia sottoposta all'influenza del
medio-evo. La idea personale, il sentimento radicato in ogni uomo
della propria indipendenza, la ripugnanza a confondere la unità
singolare nella vasta unità del concetto nazionale, predominavano,
elementi ottimi in sé, ma avversi, quando sono spinti tropp'oltre,
al progresso comune. - De' tristi non favelliamo; ma la tendenza
individuale traspariva fin nella passione di libertà, che assumeva
ne' migliori aspetto d'odio a' ceppi, di reazione forzata, di
vendetta suscitata dalle lunghe offese. Pochissimi amavano la
libertà per amore; perché fine prefisso all'uomo; perché mezzo unico
di progresso sociale. Pochissimi mostravano coscienza dell'alta
missione, che ogni vivente ha dalla natura verso la umanità. É la
coscienza di questa missione che creava giganti Mirabeau, gli uomini
della Convenzione, Bonaparte, Robespierre - e finché la seguirono,
furono grandi - e perché mal si scerne il punto in cui svaniva
davanti ad altri moventi, la posterità li griderà grandi. - Ma
all'Italia, come noi la vedemmo, il materialismo, struggendo ogni
dignità d'origine e di destino nell'uomo disseccava la vita al
cuore; o la indifferenza, sperdendo ogni sete di vero, rapiva molte
di quell'anime, piú frequenti in Italia che altrove, che vivono e
muoiono martiri d'una idea. Quindi la mancanza di fede, di fede in
sé, nel dritto, e nell'avvenire, perché l'uomo, confinato
dall'individualismo dominatore nel cerchio ristretto della propria
influenza, schiacciato sotto la vastità del concetto, o si rassegna
a vivere schiavo, o si fa libero colla morte sul palco. - E questi
vizi, che il lungo servaggio e Roma imposero alla Italia, stavano
contro ad ogni tentativo piú tremendi delle baionette tedesche.
E guardammo al passato a vedere se potesse trarsene il rimedio. Ma
il passato c'insegnava a non disperare; il passato c'insegnava
quante e quali fossero l'arti della tirannide, e le reliquie del
servaggio nell'anime - non altro. La scienza de' padri s'era
esercitata intorno ai principii piú che intorno alle applicazioni.
Forse la fiamma di patria e di libertà, che li ardeva, aveva
illuminato ad essi quanto era vasto l'arringo: ma le circostanze
avevano affogato il concetto; e i tentativi non avevano assunto né
la energia, né la vastità, né l'armonia che si richiedeva a tanta
opera. Era necessaria una unità di principii e d'operazioni - e i
moti prorompevano invece parziali, e provincialmente. Ma senza un
moto universale, riescirà impossibile sempre il trionfo, senza la
universalità dell'accordo precedente, il moto non proromperà
simultaneo e veramente italiano mai - e per consumare ad un tratto
le invidie, e le animosità che vivono tuttora tra le provincie,
vuolsi affratellarle tutte nella fratellanza del tentativo del
pericolo e della vittoria. Era necessario il diffondere lo spirito
riformatore, il bisogno di rinovamento sovra tutti i rami
dell'incivilimento italiano - e limitavano la riforma a un ramo solo
dell'umano intelletto; agli altri contendevano il progresso; e gli
uomini che predicavano libertà politica e indipendenza dalle vecchie
abitudini di sommessione, bandivano la crociata addosso agli ingegni
vogliosi d'emancipazione dalle teoriche antiche filosofiche e
letterarie; rubavano agli Inglesi la bilancia dei poteri e i
principii della monarchia costituzionale, mentre vilipendevano
schiavi del nord e traditori della patria quanti tentavano
rivendicarsi negli studii e nelle composizioni quella libertà che
non s'era mai perduta nel settentrione - né badavano alla necessità
di educare all'indipendenza intellettuale gli uomini che volevano
trarre al concetto dell'indipendenza politica; però che l'uomo è
uno, e l'intelletto non s'educa a un tempo a due sistemi contrarii.
La grande rigenerazione alla quale intendevano, aveva bisogno
d'alimentarsi di sagrificio sublime, di forti esempli, di
rinnegamento totale dell'individuo a prò d'un principio. Conveniva
levar l'uomo all'altezza d'una generalità, levarlo a un concetto
partito d'alto tanto(50), che potesse abbracciare tutta quanta la
umana natura. Conveniva scrivergli dentro la tavola de' suoi diritti
e de' suoi doveri, dargli la coscienza d'una grande origine,
prefiggergli una missione sociale, e rivelargliela nell'azzurro de'
cieli stellati, nella grande armonia del creato, nell'universo
fisico ridotto a simbolo d'un pensiero potente, nelle rovine del
passato, nella idea generatrice delle religioni, nella profezia de'
poeti, nel raggio onde il Genio solca la terra, ne' moti inquieti
del cuore, perché egli da tutte le cose imparasse sé essere nato
libero, gigante di facoltà e d'energia, re del mondo e della
materia, non sottomesso mai ad altre leggi, che alla eterna della
ragione progressiva ed universale. Conveniva purificarne le
passioni, animarle d'amore, cacciargli a fianco l'entusiasmo, ala
dell'anima alle belle cose, e davanti a' suoi passi la vergine
speranza col suo sorriso che dura in faccia al martirio - ed essi lo
trattenevano nel materialismo, credenza fredda, scoraggiante ed
individuale, rifugio a ogni uomo contro alla prepotenza delle
superstizioni e della tirannide sacerdotale, ma nella quale ei non
può durare senza che gli s'inaridisca il fiore dell'anima: - lo
indugiavano nello sconforto d'una lotta eterna, avvezzandolo a
contemplarsi dominato alla cieca e inesorabilmente dai fatti, mentre
bisognava convincerlo che v'era tal forza dentro di lui indipendente
da' fatti, padrona de' fatti, dominatrice dell'istesso destino: - lo
angustiavano in una vicenda alterna d'azione e di reazione,
mentr'era d'uopo stampargli in petto una coscienza di progresso
invincibile e di trionfo. Irridevano le vecchie credenze, né
tentavano sostituirne altre nuove; spegnevano l'entusiasmo, e
volevano risvegliarlo con nomi: parlavano di patria alle
moltitudini, e struggevano la fede, patria dell'anime; la fede in
una legge superiore di miglioramento, in un concetto di moto perenne
che abbracci e promova tutta la serie dei fenomeni umani: - la fede
che creò la potenza di Roma, la vasta dominazione del Maomettismo, i
diciotto secoli del Cristianesimo, la Convenzione, Sand(51), e la
Grecia risorta: - la fede che ridona la dignità perduta allo
schiavo, e gli grida: Va! va! Iddio lo vuole! Iddio, che t'ha creato
a immagine sua, e t'ha spirato una scintilla della sua onnipotenza!
Questo avrebbero dovuto tentare i primi riformatori d'una nazione
caduta in fondo, se i primi potessero far altro che intravvedere un
rinnovamento e morire per esso. Poi, scendendo alle applicazioni,
era necessario avere il popolo, suscitare le moltitudini: a farlo,
bisognava convincerlo che i moti si tentavano per esso, pel suo
meglio, per la sua prosperità materiale, perché i popoli ineducati
non si movono per nudi vocaboli, ma per una realtà; e a convincerlo
di queste intenzioni, bisognava adoprarlo, parlargli, cacciar
nell'arena quel nome antico e temuto di Repubblica, solo forse che
parli ai popoli una parola di simpatia, una idea di utile positivo:
- ed essi tremavano del popolo; disperavano - mosso che fosse - di
poterlo dirigere; e lavoravano ad addormentarne il ruggito, o a
moverlo, gli esibivano teoriche astruse di poteri equilibrati, idee
metafisiche di lotta ordinata, sicché ne escisse quiete permanente
allo stato, e costituzioni accattate da altri paesi, provate oggimai
inefficaci a durare, e non adattate ai costumi, alle abitudini, alle
passioni. - Le rivoluzioni si preparano colla educazione, si
maturano colla prudenza, si compiono colla energia, e si fanno sante
col dirigerle al bene comune. Ma le rivoluzioni, a questi ultimi
tempi, sorsero inaspettate, non preparate, artificialmente connesse;
furono dirette al trionfo d'una classe sovra un'altra,
d'un'aristocrazia nuova sovra una vecchia - e del popolo non si
fece(52) pensiero - poi, procedettero sulla fede di principii
fittizi, lasciati all'arbitrio di governi astuti che
gl'interpretassero, paurose di ogni cosa, disperate d'ogni soccorso,
che non venisse dalla diplomazia, o dallo straniero, l'una, arte
essenzialmente menzognera, l'altro, essenzialmente sospetto, amico
talvolta dei forti, non mai de' fiacchi. Noi vedemmo uomini
insultare a re, imponendo loro leggi e patti che insegnavano aperta
la diffidenza, e dimezzavano il loro potere - e nello stesso tempo
fidarsi illimitatamente nelle loro promesse e nei loro giurí come se
i tiranni avessero un Dio nel cui nome giurare. Vedemmo assalita
nelle costituzioni proposte l'aristocrazia, e non pertanto venir
chiamata alla somma delle cose, come se le caste potessero mai
suicidarsi. Leggemmo sulle bandiere il nome d'Italia, mentre si
rinnegavano ne' proclami e nelle operazioni i fratelli vicini e
insorti per la stessa causa, nell'ora stessa, in forza di concerto
comune. Udimmo gridare indipendenza di territorio, mentre il barbaro
guardava alle porte; e intanto l'andamento de' nuovi governi si
fondava sulla speranza d'evitare una guerra, che la natura ha posta
eterna fra il padrone, e lo schiavo, che rompe la sua catena - e si
frenavano i giovani che volevano diffondersi in piú largo terreno -
e si decretavano toghe, non armi. - Errori che ci hanno fruttato
taccia di codardia dagli stessi che ci hanno illusi vilmente e
traditi: errori figli forse piú delle circostanze e della infamia
de' gabinetti europei, che degli uomini preposti alle cose nostre;
ma tali che il sostenerli avvedimenti politici di profonda
esperienza è oggimai parte d'inetti o di traditori.
E allora - guardammo d'intorno a noi; allora ci lanciammo
nell'avvenire. L'anima sconfortata dalle lunghe delusioni si
ritemprò nella coscienza d'una eterna missione, si rinfiammò nel
sentimento d'un furore di patria, d'un voto di libertà ch'è la vita
per noi. Gli errori de' padri erano voluti dai tempi; ma noi perché
dovevamo insistere sugli errori de' padri? Gli anni maturano nuovi
destini; e noi, contemplando il moto del secolo, intravvedemmo una
giovine generazione, fervida di speranze - e la speranza è il frutto
in germoglio - commossa a nuove cose dall'alito spirituale
dell'epoca - agitata da un bisogno prepotente di forti scosse, e di
sensazioni: e di mezzo ad essa, tra la incertezza dei sistemi, tra
l'anarchia de' principii, dall'individualismo del medio evo, dal
fango che fascia la vita italiana,(53) sorgere qua e là uomini che
vivono e muoiono per una idea; levarsi anime che, come Prometeo,
protestano contro la fatalità che li opprime, e l'affrontano sole;
apparire aspetti, che hanno una profezia d'avvenire sulla fronte:
esseri d'una natura superiore che la natura caccia sempre sulla
terra al finire d'un'epoca per congiungerla alla(54) nuova - e tutta
la generazione, e que' pochi privilegiati non mancano, ad esser
grandi, che d'un riconcentramento d'opinioni e tendenze, d'una unità
nella direzione, d'una parola feconda, energica, incontaminata
d'odio e paura, che riveli nudo e potente il voto del secolo.
Questa parola noi la diremo.
Questo voto noi tenteremo d'interpretarlo. Tutte le tendenze che ci
parve intravvedere nel secolo, e che abbiamo accennate nel corso di
quest'articolo, noi le svilupperemo nel nostro giornale coll'ardore
di gente che né spera, né teme dai partiti politici, e non vede
sulla terra se non uno scopo e una via per arrivarlo(55). E da
queste tendenze ch'or sono in germe, da tutte le necessità che
sgorgano innegabilmente dai fatti trascorsi, dalle ispirazioni
dell'epoca, escirà, noi lo speriamo, un sistema che raccoglierà
intorno a sé la generazione crescente. Non è che un sistema,
ripetiamolo anche una volta, che noi abbiamo voluto accennare col
nome di Giovine Italia; ma questo vocabolo noi lo scegliemmo, perché
con un solo vocabolo ci parea di schierare innanzi alla gioventú
italiana l'ampiezza de' suoi doveri, la solennità della missione che
le affidano, le circostanze, perch'essa intenda come l'ora è suonata
di levarsi dal sonno ad una vita operosa e rigeneratrice. - E lo
scegliemmo, perché, scrivendolo, noi avevamo in animo mostrarci
quali siamo: combattere a visiera levata: portare in fronte la
nostra credenza, come i cavalieri del medio evo la tenevano sullo
scudo - però che noi compiangiamo gli uomini che non sanno la
verità, ma disprezziamo coloro che, sapendola, non osano dirla.
Vergini di vincoli, e di rancori privati, con un cuore ardente di
sdegno generoso, ma schiuso all'amore, senz'altro desiderio fuorché
di morire pel progresso dell'umanità e per la libertà della patria,
noi non dovremmo essere sospetti d'ambizioni personali, o d'invidie.
- La invidia non è passione di giovani. - Fra noi chi cura
gl'individui? chi move guerra a' nomi? L'epoca de' nomi è consumata;
siamo all'epoca de' principii; non difendiamo, né assaliamo che
questi, non siamo inesorabili che su quel terreno. Là è il perno del
futuro; là stanno le nostre piú care speranze. - Le generazioni
passano; i nomi e le battaglie intorno ad essi passeranno soffocate
dal torrente popolare, che sta per diffondersi. Stendiamo un velo
sui fatti che furono: chi può far che non siano? - ma l'avvenire è
nostro; le teoriche del passato noi le rifiutiamo pel tempo che
c'incalza. Noi cacciamo la nostra bandiera tra il mondo vecchio, ed
il nuovo - chi vuole s'annodi intorno a questa bandiera; chi non
vuole, viva di memorie, ma non cerchi di sollevarne un'altra,
caduta, e lacera.
Che se tra gli uomini a' quali l'esser nati in un'epoca anteriore
alla nostra ha stillato un dubbio nell'anima, che si voglia per noi
e per le nostre dottrine rimoverli dalla impresa, vi sono uomini(56)
che abbiano la canizie sul capo e l'entusiasmo nel core, uomini che
procedendo col tempo veglino(57) lo sviluppo progressivo degli
elementi rivoluzionari, e modifichino a seconda di questo sviluppo
il loro piano d'operazione, oh vengano a noi! guardino
spassionatamente alle nostre teoriche, a' nostri atti, ai nostri
affetti - e vengano a noi! Vengano, e ci snudino le ferite onorate
che ottennero nei campi delle patrie battaglie: noi bacieremo quelle
sante ferite; venereremo que' capegli canuti; accetteremo il loro
consiglio, e raunandoci intorno ad essi, li mostreremo con orgoglio
a' nostri nemici sclamando: noi abbiamo la voce del passato, e
quella dell'avvenire per la nostra causa!
Sia dunque pace! - Pace è il voto dell'anime nostre. In nome della
patria - in nome di quanto v'è di piú sacro, noi gridiamo pace! -
L'accusa di seminar la discordia ricada sulla testa degli uomini che
si gridano liberi e non ammettono progresso nelle cose umane - che
parlano di concordia e accumulano le interpretazioni maligne e i
sospetti sulle parole proferite candidamente - che predicano la
unione, e schizzano il veleno sulle intenzioni. - Con questi, non è
via d'accordo possibile.
Giovani miei confratelli - confortatevi, e siate grandi! - Fede in
Dio, nel dritto, ed in noi! - Era il grido di Lutero, e commosse una
metà dell'Europa. Innalzate quel grido - e innanzi! I fatti
mostreranno se c'inganniamo, dicendo che l'avvenire era nostro.
Mazzini.
ORAZIONE
PER
Cosimo Damiano Delfante.
ORAZIONE
per Cosimo Damiano Delfante
Dentro povera tomba, in mezzo a un'isola lontana dal nostro emisfero
giace il Fatale, che nessuna altra cosa ebbe di comune con gli
uomini tranne il nascimento, e la morte. Chi mai vorrà giudicarlo, o
chi volendo potrà? Tremi la gente d'interrogare quel sepolcro,
poiché le sorgeranno nell'anima siffatti pensieri, che ella poi
tenterà in vano sostenere, o definire. Educato a dolentissima
scuola, io da gran tempo ho appreso a diffidare di coteste azioni,
che i popoli chiamano virtú, e delle altre che si vituperano pel
mondo come delitti: conobbi l'uomo stimare le imprese dall'evento, e
ciò talvolta per ignoranza, spesso per malignità, spessissimo per
ambedue: - vidi sempre l'infamia aggravarsi sopra il caduto... Solo
perché caduto, onde io e piansi, e risi, e dubitai di tutto. -
Dunque con un cuore, che non si atterrisce, né s'infiamma per cosa
contemplata, anima grande, mediterò su di te. Molti dei tuoi
compagni ti posero in obblio; molti tra i tuoi servi ti
abbandonarono: molti ancora di quelli, che beneficasti ti hanno
tradito: la voce del poeta, che ti salutava Giove è spenta(58); tu
dormi polvere, e non coronata, la tua potenza divenne di una
memoria..., ma una memoria piú durevole dei secoli, che dall'alto
delle Piramidi stettero a vederti vincere le battaglie
egiziache!(59). Eterno tu avrai il dominio dei tempi avvenire,
perché la vittoria ha l'ale, non già la sapienza, né si rapisce la
fama come la corona. Tu fosti grande, e tale ti confessava anche
l'odio. Ora chi ti levò a sí stupenda altezza, la pietà, o il
terrore dei viventi? Quel forte nel canto, scorta amorosa dei miei
pensieri, lord Byron sorge severo e ti domanda: «Spirito tenebroso!
perché conculcasti la stirpe, che umiliando ti si prostrava davanti?
