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Nello Rosselli
Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano
Indice
Introduzione Perché è vivo Pisacane
Giovinezza
Fuga
Azione
Difesa di Roma
Dopoguerra difficile
Primo libro
Piemonte socialista
Raccoglimento
Questione borbonica
Testamento
Fine
Note
Nota bibliografica
Indice dei nomi citati nel testo e nelle note
Introduzione
Perché è vivo Pisacane
La personalità di Pisacane nella nostra storia politica è di
quelle che disorientano per la loro molteplicità. C'è da un verso
il soldato colto e studioso che considera il risorgimento d'Italia
quale un problema spiccatamente militare; c'è dall'altro lo
scrittore che ne sottolinea le premesse e le inderogabili finalità
di rivoluzione integrale. C'è il mazziniano puro di Sapri; il
socialista e il nazionalista; l'aristocratico e il transfuga della
sua classe sociale; l'uomo romantico e l'ammirator di Cattaneo.
Io lo vedo in certo modo come uno specchio d'Italia nel suo tempo.
In lui, per quanto non uomo di primissima linea nel Risorgimento,
anzi proprio perché non lo fu né mai pretese d'esserlo, si
riflettono infatti le varie esigenze, aspirazioni, impostazioni
ideali del popolo italiano a mezzo il secolo XIX. La sua vita
inquieta le comprende e le esprime un po' tutte; egli ha l'istinto
immediato e sicuro della necessità di volta in volta prevalente,
sa la falla che preme di chiudere, il silenzio che preme di
rompere, il gesto che preme di fare. Il lettore troverà in questo
libro la chiave di molte sue contradizioni apparenti, e
soprattutto la giustificazione di quel gesto disperato e
paradossale che fu, da parte sua, la spedizione di Sapri.
Guerriero e cospiratore, Pisacane ci ammonisce che il riscatto di
un popolo dalla tirannia, dalla servitú, dalla cronica fiacchezza
politica, è anzitutto problema morale. Cospirazioni, sètte,
rivolte, guerra, sta bene; ma hanno ad essere l'ultimo atto. Primo
elemento della soluzione: indagare e chiarire perché mai questo
popolo si lasciò rapire o rinnegò indipendenza e libertà. Secondo:
crearsi e diffondere la coscienza della possibilità, e quindi
della doverosità della risurrezione. Terzo: crearsi e diffondere
una visione chiara degli ostacoli da superare, delle resistenze da
vincere, degli errori da evitare, dei mezzi più atti a sollecitare
la risurrezione, e poi del senso da darle, e del come fondarla
graniticamente.
Intorno a questi problemi appunto Pisacane studiò con ostinata
passione, e chi legga i suoi libri ha la sensazione d'un
incessante frenetico inquieto perché? volto alla storia remota e
recente d'Italia, ai suoi geni, alle sue miserie, alle sue
condizioni geografiche, economiche, ai suoi ordinamenti passati,
ai costumi del suo popolo, all'Europa circostante. Perché così
grande e libera l'Italia, e poi non più che una inerte colonia di
sfruttamento per le nazioni finitime? Perché così belligera e poi
così imbelle e vigliacca? Perché tanta decadenza nei mezzi, nelle
volontà, negli ingegni? Perché?
La risposta suona un inno di fede: l'Italia sta per rinascere a un
alto destino; ma il problema del come è gravissimo. Dar vita a una
grande nazione è assunto da giganti; bisogna suscitare nei futuri
cittadini l'animo, il costume, la consapevolezza adatti ai
compartecipi di tanta impresa. Studiare come viva lo Stato
moderno, su quali forze si regga, quale ne sia l'ordinamento
migliore, quali rapporti debbano correre tra la cittadinanza e il
potere esecutivo, quali obiettivi concreti si debbano proporre
alla nuova entità statale che si disegna. Tutto fuor che
l'improvvisazione, insomma, in quest'Italia in gestazione, nella
quale secondo i benpensanti sarebbe meglio non impostare il
problema instituzionale per non rischiare di disgustar Torino, né
quello di unità o federazione per non ispaventare Napoli o Roma o
anche l'Europa, né quello sociale per non buttar la borghesia in
braccio alla reazione, né quello militare per la ragione X, né
quello della futura politica estera per la ragione Y. «Parole
chiare all'Italia di domani»: questo sottotitolo vien voglia di
dare alle pagine migliori di Pisacane, non perché le soluzioni da
lui proposte meritino d'esser levate a cielo, ma per aver egli,
pur non nato agli studi, se non a quelli specializzati
tecnico-militari, inteso appunto la necessità di anticipare i
problemi del futuro Stato, di impostarli e dibatterli come se
fossero attuali, di appassionare gli italiani al mondo del suo
nascimento: ciascuno doveva sentirsene insieme e figlio e padre, e
come padre ambire, prima che la creatura avesse vita, di
rappresentarsi la forma, l'espressione e il peso e il posto che un
giorno essa occuperebbe nel mondo.
Ma furono in pochi a pensarla così: terribilmente pochi. Né qui si
voglion ripetere sul Risorgimento italiano certe considerazioni
che a furia di essere originali son doventate stantíe sulla sua
intrinseca insufficienza, lo scarso suo fondamento di cultura, la
magra partecipazione delle masse, e via discorrendo. Il
Risorgimento fu il resultato di una doppia serie di sforzi:
negativi gli uni (per liberarsi dalla dominazione straniera e
dall'oppressione politica), positivi gli altri (per costruire
un'entità politica nuova). Alla fase negativa può dirsi che
prendesse parte in un modo o nell'altro, o per ragioni ideali o
per ragioni d'interesse o per una combinazione di queste e di
quelle, una frazione notevolissima degli italiani pensanti; alla
fase positiva, effettivamente, una minoranza sparuta. Ancora alla
vigilia del '59 quegli italiani pensanti, salvo eccezioni ch'io
direi numerabili, sapevano bene quel che non volevano più,
ignoravano cosa volessero di nuovo. Gli sforzi negativi avevan
scalzato, comunque, le fondamenta dei regimi esistenti: ond'è che
in un'Italia instabile sulle sue basi, seppur poco matura a
un'autotrasformazione cosciente e vitale, bastò una scossa
relativamente assai debole per travolgere il tutto e per imporre
quella soluzione che, per quanto niente affatto conforme ai
desideri della maggioranza, aveva sull'altre il vantaggio di
presentarsi appoggiata a un organismo robusto qual era il
Piemonte. La costituzione del regno unito fu un dono dall'alto,
stupefacente e inatteso.
Da secoli era stato sempre così: la fragilità e la passività
italiane giungevano a tale che essa era caduta docilmente preda,
un dopo l'altro, di dominatori nostrali o stranieri dotati di un
minimum di decisione e di forza.
Pisacane appartenne alla minoranza sparuta dei «positivi». E il
suo massimo intento fu precisamente quello, riuscito vano,
d'impedire che una volta di più l'Italia rinunciasse
all'autodeterminazione e si afflosciasse sotto una nuova
disciplina imposta. La quale, per essere italiana e a tutto
beneficio degli italiani, non era per questo meno estranea ai più
di loro e non implicava, da parte loro, minor rinunciatarismo
morale. Non che Pisacane lo dicesse mai così chiaro; ma s'intende
benissimo ch'egli avrebbe le mille volte preferito a una rapida
realizzazione integrale dell'unità d'Italia per opera e sotto il
controllo d'uno dei suoi Principi, il conseguimento d'un resultato
provvisoriamente parziale per via di schietta rivoluzione.
Povero dottrinario! Andava interrogando la storia d'Italia per
rendersi conto se sarebbe mai stato possibile richiedere agli
italiani sollevati di far la loro guerra, la guerra di popolo,
allo straniero e al dispotismo, e bastarono Plombières e una
brillante, corta campagna di eserciti stanziali, calcolata per
dilatare il Piemonte nella valle del Po e la influenza francese
nella Penisola, a determinare la formazione fulminea d'un regno
unito dell'Italia centrale e settentrionale. Andava farneticando
della imprescindibile necessità preventiva di guadagnare alla
causa del rinnovamento italiano il consenso attivo delle
maggioranze, e il Mezzogiorno cadde di botto in mano di Garibaldi,
tra la suprema indifferenza di novanta su cento dei siciliani, dei
calabresi, dei napoletani!
Improvvisazione? Fortuna? Eppure l'Italia sotto il segno sabaudo è
viva, è cresciuta, e s'afforza. D'accordo: ma quante volte e da
quanti, dal '60 in poi, non s'è avuto ragione di deplorare che la
gran massa degli italiani, anziché contribuire a formarla,
l'abbian soltanto lasciata fare!
Se dunque la storia — la storia dei «fatti» — ha smentito Pisacane
e quei pochi con lui, potrebbe darsi che avesse reso loro
giustizia in un senso più riposto, in un piano ideale nel quale
quei fatti non valgono che come meri accidenti esteriori, oltre ai
quali, o dentro ai quali, si cela alcunché di assai più
importante, e anzi che unicamente importa: la loro intima ragione
e giustificazione morale, la virtú benefica o malefica che ne
discende.
In verità l'improvviso e improvvisato trionfo della minoranza
dirigente, il miracoloso adeguarsi della realtà ai piani da essa
frettolosamente disposti dovettero stupire e confondere, in un
primo tempo, i trionfatori medesimi. Ai quali però venne
prestissimo fatto di ritrovare l'equilibrio; e si convinsero con
estrema facilità, e in buona fede convinsero gli altri intorno a
loro, e indussero diplomatici giornalisti e scrittori a convincere
il pubblico italiano ed europeo, che il trionfo era pienamente
meditato e previsto; che ogni elemento della situazione era stato
tempestivamente soppesato, e il giuoco regolato a puntino, e che
era da ascriversi all'abilità della loro politica se certe
soluzioni si eran verificate con apparenza di fortunate
combinazioni, e non piuttosto come logica soluzione, nella realtà
dei fatti, di programmi da lungo tempo prestabiliti e maturi.
Fecero anche di più: persuasero le élites delle varie regioni
italiane esser le raggiunte novità giusto premio del tenace volere
e risolutezza e patimenti da esse spiegati e sofferti. Fu così
che, fatto centro naturalmente sul '48-49, si diffuse e accreditò
la leggenda secondo la quale il popolo italiano, a dir poco dal
'20 in poi, non avrebbe fatto che anticipare col desiderio e
affrettare con le opere l'instaurazione di un regime nuovo, e per
l'appunto di un regime sul tipo di quello che si era pur mo
inaugurato. E Pisacane che era morto nel '57, scannato da quelli
stessi che ora inalzavano a gara archi di trionfo a Garibaldi!
Pure, questa giustificazione postuma della così detta rivoluzione
unitaria in un primo tempo giovò: perché ciascuno che appartenesse
a quelle élites, tornandogli gradito di cogliere per sé una
fogliolina del lauro ufficiale dispensato a così buon mercato,
naturalmente accettò di buon grado tale versione e, figurandosi
d'esser davvero un patriarca della nuova patria, prese parte con
amore alla cosa pubblica, che sentí sua; perché quegli istituti
che, come ormai tutti ammonivano, erano stati conquistati dagli
italiani con lagrime e sangue, gli istituti della libertà, parvero
sacro e intangibile patrimonio comune, da difendersi con l'unghie
e coi denti, e la formazione di una prima coscienza unitaria della
borghesia n'ebbe incremento. E il mondo si volse con una tal quale
ammirativa tenerezza e benevolenza verso questo popolo che, dopo
secoli di servitú e divisione, avea voluta, imposta e conquistata
brano a brano la sua indipendenza, e verso i suoi uomini
rappresentativi che avevano saputo guidarlo con tanta oculatezza.
Ma un grave danno avvenire si celava fra quel profluvio di beni.
La grandissima maggioranza degli italiani non si rese conto
infatti della parte cospicua che nel miracolo del '59-60 doveva
attribuirsi a un insieme di circostanze fortuite estremamente
favorevoli. L'impacciata neutralità delle grandi potenze di fronte
alla crescente audacia del governo piemontese, ad esempio, parve
ai più naturalissima cosa, che avrebbe anche potuto ripetersi nel
séguito; e poiché non si tenne il debito conto della fragilità
degli ostacoli che le forze sarde, o comunque facenti capo a
Torino, avean dovuto travolgere, accadde che le intrinseche
possibilità del Piemonte, nerbo dal '61 in poi di quelle italiane,
venissero pericolosamente sopravalutate. Gli italiani avrebbero
dovuto ringraziare il cielo (e il Piemonte) dei resultati
raggiunti e senza requie attendere a consolidarli: si posero in
capo invece che il '61 fosse soltanto una prima tappa su una
strada assai lunga che ormai si profilava dinanzi a loro (e questo
era vero); strada che andava percorsa da capo a fondo con quel
passo alla bersagliera che si era così bene tenuto negli ultimi
due anni (e questo era perniciosissimo errore). S'immaginarono
inoltre esser la lunga laboriosa preparazione di un qualunque
avanzamento politico o sociale prerogativa non invidiabile di
altri popoli e climi: agli italiani convenire invece mosse
geniali, improvvisate, tempiste, i colpi di scena, il procedere a
sbalzi.
E poiché dopo il '60 ma più ancora dopo il '70 i tempi volsero
alquanto difficili, e mamma Europa si fece arcigna verso questa
figlioletta cresciuta d'un tratto, pretendendo usasse modi e
atteggiamenti confacenti ormai alla sua nuova statura e smettesse
certe bizzarrie dell'infanzia, gli italiani che si erano avvezzati
da un poco a veder cogliere a loro pro e senza troppa fatica tutte
le buone occasioni che passassero a portata di mano, non
perdonarono ai loro nuovi governanti di non saper continuare una
tradizione sì comoda e, paragonandoli ai loro predecessori in
ufficio, li videro nani appetto a giganti, tortore in nido di
aquile. In questo modo s'insinuò fra di noi il germe del
malcontento cronico. Si formò l'abito di censurare
sistematicamente il governo (come se il «governo» nei paesi liberi
non fosse espressione dei governati), di agitare dinanzi ad esso
modelli fantastici, di vilipenderlo perché incapace di regalarci,
un anno sì e un anno no, una nuova provincia o, mettiamo, una
ricca colonia. Gli istituti liberali, che sapevano ancor di
vernice, parvero anch'essi ben presto decrepiti, scambiandosi gli
scricchiolii dell'assestamento per quelli del fracidume; sì che,
scomparsa la prima generazione che ricordava nel vivo i danni e le
malefatte dell'assolutismo e che pur blaterando contro il cattivo
rendimento del regime nuovo, lo avrebbe poi difeso contro ogni
seria minaccia, qual meraviglia che nelle generazioni successive,
eredi fortunatissime di beni tanto cospicui, crescesse a dismisura
il numero degli scontenti? E che questi rinforzassero giornalmente
la dose nell'aspro giudizio contro l'ignavia dei governi e il
danno del regime libero, e attendessero messianicamente il ritorno
alla brillante tradizione della magia politica, a quel beato
tempo, cioè, nel quale bastava scuotere appena appena le fronde
per riempirsi le tasche di ghiande cadute? Ma se in un caso, raro
nella storia, quelle ghiande eran cadute d'oro, nel séguito,
ahimè, non furon che ghiande.
Fecondo d'incommensurabili beni, il nostro Risorgimento politico,
svoltosi per modi e per vie e con un ritmo che Pisacane deprecò
sempre, ha dunque messo in circolazione anche dei virulenti
bacilli di lenta incubazione, ma d'inesorabile effetto.
Giustizia vorrebbe dunque che andassimo più grati che non si
soglia a quei pochi che, intesa in tempo la serietà del problema
italiano, avvertirono la necessità che l'Italia s'avesse a fare
col concorso se non proprio della maggioranza numerica dei suoi
cittadini, delle più vaste categorie d'interessi; che si operasse
in modo cioè da favorire la conversione — inevitabilmente lenta —
di codesti interessi verso la soluzione auspicata, e si
attendesse, per passare all'azione, la conversione compiuta.
Sotto il qual punto di vista è lamentevole dunque che Pisacane
chiudesse la sua vita dando un calcio solenne — anche lui! — a
tali principii e metodi: ché di cittadini del suo stampo l'Italia,
e nella crisi del '59-60 e nell'arduo periodo seguito
all'unificazione, aveva invero bisogno grandissimo. Il profeta
suicida inconsciamente oscurava agli italiani il senso prezioso
delle sue intuizioni e delle sue profezie.
***
A Maria
Capitolo primo
Giovinezza
Al tempo dei Borboni, sulla facciata di un vasto edificio nel centro
di Napoli si leggeva la seguente iscrizione: «Questa Accademia —
perché nell'arte della guerra — e negli ornati costumi la militare
gioventú — ottimamente ammaestrata — crescesse a gloria e sicurezza
dello Stato — Ferdinando IV — con regal munificenza fondò — l'anno
del suo regno XXIX». Era l'aristocratico collegio della Nunziatella,
celebre in Europa, nel quale venivano educati alle armi i rampolli
della nobiltà e dell'alta ufficialità napoletana.
Nell'anno 1831 un giovinetto di tredici anni, non destinato
precisamente ad aumentare la «gloria e sicurezza dello Stato» —
Carlo Pisacane, figlio cadetto dei duchi di S. Giovanni1 — entrava
quale allievo nella Nunziatella. Suoi compagni di studio, se non
proprio del medesimo corso, furono Cosenz, i due Mezzacapo, Boldoni,
Pianell, Orsini, Girolamo Ulloa, Carrano, Longo, De Sauget: tutti
finiti, dopo tempestose carriere, generali dell'esercito italiano, e
molti senatori del Regno, e tre nientedimeno che Collari
dell'Annunziata.
