L’UOMO DEL GUICCIARDINI
di Francesco De Sanctis
da http://www.katciu-martel.it/uomo_guicciardini.htm
L’uomo del Guicciardini, quale crede dovrebbe essere l’uomo «
savio », com’egli lo chiama, è un tipo possibile solo
in una civiltà molto avanzata, e segna quel momento che lo
spirito già adulto e progredito caccia via l’immaginazione e
l’affetto e la fede, ed acquista assoluta e facile padronanza di
sé.
In questo regno dello spirito il nostro uomo savio spiega tutte le
sue forze. Molto ha imparato ne’ libri, maravigioso di erudizione e
di dottrina; ma non gli basta. Sa «quanto è diversa la
pratica dalla teorica; quanti sono che intendono le cose bene, che o
non si ricordano o non sanno metterle in atto», e come non dee
confidare alcuno «tanto nella prudenza naturale, che si
persuada quella più bastare senza l’accidentale della
esperienza». Perciò la naturale prudenza e la dottrina
accompagna con l’esperienza, ovvero «osservazione delle
cose». E non gli basta ancora. Sa pure che «la dottrina
accompagnata co’ cervelli deboli o non li migliora o li
guasta»; e però anche il naturale dee essere buono,
tale cioè che non sia offuscato lo spirito dalle apparenze,
dalle impressioni, dalle vane immaginazioni e dalle passioni. E
quando hanno queste buone parti, la prudenza naturale, e
l’esperienza, e la dottrina, e il cervello non debole, gli uomini
sono «perfetti e quasi divini».
Nel nostro savio e nel nostro uomo perfetto si riscontra dunque
l’«accidentale col naturale buono», la dottrina e la
esperienza col cervello «positivo» e prudente. Ma egli
ha una qualità ancora più preziosa, senza la quale
tutte le altre sono di poco frutto, ed è la
«discrezione» o il discernere. Su’ libri trova tutte le
regole; ma «è grave errore parlare delle cose del mondo
indistintamente e assolutamente, e per così dire per regola
perché quasi tutte hanno distinzione ed eccezione, e queste
distinzioni ed eccezioni non si trovano scritte in su’ libri, ma
bisogna lo insegni la discrezione». Senza la discrezione
adunque non giova la dottrina e l’esperienza. La dottrina ti
dà le regole, l’esperienza ti dà gli esempi; ma
«è fallacissimo il giudicare per gli esempli; con
ciò sia che ogni minima varietà nel caso può
essere … causa di grandissima variazione nello effetto; e il
discernere queste varietà, quando sono piccole, vuole buono e
perspicace occhio». E perciò, «quanto s’ingannano
coloro che a ogni parola allegano i romani! Bisognerebbe avere una
città condizionata come era la loro, e poi governarsi secondo
quello esempio; il quale a chi ha le qualità
disproporzionate, è tanto disproporzionato quanto sarebbe
volere che un asino facesse il corso di un cavallo». Ma il
nostro uomo non capita a prendere un asino per cavallo;
perché ha da natura «buono e perspicace occhio»,
e legge spesso un libro suo, che il Guicciardini chiama «il
libro della discrezione».
Questo è l’uomo perfetto del Guicciardini, tutto spirito e
armato di così forti armi, naturali e accidentali. Né
è colpa sua che abbia coscienza della sua superiorità,
e disprezzi i «vulgari», e, come italiano, stimi barbari
tutti gli altri popoli, e, quantunque fortissimi e valorosissimi,
confidi di poterli vincere e farli suoi instrumenti con la forza
dell’ingegno e della coltura. Chi studii con qualche attenzione in
questo tipo di intellettuale, così com’è uscito dalla
mente del Guicciardini, e che risponde generalmente allo stato reale
dello spirito italiano a quel tempo, vedrà perché i
nostri uomini di Stato giocavano quasi con gli stranieri, a cui si
sentivano tanto soprastare per intelligenza e per coltura, e, non
che averne paura, confidavano di poterli usare a’ loro fini e a’
loro interessi particolari. – Voi v’intendete di armi, ma non
v’intendete di Stato, - dicea con orgoglio Niccolò
Machiavelli a un potente straniero.
Il nostro uomo, dotato di tante forze intellettive, e così
disciplinate, con quel suo occhio buono e perspicace vede il mondo
altro da quello che i volgari sogliono. Non crede agli astrologi e
ai teologi e ai filosofi e a tutti gli altri che scrivono le cose
sopra natura o che non si veggono, e «dicono mille pazzie:
perché in effetto gli uomini sono al bujo delle cose, e
questa indagazione ha servito e serve più a esercitare gli
ingegni che a trovare la verità». Parla con ironia di
«Santa Maria Impruneta», che «fa piova o bel
tempo», e delle devozioni e de’miracoli, e de’ digiuni e
orazioni e simili opere pie, «ordinate dalla Chiesa o
ricordate da’ frati» e dell’aiuto che Dio dà a’ buoni,
e del buono successo delle «cause giuste». Stima che
«la troppa religione guasta il mondo, perch’effemina gli animi
… avviluppa gli uomini in mille errori e divertisceli da molte
imprese generose e virili».
