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Manìn, Daniele.

Uomo politico (Venezia 1804 - Parigi 1857). Fu promotore di un'opposizione non clandestina all'amministrazione austriaca e divenne presidente del governo provvisorio (1848) di Venezia dopo l'insurrezione popolare e la cacciata degli austriaci. Dopo la capitolazione (ag. 1849) della Repubblica di Venezia, andò in esilio in Francia; aderì poi al programma unitario-monarchico di Cavour e fu tra i fondatori della Società nazionale.

Vita e attività

Figlio di un avvocato ebreo, che, convertendosi, aveva lasciato il cognome Medina per quello del suo padrino Ludovico Manin, laureatosi in legge a Padova, attese alla sua professione e agli studi, interessandosi contemporaneamente alla politica. Contrario alla pratica cospirativa della Carboneria e delle altre società segrete, dalla metà degli anni Quaranta M. preferì impegnarsi in un'opposizione "legale" all'amministrazione austriaca; questo tipo di lotta culminò nella presentazione all'imperatore di una petizione per rivendicare il rispetto della nazionalità italiana nel Veneto e la concessione dell'autogoverno. Imprigionato dalle autorità austriache con N. Tommaseo nel genn. 1848, M. fu liberato dal popolo, sollevatosi alla notizia dell'insurrezione di Vienna del 13 marzo. Cacciati gli Austriaci (22 marzo), fu costituito un governo provvisorio, di cui M. divenne presidente. Di sentimenti repubblicani, lasciò il potere perché contrario alla fusione di Venezia con il regno di Sardegna, deliberata il 5 luglio. Dopo la sconfitta di Custoza, e il conseguente richiamo da Venezia dei commissari piemontesi, M. tornò al potere proclamando la Repubblica e decidendo la prosecuzione delle ostilità. L'eroica resistenza della città, assediata dagli Austriaci, proseguì sotto la sua guida, nonostante la disfatta di Novara (23 marzo 1849) avesse posto fine a ogni speranza di un'affermazione militare del Piemonte. Dopo la capitolazione di Venezia (22 ag. 1849) fu in esilio in Francia, dove si prodigò per guadagnare simpatie alla causa italiana. Negli ultimi anni della sua vita rinunciò agli ideali repubblicani in nome del superiore interesse dell'unità d'Italia; la sua adesione al programma unitario-monarchico di Cavour si sostanziò nella nascita, per iniziativa sua, di D. Pallavicino e G. La Farina, della Società nazionale.

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DBI

di Michele Gottardi

MANIN, Daniele.

Nacque a Venezia il 13 maggio 1804, terzogenito di Pietro di Ludovico e Anna Maria Bellotto.

Il nonno paterno, di origine veronese e di religione ebraica, si chiamava in realtà Samuele Medina: convertitosi al cattolicesimo con la moglie Allegra Moravia nell'aprile del 1759, aveva scelto, come usava, il cognome della famiglia aristocratica che lo aveva preso a protezione, i Manin, e in specie il nome del padrino di battesimo, l'ultimo doge della Serenissima, Ludovico. La nonna del M. mutò invece il suo nome in quello di Cornelia Balbi-Porto.

Il primo maestro fu il padre Pietro (1762-1829), avvocato di fede repubblicana e democratica. Nella sua biblioteca, in campo S. Agostino, il giovane M. lesse i testi in edizione originale grazie alla conoscenza di almeno tre lingue straniere: francese, inglese e tedesco, oltre a latino, greco ed ebraico. Tale padronanza linguistica gli permise di venire a contatto con i classici della letteratura e della filosofia, italiani ed europei, in particolare J. Locke, gli illuministi (con prevalenza del sensismo di É. Bonnot de Condillac), J.-J. Rousseau, Cl.-A. Helvétius, G.P. Vieusseux e l'Antologia o le Istituzioni di logica, metafisica ed etica di F. Soave (Venezia 1811).