Orfano di padre a sei anni, della madre poco tenero, Pisacane non
aveva avuto di certo l'infanzia felice. Dei fratelli, il maggiore,
Filippo, lo aveva preceduto nella carriera militare, e fu poi sempre
un borbonico arrabbiato; Luisa ci sarebbe del tutto ignota se una
lettera superstite non ce la mostrasse, dopo il '50, sposa e madre e
in qualche intimità con Carlo.
La vera famiglia di Pisacane fu dunque la Nunziatella. Otto anni vi
duravan gli studi, principalissimi quelli delle scienze esatte e
della dottrina e pratica militare; ma bene vi s'insegnavano anche le
lettere, italiane latine e francesi, e con grandissimo zelo vi si
curavano gli esercizi fisici, ballo, nuoto, scherma, equitazione. Il
tutto coronato, s'intende, dalle quotidiane pratiche religiose,
minute, meschine, inderogabili.
Di prim'ordine era il corpo insegnante, accuratamente e
intelligentemente scelto, quasi sempre dal Sovrano in persona; tanto
che, pur di assicurare alla Nunziatella docenti di riconosciuto
valore, in qualche caso si giunse perfino a indulgere sulla poca
ortodossia delle loro idee politiche e religiose: prova un Mariano
D'Ayala, professor di balistica, che allargava i limiti di codesta
materia fino a comprendervi la libertà politica, un Francesco De
Sanctis di lettere (ma di De Sanctis, e lo attestano fin troppo i
suoi scritti, Pisacane non giunse ad essere allievo). Nel '48 il
corpo insegnante si contenne in tal modo che bisognò, l'anno di poi,
radicalmente epurarlo!
Un convitto severo e di etichetta borbonica, dunque; ma non
eccessivamente pedante, non di quegli istituti che usavano un tempo,
dei quali diresti che l'intento precipuo fosse quello di soffocare
la vivacità dei ragazzi e scoraggiarne le inclinazioni individuali.
I rapporti tra professori e discepoli correvan cordiali, i ragazzi
restavan ragazzi: al punto che Pisacane, pur notato per il suo
talento nelle matematiche, poté lasciare ricordo di sé nella
Nunziatella per il suo «ardire e fierezza» e per la strabiliante
abilità negli sports, non ultimo quello di farsi ragione da sé,
quando occorresse, menando magistralmente le mani. Si tolleravano
perfino le discussioni politiche. S'intende, non di politica
interna: ma se anche si parlava di Carlisti e Cristini e della
eterna guerriglia tra loro, l'infiammarsi per questi ultimi,
campioni di liberalismo, quando si sapeva che il re di Napoli
proteggeva ufficialmente l'assolutista don Carlos non era indizio di
un certo frondismo? Di Pisacane si narra che, appassionato Cristino,
a un certo punto, stanco di difendere il suo partito soltanto a
parole, volesse addirittura piantar la Nunziatella per «correre ai
campi della maggior libertà». Ma poi, volente o nolente, mutò
pensiero.
Da questo collegio uscivano dunque i migliori ufficiali
dell'esercito napoletano, quelli destinati a raggiungere i gradi più
alti della gerarchia militare. Nessuno di loro dimenticava mai più
quegli otto anni di piacevole clausura; dicevano con sussiego «vengo
dalla Nunziatella» e le amicizie formatesi là dentro duravano salde,
per variar di vicende.
Fra gli allievi migliori si sceglievano i paggi di corte, ufficio
puramente onorifico: anche Pisacane fu paggio per quattro anni di
seguito2. Venne dunque a contatto con Ferdinando II. Certo non
prevedeva che vent'anni più tardi avrebbe levato al cielo il mancato
regicida Agesilao Milano. Ma che pensava, allora, del suo re? Non ne
sappiamo niente, a poco servendoci l'osservazione del suo primo
biografo essere «questo non lieve indizio di sua nobile indole, che,
in quell'età giovanissima così facile agli allettamenti ed agli
inganni, si serbasse incorrotto e non bevesse il veleno dei consorzi
cortigianeschi». Ma la strana parabola della popolarità ferdinandea
nella classe colta napoletana di certo non poté non colpirlo.
Nel 1830, morendo, Francesco I aveva lasciato al figlio quel che
poteva dirsi la «casa in ordine»: popolazione tranquilla (o
apparentemente tale), regime assolutista e reazionario al cento per
cento, finanza relativamente sana, tutela di Vienna, tradizione
politica del piede di casa. Ma Ferdinando II era salito al trono in
un momento difficile: proprio quattro mesi dopo quella rivoluzione
di luglio che aveva destato immenso fremito di agitazione e di
speranze nei popoli d'Europa e dato un colpo di maglio ai trattati
del '15. Còmpito grave, dopo il '30, regnare: gravissimo a Napoli,
ché l'equilibrio del regime borbonico poggiava tutto sugli strati
più bassi della popolazione (sempre vivo e istruttivo il ricordo del
'99!), nemici per istinto d'ogni novità politica, e nella loro
infinita miseria non d'altro sognanti che di possedere la terra;
tradizionale per contro il distacco dalla borghesia, dai
professionisti cioè e dai ceti nuovi possidenti e intraprendenti,
dei quali nel resto d'Europa s'andava sempre più delineando la
prevalenza politica. Equilibrio anacronistico, insomma: non che da
questi ceti, intorno al '30 — salvo eccezioni singole e controllate
ed affrontate subito, di liberali convinti e risoluti e «italiani» —
partisse un'opposizione sistematica al regime borbonico o
l'aspirazione a un superamento del patriottismo regionale
napoletano; ma c'erano vene spiccate di malcontento, c'era una
irritazione generica, che s'attribuiva di solito all'amministrazione
scorretta, alle meschinità della censura, all'austrofilismo
umiliante in politica estera, a mille altri motivetti del genere. In
realtà quello di cui i ceti medi soffrivano era l'indifferenza del
regime borbonico per le loro iniziative, era il fatto che alla loro
nuova potenza economica non corrispondesse alcuna influenza
politica. La nobiltà, divisa, non aveva esistenza come classe
politica; la burocrazia era, come sempre, affezionata alla greppia;
l'artigianato urbano irrequieto e instabile, infido per tutti, massa
di manovra. Fuori del regno, una grossa molestia, i fuorusciti
politici: sparlavano del regime, complottavano, osservavano la vita
d'Europa, scrivevano molto, sembravano concludere poco; pericolosa
per altro questa sprovincializzazione di una élite di oppositori!
Vien su Ferdinando, si mette al lavoro: il bilancio dei primi mesi
segna un grandioso successo. Eppure non ha fatto gran che:
un'amnistia politica, qualche licenziamento di alti funzionari,
qualche riassunzione in ufficio di personalità compromesse del
periodo francese, un ritocco intelligente al sistema tributario; ha
temperato la strapotenza della censura, ha dichiarato di voler dare
fiato e sviluppo ai commerci, all'industria. Ma la tendenza
colpisce: un ponte gettato tra monarchia e borghesia? Significative
poi le prime mosse in politica estera: cordialità con Luigi Filippo,
l'Austria trattata da potenza amica, non più da tutrice;
dichiarazioni d'indipendenza a tutti i gabinetti d'Europa; aumento
di spese militari.
A Napoli, si sa, gli entusiasmi son facili, le fantasie si sbriglian
con poco. Amnistia? Ma Ferdinando è un liberale in trono! Revisione
di conti a certi satrapi onnipotenti? Ma il re vuol dunque la
Costituzione! Esercito forte? La guerra d'Italia! Perfino Metternich
s'allarma, e Carlo Alberto, incoronato appena, s'ingelosisce. I
liberali di tutta Italia tentano approcci col re riformatore.
Effervescenza effimera: passan due anni, tre anni, e il quadro è
radicalmente mutato. La borghesia alta, piccola e media, delusa, è
più assente che mai dal regime, molti ripetono «si stava meglio
quando si stava peggio». Tranquillità di Metternich, impopolarità
del Borbone anche fuori del Regno. Che mai è accaduto? Una cosa
assai logica: si è dissipato un equivoco. Ferdinando è infatti
antiliberale, assolutista, paternalistico come tutti della sua Casa;
nessuna seria intenzione in lui di mutare registro. Egli ha inteso
la necessità di restaurare l'edificio statale semplicemente perché
vuol conservarlo in sostanza immutato. Di qui quei tali
provvedimenti che hanno destato un così fervoroso consenso; ma
nessuna concessione, Dio guardi, allo spirito del tempo. Un
tentativo di assolutismo illuminato, insomma, eseguito da un monarca
foderato delle migliori intenzioni, ma di ben povere qualità
personali, e che non può neanche appoggiarsi, come il suo
concorrente Carlo Alberto in Piemonte, su una classe politica colta
e modernamente educata: tutt'al più su poche singole individualità.
Al suo tentativo ha più di tutto nociuto, d'altronde, proprio quello
sproporzionato entusiasmo che ne ha salutati gl'inizi: e infatti,
mentre il monarca si è indotto a una maggiore prudenza, l'inutile
attesa degli ulteriori sviluppi della sua politica ha diffuso tra i
sudditi il più largo scontento.
Quando poi si vide Ferdinando assai fermo e rigoroso contro i
liberali ringalluzziti, gli uomini migliori del napoletano,
immaginandosi d'essere stati ingannati (e lo erano stati infatti, ma
dalla loro stessa immaginazione, dai loro stessi desideri),
principiarono a vituperare il re anche al di là dell'equo e a
diffamarlo sistematicamente in Europa. Nel risucchio di quell'ondata
di favore che aveva accolto nel '30 questo sperato Luigi Filippo
napoletano, passò così inapprezzato e restò sterile anche quel po'
di buono che, fra tanti malanni, egli si era proposto di fare e che
fece.
Partecipasse o no Pisacane alla infatuazione, prima, alla
denigrazione, poi, di re Ferdinando, una benemerenza gli riconobbe
di certo: quella d'aver notevolmente migliorato l'esercito e
nell'addestramento e nell'ordinamento, e accresciuto gli effettivi,
d'averlo salvato cioè da quella tremenda crisi che lo aveva còlto
all'indomani del '20, prolungandosi — fino al '28! —
l'umiliantissima occupazione austriaca. Non era cosa da mandare in
visibilio Pisacane ragazzo sportivo3 quel che si diceva del re che,
durante una rivista, avendo ordinato all'improvviso a tutti gli
ufficiali di montare a cavallo e i più, disavvezzi, essendosi
mostrati ridicolmente incapaci, il giorno appresso ne avesse
invitati parecchi a lasciar le spalline?
Ben presto, però, Pisacane — terminati i due anni del corso
d'artiglieria e genio, che si svolgeva a Capua, e assegnato come
soldato semplice a un reggimento di fanteria di guarnigione a Nocera
— doveva sperimentare quanto, nonostante gli sforzi di Ferdinando,
l'esercito napoletano restasse ancora lontano in tutto e per tutto
da quel modello di perfezione che gli si era insegnato a venerare in
collegio. Spirito militare inesistente affatto, la disciplina di una
severità massacrante, il bigottismo fatto obbligatorio: soldati e
ufficiali costretti alla rigida osservanza dei precetti, a
incolonnarsi nelle processioni, a regger ceri. E spesso, troppo
spesso le milizie usate a reprimer disordini, in servizio di
pubblica sicurezza. Deficienze, queste e altre molte (non lieve
quella degli stipendi di fame agli ufficiali), proprie dell'esercito
napoletano; ma poi quelle caratteristiche di tutti gli eserciti
stanziali, e a Pisacane fin d'allora insopportabili: avanzamenti per
anzianità, raramente per merito, soldati che adempiono al servizio
con l'animo dei detenuti che scontan la pena, distacco insanabile
tra esercito e popolo, e via e via.
L'esperienza, ciò nonostante, fu per Pisacane quanto mai formativa
sotto altri aspetti. Era questa, infatti, la prima volta che entrava
nella vita vera, che si mescolava, lui nobile ed ex paggio
di Corte, al popolo; al popolo che lavora e che soffre, a quel
popolo di cui negli androni della Nunziatella si doveva sapere ben
poco!
Dal porto sicuro era lo sbocco nella infinita distesa del mare.
Pisacane si presentava allora come un giovanotto robusto, di non
grande statura, rotto alle fatiche, curioso del mondo, vivacissimo,
dinamico e attraente. Che fosse biondo e dagli occhi azzurri, si sa
anche troppo, per testimonianza della sentimentale Spigolatrice di
Sapri. Dolcissimi occhi, dice la Mario, e «un non so che di mesto e
di rassegnato» errante sulla «spaziosa fronte». «Era ancora imberbe
— racconta il Dall'Ongaro, riferendosi a otto anni più tardi — di
una bionda e delicata bellezza... Ma sotto quel molle involucro,
batteva un cuore di ferro, e l'eleganza aristocratica dei modi
faceva contrasto con l'audacia dell'intelletto...» E Mazzini,
rievocandolo con appassionato rimpianto: «La fronte e gli occhi...
parlavano a prima giunta per lui; la fronte rivelava l'ingegno, gli
occhi scintillavano di energia, temperata di dolcezza e d'affetto.
Traspariva dalla espressione del volto, dai moti rapidi, non
risentiti, dal gesto né avventato né incerto, dall'insieme della
persona, l'indole franca, leale, secura. Il sorriso frequente,
singolarmente sereno, tradiva una onesta coscienza di sé e l'animo
consapevole di una fede da non violarsi né in vita né in morte». Non
poteva, Mazzini, ridarcelo più vivo di così né più somigliante, chi
guardi ai pochi ritratti che ci son rimasti di lui, davvero parlanti
e rivelatori dell'anima; con quello sguardo accigliato, quasi un
cipiglio, e le mascelle serrate, imperiose, in evidente commovente
contrasto con la delicatezza del volto e la ingenua luminosità degli
occhi.
Passati i sei mesi a Nocera, ecco la nomina ad alfiere nel corpo del
genio militare, l'assegnazione a Napoli. A Napoli lo adibiscono,
sotto il comando d'un capitano Fonseca, alla costruzione della
strada ferrata per Capua, tra le prime in Italia4. Nel '41, nuovo
trasferimento, dai biografi attribuito a incompatibilità di
carattere col suo superiore; nonostante l'ottima prova tecnica che
Pisacane ha fornito, questo trasferimento ha infatti un certo
carattere di punizione, e lo conduce in Abruzzo. Quindici mesi
d'Abruzzo: anche là, probabilmente, a far strade. Nel '43, primo
tenente ormai, ritorna a Napoli, questa volta alle dipendenze d'un
capitano Gonzales, insieme col quale progetta la strada nuova «su
per la collina del Vomero e Antignano, oggi Corso Vittorio
Emanuele». E per quattr'anni non si muove di lí; riceverà poi la
nomina a membro del Consiglio d'Amministrazione del Real Corpo del
Genio.
Siamo nel 1846: al giovane intelligente ufficiale chi non avrebbe
predetto, con la sua capacità, col suo nome, una brillante carriera?
Eppure, nel giro di pochissimi mesi, tutto è perduto senza rimedio;
l'esperienza militare appena iniziata si conclude bruscamente.
La notte dal 12 al 13 ottobre il tenente Pisacane vien raccolto
dinanzi alla sua porta di casa, svenuto e sanguinante per gravi
ferite di pugnale nel ventre ed al petto. Mentre i medici accorsi
dànno ben poche speranze, la polizia inizia le indagini: nessun
testimonio del fatto; ma Pisacane, che ha una stupefacente ripresa,
dichiara, e fa dichiarare dai suoi, che un ladro di strada, sotto
minaccia della vita, ha tentato di derubarlo: egli si è ribellato e
nella mischia seguita ha riportato quelle ferite.
La convalescenza si prolunga, lentissima, fin verso la fine
dell'anno. Poco dopo la polizia ha nuovamente occasione di occuparsi
di Pisacane: l'8 febbraio '47, infatti, sotto mentito nome celato
come un malandrino inseguito, egli s'imbarca sul postale francese
diretto a Livorno5. Con lui, che ha così dato definitivamente
l'addio alle spalline borboniche, è una signora: Enrichetta Di
Lorenzo, moglie di Dionisio Lazzari, madre di tre bambini.
Fra i due fattacci, che suscitano a Napoli parecchio scalpore6, è,
checché si dica in contrario, una connessione evidente. Volgare
dramma d'amore? Pagina oscura nella vita di Pisacane? O prima
dolorosa ma alta affermazione di una personalità d'eccezione? Il
lettore vedrà.
