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di Bruno Bongiovanni
sommario: 1. Prologo in Russia. 2. Populismo russo e socialismo. 3.
Farmers americani e populismo individualistico. 4. Peripezie europee
di un concetto. 5. Dal populismo urbano al populismo senza popolo. □
Bibliografia.
1. Prologo in Russia
Il termine 'populismo' corrisponde alla parola russa narodničestvo,
la quale, a sua volta, deriva da narod, ovverossia 'popolo'. La
parola russa cominciò a essere utilizzata intorno al 1870, e
ancor più intorno al 1875. Nello stesso periodo si diffuse in
Russia anche il termine narodnik, ovverossia 'populista'. Negli anni
settanta dell'Ottocento, d'altra parte, il movimento cui faceva
riferimento la nuova parola, sino ad allora un insieme senza nome di
vigorose personalità, di agguerrite teorie politico-sociali e
di realtà oggettive dotate di un peculiare profilo
strutturale, assunse con forza una visibilità e una
vitalità che lo rendevano in qualche modo al suo interno
omogeneo, distinguendolo con nettezza dal restante movimento
socialista europeo. Prima di quella particolare congiuntura si era
parlato, a proposito dei personaggi che saranno poi
storiograficamente ricompresi appunto nel narodničestvo, di
democratici, di radicali, di socialisti, di comunisti, e addirittura
di 'nichilisti' (o 'nihilisti'): un termine, quest'ultimo, che ebbe
una gran fortuna internazionale, e non solo politica, ma ancor
più psicologico-culturale, e talvolta fuorviante rispetto al
significato originario, dopo la pubblicazione, nel 1862, del romanzo
di Turgenev Padri e figli.
Gli anni settanta, quelli che dettero un nome al fenomeno, si
aprirono del resto proprio con la morte di Herzen, l'uomo che,
nell'esilio, aveva rappresentato il movimento democratico e
socialista russo; proseguirono poi con il compimento, in ambito
processuale, del torbido affare Nečaev, con la sconfessione di
quest'ultimo e con il conseguente isterilirsi della tentazione
meramente settario-cospirativa; con il grande movimento dell''andata
al popolo' e con la propaganda degli studenti nelle campagne
(1874-1877), fenomeni che contribuirono di fatto a diffondere in
modo capillare la parola e a trasformarla in un concetto politico e
in un appello all'azione pratica. Si arrivò poi, proprio
nell'anno della morte di Bakunin (1876), alla formazione della prima
organizzazione rivoluzionaria panrussa, la Zemlja i volja; in
seguito, nel 1879, avvennero la scissione che la lacerò e la
nascita della Narodnaja volja, la cui febbrile deriva terroristica
culminò nel 1881 con l'uccisione di Alessandro II, lo zar
'liberatore'. Questo avvenimento, a causa della repressione che ne
seguì, provocò una crisi profonda nel movimento
rivoluzionario russo, concludendone di fatto un'intera stagione.
Franco Venturi, storico insuperato delle idee, dei programmi e
dell'intera parabola storica dei populisti russi, ha giustamente
retrodatato la vicenda storica del populismo al 1848. Nella sua
persuasiva e ormai unanimemente accettata periodizzazione del
fenomeno l'intero scenario evocato dal termine narodničestvo si
estende elasticamente nel tempo in due direzioni, vale a dire
all'indietro appunto verso il 1848, e in avanti verso i nuovi
sviluppi del movimento socialista russo, un movimento segnato
profondamente, e per sempre, anche nella fase bolscevica, nonostante
le roventi polemiche e le aspre ripulse, dall'esperienza
populistica. La fortuna del termine in questione, a partire dal
terreno strettamente semantico-lessicale, è stata infatti
tenuta in vita e ulteriormente dilatata, dopo l'eclisse dei primi
anni ottanta, proprio dalla critica di quei socialisti russi,
talvolta riparati in Occidente, che facevano riferimento ai
programmi politici della socialdemocrazia europea e che si trovavano
tuttavia costretti a confrontarsi, e a venire inevitabilmente a
patti, con i problemi ineludibili, e di fatto insormontabili, posti
dalle tutt'altro che esaurite ragioni sociali e strutturali che
avevano disegnato l'originale fisionomia del movimento populista
russo. Tali ragioni, malgrado l'ormai iniziata industrializzazione
in aree limitate dell'immenso Impero, avevano pur sempre a che fare
con l'estesissima arretratezza precapitalistica, complicata e non
sanata dall'emancipazione dei servi del 1861, con la persistente
centralità assoluta del mondo rurale, e con la forma
"semi-asiatica e semi-feudale", secondo la definizione di Marx, del
sistema zarista di potere e di controllo sociale.
È comunque con il fallimento in Occidente delle rivoluzioni
democratiche del 1848-1849 che si può far datare l'inizio di
un approccio 'populistico' allo sviluppo delle idee rivoluzionarie
in Russia, un approccio che sempre, sul terreno culturale come su
quello politico, è stato innescato da una risposta alle sfide
vincenti (lo sviluppo), o anche alle sfide abortite (l'avvento della
democrazia), delle aree geoeconomiche considerate storicamente
più evolute. Dopo aver letto i risultati, pur animati da
forte spirito conservatore, del viaggio-inchiesta in Russia del
barone prussiano Haxthausen, e dopo aver ritenuto praticamente
esaurita, nel 1849-1850, la spinta propulsiva della dinamica
democratica e socialista in Occidente, fu Herzen che cominciò
a individuare nel patrimonio comunitario dei contadini russi, vale a
dire nella comune rurale spontaneamente e non artificialmente
collettivistica (l'obščina), il punto di partenza della
rigenerazione sociale - e morale - in Russia. Nell'Impero zarista la
strada verso la redenzione doveva così restare, rispetto
all'Europa occidentale, rigorosamente autonoma e rispettosa della
propria specificità. Poteva anzi essere la Russia, e non
viceversa, a indicare al mondo sviluppato, pur superiore quanto a
risorse materiali, la via della soluzione democratica e popolare
della questione sociale: ex Oriente lux.
Ed ecco profilarsi i fondamenti essenziali dell'identità del
movimento socialista-populista russo, un'identità in gran
parte costruita nell'ambito del confronto-contrasto con la
realtà economico-industriale europea e con il panorama
sociale proletarizzato che ne era scaturito. La presunta
arretratezza non era realmente tale: per i populisti rivoluzionari,
che si trovavano per questo aspetto in sintonia con l'orgoglio
'grande-slavo' o addirittura panslavista dei pur reazionari
'slavofili', si trattava di una differenza strutturale e di una via
peculiare che poteva e doveva, tra l'altro, consentire di evitare le
forche caudine e le peripezie sociali dello sviluppo capitalistico,
quello sviluppo che per i socialisti occidentali si poneva invece
come una tappa intermedia ineludibile, nonché produttrice di
enorme ricchezza collettiva e anche di irrinunciabili spazi di
libertà. Il territorio da cui far partire la battaglia per
un'emancipazione futura, che equivaleva di fatto alla restaurazione
della pienezza del comunismo rurale, non era la città, ma la
campagna, non l'industria anonima e spersonalizzante, ma il mondo
patriarcale e fortemente coeso della produzione rurale associata.