D'intelligenza precoce, il M. poté iscriversi a soli quattordici anni all'Università di Padova dove si laureò in giurisprudenza nel luglio del 1821, grazie agli insegnamenti privati di diritto e filosofia impartitigli da F. Foramiti, avvocato e giureconsulto amico del padre, che lo spinse alla compilazione del trattato scritto e pubblicato con l'aiuto del padre ancor prima della laurea (Ricerche sopra li testamenti, Venezia 1819), in cui il M. confutò la tesi che i testamenti fossero conseguenza del diritto naturale e non di leggi positive. Ma l'influsso del genitore e di Foramiti favorì nel M. anche la formazione di convinzioni repubblicane di derivazione francese.

La laurea fu conseguita con una tesi di diritto romano sulla Lex regia: anche in questa scelta si fece sentire l'influsso del padre dal momento che il M. avrebbe preferito dibattere il più attuale tema della pena di morte, che poi riprese nella sua prima conferenza all'Ateneo veneto (dal quale nel 1823 fu eletto socio corrispondente grazie ai suoi precoci studi giuridici e filologici).

Dopo la laurea il M., che vantava anche la traduzione dal greco del libro attribuito a Enoch, Degli Egregori (Venezia 1820), cercò senza successo un posto di coadiutore presso la Biblioteca Marciana; ottenne poi (1822) un incarico gratuito come alunno di concetto nella Delegazione provinciale di Venezia, che abbandonò dopo sette mesi per una grave malattia agli occhi che lo aveva depresso al punto da pensare al suicidio.

Tra il 1824 e il 1828 il M. diede inizio ad alcune operazioni editoriali, con esiti alterni. Impossibilitato per la giovane età ad accedere agli esami di avvocato prima del 1830, decise, anche per poter mantenere la famiglia che aveva formato nel frattempo, di collaborare alle attività scientifiche e legali dello studio paterno, curando come editore la stampa e la vendita a fascicoli delle Pandette di Giustiniano (Venezia 1833-36), tradotto col testo a fronte dalla versione francese di R.G. Pothier, poi utilizzato negli studi legali di tutta la penisola. Altri progetti editoriali invece non videro la luce, come Biblioteca legale, un giornale che sul modello della Biblioteca italiana avrebbe dovuto riunire temi importanti e collaboratori autorevoli.

Intanto l'8 sett. 1824 il M. aveva sposato Teresa Perissinotti (1795-1849), di estrazione borghese, figlia di un avvocato, di origine friulana. Dal matrimonio nacquero due figli, nella cui educazione si riversarono letture e cultura comuni a entrambi i genitori, dapprima nella primogenita Emilia (1826-54) e poi nel figlio Giorgio, cui i coniugi impartirono un'educazione illuministicamente fondata sull'acquisizione di un profondo e appropriato linguaggio scientifico e su una attenzione quasi spartana verso lo sviluppo fisico.

Questo periodo di forzata inattività forense fu impiegato dal M. per approfondire la propria cultura storica (F. Guicciardini, C. Botta, P. Daru) e letteraria, attraverso letture di classici e di moderni (in specie A. Manzoni, F. Schiller, G. Leopardi e G. Berchet, più tardi U. Foscolo), coltivando l'amicizia con L. Carrer e la frequentazione del salotto di Giustina Renier Michiel. Venne pure sviluppando un particolare interesse verso la lingua veneta, confermato da alcune conferenze sul dialetto tenute all'Ateneo - in una delle quali, nel 1827, conobbe N. Tommaseo, presentatogli da E. De Tipaldo - e soprattutto dall'impresa editoriale legata alla pubblicazione del Dizionario del dialetto veneto di G. Boerio, uscito a fascicoli senza molta fortuna e poi raccolto da G. Cecchini (1856).

Nel febbraio del 1831 il M. fu guadagnato definitivamente alla causa dell'Unità: alla notizia dei moti dell'Italia centrale, cercò infatti con alcuni amici di provocare un'insurrezione anche a Venezia, stampando clandestinamente un proclama che fu affisso nottetempo. La provocazione non ebbe alcun seguito, né la polizia austriaca venne mai a capo degli autori del gesto.