Della vicenda sentimentale, della sola vicenda sentimentale nella
vita di Pisacane, si sapeva fin qualche mese addietro — ben poco: si
sapeva cioè che un suo amore purissimo, d'infanzia e d'adolescenza,
era stato irreparabilmente troncato dal matrimonio imposto alla
ragazza, Enrichetta, non ancora ventenne, con un uomo danaroso né
stimato né amato; che, dopo aver lealmente ma inutilmente lottato
per soffocare una passione che il trascorrer degli anni rendeva
sempre più travolgente, Pisacane si era visto finalmente riamato,
con pari intensità dolorosa, da lei. Nient'altro di sicuro, oltre
all'epilogo tempestosissimo, ché gli amici e biografi di Pisacane
pareva si fossero accordati per serbare intorno alla oscura vicenda
una discrezione assoluta; esplicitamente lo ammetteva Mazzini
quando, nei suoi bellissimi Ricordi su Pisacane, scriveva: «È storia
d'amore questa che rivelerebbe, s'io la raccontassi, come
all'indomita energia, di ch'ei fece prova, s'accoppiassero in
Pisacane una potenza singolare d'affetto e un sentire delicato, raro
a trovarsi, e che onorerebbe a un tempo l'anima sua. Ma non mi sento
il diritto di sollevar quel velo che parmi debba quasi sempre
lasciarsi sospeso tra i più e il santuario della vita individuale».
È provvidenziale, è giusto che quel velo — dopo decenni e decenni —
sia stato or ora sollevato dal protagonista medesimo mercè il
ritrovamento della sua lettera d'addio ai familiari (Napoli, 28
gennaio '47) che appunto ne contiene la schietta esauriente
immediata confessione. «Io amo Enrichetta — egli orgogliosamente
scriveva — dal giorno 8 settembre 1830; da quel giorno che la vidi
per la prima volta il mio cuore, tenero allora, ricevé una
impressione... quella prima fattami nella mia fanciullezza crebbe
col cuore insieme, e fu un'impronta sull'acciaio, incancellabile.
Enrichetta incominciò a supporre che io l'amassi nel 1841... Feci
palese il mio amore nel giorno del suo nome, 15 luglio 1844, ma,
credete, non con la speranza di essere amato, anzi con la certezza
di non doverlo essere giammai; questa certezza e l'idea della sua
infelicità amandomi, attesa la sua posizione, mi fece fare i più
terribili sforzi per cancellare dal mio cuore quell'ardente
passione: tentai le mille volte partire per l'estero... ma tutte le
strade mi furono chiuse. Io continuai ad avvicinare Enrichetta: tra
noi non vi era che una corrispondenza muta, io l'adoravo come
l'adoro, con la devozione [con cui] si può adorare una divinità, io
temeva di offenderla solamente con un guardo, al suo cospetto tutte
le mie facoltà erano sopite, avrei solamente desiderato la grazia di
potermi inginocchiare ai suoi piedi e contemplarla... Finalmente
Enrichetta mi ha detto je t'aime il 1° giugno 1845. Da quest'epoca
abbiamo sostenuto la lotta la più eroica che si possa immaginare...
La mia nobile, la mia generosa Enrichetta fu da me rispettata come
un nume. Non religione, non tema ci spingevano a questo eroismo, ma
solamente (la considerazione essere)... infame la donna che
appartiene a due uomini nell'epoca istessa... Ma questo stato era
troppo violento, non poteva durare: le nostre forze erano
all'estremo... I nostri caratteri sono tali da non potersi piegare
ad una tresca comune: allora io decisi di allontanarmi... Ma al
momento di separarci i nostri cuori vacillarono. Io sarei partito
deciso di cercare tutti i mezzi onde incontrare la morte — se il
dolore dell'allontanamento non mi avesse spinto al suicidio —
Enrichetta ne sarebbe morta al certo: allora decidemmo di partire
insieme»7.
Questa, nei suoi particolari essenziali, la romantica storia, tutta
animata, nel racconto, dal palese contrasto tra la ingenua fierezza
verbale del rievocatore — quanti «io decisi» e «io penso» e «io
voglio»! — e la riconosciuta inesorabilità del fato, che lo ha
avvinto e travolto come una povera cosa senza forza e volere.
Alla passione d'amore, infatti, è arduo comandare. Ma la essenziale
attenuante da Pisacane implicitamente invocata — seppure possono
dirsi attenuanti le secche motivazioni elencate in questo scritto
orgoglioso, assai più che a difesa arieggiante a requisitoria — è la
inguaribile infelicità di Enrichetta, legata per la vita a un uomo
tanto mite nell'apparenza quanto basso e brutale nell'intimità, a un
uomo che iniziandola all'amore glien'ha insieme ispirato il disgusto
e che, mediocre e incapace qual è, la tiene «come nulla».
Strano e significativo però, che in una lettera come questa tanto
particolareggiata quanto a circostanze di tempo, vero diagramma
degli alti e bassi del suo sentimento, Pisacane non accennasse
neanche alla lontana al suo ferimento, che pure aveva preceduto di
poco la risoluzione presa di fuggire da Napoli. In tanta
spregiudicata franchezza, dunque, una reticenza, tutt'altro che
casuale e involontaria, e ad ogni modo tale, mi sembra, da
autorizzare le insinuazioni affacciate in postumi rapporti di
polizia, secondo le quali o Enrichetta si sarebbe compromessa allora
irrimediabilmente agli occhi del marito e del mondo, recandosi ogni
giorno ad assister l'amico; o addirittura quel ferimento, da
Pisacane cavallerescamente attribuito a un delinquente volgare,
sarebbe stato in realtà perpetrato, se non dal Lazzari stesso, da un
emissario di lui8. Insinuazioni, e specialmente quest'ultima, non
provate, è vero: sintomatico però che il Lazzari non si risolvesse
mai, dopo l'8 febbraio, pur sollecitato dal moralissimo governo
napoletano, a presentar querela contro i due fuggitivi, che era pur
l'unico modo per riavere Enrichetta: temeva forse, in risposta alla
querela, una più grave denunzia a suo carico?
Quale che sia la verità vera, certo è che la chiacchiera
dell'aristocratico ufficiale aggredito sulla pubblica via dal
mandatario di un borghesuccio geloso corse per Napoli: s'intende
dunque quanto, in quei due mesi di martirio, Pisacane avesse dovuto
soffrire, più che nel corpo, nell'anima: era la carriera
compromessa, l'urto violento con le convenienze sociali e, se non
ancora lo scandalo, una umiliazione cocente; eran le imaginabili
pressioni di colleghi e parenti perché lasciasse «l'amica», il
sospetto ingiurioso, diviso dai suoi di casa, che tra lui ed
Enrichetta non corressero soltanto gli ostentati rapporti di
intimità fraterna: assai più, insomma, di quanto bastasse per
disgustarlo irrimediabilmente del suo ambiente, della vita fino
allora condotta, di Napoli stessa, e per ispirargli un desiderio
quasi folle di libertà, di evasione da quelle grette esigenze del
vivere sociale.
A troncare il legame d'amore, ormai, Pisacane non poteva neanche
pensare, tanto piena e trionfante vibrava la passione nel suo cuore:
Enrichetta, l'unica donna della sua vita! A che valevano gli agi, il
rango sociale, l'avvenire medesimo se dovevano separarsi per sempre?
Ma nel contempo egli prevedeva con assoluta calma le conseguenze
probabili del suo agire.
«Noi non abbiamo veduto il nostro avvenire colore di rosa —
tranquillamente assicurava i parenti —, anzi lo abbiamo figurato con
i colori i più tristi»; ma la liberazione di Enrichetta dall'odiosa
convivenza col Lazzari e, per entrambi, un mese, una settimana, e
magari un giorno solo di unione felice non eran forse prospettive
così luminose da valer la pena di ripagarle con una vita di stenti
o, nel peggiore dei casi, con un buon colpo di pistola nel capo?
«Chi può temere di più la miseria, un milionario, o noi, con le
nostre pistole, con i nostri cuori, con la nostra decisione?»
Il suo temperamento rivelava così tutto l'esuberante calore di un
meridionale, e in più la ferma inflessibile tenacia di un nordico:
amava con impeto, con dedizione assoluta di sé, irremissibilmente;
dieci anni più tardi era allo stesso diapason, e adorava Enrichetta
né più né meno del primo giorno.
La stessa esuberanza, la stessa non effimera foga portava nel
detestare con tutte le forze dell'anima l'ipocrisia sociale. Già lo
aveva provato nella lettera ai suoi, bollando a fuoco coloro, che
dopo aver «venduto» una giovane ignara e inesperta a un marito
qualunque, condannandola così a bandire dalla sua vita l'amore, eran
poi i primi a dichiararla infame se un giorno le nascesse nel cuore
gelido un sentimento nuovo9. A che altro, del resto, avea ridotto il
matrimonio l'iniqua società moderna se non a una forma aggravata di
prostituzione, in quanto non ammetteva per la vittima possibilità di
riscatto? Né Pisacane era di quelli che la pretendono a riformatori
sociali per giustificare in un modo o nell'altro la loro condotta
socialmente scorretta. No; la sua ribellione sincera, permanente e
disinteressata, cui la personale esperienza conferiva adesso un tono
particolarmente vibrato e commosso.
Dichiarata la guerra alla società, si sentiva felice e leggero e in
pace con se stesso: una liberazione. Contro tutti? Tanto meglio: «Il
ne faut faire jamais comme les autres», già allora superbamente
proclamava. Con gli anni, poi, vinta la prima prova, avrebbe portato
quel suo spregiudicato sguardo indagatore sulle più varie
manifestazioni della vita collettiva, nulla accettando che non
potesse, con la sua ragione, logicamente e sentimentalmente
giustificare.
In che mai consistesse — se nella sua bellezza o piuttosto nelle sue
qualità morali — il fascino di Enrichetta, non sappiamo. V'era nel
suo temperamento, certo, l'essenza stessa della femminilità: ardori
improvvisi, lucidità d'intuizione, crisi di prostrazione e
indecisione, capacità insospettabile di intensi sforzi fisici e
morali. Già altri ha supposto che Pisacane la tenesse un poco a
modello scrivendo quel paragrafo dei Saggi che è dedicato alla
donna: «La natura ha dato loro fibre più delicate e più sensibili
delle nostre, e però le loro sensazioni vivissime, non possono
essere che fugaci... Capaci di quelle azioni ove il decidersi e
l'eseguire succedonsi rapidamente, sono poi incapaci di sopportare a
lungo dolori e mirare al conseguimento di un fine con attenzione
profonda e prolungata».
Gli avvenimenti successivi, comunque, ci mostreranno Enrichetta
appassionata, attiva, coraggiosa, modesta e, ad eccezione di un
doloroso smarrimento momentaneo, tenera sempre e orgogliosa del suo
compagno; ben meritevole del commosso elogio che questi nel
congedarsi dalla sua famiglia le avea dedicato: «... se nel corso di
tanti anni non ho fatto azione di cui posso vergognarmi, lo debbo ad
Enrichetta. Ad ogni mia azione, se vi era un lato poco nobile, io
stesso mi diceva: come comparirò dinanzi ad Enrichetta? Arrossirò di
vergogna dinanzi a lei, sì nobile, sì generosa, se la mia coscienza
ha qualche cosa a rimproverarmi».
Unendosi a Pisacane, Enrichetta non aveva scelto di certo la via più
facile e piana: ché egli non era uomo cui l'amore soddisfatto, e
fosse pure un intensissimo amore, bastasse a riempire la vita. E
forse, per quanto vi fosse preparata, ella soffrí dapprima di quel
suo inquieto dinamismo, che lo induceva a ricercare la lotta, a
farsi volontario di tutte le battaglie d'armi e d'idee, a sdegnare
le abitudini e gli agi per consacrarsi al raggiungimento di ideali
sempre più alti e vasti. Pisacane apparteneva infatti a quella élite
di uomini che vengon biasimati dai più perché «sacrificano la
famiglia»; e così fanno invero, ma non perché non l'amino
profondamente, ché anzi la loro attività è in qualche modo
condizionata alla felicità domestica; piuttosto perché considerano
questa come una base necessaria, come un porto sicuro, donde salpare
quotidianamente per una vita più ricca e più utile, sempre meno
ispirata alla considerazione del personale tornaconto: non mai come
un fine.
Ma con l'andar degli anni, col maturarsi della sua personalità di
tra le prove difficili, Enrichetta giunse faticosamente a
comprendere e a rispettare in lui questa capacità di superamento di
un affetto che essa sola sapeva quanto vivo fosse nel suo cuore, e
anzi ad amarlo anche di più, appunto perché, facendola soffrire,
l'aiutava ad inalzarsi.
N'è testimone, ancora una volta, il Mazzini, cui la felicità
dell'amico ispirava la dolente frase di sapore autobiografico «la
maledizione del vae soli non si adempiva per lui»: «Dirò soltanto
che quell'amore, mercè le nobili aspirazioni della donna, non
infiacchí mai l'anima dell'amico, non si trovò mai a contrasto
coll'adempimento dei suoi doveri, e gli accrebbe forza a lietamente
compirli. Fu l'amore delle epoche di credenza, l'amore che ritempra
l'animo a grandi cose...»
Capitolo secondo
Fuga
I due fuggiaschi discendono a Livorno, mentre il patrio governo, ed
anzi il Re stesso, «con reale animo conturbato», li fa cercare, dal
Console napoletano, a Marsiglia. Scoperta poi la residenza vera,
gran confusione a Firenze: dove, tempestando l'Incaricato napoletano
perché la polizia li stani e glieli consegni, il Ministro degli
Esteri toscano in persona scrive d'urgenza a Livorno perché la
coppia venga fermata, «e la donna posta in luogo di custodia»; il
Console napoletano a Livorno s'impadronisce dei loro passaporti, da
Napoli si spedisce nel porto toscano un ispettore di polizia, perché
ne scovi le traccie. Tutto invano. Gli adulteri, procuratisi chi sa
come due nuovi passaporti napoletani, intestati a Enrico e Carlotta
coniugi Dumont, piantate le valigie (e un conto da pagare) alla
locanda, scompaiono da Livorno. All'ispettore napoletano non resta
che saldare il debito, sequestrare il bagaglio e far vela per
Napoli; al Governatore di Livorno indagare, con calma toscana, sulla
nuova destinazione dei fuggitivi, che alcuni suppongono siansi
diretti a Malta: il 30 di marzo l'Auditore del governo assicura che
son passati a Marsiglia, via Corsica; ed era esatto, ma con un buon
mese di ritardo. Pisacane si era già trasferito, infatti,
direttamente a Londra, giungendovi, da Boulogne-Folkestone, il 4 di
marzo10.
Erano due sconosciuti, poveri per giunta11; speravano, viaggiando
sotto mentito nome, di sottrarsi alla persecuzione borbonica. Il
vasto mondo si apriva loro dinanzi. Pisacane era abbastanza
ottimista: «Non sono un asino, non sono un vile, ed ho fortissimo il
corpo»; possibile che non dovesse riuscire a guadagnarsi la vita? Lo
attendevano invece, oltre ai primi morsi di una disastrosa miseria,
nel sordido slum di Blackfriars Bridge, nuove prove della
irritazione borbonica, ché quel Ministro degli Esteri, avvertito
dalla Legazione di Londra, l'11 marzo, della sua presenza colà, fece
fuoco e fiamme per ottenere l'estradizione e di lui e di lei; non vi
riuscí, è vero, ma il governo inglese, che non scherzava coi
frodatori della legge sugli aliens, saputo chi fosse Dumont,
garbatamente lo invitò a ripassare la Manica. Gli toccò dunque,
seguitando la dura via crucis, lasciar quella Londra dove, sotto il
nome fittizio, qualche utile conoscenza avea già stretto
nell'ambiente dei rifugiati italiani: l'unico ambiente di
connazionali che a lui, considerato disertore dell'esercito, potesse
aprirsi ormai. Preziosa tra l'altre la conoscenza con Gabriele
Rossetti, padre di Dante Gabriele, poeta lui stesso, esule a Londra
dal '24, pezzo grosso universitario e mondano.
Verso la metà d'aprile giunsero a Parigi, a questa Mecca degli
intellettuali, dove sembrava e sembra tuttora impossibile che un
giovane d'ingegno, disoccupato, non riesca a trovare un impiego di
sua soddisfazione. Pisacane, nonostante ricerche affannose, non
trovò nulla. Né ora aveva più al suo fianco una donna robusta:
Enrichetta, infatti, che già gli prometteva un bambino, necessitava
di riposo e di cure: indebolita fisicamente, essa rivelava un
fragilissimo sistema nervoso, preda di crisi frequenti. E
l'implacabile persecuzione del governo di Napoli anziché rallentare
s'accaniva sempre di più! Il 28 d'aprile, celati in un alberghetto
di terz'ordine, i due subivano, provocata dalla Legazione borbonica,
una visita domiciliare che, per quanto infruttuosa, li conduceva,
per contravvenzione al regolamento sui passaporti, a provvisoria
carcerazione: la compiacente polizia francese li tratteneva poi vari
giorni in prigione in attesa che giungessero da Napoli o la querela
maritale o un regolare mandato d'arresto pel «furto», imputabile a
lei, di pochi oggetti personali di proprietà del Lazzari! Pisacane,
dal carcere, subito scrisse, ingenuamente, al duca di
Serra-Capriola, ambasciatore napoletano a Parigi, per supplicarlo di
«fare usare verso la Signora Lazzari i riguardi che la sua nascita,
educazione civile e principalmente lo stato suo esigevano». Il
piissimo duca, che sperava con un po' di prigione di far di
Enrichetta una Maddalena pentita mandò, per tutta risposta, a tentar
la conversione di lei, due di quelle signore pietose, «le quali,
come angeli mandati dal cielo vanno a consolare i prigionieri, e
cercare di portare nei loro cuori il pentimento che tanto spesso
hanno la fortuna di destare nei più induriti al delitto». Si
sbagliava di grosso: Enrichetta era, sì, debole e stanca e depressa,
ma ormai nessuna forza umana poteva distaccarla da Pisacane. «Le
povere signore — così il duca scandalizzato e deluso al suo Ministro
degli Esteri — tornarono dal carcere dopo due ore di persuasione e
combattimento, penetrate di orrore, avendo trovato nella Signora
Lazzari una riunione delle più esaltate e cieche passioni, con una
sfrontatezza e la più orrida immoralità, e l'ateismo il più
positivo. Si dovette abbandonare qualsiasi idea di pentimento e
ravvedimento...»