Tu potevi salvare, e l'unico dono, che facesti ai tuoi adoratori è
stata la tomba. O Dio! doveva il mondo essere sgabello a cosí
abbietta creatura?»(60). - Difenderò la tua causa. Dimenticando, che
veniva dagli uomini la voce: scegli la tua parte, e sii oppressore,
o vittima(61); non avvertendo al veleno, che si era posto dinanzi
per sottrarsi al patibolo, Giovanni di Condorcet irradiava di
speranza il tristo carcere e scriveva(62): doversi migliorare i
destini umani, gli utili ammaestramenti non potere riuscire invano;
averli la stampa diffusi per modo, che una nuova barbarie non
sarebbe sufficiente a sopprimerli, e la luce della filosofia tanto
penetrata nei misteri del sapere da poterne un giorno derivare
facoltà di vivere immortali, e notate, uditori, che egli teneva il
veleno davanti per fuggire il patibolo. Io per me penso, che questo
pur fosse lo scopo del Fatale, sebbene piú moderato siccome
conveniva all'indole di lui; e meditando sopra le sue azioni sembra,
che non repugnasse dal conseguirlo con le armi, con le leggi, e con
la religione. - Quando la fortuna del mondo lo condusse in Affrica
finse costumi da profeta, e le turbe lo dissero Sultano del fuoco, e
Sultano giusto(63); - tornato in Europa non depose il disegno,
favellò di destini, accennò stelle(64), e forse si tenne davvero un
eletto di Dio, - e forse egli era: temendo poi in queste nostre
contrade troppo scarso il frutto, che si ricava dalla fede, attese
il Sapiente a governare con la ragione, e compose un codice,
monumento di antica, e di moderna dottrina; ma le sorti non gli
arrisero del tutto in questo nuovo disegno, imperciocché lo stato
singolare del secolo presente voglia che l'uomo non sia tanto
scempio da lasciarsi andare alle superstizioni, né tanto incivilito
per soddisfarsi del nudo ragionamento. - Gli valsero le armi,
felicissime un tempo; una volta avverse, funeste per sempre. Il caso
lo pose in Francia, ve lo fermò l'occasione, ve lo mantenne il
destino; gli parve quel paese quasi un centro donde muovere le fila
della sua trama per la universa Europa... furono queste fila di
ferro, e di fuoco, eppure piú fragili del velo, che l'insetto
ordisce nell'angolo della sala: - disperdi l'opera dell'insetto, ed
ei tornerà a rifarla piú animoso di prima; turba l'opera dell'uomo,
e questi o disperato si asterrà dal riprenderla, o consumerà la vita
in vani conati per nuovamente comporla; quindi se io mal non veggo
il paragone torna in vantaggio dell'insetto!
Se tu dunque, o Fatale, concepisti il disegno di emendare le colpe
della creazione, nessun voto piú degno di essere adempito l'Angiolo
della preghiera presentò al trono dell'Eterno. - Forse teco rimasero
sepolti i destini del mondo, forse l'aquila imperiale fuggendo dalle
tue bandiere si portava la speranza, e non pertanto alla gloria, che
ti circonda potrebbe aggiungersi altra gloria piú splendida, voglio
dir quella di benefattore della umanità, e il tuo sepolcro potrebbe
annoverarsi tra i sacri pellegrinaggi.
Cosa importa, che il mio spirito contristato neghi l'umano
miglioramento, e dica: la guerra è in natura; notate Austin inglese
il quale dopo diciassette anni di continue fatiche, giunge appena a
mantenere in vita comune quattordici animali di specie diversa
pascendoli quotidianamente a sazietà(65); or dunque quanto piú dura
impresa fia quella di accordare gli uomini in pace poiché a loro non
fu concessa una somma di bene per soddisfarli tutti, o piuttosto
un'anima che si potesse soddisfare? Cosa importa, che dai climi, dai
costumi, dalle voglie contrarie io derivi argomento di guerra
perpetua? Cosa ch'io mostri le pagine della storia eternamente
contaminate dalle stesse rapine, dai misfatti medesimi? Cosa ch'io
provi la civiltà aver giovato agli uomini per commettere le colpe
con sottigliezza maggiore, e per cuoprirle con la ipocrisia
togliendo loro quell'unica parte, che avevano di buono, o almeno di
non tristo, la sincerità? Cosa, che io dichiari il pensiero di
sottoporre, il mondo ad un medesimo reggimento doversi lodare
piuttosto come mosso da un cuore sensibile, che da tenersi come
uscito da un cervello sano? E quando ancora questa sapienza diffusa
producesse alcun bene, potrei dimostrare come non essendo perenne,
né dapertutto uguale le sue conseguenze diventerebbero nulle. Dove
io questi, ed altri argomenti prendessi ad esporre, avrei reso un
mal servigio alla società, né tu rimarresti meno il Benefattore
degli uomini, imperciocché io mi sia instruito a considerare il
consiglio disgiunto dall'opera, e quando per impotenza riesce
inadempito ne attribuisca il biasimo a Colui, che potendo, non
concedeva facoltà bastanti per conseguirlo, e la lode a chi volle, e
non potè. - Ma io ho fede alla sentenza dell'Ecclesiaste: «Quello
che è stato è lo stesso che sarà, e quello che è stato fatto, è lo
stesso, che si farà: e non v'è nulla di nuovo sotto il sole. Evvi
cosa alcuna della quale altri possa dire: vedi questo, egli è nuovo?
già è stato nei secoli, che sono stati avanti di noi»(66). E quella
mano stessa, che apparve al convito di Balthazar(67) sopra le rovine
dei tempi trascorsi ha scritto la legge: Sii oppresso od oppressore.
Ho veduto la sapienza pellegrinare attorno la terra, e non posarsi
mai, e al suo partire sopprimere ogni traccia della dimora; - ho
contemplato un popolo crescere, allargarsi, e dominare per tutta la
terra, divenuto poi debole cadere per infermità interna, o per
guerra di fuori; cosí tra le nazioni di cui conserviamo memoria
avvenne ai Romani, cosí ai Longobardi, cosí ai Francesi sotto Carlo
Magno, agli Spagnuoli sotto Carlo V, nuovamente ai Francesi sotto
Napoleone, e forse esistono adesso due popoli ai quali si
apparecchiano gli stessi destini nelle ragioni del declinare, e del
sorgere. Quando io considero l'assiduo alternare di siffatte
vicende, esclamo dal profondo dell'anima: oh! perché non si posava
il tuo sguardo sopra la terra, che ti dette la vita! Nel modo stesso
col quale Dio creò la luce se profferivi la parola: Italia sia, e
Italia sarebbe stata. Se al volo antico drizzavi l'aquila romana,
meglio della tua francese avrebbe conosciuto; e con la piú robusta
percorso la via del firmamento; e se avversa ti stava la fortuna,
noi ti avremmo co' nostri petti difeso, superati e non vinti
giaceremmo insieme nella terra di Cammillo e degli Scipioni... ma
noi avremmo vinto perché la causa delle nazioni cimentata dal sangue
dei martiri termina sempre col trionfo, perché la parola del forte,
che spira in difesa della patria ha virtú di fecondare la sabbia del
deserto... e noi Italiani non siamo sabbia per Dio. - Ahimè! forse
anche questo è un delirio, e la differenza, che passa tra il delirio
del sapiente, e quello dello stolto consiste in questo, che il primo
ha potere di troncarlo, con un forse, mentre il secondo deve
continuarlo all'infinito! Cominciai col dubbio, ho concluso col
dubbio, valeva meglio tacere... pure qual altra scienza oltre il
dubbio conviene al nato per morire? Gli umani ingegni non distinsero
mai il bene, e il male: vana, ed incerta ogni cosa, certa soltanto
la morte; il periodo di vita, che percorriamo è assai piú breve di
quello, che sembra: due terzi della infanzia, e della vecchiezza
sono spesi nel sonno, un terzo ne consumiamo nella pubertà, e nella
virilità; l'uomo che vive ottant'anni, ne ha dormiti quaranta!(68)
Gli occhi ne furono concessi per contemplare la sciagura, e per
piangerla! E nondimeno fra tanto estremo di miseria vi han tali, che
godono tormentare l'anima del fratello, e seminargli il sentiero di
triboli. Verseremo noi l'ira di uno spirito ardente sopra di loro?
Imprecheremo scongiuri su la testa abborrita di cui la ricordanza
gli spaventerà piú dei propri rimorsi? Dire parole insomma, che
suoneranno loro piú terribili della chiamata dell'angiolo al
giudizio di Dio? No. Voi non siete feroci come Catilina, né simulati
come Tiberio, né maligni come i Borgia; abbietti, schifosi, meschini
non meritate né anche la fama di Erostrato, vivete... io vi condanno
a vivere, a rodervi nella coscienza della vostra nullità.
Lasciamo di coteste infamie, e di coteste miserie, leviamoci a
respirare un aere piú puro, e poiché di siffatta potenza ci erano i
cieli cortesi, sorgiamo a meditare le bellezze ideali, circondiamoci
d'illusioni, c'inebbriamo di gloria se di felicità non possiamo.
Favelliamo di gloria. - Napoleone Buonaparte tratto dalla volontà, e
dalle vicende muove in Egitto, lasciando la Francia temuta; e seco
parte la fortuna di Francia! Mentre egli vince alle Piramidi, al
monte Tabor, ad Aboukir, altri generali francesi le sue conquiste
perdevano. - Mantova presa, l'Olanda di Russi e Inglesi ingombrata,
la sconfitta della Trebbia, - l'altra di Novi - Massena, già folgore
di guerra, adesso condottiero infelice, Scherer respinto, Joubert
ucciso, Macdonald, e Moreau superati, ogni cosa in rovina. -
Napoleone Buonaparte udite le sinistre notizie, abbandonava
Alessandria, si poneva all'avventura sul mare; scampato dagli
elementi, e dai nemici, tornava a Parigi. Qui giunto, con tali
parole favellava al Direttorio: «Che avete voi fatto di questa
Francia, che tanto prosperevole vi aveva lasciata! Dov'era pace,
rinvenni la guerra, dove lasciai vittorie, ho incontrato
sconfitte... perché tanta miseria quando io vi consegnai i milioni
d'Italia? Che avete voi fatto di cento mila Francesi tutti compagni
della mia gloria? - Perirono»(69). Cosí rampognava per ira,
piú per arte. - Soppresso il Direttorio, ridotta in sue mani la
somma della Repubblica, pensa ristorarne la declinata fortuna, e
agevolmente il poteva, poiché seco era tornata la vittoria:
gl'impedimenti, che gli oppongono la natura, e gli uomini superava,
con sottilissimo ingegno; il forte Bard sfuggiva, a Chiusella, e a
Montebello vinceva, le pianure italiane occupava. Si affronta in
mortale combattimento co' suoi nemici nei campi di Marengo; cotesta
fu una battaglia di giganti; - l'Austria cadde; - l'Italia tutta in
poche ore tornò nel dominio Francese, il Genio del primo Console
prevalendo costrinse gli avversari a supplicarlo di pace.
Questi fatti raccontava la fama per le città italiane, sicché forte
se ne infiammavano le menti di quelli, che le udivano. - Era in que'
tempi nei giovani petti Italiani un desiderio, un anelito di
accorrere sul campo delle battaglie, che apertamente dimostrò, non
anco in essi morto l'antico valore, e santi furono allora i nostri
voti, imperciocché Napoleone fingendo amare le libertà italiane,
richiamava in vita la Repubblica Cisalpina. - Ah! furono inganni
cotesti... Ma l'Antomarchi applicando al cranio di Buonaparte il
sistema di Gall, lo trovò tanto potente simulatore(70), e il cuore
dei giovani si lascia cosí di leggieri prendere alle illusioni,
ch'io davvero tremo pel giudizio, che i posteri faranno su la
memoria di quel Grande, malgrado le mie difese; - pure se
gl'Italiani si lamentano, che tu non li abbia amati, non però ti
maledicono mai; essi avrebbero voluto difenderti col proprio sangue,
e con quello dei figli, essi quantunque da te delusi pregano Dio,
che ti perdoni com'eglino ti hanno perdonato. -
Nato da poveri genitori nel 1781, viveva in questa nostra patria
Cosimo Damiano Delfante. L'anima caldissima del giovanetto,
l'ingegno pronto ed il sentirsi forte gli facevano mal comportare
gli oscuri natali; - e l'esperienza insegna essere la ignobilità piú
che la chiarezza del linguaggio, stimolo acuto a ben meritare avendo
la natura concesso all'uomo maggiori potenze per acquistare, che non
per mantenere. Ora pervenuto Cosimo nostro al suo ventiduesimo anno,
incapace a reprimere il genio interno, si presentava al padre tutto
tremante, e gli diceva: «Chiamarlo la patria, né volere egli
rimanersi inoperoso alla chiamata; non badasse al momentaneo dolore,
tra poco la fama dei suoi fatti lo consolerebbe di mille doppi; gli
desse intanto la paterna benedizione». - Qual core fosse il mio, mi
parlava Giovacchino Delfante, il quale ottuagenario si vive con la
vecchia moglie Uliva Bujeri in Livorno, «qual core fosse il mio nel
sentire il disegno di Cosimo, pensatelo voi...» e fissatomi in volto
aggiungeva: « - No, voi nol potete immaginare perché dalla vostra
giovanezza suppongo, che non siate anche padre...» Il mio corpo
fremé per ogni fibra, l'anima si sollevò in un sospiro, e tacqui; -
egli riprese: «Dio me lo aveva dato per unico figliuolo, e Dio non
volle, che sostenesse la mia vecchiezza; - Cosimo fu di persona piú
alto di voi, e piú robusto assai; di sguardo benigno, se non che
quando lo vinceva l'ira, ne tremavano tutti; e pure malgrado il suo
impeto, le amarezze piú forti, che mi abbia apportate sono queste:
nella notte in cui arse lo Scipione, - voi avrete sentito da vostro
padre il caso dello Scipione, - era un vascello Francese, che
incendiò nella nostra spiaggia, chi disse in que' tempi per
negligenza, chi per malizia, e veramente in quella occasione si
commessero orribili fatti, pochi salvarono le vite, il legno deserto
lanciava da ogni parte schegge, e ferramenti infocati, le
artiglierie sparavano contro la città; quando giunse la fiamma al
magazzino delle polveri parve ne subbissasse Livorno; in quella
notte d'inferno, Cosimo non si ridusse a casa, e si rimase con molto
suo pericolo a contemplare dal molo cotesto spavento. - L'altro
dolore me lo dette nel '98, allorché vennero i Francesi a portarci
un palo, e un berretto, che chiamavano la libertà, e ci rapirono
monumenti preziosi, ed averi. - Il mio Cosimo non potendo soffrire
la superbia di uno tra costoro lo sfidava a duello; il repubblicano
non vergognò adoperare l'arme contro un fanciullo di quindici anni,
ma il figliuol mio per quello, che poi me ne raccontarono se la cavò
bene, perché senza che io ne sapessi nulla, aveva imparato di
scherma; - in cuore n'ebbi piacere, ma lo rimproverai comandandogli
per quanto aveva caro l'affetto di suo padre non ne facesse piú,
alle quali rimostranze, egli scusandosi, rispose: «Che il sangue
voleva la sua parte, e chi soffriva in pace l'ingiuria meritava
quella, ed altre ancora». Per quanto le mie povere facoltà lo
consentivano feci educarlo come meglio potei; tutto egli apprendeva
con prestezza maravigliosa in ispecie le lingue, e quando si partí
da Livorno sapeva il latino, il francese, e l'inglese, di piú imparò
il tedesco, lo svedese, e lo spagnuolo. - Io vedeva andare con lui
le mie speranze; l'animo mi presagiva male, rimaneva solo; pure egli
affermava chiamarlo in sua difesa la patria, sospirai considerando
che non avevo altri figli, e feci il sacrificio alla patria di
questo unico mio; - io lo benedissi: la povera Uliva, che dopo la
sua morte perdé alquanto del lume dell'intelletto, univa alla mia la
sua benedizione, piangendo come piangono le madri quando si staccano
da un figliuolo unico, e Cosimo anch'egli tutto in lacrime si partí
sul principiare dell'ottobre 1803». Mentre l'ottimo vecchio questi
casi mi raccontava, la madre udendo com'io mi fossi quivi condotto
per iscrivere la lode del suo figliuolo defunto, mi si accostò
vacillando, e con pianto dirotto prese a baciarmi il lembo del
mantello! - -Volli consolarla, e non trovai la parola.
In questa maniera Cosimo Delfante, separatosi dai suoi genitori,
giungeva a Reggio, e quivi volontario il 22 ottobre 1803, indossava
la veste del soldato. - Egli però non era uomo da starsi lungo tempo
confuso col volgo, e infatti da una patente autentica della
Repubblica italiana io ricavo come dopo tre giorni lo creassero
caporale, dopo otto sergente, dopo ventuno al grado di sottotenente,
lo promovessero. Nel 14 aprile 1804, il Vice-presidente della
Repubblica italiana Melzi di Eril, innamorato delle ottime qualità
del nostro concittadino, desiderò che col grado medesimo passasse a
far parte della guardia del Presidente nel battaglione dei
granatieri; e voglionsi qui riferire le onorate parole con le quali
il suo antico superiore Foresti gli accompagnava quest'ordine:
«Il capo non può abbastanza palesare il suo dispiacere per la
perdita al corpo di un ufficiale, a che per la sua moralità, zelo,
ed intelligenza si è distinto nei differenti gradi da lui occupati
nella mezza brigata; si compiace però di vederlo collocato in un
corpo ove piú vasto campo gli è aperto per dimostrare i suoi
talenti, e non dubita, che saprà con la sua condotta meritare la
stima, e l'affetto dei nuovi superiori, e camerata, e conservarsi
cosí la vantaggiosa opinione, che lascia di lui nella seconda mezza
brigata».
Esaminando le poche carte, che per fortuna avanzano di questo
valoroso, trovo una lettera del Ministro della guerra a lui diretta
con la quale gli raccomanda di trasferirsi nei dipartimenti
dell'Olona, del Lario e del Serio per accogliere que' giovani che
mossi da entusiasmo volessero militare per la patria, e poco sotto
aggiunge molto promettersi dall'opera sua come quello, che aveva
grandissima influenza per le sue relazioni ne' mentovati
dipartimenti, e pei suoi modi cortesi riusciva gradito
all'universale. - Veramente Cosimo Delfante avrebbe con buone parole
persuaso i piú schivi, ma giova ripetere come la gioventú italiana
non abbia bisogno d'invito per correre alle armi. - Ricorda la
Storia come nel 1812 essendo stata imposta l'estrazione su i
conscritti del cantone di Chivasso dipartimento della Dora nel
giorno decimo di ottobre, i giovani di Chivasso, e Varlengo
comparissero, quelli di Brandizzo divisi dai torrenti Orco, e Malone
gonfi per insolita pioggia mancassero; non era da tentarsi il guado,
che l'acqua menava giú a furia, e non si trovavano barche. - Il
Viceprefetto saputa la cosa aggiornava la estrazione al sabato
venturo; - appena egli aveva profferito il decreto, i giovani di
Brandizzo grondanti acqua gli appariscono davanti: - non avevano
quei magnanimi sostenuto, che si fosse detto di loro: - i
Brandissesi mancarono alla chiamata, dell'onore, e poiché tentati
diversi argomenti per traghettare il torrente riuscirono invano, il
piú robusto tra essi si lanciò nell'acqua, prese la mano al
compagno, e questi a un altro, e cosí procedendo formarono una
catena da una sponda all'altra, e con molto pericolo non meno, che
con gloria immortale superarono la corrente(71). Tal era in que'
tempi, e tale sarà, dove l'occasione si mostri, l'ardore della
gioventú italiana! -
Tornando adesso al nostro concittadino Delfante ho narrato in qual
modo nel periodo di pochi giorni dal grado di semplice soldato a
quello di sotto-tenente nella guardia del Presidente pervenisse. A
tanto gli valsero l'ingegno pronto, le cognizioni acquistate; adesso
ardeva distinguersi con qualche bello atto di valore, né imperando
Napoleone Buonaparte era lungamente da aspettarsi il modo.