Il soggetto rivoluzionario per eccellenza era di conseguenza
costituito dai contadini, che si identificavano in toto appunto con
il popolo e con la virtuosa morale comunitaria che lo
contraddistingueva, e non dagli operai, consustanziali - tanto da
esserne il prodotto più clamorosamente visibile - con il
processo capitalistico-borghese, un processo che corrompeva i
costumi imborghesendoli con miraggi mercantili, divideva la
comunità, degradava il tessuto sociale, creava individui e
individualismi, allontanava dalle radici profonde, e naturali, della
vita collettiva. Il socialismo, o il comunismo, non erano l'esito
più o meno inevitabile, il rovesciamento-inveramento, da
attuarsi con le riforme o con la rivoluzione, della dinamica
capitalistica giunta alla sua feconda maturità, ma esistevano
da tempo nell'organizzazione sociale e nel grembo antico delle
istituzioni comunitarie russe, tanto da esserne diventati una sorta
di codice genetico. Il che fare non consisteva, infine,
nell'assecondare lo sviluppo storico, presunto alleato
nell'Occidente della causa dell'emancipazione operaia, in attesa
della conquista della democrazia da parte dell'immensa maggioranza
proletarizzata (e quindi potenzialmente e a posteriori socialista),
ma nel liberare l'immensa maggioranza contadina, già
socialista a priori, dalle sovrastrutture parassitarie, in primo
luogo dallo zarismo autocratico-liberticida e dall'aristocrazia
fondiaria, con il risultato di lasciar spontaneamente scorrere in
superficie il libero fiume incorrotto di un universo contadino e
popolare messo finalmente nelle condizioni di obbedire, invece che a
padroni esogeni e dispotici, alla propria natura.
Se lo sviluppo industriale era dunque in Occidente l'alleato
dell'emancipazione operaia e della marcia verso il socialismo,
nell'Europa orientale, per i populisti, esso era considerato la
possibile causa di un deragliamento strutturale che, con esiti
irreversibilmente antisocialistici, avrebbe potuto anche inquinare e
nel tempo demolire il comunismo contadino autoctono.
A questo proposito, anche se in chiave decisamente critica, e non
certo apologetica, Jules Michelet - in un passo pubblicato nel 1854
all'interno delle Légendes démocratiques du Nord, ma
scritto nel 1851, immediatamente dopo la lettura di Herzen -
confermava che l'essenza della vita russa, in virtù della
distribuzione della terra da parte della comunità rurale, era
"il comunismo", un comunismo sorvegliato e promosso
dall'autorità del signore feudale: la forza della Russia, per
Michelet, analoga per certi versi a quella degli Stati Uniti,
consisteva in una "specie di legge agraria", ossia nella
"distribuzione della terra a tutti i sopravvenienti". Il confronto
con gli Stati Uniti, del resto, non era certo una novità, e
lo stesso concetto di populismo uscirà ulteriormente
approfondito e reso più complesso, alla fine del XIX secolo,
dall'esperienza americana. Non solo Tocqueville, infatti, nella
celebre chiusa della prima parte de La démocratie en
Amérique, aveva profetizzato (in America nella
libertà, in Russia nella schiavitù) un vitale destino
di contiguità tra le due nazioni 'popolari' per eccellenza,
ma lo stesso 'slavofilo' Kireevskij, amico di Herzen, nel 1830,
cinque anni prima di Tocqueville, aveva identificato nei Russi e
negli Americani, in quanto popoli giovani e non logorati, i soli due
soggetti dello scenario internazionale salvatisi dal generale
rilassamento dei costumi subìto dall'umanità
civilizzata.
2. Populismo russo e socialismo
L'esaltazione del popolo, racchiuso in una sorta di fissismo sociale
che predisponeva forme di resistenza contro l'invadenza
traumatizzante della storia, nonché erede e depositario della
forma organica e armonica per eccellenza della convivenza,
richiedeva tuttavia la predicazione, o anche l'agitazione
rivoluzionaria introdotta dall'esterno, da parte di un ceto sociale
largamente presente in Russia, non di rado privo di un'occupazione
stabile, spesso frustrato (soprattutto dopo la Rivoluzione francese)
e psicologicamente attratto-respinto dall'Occidente, vale a dire
l'intelligencija, parola nata significativamente negli anni
sessanta, con qualche anticipo sul termine narodničestvo. Il popolo
contadino, infatti, in ragione dell'oppressione che subiva e delle
condizioni miserevoli in cui, anche sul piano spirituale, si
trovava, era comunista e non sapeva di essere tale. Non aveva
cioè conoscenza dell'enorme potenziale di liberazione
imprigionato nell'obščina, e cioè in quelle istituzioni che
pure costituivano la forma della sua vita sociale quotidiana.
Occorreva accostarlo, trovare un linguaggio comune, risvegliarlo,
indirizzarne nella giusta direzione le pulsioni di rivolta,
scuoterlo con azioni esemplari, non esclusa, nei momenti di
particolare disperazione, l'arma estrema del terrorismo. Occorreva
insomma convincerlo che il comunismo era lì, non restava che
afferrarlo. Narodnik, populista, non era del resto l'uomo del
popolo, vale a dire il contadino russo, la cui autoevidenza
'popolare' non aveva infatti bisogno di ulteriori specificazioni, ma
il militante proveniente dalle file dell'intelligencija che incitava
il popolo a diventare consapevolmente ciò che esso già
era. Emergeva qui una costante di ciò che sarà, in
contesti certo diversi, il pur variegato concetto di populismo, un
costrutto concettuale che aveva e ha tuttora a che fare non tanto
con le presunte caratteristiche specifiche del popolo, quanto con la
relazione che si viene a creare tra tali caratteristiche (esposte
come fatti e come valori) e i soggetti esterni, o anche interni (ma
autonomizzatisi), i quali, con motivazioni diverse, intendevano e
intendono valorizzarle, portarle alla luce, rappresentarle,
organizzarle, mobilitarle. Il protobolscevismo leninista, all'inizio
del XX secolo, senza volgere formalmente le spalle allo schieramento
socialdemocratico internazionale, seppe, universalizzandola, e
riferendola al proletariato, dare sostanza teorico-politica proprio
a questa relazione.
D'altra parte, un'aporia di partenza, probabilmente ineliminabile,
risiede nel concetto stesso di 'popolo', nell'accezione in cui
questo termine viene comunemente inteso e usato. I Romani,
com'è noto, avevano escogitato la formula Senatus Populusque
Romanus, a testimonianza del fatto che il popolo era una delle due
componenti, quella plebea, della Respublica romanorum. Tale
componente era naturalmente di gran lunga la più numerosa e
il principato, dopo il crepuscolo della repubblica, fu anche la
risposta cesaristica alle lacerazioni generate dall'antagonismo tra
le due componenti. Nel mondo moderno e contemporaneo, tuttavia, il
'popolo' sin nelle stesse costituzioni - frutto, queste ultime,
dell'istituzionalizzarsi della sfida lanciata dal liberalismo e
dalla democrazia - diventerà la totalità della
popolazione, resa compatta in taluni casi dal concetto forte di
'nazione', e il luogo sociale-universale da cui, legittimando il
potere, verranno fatte scaturire la sovranità e la
rappresentanza. Esso non smarriva però, neppure sotto il
profilo semantico-lessicale - soprattutto in talune circostanze, e
in taluni contesti storici - la sua originaria parzialità, la
sua dimensione assiologica, il suo passato e il suo presente di
generica subalternità, e infine la sua aprioristica e
compatta organicità, contrapposta alla complessità
policlassistica delle società moderne e nel contempo alle
formazioni oligarchiche germinate dal potere politico-amministrativo
e dal denaro.