Alla polizia francese Enrichetta dichiarava semplicemente di non
voler altro «che vivere col suo Carlo, non temendo né la miseria, né
la morte».
L'8 di maggio, non essendo giunta da Napoli la querela del Lazzari,
la coppia adultera, con grand'ira del duca, ricuperò la libertà
perduta. Pisacane, anzi, si presentò al Serra-Capriola in persona,
chiedendo gli rilasciasse passaporti per la Svizzera o per
l'America. Il colloquio fu tempestoso:
«Io gli risposi — precisa il duca — che mi meravigliava del suo
ardire, mentre egli doveva ben sapere che avanti a me egli non era
che un disertore; che, se le leggi francesi non mi davano il potere
di farlo ritornare nel suo paese per subire la pena meritata, le
leggi d'onore pei militari in questo stesso paese portavano al
disprezzo sopra chi abbandonava la sua Bandiera. Che però se egli
era pentito del doppio suo delitto, avendo portata la disgrazia e la
vergogna di una onesta famiglia, e si separava dalla Signora
Lazzari, io nel prender questa sotto la mia protezione, avrei
implorato a di lui favore l'indulgenza delle leggi e la Clemenza
Sovrana. Il sig. Pisacane sembrò non capisse le mie parole e mi
disse che egli e la signora avevano agito con tutta riflessione. Non
mi restò che farlo uscire dalla mia presenza»12.
Terminavano così per Pisacane, tre mesi dopo la sua partenza da
Napoli, i più grossi fastidi di natura giudiziaria.
S'intensificavano invece le preoccupazioni economiche, e l'avvenire
si faceva sempre più buio per questo spostato provinciale trentenne,
sbalzato all'improvviso, con poche conoscenze, in un mondo affatto
nuovo. Fu un periodo dolorosissimo, nella sterminata metropoli,
eppure, si può supporlo anche se i documenti tacciono, decisivo
quanto al suo orientamento spirituale.
Gran bella cosa viaggiare all'estero, quando il rango sociale, le
relazioni o il censo apron tutte le porte; gran conforto, per gli
esuli politici, per miserabili che siano, vedersi cordialmente
accolti nelle fervide comunità di fuorusciti italiani che pullulano
per ogni dove. Ma che vuol mai questo nobile decaduto, digiuno di
politica, fuggiasco per banali motivi di cuore, senz'altra
esperienza al suo attivo che quella, trilustre, d'aver servito il
Borbone? S'imaginano le diffidenze, i sospetti e le chiacchiere. Di
gran giovamento riuscí comunque per Pisacane, che s'apprestava a un
nuovo e questa volta definitivo e impegnativo tuffo nell'ambiente
della emigrazione politica, un lusinghiero biglietto di
presentazione fornitogli dal Rossetti pel generale Pepe, che era tra
i maggiorenti della colonia italiana a Parigi13. In casa di Pepe
capitava non solamente il fior fiore dell'elemento emigrato; ma tra
le personalità francesi un Lamennais, un Arago, un Béranger, una
Sand, un Constant, un Lamartine. Certo questi contatti, in un
ambiente che presentiva, nel suo fervore, l'imminenza d'una tempesta
europea, e seguiva con ansia, quando non contribuiva a provocarla,
la crescente agitazione degli spiriti in Francia e in Italia, non
furono senza esercitare una immensa influenza su Pisacane; il quale
nel contempo impiegava le troppe ore d'ozio nella intensa lettura di
libri e di giornali, come se gli tardasse, in quell'anno così tipico
di vigilia, di farsi d'urgenza una coscienza politica.
E infatti, mentre sui primi del '47 Pisacane è ancora un napoletano
qualunque, alieno dalle cose politiche e tutt'al più, come
ufficiale, voglioso di complicazioni europee per avere finalmente
occasione di smettere la monotona vita di guarnigione, e di provare,
coi rischi, l'ebbrezza di una guerra, sui primi del '48 egli è già
un fervido patriota «italiano», con idee sue, fisime sue, programmi
suoi. La sua esperienza nel '47 dové dunque essere piena e ricca e
rettilinea: molti i discorsi uditi, sì, e le cose vedute e lette sui
libri; ma molta, e seria, e profonda, altresì, la riflessione sua,
diretta e originale, seppure i suoi interessi e la sua coltura lo
portassero, com'era naturale del resto, a considerar le cose europee
segnatamente come un problema di equilibrio di forze, sotto
l'aspetto militare cioè. Col che non s'esclude che spunti d'idee
politiche, impulsi di opposizione, fremiti di simpatia per le
vittime della tirannia non lo avessero agitato di quando in quando
anche negli anni precedenti14; né che, militare di professione, non
avesse potuto prospettarsi il problema tecnico della indipendenza
d'Italia; ma certo non era mai salito, ancora, dall'episodio alla
visione generale, né dalle singoli questioni militari o politiche
alla grande questione che appassionava in quel tempo le élites delle
classi colte italiane; adorava, sì, in tutti i suoi aspetti la
libertà, ma queste avvertite, anzi impellenti esigenze di libertà
non gli avevano dato per anco figura e impostazione di liberale:
tutt'al più, di ribelle.
Si va a tentoni. Ma è verosimile che anche a Pisacane l'idea
dell'unità italiana — poi fermissima in lui, se pur la concepisse
ravvivata da ampie autonomie regionali — sia balenata là fuori, come
a tanti altri, una volta messi in grado di considerarla nel suo
assieme, questa Italia, da lontano, fuori dalle meschinità
provinciali, e anche da quelle storicamente giustificate gelosie fra
Stato e Stato; una volta cioè resi capaci di anticipare nella
vivente realtà di un piccolo mondo di esuli la sognata possibilità
di una fusione avvenire. Grandi virtú prospettiche, di televisione,
diremmo, create, storicamente, dall'emigrazione politica, e per le
quali soltanto, chi pensi agli ultimi secoli della storia italiana,
varrebbe la pena di andar grati ai regimi tirannici! Che sarebbe
stata l'Italia senza la periodica forzata emigrazione nel mondo di
cospicue minoranze intellettuali che, in tempi d'oscuramento della
libertà, quindi della coltura, in patria, assicurarono — fuori — la
continuità ideale del nostro sviluppo civile?
Francia ed Inghilterra, poi, precedevan l'Italia di almeno
cinquant'anni, allora, se non altro per quel che riguarda lo
sviluppo effettivo e dottrinale della civiltà moderna. Un italiano
che vivesse sia pure poche settimane in quei paesi, con occhio
attento a quel che gli accadeva d'intorno, si trovava in condizione
d'anticipare la visione di problemi ancora immaturi, o addirittura
neppure impostati, per allora, in patria. Soprattutto poteva
afferrarvi d'un subito, o sfogliando un giornale, o visitando un
quartiere industriale, o frequentando le sedute delle Camere, l'idea
della complessità d'ogni fenomeno sociale e della relatività d'ogni
questione politica. Si pensi alla vita industriale inglese, ai
paurosi problemi che i grandi concentramenti operai facevano
affacciare: si pensi a Parigi, al rigoglio di studi sociali comparsi
fra il '30 e il '48, come inevitabile effetto della precipitosa
trasformazione subita in quegli anni dalla organizzazione del
lavoro. Fourier e Saint Simon, Blanqui e Proudhon, Blanc e Cabet:
critiche sempre più aspre e scientifiche alla civiltà borghese,
prime linee d'una sempre meno romantica ricostruzione futura,
appassionate difese, e requisitorie, e polemiche. Né restavano,
queste ultime, sepolte nei libri, ma — diffuse e semplificate da
innumerevoli quotidiani e periodici — le assorbiva avidamente, bene
o male comprese non importa, il mondo operaio, traverso il filtro di
un piccolo esercito di organizzatori e politicanti, abili nel
cavarne motivi e formole di propaganda e d'azione.
I borghesi intellettuali che a Parigi nel '47 meditavano e
preparavano una seconda e definitiva rivoluzione di luglio avevano
programmi assai radicali in politica, ma esigevano intatto, nelle
sue grandi linee, l'assetto sociale; riformatori sociali e operai
più evoluti scavalcavano invece a piè pari la questione politica,
ché a loro importava rifare le basi, non la facciata dell'edificio.
Non d'altro si parlava in certi quartieri e in certi circoli, non
d'altro si ragionava su certi giornali15. Dunque unità e
indipendenza e bilanci in pareggio non erano tutto per una nazione?
Non in queste formole era l'ubi consistam del progresso civile?
Sí che Pisacane, nell'atto stesso in cui poneva attenzione al
problema politico e considerava sotto questo aspetto l'avvenire
d'Italia, era portato a oltrepassarlo o meglio ad afferrarne, con la
palese relatività, il processo dialettico di superamento.
Caratteristica tutta sua, questa, che gli derivò proprio dall'avere
così tardi, e in così particolare ambiente e condizioni, inteso e
affrontato la questione italiana.
Cervello solido, sistematico, ordinato, a Pisacane non ne derivò
scetticismo, ma il disagio di una visione complessa e torbida,
faticosamente elaborata e chiarita di poi: contradittorie
impressioni, idee suggestive ma incomplete o imprecise insieme ad
istantanee vivaci e indimenticabili di un mondo progredito in via di
ulteriore sviluppo; soprattutto un'improrogabile esigenza: uscire
definitivamente dalla piccola cerchia della vita individuale,
affrontare i grandi problemi della convivenza sociale, studiarli
particolarmente in riflesso all'Italia, alla quale urgeva dare il
senso di quanto, in ogni campo, e non solamente nell'assetto
politico, essa fosse in arretrato di fronte all'Europa. Difficile
compito, per altro, risvegliar gli italiani, se un Pisacane avea
potuto, fin quasi a trent'anni, compiacersi di un genere di vita, di
problemi, di orizzonti non solo napoletani, ma propri in Napoli a un
esiguo ceto sociale!
Interessantissima, dunque, questa vita a Parigi; piacevole il
prolungarla, non fosse stato il bisogno, che urgeva, di sistemarsi
in qualche modo e la sperimentata impossibilità di trovar lavoro
nella capitale. Pisacane finí con l'aggrapparsi all'estrema risorsa
che in Francia sorride — e sorrideva già allora, dal '31 in poi — a
tutti i vinti della vita, gli spiantati, i senza patria che affollan
le vie di Parigi: la Legione Straniera. Della Legione, istituita per
la guerra algerina e più ancora per purgare il paese dei troppi
rifugiati che lo infestavano, aveva un tempo fatto parte — e parte
cospicua — un battaglione italiano, disciolto il quale nel 1840, non
era per questo diminuita l'affluenza degli italiani; ché anzi, in
quegli anni di pace, molti malinconici sognatori di gloria v'erano
affluiti dalle varie provincie della penisola. In un certo momento
(forse nel '46) lo stesso Pisacane, deciso a tentare, per la sua
passione amorosa poi rivelatasi inguaribile, la cura della
lontananza, avea richiesto al suo re il permesso di andare a morire
laggiú. Ma gli era stato negato16.
Libero adesso, riprese il progetto; e per accelerare le pratiche
ottenne che il Ministro francese della Marina — il duca di
Montebello, che Pisacane avea conosciuto a Napoli, quando v'era
stato ambasciatore — lo presentasse e raccomandasse: finalmente,
ecco per lui un brevetto di sottotenente. La partenza fu ritardata
pel parto di lei? Oppure la creatura non giunse a termine? Chi sa;
certo che Enrichetta, sola sola e doppiamente triste, si fermò a
Marsiglia, presso persone amiche: di là egli s'era imbarcato il 5
dicembre per l'Africa. Primo distacco, dopo così pochi mesi di
tempestosa unione: a quando — se mai — il ritorno? Ché in Algeria la
ormai disperata resistenza di Abd-elKader contro l'occupazione
francese si manifestava in periodici ritorni offensivi, scaramucce
cruente e imboscate. Sei ufficiali italiani eran caduti, dal '31 in
poi, combattendo nella Legione Straniera!
Una guerra di conquista coloniale, non provocata, viola sempre i
diritti dell'umanità: impossibile giustificarla se non ricorrendo al
«sacro egoismo» di una nazione espansionistica. Ma quale idealità
può mai infiammare alla guerra i soldati di una Legione Straniera?
Nessuna, se non, per molti sciagurati, il bisogno di rifarsi un nome
o, per uomini della tempra di Pisacane, l'aspirazione a provare in
un campo qualunque le proprie attitudini militari.
Sfortuna, anche in questo: proprio il 13 dicembre di quell'anno
Abd-el-Kader, ridotto all'estremo, si arrende al generale
Lamoricière. L'Algeria è provincia francese, e alle truppe
d'occupazione non competono ormai che servizi, duri fin che si
voglia, ma poco brillanti e gloriosi, di sorveglianza, di
penetrazione più o meno pacifica, di rastrellamento delle superstiti
tribú ribelli.
Inquadrato nella Legione, rassegnato al pacifico compito,
distaccato, pare, in Orano (anche lí, quanti fuorusciti italiani, e
quanto si dovea parlare d'Italia!) a Pisacane non mancò modo di
distinguersi, e di porre in valore la sua solidissima preparazione
tecnica. Piú tardi si lavorò di fantasia su questo suo soggiorno
algerino, attribuendosi a Pisacane — per poco più di tre mesi di
permanenza — nientemeno che un paio di duelli e un primo peccato
letterario (una raccolta di lettere, si disse, sul tipo dello Iacopo
Ortis)! Fole17, ché di questi pretesi scritti non s'è mai saputo più
niente: quanto ai duelli, par difficile pensare che a un ufficiale
attaccabrighe e violento si siano da parte dei suoi superiori
propinate tante dimostrazioni di simpatia e di stima quante ne
ricevette Pisacane allorché, già nel marzo '48, presentò le
dimissioni per ritornare in Europa.
Le strepitose novità italiane ed europee gli avevano messo la febbre
in corpo. Si combatte in Italia, per la sua indipendenza, una guerra
sul serio contro un nemico potente; come potrebbe un italiano, cui
scorra sangue nelle vene, continuare a combattere la guerricciola
d'Africa? Sí che per quanto il suo colonnello qualifichi la sua
partenza come una vera perdita pel reggimento e il generale gli
suggerisca di sospendere le dimissioni, recandosi prima in Italia
per giudicar sul posto come procedano le cose, Pisacane — che odia
le mezze decisioni — insiste nel suo proposito, e parte
precipitosamente seguito da altri legionari italiani. Non ha perduto
i suoi tre mesi africani: perfino il Ministro della Guerra, Arago,
che egli ha probabilmente conosciuto a Parigi da Pepe, scriverà più
tardi cose assai lusinghiere sul conto suo.
Questo scoppio liberale del '48 sorprese un po' tutti; ma dové
sorprendere come una folgore Pisacane che la sua Italia conosceva sì
poco: gennaio, rivoluzione in Sicilia, gran dimostrazione a Napoli,
Ferdinando concede (di che cuore!) la Costituzione; marzo,
Costituzione in Piemonte, Costituzione a Roma. Il tutto preceduto,
accompagnato, seguíto dai grandi incendi di Parigi e di Vienna.
Metternich che se ne va, Luigi Filippo che se ne va. Trionfo
inconcepibile del liberalismo europeo. In Italia, poi, la folla
delle capitali impazza perché, con quattro dimostrazioni, ha
ottenuto una serie di riforme e di garanzie che non ha mai
desiderato e non sa neanche cosa voglian dire, e i pochi iniziatori
esultano (e dovrebbero stupire e diffidare) perché il popolo, con
«divino» intuito, ha sposato d'un tratto la causa delle libertà
politiche. Portar corona in capo, sui primi del '48, è diventata, in
men che non si dica, la più difficile e meno invidiabile delle
posizioni sociali: in Italia, sentendosi mancare il terreno sotto i
piedi, i Principi si buttano in gara di demagogia, fanno a chi più
concede, e a chi più presto.
Salvo in Sicilia, dove la rivolta antinapoletana ha cause profonde e
locali e perciò sentite e sofferte dalla maggioranza della
popolazione urbana, in tutto il resto d'Italia (ma sì, anche a
Milano e a Venezia) il Quarantotto è movimento in gran parte
riflesso, obbediente a una legge fisica secondo la quale un corpo
arroventato e un corpo diaccio non possono aderire senza che il
contatto modifichi la rispettiva temperatura. L'Europa è il corpo
arroventato, l'Italia quello tiepido se non diaccio addirittura, e
in Italia (checché si dica o speri in contrario) circola il sangue
d'Europa. Senza le novità francesi ed austriache il '48 avrebbe
rassodato fra noi la tendenza riformistica, ma nulla più; una
rivoluzione non era davvero matura né a Napoli né a Roma né a
Firenze né a Milano né a Venezia.