Male comportarono gl'Inglesi la pace d'Amiens conchiusa il 23 maggio
1802, e fino da quel tempo Sheridan aveva dimostrato qual fosse
l'opinione del pubblico, intorno ai patti nella medesima stabiliti;
mandarono pertanto a lord Whitworth(72), ambasciatore a Parigi,
perché ordinasse al governo di Francia sgombrare immediatamente
l'Olanda, concedere per dieci anni all'Inghilterra il domino di
Malta, e Lampedosa; se no, rompesse la guerra. - L'esercito inglese
è fatto prigioniero nell'Annover, il duca di Cambridge scampa
malapena fuggendo, l'Elettorato cade in potestà dei Francesi. -
Napoleone apparecchia a Bologna sul mare le armi per condurre la
guerra nelle Isole britanniche; al punto stesso scuoprendo le lunghe
arti, sopprime ogni apparenza di uguaglianza, e desidera dominare
solo su la Francia e l'Italia.
In Francia lo acclamano Imperatore tutti, meno Carnot.
L'Italia non può, né vuole contendergli il principato, egli prende
di sua mano la corona da gli altari; e se la cinge al capo, e
reputando fermare eterne sul capo la potenza, e la vita, esclama
nell'orgoglio dell'anima: guai a chi la toccherà! Dio la toccò, Dio,
che distrusse con la corona la testa che la portava.
Adesso pensoso quel mirabile politico Guglielmo Pitt sopra i destini
della patria, volendo volgere altrove la tempesta, ordina nuova lega
con Russia, e con Austria. La Baviera sorpresa cede alle armi
tedesche. Muove Napoleone al soccorso e seco le milizie italiane, e
il nostro Delfante; seguendo le arme del Fatale egli vide nemici con
la prestezza del desiderio dispersi, Ulma caduta, Vienna presa, lo
Imperatore fugato; e Russi, e Tedeschi apprestargli nei campi di
Osterlizza una nuova vittoria, nissuna forza pareva potesse
resistere a quel Terribile; dodici generali tra russi, e tedeschi
spenti sul campo, quarantacinque bandiere, centocinquanta cannoni
ornarono il trionfo dei Francesi, uno degl'Imperatori chiedeva pace,
l'altro per soverchia generosità lasciato andare. -
Cosimo Delfante operò in questa impresa prove di valore, e ne venne
ricompensato col grado di tenente. Su le pianure di Osterlizza
quantunque inebbriato dalla vittoria non obbliò i cari parenti, che
stavano lontani trepidando per la sua vita, e scrisse loro del nuovo
grado, delle azioni fatte, di quelle, che statuiva di fare. - Chiesi
le lettere al padre, ed egli mi rispose, averle distrutte preso dal
dolore all'annunzio della sua morte. - Siccome io credo, che
l'affanno di un padre per la perdita dell'unico figlio in
qualsivoglia maniera si manifesti sia cosa sacra, cosí mi tacqui
sconfortato. -
A brevissima pace nuove guerre succedono. Insorge la Prussia. Vinta
a Schleitz, ed a Saalfeld, prostrata a Jena, e a Lubecca in quindici
giorni cessa di esistere quella potenza, che Federigo il Grande
aveva con tanto sangue, e con tanta politica instituita. - Torna la
Russia a tentare la sorte delle armi, e le riescono infelici a
Czarnuovo, a Pultusk, a Calymin, e sempre; perde altri 25,000 uomini
sul campo di Eylau, oltre a 60,000 su quelli di Friedland. -
Veramente io dubito forte, che i posteri vogliano aver fede in
siffatti racconti, ed anche i presenti gli stimerebbero esagerati
dove la turba delle madri, e delle vedove le quali tuttavia
piangono, veri non glieli attestasse pur troppo. - Conchiusa la pace
di Tilsith, Gustavo IV di Svezia ardiva solo opporsi alla potenza di
Buonaparte: a ciò lo inducevano le istigazioni inglesi, e la
cupidigia dell'acquisto della Norvegia. - Buonaparte sdegnando
adoperare il suo ingegno per opprimere cotesto avversario, manda
Brune, e con Brune il Gen. Pino, condottiero delle milizie italiane
di cui faceva parte Delfante. Adesso si narra come Pino procedendo
alla volta di Stralsunda affidasse la condotta di un buon numero di
soldati al nostro cittadino ordinandogli aspettarlo in certo luogo
determinato: andava, e attendeva il Delfante; vedendo poi, che
tardava, e dubitando che se ne fosse andato oltre, s'incamminava
animoso alla volta di Stralsunda; lo raggiunse dopo alcune ore il
suo Generale, e turbato non poco pel pericolo a cui si era esposto,
lo chiamò incauto, gli disse imprudente. - «Trovate dunque chi
meglio adoperi prudenza di me» rispose Cosimo, e se ne andava,
senonché richiamatolo il buon generale, dolcemente rimproverandolo
lo confortava a deporre lo sdegno, e a starsi di lieto animo,
ch'egli avrebbe pensato, secondo i suoi meriti, a ricompensarlo. -
Posto l'assedio intorno Stralsunda, certa notte il generale gli
commetteva portasse l'ordine ad un suo subalterno di avvicinare i
quartieri al forte dell'armata; provvedesse ad eseguirlo
celeremente, poiché quella stazione come troppo lontana, poteva da
un punto all'altro riuscire(73) piena di pericolo. Andava Delfante,
e trovato che il superiore si era dipartito dai suoi soldati per
darsi buon tempo, egli desideroso di corrispondere alla fiducia, che
in lui aveva riposto l'ottimo Pino, con singolare perizia operò in
modo, che il campo fosse mutato. Il generale soddisfatto per
quest'azione, appena n'ebbe inteso il racconto, postagli la mano
sulla spalla gli disse: «Tu sei un valoroso capitano» e fino da quel
punto Cosimo nostro tenne nella milizia quel grado. - Cadde
Stralsunda, imperciocché Gustavo avesse per difenderla la
pertinacia, non l'ingegno di Carlo XII, e fu smantellata da Brune;
cadde ancora dopo pochi giorni l'isola di Rugen, e cosí ebbe fine la
guerra della Pomerania Svedese.
Comincia la guerra spagnuola; guerra per la quale si conobbe quanto
possano i popoli sebbene inesperti dell'arte militare allorché
abbiano fermo di vincere, o seppellirsi sotto le rovine delle loro
città: - ogni goccia di sangue versato per la patria produce nuovi
difensori, e quelli spenti, altri, e piú fieri risorgono finché
l'oppressione non sia superata. - Ma da una parte non combatté sola
la cupidigia d'impero; la inquisizione soppressa, le barbare leggi
abolite, gli errori o distrutti, o diminuiti, le insolenze feudali
raffrenate dimostrano come ancora si volesse migliorare; né
dall'altra fu tutto amore di patria, ché vi si aggiunsero le
ignoranze superstiziose, e le ferocie di uomini di sangue. Ben fece
Napoleone, se il suo genio lo chiamava a mutare i destini degli
uomini, a costringerli onde i beneficii della civiltà ricevessero;
meglio operarono gli spagnuoli a rigettarli perché partecipati in
modo, che parevano una pena, e il benefizio per forza trasmesso
equivale all'ingiuria. Forse da ambedue le parti stava la ragione,
da ambedue il torto. Nuova, eppure a mio senno, maniera unica è
questa per considerare le storie dove l'uomo non voglia ricercare i
fatti dei suoi simili per dedurne offese, o difese a coloro, che li
operarono, sibbene ammaestramenti di esperienze per giudicare le
vicende attuali.
Il sig. cav. Laugier, nome carissimo alla gloria delle armi
italiane, in certa sua lettera scrivendo del nostro Delfante cosí si
esprime: «Reduce dai geli del settentrione, partiva alla volta di
Catalogna, desideroso d'imprendere geste maggiori. La battaglia di
Trentapassos, quella di Molinos del Rey, l'altra di Valz, la presa
di Vique, l'assedio di Girona, la caduta di Hostalrich, e finalmente
un numero infinito di fatti di arme levarono tra i piú distinti il
nome dell'ottimo Delfante» e poco sotto, «prode quanto buono, e
generoso bisognava vedere con quale tenerezza si occupasse degli
amici, dei sottoposti, degli stessi nemici tostoché cessava lo
strepito della battaglia. - Oh! quante famiglie a cui egli salvava
vita, onore, e sostanze innalzarono al cielo fervidissime preci onde
invocare la benedizione su quell'anima veramente celeste; non v'era
superiore, non compagno, non subalterno, che non lo amasse, e
lodasse. A lui davvero poteva applicarsi la divisa di Baiardo: - il
cavaliere senza rimprovero, e senza paura». E questo è elogio con
tanta pienezza di animo gentile tributato alla memoria del compagno
defunto, da meritare, che almeno per una metà ritorni in onore del
cav. Laugier. - Il padre Giovacchino Delfante mi narrava siccome
presa Figueras il figliuol suo, capitanando una mano di soldati
rimanesse stretto all'improvviso da troppo maggior numero di milizie
spagnuole, le quali schernendo, e mostrando le armi, intimassero
agl'Italiani nostri la resa. - Cosimo voleva animare i suoi con la
voce, né, vinto dall'ira, potendo, dava con la spada assai piú forte
eccitamento, che con la bocca; si cacciò a corpo perduto nella
folla, lo seguitarono i suoi, e ne accaddero molte, disuguali
mischie particolari. Ma i nemici si addensavano su quel drappelletto
di valorosi, già molti ne avevano uccisi, piú molti feriti; - chiusa
allo scampo ogni via. - Delfante volge attorno lo sguardo, e veduto
in parte diradato il cerchio, si avventa su quella, si sgombra il
sentiero, e guadagna celerissimo co' suoi una forra vicina: il
nemico costretto a ridurre la fronte secondo l'angustia del passo,
perde ogni vantaggio, avvilito per le troppe morti rallenta
l'ardore,... cessa d'inseguire e il nostro cittadino cosparso di
sangue spagnuolo, e del suo, riconduce salvi i soldati al campo
italiano. Mentre cosí il vecchio padre esponeva le geste del figlio,
il sangue gli si era scaldato, e gli ornava il volto coi colori
della gioventú.
Meritavano queste prodezze conveniente mercede, ed egli già fino dal
principio della guerra era stato promosso al grado di aiutante di
campo del general Pino; ora per decreto imperiale riceveva l'ordine
della corona di ferro; poco dopo la stella della legione di onore.
Il cav. Camillo Vaccani nella sua opera degl'Italiani in Ispagna
rammenta onoratamente il nostro Delfante, allorché il general Pino,
circondato dal colonnello Marsshal, su le alture dei monti Ramannà
fece prigionieri 1500 Spagnuoli i quali accorrevano in soccorso di
Girona(74). Narrasi ancora ch'egli fosse dei primi a salire la
breccia del forte Monjoui presso Girona, dove dagli assaliti, e
dagli assalitori furono operate prove di prodezza inaudita.
In questa guerra spagnuola, io lo avvertiva poc'anzi, si vide fino a
qual punto estremo possano giungere o la ferocia, o l'eroismo della
creatura umana. - Agostina da Zaragozza, fortissima vergine, fuggiti
i difensori, abbattuta la porta Petrillo, non dubita dar fuoco ai
cannoni, sfolgorare i Francesi di mitraglia, e ributtarli fuori
delle mura; e quantunque l'obbligo mi costringa ad esser breve, a me
non riesce esserlo tanto, che lasci innominata per queste mie carte
l'illustre donna Lucia Fitz Gerard condottiera della crociata a
difesa di Girona(75). Nuove battaglie, dico, furono queste, che vado
raccontando, né da Napoleone aspettate; e' bisognava a palmo a palmo
conquistare il terreno, dispersi oggi i nemici tornavano piú infesti
e numerosi domani; il pugnale, e il veleno spensero piú vite, che
non le armi guerresche; ed è santo ogni mezzo purché ordinato alla
salute della patria. Ridotte in mucchi di sassi le mura delle città,
era mestieri combattere di contrada in contrada, di casa in casa, di
piano in piano; ardevano i cittadini le proprie dimore, e le rovine,
e sé stessi sopra gli odiosi stranieri precipitavano, oppure
scavavano buche, vi nascondevano polveri, e con la propria, la morte
di molti nemici procuravano. Le malattie, la fame, la dura
necessità, che domarono fin qui ogni ente mortale, non vinsero gli
Spagnuoli; - morivano, non si arrendevano. Alvarez, comandante di
Girona vicino a spirare anziché scendere alla capitolazione dismesse
la carica. Solo un dolore era comune ai vinti, quello di non esser
morti; rimproverati della feroce loro ostinatezza rispondevano: «Se
volete svergognarci davvero, fateci rampogna del viver nostro dopo
che giurammo morire; mostrateci gli edifizi, che pur sorgono illesi,
non i caduti, i prigionieri non i cadaveri.» - «Infelice popolo,
qual frutto ricavasti da tanti sagrifizi? Dove sono i tuoi
guerrieri? Quale hanno mercede nel riposo della patria? Come i tuoi
destini migliorasti? - Mi valgano le parole del paterno mio
amico l'illustre generale Colletta(76): «Alvarez morto in carcere,
Bleke, Fournays perseguiti, e disgraziati: O-Donnell, sentenziato
come traditore, schiva con la fuga la morte: Ballesteros, Morillo
vivono spatriati, o prigioni nella Francia: vive in Inghilterra da
fuggiasco il prode Mina: l'Empecinado è morto sul patibolo: ed in
somma dei piú chiari Spagnuoli chi fu spento per pena, o per nuovi
sconvolgimenti, chi piú infelice mena il remo, e chi (gli
avventurosi) stan liberi ma dimenticati, e mal visti». - Oh!
chiudete il volume della storia, troppo vi soverchiano le memorie
dei misfatti, e delle sventure onde l'uomo possa percorrerlo senza
sentirsi l'anima travagliata da infinita tristezza. - Salomone
profeta apertamente lo insegna: «Non acquistate sapienza, perché in
essa si contiene altissimo affanno; non accrescete la scienza,
perché in essa è perturbazione di spirito: il ricercare per molti
libri non mena a nulla, e la frequente meditazione inaridisce la
carne»(77).
Ora il mio subbietto mi stringe a raccontare altre guerre, altro
dolore. Due colossi si stringono in battaglia di morte. Pare, che
potenza umana non potesse superare il Fatale, perché i geli, il
fuoco la fame si unirono in lega co' suoi nemici, e allora soltanto
ne rimase abbattuto, né meno si voleva per abbatterlo. - Nel giorno
22 giugno si apre la impresa russa. Quante speranze affidavano la
Francia! Un capitano, che non conobbe mai fuga, un esercito provato
di oltre 500,000 uomini numeroso, generali valorosissimi; però
sembravano le parole profferite in quei tempi da Napoleone profezia
del futuro:
«Noi non ancora degenerammo, siamo gli stessi di Osterlizza,
varchiamo il Niemen, la seconda guerra contro la Russia sia non meno
della prima gloriosa alle armi francesi, e imponga termine alla
influenza russa, la quale da ben 50 anni turba le condizioni di
Europa»(78). Napoleone traghettata la Dwina, espugna il campo
trincerato di Drissa, rompe il nemico, lo insegue fin presso
Polotosk; - proseguendo il cammino, valica il Boristene, vince a
Krasnoie, supera di nuovo i nemici a Smolensko, arde la città; -
continua la via, giunge alla Moskowa. Le storie moderne non
ricordano battaglia piú sanguinosa di quella, che s'ingaggiò su i
campi di Borodino; vi piansero i russi morti 30,000 soldati, 40
generali; non si contarono i feriti. Mi sia concesso dilungarmi
alquanto nella narrazione di questa battaglia, avvegnaché
gl'Italiani nostri la vincessero, e Cosimo Delfante vi operasse
prove mirabili. La somma delle cose si era ridotta su certa eminenza
coronata da fortini commessi alla difesa del generale Ostermann, e
divisa dai Francesi mediante il burrone di Goriskoi. - Augusto
Caulincourt, generale, guidando la seconda divisione dei corazzieri,
con imperterrito animo si caccia giú del dirupo; fulminato dalle
batterie nemiche perde la vita; indietreggiano i suoi. Allora il
rialzo parve convertirsi in vulcano: ne uscí prima una tempesta di
fuoco, poi i cavalieri russi per calpestare i corazzieri respinti.