L'ambiguità derivava dal fatto che il 'popolo' era, insieme,
la collettività dei cittadini (un concetto giuridico-politico
che privilegia l'inclusione di tutti i soggetti della 'nazione') e
la collettività dei produttori (un concetto sociopolitico, si
pensi al Terzo stato di Sieyès, che può fondarsi
sull'esclusione degli 'oziosi', ma anche, talora, dei cosiddetti
parassiti, dei politicanti, degli intellettuali, dei 'borghesi',
soprattutto di quelli che vivono della mediazione, come, in un noto
stereotipo, gli ebrei, ecc.). Non sempre, ovviamente, le due
collettività poterono identificarsi. Il 'popolo' fu
così, di volta in volta, o contemporaneamente, il 'tutto' e
la 'parte', tanto che chi non veniva identificato con il popolo -
concetto dotatosi nel romanticismo e in genere nel XIX secolo di una
dimensione religiosa o addirittura mistica - poteva essere ritenuto
estraneo, straniero, alieno e anche nemico. Il populista,
così, poté essere talora colui che, in nome dei valori
originari e preesistenti del popolo, enfatizzava prima la percezione
che il popolo aveva di se stesso come 'parte' larghissimamente
maggioritaria e purtuttavia insidiata nelle sue prerogative e
addirittura nella sua identità, valorizzava poi la protesta
collegata a tale percezione e spingeva infine la 'parte' ad
autoconsiderarsi come 'tutto' e a sentirsi integrata con le proprie
istituzioni originarie, con i programmi diffusi dal populista
stesso, o anche, in talune esperienze novecentesche, con lo Stato e
con le élites al potere, soprattutto con quelle recenti di
origine 'plebea'.Tutto ciò, pur partendo dall'esperienza
russa, ha tuttavia a che fare con la deriva che ebbe il concetto di
populismo in generale, identificabile, in quanto tale, non con una
dottrina sistematizzata una volta per tutte, ma piuttosto con un
atteggiamento politico, e mentale, cangiante nel tempo e nelle
diverse realtà territoriali.
Che cosa fu invece il populismo russo realmente esistito? Che cosa
rappresentò nella storia della Russia? Numerose e autorevoli
sono state le risposte fornite dalla storiografia a queste domande.
Per Venturi e per Berlin esso fu sostanzialmente un'occasione
mancata, e anche autoritariamente soffocata (dallo zarismo e dal
bolscevismo), tanto da rappresentare la possibilità non
realizzatasi di uno sviluppo democratico e liberale del movimento
socialista russo, parte integrante, pur nella sua
specificità, del movimento socialista europeo del XIX secolo.
Per Gerschenkron, invece, che fece della sua conclamata differenza
una sorta di modello esemplare, il populismo russo fu un
fondamentale e 'rivelatore' capitolo della storia delle ideologie in
una situazione di arretratezza. Per altri ancora, come Strada (v.,
1971), esso fu il movimento che conferì una "logica", cui si
affiancò la "storicità" marxiana, al successivo
movimento rivoluzionario russo, e in particolare al bolscevismo di
Lenin. La questione della continuità (oggettiva) o della
discontinuità (soggettiva e oggettiva) tra populismo e
bolscevismo è d'altra parte, da tutti i punti di vista,
assolutamente ineludibile.
Diverse furono, del resto, le anime del populismo russo:
aristocraticamente liberale e democratica quella di Herzen;
anarco-ribellistica e antitedesca quella di Bakunin;
democratico-utopistica e letterariamente 'realistica' quella di
Belinskij; legata a intellettuali di rango sociale declassato e
portatori di radicalità crescente quella di Černyševskij e di
Dobroljubov (i cosiddetti 'nichilisti'); neogiacobina quella di
Tkačëv; internazionalistica quella di Lavrov; e così
via, sino al tenebroso Nečaev, agli intransigenti, ai terroristi, ma
anche, dopo la crisi del 1881, sino ai populisti liberali o 'legali'
(Daniel'son e Michailovskij) da una parte e, dall'altra, al
raggruppamento Čërnyi peredel, sorto nel 1879. Quest'ultimo,
favorevole all'azione politica, costituirà il punto di
partenza che anni dopo consentirà a una componente del
movimento populistico, grazie al ruolo inizialmente giocato da
Plechanov, di confluire nel POSDR (Partito Operaio Socialdemocratico
Russo), formatosi nel 1894 e, a partire dal 1903, pienamente
'occidentalista', vale a dire non coinvolto nel particolarismo
populistico-slavofilo, solo, e non sempre, con la frazione
menscevica. Tutte le sfaccettature, e le propensioni, del pensiero
democratico e socialista occidentale sono state comunque recepite
dal populismo russo, il quale ha mantenuto la propria fisionomia e
la propria fedeltà al comunitarismo rurale autoctono, ma ha
mutato le strategie e le forme organizzative, sospinto certamente
dall'evoluzione storico-sociale della Russia e tuttavia anche grazie
alle suggestioni assorbite dalla cultura filosofica, politica e
letteraria occidentale. Il populismo non poté dunque
emanciparsi dall'Occidente.
Il socialismo 'occidentalizzato' russo, quello che si autodefiniva
socialdemocratico, non poté, a sua volta, emanciparsi dal
populismo. Lo stesso Lenin, del resto, pur individuando nel
populismo l'ideologia del "piccolo produttore" utopista e
reazionario, intriso di "romanticismo economico", e pur riconoscendo
come ormai irreversibili gli sviluppi dei rapporti capitalistici di
produzione in Russia, ebbe a considerare la socialdemocrazia russa
come la sola erede legittima del populismo rivoluzionario e dei
combattenti della Narodnaja volja.
Il bolscevismo al potere, invece, soprattutto alla fine degli anni
venti, dopo la proclamazione della teoria del socialismo in un paese
solo, farà di tutto, cancellando d'autorità ogni
dibattito storiografico, per rimuovere persino la memoria di tale
eredità, divenuta ora doppiamente imbarazzante con la
collettivizzazione delle campagne e con la terribile
repressione-deportazione dei contadini, annientati nella loro
residua autonomia e nella loro capacità di resistenza. Il
kolkhoz e il PCUS, intrecciati nelle campagne in una sintesi
politico-sociale da cui scaturiva un socialismo che poteva apparire
una sorta di populismo totalitario di Stato, avrebbero potuto
infatti essere interpretati come due entità perversamente
complementari, atte a riprodurre in modo allargato e onnipervasivo
il sodalizio dispotico-orientale - da Marx in molte occasioni
denunciato - che, sino al 1861 e anche oltre, aveva fatto della
comune rurale e dello zarismo autocratico due facce di una medesima
medaglia.
*
Wikipedia
Populismo russo
Il populismo – narodnicestvo, da narod, popolo – è un
movimento politico e culturale nato in Russia verso la metà
del XIX secolo. Sviluppatosi nelle città e formato da
intellettuali e studenti consapevoli dei gravi problemi economici,
sociali e politici della società russa, si proponeva
l'emancipazione delle masse contadine, la fine dell'autocrazia
zarista e la creazione di una società socialista.