Il 18 marzo scoppia la rivolta antiaustriaca a Milano: improvviso
rigurgito di irritazione compressa, di ricordi non mai sepolti di
gloriosa autonomia, un'aspirazione generica a una libertà che
ciascuno intende a suo modo. Nessuna seria preparazione (chi avrebbe
preveduto la possibilità delle Cinque Giornate, due mesi prima?), ma
l'abbagliante subitanea scoperta che l'Austria è uno Stato che
minaccia rovina, che sotto l'orpello della sua Corte e dietro la
siepe delle sue baionette c'è un popolo che aspira anch'esso a
libertà; la febbre improvvisa ed effimera, insomma, che pervade la
maggioranza dei ceti cittadini, dell'«ora o mai». Ora o mai, che
cosa? Ora o mai ci si libera dal giogo austriaco e torniamo padroni
in casa nostra. Tanto pesante dunque quel giogo, tanto terribile il
governo austriaco? No, non peggiore certo di tutti gli altri
italiani; ma governo straniero, umiliante e irritante, anche se
amministra alla perfezione, e fa strade ponti e bonifiche.
Rovesciarlo, avevan detto e predetto per anni e anni, gridando al
deserto, gruppi di patriotti: ma ora tutti d'un subito avvertono che
si è presentata, per disfarsi dell'Austria, l'occasione unica,
imprevedibile, superiore ai desideri più arditi, che trova la sua
base storica e sentimentale nel ricordo del periodo francese, quando
Milano era orgogliosa capitale. E Milano s'avventa; il giorno prima,
a Venezia, è stato liberato Manin. Il 23 marzo, non troppo decisa,
s'accende la guerra sarda; tre giorni appresso sonante ingresso in
Milano delle truppe Carlalbertine.
Tanto rapidamente marciavano le cose italiane in quella primavera
del '48, che mentre Milano, orgoglio delle democrazie europee,
subiva la doppia invasione di volontari provenienti da ogni parte
del globo, e di dottrinari saccenti, gabellanti ciascuno la ricetta
infallibile pel successo finale; nel resto d'Italia guizzavano nel
cielo, e un dopo l'altro esplodevano, stupefacenti fuochi
d'artificio. Erano il Papa, il Granduca, il Borbone che, gelosi di
Carlo Alberto e premuti dall'irrequieta folla delle capitali, si
rassegnavano, pur di salvare il trono, a dichiarar guerra
all'Austria, salvo poi a intervenire sul Po con moto uniformemente
ritardato. Fuochi d'artificio, sì; ma chi se ne accorgeva allora?
Quegli scoppi e quel persistente bagliore ingannarono tutti. Come
sembrava mutata l'Italia, come mutati i suoi Principi, come inalzato
il suo popolo, negli ultimi mesi!
Tanto mutato, tutto, che a Pisacane, sbarcato a Marsiglia il 1° di
aprile, parve legittimo attendersi che in un tal clima i suoi
recenti trascorsi venissero considerati come appartenenti
addirittura a una remota antichità, e perciò dimenticati e sanati:
su ben altro che scandaletti donneschi avevan dovuto, a Napoli,
passare a malincuore la spugna... L'ufficiale «disertore»,
l'adultero si presenta dunque al Console delle Due Sicilie, al quale
chiede un salvacondotto per Napoli: gli sorride, è logico, di fare
la guerra col grado suo, con i suoi concittadini, in un esercito
comandato dal Pepe. Ma il buon funzionario (non c'è che la
burocrazia che non muti, nel '48), pauroso di tanta responsabilità,
gira la pratica al Ministero.
Aspettare? Pisacane ha poca pazienza; sente che quei giorni contan
per anni; gli ripugna vivacchiare a Marsiglia, sia pure con
Enrichetta accanto, mentre in Italia tuona la «bella guerra». Al
diavolo dunque le autorità borboniche: parte di furia per Milano, e
il salvacondotto, concesso, resterà poi a dormire negli uffici del
Console.
Sono in quattro nel viaggio: lui, la sua compagna, un altro
ufficiale della Legione straniera18, e un Giovanni Cattaneo,
emigrato, cugino dell'altro Cattaneo pezzo grosso dell'insurrezione.
Capitolo terzo
Azione
Giunto a Milano il 14 aprile, Pisacane fa capo a Cattaneo: lo crede
ancora il padrone della città, mentre è ormai nient'altro che un
povero Catone inascoltato o quasi, lí lí per doventare un sospetto
agli occhi dei reggitori.
Nel rigurgito di tanti volontari spavaldi e ignoranti, Cattaneo
apprezza subito il valore d'un Pisacane, se non altro un militare di
mestiere, con idee chiare in testa. Discutono sulla situazione.
Pisacane si orienta subito: Radetzki è serrato in Verona dal
principio del mese, l'esercito sardo sta perdendo il suo tempo sulla
riva sinistra del Mincio. Le forze, su per giú, si equilibrano:
Radetzki aspetta i famosi rinforzi; i piemontesi contano un poco
sulle truppe di Napoli, di Roma, di Firenze, niente sui volontari.
Nuvoloni all'orizzonte parecchi: il fervore popolare s'è smorzato
assai, e i milanesi riposano ormai sugli allori, pensando che la
guerra vera, in campo, tocca agli eserciti stanziali. Morire
d'iniziative, perciò, e dedizione passiva al monarca, e le redini
strappate di mano a quanti pretendono che la Lombardia prosegua la
sua guerra d'insurrezione accanto al Piemonte; diffidenze
incrociantesi, degli autonomisti e repubblicani, sulle vere
intenzioni di Carlo Alberto; dei piemontesi e monarchici sul
pericolo di sinistra, e ovunque il riflesso dei gelosi sospetti
suscitati in tutta Italia dalla mossa sabauda; e già vive e accorate
le recriminazioni reciproche sulle eccezionali occasioni perdute per
farla finita con l'Austria.
Data la situazione, Pisacane dichiara che vuol proseguire
immediatamente pel fronte; Cattaneo si offre di accompagnarlo dal
generale Lechi, che comanda in capo il cosidetto esercito lombardo.
I milanesi, lungo la via, si voltano «a mirare quel bel giovane in
quell'insolita uniforme»19. Lechi è vecchiotto, burocratico, della
vecchia scuola; propone a Pisacane di trattenersi a Milano per
ordinare e «mettere a punto» un nuovo reggimento di volontari.
Sfuriata di Pisacane: è venuto dall'Africa per fare la guerra, non
«per trascinar neghittoso la spada per le vie di Milano». Già troppa
gente affolla i caffè e le redazioni dei giornali, sputando critiche
e progetti balordi20; già troppo si ciancia sull'avvenire della
Lombardia (pelle dell'orso), quando le sorti delle armi pendono
ancora terribilmente incerte.
Lo contentano subito; e poiché i gradi, si sa, costano poco, ecco a
lui che è tenente, brevetto di capitano e assegnazione a un
reggimento di nuova formazione, che lo stesso 14 aprile parte pel
fronte: il «reggimento della morte». (Son fuori strada, dunque,
quelli tra i biografi di Pisacane, che, trovando un documento da lui
firmato in quei giorni qual capitano in quel corpo, hanno creduto di
speculare sulla sua vanteria)21.
La partenza — e la nuova separazione da Enrichetta — non avvengono
che il 17 d'aprile, ché Pisacane, aderendo a un invito di Cattaneo,
ammiratore, sì, del suo slancio guerresco, ma più della sua
competenza, si ferma due giorni in Milano per precisar brevemente, e
consegnare a chi di dovere, le sue idee Sul momentaneo ordinamento
dell'esercito lombardo in aprile 1848. Incitamenti a intensificare
il reclutamento e l'addestramento dei volontari? Proposta di
richiedere alla Francia — con la quale gli inviati lombardi stanno
fiaccamente trattando le modalità di una spedizione di soccorso — la
cessione del contingente italiano militante nella Legione
Straniera?22 Fatica sprecata: «già i savii non accettavano più
consigli», spiegherà poi l'amareggiato Cattaneo.
Ma ecco Desenzano sul Garda, centro di raccolta, con la vicina Salò,
di volontari d'ogni paese e favella: disertori austriaci, gente di
Lombardia o Veneto o Lazio o Calabria, svizzeri e financo polacchi.
Quivi, aggregato a una colonna lombarda comandata da un maggiore
Borra, il nuovo venuto è tutt'altro che «neghittoso»: una faccenda
grave trasformar quella masnada in combattenti sul serio! Occorre
poi mantenere i contatti con l'estrema ala destra dell'esercito
sardo che presidia Peschiera. Marce ed esercitazioni quotidiane,
perciò.
Lettera al fratello Filippo: Pisacane in complesso è contento; la
sua colonna, gli scrive, per quanto non sia per anco organizzata a
dovere e gli uomini sappiano a mala pena maneggiare il fucile, può
considerarsi tra le migliori. Certo, si vorrebbe fare molto di più,
ma bisogna pur rassegnarsi agli ordini emanati dallo Stato Maggior
generale e attendere, per cominciare la guerra anche lassú, «il
signor Carlo Alberto». E poi, senza eufemismi: «Gli affari della
guerra in generale vanno bene, perché non possono andar male; ma
Carlo Alberto è una b... senza pari; 90 000 combattenti arrestati
sul Mincio senza ragione. Se gli austriaci avranno forze noi saremo
completamente girati dal Tirolo».
Il guaio si è che tale opinione, tale sfiducia integrale nella
capacità tecnica del Comando Sardo non sono prerogativa di Pisacane,
sempre abbondante, si sa, nel criticare, ma hanno preso radice tra i
volontari tutti. L'ultimo appunto, in special modo, era grave e
fondato: gli austriaci, padroni di Riva sul Garda, padroni della Val
di Ledro, padroni delle vie d'accesso alla Val Sabbia, avrebbero
potuto infatti avanzare a ventaglio sulla pianura bresciana senza
incontrare resistenza valida. Per fortuna, le forze di cui essi
disponevano in quella zona erano appena sufficienti ad assicurare la
loro propria difesa.
Ad ogni modo, quasi a calmare le apprensioni di Pisacane, ecco,
sulla fine d'aprile, l'ordine che ingiunge al general Durando
(Giacomo) di assumere il comando di tutto il complesso settore
montano che costituisce l'estrema linea di confine tra la Lombardia
e il Tirolo austriaco: da Limone sul Garda per l'altopiano di
Tremosine a Ponte Caffaro; di qui al Tonale e allo Stelvio.
Benissimo, dunque: solo che a guarnire un fronte di tanta estensione
Durando non può disporre che di tre o quattromila uomini,
pessimamente armati e allenati! Non c'è altro da fare che stenderli
a guisa di cordone sanitario, piuttosto a vigilare che a difendere:
in seconda linea, due o tre luoghi forti. È poco, ma è pur sempre un
progresso rispetto a quel che hanno fatto, nel primo mese di guerra,
in quello stesso settore, le bande semi-anarchiche dell'Allemandi.
Le colonne di volontari concentrate sulla sponda meridionale del
Garda raggiungono una dopo l'altra le posizioni assegnate. Pisacane,
che nella colonna Borra comanda adesso una compagnia cacciatori,
parte il 28 per Tremosine. Una catena di monti separa quella zona
dalla Val di Ledro austriaca; Pisacane, che non può per mancanza di
forze occuparne le cime, ne guarda gli sbocchi, numerosi e quasi
tutti ad alta quota. Non è la guerra combattuta, come aveva sognato;
ma è vita dura lassú, freddo intenso, scarsi ricoveri, viottole
impervie; e del nemico, appostato nell'altro versante, ben poche
notizie, perciò timor di sorprese, frequenti ricognizioni sui monti
soprastanti, apprestamenti difensivi nella vallata; gran difficoltà,
poi, per organizzare i servizi. Pisacane è un capitano «pignolo», in
moto tutto il giorno, esigente, coscienzioso, autoritario.
Certo che gli brucia sentir solo da lontano fragor di battaglie. Sei
maggio, Santa Lucia, primo scacco un po' grave dei piemontesi; e il
corpo di Nugent che da Gorizia, sui primi di maggio, s'è portato con
rapidissima marcia a Belluno: Verona è a poche tappe! Pisacane si
allarma. Le notizie, lassú, giungono con esasperante lentezza, ma si
ha la vaga impressione che la guerra cominci a voltar male. Il 29
aprile è stata la doccia fredda dell'enciclica papale; ora, il 15
maggio, è la controrivoluzione a Napoli. Le truppe sarde principiano
a scorarsi, i volontari, dimenticati sui monti, danno spettacolo
d'indisciplina. Un episodio tipico? Il 28 d'aprile Pisacane,
piuttosto scandalizzato, ha scritto al fratello che l'antico
compagno d'armi De Turris, capitato in un reggimento scarso
d'ufficiali, è stato in tre giorni promosso maggiore. Non passan due
mesi che De Turris e con lui altri tre ufficiali danno alle stampe
un comunicato recante le loro dimissioni «da quel reggimento... per
il cattivo andamento e direzione di quel comandante, digiuno delle
necessarie cognizioni di amministrazione interna e di strategia e
tattica militare in campo». E tutto ciò in tempo di guerra!23
Il 22 di maggio un fatto d'arme importante si svolge in Val Sabbia,
a non grande distanza dalle posizioni occupate da Pisacane: 3000
austriaci forzano di sorpresa il passaggio di Ponte Caffaro,
respingendone i difensori fino su Anfo dove il Durando ha stabilito
il suo quartier generale. Le conseguenze dello sfondamento
potrebbero essere gravi e forse irrimediabili se i volontari
italiani, con manovra ripetuta in successive azioni di guerra (ché
fu quello, come del resto tutto il settore del Durando, teatro di
ben tre guerre successive, '59, '66, '915-18), non s'impadronissero
di rimbalzo della vetta del Monte Suello, di lassú sbarrando la via
al corpo austriaco avanzante nel fondo valle. Ma se invece che in
3000 gli austriaci si fossero presentati col doppio o col triplo di
forze chi mai li avrebbe più fermati nella disastrosa avanzata su
Brescia? E se il tentativo si ripetesse? Le apprensioni che Pisacane
ha partecipato al fratello alla fine di aprile risorgono adesso in
lui con più forza di prima. Gli austriaci potrebbero risolvere
rapidamente la guerra a loro vantaggio se tentassero un colpo grosso
sul settore montano.
Modesto capitano, egli non ha voce nella direzione della guerra;
pure vuol dire la sua, e chi può ne tenga il conto che crede. Il 26
di maggio stende un rapporto diretto al generale Durando e agli
«Illustrissimi Signori del Comitato di Guerra di Brescia» (già,
perché accanto al Ministero della Guerra, in Milano, accanto al
Quartier generale Sardo, sul fronte, seguitavano a funzionare — e
con quali pretese d'autonomia! — questi Comitati locali). Sguardo
d'insieme sull'andamento delle operazioni: l'incognita è costituita
dalla colonna Nugent. Che via prenderà? Nugent, così ragiona
Pisacane, è troppo abile stratega per proseguire nella marcia in
pianura, che lo costringerebbe ben presto ad affrontare una
battaglia campale con l'intero esercito sardo, enormemente superiore
di numero. A lui conviene evidentemente tentare l'aggiramento,
spingendosi con rapide mosse per la Val Sugana su Trento; da Trento,
per Vezzano e Tione, rovesciarsi, forte dell'esperienza del 22 di
maggio, in Val Sabbia, debolmente presidiata, per aprirsi la strada
di Brescia. Hanno pensato a questo i signori generali italiani?
Hanno mai posto mente che l'eventuale piano Nugent si potrebbe
prevenire e forse rovesciare? Ci son tre contro-piani possibili,
secondo lui. Il più audace e fruttuoso sarebbe quello di radunare
tutte le forze sin qui dislocate nel settore del Garda e a valle del
lago di Ledro per gettarle, sfondata la linea nemica, su Trento e
Rovereto, notoriamente sguernite di truppe e, a quanto si dice,
disposte a rivoluzione antiaustriaca: la guerra si trasporterebbe
così in territorio nemico e, in caso di successo, l'esercito di
Radetzki, tagliato dalle comunicazioni, verrebbe a trovarsi stretto
tra due fuochi. Troppo audace e rischiosa questa manovra? (Strano
che non sembrasse senz'altro tale ad un esperto del suo valore: da
Ponte Caffaro a Trento corrono infatti settantacinque chilometri!) E
allora si assegni come obiettivo all'azione una sorpresa su Riva,
posizione importante perché «osserva dappresso» e Rovereto e Trento,
e perché assicura il dominio del Garda. Urge comunque rinunciare al
sistema del «cordone sanitario» provatamente inutile e
dispendiosissimo: se anche Riva è scartata, si scelga dunque per lo
schieramento dei volontari una posizione più ragionevole di quelle
assegnate sin qui: tra la Sarca e il Chiese, in territorio
attualmente nemico, non mancano punti di passaggio obbligati dai
quali si possa, tenendo riunita la forza, metterla in grado di
opporsi a rilevanti effettivi austriaci.