Ottenuto un posto da avvocato nella vicina pretura di Mestre (29 ag. 1831), vi si trasferì per qualche tempo, cercando di curare nel contempo anche la clientela del padre, scomparso due anni prima. Ma più che nelle aule mestrine e poi in quelle del foro veneziano, fu nella vicenda della ferrovia Venezia-Milano che il M. poté fare le prime esperienze come legale.

La società per la costruzione della ferrovia, nata nel 1835 all'interno della Camera di commercio veneziana, già l'anno successivo - forte di una estesa sottoscrizione - registrò l'allargamento ai rappresentanti delle categorie economiche milanesi. La "Ferdinandea" ottenne la concessione governativa nel 1840 e da allora il progetto entrò nel vivo, anche se la realizzazione effettiva si arenò sulla questione del tracciato tra Milano e Brescia. Se infatti la linea Venezia-Padova-Vicenza-Verona non fu mai messa in discussione, il progetto del percorso lombardo si divise tra quanti sostennero la necessità di toccare Bergamo e "il partito di Treviglio", che invece puntò, con successo, direttamente su Milano, come per primo aveva sostenuto C. Cattaneo. E, se i sostenitori di Bergamo si affidarono ad avvocati affermati come J. Castelli e G.F. Avesani, la controparte scelse giovani legali - tra cui il M., V. Pasini e J. Pezzato - nonché gli ingegneri P. Paleocapa e C. Possenti.

Ospitato nella Gazzetta privilegiata di Venezia, il confronto tra le parti diede ai contendenti una popolarità che andò oltre i confini locali. Anche se le tesi del M. alla lunga risultarono perdenti, l'esperienza permise comunque al M. e ad altri esponenti della borghesia e dell'aristocrazia (come i milanesi V. Borromeo, G. Durini e il podestà G. Casati) di entrare in contatto tra loro e iniziare a tessere quei legami che si rivelarono utili nel Quarantotto.

La battaglia per la Ferdinandea e gli incarichi di consulente della Società veneta commerciale e di altre industrie, come la fabbrica dei panni feltrati, portarono al M. popolarità nella borghesia e il riconoscimento del suo ruolo di guida del movimento liberale destinato a trovare definitiva conferma nel 1847, coinvolgendo la punta emergente del notabilato patrizio e, d'altro lato, le masse popolari. Lentamente, a Venezia prese forma un movimento legale per le riforme. Il M. si distinse inviando a Vienna petizioni o vivacizzando il dibattito cittadino all'Ateneo veneto, che divenne il fulcro del movimento.

Con una prima istanza, inviata il 10 marzo 1847 e firmata da molti esponenti delle professioni liberali, della Camera di commercio e da qualche aristocratico progressista, come F. Mocenigo, ma anche dal podestà G. Correr, il M. chiese all'imperatore Ferdinando I di convogliare da Trieste a Venezia buona parte del traffico proveniente dall'India, collegandolo a un sistema ferroviario che doveva unire Verona a Innsbruck. Tre mesi dopo, il 10 giugno, parlando all'Ateneo sull'"Importanza e i mezzi per ravvivare le condizioni economiche di Venezia", riprese il tema sostenendo la necessità di istituire una scuola di commercio e nautica per formare marinai per la navigazione mercantile e auspicò la fondazione di un periodico commerciale che, superando la sudditanza nei confronti del Lloyd triestino, consolidasse un'identità veneziana. Questo clima di attenzione e di dibattito attorno alle questioni economiche venne rafforzato, in giugno, dall'arrivo in città - su invito dello stesso M. e di V. Pasini - di R. Cobden, che l'anno prima aveva portato la Anti-Corn Law League alla vittoria, ottenendo l'abolizione del dazio sul grano. Nata come una battaglia economica, la questione si era proiettata su un terreno politico: ciò ne fece un modello da seguire anche a Venezia, inducendo il M. a proporre che l'Ateneo formasse una commissione per valutare se anche nelle province venete "la libertà del commercio sia utile o no".