Mentre in questa parte la fortuna favorisce alle armi di Russia, il
principe Eugenio con l'esercito italico investe di fianco il
fortino. I Russi capitanati dal general Likaczen sostengono
francamente l'assalto. Cosimo Delfante considerando il poco frutto
che si ricava da quel trarre di lontano, e l'indugio mortale,
dispone avventurare un urto disperato; accennato ai prodi compagni,
nulla badando alle schegge striscianti intorno al suo capo, si
spinge primo contro il ridotto: all'urto disperato oppongono i Russi
disperata resistenza, rifiutano i quartieri, antepongono la morte
alla resa; - rimasero tutti miseramente trucidati. - Likaczen,
capitano infelice non codardo, sdegnoso di sopravvivere ai suoi, si
precipita tra le file italiane cercando la bella morte, e
gl'Italiani in quella ebbrezza di sangue cupidi di vendetta
gliel'avrebbero data, allorché Delfante gridava: «si rimanessero,
volere il russo un duello, e a lui appartenere per diritto». Cosí
dicendo lo affronta, e lo disarma. Likaczen, fermo di finire la vita
tratta una pistola se la volge alla tempia, e qui pure Cosimo lo
trattiene, e confortandolo con animose parole, lo consigliava a
vivere e gli rendeva la spada. Il principe Eugenio lo creò aiutante
comandante dello stato maggiore sul campo di battaglia, dicendo ad
alta voce: «Valoroso Delfante, quest'oggi ti sei comportato da
eroe»(79). - Vinta la battaglia di Borodino, Moscua viene in potere
dell'armata francese. Fin dove poteva salire la potenza del Fatale è
ormai salita, adesso sentirà come siano amari i passi della fuga,
come lacrimose le vittorie peggiori delle sconfitte, come duro
l'esilio! - Gli storici di questa impresa scrivono che meno
sfortunosa sarebbe riuscita la ritirata dove Napoleone avesse preso
il sentiero di Kalouga, e di Toula per alla Lituania, e parve che a
lui pure piacesse il disegno, e gl'Italiani con gloria eterna
vincendo a Malo-Jarolavetz, gli sgombravano i passi, ma o il destino
lo accecasse, o meglio di quello possiamo supporre noi prevedesse,
ordinò la ritirata a Smolensko. Le sventure della grande armata
furono descritte; qualcheduno, che le vide, vive tuttora per
raccontarle, e i popoli atterriti conoscono come reggimenti interi
abbracciatisi per ischermirsi dal freddo durante la notte fossero
contemplati alla mattina vacillare, e cadere senza, che se ne
rilevasse pure uno; udirono le genti come gli umani cadaveri
servissero a mantenere il fuoco per riscaldare i mal vivi, e questi
piegarsi avidissimi su quelle orribili fiamme, e venire al sangue
onde ributtarne gli accorrenti, finché spinti sovr'esse mentre
studiano fuggire la morte minacciata dal gelo, muoiono miseramente
abbruciati: tali e piú tremende sventure ascoltammo, sí che i
tormenti dell'inferno di Dante ci parvero fievole immaginazioni a
confronto di queste verità. - Il 13 di novembre 1812, l'esercito
d'Italia ridotto a 5000 ordinati, e due volte tanti tra donne,
infermi per malattia naturale, o per ferite, ed altra gente di ogni
maniera, lacerati senza posa ai fianchi, e alle spalle dai cosacchi,
giungeva a grande stento su la sponda del Wop; due mesi prima era
ruscello, adesso spaventoso torrente, vollero costruirvi un ponte
co' legni delle case vicine, ma quelli, che vi si erano riparati,
mostrarono contrastarle col ferro; tentarono traghettare i cannoni
carreggiandoli su le acque gelate; il ghiaccio si ruppe, cannoni, e
cannonieri sprofondando scomparvero per sempre; frattanto il giorno
declinava, il freddo si faceva piú intenso, i cosacchi impazienti di
strage e di rapina ingrossavano. Gli artiglieri italiani, quantunque
presso al morire desiderano rallegrarsi il cuore con una qualche
vendetta, e abbandonati i bagagli si ritirano; sopraggiungono le
torme dei barbari, stendono le mani alla preda... una traccia di
polvere accesa dai nostri artiglieri appicca il fuoco ai cassoni
delle munizioni di guerra; - rapitori, e rapine vengono con
miserabile eccidio sbalestrati per aria. - Animoso, non utile
conforto; nuovi cosacchi piú inferociti di prima tornano
all'assalto. - Di su, di giú, come finsero gli antichi cantori dei
dannati lungo la sponda dell'Acheronte andavano i nostri per la riva
del Wop, ponevano un piede per iscendere e non si attentavano; que'
ghiaccioli taglienti, le acque grosse, l'altra sponda, lontana
atterrivano i piú forti; in questa le minaccie dei vincitori, e gli
urli dei vinti cresceano, e si udiva all'intorno un suono di pianto,
un gemere confuso, un invocare, e un imprecare il cielo, un
chiedere, e non trovare soccorso, che rifiniva il cuore di
acutissimo spasimo. - Il Viceré pensoso non sapeva a qual partito
appigliarsi; - leva gli occhi, e guarda fisso Cosimo nostro; questi
intende qual cosa gli domandasse il buon principe col guardo, dacché
con la voce non osava manifestargliela, si trae il cappello, lo
agita in segno di sicurezza, e si lancia nel fiume; molti come lui
avventurosi toccarono la riva opposta, molti non la toccarono; - ma
senza Cosimo Delfante sarebbero morti tutti(80).
Mi avvicino a descrivere la morte di questo valoroso. Correva il
giorno 15 di novembre, quando il principe Eugenio con alcuni dei
suoi si dilungava da una torma di gente disordinata, infelice
residuo dell'esercito d'Italia; all'improvviso lo circondano molte
migliaia di Russi capitanate dal generale Miloradowitch, e
gl'intimano la resa; - la gente, che seguitava Eugenio facendosegli
intorno lo scongiurano ad allontanarsi finché n'è tempo, salvasse
gli avanzi dell'armata, ella penserebbe di per sé stessa alla sua
salute; repugnante, Eugenio abbandona quel pugno di prodi, raggiunge
i suoi, ed ingaggia battaglia su i piani di Krasnoie. La colonna dei
fuorviati rimasta priva di capo si ordina sotto il tempestare delle
palle nemiche, e composta in drappelli serrati dà dentro alle file
dei Russi; erano 1500 contro 15 e piú mila nemici; - questi
pensando, che volessero deporre le armi, aprono la fronte, e li
lasciano entrare; quindi vedendo com'eglino non si disponessero a
nessun atto di ossequio li pregano a dimettere ogni tentativo di
resistenza; rispondevano combattendo; sdegnosi i Russi li fulminano
con tutti i cannoni; meglio di mezzi cadono, gli altri continuano; i
Russi sia maraviglia, o terrore non osano toccarli, ed essi
orribilmente laceri si riparano entro le linee italiane, le quali
gli accolsero con altissime grida di gioia. - Ora i Russi inseguenti
l'armata d'Italia appoggiano la destra a un bosco, la sinistra alla
strada maestra. Eugenio studiando di sgombrare il cammino oppone la
seconda divisione alla sinistra dei Russi, la prima alla destra, nel
centro mette la guardia reale, la divisione Pino in riserva, gli
sbrancati si celano in certe macchie dietro l'ala destra del
generale Pino. - I cavalieri russi dànno la carica; respinti dai
nostri composti in battaglione quadrato cominciano a sfolgorare con
la mitraglia, e gl'Italiani di tutto manchevoli mal potendo
rispondere a que' fuochi, soffrono gravissimi danni. - Eugenio si
affanna a provvedere, e spinge la seconda divisione contro il fianco
destro del nemico, ma oppressa da un fuoco terribile e da una
cavalleria numerosa, si ripiega anch'ella in battaglione quadrato.
Rimasta per siffatta maniera scoperta la sinistra della guardia
reale, i dragoni di Kargonpoll e di Moscou si sforzano romperla;
ributtati aspramente non replicano l'assalto. Il Viceré favellando
agli ufficiali circostanti domandava a chi di loro con alquanti de'
piú valorosi desse il cuore di procedere lungo la strada maestra,
per raccogliere la prima divisione. Si offriva volenteroso Delfante,
e seco lui 200 spontanei. Quasi presago esser coteste le sue ultime,
operò prove di stupendo valore; lanciandosi con quel drappelletto
contro la foga dei cavalieri russi li trattenne, e convertí la
battaglia in molti combattimenti a corpo a corpo; ferito nella
tempia non si rimosse, né fece sembiante di dolore, o di terrore;
continuando la mischia venne di nuovo ferito sul ginocchio, e
sebbene la virtú vitale per la perdita del sangue appoco appoco in
lui si estinguesse, non pareva che pensasse a posarsi. Un generoso
Francese, il signore di Ville-Blanche, vedutolo tutto sanguinoso lo
tolse per le braccia, e facendogli forza lo trasse in disparte per
fasciargli le piaghe. - Sopraggiunse Eugenio, e chiamatolo a nome lo
conforta a darsi coraggio: «Altezza, risponde Cosimo, io mi sento
morire, vi raccomando la mia famiglia». - Compiute appena le parole,
una palla di cannone gli rompe le spalle, e spicca la testa dal
busto al Ville-Blanche. Il viceré si allontanava smarrito, i
duecento compagni del nostro eroe morirono tutti, ma prima di
cadere, nel sangue dei nemici lo vendicarono. -
Dove giacciono le ossa di Cosimo Delfante, onde se qualche suo
patriotto pellegrinasse in quelle remote contrade invochi sopra di
loro la pace dei forti? - La pianura di Krasnoie è grande, e va
ingombra d'infinite altre ossa; eppure alle sacre reliquie manca, o
Italiani, non solo l'onore del sepolcro, ma nessuno tra voi ebbe fin
qui anima potente a diffondere su que' campi di gloria la luce del
canto.
O Italiani, non amate voi vostri morti? L'inno della lode tacerà
dunque pei defunti perché questi non dieno né speranze, né doni? -
Sovente però il turpe lusinghiere del vivo null'altro consegue dalla
sua viltà tranne una speranza delusa, mentre il celebratore dei
morti nel compartirla altrui acquista fama. Pochi furono gl'Italiani
scrittori i quali di conveniente elogio placassero le ombre dei
nostri defunti, la qual cosa dimostra quanto vada ingombra la mente
dei troppi di paura, e di viltà, quanto nei pochi sieno grandi e
l'amore, e l'ardire; - benefizio estremo, che la fortuna o il
destino concedono alle nazioni cadute di condensare le virtú antiche
della massa del popolo in alcuni magnanimi, quasi scelti custodi di
un deposito sacro; io poi non sono un magnanimo, ma nel mio cuore
arde una fiamma di vita, e non temo con forti accenti rilevare le
glorie dei nostri valorosi; - e felice la patria quando la lode dei
trapassati non vorrà considerarsi come esperimento d'immaginare
arguto, o di ornato scrivere sibbene come ufficio cittadino. -
Veramente a noi non dovrebbe esser mestieri l'andare con tanto
studio ricercando le geste dei nostri guerrieri se piú fosse stato
generoso quel popolo di cui abbracciammo la causa; - sconoscente! ei
rifiutò far menzione dei nostri, egli usurpò le nostre glorie(81):
italiano, e non francese fu il soldato il quale mezzo sepolto dalla
neve nelle lande di Russia nessun'altro pensiero ebbe presso alla
morte se non quello di porre in salvo la stella dei prodi, che
acquistò combattendo sul campo di Vagria: popolo sconoscente!
dimenticando, che noi col nostro sangue ti acquistammo potenza, e
onde meglio ci gravasse il giogo francese pugnammo con mani italiane
poiché(82) il Fatale, quantunque nato di questa terra temendo nella
nostra libertà il tuo servaggio negò di rompere le antiche catene,
tu applaudisti al sussurro poetico di uno tra i tuoi il quale,
seguitando i canti del fanciullo Aroldo, come la iena i passi del
leone, osò chiamar noi polvere di uomini!(83). Oh! Aroldo si beava
nel sorriso del cielo italiano, e gemé considerando, che cuopriva
una terra addolorata, e quel suo gemito ci consolava di un secolo di
sventura. - Barbaro straniero, che insulti l'angoscia solenne di un
popolo caduto, possano le tue parole tornarti amare su l'anima
quanto la maledizione di tuo padre moribondo. - Or non è molto,
quasi in ammenda di tanto delitto mosse da quel paese una voce di
conforto, e di lode a noi infelici Italiani,(84) ma la piaga fatta
dall'orgoglio alla sventura non cosí di leggieri risana. Tenete per
voi la lode, e l'oltraggio, noi né quella curiamo, né questo: Il
giudizio dei posteri veglia severo su le colpe dei popoli, e noi
fidenti ci commettiamo a quel giudizio.
Ora nuovamente mi è dolce volgermi a voi, giovani fratelli: - vedete
l'onore italiano come vilipeso! - Sentite qual ne corra bisogno di
provvedere alla fama nostra! - una gente, che altra volta chiamammo
barbara, come esempio di barbarie ci addita. - Siate grandi! - né mi
rispondete: - che giova affannarci? non hai tu scritto, che gli
uomini saranno sempre infelici? - Ma io ho scritto ancora, che voi
potrete diventare potenti; - e le mie parole erano di dubbio; -
assuefatto a dubitare di tutto per fuggire la pena di un sistema,
pensate voi ch'io volessi assumere la parte dell'Apostolo del male?
- Operiamo magnanimamente, non ci curiamo del fine: - forse l'antico
agricoltore non pianterà l'ulivo perché le sue mani non ne
raccorranno il frutto? - E forse io lessi male le pagine della
storia; - e forse l'affanno in cui andava sepolto il bel fiore dei
miei anni giovanili mi fece temere ov'era sicurezza; - chi sono io
perché mi crediate come a Profeta? - Non vi sarò compagno nel
sepolcro? - Sia adunque con voi anche quella speranza, che la natura
doveva avermi compartita; - e dove la pietà dei superstiti, fornito
questo terreno pellegrinaggio pel quale ho già stanche le membra, mi
credesse degno di una lapide, che mi distingua dal volgo dei morti,
possano i figli felici stender la mano su quella lapide, e dire:
«Egli ha mentito». Essi però non oltraggino la mia polvere, perché
se il decreto di mutare quelli, ch'io riputava destini si fosse
dovuto scrivere col sangue, io avrei dato il sangue, e del piú puro
del mio cuore - e se a me, come a loro fossero corsi favorevoli i
tempi, avrei forse agli antichi canti di questa nostra terra
aggiunto nuove melodie, e la gioia avrebbe afforzato l'ale dell'alta
fantasia, mentre ora di giorno in giorno s'illanguidisce
nell'amarezza, e nel dolore.
ROMAGNA
Quando ideammo la Giovane Italia, le sorti della Romagna pendevano
incerte. La nota presentata alla segreteria di stato di Gregorio
XVI, la sera del 21 maggio 1831 assicurava agli stati pontificii
riforme che costituissero un'era affatto nuova e felice. - La corte
romana dava invece illusioni e frodi, o minaccie. Ma le popolazioni
forti del loro dritto, e d'una promessa europea avevano assunta una
attitudine energica e deliberata, che avrebbe fruttato un
miglioramento qualunque, se l'intervento d'una forza brutale non
avesse troncato a mezzo le speranze autorizzate dalla diplomazia. -
Il popolo dall'impeto d'una rivoluzione caduta era passato ad una
opposizione parziale che non varcava i confini di ciò che i
gabinetti chiamano legalità. Il Papa esauriva tutte l'arti d'una
politica perfida per suscitarlo a moti dichiaratamente
rivoluzionarii. - Ma il popolo s'avvedeva dell'inganno e non si
dipartiva da un sistema d'azione lenta e pacifica, ch'escludeva ogni
intervento straniero.
Allora, noi avevamo in animo d'esporre in un quadro esatto la
condizione di Bologna e della Romagna: i diritti che la espressione
del voto comune avea posti in luce: le inchieste fatte, e non
contrastate: e le vie che rimanevano alle potenze perché la
rivoluzione inevitabile un dí o l'altro scoppiasse meno sanguinosa e
irritata dalla intolleranza d'una parte e dalla impazienza
dell'altra.
Era un tributo che si pagava per noi ad una illusione di giustizia
politica, che non esisteva se non nell'anime nostre. Guardando alla
importanza della questione che s'agitava, guardando all'utile che
sgorgava innegabilmente da un sistema di concessioni progressive,
unico sistema che valesse a indurre una pace che i governi
invocavano primi, guardando ai patti giurati, alla promessa sancita
da una conferenza di ministri europei, ai principii banditi da una
nazione grande a un tempo ed avida di tenere il primato della
civiltà, noi cedevamo ad una speranza, ad una lusinga che non fosse
spenta ogni generosità nei popoli. - E però il linguaggio nostro era
volto ad ammaestrarli delle condizioni nelle quali era posta una
gente insorta per eccesso di tirannide, caduta in fondo per troppa
credulità, schernita da quei medesimi, che l'avevano accarezzata di
lusinghe mortali. - Ci travolgeva un errore; e ne abbiamo rimorso;
però che siamo a tale di sventura e d'esperienza nel passato che
oggimai ogni errore è delitto. Questo errore noi lo scontammo
amaramente; e il grido dei nostri fratelli scannati nel nome di
Cristo dai soldati del pontefice a Ravenna, a Cesena, a Forlí, ci
suona tremendo all'orecchio come un rimprovero. - La diplomazia
europea non vide nei reclami legittimi d'un popolo mille volte
deluso che un pretesto all'intervento straniero. Le baionette
tedesche ci recarono solenne risposta. - Quattro potenze
dichiararono nulle e intaccate di ribellione le pretese, ch'esse
alcuni mesi prima aveano dichiarate giuste e fondate. Quattro
potenze diffusero colle loro minaccie il terrore sovra una
moltitudine inerme, incerta e divisa - poi, quando lo stupore ebbe
spento anche quel poco entusiasmo suscitato da una contesa civile -
quando l'oro ebbe stillata la seduzione ne' ranghi dei cittadini -
quando il mutamento improvviso ebbe scemata colla differenza delle
opinioni la forza della concordia - le potenze diedero il segnale, e
dissero alle bande romane: ferite il cadavere. - Quattro mila
soldati del pontefice s'affacciarono da un lato, dodici mila
tedeschi dall'altro. - I nostri erano 1603!
Cosí doveva essere. - Maledetto colui, che fida in altri che in se
medesimo!
Noi lacerammo lo scritto. - Ogni sillaba ci pesava sull'anima come
una condanna - e da tutto quel cumulo di conghietture, da quelle
parole di pace, da quella luce di speranza vilmente concetta, e
stoltamente nudrita, sorgeva un grido: guai a chi si commette alla
fede dello straniero! le illusioni della vittoria si convertono per
lui in derisioni d'inferno: i frutti ch'egli immaginava cogliere
colle altrui mani, si tramutano in cenere, come i frutti del lago
Asfaltide. Oh! non impareremo mai nulla dalle nostre sciagure? Non
impareremo mai, che lo schiavo non ha per sé(85) e che il proprio
braccio, e il proprio diritto? Noi calchiamo una terra la cui
polvere è polvere d'uomini venduti dallo straniero. Non v'è pietra
di tomba, non v'è rovina di monumento che non ci parli una
delusione, che non c'insegni un tradimento de' potenti che ci
sedussero alla confidenza per coglierci alla sprovveduta. E non
faremo senno mai della lunga vicenda?
Noi lacerammo lo scritto - però che non avevamo mestieri di snudare
agli oppressori la infamia loro, né volevamo levar la voce a
giustificarci della sommessione apparente. Le infamie sono palesi, e
la vera giustificazione d'un popolo oppresso è quella, che si scrive
col sangue degli oppressori. Né maledizione, né gemito. - Poi che
non abbiamo saputo maturare il tempo della vendetta, soffriamo in
silenzio: stiamo soli colla nostra rabbia: pasciamoci di furore
muto: non lo sperdiamo in lamenti, che nulla fruttano - è tesoro,
che dobbiamo custodire gelosamente - beviamo tutto il calice amaro:
forse un giorno, quando avremo esaurite l'ultime stille, frangeremo
quel calice.
Perché, a chi rivolgerci? - ai governi? cos'è per essi il gemito
d'una gente tradita? Son cinque e piú secoli, ch'essi trafficano di
noi come i mercanti de' poveri negri. Son cinque e piú secoli,
ch'essi non guardano in noi che come in materia di negoziati e di
protocolli. - Alle nazioni? - le nazioni stanno pei forti - e noi
non lo siamo: le nazioni non hanno finora simpatia per la sciagura,
ma per l'attitudine dello sciagurato, scendono nell'arena talvolta a
soccorrere al gladiatore morente senza batter palpebra - e noi
finora - convien dirlo e arrossire - abbiamo levata la mano prima di
averla adoperata sul nemico. - Da esse ci verrà forse un compianto
sterile e breve. Che giova il compianto? Hanno pianto anche sulla
Polonia. Hanno pianto, mentre un ministro d'un popolo libero ne
decretava la perdita come pegno di pace. Ma quel pianto ha forse
risparmiata una goccia sola del sangue dei prodi? Quel pianto ha
forse fecondata di nuovi difensori la polvere, dove cadevano i
primi? - Lasciate star quella polvere! non agitate il lenzuolo de'
morti! - Possono esse le vostre lagrime rianimare il cadavere?