Indice
1 Le premesse
1.1 Gli slavofili
1.2 Gli occidentalisti
1.3 I
democratici-rivoluzionari
1.4 La liberazione dei
contadini
2 La creazione di circoli rivoluzionari
2.1 Il nichilismo
3 I narodniki
3.1 Zemlja i Volja
3.2 Narodnaja volja
Le premesse
Già negli anni venti dell'Ottocento si erano formati in
Russia circoli culturali, diversi ma uniti nella comune
denominazione di «intelligencija», composti inizialmente
da giovani aristocratici e allargatisi fino a integrare elementi
della piccola e media borghesia, i cosiddetti
«raznočincy», che riflettevano sulla condizione
economica e politica della Russia, con visioni e proposte
alternative.
Gli slavofili
Il circolo degli «slavofili», costituito a Mosca negli
anni trenta, fu composto da un ristretto numero di nobili: il
filosofo Ivan Vasilevič Kireevskij, lo scrittore Aleksandr Ivanovič
Košelëv, i fratelli giornalisti Ivan e Konstantin Aksakov
(1817-1860), lo storico Jurij Fëdorovič Samarin (1819-1876).
Espressioni degli interessi dell'aristocrazia possidente,
ammettevano la necessità di alcune riforme politiche e
sociali ed esaltavano il «patrimonio spirituale» del
popolo russo. Esprimendo un giudizio negativo sulle società
liberali europee, che consideravano decadenti, ritenevano che la
Russia, diversamente da quelle, dovesse percorrere un proprio
sviluppo autonomo: condannavano la servitù della gleba ma non
l'autocrazia, alla quale anzi affidavano il compito di attuare
talune riforme sociali, nel mantenimento della primitiva
comunità rurale russa, la «obščina».
La «obščina» era una sopravvivenza della primitiva
agricoltura nomade. Un gruppo di famiglie di contadini si insediava
in un territorio, disboscando con un lavoro comune le terre vergini
che venivano pertanto considerate proprietà collettiva e
distribuite a ciascun contadino per la coltivazione. Poiché
non esistevano concimi e non era utilizzata la rotazione delle
colture, la produttività del suolo si esauriva in pochi anni
e il gruppo emigrava altrove, ripetendo la medesima operazione su
nuove terre vergini.
Essendo nomadi, i contadini non concepivano nemmeno l'idea di una
proprietà privata della terra e quando, con l'instaurazione
del regime feudale, i contadini furono resi stanziali dal grande
proprietario terriero in modo da obbligarli a coltivare le sue
terre, con il miglioramento della produttività grazie ai
concimi e alla rotazione triennale delle colture, continuarono a
lavorare un appezzamento comune del villaggio per trarvi i loro
mezzi di sussistenza e lavorare gratuitamente come servi nelle terre
padronali. Tale lavoro obbligatorio gratuito era chiamato
«barščina» e il contadino era anche tenuto a offrire al
padrone l'«obrok», una quantità prefissata di
prodotti vegetali e animali. La «obščina» era
organizzata nel «mir», l'assemblea della
comunità, sulla quale gravava la responsabilità di
erogare allo Stato il carico fiscale che, secondo il principio della
responsabilità collettiva, gravava sull'intera
comunità, e di scegliere i contadini per il servizio
militare.
Gli slavofili, che pubblicavano la rivista
«Moskvitjanin», Il moscovita, vedevano nella
«obščina» un freno alle temute possibilità
rivoluzionarie dei contadini e idealizzavano i rapporti tra padroni
e servi, che dipingevano oleograficamente in un quadro di idillio
patriarcale. Così fece Konstantin Aksakov inviando nel 1855
allo zar Alessandro II i suoi Studi sulle condizioni interne della
Russia, scritto sulla scorta dell'omonima opera di August von
Haxthausen, pubblicata nel 1852, in cui l'economista tedesco
riteneva che l'arretrata forma comunitaria dei contadini russi fosse
un modello di funzionalità economica: si trattava soltanto,
per Aksakov, di abolire la servitù feudale.
Gli occidentalisti
Gli «occidentalisti» erano invece sostenitori di uno
sviluppo liberale – sul modello anglo-francese – della
società russa: di essi facevano parte il poeta e filosofo
Nikolaj Vladimirovič Stankevič (1813-1840), gli storici Timofej
Nikolaevič Granovskij (1813-1855), Konstantin Dmitreevič Kavelin, lo
scrittore Vasilij Petrovič Botkin (1811-1869). Ritenendo inevitabile
lo sviluppo capitalistico del paese, ritenevano urgente il
superamento delle strutture feudali, la fine o almeno una
limitazione del potere assolutistico, l'acquisizione delle
elementari libertà individuali e si battevano per la
diffusione in Russia della cultura europea occidentale. Diffondevano
le loro idee soprattutto attraverso la rivista «Otocestvennye
Zapiski», Note patrie, fondata nel 1820, che fu soppressa dal
governo nel 1844.
I democratici-rivoluzionari
Mentre gli occidentalisti rifiutavano la via della Russia al
socialismo e anche i mezzi rivoluzionari per ottenere riforme
liberali, una tendenza rivoluzionaria per raggiungere radicali
riforme sociali venne espressa da un gruppo di intellettuali, le cui
personalità più rilevanti erano rappresentate dal
critico letterario Vissarion Grigorevič Belinskij (1811-1848) e da
Aleksandr Ivanovič Herzen (1812-1870).
Belinskij fu collaboratore di «Otečestvennye Zapisti»
(Note patrie) e poi del «Sovremennik», (Il
contemporaneo), rivista letteraria fondata nel 1836 dal poeta
Aleksandr Sergeevič Puškin e rilevata nel 1846 da Nikolaj
Alekseevič Nekrasov, attraverso la quale attaccava l'autocrazia,
chiedeva la liberazione dei contadini e si faceva promotore di un
rinnovamento in senso democratico della letteratura nazionale che,
nei suoi intendimento, avrebbe dovuto essere alla testa della lotta
per un nuovo ordine statale e sociale, fondato sul socialismo.
Recensendo «I misteri di Parigi» di Eugène Sue,
Belinskij scriveva che «il proletariato francese è, di
fronte alla legge, eguale al più ricco dei capitalisti, ma
non ricava niente da questa eguaglianza. Eterno lavoratore del
proprietario e del capitalista, il proletario è completamente
nelle sua mani, è suo schiavo, perché l'altro gli
dà il lavoro e fissa arbitrariamente il compenso»
Belinskij reagì duramente alla svolta reazionaria di Gogol di
cui pure aveva esaltato e fatto conoscere i primi capolavori, specie
quelle Anime morte che avevavo rappresentato la prima, grande
denuncia in letteratura della condizione servile della Russia. Nel
1847, dopo aver letto i Passi scelti della corrispondenza con amici,
in una lettera rimproverò lo scrittore di non essersi
«accorto che la salvezza della Russia non sta nel misticismo,
nell'ascesi o nel pietismo, bensì nei successi della
civilizzazione, dell'illuminismo, dell'umanitarismo».
Negli anni quaranta, l'affermarsi in Francia delle idee socialiste,
divulgate nelle forme «utopistiche» da Charles Fourier e
da Henri de Saint-Simon, ebbe una eco immediata nei circoli radicali
dell'intelligencija occidentalista, come in quello capeggiato a San
Pietroburgo da Michail Vasilevič Butaševič-Petraševskij (1821-1866)
e frequentato anche da un giovane scrittore destinato a un grande
successo, Fëdor Dostoevskij (1821-1881). Petraševskij e il
gruppo dei suoi amici, i petraševtsy, pur essendosi limitati a
confrontarsi e a discutere, furono arrestati come cospiratori e
ventuno di loro, compreso Petraševskij, vennero condannati a morte.