L'euforia per l'elezione di Pio IX e la successiva amnistia fu percepita bene il 13 sett. 1846, quando si aprì a Venezia il IX Congresso degli scienziati che ebbe nel M. un protagonista attivo.

Malinconico e insicuro in privato, oratore vivace e preciso in pubblico, energico pur se venato da uno scetticismo che ne segnava il profondo realismo, partecipò a numerose sessioni parlando di ferrovie, di diritto e di letteratura, proponendo un coordinamento di tutte le associazioni agrarie per respingere chi consigliava "un patto d'onore di non bere che vini nostrani"; ancora, un patronato per i liberati dal carcere, una casa per esposti senza famiglia e di figli di artigiani poveri, sempre cogliendo l'occasione di criticare la politica asburgica, al punto che al termine del congresso la polizia decise di non perderlo più d'occhio, disponendone il pedinamento.

Ma più ancora che nei dibattiti cui prese parte, la posizione del M. emerse nel saggio Giurisprudenza veneta contenuto nella monumentale guida Venezia e le sue lagune (I-IV, Venezia 1847: I, pp. 275-342), offerta ai convegnisti dal Comune.

Nei suoi quattro volumi, in modo più esteso rispetto alle guide offerte nei congressi precedenti, si parlava di storia e di arte, della laguna, del porto e dell'economia, di tradizioni, istituzioni culturali e culti religiosi. Nel saggio introduttivo (La storia civile e politica) A. Sagredo, storico ed ex patrizio, si sforzò di contrastare la leggenda nera alimentata da Daru e dal romanticismo, riconoscendo la dinamica sociale e istituzionale della Serenissima e ricollocando i metodi del Consiglio dei dieci e degli inquisitori nel solco di una prassi comune agli antichi Stati. In tal modo si rivalutavano le istituzioni e la memoria della Repubblica, rafforzandone l'immagine anche in chiave civile. Nel M. invece l'assunto politico apparve scoperto, da subito. Compiendo una definitiva operazione di sintesi sul diritto civile veneto, che ne giustificò due traduzioni in francese e in greco, colse l'occasione per paragonare diritto e procedure veneti alla legge austriaca, mostrando come i primi fossero, nonostante gli errori e le limitazioni del rito del Consiglio dei dieci, ancora vitali e, soprattutto, in grado di fornire maggiori garanzie rispetto al processo asburgico. Una posizione poi condivisa da altri giuristi, da L. Fortis a D. Giuriati, a G. Calucci. E pur tra qualche inesattezza e alcune forzature, Giurisprudenza veneta mostrò una conoscenza dall'interno del problema, approfondita nel passaggio non sporadico tra le carte d'archivio e in biblioteca e dall'inevitabile confronto - svoltosi in età giovanile col padre e i suoi colleghi - con gli ultimi esponenti dell'antico foro veneto, testimoni delle consuetudini su cui si basava quel diritto. In particolare il M. si soffermò sul processo penale - davanti alla Quarantia criminal, con un pubblico accusatore (l'avogador di Comun) e avvocati scelti dall'imputato o d'ufficio e gratuiti - sfumando sulla procedura dei Dieci e sostenendo che pur nella "macchia che nulla può giustificare" del rito inquisitorio, l'imputato manteneva ancora qualche diritto. Cosa che nella Venezia coeva non era possibile: "i popoli non si governano con il morso e con la frusta, ma eziandio e più con la benevolenza e con l'affetto" (in Venezia e le sue lagune, cit., I, p. 342), concludeva.

Pochi giorni prima del suo arresto, il 10 genn. 1848, il M. aveva chiesto l'autorizzazione a ristampare per motivi economici Giurisprudenza veneta, ma non ottenne risposta. Interrogato in carcere, affiderà a queste tesi la necessità della riforma della procedura penale austriaca, che vedrà la luce nel 1850 recependo buona parte delle istanze che anche il M. aveva auspicato, dal diritto alla difesa in presenza di un avvocato, al dibattimento pubblico.