Un giorno, quando convinti della onnipotenza d'un popolo che vuole
rigenerarsi davvero, noi ci saremo levati di dosso la vergogna e
l'oltraggio, alzeremo la voce, e narreremo a' popoli, che allora ci
stenderanno la mano, l'arti adoprate del tedesco voglioso d'un nuovo
dominio, per trascinarci a insurrezioni brevi, e non concertate - e
l'armi somministrate perfidamente, poche per la difesa, tante da
invogliare gl'incauti ad osare - e l'oro diffuso a promuovere le
divisioni tra le guardie civiche e le moltitudini - e le proteste di
pace fatte ad illuderci, e illudere un popolo vicino, mentre un
proclama pubblico imponeva la mossa alle truppe straniere - poi le
predicazioni furibonde de' preti che rinnegano ogni santità di
ministero: le calunnie versate nell'orecchio delle ignare
popolazioni: le stragi commesse sopra gente inerme, e tranquilla,
preparate con astuzia, e bassamente scolpate. - Quel giorno, verrà,
però che nessuna forza può far retrocedere il secolo, e i delitti di
sangue si scontano nel sangue - e allora noi potremo narrar queste
cose, e documentare la storia delle nostre sventure, senza astio,
senz'odio, senza rancore per la inerzia delle nazioni, perché noi
vagheggiamo da lungi la fratellanza europea, e serbiamo dentro tanta
potenza d'amore da affogarvi molti secoli di memorie. Ma ora,
fresche ancora le piaghe, calde le ceneri dei caduti a Forlí, noi
non potremmo rivolgere la parola allo straniero, senza che un alito
d'ira la facesse amara, e sdegnosa, senza che un fremito di deluso
vi scorresse dentro a convertirla in suono di maledizione. Però,
abbiamo risolto tacere per tutti, intorno agli ultimi eventi - per
tutti, fuorché pe' nostri.
E ai nostri, traviati sovente ne' loro giudizi dalle menzogne, che i
governi italiani astutamente diffondono, gioverà ridire, come dagli
ultimi fatti della Romagna debbano trarre conforto a sperare ed
osare, anziché scoraggiamento, o terrore. Gioverà convincerli, che
gli ultimi fatti travisati da' nostri padroni a trarne un tentativo
di rivoluzione assoluta, per millantare d'averla vinta una seconda
volta non furono in sostanza che conseguenze d'una discussione
municipale, d'una questione piú civile, che politica, questione che
né si doveva né si volle sostenere coll'armi dalle moltitudini, però
che la Romagna contempla, anzi i fati italiani che i propri! - e non
pertanto quel pugno di giovani, raccolto in armi, subitamente
assalito, era tale, che i pontificii disperavano vincerlo, se non lo
atterrivano colla minaccia di quattro nazioni, e colla mossa
dell'Austriaco. Gioverà mostrar loro i due vantaggi che sgorgano da
que' fatti, il primo riposto nella coscienza che ogni italiano può
trarre dalla lotta durata dalle legazioni contro la oppressione
papale; della unione universale in un solo voto di libertà; l'altro,
che deriva dalla complicazione delle differenze che regnano tra
gabinetti, aumentata dalla nuova occupazione tedesca e in oggi dalla
francese. - E noi ne parleremo forse distesamente nel secondo
fascicolo della Giovine Italia, dacché in questo non possiamo per
l'angustia dello spazio.
Ma i nostri concittadini della Romagna veglino da forti, e accolgano
la voce de' loro fratelli, che noi qui esprimiamo: vegliate, ed
unitevi: ritemprate il vincolo dalla concordia nel servaggio comune:
non vi lasciate sedurre a divisioni fatali da vanità meschine, da
rancori di municipio. Strignetevi nella comunione della sventura:
santificatevi nel pensiero della vendetta; però che la vendetta
della patria è santa di religione, e di solenne dovere. E sopratutto
non fidate nello straniero. Non fidate nello straniero, che vi reca
speranze nuove, poiché v'ha travolto nel precipizio: ritrarre il
ferro dalla ferita, poiché s'è immerso fino all'elsa, muta forse il
feritore in proteggitore? Non, fidate nello straniero, che
oggi sommoverà i soldati del pontefice a trucidarvi per ottener
vanto il domani d'averli frenati, o puniti. Non vi lasciate sedurre
da quell'arti: non vi lasciate adescare da quel finto sorriso. È il
sorriso dell'assassino sulla sua vittima. Ricordatevi dei vostri
padri. Ricordatevi che quei ferri, ch'ora s'ostenta di stendere a
serbare intatto l'ordine pubblico, e a tutela degl'individui, hanno
tal macchia di sangue fraterno, che veglia fra il tedesco, e voi,
come un decreto di Dio tra l'innocente e lo scellerato. - Curvate la
testa, poiché i fati lo vogliono, sotto il giogo abborrito; ma
frementi, vivi nell'odio, e col sospiro a quel giorno, che darà moto
in Italia al grido d'Unione, d'Indipendenza, e di Libertà.
Un Italiano.
P.S. - La occupazione francese, accaduta dopo scritto l'articolo,
complica gravemente la questione politica: la complica di tanto, che
forse a sciorla non varrà che la spada. E non pertanto noi non
vogliamo cancellare parole dall'ultime linee dello scritto. L'Arti
diplomatiche, e le paure de' gabinetti possono rimovere
momentaneamente le nuove speranze. Nuove combinazioni possono
differire lo scoppio degli odi celati, e giova, non obbliare come il
ministero Perier(86) è il ministero della pace à tout prix, e come
la esistenza sua è stretta a questa pace, mercata finora l'Europa sa
come. Chi decise la occupazione, commise un errore contro il proprio
sistema; le conseguenze possono uscirne prepotenti, ed irreparabili;
ma gl'Italiani, noi lo ripetiamo, hanno a fidare in sé, non in
altri.
Un cenno ad onore dell'estinto
PIETRO COLLETTA,
benemerito italiano, gia' tenente-generale,
e ministro della guerra a Napoli,
nel 1821.
Naturæ clamat ab ipso vox tumulo.
Ciascun giorno che si perde fra gl'immensi spazi del tempo, è per
l'Italia cinto di funereo lume; ciascuna contrada di quella
miseranda terra vede biancheggiare le ossa d'immensi martiri
sacrificati all'onnipotenza di un dispotismo contro del quale
alzarono la voce, ed osarono proclamare il diritto degli uomini:
tutta la penisola che dall'Alpi al mare siciliano si estende sembra
un vasto sepolcro, ove tra i gemiti de' traditi, e l'aggirarsi
d'ombre squallide, tremenda s'innalza la tirannide de' principi e
de' sacerdoti, e degli stranieri. - Da ogni regione Italiana sorge
eziandio un grido lugubre che chiede vendetta pel fiore de' suoi
figli caduti sotto la scure, o spenti fra ceppi, o finiti in
doloroso esilio, pel solo delitto di avere amato la patria...; o se
qualche generoso, accostando la mano alle tombe di quei trapassati
osasse rimuoverne le ceneri, udrebbe un sol fremito dai monti al
mare, ascolterebbe da ogni avello invocar la vendetta, - imperocché
vendetta chiedono quei che caddero nelle provincie napolitane, e
piemontesi, per aver dato fede alla parola dei Re, ed innalzati al
sommo impero due principi nutriti nel lezzo delle corti, e noti in
Europa per la sola infamia del tradimento: vendetta parimenti
dimandano coloro che un ministro di pace, mutato in carnefice di
oltremontano sire, spegneva sullo rive del Tevere, e nell'ubertosa
Romagna: - vendetta, fu l'ultima voce de' morenti di Modena e di
Sicilia: e vendetta infine invoca la spoglia di Pietro Colletta, già
consunta per tiranniche persecuzioni, - e del quale alla memoria io
discorro breve cenno; e il discorso, non pur depositato sul suo
tumulo come fiore che abbellisce le urne degli schiavi, - ma qual
pegno di animo libero ad uomo libero tributato, ma quale invito a
futuro riscatto.
Nella città di Napoli, di Antonio, avvocato, e Maddalena Minervino,
nacque Pietro Colletta, nel 1780: ad una vivacissima infanzia tenne
dietro un'ingegnosa giovinezza, passata fra i profondi studi della
scuola militare di quella capitale: e quando la patria salutò
l'aurora di una repubblica (che si spense quasi sul meriggio) pria
l'annoverarono i patrioti fra le loro fila come officiale
d'artiglieria, - e poscia l'ebbero a compagno della proscrizione che
una corte sleale fulminava, ad onta de' patti giurati e garantiti
dai rappresentanti delle prime potenze d'Europa: - indi, mutatesi le
fortune ed i tempi, e cacciati i Borboni nell'ultima Sicilia dalla
spada di Bonaparte, perveniva il Colletta ai sommi onori civili e
militari, e vi perveniva non senza fama d'intelligente
amministratore e di sagace militare. - Nominato Intendente nelle
Calabrie, Consigliere di Stato, Tenente-generale dello scientifico
Corpo del genio, e Direttore generale di ponti-e-strade; mostrossi
sempre, qual era stato nella modesta giovinezza, cioè, affettuoso
con gli amici e coi propinqui, amorosissimo della patria, e
protettore de' talenti. - Cadute poi l'armi dei Francesi, - e
ritornati i Borboni a ricalcare i troni abbandonati per viltà, e
riottenuti per opera straniera, disponevasi il Colletta a girsene in
volontario esilio, sapendosi quanta e quale fosse la fede de' reali
di Napoli; ma non glielo permettevano quei principi, che allora
fingevano vezzeggiare i liberali, - che anzi il destinavano al
comando della divisione territoriale di Salerno. - Assumeva
quell'impegno il Colletta, e con franchi accenti consigliava il
ministero di secondare il voto de' popoli che già chiaro appariva
per ottenere una Costituzione tante volte promessa dall'esule
Ferdinando; e poiché quei consigli non spiacevano ai ministri (o
almeno il dicevano), riteneva il comando, e sperava di essere un
giorno veramente utile alla patria; ma quando ritornavasi a quella
ferocia, ch'è il primo attributo dei Borboni, ed esigevansi
persecuzioni e rigori da ogni capo-politico o militare contra i
liberali, pria che contaminarsi e prestarsi ai voleri del
dispotismo, deponeva ogni pubblica cura, e ritornava alla vita
privata per continuare placidi studi che gli dovevano essere un
giorno di conforto nell'esilio.
Pacifico e ritirato egli se ne viveva dunque, quando si appressarono
i nembi; - né cariche occupava, allorché udissi l'accento della
rigenerazione sulla vetta di Monteforte - accento al quale risposero
tutte le provincie del regno, - e che fu poscia ripetuto su i santi
evangeli da un re, sulla tomba del quale pesa la maledizione de'
popoli, e 'l giudizio della Storia. - Infranto in quella guisa il
dispotismo, ricomparivano i benemeriti cittadini ai pubblici
ufficii, e con essi riedeva il Colletta al Corpo del genio; indi ne
andava Comandante supremo delle armi nella Sicilia, e finalmente sul
finir del gennaio veniva chiamato al ministero della guerra; - né in
tutti quegl'impieghi esercitati, smentiva le antecedenti pruove date
alla patria; - soltanto era anch'esso aggirato nella cabala che il
Principe-Vicario ordí onde ingannare un popolo, il quale fidente ed
ingenuo, erasi abbandonato nelle sue mani, e che tardi comprese
quanta simulazione e perfidia allignasse nel cuore de' Borboni.
Mancate le promesse, - calpestati i giuramenti col sussidio del Capo
della chiesa, e ritornato il Re colle austriache bandiere,
dilettavasi il Principe-Vicario di scoprire al truce Canosa quei che
credendo nella sua lealtà, i veri sentimenti di patriottismo gli
aveano svelati; - né fra coloro fu risparmiato il Colletta: egli era
reo di amare la patria: il principe adunque lo designava a Canosa, -
e quel sicario della legittimità lo condannava senza verun processo,
pria alla prigionia di sette mesi, e poscia ad un perpetuo esilio
nella gelida Moravia: in vano un cadente genitore reclamava il
figlio, - in vano i fratelli chiedevano, che davanti ai giudici si
esponessero le sue colpe, - tutto fu negato; - ei partí per la
Moravia, ed ivi rimase due anni ad attingervi il germe di quel
funesto morbo che il trasse a morte. - Deposto egli dunque
nell'esilio ogni pubblico pensiero, volgeva sovente lo sguardo alla
patria desolata, e desiava darle l'unico conforto che rimane
all'esule, - quello di scrivere i suoi mali; - e questo pensiero
mandava ad effetto, allorché, stabilitosi nella gentile Firenze,
addicevasi a scrivere le Napoletane Storie dai tempi di Carlo III
fino ai nostri giorni, e per fortuna dell'Italia compiva il lavoro
pria di morire: e noi diciamo per fortuna, poiché in esse sono
registrate le pagine fedeli delle turpitudini e de' delitti
consumati(87) dai re e dai sacerdoti pel giro di 50 e più anni. -
Questo lavoro, che tanti affetti destava nello scrittore, - che
tante memorie richiamava al travagliato suo animo, consumava il di
lui corpo, e già sin dall'anno 1829, ei mostrava nelle sparute gote
non lontano il suo fine: allorché le fasi del 1830, e le
persecuzioni del Governo Toscano che di nuovo esilio il minacciava,
accrescevano le sue sofferenze, e quasi a spettro vivente lo
riducevano, ed ei trascinavasi appena nel cammino della vita, quando
in sull'alba del 12 novembre 1831, compivasi la sua carriera, e
spirava col pensiero alla patria, agli amici, - ai congiunti.
Udivasi allora un sol gemito fra la gioventú Toscana, che a loro
padre l'aveano: coprivansi di mestizia i volti de' dotti, che loro
socio l'ebbero nelle letterarie ricerche; ne ripeteva la fama il
merito e la perdita, - gareggiavano Pisa e Livorno per accordare
alla sua memoria, i funebri onori: ciascun Italiano affrettavasi di
offrire un tributo alla virtú perseguitata: e un amico ancora (il
generoso Capponi, che nominiamo ad onore), offriva la tomba de' suoi
padri, e raccoglieva i resti inanimati di un chiarissimo uomo, -
d'un virtuoso cittadino, - e di un vero Italiano. In ogni contrada
dunque della piú colta provincia italiana compiangevasi il termine
immaturo dell'illustre esule; ogni cuor generoso ne sentiva
l'affanno: - solo i despoti sorridevano: - e mentre l'ipocrita
governo Toscano instruiva un processo contro l'immensa gioventú
intervenuta ai funerali, rallegravasi la corte di Napoli,
lusingandosi entrambi, cioè, l'uno che le sue mascherate prepotenze,
non si scoprissero, - sperando l'altra che la Storia non divenisse
di pubblica ragione, tanta ignavia per loro e pei discendenti vi
ravvisano. - Ma, noi proscritti, - nel giurar la vendetta de' nostri
perduti fratelli, e nel pronunziare la lode sul loro sepolcro,
smascheriamo l'ipocrisia del dolcissimo imperare Austro-Toscano, ed
imploriamo nel tempo stesso dagli amici dell'estinto Colletta la
pubblicazione di una Storia, nella quale stanno scritte a carattere
indelebile le note infami de' nostri re; e noi erranti senza patria,
traditi, venduti, lo dobbiamo all'Italia, avida di conoscere le
nequizie de' potenti che la opprimono; - lo dobbiamo infine allo
stesso Colletta, - ai suoi sofferti travagli, - al suo cenere, che
un giorno commisto a quello di tutt'i martiri poseremo sull'altare
della patria, ed all'ombra di quel vessillo tricolore che dovrà
sventolare un giorno dall'Alpi all'Etna, ed innalzarsi glorioso
sulle ruine degli scettri, de' troni, delle tiare e delle corone.
Gio. La Cecilia.
LA VOCE DELLA VERITÀ
Un giornale, pubblicato in Modena, intitolato la Voce della Verità,
conteneva in data de' 17 gennaio, nel numero 70, un articolo, del
quale ci piace riferire alcuni brani.
L'articolo incomincia con queste parole:
Un'empia associazione s'è formata in Marsiglia del rifiuto e della
feccia degli emigrati italiani, la quale impudentemente si dà il
titolo di Giovine Italia. Essa non accetta nel suo novero, che
quelli i quali son nati entro il secolo corrente... ond'esser certa
che il fuoco della gioventú spinta alle colpe dall'esempio e dai
dommi di una età corrotta e corrompitrice, non sia frenato da una
esperienza di disinganno. Essa ha per primo scopo quello di non
risparmiare spesa alcuna e pericolo personale per portare di nuovo
in Italia il fuoco della discordia, e della rivoluzione; essa ha per
secondo quello di pubblicare un giornale e diffonderlo nella nostra
bella Penisola, il quale serva alla Propaganda Infernale, e susciti
di nuovo alla rivolta ed al sangue................................
Noi compiangiamo la rovina ch'essi vogliono trarre sul loro capo e
sull'altrui. Intanto rendiamo pubblica questa infame intrapresa,
perché si sappia che la Voce della Verità raccoglie il guanto, che
costoro gettano all'Italia, e che combatterà le inique loro
dottrine. Entrino essi nel campo: noi stiamo mantenitori della
lizza. Operino essi in segreto; noi in pieno sole, e con alzata
visiera.
L'articolo cita i nomi de' pretesi capi dell'intrapresa - e tra
questi il nome di chi scrive queste linee.
Noi non avremmo insozzate le nostre pagine ricopiando coteste
infamie, se non ci fosse sembrato di rinvenire in esse la migliore
testimonianza delle nostre intenzioni, e del nostro dritto. Due
gioje concesse Iddio agli uomini liberi sulla terra: il plauso de'
buoni, e la bestemmia de' tristi - e quando noi sacrammo anima, vita
e braccio alla patria, guardammo davanti a noi, né curammo di voci
che si levassero dal fango a insultarci, o di pericoli che ci
venissero da' nemici alle spalle. Giurammo a noi stessi silenzio - e
non moveremo parola d'ora innanzi contro le mille accuse, e basse
calunnie che ci lancieranno dietro que' vili, la cui penna, come il
corpo della meretrice, si vende a chi piú la compra. Tra noi ed essi
la lizza è troppo ineguale; né gli uomini liberi s'hanno ad avvilire
scendendo a discutere coi carnefici. - Bensí, prima di procedere
sulla via, giova forse rompere una volta almeno il silenzio,
ond'altri non lo interpreti siccome paura. E d'altra parte, chi può
vedersi davanti la impudenza villana, e non maledirla? - Chi può
passare dappresso al calunniatore coperto, e non dirgli: tu se'
noto: rimanti infame e per sempre dinanzi agli uomini, e a Dio?