Quando già erano di fronte al plotone di esecuzione, furono
graziati e condannati ai lavori forzati in Siberia, dove
Petraševskij morì. Dostoevskij, dopo quattro anni di carcere
e cinque di servizio militare in un battaglione di punizione,
tornò libero a San Pietroburgo nel 1859, convinto slavofilo e
sostenitore dei valori della tradizione russa.
Aleksandr Ivanovič Herzen (1812-1870) rimase sempre un deciso
avversario dell'autocrazia e della servitù feudale, anche se
a volte si sposto su posizioni slavofile, come quando credette nella
reale intenzioni del regime di voler affrontare una seria riforma
della società russa. Herzen sostenne anche la vitalità
della «obščina», che egli pensava potesse costituire la
base economica e sociale sulla quale edificare il rinnovamento del
Paese in senso socialista. Herzen credeva infatti in un naturale
spirito comunistico del contadino russo: «Il contadino russo
conosce soltanto la moralità che nasce istintivamente e
naturalmente dal suo comunismo [...] la manifesta ingiustizia dei
proprietari terrieri lega il contadino ancor più strettamente
alle leggi della sua comunità [...] l'organizzazione della
comunità ha tenuto testa alle intromissioni del governo [...]
è sopravvissuta ed è rimasta integra fino allo
sviluppo del socialismo in Europa».
In realtà il «comunismo» della comunità
rurale russa era solo apparente. Se è vero che la terra
coltivata non apparteneva al contadino, tanto che periodicamente
essa veniva redistribuita, egli coltivava per proprio conto
l'appezzamento assegnato e a lui solo appartenva il prodotto
ottenuto: non esisteva una produzione comunitaria. Herzen, tuttavia,
al contrario degli slavofili, che vedevano nell'esistenza
dell'«obščina» una garanzia contro la possibilità
di un rivolgimento sociale, vedeva in essa la premessa di una futura
rivoluzione: «Noi russi, che abbiamo conosciuto la
civiltà occidentale, non siamo altro che un mezzo, un
lievito, una mediazione tra il popolo russo e l'Europa
rivoluzionaria. L'uomo dell'avvenire è in Russia il mužik,
esattamente come in Francia è il lavoratore».
L'idea che la comunità contadina costituisse il nucleo
primigenio di una futura società socialista russa sarà
comune ai populisti fino alla Rivoluzione del 1917, e verrà
sostenuta anche dall'anarchico Michail Aleksandrovič Bakunin
(1814-1876). Questi era convinto che i contadini, attraverso la
propaganda dei raznočintsy, avrebbero preso coscienza della
necessità della rivoluzione e, insorti, avrebbero creata la
società anarchica, senza Stato e senza proprietà
privata, fondata sulla proprietà comune della terra.
La liberazione dei contadini
La morte dello zar Nicola I, avvenuta nel 1855, fu accolta con
sollievo da quasi tutta la società russa. All'uomo che aveva
pubblicamente riconosciuto che «la servitù della gleba,
così come esiste in Russia, è un male, ma volerne
parlare sarebbe un male peggiore», succedeva il figlio
Alessandro, convinto che l'abolizione del servaggio fosse necessaria
tanto quanto il mantenimento dei privilegi dei grandi proprietari
fondiari. Il 30 marzo/11 aprile 1856 dichiarò in un
discorso tenuto alla nobiltà di Mosca che «l'esistente
ordinamento della signoria delle anime non può rimanere
immutato. È meglio abolire il diritto alla servitù
della gleba dall'alto, anziché attenderne la soppressione dal
basso, il che escluderebbe il nostro concorso. Prego Lor Signori di
voler riflettere sul modo in cui ciò si potrebbe
attuare».
Furono presentate numerose proposte che vennero raccolte e
analizzate in un Comitato segreto, dal 16 febbraio/28 febbraio 1858
trasformato in «Alto Comitato per la questione agraria»,
presieduto dal fratello dello zar, Konstantin Nikolaevič Romanov.
Anche la stampa fu autorizzata a partecipare al dibattito: dalle
colonne del Contemporaneo intervennero gli scrittori Nikolaj
Gavrilovič Černyševskij (1828-1889), Nikolaj Aleksandrovič
Dobroljubov (1836-1861) e Nikolaj Alekseevič Nekrasov (1821-1878),
molto critici con il regime, avendo giudicato che esso stava
preparando una riforma al solo scopo di mantenere lo status quo.
Invece Herzen, dall'esilio londinese, nutriva fiducia nelle buone
intenzioni della politica dell'Impero.
Il 19 febbraio/3 marzo 1861 lo zar Alessandro II emanava lo
«Statuto dei contadini liberati dalla servitù»,
che sanciva la fine della servitù della gleba e stabiliva la
distribuzione della terra. Il latifondista – ottenuto subito il
risarcimento dallo Stato - cedeva una parte delle sue terre al
«mir» che, pagato un terzo del suo valore, provvedeva ad
assegnarla ai singoli contadini, i quali per 49 anni avrebbero
dovuto pagare allo Stato i rimanenti due terzi attraverso un canone
pari al 6 per cento del valore del suolo, prestando al vecchio
proprietario anche una corvée annuale di 70 giorni. Il
singolo contadino diveniva proprietario della casa ma non della
terra assegnatagli, che rimaneva di proprietà della
«obščina», dalla quale egli poteva però
acquistare privatamente singoli appezzamenti. Inoltre, il decreto
imperiale sottraeva a favore dei proprietari anche un quinto della
terra già in comune godimento dei contadini della
comunità. Pertanto la «obščina» era mantenuta e
rimaneva in vita anche il «mir»; venivano costituiti
anche i «volost», i distretti che riunivano più
villaggi vicini.
Il contadino, formalmente liberato dalla servitù, senza aver
ottenuto alcun miglioramento economico fu così costretto a
rimanere legato al villaggio nel quale permanevano norme feudali,
quali il sistema dei passaporti individuali interni, detenuti dai
proprietari, i quali potevano così impedire il libero
movimento dei contadini. La parte dei contadini che non era in grado
di pagare i canoni o che aveva acquistato privatamente della terra
senza disporre dei capitali necessari a organizzare una moderna
agricoltura, finì per rivendere la terra agli stessi
proprietari o all'emergente borghesia agricola – i
«kulaki», letteralmente, pugni, che iniziavano allora a
fare concorrenza al grande latifondo - trasformandosi in braccianti
o fuggendo in città, dove entrarono come operai nelle
fabbriche industriali.
Il governo attuò anche riforme amministrative, con la
creazione, dal 1º gennaio/13 gennaio 1864, degli
«zemstvo», organi provinciali elettivi, a prestabilita
maggioranza nobiliare e controllati dal governatore, responsabili
dell'istruzione e della sanità, e con l'istituzione, dal 16
giugno/28 giugno 1870 delle dume cittadine che, analogamnete agli
zemstvo, era responsabile di iniziative quali l'istruzione, la
sanità, l'edilizia delle città ed era costituito
elettivamente in base al censo in modo da garantire a nobili e
proprietari la maggioranza nel consiglio.
Dopo la riforma, in luogo della vecchia divisione feudale in padroni
e servi, nelle campagne finì per formarsi la tipica
stratificazione di classe della società moderna: il grande
proprietario terriero, la borghesia agraria, la piccola borghesia
contadina, i contadini poveri e i contadini senza terra.