Mentre si approssimava la crisi rivoluzionaria, parallelamente all'azione di Cattaneo a Milano, il M. rafforzò la lotta legale, unendo alle richieste economiche la contestazione delle mancate riforme promesse nel '15. Il 21 dic. 1847 chiese al governatore delle province venete A. von Palffy che la Congregazione centrale formasse una commissione per indagare le ragioni del malcontento popolare, studiandone i bisogni e inoltrandoli al governo viennese per porvi rimedio. Analoga petizione fu avanzata da Avesani con l'appoggio della Camera di commercio. Il 30 dicembre Tommaseo pronunciò nell'Ateneo veneto il celebre discorso sulla censura, Dello stato presente delle lettere in Italia; ai primi giorni di gennaio la comunità israelitica di Venezia chiese al M. di inserire nel suo programma anche l'emancipazione totale degli ebrei. Ormai il movimento era esteso: l'8 genn. 1848 il M. rinnovò in una più ampia istanza alla Congregazione centrale una serie pressante di richieste ("molto e subito") per la concessione di interventi in favore dello sviluppo dei traffici, delle finanze, dell'Esercito e della Marina in chiave "veramente nazionale e italiana", libertà di parola, ingresso nella Lega doganale italiana, abolizione dei privilegi feudali che ostacolavano l'agricoltura, emancipazione degli ebrei, riforma del diritto. Il 18 gennaio venne arrestato insieme con Tommaseo.

Nel corso dei numerosi interrogatori il M. espose lucidamente le sue tesi riguardo al malcontento popolare, alla necessità delle riforme, al rischio di un'insurrezione, confermando come l'agitazione legale fosse stata improntata a "calmare gli animi, mostrando la possibilità di miglioramenti senza rivoluzioni e senza sangue", cercando di convincere Vienna "ch'era giusto, necessario, urgente far concessioni". In seguito a tali deposizioni l'accusa di alto tradimento e insurrezione fu derubricata in "perturbazione della pubblica tranquillità", ma fu sufficiente a farlo restare in carcere, come avvenne anche per Tommaseo. Fu proprio in questo periodo che da un lato egli si persuase della necessità della rivoluzione, dall'altro i diversi settori della città lo scelsero come capo conclamato del movimento liberale. L'amalgama delle componenti borghese e popolare avvenne sulla base di un progetto generico di rivendicazione costituzionale e nazionale, che trovò il garante comune nel M., nei confronti del quale la prigionia fece crescere un senso di autentica devozione, mentre gli ex patrizi, in particolare la Municipalità guidata dal podestà G. Correr, mostrarono prima della caduta del principe K. von Metternich di accontentarsi della promessa d'introduzione di un regime costituzionale anche nel Lombardo-Veneto. Liberato, insieme con Tommaseo, il 17 marzo 1848, parlando in piazza S. Marco il M. invitò alla calma la folla che lo aveva portato in trionfo, confermando nel contempo che erano maturi i "tempi in cui l'insurrezione non è pur diritto, ma debito". Per evitare ulteriori spargimenti di sangue, dopo gli otto morti dei primi giorni, ottenne l'istituzione di una guardia civica, per tenere a freno le intemperanze degli Austriaci non meno che quelle della piazza. Quando, il 21 marzo, giunse notizia dell'insurrezione milanese, il crescente stato di agitazione popolare convinse il M. che era giunto il momento di agire. La soluzione alla quale era giunto prevedeva l'insurrezione dell'Arsenale. Grazie ai contatti con il maggiore A. Paolucci e con altri ufficiali italiani, il M. contava di creare una sommossa con il coinvolgimento della guardia civica, di militari italiani e di arsenalotti; la formula istituzionale avrebbe dovuto essere la Repubblica, sul modello della Municipalità democratica del 1797 e dell'eredità positiva della Serenissima. Dopo le consultazioni notturne con amici e collaboratori, tra cui L. Pincherle, Avesani e lo stesso Tommaseo, il mattino del 22 marzo, alla notizia che gli arsenalotti in rivolta avevano ucciso il colonnello G. Marinovich, il M. ruppe ogni esitazione. Presentatosi, col figlio Giorgio, alle porte dell'Arsenale e presone completo possesso, proclamò la Repubblica al grido di "Viva S. Marco", replicando poi la cerimonia nel pomeriggio nell'affollata piazza intitolata al santo. Il giorno successivo, dopo alcune ore di confusione istituzionale, convogliato su di sé il consenso popolare da un lato e quello del Consiglio comunale d'estrazione altoborghese e aristocratica dall'altro, si mise alla guida di un governo provvisorio, nominando ministri Paleocapa, Tommaseo, Paolucci, Pincherle, Castelli, F. Camerata e A. Toffoli, riservando per sé gli Esteri.