Uomini del Canosa, e del Duca! - non v'illudete. Non tentate ridurre
ne' confini angusti d'una associazione segreta, d'un consorzio
privato il voto universale in Italia contro di voi - contro la
tirannide, che promovete - contro i delitti co' quali la puntellate.
Non impicciolite lo spirito di progresso, che vi minaccia,
attribuendolo a pochi individui. Il decreto della vostra rovina vien
d'alto: vien dal secolo, che v'incalza, vi preme, vi mina per ogni
lato: viene dall'intelletto, che ogni anno sviluppa, commove,
suscita contro le vostre teoriche di sommessione abbietta, e
d'ineguaglianza: viene dall'odio alla tirannide ch'esercitate
tremenda contro ogni classe, che ponete a luce deforme in ogni atto
della vostra vita, che non tentate velare neppure colle cure date
alla prosperità materiale de' vostri sudditi. Quante sono le vostre
vittime? quante sono le famiglie che gemono sul destino d'un caro
proscritto? quante sono le madri, che balzano ne' sogni davanti alla
sembianza d'un figlio prigioniero, o spento per voi? quanti sono i
volti, che impallidiscono d'ira repressa al vedervi? - Numerate que'
volti, quelle madri, quelle famiglie; perché ognuno di que' volti vi
rivela un nemico, ognuna di quelle madri vi scaglia un anatema,
ognuna di quelle famiglie è un centro di congiura contro di voi.
Avete sagrificata la virtú, che v'era rimprovero, negletto o
perseguitato il merito, che paventavate nemico, usurpato il frutto
de' suoi sudori all'agricoltore colle dogane, co' dazi, colle
ruberie de' processi - e cercate la espressione de' pericoli, che
v'accerchiano in una forma di fratellanza? - Avete manomessa l'opera
della creazione, avete travolta nel fango la immagine di Dio, avete
convertito in casa di pianto il giardino della natura, punita la
parola, inceppato il core ne' suoi moti, tormentato il pensiero - e
vi perdete a dissotterrare i vostri nemici all'estero - e proferite
tre nomi?
Uomini di Canosa, e del Duca! - Napoleone ha segnata a Sant'Elena la
vostra sentenza - e chi siete voi per durare tiranni dopo Napoleone?
Il gigante de' secoli è caduto davanti all'urto della opinione - e
voi vorreste reggervi in faccia ad essa? - voi, forti soltanto della
nostra discordia? - E seguite - struggete - mozzate alcune teste di
martiri: rinasceranno a migliaia - spegnete i forti d'una città -
verranno dall'altre - ardete le case: edificatevi un trono sulle
rovine: regnate sovra deserti. - Oh! non v'è Dio? - non v'è il
rimorso? - non lo sentite? - non lo vedete simboleggiato fin nei
volti di satellite che v'errano attorno? - e quando, la notte, fra i
sospetti delle tenebre, fra i terrori del silenzio, ricorrete al
passato, o v'affacciate al futuro, - oh! dite, dite - non
intravvedete voi il rimorso? l'ultima visione del passato, e la
prima dell'avvenire non è forse la immagine del tempo, che vi numera
l'ore?
Là, dovete rivolgere le vostre forze. Là - ne' vostri delitti, e nel
tempo che premia, e punisce, è la Giovine Italia, che voi temete!
Da quaranta anni voi combattete questi uomini liberi, che affettate
di disprezzare. - Da quaranta anni avete lanciato lo spionaggio, la
baionetta straniera, il carnefice contro questa che voi chiamate
fazione, setta, congrega di pochi iniqui, feccia e rifiuto degli
uomini - avete troncate le fila presunte - avete immolati i piú
ardenti tra essi - e v'è forza ricominciare ad ogni ora - e v'è
forza confessare che perdete terreno: che i ribelli aumentano ogni
dí piú: che l'epoca è corrotta, e corrompitrice. Dieci anni
addietro, cinque anni addietro l'Europa era vostra: ed ora avete
perduto il Belgio, minacciato il Portogallo, la Germania, l'Italia.
- E compiangete la nostra rovina? - Oh! tenete il compianto per
quella dinastia in oggi errante in cerca d'asilo, sulla quale
fondavate tutte le vostre speranze. - Abbiate almeno la ferocia del
leone ne' suoi ultimi momenti, poiché la generosità non potete. -
Mostratevi a nudo, mostratevi con tutto il furore che v'agita, con
tutta la sete di strage, che vi governa. Ma non versate calunnie,
alle quali nessuno dà fede: non ritorcete in noi, in noi caduti
finora per dare al mondo lo spettacolo delle rivoluzioni come noi le
avevamo concetto, pure, innocenti, pacifiche, l'accusa di delitto, e
di sangue. Sangue! - Assassini di chi v'ha salva la vita, il sangue
d'Andreoli, di Borelli, e di Menotti v'affoga!
Noi trascorriamo - e sarà l'unica(88) volta - in un linguaggio che
non è il nostro; ma il sangue si precipita nelle vene all'udire
coteste accuse, al pensare in che mani è caduta la nostra Italia.
Oh! l'anima nostra era un sorriso per tutte le creature: - la vita
s'affacciava alla vergine fantasia come un sogno d'amore; e i moti
piú concitati del nostro cuore erano per la bella natura, per la
donna, ideata ne' primi anni giovenili, pel genio de' grandi
trapassati. - Chi ci ha messa la parola dell'ira sul labbro, se non
essi, gli oppressori delle nostre contrade, i tormentatori de'
nostri fratelli? - Chi ci ha rapita(89) la metà della esistenza,
chi, se non essi, ci ha stillato l'odio nell'anima? - L'odio! ci è
tale incarco, che vorremmo deporlo, anche colla vita, se fosse
nostra. Ma le teste de' nostri fratelli ci stanno innanzi
sanguinose, e l'ultime voci loro ci affidavano un tale deposito, che
nessuno può rinnegare senza delitto.
Ed oggi che noi alziamo la voce, in nome di tutti, oggi che noi
tentiamo pagare parte almeno del nostro debito, gli scrittori della
Voce della Verità ci accusano di operare in segreto, e millantano di
combatterci a visiera levata. - A visiera levata! Sí; colle
baionette d'intorno, e il carnefice a fianco. - A visiera levata! -
e chi s'attentasse di serbare in Italia alcuna, di queste pagine,
sconterebbe l'errore con una vita di dolore. - A visiera
levata! - Oh! noi l'alzammo la visiera: noi ci levammo davanti a voi
nella potenza della virtú, e della fede: ci levammo grandi di amore,
e di(90) confidenza delle moltitudini, che c'intendevano - e i
troni, le tirannidi, e voi sfumaste al nostro grido, però ch'esso
era il grido dei milioni conculcati, il grido di Dio che v'avvertiva
dell'iniquità vostra - e fuggiste vilmente - e mendicaste la spada
straniera a rifarvi il trono, che soli eravate impotenti a reggere;
ma noi abbiamo, poich'altro non potevamo, suggellata la nostra fede
sul palco: abbiamo sagrificati gli affetti che fanno cara la vita al
pensiero che Dio c'impose - ed oggi, proscritti, innalziamo la
nostra voce - e segniamo - e voi - voi vi ravvolgete nel velo
dell'anonimo!
Mazzini.
SOCIETÀ
DEGLI AMICI DEL POPOLO.
Quando la rivoluzione di Luglio diede speranza agli uomini buoni,
che il tempo fosse giunto in cui ogni cittadino chiamato ad
esercitare una parte di sovranità, è in obbligo di contribuire co'
lumi, col braccio, e col senno allo sviluppo progressivo d'un
sistema di libertà, e alla educazione nazionale, alcune riunioni si
formarono a Parigi, ed altrove, che a poco a poco acquistarono
carattere di Società popolari. Erano unioni d'uomini giovani, che
s'erano da gran tempo affratellati nella comunione degli studi,
dell'amicizia, e delle operazioni. Avevano cospirato insieme contro
la tirannide di Carlo X, dal momento in cui s'erano avveduti della
impossibilità di transigere, e che a rovesciare la forza non valea
che la forza. Avevano combattuto insieme nelle tre giornate, quando
Parigi non avea che un grido, e la bandiera tricolore risuscitava le
glorie della rivoluzione. Ottenuta la vittoria, il primo loro
pensiero fu quello di custodirla, e vegliarne i frutti; e bagnati
ancora di sangue, bruni di polvere e di fumo si costituirono di
mezzo alle barricate, trono popolare, amici, ed educatori del
popolo. Certo: il loro mandato non era meno valido di quello che
allegavano a impadronirsi della rivoluzione gli uomini d'una camera
eletta prima, che la nazione avesse ritirato il mandato, e risolto
di far da sé: formata sotto la influenza del potere caduto, votata
da Collegi elettorali sedotti dalle trame ministeriali, o atterriti
dalle baionette, giusta leggi coniate della dinastia fuggitiva.
Quello degli amici del popolo era mandato segnato col sangue del
popolo e il popolo un dí o l'altro se ne sovverrà.
In diritto, la riunione d'un certo numero di cittadini ad oggetto di
discutere i mezzi migliori per provvedere al buono stato della
nazione, non è delitto. Sotto l'impero d'una costituzione, che
accorda ad ogni cittadino il diritto di pubblicare le proprie
opinioni, la soppressione delle società pubbliche è, in tesi
generale, una illegalità. La stampa non è che una forma di
pubblicazione: la parola costituisce l'altro. Or chi direbbe la
parola dover essere piú serva della stampa? e donde trarre ragione
di differenza in faccia alla legge tra una società che parla, e una
società che stampa?
Per noi, il principio d'un governo libero è uno, le applicazioni
sono moltiplici. Il diritto individuale si stende, socialmente
parlando, fin dove incomincia il diritto altrui. I diritti politici
de' cittadini si stendono fin dove incomincia una violazione de'
diritti politici d'altri cittadini, una perturbazione nell'ordine
pubblico. Se una forza sottentra a interporsi fra questi due
termini, prima che siano giunti a un contatto di collisione, non v'è
libertà. La possibilità che da siffatte riunioni insorgano quando
che sia inconvenienti, non basta a discioglierle. Il principio di
prevenzione, logicamente applicato, e dedotto con tutte le sue
conseguenze, trascinerebbe con sé il diritto di sospendere ogni
libertà pubblica, o individuale, senza motivo. Adottate il principio
nella sua estensione: voi precipitate nell'assurdo. Ritenetelo in
certi confini, e vietatelo in altri: eccovi ricaduto nell'arbitrio;
voi confidate un potere indeterminato al potere esecutivo: voi
lasciate ad esso la scelta de' casi ne' quali conviene usarne; chi
v'assicura della sapienza dell'uso? Il governo sopprimerà in oggi
una società, pericolosa davvero; chi vieterà che domani i suoi
satelliti non ne sciolgano una innocente, e virtuosa? - La
giustizia, in uno stato ordinato con leggi stabili, non previene,
reprime. La riunione pone in pericolo(91) la cosa pubblica? o
commette azioni dichiarate colpevoli? - Punite le azioni: vegliate
la condotta di que' cittadini: intervenite, pacificamente quando vi
pare ch'essi stiano presso a traviare: convinceteli cogli stessi
mezzi di pubblicità. Fino a quel punto, stanno per voi diritti, e
doveri. Piú oltre d'un passo, sta la tirannide. In fatto, la Società
degli Amici del Popolo, non pose, sembra, in pericolo la cosa
pubblica, né commise azioni colpevoli in faccia alla legge, dacché
la legge non la colpí. Disciolta violentemente dal governo,
appoggiato sopra una disposizione legislativa pugnante coll'insieme
dei diritti sanciti dalla rivoluzione, e riprovata da' suoi organi
stessi dinanzi alle Camere, la Società si giovò dell'altro mezzo di
pubblicità a esporre i suoi pensieri alla Francia: cotesti scritti
sono appunto quei che hanno dato moto al giudizio, dalla cui
discussione è tratto il discorso, che noi qui pubblichiamo; e questi
furono dichiarati innocenti; la condanna severa pronunciata contro
alcuni degli accusati, è desunta dalle difese parlate all'Udienza,
non dagli scritti citati in causa. Le opinioni, e gl'insegnamenti
della Società non erano dunque tali, che la legge, anziché
proteggerne l'espressione, dovesse punirla. La condotta del Governo,
sciogliendo la Società, fu dunque illegale.
Comunque, la Società fu disciolta. Gli Amici del Popolo hanno
credenza repubblicana; e que' molti, che confondono ancora la
repubblica colla scure del terrore, senza avvedersi che il terrore
non fu se non conseguenza della guerra, mossa alla Francia da'
nemici della repubblica, plaudirono al governo. Bensí la opinione
traviata dalle calunnie insinuate contr'essi, s'è corretta di molto
dopo il processo, finito pochi giorni addietro. I quindici
repubblicani tradotti in giudizio, stettero davanti a' loro giudici,
come accusatori, anziché come colpevoli. Trelat, Raspail, Thouret,
Blanqui, e gli altri esposero candidamente il loro simbolo, le loro
teoriche, i loro voti. E noi abbiamo creduto far cosa utile alla
nostra Italia, esponendo una di queste arringhe, pronunciate colla
coscienza, della verità, e colla fede dell'avvenire. Siamo a guerra
dichiarata, e giova, che tutti gli uomini liberi simpatizzino gli
uni cogli altri.
DISCORSO PRONUNCIATO
DA
RASPAIL,
PRESIDENTE DEGLI AMICI DEL POPOLO.
................ Sí: ogni qualvolta voi condannate un patriotto, il
popolo v'annovera fra i complici dell'usurpazione di que' padroni
che a principio chiamavansi nostri eguali, di quegl'ipocriti, i
quali si vantavano repubblicani e democratici per giugnere piú
agevolmente alla quasi legittimità, e piú tardi corruppero con mani
impure la croce di Luglio ponendola sul petto a quattrocento
indegni, l'uniforme della Guardia nazionale, assoldando fra le sue
file colle croci d'onore, colle indennità, persin col salario
quindici mila ligi per lo meno al potere. Infatti, osservate come
dal Luglio 1830, appena una dell'arti loro è svelata essi ne
sostituiscono un'altra. Se la Guardia nazionale rifiuta aderire ad
alcune pretese, essi cercano corrompere, ed ubbriacare i soldati,
perocché il francese nell'ebbrezza soltanto può rinnegare l'onore.
Ed allora sotto gli occhi del vostro re, il sangue francese bagnò le
lastre del Palazzo Reale. Io m'arresto a quell'unico fatto che Carlo
IX solo potrebbe invidiare: quest'unico fatto può far tacere per un
momento le rimembranze di Menotti, della Spagna, dell'Italia, e di
Varsovia, di questa sorella della Francia, che la Francia, o per
meglio dire, gl'ingrati che la governano, hanno tradita nelle mani
dei carnefici stranieri; e il ferro dei carnefici stranieri ci
minaccia tuttora da lungi ad onta di concessioni tanto crudeli.
Eccovi, signori giurati, i fatti de' quali vi fate complici,
allorquando voi condannate gli scrittori che li manifestano. Oggimai
v'è di mestieri aprire gli occhi: il popolo vi accusa d'una
colpevole solidarietà, - respingetela, separatevi da questi uomini
che fanno traffico de' vostri giudizj, separatevi dai diplomatici
speculatori frodolenti, i quali han posto il trono sopra una banca,
la Francia nel fango... Via questi intrusi, e la loro infamia. -
Cittadini francesi, cessate d'essere i loro complici. - Essi lo
sanno che voi pure nel profondo dell'anima nodrite, siccome noi, un
senso di dispregio, e d'ira contro di loro. - Il sangue, che vi
corre nelle vene è sangue francese, e voi non potreste sentire
diversamente. Ma i Borboni son razza astuta, e da quindici anni si
giovano per ogni via della nostra credulità a soffocare le vostre
simpatie. Per cenno loro s'urlava nelle strade quel grido: i
patrioti vogliono reazioni: anelano alle vendette. I repubblicani
cercan di rinnovare il 93! Tremate, tremate, se non giugnete a
schiacciarli.
I repubblicani non anelano il sangue del 93, donde trarlo oggimai?
Essi non richiedono che le sue istituzioni modificate secondo i
bisogni dell'epoca attuale. Né io m'avvilirò ad accertarvi che i
repubblicani abborrono la devastazione, ed il saccheggio. Qual
banchiere, agente politico, o speculatore fraudolento oserebbe
pronunziare siffatta bestemmia contro il popolo del 1830? Venga - io
non risponderò che volgendo le loro borse lorde del soldo ch'essi
rapiscono a milioni al povero popolo che poi opprimono di calunnie.
Vi hanno detto, che noi bramiamo la caduta dell'attuale governo, -
v'hanno detto il vero. Noi bramiamo la caduta d'un governo dato alla
nazione dai Dupin, dai Guizot, e da un centinajo di deputati
egualmente venali: d'un governo, che finora non fu riconosciuto che
dalle deputazioni d'impiegati o d'aspiranti a cariche, quando non si
voglia interpretare a segni d'adesione le insurrezioni di San
Germano d'Auxerre, ed altre, la vittoria dei Lionesi, e le mille
sommosse, che scoppiano successivamente in tutte le parti della
Francia. Noi bramiamo la rovina d'un governo di fatto che ha
logorate in Francia tutto le molle di gloria, e di libertà, che
curva a piedi delle nazioni la patria per ottenere una pace a prezzo
d'infamia: che distrugge a proprio profitto l'industria, ed il
commercio: che a comprimere il popolo richiama nelle file
dell'esercito i regali già vinti dal popolo, ed appunta i cannoni di
Montmartre contro Parigi, cosí ubbidiente finora alle sue inique
pretese: infine un governo, che semina col tradimento tanta sciagura
da ridurre quasi il popolo illuso a piangere quella dinastia, che
mandataria dei re stranieri governò a loro nome per quindici anni la
Francia, dopo aver combattuto vent'anni contr'essa nel campo
dell'inimico.
Ma noi non cospiriamo: noi vogliamo illuminare le masse, sottoporre
i nostri consigli al popolo sovrano, porci in somma alla testa
dell'influenza per seguire il movimento. Non punite oggi un diritto
riconosciuto da voi medesimi colla vostra adesione alla rivoluzione
dal 1830.
Ho rispinta la calunnia, è tempo ch'io parli alcune verità; v'esposi
ciò che non vogliamo, udite ora ciò che vogliamo. Se la vostra
opinione sta contro alla nostra, confutatela, ma non ci condannate,
però che a nessun uomo quaggiú fu dato il diritto di porre a tortura
colle accuse, colle prigioni, colle ammende un uomo onesto per
diversità d'opinioni.