La creazione di circoli rivoluzionari
Fu grande la delusione provocata da una riforma che poco mutava
delle condizioni sociali dei contadini. Numerose rivolte scoppiarono
nelle campagne, represse con violenza dalla polizia e dall'esercito:
nel villaggio di Bezdna, nel distretto di Spassk, il 24 aprile 1861
ci fu una strage di contadini e il loro capo, il contadino Anton
Sidorov, fu fucilato. Gli studenti dell'Università di Kazan
organizzarono una manifestazione di protesta, durante la quale lo
storico Afanasij Prokofevič Ščapov richiese pubblicamente
l'introduzione della Costituzione in Russia. Černyševskij scrisse le
Lettere senza indirizzo, cinque articoli indirizzati allo zar che
non poterono essere pubblicati per l'intervento della censura, in
cui riconosceva la necessità di un'azione rivoluzionaria per
ottenere un'autentica riforma.
Černyševskij prese l'iniziativa di fondare, nel gennaio del 1862, un
circolo di scacchi nel quale si riunivano oppositori del regime. Il
circolo fu ben presto sciolto, la rivista Il contemporaneo fu
soppressa e lo scrittore, arrestato, subì una lunga odissea
di carcere e deportazione in Siberia, durante la quale scrisse il
romanzo Che fare? che rimase un punto di riferimento per tutti i
rivoluzionari.
Si moltiplicarono gli appelli stampati all'estero o
clandestinamente: nel settembre 1861 Michail Lavronovič Michajlov e
Nikolaj Vasilevič Šelgunov (1824-1891) diffusero in Russia volantini
stampati a Londra con l'appello Alla giovane generazione, invitando
alla creazione di circoli rivoluzionari per l'abbattimento del
regime autocratico. Nel Parlamento della terra si chiedava che una
rappresentanza popolare ridefinisse l'ordinamento della Russia e
riaffrontasse la questione contadina, mentre con La giovane Russia
veniva annunciata la prossima ripresa delle rivoluzioni contadine
del tipo di quelle guidate un tempo da Stenka Razin e da
Pugačëv: «una rivoluzione che modifichi radicalmente
l'intera base dell'ordinamento sociale esistente e annienti i
sostenitori dell'attuale sistema».
Nel novembre 1861 fu fondata dai fratelli Nikolaj (1834-1866) e
Aleksandr Aleksandrovič Serno-Solov'evič (1838-1869) e da Vasilij
Alekseevič Slepcov (1836-1878) l'associazione clandestina
«Zemlja i Volja» (Terra e Libertà), che faceva
riferimento in Russia a Černyševskij ed era appoggiata da Londra da
Herzen e dal poeta Nikolaj Platonovič Ogarëv: facendo
diffondere il manifesto Di che cosa ha bisogno il popolo? e dalle
colonne della rivista «Kolokol», Ogarëv scriveva
che «la vecchia servitù feudale è stata
sostituita da una nuova. In generale, la servitù feudale non
è stata abolita. Il popolo è stato ingannato dallo
zar».
Nell'estate successiva la polizia arrestava i dirigenti della
società segreta. La decisa reazione delle autorità
spaventò i più tiepidi sostenitori delle riforme: non
solo gli «slavofili», ma anche personalità
liberali, come lo storico «occidentalista» Konstantin
Dmitreevič Kavelin e lo scrittore Michail Nikiforovič Katkov si
schierarono a fianco del regime, rinunciando a ogni ulteriore
critica. Kavelin giunse ad affermare che il regime parlamentare
rappresentava un «sogno insensato» e che il popolo russo
«non era ancora maturo» per poter pretendere la
Costituzione.
Il nichilismo
Nel 1863 fu fondato a Mosca dall'uditore di quella Università
Nikolaj Andreevič Išutin (1840-1879) un circolo rivoluzionario, che
si unificò due anni dopo con quello fondato dall'etnografo
Ivan Aleksandrovič Chudjakov (1842-1876). Sostenitori della
creazione di comunità agricole e cooperative nella linea del
socialismo utopistico, essi ritenevano che il regicidio e l'omicidio
dei ministri e dei funzionari zaristi favorisse la spinta
rivoluzionaria della popolazione. A questo scopo, lo studente
moscovita Dmitrij Vladimirovič Karakozov (1840-1866), di famiglia
nobile, si recò nella capitale per sparare allo zar
Alessandro II il 4 aprile 1866, ma fallì il colpo e,
arrestato e processato, fu impiccato.
La figura del giovane intellettuale rivoluzionario di questo periodo
è stata tratteggiata nei romanzi Padri e figli di Ivan
Turgenev, pubblicato nel 1862 e I demoni di Dostoevskij del 1871: il
nichilismo politico fu teorizzato da Sergej Gennadievič Nečaev
(1847-1882).
Questi, uditore all'Università di San Pietroburgo, che alla
fine del 1868 aveva scritto un Programma di azione rivoluzionaria e
nel 1869 era andato a Ginevra per incontrare Bakunin, fondò
con pochi seguaci la società segreta Il tribunale del popolo
e scrisse il Catechismo della rivoluzione, un piano di insurrezione
che sarebbe dovuto avvenire in Russia nel 1870. Non era ritenuta
necessaria una larga preparazione propagandistica, ritenendo che
bastasse l'esempio dell'attività terroristica. Egli
sviluppò anche una sua concezione etica del «vero
rivoluzionario», secondo la quale era morale quanto favoriva
l'azione rivoluzionaria e immorale quello che poteva opporvisi:
«Il rivoluzionario è votato alla morte, egli non ha
interessi né desideri personali, non ha sentimenti né
legami, non ha niente che gli appartenga, nemmeno un nome».
Prossime alla concezione blanquista della tattica rivoluzionaria
sono le teorie espresse dal critico letterario Pëtr Nikitič
Tkačëv (1844-1885): ne I compiti della propaganda
rivoluzionaria in Russia è vicino a Nečaev nell'indicare
l'esigenza di un'insurrezione immediata attraverso l'azione
terroristica, ma se ne differenzia per l'importanza da lui assegnata
al controllo dell'apparato statale, da ottenere mediante il colpo di
Stato, con il quale guidare poi gli sviluppi della rivoluzione, alla
cui testa è sufficiente porre un manipolo di rivoluzionari.
I narodniki
Il nodo da sciogliere rimaneva quello dell'atteggiamento dei
contadini di fronte all'attività delle organizzazioni
rivoluzionarie. Occorreva che i contadini, nel cui interesse era in
definitiva volta tutta l'attività rivoluzionaria e nella cui
effettiva liberazione stava la premessa della liberazione di tutta
la società russa, comprendessero e appoggiassero l'azione
politica degli intellettuali rivoluzionari. Già Herzen nel
1861 aveva rivolto appelli agli studenti perché
«andassero al popolo», ne comprendessero la condizione e
insieme lo istruissero e lo informassero della necessità di
un radicale mutamento della società e delle istituzioni della
Russia. Lo stesso fece Bakunin nel 1869, e quell'invito,
«Andate tra il popolo!», divenne la parola d'ordine che
caratterizzò i «narodniki», i populisti: la
novità politica di questo movimento non sta tanto nella sua
concezione della comunità rurale russa come base di passaggio
al collettivismo socialista - idea già elaborata da decenni -
quanto nella necessità da loro posta di stabilire un contatto
quanto più stretto con le masse contadine che, a parte
sollevazioni spontanee, non si erano mai date un'organizzazione
politica che ne raccogliesse le aspirazioni e li guidasse in
un'azione politica programmata e consapevole.