La caratterizzazione era liberalmoderata e non registrava adesioni di matrice mazziniana; d'altra parte il contesto geografico della Repubblica non poteva essere esclusivamente municipale, ma guardava oltre Adriatico, verso Istria e Dalmazia. In realtà la speranza di far insorgere l'altra sponda venne meno già nelle prime settimane quando, malgrado l'indebolimento della Marina asburgica, il controllo dell'Adriatico si rivelò impossibile per la perdita della flotta veneta; peggio andò in Terraferma, persa in pochi mesi, sia per l'inadeguatezza delle strategie militari (di fronte al mancato riarruolamento dei militari italiani già al servizio dell'Austria e non volendo ricorrere alla leva obbligatoria, il M. fece appello all'arruolamento volontario nella guardia civica mobile, ottenendo 3200 uomini solo in aprile) e la poca disponibilità delle province a seguire le direttive di un governo avvertito come lontano (nel solco di quanto già emerso nel 1797), sia per la tempestività della controffensiva austriaca che a giugno controllava di nuovo l'intero Veneto, nonostante l'arrivo delle truppe sabaude e di quelle napoletane del generale G. Pepe, posto poi al comando delle forze veneziane.

Anche il progetto politico del M. venne rapidamente meno giacché l'isolamento di Venezia rese impossibile ogni ipotesi federalista e repubblicana. Mentre la Lombardia e la parte del Veneto ancora libera scelsero la fusione col Regno dell'Alta Italia, a Venezia, nonostante il M. e Tommaseo cercassero invano di rinviare la questione istituzionale alla fine della guerra, Castelli, Paleocapa e Avesani spinsero per la fusione, ratificata dall'Assemblea il 4 luglio 1848. Considerando scontato l'esito delle votazioni anche per l'assenza di buona parte del popolo che pure aveva diritto di voto, il M. invitò i più fedeli repubblicani ad accettare la fusione e lasciò il governo a Castelli, in attesa dell'arrivo dei rappresentanti sabaudi.

Chiusasi rapidamente la parentesi fusionista con l'armistizio Salasco (9 agosto), il M. tornò al potere, dapprima da solo, per evitare la svolta radicale invocata dal mazziniano Circolo italiano, quindi, il 13 agosto, fu eletto dalla rinata Assemblea provinciale a capo di un triumvirato con poteri quasi assoluti, a fianco dei comandanti G.B. Cavedalis e L. Graziani, per governare uno "Stato di Venezia" in cui la formula istituzionale restò volutamente sfumata, ma la cui base fu ancora "l'unione sacra patriottica". Venuti meno i contrasti coi filopiemontesi, continuarono quelli con il Circolo mazziniano, che si conclusero con l'espulsione dell'ala frontista. Il M. inviò allora Tommaseo in Francia con una richiesta di aiuti; quindi, con la speranza di ampliare il fronte antiaustriaco, cercò contatti con l'Ungheria di L. Kossuth. Ma le tre soluzioni che sino all'ultimo gli parvero possibili furono, nell'ordine: uno Stato veneto indipendente, anche di tipo monarchico costituzionale, un Regno Lombardo-Veneto autonomo e il "già ideato" Regno subalpino.