Giustissimo; ma Pisacane ignorava evidentemente che al di là dei
confini guardati dai volontari erano terre austriache, sì, ma
costituenti parte integrale della Confederazione Germanica; varcarli
poteva dunque far precipitare in una discesa offensiva il fermento
anti italiano già manifestatosi fra i tirolesi, e, chi sa, portare a
una dichiarazione di guerra da parte della Baviera; allorquando
occorreva invece sottolineare all'Europa il carattere di pura
rivolta antiaustriaca, in quanto l'Austria era potenza italiana,
della guerra lombarda. Ignorava altresì talune circostanze
sopravvenute in quei giorni che toglievano purtroppo ogni base ai
suoi ragionamenti, i quali infatti caddero nel vuoto: e intanto
quella, di estrema gravità, che la riunione di Nugent e Radetzki,
tra Verona e Vicenza, aveva già avuto luogo senza che le truppe del
«Signor Carlo Alberto» avessero saputo validamente opporvisi. Il che
rendeva così seria la posizione dell'esercito sardo che sarebbe
stato pazzesco addirittura sottrargli sia pure un solo fucile per
tentar diversivi non essenziali in montagna; e il Durando, per parte
sua, sprovvisto d'artiglieria, con quella poca gente, avesse pur
sconfinato, quali obiettivi poteva proporsi?
Curtatone e Montanara, Goito e Peschiera; 10 di giugno, caduta di
Vicenza, il Veneto — Venezia eccettuata — interamente perduto; Carlo
Alberto che teme uno scontro decisivo e appresta l'inutilissimo
assedio di Mantova; i lombardi che lo accusano di condurre la guerra
con fiacchezza voluta, e anzi di cercar l'armistizio fin dal giorno
in cui essi hanno avuto la dabbenaggine di votar la fusione col
Piemonte; i repubblicani che a gola spiegata già imprecano al
tradimento...
Pisacane deve dunque rassegnarsi a restare a Tremosine, in relativa
inoperosità, a comandar della gente che a forza di non far nulla ha
perduto ogni entusiasmo e centuplicato l'indisciplina; per giunta il
general Durando gli comunica l'ordine «in caso di attacco dalla
parte del nemico con forze superiori» di ritirarsi nientemeno che a
Tuscolano, abbandonando così tutte le posizioni montane, e Limone e
Tremosine e Gargnano medesime24. Ah questi generali che dirigon le
cose senza mai visitare la zona d'operazioni, senza — o così sembra
— consultare le carte, sdegnando i consigli degli ufficiali che si
trovan sul posto! Non si rendono conto del pericolo che Brescia
corre, col nemico che ammassa forze in valle di Ledro e allestisce
cannoniere a Riva?
Ma Durando forse pensava che gli ufficiali al fronte vedono il loro
settore, e basta; par loro che le sorti della guerra abbiano a
decidersi unicamente lí.
D'un tratto — è la metà di giugno — perviene a Pisacane una
compagnia di rinforzi con l'ordine di impadronirsi d'una importante
posizione strategica, la vetta del Monte Nota (1384 metri d'altezza)
che sta a cavaliere tra l'altipiano di Tremosine e la Valle di
Ledro. Rinforzi? Gli si darebbe dunque ragione? Oh no: il comando
voleva «disfarsi di certi indisciplinati»!25
L'azione riesce benissimo: austriaci non ce ne sono; si trovano a
qualche ora di marcia dal Nota, a Molina, una borgata allo sbocco
del lago di Ledro. Vederli, finalmente! Pisacane spinge i suoi
uomini in ricognizione. «Era la prima volta che i soldati vedevano
il fuoco», racconterà poi, «... l'affare riuscí brillante... io ero
arrivato a venti passi dalle case, vi ordinavo pochi uomini per
l'attacco alla baionetta... ma all'arrivo del rinforzo (austriaco)
feci battere la ritirata».
Quel giorno stesso e i successivi il Monte Nota e i suoi accessi
diventano oggetto di frequenti piccoli attacchi e contrattacchi. I
giornali di Milano, lieti di poter contrapporre successi del corpo
lombardo a insuccessi dell'esercito sardo, ne parlano assai. Il 16
giugno (si legge ad esempio sui fogli di cinque giorni appresso) gli
austriaci attaccarono «colla forza di 300 uomini... le due compagnie
stanziate sul M. Nota comandate dai capitani Pizzacane (sic) e
Brambilla. I nostri, dopo fatta una scarica, caricarono alla
baionetta il nemico, che tosto indietreggiò alle sue posizioni,
lasciando tre morti e cinque feriti». Il 17, gran confusione: «il
nemico — così almeno si legge sulla Gazzetta di Milano del 3 di
luglio — tentò uno sbarco a Limone. Il Municipio fece tosto
avvertito il cap. Pisacane il quale colla 5a Fucilieri... volò
subito alla difesa di questo posto; i nemici però non osarono
aspettare i nostri e fuggirono minacciando ritorno e distruzione».
«Volò», frasi di guerra: dalla vetta del Nota a Limone son
milleduecento metri di dislivello e parecchie ore di marcia per
sentieri da capre!
Il 23 e 24, attacchi austriaci al passo di Bestana (a oriente del
Nota). I volontari resistono, respingono il nemico; si conducono
benissimo, nonostante la pesantezza di quella guerra in alta
montagna. Gli è che per la prima volta in due mesi s'accorgono di
servire a qualcosa; Pisacane, poi, è addirittura raggiante: giunti
ulteriori rinforzi (pazienza se di qualità piuttosto scadente) egli
assume il comando di tutte e quattro le compagnie stanziate nella
zona.
Il 25 gli austriaci nuovamente attaccano in forze il piccolo posto
stabilito a Bestana: tengono molto, si vede, a respingere i
volontari sull'altro versante. Ma si ritirano ancora una volta;
senonché, narra la Gazzetta di Milano, invece di recedere fino alla
linea abituale, si celano tra i cespugli di Cadrione, alle falde del
monte; l'indomani prima dell'alba sorprendono gli avamposti
italiani. Cinque ore di combattimento accanito, e a quanto pare con
vantaggio degli austriaci superiori di numero. Pisacane, che è in
moto dalle tre del mattino, si tiene sulla difensiva sin quando non
sopraggiunge una compagnia di granatieri chiamata a rinforzo. Sferra
allora il contrattacco, violento. Ma nell'investire «un piccolo
ridotto che (gli austriaci) s'erano formati dietro un masso di
pietre, e dal quale fulminavano i nostri, fu Pisacane ferito al
braccio destro; non pertanto continuò ancora il comando di
difesa».26 Quando il nemico, alla fine, ridiscese sconfitto, contava
trenta morti e altrettanti feriti; che per le scaramucce del tempo
costituiva una cifra assai rispettabile!
Il ferito, che è stato costretto — son sue parole — a «camminare due
ore a piedi e quattro sopra una sedia», vien trasportato a Salò.
Spaventosa l'organizzazione sanitaria! Gli ospedali non offrono che
pagliericci, e qualche volta manca perfino la paglia. I medici, Dio
ne scampi e liberi: propongono a Pisacane l'amputazione del braccio;
il disgraziato può ringraziar la fortuna che fa sopraggiungere un
chirurgo sul serio, certo Leone. Questi gli salva, nonché il
braccio, probabilmente la vita stessa.
Enrichetta accorre da Milano, lo vuole assistere lei. Triste era
stata, due anni prima, un'altra convalescenza a Napoli; tristissima
adesso, nell'assolata Salò. Il tempo che passa lavora infatti per
l'Austria che si ristabilisce all'interno e il cui esercito
gradatamente riacquista la superiorità del numero e dell'iniziativa
sul proprio avversario. Le truppe sarde tengono ancora nel luglio,
prima metà; ma il 25 del mese è Custoza. E poi, per scontri perduti,
per deficienza di servizi, per la scarsa combattività delle truppe,
per l'indecisione del re, per la mancanza di seconde linee
preventivamente disposte, di un piano di ritirata, per cent'altre
ragioni, le tappe fulminee della disfatta. L'armistizio rifiutato,
il proclama agl'italiani, l'ingresso in Milano.
Pisacane, che ha pur già tante volte bollato d'incapacità l'alto
Comando Sardo, crede di sognare dinanzi al crescendo di spropositi
strategici e tattici che esso va commettendo: possibile che si pensi
davvero a difender Milano, città aperta, da entro le mura? Tanto
disastro, tanta inettitudine lo infuriano. Mezzo invalido ancora,
precipita a Milano, si presenta a Fanti, Maestri, Restelli, membri
del Comitato di Difesa: la salvezza, dice, è forse possibile ancora,
purché si ardisca di separare senz'altro la causa lombarda da quella
della monarchia di Savoia, e si sappia, si voglia, risuscitar per
davvero l'animo delle Cinque Giornate. Il piano che egli propone,
che altri del resto hanno già proposto, è audacissimo: sgombrar la
città, concentrar fulmineamente tutte le forze lombarde — un
quaranta o cinquantamila uomini, calcolando su una leva in massa
immediata — tra Bergamo e Brescia; di là sferrare un colpo
disperato, gettandole tutte dapprima contro il corpo di Thurn,
asserragliato a Peschiera, poi contro quello di Welden, che sta
bloccando Venezia. Rischioso, sì; ma non ci si trova di fronte a una
situazione, peggio che disperata, perduta di già?
Fanti, Maestri, Restelli lo ascoltano in silenzio; poi gli
significano che gl'invalidi hanno l'ordine di sgombrare
immediatamente Milano: pensano forse che oltre che al braccio egli
sia stato ferito alla testa? Al capitano Pisacane è giuocoforza
inchinarsi e obbedire; non senza prima avere espresso agli amici la
sua convinzione, ahimè confermata anche troppo presto dai fatti, che
dai dirigenti la Difesa «non s'avesse alcun fermo proposito di
resistere al nemico né di far opera degna di quel popolo che a loro
obbediva». Poco più di un mese è passato da quando gli austriaci,
sul Nota, gli han fracassato l'arto; ed ora, sulla via di Brescia,
non può che apparirgli tutta la dolorosa inutilità di quella
scaramuccia di cui pure andava tanto glorioso, del suo sacrificio,
di quella guerra insomma al cui richiamo è accorso con tanto ingenuo
entusiasmo. Nella voragine della pianura lombarda, tutto,
miserevolmente sprofondando, s'annulla: ardori, speranze, eroismi.
Quattro d'agosto, armistizio: la Lombardia torna all'Austria; ma è
quello stesso paese che con le forze sue proprie ha, qualche mese
addietro, messo in fuga il Radetzki? Piú a nord, la guerra sussulta
ancora; e il 7 agosto, ad esempio, il corpo di Pisacane prende parte
a una sanguinosa ricognizione tra Lonato e Salò. Ma Pisacane,
convalescente, non c'è: precedendo i commilitoni costretti, cinque
giorni più tardi, all'esodo definitivo verso il Piemonte o la
Svizzera, egli è già riparato, con Enrichetta, a Lugano27.
Estate turbinosa, quell'anno, nel quieto Cantone Ticino, caro ai
turisti inglesi, e affluenza di villeggianti inconsueti: figure
eminenti della insurrezione e della guerra lombarda e d'altri
episodi rivoluzionari italiani, combattenti e feriti pur mò
smobilitati, scrittori e agitatori politici, ciurmaglia in miseria.
Gruppo compatto, lo stato maggiore repubblicano, Mazzini in testa.
Speranze di ripresa in Italia non mancano, né su tutto il fronte
lombardo si è per anco ristabilita la calma: i volontari allo
Stelvio resistono fino al 16 agosto, la colonna Garibaldi, concluso
l'avventuroso raid da Bergamo a Morazzone, non si ritira in
Isvizzera che il 27 del mese, la Valtellina di Quadrio s'agita
ancora. La guerra è, sì, ufficialmente sospesa ma l'armistizio
potrebbe da un momento all'altro venir denunciato. Fervore
eccezionale, impazienze, recriminazioni, dispiegamento senza
risparmio del «senno di poi», dunque, tra gli ospiti del Cantone
Ticino, ciascuno fantasticando sul quando e sul come riappiccare il
grande fuoco sopito, ciascuno a suo modo istruendo il processo al
recente passato. Sembra si sian riuniti in quel luogo come a una
specie di gran congresso dei rappresentanti d'ogni sezione del
partito italiano, per stabilire il programma dell'azione avvenire,
innanzi di sparpagliarsi di nuovo — come faranno a principiar dal
settembre — giú giú per la penisola inquieta, a lavorar di
dettaglio.
Come vive Pisacane a Lugano? Probabilmente se ne sta ritirato,
bisognoso ancora di riguardi e di cure pel braccio ferito28;
comunque, ridda di conoscenze nuove (di particolare appoggio e
conforto gli è senza dubbio il ritrovarsi e poi via via stringersi
in deferente amicizia con Carlo Cattaneo, che nel novembre, di
ritorno da un'infruttuosa missione diplomatica, si ritira nella
villetta della Castagnola presso Lugano) e, appassionato come egli è
delle discussioni, certo finisce col passare anche lui, come i più
fanno, qualche ora del giorno nei pubblici animatissimi ritrovi
dell'emigrazione italiana.
Un corrispondente della torinese Opinione così descrive quelle
giornate: «Alla mattina si va ad un caffè della piazza, ove si
trovano per tempo gli affamati di notizie», per leggere i giornali:
dopo di che «si va all'ufficio del Repubblicano, se si ha avuto il
privilegio di essere stati presentati al redattore in capo, e là coi
giornali della redazione uno si sbrama un pochino la fame...
Ritornato sulla piazza della Riforma vedi qua e là varii gruppi di
persone, parte civili, e parte ex militari; t'aggiri fra quelle, e
la parola tradimento ti suona sì spesso agli orecchi, come a Milano
negli ultimi due mesi la parola aristocratico. Poscia una faccia tra
il goffo e il birbo ti sciorina per la trentesima volta la
importante notizia che Carlo Alberto chiama e raduna i Lombardi in
Piemonte per irritarli e consegnarli all'Austria, che la pace è già
conclusa, che noi siamo venduti, e che tutta la guerra non fu che
una commedia... Dopo un modico pranzo... tu riedi a prendere il
caffè sulla piazza della Riforma, salone obbligato dell'emigrazione
italiana, e chiamati privilegiato se non ti viene dinanzi un sere
che ti sporge e ti fa comperare qualche libruzzo di prosa o versi,
destinato a mantener viva la fiamma... della discordia... Poi vai a
fare un passeggino lunghesso il lago con qualche amico... Verso sera
entri e t'assidi al Caffè Nuovo, e lí tu vedi qualche bella, anzi
divina, milanese, qualche notabilità letteraria lombarda, e parecchi
giovani brillanti, ora atteggiati da esuli... Alla sera della
domenica vi è d'ordinario teatro aperto, a beneficio dei poveri
profughi... All'indomani siamo da capo. — Ecco a Lugano la vita del
profugo lombardo»29.
Chiacchiere molte, sì. E molta, tremenda miseria: iniziative varie
per soccorrere i più bisognosi, e insieme per cementare i vari
gruppi e sorreggere il morale della massa. A Lugano si costituisce
fin dall'agosto il Comitato lombardo di Mutuo Soccorso per gli
emigrati italiani. Ma nel settembre a questa folla bisognosa e
irrequieta vengono ad aggiungersi le migliaia di ticinesi, espulsi
di Lombardia dal Radetzki, per rappresaglia contro l'ospitalità
concessa dal Cantone agli esuli italiani.
Un gruppetto, raccolto intorno a Mazzini e costituito in Giunta
Insurrezionale, lavora accanitamente a suscitare in Lombardia una
seconda rivolta antiaustriaca. Per l'onore italiano, bisogna che il
popolo riprenda le armi: «Sapete voi — scrive Mazzini a un amico, il
23 novembre — che in Francia, in Inghilterra, qui nella Svizzera ci
disprezzano? che il marzo rimane per essi un fenomeno inesplicabile?
che dichiarano esser tutto inutile perché non vogliamo batterci?»30
Si aizzano le popolazioni di confine, si disegna di rovesciar giú
dai monti di Como e della Valtellina una valanga di armati sulla
piana lombarda: va e vieni di corrieri, febbrile corrispondenza,
contatti stretti con Parigi, dove, assai vanamente invero, si spera
di ottenere una promessa d'intervento francese in appoggio
all'attesa insurrezione lombarda; intensa propaganda repubblicana in
tutta Italia; rapporti col Provvisorio di Venezia, eccitamenti
all'azione autonoma in Toscana, a Roma, perfino a Genova non del
tutto rassegnata ancora al giogo piemontese. E poi, cento occhi e
cento orecchie a Torino per spiare le mosse di Carlo Alberto:
denunzierà o rinnoverà l'armistizio? Prepara o non prepara la
guerra? Prevarranno, cioè, i retrivi e gli alti gradi dell'esercito,
che premono per la conclusione di una pace sulla base dello statu
quo ante, o la sinistra, gli antiaustriaci arrabbiati, i solleciti
dell'onore piemontese, i profughi lombardi, che invocano la ripresa
delle ostilità?
Pisacane avvicina Mazzini, che ricorderà poi d'averlo veduto, ma di
sfuggita, «fra quel turbinio d'esuli che la dedizione regia
rovesciava da Milano e da tutti i punti di Lombardia sul Canton
Ticino»; ma né approfondisce la conoscenza né, tanto meno, partecipa
personalmente all'attività del suo gruppo. Il suo pensiero, è vero,
va sempre più improntandosi, teoricamente, alla dottrina
repubblicana, dopo la doccia fredda che gli avvenimenti del
marzo-agosto hanno inflitto alle sue illusioni sulla politica dei
Principi italiani; ma egli non sa ancora spogliarsi del tutto di
certi abiti mentali propri al militare di professione. Capitano in
licenza di un corpo ormai regolarmente inquadrato nell'esercito
sardo (la così detta Divisione Lombarda), egli non soltanto vi si
sente legato da un senso di disciplina formale, ma, per quanto
conservi in pieno il suo altezzoso disdegno pei generali di Carlo
Alberto, non riesce a concepire che l'esercito sardo possa restare
sotto il peso di una disonorante sconfitta, e più ancora non riesce
a sottrarsi all'idea che la partita antiaustriaca possa venir
regolata in altro modo o in altro luogo che da battaglioni di
truppa, su campi di battaglia; quasi quasi dimentica che senza le
Cinque Giornate non si sarebbe mai avuta la guerra. Come potrebbe
dunque consentir con Mazzini sul programma insurrezionale?