Crede che, «dalle repubbliche in fuora, nella loro patria, e
non più oltre, tutti gli Stati, chi bene considera la loro
origine, sono violenti», né v’è potestà
che sia legittima: «né anche quella dell’imperatore,
che è fondata in sull’autorità dei romani, che fu
maggiore usurpazione che nessun’altra»; e non quella
de’«preti, la violenza de’ quali è doppia,
perché a tenerci sotto usano le armi temporali e le
spirituali». Innanzi a quest’occhio «perspicace»
tutto l’antico edificio crolla, e del Medioevo non rimane nulla. Il
regno celeste rovina e si trae appresso nella caduta papa e
imperatore. Lo spirito, adulto e per virtù propria
emancipato, si ribella contro il passato dal quale è uscito e
che lo ha cresciuto ed educato, caccia via da sé tutte le
credenze e i principii, fattori di quella civiltà della quale
egli è la corona e l’orgoglio, e si chiude nella terra, o
nella vita reale, nel mondo naturale, così com’è e non
come è immaginato, e pone la sua gloria nell’interpretarlo,
nel comprenderlo e nel valersene a’ suoi fini.
Se il nostro savio ammette «con le persone spirituali»
che la fede conduce a cose grandi, gli è non per alcuna
assistenza soprannaturale o provvidenziale, ma perché
«la fede fa ostinazione», e chi la dura, la vince.
Quanto a lui non gli è bisogno la fede, perché a
vincere bastano le sue armi proprie, la naturale prudenza e la
dottrina e l’esperienza e quel suo terribile occhio «buono e
perspicace». E non ci è latebra del cuore umano che
stia nascosta a quell’occhio, e non apparenza e nebbia così
fitta che gli chiuda la via, e non vanità d’immaginazione o
impeto di passione. Quelli che si lasciano signoreggiare da vane
immaginazioni, sono «cervelli deboli». Quelli che si
gittano nelle imprese senza considerare le difficoltà, sono
«uomini bestiali». E «chi governa a caso, si
ritruova alla fine a caso». E sono «matti» quelli
che operano secondo passione, ancorchè nobile e generosa. E
sono «sciocchi» quelli che seguono il «comune
ragionare degli uomini» e le «vane opinioni del
popolo». «Chi disse uno popolo, disse veramente uno
pazzo! Perché è un mostro pieno di confusione e di
errori; e le sue vane opinioni sono tanto lontane dalla
verità, quanto è, secondo Tolomeo, la Spagna dalla
India». Né è bene «stare al
giudicio» di quelli che scrivono, e in ogni cose «volere
vedere ognuno che scrive: e così quello tempo che sarebbe a
mettere in speculare, si consuma in leggere libri con stracchezza
d’animo e di corpo, in modo che l’ha quasi più similitudine a
una fatica di facchini, che di dotti».
Il nostro uomo savio e perfetto non ha fede che nel suo giudizio
proprio, nel suo «speculare», e nella evidenza del
fatto, che scopre ogni fallacia di apparenza; «quanti dicono
bene che non sanno fare; quanti in sulle panche e in sulle piazze
paiono uomini eccellenti, che adoperati riescono ombre!» Egli
crede che i fatti umani siano determinati dalle inclinazioni e
passioni e opinioni degli uomini, e che ci sia perciò un’arte
della vita pubblica e privata, fondata sullo studio e la cognizione
del cuore umano, scienza affatto sperimentale. E qual maestro in
quest’arte! Nessuno è più addentro di lui ne’ motivi
più occulti e con più cura dissimulati delle nostre
azioni; né più sicuro in determinare gli effetti
più lontani, o quella lenta successione di cause poco
sensibili e poco osservate, le quali spiegano quei «moti delle
cose», che al volgo paiono rovine subitanee.
Fra tanta varietà di accidenti e di opinioni e di passioni,
nessuna cosa lo sorprende e lo sgomenta e lo turba, perché
considera ogni cosa «etiam minima», e di tutto sa
trovare il bandolo, e nei più diversi casi della vita prevede
e provvede, da’ più alti negozi dello Stato alle più
umili faccende della famiglia. Il suo sguardo, ne’ casi più
improvvisi freddo e tranquillo, è quello di un Iddio, alto e
sereno sulle tempeste, ma di un Iddio leggermente ironico, inclinato
a pigliarsi spasso degli uomini e a voltarli a modo suo.
Questo tipo del Guicciardini è la «pianta uomo»,
come s’era più o meno sviluppata in Italia; è la
fisionomia rimasta storica e tradizionale dell’uomo italiano com’era
in quel tempo; è quella superiorità e padronanza dello
spirito, alla quale i popoli non giungono se non dopo molti secoli
di iniziazione e di civiltà, e dove l’Italia giunse con tanta
celerità di cammino, che vi lasciò per via gran parte
delle sue forze. Onde avvenne, che in così visibile progresso
dello spirito, in così varia e ricca coltura, in tanta
prosperità, fra tanti capolavori, quando coglieva il
più bel fiore di una vita breve e affaticata, e aveva in
vista nuovi orizzonti, si trovò esausta, e i giorni
più allegri e più belli della sua esistenza furono i
giorni della sua morte.