La gestione solitaria e tribunizia del potere, la popolarità assoluta determinata anche da riforme come il suffragio universale, gli interventi economici a sostegno delle finanze dello Stato (mediante prestiti obbligatori e imposte sulla rendita immobiliare riuscì a farsi sovvenzionare dalla Camera di commercio e da decine di ditte le molte spese necessarie durante l'assedio) resero definitiva l'identificazione tra il M. e la città, un fenomeno unico nel Risorgimento, che alla lunga ne ridusse la dimensione politica a un municipalismo ristretto e ingiusto, che finì per pesare sul giudizio storico.

In questa situazione di difficoltà e di isolamento, il potere del M. andò sempre più rafforzandosi anche nei confronti di una pur agguerrita opposizione interna capeggiata da G. Sirtori (che sfociò anche in manifestazioni di piazza): prima venne la nomina plebiscitaria, da parte dell'Assemblea, a presidente di un governo in cui sedevano moderati come Cavedalis, Graziani, Calucci, I. Pesaro Maurogonato, ma anche il vicepresidente del Circolo italiano, l'abate trevigiano G. Da Camin (nel ruolo che era stato di Tommaseo); poi, dopo la "fatal Novara" e la decisione del 2 aprile di resistere "ad ogni costo", giunsero per lui i "poteri illimitati" sino al termine dell'assedio, con il solo condizionamento dal 15 giugno della commissione militare costituita da Sirtori, G. Ulloa e dall'ufficiale di marina F. Baldisserotto, giovani, attivi e soprattutto molto popolari per aver guidato eroicamente la difesa di Mestre e Marghera.

Negli ultimi mesi della Repubblica, stretto tra due partiti - il radicale, partigiano della difesa a oltranza, e il moderato, che spingeva per la resa - il M. tentò comunque una via di mediazione con l'Austria, riproponendo la soluzione di Venezia città libera e di un Lombardo-Veneto autonomo nell'Impero. Fu allora che, dopo alcuni episodi popolari di protesta contro il partito della resa, culminato nell'assalto a palazzo Querini-Stampalia, residenza del patriarca J. Monico, e di fronte ai primi casi di insubordinazione militare e al dilagare del colera, il M. decise la resa, firmata il 22 ag. 1849 dal generale K. Gorzkowski. Nel pomeriggio del 27 agosto il M. salì insieme con gli altri proscritti sul francese "Pluton", diretto a Corfù, quindi il 22 settembre, con la famiglia s'imbarcò sull'"Antelope", alla volta di Marsiglia.

Qui, stremata nel fisico, Teresa si ammalò di colera e morì il 10 ottobre: sepolta la moglie, il M., i figli e il cognato A. Perissinotti ripresero il viaggio per Parigi, dove giunsero il 20 ottobre andando a risiedere in un modesto appartamento in rue des Petites Écuries, prima del definitivo trasferimento, nell'agosto 1850, al 70 di rue Blanche, ai piedi di Montmartre. La sopravvivenza gli fu assicurata dalle lezioni di lingua e letteratura italiana e dalla vendita di una parte della biblioteca, rimasta a Venezia.

All'inizio dell'esilio il M. pensò anche di scrivere una storia di Venezia, progetto troppo impegnativo che abbandonò quasi subito, limitandosi a pubblicare per conto di Cattaneo le Carte segrete e atti ufficiali della polizia austriaca in Italia dal 4 giugno 1814 al 22 marzo 1848, di cui si era impossessato durante il governo provvisorio (I-III, Capolago 1851-52); allo stesso modo presto rinunciò all'idea di fare il consulente e l'avvocato per clienti interessati a rapporti con l'Italia.