Scorrerie di bande armate, scoppiar di rivolte suggerite e
alimentate dal di fuori, e perciò circoscritte ed effimere, tutto
ciò francamente ripugna alla sua mentalità. Lo vediamo così
condannare aspramente il concetto, l'ordinamento e le mosse della
colonna garibaldina (che invece Mazzini ha incoraggiato e
rifornito), giudicare inopportuni «e perché il popolo non era
disposto ad insorgere, e perché di nuovo le speranze e gli occhi
erano rivolti al Piemonte, che aumentava considerevolmente il suo
esercito» i moti ottobrini della Valle d'Intelvi, dallo stesso
Mazzini predisposti e suscitati; affermare che cospirazioni e
congiure «non potranno giammai compiere una rivoluzione» e
sottolineare l'inconsistenza dei vari Comitati insurrezionali sorti
dopo l'armistizio Salasco, formati da «individui i quali
pretendevano comandare, e parlare in nome di un popolo da cui non
erano nemmeno conosciuti».
Gli è dunque increscioso vivere, senza volervi partecipare, in mezzo
a questo crepitio d'iniziative, a questo incessante agitarsi. Non è
forse sintomatico che l'epistolario di Mazzini, che ci è stato
conservato foltissimo per quei mesi, non nomini neanche una volta
Pisacane, mentre che, si sa, di ufficiali «in gamba» egli andava
affannosamente in cerca per la sua azione rivoluzionaria, al punto
di attirarne a Lugano di quelli incorporati in Piemonte nella
Divisione Lombarda?
Volgono i mesi, ricchi di eventi previsti e imprevisti. Piemonte che
rinnova l'armistizio, mediazione anglo-francese, caduta di Messina,
sollevazione di Livorno (settembre); moti mazziniani in Lombardia,
insurrezione a Vienna, riunione a Torino del congresso federativo
italiano (ottobre); a Roma, assassinio del Rossi, costituzione del
Ministero Galletti, estrema inquietudine popolare, fuga del papa
(novembre). Ma intanto l'Austria, minacciosa, ha ragione della
timida resistenza svizzera, e impone l'espulsione dal territorio
confederale degli emigrati più in vista. Se ne vanno, così, tutti i
migliori; Mazzini, risoluto a non staccarsi dalla frontiera
lombarda, è costretto a nascondersi. Pisacane non vien disturbato;
ma nel decembre, verificatosi a Torino il colpo di scena del nuovo
Ministero Gioberti — promessa esplicita di prossima guerra — e ormai
risanato il suo braccio, lascia di sua iniziativa la Svizzera, per
riprender servizio in Piemonte31. L'idea sola di entrare nei ranghi,
dopo tanti mesi perduti in vane discussioni politiche, vale a
rasserenarlo; poiché egli non ha potuto rendersi conto ancora fino a
qual punto quella lunga licenza, perfezionando la metamorfosi
iniziata nel febbraio dell'anno innanzi, abbia fatto di lui un
altr'uomo. Se n'accorgerà di lí a poco.
Il suo reggimento — 22° Fanteria, Divisione Lombarda — è accasermato
a Vercelli e lo comanda un maggiore Campana. Specialissima la
situazione di queste truppe, indispensabili come sono al Piemonte
per simbolizzare agli occhi d'Italia e d'Europa i legami che lo
avvincono alla provincia «perduta», e insieme tenute in gran
sospetto dalle sfere ufficiali a Torino, ancor più che per la loro
indisciplina inguaribile, per le pretese e le pose repubblicane e
autonomistiche che, dagli ufficiali ai soldati, esse si credono
autorizzate ad assumere. Non sono che sei o settemila uomini,
spartiti in quattro reggimenti più due battaglioni di bersaglieri,
ma pur dipendendo gerarchicamente dal Ministero della Guerra,
lasciano intendere anche con troppa chiarezza d'essere disposti, nel
caso che il Piemonte non facesse la guerra, a sconfinare e a portare
l'insurrezione in Lombardia: amici zelanti e pericolosi! Perciò,
frequenti « siluramenti» d'ufficiali e sostituzioni nell'alto
comando (dal Durando all'Olivieri, al Ramorino); scontento crescente
delle truppe, che tra l'altro lamentano la precarietà della loro
situazione e il pessimo equipaggiamento; e, insieme, rivalità tra
ufficiali regolari e lombardi, ai quali ultimi i primi non possono
perdonare il troppo facile acquisto dei gradi conseguiti nella
recente campagna.
È vero che quando Pisacane assume il comando della sua compagnia,
l'ordinamento della Divisione Lombarda è notevolmente migliorato, le
voci di guerra valendo a sostener l'animo delle irrequietissime
truppe, concentrate dapprima a Vercelli, indi a Novi e dintorni;
pure egli è presto scontento e di sé e del suo ufficio. Mentre
conduce i suoi soldati ai fastidiosi esercizi in piazza d'armi, la
sua mente corre alla politica dell'abate Gioberti, che a lui pare
tortuosa e esitante; non è che un povero ufficialetto inferiore, ma
smania perché alla testa dell'esercito sardo è stato messo, chi sa
perché, un generale polacco celebrato per la sua nullità, e che tra
l'altro balbetta a mala pena l'italiano32; vede chiaro che a Torino,
avvicinandosi la primavera, stagione di guerra, si manca di un piano
deciso o peggio ancora se ne caldeggiano di rovinosi: diffida
insomma di tutto e di tutti nel Piemonte monarchico, e quella tale
parola che a Lugano era in bocca di tutti — tradimento — si insinua
adesso, irresistibile, anche nel suo cervello. La sua, d'altronde, è
un'anima in perpetuo travaglio: un senso critico fin troppo sveglio
e affinato lo fa insofferente di eseguire in sottordine modesti
compiti di dettaglio quando si sente o crede sentirsi tale da poter
dominare l'insieme assai meglio dei suoi superiori: nato al comando,
all'obbedienza negato di certo, egli ha, per concludere, la stoffa
dell'oppositore per sistema e per gusto. Qual meraviglia che a
reggimento egli appaia ben presto uno spostato? L'esosa vita di
guarnigione lo snerva, col troppo tempo che va perduto in inezie.
Potesse almeno passare allo Stato Maggiore! Quello davvero sarebbe
il suo posto, là avrebbe modo di rivelare appieno capacità fin qui
misconosciute da tutti, e se non altro di rendersi conto in anticipo
di come ci si prepari alla guerra in Torino. È un desiderio assurdo;
pure farà di tutto per realizzarlo: presenta domanda gerarchica,
poi, due febbraio, ne scrive al Durando, suo ex-generale, quello che
per aver ricevuto il suo rapporto del maggio '48 conosce per prova
la sua idoneità all'ufficio richiesto. Trincerista, ferito di
guerra, Pisacane non ha avuto né promozioni né decorazioni; perché
non compensarlo adesso accogliendo, previo esame, la sua domanda?
Dica una sola parola il Durando, e sarà cosa fatta. «Non ho veruna
conoscenza, ella solo Sig. generale, potrebbe essermi di protezione
e di appoggio».
S'ignorano la risposta del generale e l'esito della domanda; ma se,
come sembra, e l'una e l'altro non furon tali da soddisfar Pisacane,
questa fu veramente fortuna per lui. Ché non certo di gloria avrebbe
potuto coprirsi nella imminente campagna, militando in quella
Divisione Lombarda cui, com'è noto, si volle da molti addossare la
colpa della sconfitta; e tanto meno se lo avessero accolto nello
Stato Maggiore divisionale, sotto quell'infelice suo condottiero, il
Ramorino, al quale per un bisogno irresistibile in Italia, quando le
cose volgono a male, fu riservata l'ingrata funzione di capro
espiatorio, come se le deficienze da lui tragicamente scontate non
avessero coinvolto ben altre e più alte e più generali
responsabilità.
Infastidito, deluso, Pisacane continua la serie dei suoi colpi di
testa: 26 febbraio, richiede e subito ottiene dal Ministero un
permesso, al quale, un mese dopo, seguirà la dispensa dal
servizio33.
«Mio caro Filippo — scriverà nel settembre al fratello — ... La
risoluzione di lasciare il Piemonte la feci appena la sua politica
guerriera principiò a vacillare, tentò l'invasione in Toscana ed io
appena vidi solo il dubbio di potermi battere per conto di un
individuo contro un popolo, sterzai subito e da Roma inviai le mie
dimissioni». Affermazione leggermente inesatta: ché il gabinetto
Gioberti cadde, proprio sulla questione dell'intervento in Toscana,
il 21 febbraio, e Pisacane non firmò la domanda di permesso che
cinque giorni più tardi. Bisognava pur spiegare in qualche modo le
dimissioni improvvise, e a Pisacane probabilmente seccava di
confessare che, dopo appena due mesi dal suo ritorno in Piemonte, vi
si era risolto un poco per offesa suscettibilità, ma assai più per
l'attrazione che aveva esercitato su lui la proclamazione della
repubblica a Roma. Pure, era questo un così grande fatto che di per
sè giustificava appieno, mi sembra, un colpo di sterzo del genere.
Con la repubblica a Roma la situazione politica e militare della
penisola si era infatti radicalmente mutata: l'asse della rivolta
antiaustriaca si era spostato di colpo dalla pianura del Po
all'Italia centrale dove, di fianco a Roma, il governo provvisorio
del Guerrazzi aveva sostituito la fuggita autorità granducale.
Finché la sola Venezia, con la sua resistenza, si era assunta in una
Italia ritornata monarchica la difesa della causa repubblicana, il
miglior modo per giovare all'indipendenza italiana era sembrato a
molti, e a Pisacane tra gli altri, che fosse quello di aiutare il
Piemonte a moltiplicare le sue possibilità di rivincita; ma ora, con
Roma libera, pareva chiaro a costoro (e lo era stato, da più mesi, a
Mazzini) che convenisse finalmente bandire il programma di una
guerra «italiana», guerra tutta di popolo, con perno sul
Campidoglio, e fini più vasti che non la mera liberazione d'Italia
dal giogo dell'Austria: l'attesa campagna dell'esercito sardo si
presentava ormai come un episodio parziale di un rivolgimento
vastissimo. Non per questo può dirsi che il 9 febbraio improvvisasse
la formazione delle opinioni repubblicane in Italia; ma solo
precipitò, potenziò e rese attuali quelle che, in numero tutt'altro
che esiguo, esistevan di già.
Pisacane vedeva adesso lontano: le deficienze e il finale disastro
della crociata dell'anno innanzi non erano stati cagionati appunto
dall'avvenuta abdicazione di ogni altra iniziativa di fronte al non
disinteressato intervento di re Carlo Alberto? Si era cominciato con
una guerra nazionale e si era finito con un ineguale duello
austro-sardo. Urgeva adesso rovesciare i rapporti: con la repubblica
a Venezia, a Firenze, a Roma, con Milano supposta fremente sotto la
rinnovata dominazione straniera, era l'iniziativa originale italiana
che ripigliava il sopravvento; e se il monarca sabaudo poteva ormai
contare — o almeno avrebbe potuto e dovuto — su larghe fattive
solidarietà nel resto d'Italia, si sarebbe potuto altresì
controllarlo e infrenarlo, che non avesse a sfruttare a esclusivo
vantaggio del suo Stato la pur generica aspirazione all'indipendenza
degli italiani tutti.
Innanzi di partire l'ufficiale rifiutato dallo Stato maggiore si
prese una singolare rivincita. Lo si credeva immaturo a lavorare
nell'alto comando? Ebbene, avrebbe mostrato chi fosse: compilò un
dettagliato piano di guerra per l'imminente ripresa e lo rimise
senz'altro al generale Bava, ex comandante in capo, e ora ispettore
generale dell'esercito sardo. Il concetto informatore, quale si può
desumerlo da postumi accenni di Pisacane medesimo, era semplice e
chiaro, forse ispirato a reminiscenze delle campagne di Napoleone in
Italia. L'esercito sardo ha due vie innanzi a sé: scaglionarsi sulla
lunga linea del Ticino per osservare le mosse austriache e dispor la
difesa in conseguenza; adottare risolutamente il partito offensivo.
La prima via (che per vari segni sembra quella prescelta a Torino)
condurrebbe a una sicura disfatta, ché il nemico, irrompendo in
colonna, avrebbe facilmente ragione dei singoli corpi affrontati un
dopo l'altro. La seconda via, che l'atteggiamento della popolazione
lombarda, pronta ad insorgere alle spalle dell'esercito austriaco,
vale a rendere assai poco rischiosa, promette invece un successo
probabile. Il Comando sardo non ha che da operare una finta su
Novara, tale da impegnare l'attenzione nemica, e intanto, col grosso
delle forze, filare sul Po, traversarlo e puntare a Cremona.
L'esercito austriaco, aggirato, si troverà tagliato d'un tratto
dalle sue piazzeforti, con le comunicazioni sbarrate, con la rivolta
in casa: non gli resterà che la resa. La vittoria italiana sarà
tanto più certa quanto più sollecita sarà la dichiarazione di
solidarietà piemontese coi tre governi di Venezia di Firenze di
Napoli, dai quali è lecito attendersi un contributo essenziale di un
50 000 uomini almeno.
Per quanto poco assuefatto a tanta audace inframettenza
antigerarchica, il generale Bava, sembra, si degnò esaminare
l'audacissimo piano34; certo ne scrisse all'autore significandogli
che a suo parere esso peccava per soverchio ardimento.
Soverchio ardimento? Agli specialisti di storia militare l'ardua
sentenza definitiva ch'io non mi sento di dare. Osservo soltanto
esser pacifico ormai che l'inconcludente disegno di mera
osservazione e difesa adottato dallo Czarnowski fu il peggiore di
quanti mai se ne potessero scegliere, equivalendo al suicidio
dell'esercito sardo e alla rinuncia effettiva dell'ausilio lombardo;
l'errore commesso venne inoltre aggravato dall'avvenuta denunzia
dell'armistizio prima d'aver negoziato e pattuito l'immediato
intervento delle milizie offerte dall'Italia centrale.
Facile cosa è criticare la condotta del giuoco quando, a partita
ultimata, gli avversari buttan sul tavolo le carte che tenevano in
mano; ma Pisacane aveva con acutezza suggerito, innanzi l'apertura
del giuoco, qualche mossa importante e, comunque, mostrato quali
dovessero ad ogni costo evitarsi. C'era dunque della stoffa in
questo petulante ufficialetto inferiore, che per la seconda volta
osava infrangere la disciplina gerarchica, offrendo in alto non
richiesti consigli.
Capitolo quarto
Difesa di Roma
L'immensa suggestione che l'iniziativa di Roma — repubblica,
abolizione del poter temporale dei Papi, riconoscimento della
missione religiosa della Chiesa — esercitò sugl'italiani del tempo,
non può spiegarsi considerandone soltanto le ripercussioni dirette
d'ordine religioso e politico, sia che precipitasse da un verso
l'attuazione degli estremi ideali civili dei ceti progressisti, sia
che consumasse dall'altro una profanazione inaudita agli occhi della
grande maggioranza della popolazione: v'è qualcosa di più. V'è il
fascino irresistibile di Roma. Chi era allora, chi è oggi che non
senta la incomparabile solennità della parola di Roma, dove ogni
idea come ogni pietra, cui grava il peso dei secoli, assume
grandezza? In una città dove anche i tuguri nascondon forse nelle
fondamenta un tempio, accade infatti che lo scherzo figuri una
satira e il dramma assurga a tragedia; su quella ribalta anche un
istrione rischia d'esser scambiato per attore immortale. Eroi e
avventurieri, santi e briganti, ideali e pretesti vi si confondono
spesso, ché su tutti Roma riflette la sua luce, una luce propizia
alla formazione dei miti. Il mondo, guardando a Roma, di rado
sorride o trascura: osanna o maledice.
Ecco dunque perché il fatto solo della proclamazione della
repubblica a Roma, indipendentemente dalla sua fortuna o dal valore
poi dimostrato dai suoi governanti, costituí per l'Italia un
avvenimento di eccezionale importanza e certo di ben più vaste
risonanze che non tutti insieme gli altri episodi rivoluzionari
svoltisi, o ancora in via di svolgimento, entro i suoi confini, in
quel decisivo biennio: cose italiane eran stati o eran questi, sia
pur con ripercussioni europee; ma quella era cosa universale: saliva
nel buio cielo del mondo come una colossale réclame luminosa della
causa liberale italiana, che così s'imponeva una volta di più, come
problema interessante ben oltre le nostre o le altrui caste
politiche, la stessa civiltà.