La Società degli Amici del Popolo ebbe origine dalle barricate:
tutti i suoi primi membri aveano combattuto, ed i più appartenevano
all'estesa tela de' carbonari per ben quindici anni sostenitori
della lotta contro la restaurazione a prezzo del loro riposo, delle
loro sostanze. Autori immortali d'una incontaminata rivoluzione ne
invocarono tutte le conseguenze, e stettero in armi, quando seppero,
che pochi aggiratori usciti da un giorno da' nascondigli, ove la
paura gli aveva cacciati, s'annodavano intorno a un uomo venuto
fuori da' suoi tranquilli giardini a manomettere insieme la pubblica
libertà, e profittare d'una rivoluzione fatta senza l'opera loro.
Ma il libero dire, ed il coraggio furono vinti dall'oro, e dalla
corruttela: i nostri sforzi si rimasero sterili: una camera senza
missione racconciò una costituzione, ed elesse all'improvviso un re.
La trama poteva sciogliersi col sangue. La Società preferí l'armi
dell'influenza, e della persuasione. Il potere, che in allora dava
principio alla sua carriera di delusioni, fece nascere una sommossa
di vili diretta da' suoi assoldati, e la Società, avendo in orrore
la guerra cittadina, rinnegò per quel giorno la sua potenza, si
raccolse in un asilo inaccessibile al pubblico, d'onde piú tardi
ragionava col popolo per mezzo della stampa. Ora piú che mai, ve ne
accerto, la Società anela a quanto voleva in allora.
O ricchi, porgete orecchio alla nostra dottrina: io la ridurrò a
somme formole. Le leggi sinora furono coniate a vantaggio d'un
potere usurpato: il popolo non v'ebbe parte che a guisa di pecora da
tosare. Le meno inique tra quelle leggi trasudano ancora lo spirito
aristocratico.
Le imposte accresciute ogni anno dalla monarchia pesano
esclusivamente sull'infelice proletario che vende i suoi generi in
proporzione degli oneri, che li gravano. Io non vedo il popolo, che
lavora, rappresentato né alla camera, ne ai tribunali. L'oro, l'oro
solo regola ovunque la capacità elettorale. L'ignoranza, patrimonio
del povero dalla culla, l'accompagna al campo di battaglia, dove
spende la vita per una classe meno prode, o per un uomo piú astuto.
Povero popolo! tu dopo la vittoria, tutta tua veramente, contempli
ancora con ebbrezza la tua libertà di cui altri fa traffico, e la
tua gloria, di cui altri s'adorna.
Eppure il popolo nacque al ben essere materiale; eppure la natura
beneficandoci della vita non dannava alcun uomo a perire nella
miseria. Il suolo della Francia coltivato con cura può bastare ai
bisogni, ed anco ai capricci di 60 milioni d'abitanti. In oggi tra
noi non si contano che 32 milioni, e i due terzi muoion di fame:
dunque si sprecano le risorse. Ecco il male: come rimediarvi? Questo
è il problema: a noi fa d'uopo d'un sistema politico in forza del
quale non esista in Francia, un solo «infelice che nol sia per colpa
propria, o per vizio di conformazione originale». O ricchi,
aiutateci a sciogliere questo problema: voi dovete avervi,
credetelo, maggior interesse del povero, che in silenzio divora
gl'insulti profusi dal vostro egoismo.
Gesú Cristo credeva trovarne la soluzione nell'ebbrezza delle
illusioni della speranza; ma il nostro clima è meno poetico, e noi
abbiamo carattere piú positivo, bisogno piú forte di reale. - Però
la morale di Cristo produceva savî in Oriente, e fra noi ha generato
quasi sempre ipocriti. La monarchia stancò per quindici secoli a
sciogliere cotesto problema tutte le risorse della piú astuta
diplomazia; - il suo sistema rovinò per sempre nell'89. La
repubblica espose il proprio: lottò sei anni coll'Europa congiurata
a suo danno pria di farne l'applicazione, dacché il Direttorio non
ne diede che un breve saggio alla Francia. - Un Genio lo soffocò nel
suo nascere, e compose un sistema misto d'eguaglianza repubblicana,
e di fasto monarchico: magica, ma perfida fu la luce onde quel
sistema fu splendido, e lo trascinò colla bella patria sua sotto il
giogo di piombo dei re vinti un tempo da lui.
Allora risorse la monarchia pura col corteggio del diritto divino,
de' titoli ereditari, della quasi feudalità, quasi a convincere
vieppiú la Francia della sua impotenza a fronte dei bisogni d'un
gran popolo. La Francia la struggeva col suo seguito: la Francia ha
cancellato il vecchio sistema, ma la pagina è bianca, - la Francia
ha da scrivervi ancora.
La questione s'agita tutta in oggi davanti all'Europa: da un lato,
la monarchia cinta de' suoi vizi, e dei suoi seidi: - dall'altro sta
il popolo con una disperazione che cova grandi disegni, guardando al
selciato delle sue strade. O bella Francia! quanto dolore ingombra
il tuo volto. Oh! i tuoi nemici gelosi stanno a' confini guardandoti
con gioia segreta! Qual tempesta è quella che pende sul capo tuo?
Ah! maladetto l'empio il quale a sbramare una sordida avarizia, e
sostenere un perfido sistema invoca la procella. Muoia il traditore,
sopratutto se porta nome di re. O popolo sovrano, affrettati,
riprendi lo scettro ch'è tuo, e noi detteremo le leggi. Tu solo puoi
bandirle giuste, e rette, perché tu solo puoi conoscere le tue
risorse, e i tuoi bisogni.
E però noi teniamo l'intima convinzione, che il popolo quando il
despotismo organizzato non comprimerà il suo entusiasmo, e non
illuderà il suo patriottismo, stabilirà egli stesso i seguenti
principj, e noi avremo il dí dopo la soluzione del problema.
«Ogni cittadino francese ha il diritto eterno, incontrastabile di
concorrere alla elezione de' suoi magistrati, de' capi della guardia
nazionale, e de' mandatari a' quali è commessa la rappresentanza del
popolo nel Congresso, che redige le leggi, e vota le imposte.
«Ogni cittadino francese giunto all'età di venticinque anni è
soldato, dove un forte motivo non coonesti la sua esecuzione, dove
il voto de' suoi concittadini non lo chiami ad altri uffici. I
pericoli dello Stato modificano i quadri dell'esercito: alla sorte,
e all'elezione è riserbato il compirli.
«Tutti gli uffici civili, scientifici, e militari saranno affidati
per concorso, o per elezione. Il giurí dei concorsi è nominato da un
giurí primario, e questo è formato dai cittadini competenti. La
lista dei giurati definitivi è determinata dalla sorte all'apertura
della sessione. Da questo punto incomincia l'inamovibilità degli
uffici; tuttavia un giudizio richiesto dalle parti interessate può
romperla. L'eredità de' titoli è follia: quella degli uffici
usurpazione. I soli rappresentanti del popolo hanno il diritto di
nominare il potere esecutivo: la sua missione spira dopo alcuni
anni. Il membro, se il potere esecutivo è in mano di molti, o il
presidente se è in mano d'un solo, finita la loro missione, ritorna
privato, né può essere rieletto che scorsi dieci anni.»
Non piú accumulamento di pensioni e di beneficii: le retribuzioni
degli uffici hanno ad essere modiche.
Perché dovrebbesi seppellir vivo sotto le rovine delle Tuilleries,
quel cittadino che richiedesse la povera Francia di 14 milioni per
mantenere la vita.
Ogni affare contenzioso, civile, militare, politico e scientifico,
verrà sottomesso ad un giurí competente, a una specie di giudizio
d'arbitri, ed il magistrato, perduto per sempre ogni potere inerente
alla sua dignità, non interviene che a dirigere la discussione, e
provvedere l'esecuzione della sentenza.
Non piú i giudici in causa propria avranno l'imprudenza di vendicare
le ingiurie personali.
La stampa è libera in tutta l'estensione della parola. La legge
punisce le sole ingiurie alla morale pubblica, e all'onore de'
cittadini innocenti.
La libertà individuale è inviolabile. Non v'è sentenza che possa
rapirla, quand'essa non minacci di grave pericolo tutta la società.
La pena di morte, il marchio d'infamia, e la confisca sono abolite.
La prigione debb'essere una scuola di buoni costumi e non una
tortura: il prigioniero otterrà la remissione della pena col lavoro
e la buona condotta. Insomma la giustizia non si vendica piú, né
infama; protegge e migliora.
Non piú cariche venali nella magistratura. Camere di magistrati a
spese dello Stato faranno le veci dei tabellioni, e procuratori
pagati dalle parti; quindi il retaggio della vedova, e
dell'orfanello non sarà piú divorato dall'ingordigia, dalle formule
forensi, e da' riti di processura. Un giurí composto d'operai, e di
capi-lavoro e presieduto dai magistrati stabilirà la tariffa de'
prezzi al minimo dei lavori, onde l'opera dell'esecutore, e
l'intelletto dell'inventore abbiano la dovuta parte nel guadagno che
risulta dalle vendite.
Nessuno deve chiedere invano lavoro per guadagnarsi la vita: lo
Stato provvede all'operaio senza lavoro, qualunque siasi il suo
mestiere. Gravar d'imposte gli oggetti necessari è furto, gravare il
superfluo è restituzione. Quindi l'abolizione delle imposte dirette,
e personali, perché alla fin dei conti, esse pesano soltanto sul
povero. Il sistema delle imposte progressive, stabilito bensí sovra
basi tanto saggie, che l'applicazione non serbi alcun carattere di
legge agraria. Ogni monopolio è vietato; all'agricoltura,
all'industria e al commercio s'aspettano gl'incoraggiamenti speciali
del Governo, e punizioni severe frenano i venditori di mala fede.
L'insegnamento è libero; lo Stato veglia attivamente alla moralità
degli educatori. Ma un giurí composto di padri di famiglia ha solo
il diritto di scegliere le persone destinate ad adempiere questo
ufficio. Ogni dolo di speculazione concita la severità delle leggi.
Amministrazioni dello Stato, polizia, finanze, aggiudicazioni,
imprese, tutto si compie apertamente, senza mistero, e davanti agli
occhi del popolo.
Queste sono le principali basi della dottrina, la cui applicazione
ci sembra dover somministrare la soluzione del problema, concedendo
alla Francia un governo a buon mercato senza corruttele, e senza
seidi, un governo favorevole allo sviluppo delle facoltà morali, e
fisiche dell'uomo.
Allora finirebbe ogni pericolo di rivoluzione, perché non vi
sarebbero usurpazioni: ogni miseria, perché non vi sarebbero
monopoli: ogni possibilità di lesioni perché non esisterebbero
privilegi.
Certo: adottando cotesto sistema avreste Repubblica. Ah! direte, la
Repubblica è impossibile in Francia! il primo saggio non riuscí
felice. Che? non fu che un saggio, e retrocedete? Oh! noi siamo
oggimai al settantesimo saggio della monarchia - e l'ultimo è il
pessimo! Come non disperare? come non rovesciare un sistema contro
al quale grida lo sdegno, la delusione di quindici secoli?
Noi abbiamo cercato propagare queste dottrine pubblicando gli
scritti popolari, che in oggi sommettono alla vostra inquisizione.
Noi abbiamo voluto parlare al popolo: hanno voluto impedire al
popolo che ci ascoltasse. Hanno trattato noi, come seduttori, il
popolo come un fanciullo: il popolo raccoglieva avidamente i nostri
stampati: la polizia s'impadroniva de' poveri venditori, che
traevano da quegli opuscoli la sussistenza delle loro famiglie; il
dí dopo questa deforme polizia facea vendere essa pure, e
impunemente nelle strade dei libelli sozzi di scurrili calunnie
contro i patriotti pacifici, ch'essa tormentava. O pudore pubblico!
la polizia s'arroga sola il diritto d'insegnare al popolo,
d'educargli lo spirito, e il cuore!
La prova sta, dic'essa, nel diritto ch'io ho d'immergervi nelle
carceri, - e l'ha fatto. Ma sei mesi di prigione non bastano alla
sua collera: essa esige altri sei mesi dal vostro giudizio. La
nostra pazienza stancherà questo potere di fatto; ma né le sue
carceri, né le ammende stancheranno noi: noi sfideremo quest'armi
come abbiamo sfidato i suoi assassini assoldati e i suoi libelli.
Abbiamo a compiere una grande missione: noi la compiremo, se è
necessario, per altri quindici anni sul banco delle Corti di
giustizia. La compiremo sull'orme di quelle giovani vittime della
libertà, il sangue delle quali grida vendetta qua dentro. La
compiremo sotto la scure della tirannide, perocché la nostra è piú
che missione: è un culto sacro, è un fuoco che abbrucia, è l'amore
dell'umanità. Ora il potere prosiegua: confuti le nostre teoriche
colla prigione, colle catene, colle ammende, mentre sotto l'egida
dell'impunità, il forense aumenta i suoi illeciti guadagni, il capo
d'ufficio divide coll'impresario, il commissionario cogli uomini del
potere, finalmente, il segretario di Stato dà marito alle sue Frini
vendendo gl'impieghi. Un potere ladro, ed imbecille per un solo
grido venuto dal fondo della coscienza riversi pure sul capo del
giusto, che lo proferisce tutta la collera che dovrebbe rovesciarsi
pure sul carlista che si cela ne' ranghi della guardia nazionale; e
sul sergente di città, che col favor delle tenebre ha intinto il suo
ferro nel sangue de' nostri concittadini. Prosiegua: il piú lieve
pretesto basti a tenerci sei mesi sotto un'accusa, mentre una donna
contro la quale stanno terribili probabilità, e gravi sospetti, gode
di tutta la sua libertà, direi quasi, esulta del suo trionfo,
pendente ancora il giudizio di sangue. I nostri fratelli siano
lasciati al gemito della fame, e del freddo nelle carceri, mentre
questa baronessa sfoggia la sua veste rossa nei balli della corte,
che non serba neppur tanto pudore per rifiutare i frutti per lo meno
equivoci d'un'adultera compiacenza. Tutto questo è naturale,
perocché tutto questo è monarchico.
Ma noi che non assistiamo ai balli di corte, noi che non offriamo al
guardo d'un re poc'anzi repubblicano i nostri abiti rozzi ma
immacolati, noi che non curviamo il ginocchio davanti ai cosacchi,
né abbiamo tradita la causa dei popoli, noi che abbiamo le mani pure
d'ogni benché menoma frazione dei 25 milioni prodigati in quest'anno
dai traditori ai venali: ah! noi siamo colpevoli. - Condannateci,
condannateci se siete servili al potere. Condannateci, ma non
isperate cangiarci. Bensí cercate un popolo diverso da quello del
1830, per chiedere la ricompensa dovuta a tali atti. Perocché il
popolo, che punisce collo spregio, rimunera colla stima, - e non è
alla pubblica estimazione che aspirano gli autori di siffatte
condanne(92).
1831.
Crescit in adversis virtus.
Ed era pur l'anno che al suo cominciar prometteva la per secoli
invocata rigenerazione de' popoli! Ed era pur l'anno in cui l'ora al
dispotismo fatale dovea scoccare! Perché trascorse fecondo in
avvenimenti, ma non rispose ai voti ardenti della razza umana? Come
andò egli a confondersi nel prodigioso numero di quelli che l'uomo
ci mostrano nell'obbrobriosa schiavitú ancora sepolto? Corse egli
intero sottraendosi alla legge possente del progresso? Fu
irreparabilmente esso perduto per la santa causa della Libertà?
Riposi qualche istante il desiderio inquieto di leggere nell'incerto
avvenire e volgiamoci ad esaminare impassibili se il 1831 respinse o
sospese il movimento progressivo politico, o se benché lentamente,
lo secondava.
Riscossa la Francia dal sovrastante pericolo di perdere ogni sua
libertà avea fin dalla metà del precedente anno con uno slancio
inaspettato, e tutto nuovo acquistato il diritto di mettersi alla
testa delle nazioni d'Europa mature all'emancipazione, e guidarle ad
ottenerla: la subita ed inattesa rivoluzione avea atterriti i
despoti che vili per costume nell'avversità riconobbero Filippo da
pochi illusi, o deboli eletto a re dei Francesi, e si piegarono per
sottrarsi alla rovina che li minacciava a sancirne il principio di
non intervento proclamato a favorire gli sforzi delle nazioni, che
sorgessero ad imitarli. La grande scossa era data, l'assolutismo
vacillava, e sarebbe caduto se incauti i Liberali di Francia che
avean fatta la rivoluzione non chiamavano al reggimento delle cose
loro quegli uomini i quali non si erano a dir vero mostrati nel
pericolo, ma che per le loro professioni di fede, e per
l'opposizione costante nella quale si eran mantenuti col governo di
Carlo X, la pubblica confidenza avean sopr'essi raccolta: la
tradirono questi come tradiron la loro coscienza, come cogli
interessi della loro patria gli interessi sagrificarono degli altri
popoli, i quali non dissimulando la loro simpatia per la nazione che
superiore all'altre in civilizzazione rinunziava generosa all'antico
desiderio di dominazione, si mostravan disposti ad esserle compagni
all'impresa magnanima di condurre a Libertà l'Europa intera. Primi
infatti si mossero alcuni stati di Germania: chiedevano i Sassoni al
loro re una costituzione piú larga; al loro duca la chiedevano i
Brunsvikesi: oppresso dal dominio tirannico della casa d'Orange, e
depauperato dall'Olanda insorgeva il Belgio a volere l'indipendenza
ed un governo a sua voglia. Piú forte e piú decisa dichiarava la
Polonia sfidando le barbare orde del nordico tiranno voler essere
ormai terra libera o cambiarsi in vasto sepolcro. S'impegna quindi
la lotta ineguale, ed infiammati di patrio amore, sostenuti dalla
speranza di giugnere alfine la Libertà e l'indipendenza bramata,
oppongono i valorosi Polacchi non contando i nemici lunga e ostinata
difesa. Sventurati! i prodigj di valore inauditi, i sagrifizj senza
esempio a salvarli non valsero: furono rovesciati dal torrente de'
Vandali ch'essi con una mano armata tentavan respingere mentre
chiedevan coll'altra il promesso soccorso alla Francia, la quale,
dimentica delle perdite e del sangue che all'antica alleata costava
la sua fedeltà, di cantici e lodi sol la sovvenne.
Creduto opportuno l'istante si sollevò quindi una, parte d'Italia a
procacciarsi Indipendenza e Libertà, tanto piú da lunghi anni
desiderate quanto piú grave era il giogo sotto cui gemeva, quanto
piú triste ne era la condizione. Modena diede prima l'esempio; era
il colpo fallito per la vigilanza del sospettoso tiranno se Bologna
commossa non ne secondava la rivoluzione facendo la propria: la
Romagna e le Marche non indugiarono e si sottrassero al governo
sacerdotale. I Parmigiani venian appresso e respingevan da loro una
principessa che nulla avea di comune col grand'uomo cui era stata
compagna se non un fasto che impoveriva i sudditi, che alla di lei
condizione mal conveniva.
Vedevano intanto i Toscani con interesse procedere a quel modo le
cose in Italia disposti a seguirne in appresso la sorte, ma non anco
maturi alla grand'opra attendean circostanza opportuna a sollevarsi
contro un governo che di liberale non avea che l'apparenze, che
simulando tolleranza, era come gli altri della Penisola tutto
arbitrario e dispotico.