Il colonnello e professore di matematica dell'Accademia militare
Pëtr Lavrovič Lavrov (1823-1900) - arrestato e deportato in
Siberia a seguito del fallito attentato allo zar dello studente
Karakozov - fu il più autorevole rappresentante del
socialismo populistico russo, insieme con il suo divulgatore, il
sociologo e critico letterario Nikolaj Konstantinovič Michajlovskij
(1842-1904). Le sue Lettere storiche, una serie di articoli che
trattano del significato della storia e dei suoi protagonisti,
costituirono il fondamento teorico di molti giovani populisti.
Lavrov concepisce la storia come la realizzazione del pensiero di
personalità superiori: «Se un pensatore crede nella
realizzazione presente o futura del suo ideale etico, tutta la
storia si raggruppa per lui attorno agli eventi che preparano quella
realizzazione». Poiché questo pensatore è un
uomo che agisce concretamente, i suoi ideali passeranno nella
società, influenzandola profondamente: «L'ideale nasce
nel cervello di un uomo, di qui passa nei cervelli di altri uomini,
cresce qualitativamente con lo sviluppo della dignità
intellettuale e morale di questi uomini, e quantitativamente con il
moltiplicarsi del loro numero, diventa poi una forza sociale quando
queste persone prendono coscienza della propria comunanza ideale e
decidono di condurre un'azione comune».
È dunque una minoranza di persone intellettualmente e
moralmente superiori a fare la storia: «La maggioranza
è condannata a un lavoro pacifico, monotono e incessante a
vantaggio di altri, senza avere tempo libero per l'attività
mentale, ed è pertanto incapace di usare le sue forze immense
per conquistarsi il diritto allo sviluppo, a una vita veramente
umana». L'intellettuale è consapevole della sua
missione e dice a se stesso: «Ogni vantaggio di cui godo, ogni
idea che ho avuto il tempo di acquisire o di elaborare, sono pagate
con il sangue, le sofferenze e il lavoro di milioni di uomini. Il
passato non posso cambiarlo e, per quanto caro sia costato il mio
sviluppo, non posso rinunciarvi». Per migliorare la
società «il male deve essere eliminato per quanto
è possibile, ma è possibile farlo soltanto nella vita.
Il male deve essere sradicato. Non sfuggirò alla
responsabilità del sangue versato per il mio sviluppo, se non
mi avvarrò di questo sviluppo per circoscrivere il male nel
presente e nel futuro. Se sono un uomo evoluto, ho il dovere di
farlo».
Lavrov fuggì dalla Russia nel 1870. Un'organizzazione,
ispirata alle sue teorie, fu fondata clandestinamente nel 1869
presso la Facoltà di Medicina dell'Università della
capitale da Mark Andreevič Natanson (1850-1919) e da Nikolaj
Vasilevič Čajkovskij (1850-1926), prendendo nome da quest'ultimo:
Movimento dei seguaci di Čajkovskij. Ne fece parte anche il principe
Pëtr Alekseevič Kropotkin (1842-1921), destinato a grande fama
come successore di Bakunin a capo del movimento anarchico, che
scriverà nelle sue Memorie che quel circolo non aveva niente
di rivoluzionario, tanto che le sue tesi anarchiche non gli furono
accettate. Vicino a Bakunin era invece il Circolo dei Siberiani
fondato nel 1872 da Aleksandr Vasilevič Dolgušin (1848-1885) che fu
arrestato nel 1873 e morì in carcere.
Zemlja i Volja
Alla fine del 1875 fu fondata da Natanson, Obolešëv (1854-1881)
e Michajlov (1855-1884) l'associazione «Zemlja i volja»
(Terra e libertà), che riprendeva il nome della precedente e
omonima organizzazione immettendovi tuttavia contenuti politici ben
più radicali, tratti da Bakunin, da Tkačëv e da Lavrov.
Applicando la parola d'ordine dell'andata al popolo, gli zemlevol'cy
elaborarono nel 1876 un programma che prevedeva la formazione di una
massa di contadini rivoluzionari intanto che nelle comunità
agricole svolgevano un'azione di propaganda politica che invitava
tanto alle proteste legali contro le autorità quanto
all'insurrezione armata.
Presto si resero conto che i contadini delle obščiny «non
avevano ancora raggiunto un'etica e uno sviluppo
intellettuale» tale da renderli pronti né per
consapevoli iniziative rivoluzionarie né per organizzarsi in
una futura società anarchica. D'altra parte, gli stessi
zemlevol'cy, pur dichiarandosi anarchici, e perciò contrari a
ogni forma di organizzazione autoritaria, ammettevano, sulla scia di
Lavrov, la possibilità dell'esistenza dello Stato almeno
nella fase rivoluzionaria e la stessa struttura organizzativa di
«Zemlja i Volja» era fondata sul centralismo delle
decisioni e su una rigorosa disciplina.
Il fallimento della propaganda nelle campagne portò Zemlja i
Volja a guardare con maggiore interesse alle città, dove gli
scioperi degli operai e le proteste studentesche rappresentavano un
segnale di fermento che poteva sfociare in iniziative
rivoluzionarie. Pur ribadendo, il 15 gennaio del 1879, che
«l'attività tra il popolo e nelle campagne continua a
essere per noi, come sempre, lo strumento fondamentale del
partito», alla fine dell'anno in Russia rimanevano attive solo
due «colonie» di attivisti delle campagne - i cosiddetti
derevenščiki - a Tambov e a Saratov, così che il narodnik
Lopatin poteva scrivere a Friedrich Engels che «la propaganda
socialista tra i contadini è cessata quasi completamente. I
rivoluzionari più impegnati si sono orientati spontaneamente
verso la lotta politica, anche se non hanno il coraggio morale di
ammetterlo apertamente».
Per «lotta politica» Lopatin intendeva la costituzione
di un partito rivoluzionario che si appoggiasse agli operai delle
città e si ponesse obiettivi politici intermedi, avanzando un
programma di rivendicazioni quali la Costituzione e la conquista dei
fondamentali diritti democratici - una forma di lotta, questa,
estranea al bakunismo, che mirava invece al «tutto e
subito», temendo che la conquista di libertà politiche
finisse per frenare lo spirito rivoluzionario - ma Zemlja i volja si
volse soprattutto alla pratica del terrore: il suo programma
prevedeva ora «l'eliminazione sistematica delle
personalità più pericolose o più autorevoli del
governo e, in generale, di coloro che, in un modo o nell'altro,
mantengono in piedi l'odiato regime», anche se nei primi
attentati i zemlevol'cy mirarono più a suscitare clamore che
a uccidere: il 24 gennaio 1878 Vera Zasulič sparò, ferendolo,
il governatore Trepov, che aveva fatto frustare un detenuto.
La Zasulič, al processo nel quale fu assolta, giustificò il
gesto con la necessità «di attirare l'attenzione
dell'opinione pubblica su questo crimine e di mettere un argine alla
continua profanazione della dignità umana». Lo stesso
fece Maria Kolenkina, arrestata il 12 dicembre, e S. N. Bobochov,
nel 1879, che al processo spiegò: «non avevo nessuna
intenzione di uccidere o ferire, o per meglio dire, mi era del tutto
indifferente. Ho sparato solo perché, facendo fuoco, avevo
modo di esprimere apertamente la mia protesta contro i crimini del
governo».