Fu in questo periodo che nel M. giunse a maturazione un compiuto pensiero politico, in cui traspose le sue pur fallimentari esperienze veneziane e altre riflessioni scaturite, in quei mesi, dai frequenti contatti con molti francesi - V. Hugo, J. Michelet, E. Quinet, A. de Lamartine e F. de Lamennais, Girolamo Bonaparte, A. de Tocqueville - ed esuli, ungheresi, polacchi, e italiani: G. Montanelli, G. Pallavicino, G. Ferrari, V. Gioberti, G. Ulloa, Pepe. Nel corso del 1852 incontrò più volte C. di Cavour al quale lasciò intendere di poter abdicare alla pregiudiziale repubblicana in cambio di un impegno sempre più marcato dei Savoia nella causa dell'Unità e dell'indipendenza italiana. Dovette invece rinunziare a un viaggio in Piemonte con la famiglia per l'aggravarsi della malattia della figlia Emilia che, sofferente di epilessia sin da bambina, andò peggiorando sino a degenerare in continui attacchi che la portarono alla morte il 24 genn. 1854. Nel contempo si dissociò apertamente dalle posizioni mazziniane, rifiutandosi di aderire al Comitato nazionale, ma prese anche le distanze dal federalismo antiunitario di Ferrari.

La ripresa dell'attività politica avvenne con la risposta all'intervento con cui lord John Russell aveva invitato gli Italiani a non sollevarsi contro l'Austria, confidando nel fatto che alla lunga il governo asburgico avrebbe concesso più di quanto fosse possibile ottenere con le insurrezioni. L'intervento del M., pubblicato ne La Presse del 19 marzo 1854, fu considerato come l'annuncio del ritorno all'azione: in realtà svelò un autentico disegno politico che, da un lato, cercava di bloccare i tentativi diplomatici di Francia e Inghilterra di avvicinare l'Austria in chiave antirussa, dall'altro rafforzava l'idea che la rivoluzione italiana non solo fosse imminente, ma potesse anche far esplodere un più ampio movimento di instabilità europea.

La lettera scatenò polemiche e timori, tanto che alcuni ministri francesi proposero l'espulsione del M., ma Napoleone III si oppose. Tre mesi dopo, il 20 giugno, il M. si portò a Londra, dove incontrò i più importanti esponenti politici inglesi, tra cui Clarendon, Granville, Palmerston, W.E. Gladstone, Cobden. Dai colloqui derivò una favorevole accoglienza personale, ma poca attenzione politica verso la situazione italiana. Solo con la fine della guerra di Crimea e della temporanea alleanza tra Austria, Francia e Inghilterra, il M. poté rilanciare il programma per la formazione del Partito nazionale italiano, secondo il modello anticipato nella risposta a lord Russell e nel documento programmatico approvato sin dal '54 dagli esuli democratici e già presentato a Cavour, in cui si dichiarava questione secondaria l'alternativa tra repubblica e monarchia.

Dopo aver respinto la propaganda murattiana, il M. di concerto con G. Pallavicino Trivulzio dedicò gli ultimi anni della sua vita a convincere i democratici ad aderire al progetto di unificazione sotto un Piemonte capace di mettere da parte ogni eventuale ambizione di mero ingrandimento territoriale.

Per far questo non lesinò interventi sulla stampa internazionale, come quello apparso nel Times del 25 maggio 1856 contro la mazziniana teoria del pugnale, che, ribadendo la necessità della presa di distanza dalla dottrina dell'assassinio politico, suscitò la replica sdegnata di Mazzini, ma raccolse anche adesioni, tra cui quella di G. Garibaldi. Secondo il M. la scelta dei Savoia si coniugava all'idea di convocare un'Assemblea rappresentativa della volontà della nazione di proclamare re Vittorio Emanuele II; sostituendosi progressivamente al M. alla guida del Partito nazionale, anche per l'affievolirsi delle sue forze, Pallavicino e G. La Farina imposero invece la linea cavouriana. Comunque, dopo il fallimento della spedizione di C. Pisacane e di altri tentativi mazziniani, il movimento di liberazione si identificò sempre più con il partito voluto dal M., anche se nell'agosto La Farina ne mutò il nome in quello di Società nazionale italiana: per il peggioramento delle proprie condizioni fisiche il M. anziché opporsi preferì dare la propria adesione.

Il M. morì a Parigi il 22 sett. 1857, assistito dal figlio Giorgio: il suo corpo venne sepolto nel cimitero di Montmartre, accanto alla figlia Emilia.