Guardati da vigilanti e numerose truppe straniere Lombardi e Veneti
si volgean con fiducia al Piemonte lusingati che spingerebbe le
temute legioni a secondare gli sforzi d'Italia: ma i Piemontesi non
ancora volean dichiararsi, fidando nel principe che tra non molto
dovea succedere al re Carlo Felice, di cui la cagionevol salute, e
l'avanzata età facean presagire prossima la fine. Ahi quanto male
giudicavan l'inetto! Chi tradiva, una volta la santissima causa non
poteva sentire né amore di libertà né ambizione, di aggiungere al
suo nome quello di liberatore d'Italia: codardo nel cuore, e colla
febbre di regnare si collegò coi nemici della sua patria, ma coi
rimorsi nell'anima, ma col tormentoso presentimento che colla
maledizione degli amici sagrificati un giorno da lui, la pena nol
giunga che al traditore è dovuta. Titubando nell'incertezza
aspettavan dal tempo consiglio i Napoletani preparati a far causa
comune coi loro fratelli se ne venia loro il destro, e se propizie
le circostanze si mostrassero; a decidersi prontamente li tratteneva
però la speme riposta nel giovine re da poco tempo salito sul trono
che l'avo e il padre spergiuri avean veduto vacillare, e che
crollerà sotto lui, poiché la lezione non lo fece piú saggio.
Se con fermezza si mantenea la Francia nell'onorifico posto che avea
scelto, il tempo felice era giunto, ed essa dettava la pagina piú
bella nella sua Istoria: nol volle; rinegò o tradusse a suo modo gli
emessi principj: quindi gli inciampi che il concepito movimento
rallentarono: non s'arrestava però, e ne uscivano generali vantaggi.
Strapparono ai loro principi concessioni non lievi alcuni stati
germanici: se non ottenne la Belgica un governo repubblicano, o
l'aggregazione alla Francia l'una dopo l'altro richiesti, fu
dell'indipendenza assicurata. Fu la misera Polonia schiacciata, ma
tutti i popoli d'Europa fecero eco al gemito che cacciava spirando;
ma benché dall'Austria infida forzati a rimanere in uno stato di
quasi barbarie mandavano gli Ungheri da ogni circolo, da ogni
casolare indirizza a Vienna, perché fosse un termine alla strage pei
Polacchi superstiti nei quali raddoppiava l'odio pei loro carnefici.
Non ritrasse la Francia tutti i beneficj dalla sua rivoluzione, ma
escludendo nei Pari l'eredità diede il colpo mortale
all'aristocrazia del sangue. Ma stanca, nell'impero, di una gloria
inutile al vincitore, al vinto molesta; tormentata nella
ristorazione dal bisogno di togliersi all'abbiezione in cui l'avean
precipitata i Borboni che a mantenersi in trono avean venduta la
patria: disingannata degli uomini che abbastanza manifestarono che
la loro missione era di parole soltanto: vergognosa di esser guidata
dal timido coniglio non dal gallo generoso corre veloce a cercare la
sola felicità de' popoli nelle istituzioni veramente libere, nella
Eguaglianza repubblicana. La scintilla elettrica della libertà passa
in ogni cuore, investe ogni classe: e qual potenza potrà frenarne
gran tempo lo scoppio?
Sull'oligarchía avean vittoria i liberali inglesi colla proposta del
Bill di riforma, la quale, benché non per anco ammessa dal
Parlamento, è aspettata e quotidianamente dal popolo richiesta.
Se d'armi non forniti, se dalla brevità del tempo sorpresi fidando
anch'essi nella Francia non opponean gl'Italiani al Tedesco che una
debole resistenza, si conobbero, si inteser tra loro, si chiamaron
finalmente fratelli: alla non ben apprezzata patria gli affezionò
l'emigrazione dacché viddero quanto amaro sia il tozzo ch'altri con
disprezzo ti getta nella terra che t'accoglie profugo. Eccitò in
essi l'emulazione il pugno di bravi che racchiusi nella casa del
Menotti infelice si votarono alla patria, e animosi sostennero il
ripetuto assalto del moderno Ezzelino. Ma li persuase che per tutta
l'Italia è un desiderio solo, un bisogno, anche la pietà delle
venete madri che ai teneri figli mostrando come liberatori della
patria que' prodi che l'Austria contro ogni diritto in un mare non
suo avea predati, nei giovanili petti sensi italiani infondevano.
Amare perdite al certo furono ai liberali e l'italiano Menotti col
compagno Borelli dal supplizio dell'assassino e del parricida rapiti
per sentenza del mostro che avea piú volte promesso salvarli! e
l'instancabil Torijos che dall'insidie dei satelliti del tiranno
spagnuolo sul patrio suolo attirato soffriva cogli intrepidi suoi
seguaci il martirio della libertà: e il siciliano de Marchi che fu
cogli undici amici sagrificato perché tentò sottrarre la patria
dall'abborrito servaggio. Ma ogni stilla del loro sangue innocente è
seme d'infamia ai despoti e a note incancellabili ha scritto pei
popoli - leggi e libertà. Per tutta Europa ora celato ora palese
serpeggia l'incendio; se tenta il despotismo estinguerlo dove si
mostra, piú grande si sprigiona e in altra parte si fa strada; una
segreta forza, una specie di moral magnetismo i popoli attrae alla
benefica libertà. La spinta è comunicata; non è a sperare riposo
finché non sia ogni privilegio distrutto; tenti ostinato
l'assolutismo a sua posta di arrestare il progresso, non farà che
affrettarlo; vegga egli nelle ripetute sommosse di Parigi e delle
provincie di Francia l'opera di bonapartisti, o de' settatori
d'Enrico, o che piú gli giova: ma chi non prevenuto le osserva
attentamente e le segue è a ragione convinto che son assalti
vigorosi all'unica aristocrazia che ora in Francia rimanga;
l'influenza delle ricchezze. Tutte sono proteste de' popoli contro
la tirannide, tutte imperiose domande a riavere i loro diritti:
condotti dalla luce che il secolo andato spandea, convinti che la
forza per essi solo è costituita, procedono risoluti sul terreno che
l'assolutismo cede ogni giorno.
Non è l'ora lontana in cui dopo essersi in altrettante nazioni
libere divisa, sarà l'umana razza condotta dalla legge d'amore, ad
unirsi in una sola famiglia. Abbiano intanto anch'essi una volta
gl'Italiani una patria. Sia tutta unita l'Italia, e allo straniero
non serva. Non dubbio, ma certo ma universale è già fatto quel voto:
se uniti, siamo all'opra bastanti, non inutil ricordo ci lasciava il
Menotti morendo, di non calcolare sugli ajuti stranieri, di non aver
fede che in noi. Non piú indugi, non piú transazioni; dove voglia
una rivoluzione aver base, là deve esser guerra e mortale. L'ultime
prove ci hanno ammaestrati solennemente: badiamo a non confondere la
moderazione coll'inerzia: il nemico è dovunque si nuoce alla patria,
dovunque si tradisce il voto del secolo. Chi è reo d'infamia a di
codardia abbia col nemico comunione di sorte: giaccia inonorato
senz'onore di tomba: il sepolcro patrio sia per coloro che piansero
sulla Italia, sorsero a darle vita e morirono. Racconti la pietra ai
nepoti il premio che la tirannide concedeva a chi non respirava che
nelle patrie virtú. La esperienza c'insegni, - che l'affetto di
libertà non riesce a buon porto se non assume i caratteri di
religione: c'insegni che dalle fondamenta alla cima tutto nuovo deve
essere l'edifizio che innalzeremo: c'insegni a spegnere ogni spirito
municipale, e che nella concordia sola è riposta la forza: nel fermo
volere e nella fiducia del sacrificio il successo: nel salire
all'altezza de' moderni principii il tipo italiano del secolo xix. -
Questo c'insegni l'anno trascorso; e chi potrà dirlo perduto?
Mon.
RIVOLUZIONE DI PARIGI
(LUGLIO 1830).
I Parigini, sempre inquieti pel sistema retrogrado che il re Carlo X
voleva far prevalere in Francia, attendevano che una qualche
favorevole circostanza presentasse loro il mezzo di smettere il
giogo dal quale erano oppressi. Gli editti reali del 25 luglio
infransero le barriere ed il fantasma del diritto divino fu
dissipato dal coraggio del popolo di Parigi. La monarchia, imposta
dal dispotismo d'un milione di baionette, fu rovesciata da 50,000
coraggiosi che seppero anteporre l'acquisto della libertà allo
spargimento del loro sangue. Il popolo parigino, nelle tre
memorabili giornate di luglio, vendicò i suoi diritti, maltrattati
dalla forza, e dal dispotismo degli alleati. Questo popolo portò al
supremo comando l'uomo puro, l'uomo integerrimo, l'uomo della
libertà, Lafayette: il trionfo del popolo, la sera del 29 luglio
sembrava assicurato.
Una frazione d'uomini, corrotti e perversa, immaginò d'impadronirsi
di questa rivoluzione e di farla valere a suo profitto. D'una
rivoluzione nazionale si fece una rivoluzione di palazzo. Con questa
mira si allontanarono gli amici della causa popolare, e si
avvicinarono al trono gl'intriganti e gli ambiziosi. Furono
congedati Lafayette, Dupont de l'Eure, Odillon, Barrot, ecc., e
conservati Talleyrand, Sebastiani, Perrier, Montalivet, ecc. La
rivoluzione di palazzo fece aprire le trattative coi re dell'Europa,
riconoscere gl'ignominosi trattati del 1814 e del 1815, ricusare le
offerte dei Belgi, abbandonare, disperdere i patriotti di Spagna e
dell'Italia, e commettere l'azione la piú impolitica e la piú
infame, nel lasciar perire l'eroica Polonia. La rivoluzione di
palazzo rimase tutta a profitto di quei vili che ambivano gli onori,
gli impieghi, e le ricchezze. Costoro non si occuparono che di
quello soltanto che poteva e doveva consolidare il loro ben essere
particolare. Nel mentre che la corte, i ministri, e la Camera dei
pari favorivano i propri interessi, la Camera dei deputati non
intendeva il proprio dovere. Questa Camera avrebbe dovuto
vigorosamente opporsi al sistema che voleva adottare il suo governo.
Essa non poteva ignorare la pubblica opinione. La stampa periodica
non ha mai taciuto; questa interprete del voto nazionale, a rischio
de' suoi materiali interessi, e del suo ben essere, ha svelato i
misteri, ed ha combattuto incessantemente i nemici del popolo. Anche
i pochi buoni dell'opposizione hanno con coraggio sostenuto
gl'interessi della causa popolare, hanno però dovuto essi pure
soggiacere alla maggioranza. Gl'interessi della nazione furono
sagrificati.
La libertà, per tutto circondata dal potente e baldanzoso
dispotismo, come potrà trionfare? Ai Pirenei, alle Alpi, al Reno
stanno in agguato i piú acerrimi nemici della Francia e della
libertà. Come potrà prosperare l'industria francese, avendo
gl'Inglesi alla direzione delle manifatture del Belgio? In caso di
guerra, che disposizioni potrà dare un generale francese, avendo un
re inglese ad Ostenda, a Mons, ed a Lussemburgo? Quando piú mai la
Francia vedrà tre milioni di Polacchi, resi dal loro coraggio
indipendenti, combattere in favore della stessa causa, e
degl'interessi di lei!
La gioventú francese, colla coscienza del suo vero bene, voleva
correre a Brusselles per aiutare quel popolo che spargeva il suo
sangue, per unirsi alla Francia. L'eroica difesa dei Polacchi
trovava simpatia ed ammirazione in ogni cuore. Allorché si è voluto
rallegrare la guardia nazionale di Parigi, e distrarla dai sinistri
riflessi che potevano esserle richiamati dall'anniversario delle tre
giornate, si è immaginato di far spargere la notizia di una vittoria
riportata dai Polacchi. Il machiavellismo del ministro francese
credette utile di traviare il pensiero dei Parigini, facendo trovar
loro sulla Vistola quella consolazione che non potevano avere sulla
Senna.
Gloria eterna al coraggio ed all'intrepidezza del popolo di Parigi,
ed esecrazione a coloro che fecero piegare il trionfo del popolo a
vantaggio d'una rivoluzione di palazzo. Esecrazione a coloro che
soffrono vilmente, che la causa della libertà perda il frutto di
circostanze cotanto favorevoli.
Non tarderà no il giorno nel quale la Francia dovrà pentirsi di
essere stata spettatrice indifferente del sacrifizio della sua
libertà, e di avere lasciato nelle mani di pochi intriganti il
destino della patria. Sí; la Francia si pentirà di aver permesso che
l'egoismo del traffico e dell'ambizione abbiano prevalso al ben
essere, alla gloria, ed all'onore dell'intera nazione.
Articolo comunicato.
AGLI ITALIANI.
Quando intraprendemmo di pubblicare una serie progressiva di scritti
tendenti alla rigenerazione italiana, noi intraprendemmo, convien
dirlo francamente, una cosa superiore alle nostre forze. Noi soli
non possiamo vincere tutte le difficoltà che s'attraversano - non
isvolgere convenevolmente, e in tutte le sue applicazioni
letterarie, filosofiche, politiche il concetto vasto, e fecondo, che
ci affatica la mente - ma noi fidammo nell'aiuto de' nostri fratelli
italiani.
Noi calcolammo gli ostacoli, pesammo i doveri, intravedemmo i
pericoli - tutto sfumò davanti all'utile dell'intrapresa.
Oggimai, la stampa è l'arbitra delle nazioni. Le nazioni hanno sete
di verità. L'Italia non ha una voce che si levi a bandirla; e chi
mai può scrivere, o lagnarsi in una terra, dove fin la indipendenza
letteraria procede esosa a' governi, dove il gemito è argomento di
pena, e la ruga de' profondi pensieri stampata sulla fronte al
giovane è spia di tendenze pericolose agli inquisitori politici?
L'Italia non ha una voce, che si levi a snudarne le piaghe, a
romperne il sonno, a predicare i rimedi. Ogni giorno segna una
vittima della tirannide - e non v'è alcuno che ne raccolga l'ultima
maledizione. Ogni giorno genera un voto, una idea di progresso nei
giovani cuori - e non v'è alcuno, ch'esprima altamente i voti e le
idee, che solcano l'anime, che balenano nelle menti, poi si perdono
inavvertite, perché nessuna penna dà loro forma, e perpetuità. - E
il furore delle poche anime generosamente feroci si consuma
solitario nella disperazione, e i molti vivono d'una vita materiale,
non s'attentando pure di rompere un silenzio, che si traduce poi
lentamente in obblio.
Ma gli esempli di tutte le età, e di tutte le nazioni ci avvertono,
che dove non si propaga colla stampa il lume de' principii alle
moltitudini, dove non si trasfonde colla parola la fede,
difficilmente si prorompe in un moto energico ed efficace. E le cure
che i governi pongono a reprimere ogni libertà di scrittori, e le
precauzioni minute usate contro la introduzione d'ogni libro che
parli parole libere, c'insegnano quanto essi tremino dell'effetto di
siffatte dottrine, perché l'inchiostro del savio vale quanto la
spada del forte, e Maometto, che proferiva queste parole,
s'inoltrava tra le genti colla spada in una mano, e il Corano
nell'altra. - E noi potremmo citare le circolari date dal re Carlo
Alberto a' doganieri del suo Stato, poi che il manifesto del nostro
giornale ebbe veduta la luce, perché vegliassero a impedirne la
introduzione e le inquisizioni praticate fin d'ora su' viaggiatori a
vedere se mai ne fossero portatori.
Però, noi ci determinammo all'impresa.
Ma siffatte imprese non giungono all'intento, se non durano
ostinate, e progressivamente migliori. La stampa non giova, se la
diffusione non è vasta, continua, ed universale. - Di mille
esemplari d'uno scritto, cinque cento vanno perduti per la vigilanza
di chi sta contro, o per le paure degli uomini a' quali giungono. -
Gli altri circolano generalmente tra chi ne ha meno bisogno, né
trapassano, se non di rado alla gioventú, che le cure della
esistenza allontanano dagli studi e dagli agi. - Poi, uno scritto
che riescirà ottimo per una classe, è parola muta per l'altre,
ineducate e senza esercizio di lettura. - E però noi abbiamo
in animo, se avremo aiuti, di pubblicare unitamente a questo un
giornale popolare, pianamente scritto, e pensato, destinato a'
parrochi di contado, agli artieri, alle classi insomma operose. - Ma
perché l'opera riesca, efficace, conviene estenderla quanto si può -
è d'uopo, che il numero degli esemplari s'aumenti gradatamente - è
d'uopo, che in ogni angolo de' loro stati, nelle officine, ne'
teatri, nelle università, dappertutto la parola libera s'affacci
agli oppressori, come il Mane, Thecel, Phare di Balthazar.
E perciò - noi ci rivolgiamo a' nostri fratelli d'esilio - a quanti
giovani hanno sortita un'indole forte, e un ingegno svegliato dalla
natura - a quanti son posti dalla fortuna in condizioni che
concedono mezzi di soccorso pecuniario e morale all'impresa -
Italiani, nostri concittadini! noi v'invochiamo tutti. Questo
giornale non si sosterrà se non per voi. Se a voi sembra giovevole
la diffusione de' buoni principii - se vi pare che noi non siamo
indegni di assumerci questo ministero, sta in voi di promuoverlo. -
Spiate la tirannide che v'opprime, ne' suoi minimi atti: raccogliete
i documenti delle infinite ingiustizie, che passano inosservate:
raccogliete il grido della miseria: notate le vessazioni, le
venalità, le brighe, le persecuzioni: e fate che giungano fino a noi
- additateci il linguaggio che trova la via dei cuori: rivelateci i
pregiudizi, che meritano d'essere combattuti a preferenza, gli
errori piú radicati, le riforme le piú urgenti, perché si prepari il
terreno da noi. - Poi, soccorrete all'opera italiana coi mezzi
necessari alla propagazione: versate l'obolo per la causa santa. -
Abbiate fede in noi. - Noi la richiediamo, perché sappiamo di
meritarla: perché possiamo levar la fronte a Dio, e agli uomini, e
non arrossire: perché la mente può mancarci all'uopo, ma il core è
puro, le intenzioni sante, e il proposito deliberato.
Ora noi abbiamo fatto il nostro dovere: del resto avvenga che può.
Noi innalziamo una bandiera. Spettai a voi, o Italiani, circondarla
d'affetti e di sacrifici: a voi reggerla sublime all'aure. - Noi la
sosterremo questa bandiera, finché le braccia nostre varranno. Se
avranno a ricadere stanche sul petto - ed altre braccia non
sottentreranno alle nostre - noi ci racchiuderemo nel silenzio,
aspettando l'ora, che deve chiamarci tutti alle vie dell'azione.