Quello della Zasulič fu l'attentato che inaugurò il nuovo
indirizzo del movimento populista, che inizialmente si
sviluppò soprattutto nel sud dell'Impero: a Odessa, il 30
gennaio, i sadovcy di Ivan Koval'skij resistettero con le armi
all'arresto. Koval'skij - condannato a morte il 2 agosto 1878 - era
pervenuto alla decisione della lotta armata a causa della delusione
procurata dall'agitazione puramente verbale: in un promemoria aveva
scritto che occorreva «cercare di legarsi al popolo sul
terreno dei fatti, e non nutrirlo con favole [...] questi tentativi
non sono sempre coronati da successo, ma il loro rapido susseguirsi
dimostra che si è già creata l'atmosfera
rivoluzionaria adatta perché le nostre parole e le nostre
idee si trasformino in realtà» e nel manifesto La voce
degli uomini onesti, esaltando il gesto della Zasulič, aveva
sostenuto che era «giunto il momento che il partito
socialdemocratico si batta concretamente contro l'attuale governo di
banditi», dove il riferimento al partito
socialdemocratico, al di là della scelta terroristica,
condannata dal movimento socialista, dimostra un distacco, per
quanto confuso, dall'anarchismo bakuniano.
Anche il circolo fondato a Kiev alla fine del 1877 dagli zemlevol'cy
Valerian Osinskij e Dmitrij Lizogub - che si proclamò nel
febbraio del 1878 «Comitato esecutivo del partito
social-rivoluzionario» - diffondeva volantini e organizzava
attentati contro funzionari dello Stato e informatori della polizia,
giustificati come forma di autodifesa, ma gli obiettivi politici
rimanevano vaghi: occorreva «andare al popolo, studiare le
condizioni locali, sfruttare ogni malcontento, incitare il popolo
alla protesta [...] ricorrere al terrore contro gli elementi
più invisi al popolo».
Repin: Arresto e perquisizione di un populista
Tuttavia numerosi giornali dell'opposizione, come il
«Nabat» (La campana a stormo) di Tkačëv,
l'«Obščee delo» (La causa comune), il «Letučij
listok» (Il foglio volante) di Nikolaj Konstantinovič
Michajlovskij (1842-1904) e l'«Obščina» (La comune) di
Michail Dragomanov (1841-1895) salutarono la svolta di Zemlja i
voljia, auspicando la conquista della Costituzione e delle altre
libertà politiche. Diversa, ma contraddittoria, era invece la
posizione dell'anarchico Kravčinskij (1851-1895) il quale,
rivendicando l'uccisione, il 4 agosto 1878 a Pietroburgo, del
dirigente di polizia Mezenzov, nel suo opuscolo Smert za smert
(Morte per morte) scriveva che era «assolutamente indifferente
che ci diate o no la Costituzione», ma poi aggiungeva che la
lotta sarebbe proseguita fin quando «il governo si
ostinerà a mantenere in vita l'attuale sistema» e non
avesse concesso una riforma politica, e la libertà di stampa
e di opinione.
Da parte sua, Michajlovskij considerava le forme estreme di violenza
terroristica un risultato della violenza della società
stessa, una necessità delle condizioni ancora primitive e
spontanee in cui si organizzava l'opposizione al regime e una
protesta legittima contro l'arbitrio del potere: lo scopo della
violenza doveva però consistere nella conquista delle
libertà politiche negate dall'autocrazia zarista.
Un contributo importante al dibattito interno a Zemlja i volja fu
dato dagli articoli, apparsi sulla rivista dell'organizzazione, con
il titolo La legge dello sviluppo economico della società e i
compiti del socialismo in Russia, di Georgij Valentinovič Plechanov:
convinto che si potesse avviare il socialismo in Russia partendo
dalla realtà dell'obščina e cercando di fondare la propria
analisi su principi marxisti, Plechanov sosteneva che finché
«la maggioranza dei nostri contadini continuerà a
sostenere l'obščina, non si potrà dire che il nostro paese si
orienti veramente verso la legge secondo la quale la produzione
capitalistica sarebbe una fase necessaria del nostro
sviluppo», concludendone che l'originario programma di Zemplja
i volja manteneva tutta la sua validità.
Anche Pavel Borisovič Aksel'rod (1850-1928) mise in guardia contro i
pericoli del giacobinismo implicito in una tattica che,
privilegiando il terrore, allontanva i rivoluzionari dal contatto
con il popolo, la «forza destinata a quella grande causa che
è la distruzione e la riedificazione consapevoli di un nuovo
ordine»: quanto all'obiettivo della conquista dei diritti
politici, era necessario che «la lotta politica non faccia
perdere di vista l'obiettivo del socialismo».
Zemlja i volja si venne così a dividere in tre correnti
fondamentali: i derevenščiki, sostenitori dell'agitazione nelle
campagne e contrari al terrorismo e a rivendicazioni politiche, i
politiki che, all'opposto, rivendicavano la lotta politica e il
terrorismo cittadino, e coloro che oscillavano tra queste due
posizioni. La minoranza dei politiki di Zemlja i volja nel marzo del
1879 costituì il Comitato esecutivo del Partito
socialrivoluzionario, all'interno del quale fu creata la sezione
terroristica Svoboda ili smert (Libertà o morte). Nel
congresso clandestino di Zemlja i volja tenuto a Pietroburgo il 29
marzo 1879 i politiki posero apertamente la questione del regicidio,
ottenendo un rifiuto dalla maggioranza dei militanti: l'attentato ad
Alessandro II, già preparato da Aleksandr Solov'ëv,
avvenne ugualmente il 2 aprile, ma fallì. I politiki tennero
un congresso separato a Lipetsk adottando la risoluzione di mettere
al centro del programma la lotta politica, ponendo così le
premesse della scissione: nel congresso comune di Voronez, tenutosi
in giugno, emersero le consuete divergenze che portarono infine, nel
congresso di Pietroburgo, all'uscita dei politiki da Zemlja i volja.
Il 25 agosto 1879 veniva fondata Narodnaja Volja (Volontà del
popolo) con la tesi della «rivoluzione politica come
primo passo verso la realizzazione di riforme politiche ed
economiche radicali», attraverso l'azione terroristica, mentre
i sostenitori del vecchio programma di Zemlja i Volja costituivano
la nuova organizzazione Čërnyj Peredel continuando a
rifiutare ogni rivendicazione di carattere politico.
Narodnaja volja
Narodnaja volja era l'ala più radicale del movimento politico
Terra e Libertà. I sostenitori di Volontà del Popolo
presero il sopravvento all'interno del movimento quando nel 1880
Georgij Plechanov, che guidava l'ala progressista e moderata del
partito, lasciò la Russia emigrando in Europa. I "terroristi"
- così venivano definiti i partecipanti a Volontà del
Popolo - giustificavano l'uso del terrorismo come mezzo per
rovesciare lo stato e innescare il processo rivoluzionario.
Narodnaja Volja si adoperò quindi per un unico obiettivo:
assassinare lo zar, allora Alessandro II Romanov e attuare
così il piano rivoluzionario. Nel 1881 riuscirono nel loro
intento: Alessandro II infatti morì a seguito delle ferite
riportate a seguito dell'attentato. L'atto terroristico non
portò però le conseguenze che i capi del partito si
aspettavano. Lo stato infatti non crollò e il potere
autarchico riprese vigore con l'ascesa al trono di Alessandro III.
Il nuovo zar diede una stretta poliziesca al regime. I capi del
movimento furono arrestati e Narodnaja Volja collassò.