Se Roma forní alla repubblica il consueto apparato della sua
grandezza, la repubblica, d'altronde, fu degna di Roma. Che
importava se i suoi giorni eran contati, tra il Papa che da Gaeta,
furibondo, scagliava scomuniche, il Borbone suo ospite che
minacciava la guerra, l'Austria che si preparava al tradizionale
intervento, la Francia, pur democratica, che non scordava i
privilegi dei suoi re cristianissimi, e la Spagna che, financo essa,
si disponeva a fornir nuova prova della sua fedeltà alla Chiesa
pericolante? Quel che importava era che la voce di questa libera
Roma, prima di venir soffocata, suonasse alta e fiera, romana
davvero. Ed ecco precipitarsi a Roma, da ogni parte d'Italia e dalle
terre d'esilio, italiani a migliaia, isolati o adunati in schiere
armate, risoluti tutti a sostenere una causa che, nonostante il
sicuro insuccesso immediato, prometteva, se ben condotta, di render
più certo il trionfo finale delle aspirazioni italiane.
Piú alto di tutti e quasi sopraffatto dall'emozione che suscita in
lui questa rinnovata «missione» di Roma, pur tanto sognata, giunge
Mazzini. «Vi entrai la sera, a piedi, sui primi del marzo, trepido e
quasi adorando», ricorderà egli stesso più tardi. Nessuno ha quanto
lui il senso religioso di Roma: non è Mazzini infatti che ha sempre
veduto e additato, in Roma appunto, la culla di una nuova fede
religiosa, che armonizzando le aspirazioni divine e umane, sociali e
politiche, individuali e collettive dell'uomo, inizierà un'era
migliore? Pauroso dunque per lui, come per tutti gli spiriti
veramente grandi, l'atteso confronto di Roma: si riveleranno le sue
forze pari a una prova che egli sente suprema?
Ai ciurmadori della politica, quando pervengono a Roma, par
necessario, per dimostrare la propria grandezza, indossata la toga e
gonfiate le gote, far monopolio delle glorie antiche, di continuo
evocate e proposte nei roboanti discorsi, con la pretesa di emularle
con gesta mai viste. Mazzini, entrato a Roma umilmente e quasi di
soppiatto, si nasconde dapprima in una povera stanza d'albergo, in
una via secondaria, «un tavolino d'abete e cinque scranne di
paglia... un desinare frugale a tre paoli»: poi, nominato triumviro,
bisogna bene che passi alla Consulta, ma anche lí sceglie l'alloggio
più umile, che gli permette di tenersi in continuo contatto col
pubblico. Assai volentieri cede al collega Armellini gli
appartamenti di rappresentanza, che pur sarebbero sua degna sede.
Continua, in Roma, la sua vita d'esilio: scrive e scrive, con quei
suoi segni sottili ed uguali, anima tutti col suo febbrile parlare,
con i suoi occhi febbrili. Ad altri il tenere alto e superbo il capo
tra i romani «redenti»: egli non osa neanche chiamarli a raccolta.
Trascorre via frettoloso agli uffici, il volto chino, timido innanzi
ai monumenti di Roma. Non mai come allora ha così fortemente
avvertito la presenza di Dio: più tardi, sfidando i sarcasmi dei più
tra i seguaci, vorrà perfino che si riapran le chiese, lui che è
contro la Chiesa; tanto gli sembra che tutto, a Roma, abbia una
ragione profonda.
Il settario, superata la setta, lavora adesso per tutti, nel nome di
tutti.
Verso il 10 di marzo, a Mazzini che, pur semplice deputato, è già
fin d'allora regolatore supremo delle cose della repubblica, si
presenta Pisacane, giunto con Enrichetta, da Genova, l'8 del mese.35
«Mi si presentava senza commendatizie; — raccontò poi, nei Ricordi,
Mazzini — m'era ignoto di nome, benché io ricordassi di averlo alla
sfuggita veduto un anno prima..., io non sapeva né gli studî teorici
e pratici, né la ferita di palla Austriaca che lo aveva tenuto per
trenta giorni inchiodato in un letto, né i principî politici serbati
inconcussi attraverso l'esilio e la povertà, né altro di lui. Ma
bastò un'ora di colloquio perché l'anime nostre s'affratellassero, e
perch'io indovinassi in lui il tipo di ciò che dovrebb'essere il
militare italiano, l'uomo nel quale la scienza, raccolta con lunghi
studî ed amore, non aveva addormentato, creando il pedante, la
potenza d'intuizione e il genio, sì raro a trovarsi,
dell'insurrezione».
I due affrontano subito il problema fondamentale della repubblica:
la situazione militare. Spaventoso, in proposito, il lavoro che
incombe ai governanti di Roma: tien luogo d'esercito, infatti, una
disordinata accozzaglia di gente armata alla meglio, disseminata in
un territorio vastissimo che va da Ferrara ai confini napoletani, da
Civitavecchia ad Ancona: quindicimila uomini circa, molti dei quali
tengono più, quasi, all'autonomia delle bande cui sono affiliati e
alla gloria dei rispettivi capi che non alla salvezza della
repubblica. Il Ministero della Guerra ha fino allora funzionato a
rovescio: subalterni incapaci cacciati ai comandi, tecnici di valore
sprecati in sottordine; confusione dovunque, dalle uniformi
all'armamento; assenza totale di piani organici.
Bisogna, dice Pisacane a Mazzini con la consueta chiarezza,
stabilire senza indugio un programma di reclutamento atto a
triplicare gli effettivi esistenti; imporre a tutti un regolamento
che non soffra eccezioni; precisare il criterio gerarchico, e così
via. Cose semplici, è vero, e di lapalissiana evidenza; ma quel che
colpisce Mazzini fin dal primo istante (come già un anno innanzi a
Milano il Cattaneo) è il tono fermo, severo, sicuro, con cui
Pisacane si fa a proporle: il tono d'un uomo che, misurandone
perfettamente le inevitabili difficoltà, si rivela disposto e capace
di portarle a compimento contro tutto e tutti. La miglior soluzione
sarebbe quella di affidare a lui e a nessun
altro che a lui il compito della riorganizzazione militare, per poi
riferirne, s'intende, all'Assemblea sovrana; ma anche nella Roma
rivoluzionaria di quante suscettibilità pronte ad offendersi bisogna
tener conto! Girando perciò la posizione, Mazzini propone la nomina
di una Commissione di cinque che lavori all'uopo accanto al
Ministro, naturalmente «senza lederne la libertà di azione e la
responsabilità»; suggerisce quattro Carneadi, più Pisacane, per
Commissari. L'Assemblea, docile, approva.36 È il 17 di marzo: la
Commissione si pone subito all'opera con la più grande energia.
Pisacane era da prevedersi — fa quel che vuole: in pochi giorni,
provocate o spontanee, ecco le dimissioni del sig. Ministro («un
asino», per Pisacane); al cui posto, fin dal due di aprile,
s'insedia la Commissione. Pisacane, cioè, promosso maggiore il 26 di
Marzo, è virtualmente Ministro.
L'accordo con Mazzini è altamente fruttuoso. Pisacane completa
infatti come meglio non si potrebbe il futuro triumviro, il quale,
felicissimo nell'ideare audaci piani di guerra, si trova poi
nell'impossibilità di vararli, ignorando affatto come s'impieghi il
fucile o che sia mai la manovra avvolgente o come si appresti a
difesa un terreno! Lunghe ore essi trascorrono insieme, chini sulla
carta d'Italia, ragionando oltre che dell'immediato avvenire di
Roma, d'una guerra d'Italia e del modo di accenderla. Ma se le idee
loro collimano per quanto riguarda l'ordinamento delle milizie
romane, proprio in tema di fini e condotta di guerra esse divergono
assai. Il contrasto è quanto mai curioso: Mazzini, repubblicano per
antonomasia, caldeggia la collaborazione con l'esercito di Sua
Maestà Sabauda, nell'imminente crociata antiaustriaca sul Po;
Pisacane, ex ufficiale borbonico, ex ufficiale nell'esercito sardo
(al cui comando ha suggerito, non è che un mese, l'unione militare
con Roma) sostiene invece calorosamente che il Piemonte e le Due
Sicilie, in quanto monarchici, vanno considerati dalla repubblica
nemici né più né meno dell'Austria. Intransigenza, purismo
repubblicano d'uno zelante neofita, contrapposti alla duttilità del
vecchio lottatore politico? Soltanto in apparenza; come infatti, con
i suoi precedenti, potrebbe Pisacane mostrarsi sdegnoso di
patteggiamenti e alleanze sperati vantaggiosi al conseguimento di
fini comuni? La verità è che egli questa speranza non l'ha.
Esaminando le cose da un punto di vista puramente politico-militare,
egli, che prevede Novara, trova pazzesco che si voglian legare le
sorti della giovane repubblica alla cadente fortuna sabauda. Il fine
ultimo del rivolgimento italiano è forse la mera liberazione
dall'Austria o non piuttosto la formazione di uno Stato liberale
unitario? Ebbene, la situazione del marzo '49 offre, per la prima
volta da moltissimi anni, la possibilità di mirare al raggiungimento
rapido e integrale di quel fine. L'Austria e il Piemonte essendo
infatti immobilizzati sul Po, le tre repubbliche italiane dovrebbero
profittarne per far marciare su Napoli un esercito collegato.
Napoli, indebolita dalla rivolta in Sicilia, mal difesa da un
esercito cui gli avvenimenti del '48 hanno inferto il colpo di
grazia, priva per giunta dell'intervento dell'Austria, finirebbe
certamente col cedere: sfasciatosi così il regime borbonico, la
popolazione farebbe causa comune con Roma, Toscana e Venezia; i due
eserciti, espressione di più che mezza Italia, si scaglierebbero
allora, in condizioni di netta superiorità, contro i due superstiti
nemici del nord, l'un contro l'altro armati. La vittoria darebbe la
libertà all'Italia: libertà in tutti i sensi.37
Ma l'attuazione dell'audacissimo piano è resa impossibile non
soltanto dalla contrarietà di Mazzini e della maggioranza dei
consultori di Roma, fedeli interpreti delle aspirazioni e delle
opinioni prevalenti tra i cittadini pensanti, sibbene anche dalla
riluttanza notoria e ripetutamente espressa dei governi di Venezia e
Toscana a compromettersi facendo apertamente causa comune con gli
usurpatori del Papa. A Pisacane, pure imprecante contro il
municipalismo, eterna piaga d'Italia, è giuocoforza inchinarsi.
Cosicché non appena il Piemonte denuncia l'armistizio, Roma proclama
l'intervento; il 20 marzo Carlo Alberto si muove, il giorno appresso
diecimila uomini affidati al comando di Mezzacapo lasciano il
territorio della repubblica per raggiungere il Po.38 Ma il 23 marzo
Novara, sconvolgendo le speranze italiane, conferma appieno le
previsioni di Pisacane. Mezzacapo ripiega, e a Roma tutti
comprendono che ormai non più di successi della repubblica si tratta
e neanche della sua stessa salvezza, ma soltanto di come più
romanamente morire.
A mali estremi estremi rimedi: il 29 di marzo l'Assemblea procede
alla nomina del Triumvirato; ormai Mazzini è l'arbitro riconosciuto
delle sorti romane. Ma il mese d'aprile, in Italia, è tutto un
rovinío: caduta di Brescia, tramonto della libertà siciliana,
rivolta e capitolazione di Genova, rovesciamento del governo
toscano, calata austriaca. Venezia sola continua a lottare. Di
fronte alla molteplicità e all'accresciuta efficienza delle forze
contrarie, Roma viene così a trovarsi in un isolamento addirittura
paradossale. È vero che dalla Sicilia, dalla Toscana, da Genova è
una nuova affluenza di colonne d'armati e di sbandati rivoluzionari
ma, con l'anello che le si stringe d'attorno, a che mai può
quell'affluenza giovare se non a consegnare alla storia la
popolarità della causa romana in Italia?39
Febbrile, in tanto imperversar di bufera, prosegue l'opera della
Commissione di Guerra, suprema autorità militare: è la Commissione
che, superando resistenze ostinate di piccoli ras gelosi della
propria autonomia, crea veramente l'esercito; è la Commissione che
ne fissa l'organico; è la Commissione che discioglie le anarchiche
bande sostituendole con reggimenti normali e che dispone l'immediato
concentramento dell'esercito in due sole piazzaforti; è la
Commissione che fa definitivamente naufragare il progetto,
caldeggiato da molti, di affidare il comando supremo a un generale
straniero; è ancora la Commissione che, accanto alle misure d'ordine
generale, emana quotidianamente gli ordini di servizio e di marcia,
ciascuno dei quali impone una vera battaglia con i recalcitranti
comandi in sottordine; è la Commissione infine che, il 18 di aprile,
suggerita la nomina del generale Avezzana, uno dei triunviri di
Genova insorta, a Ministro della Guerra e Comandante in capo delle
truppe romane, può quietamente sciogliersi con la fiera coscienza
d'aver realizzato un miracolo. La Commissione? Ma a chi ne
risalissero i meriti dimostrò chiaramente, nel seguito, il fatto che
i rancori diffusi e tenaci da essa sollevati s'appuntarono tutti
contro il solo Pisacane, che intanto, quello stesso 18 d'aprile, era
stato designato a sostituto del Ministro della Guerra.40
Mentre così si apprestano uomini e mezzi alla difesa della
repubblica, una colossale fatica di provvidenze e riforme interiori
si va svolgendo dai triumviri e dai diversi ministri, in vista
soprattutto di legare alla conservazione del nuovo regime le fin qui
indifferenti popolazioni romane. Si direbbe, da quanto fanno, che
proprio nessun pericolo esterno minacci l'esistenza dello Stato; ma
è Mazzini che ha detto: «lavorare come se avessimo il nemico alle
porte e a un tempo come se si lavorasse per l'eternità», e tutti
intendono e obbediscono a lui.
Attivissimo è anche il lavorio diplomatico volto a persuadere le
Cancellerie europee del buon diritto di Roma; ma qui lo scacco è ben
grave. Il 16 aprile, infatti, il governo «repubblicano» di Francia,
pur imbellettando la mossa con equivoche dichiarazioni d'amicizia
pel popolo italiano e di assoluto rispetto per la sua
autodeterminazione, annuncia l'intenzione d'intervenire nelle cose
romane: il bis della spedizione di Ancona! Non passano otto giorni
che 7000 francesi già sbarcano a Civitavecchia. Stupefazione e
disorientamento a Roma: sono amici o nemici? Mazzini, appassionato
difensore più ancora che della materiale esistenza della repubblica,
della sua dignità, raccoglie il consenso generale sfidando
superbamente i francesi ad accostarsi a Roma, ch'egli dichiara
risoluta senz'altro a respingerli. Ma se avanzano, sarà davvero la
guerra?
Sarà la guerra. La fase eroica ha finalmente principio.
Due vie si presentano ai difensori di Roma: serrarsi in città e
garantirne ad ogni costo l'accesso; oppure sgombrarla e con tutte le
truppe dar battaglia campale al corpo francese. Pisacane — che nel
frattempo (carriere rivoluzionarie) è stato nuovamente promosso al
grado superiore e addetto alla prima sezione dello Stato Maggiore41
— manco a dirlo propende per il piano offensivo. C'è qualche
analogia fra la situazione di Roma nel '49 e quella di Milano nel
'48. Ambedue città aperte, ambedue indifendibili; con l'aggravante,
per Roma, che oltre l'attacco francese, bisogna attendersi quello
austriaco e napoletano, e che alla fine d'aprile le truppe presenti
in città sommano appena a un 9000 uomini. La caduta di Roma sarebbe
dunque questione di giorni. Quanto più vantaggioso trasformare un
assedio passivo in una guerra di movimento: il corpo romano,
conservando per sé l'iniziativa del dare o non dare battaglia, potrà
a suo agio investire i francesi sul fianco durante la loro marcia
dal mare, oppure, radunandosi a nord di Roma con le milizie
dell'oltre Appennino, attendere, per piombare sull'invasore, d'aver
raggiunto una sicura superiorità numerica. Salva o non salva Roma,
finché un esercito rivoluzionario si aggiri in Italia, chi potrà mai
dire spenta la causa italiana?
Dal punto di vista strategico Pisacane e qualche altro che la pensa
come lui hanno perfettamente ragione; da quello morale e politico,
invece, è nel giusto Mazzini quando protesta contro l'assurdo errore
che costoro commettono di considerare Roma, cioè, né più né meno che
come una qualunque «posizione», abbandonata la quale si possa
sceglierne, per la difesa, un'altra migliore. Roma è un simbolo, un
mito; se poche, relativamente, son le braccia accorse a difenderla,
con l'animo sarà sugli spalti la parte migliore d'Italia. Roma che
cade senza colpo ferire è il mito che si dissolve; Roma che cade
dopo resistenza accanita son gl'italiani che ne sentiranno poi
sempre il tormento e in quel glorioso ricordo sapranno osare e
soffrire.
Ancora una volta, in così dire, Mazzini ha con sé la maggioranza dei
capi militari e dei deputati all'Assemblea; tanto che in un consesso
dei triumviri e dei ministri, all'uopo riunito, il piano di Pisacane
viene respinto all'unanimità.
Piú divisi invece i pareri sulla questione se, per contrattaccare i
francesi, convenga proprio attendere che questi investano le mura di
Roma. Mazzini ritiene di sì, sperando sempre che la spedizione
francese, organizzata più che altro per esigenze di politica
interna, possa da un nuovo Ministero o da una nuova Camera (pendono
in Francia le elezioni politiche) venir richiamata o almeno
spogliata di ogni apparenza offensiva; così stando le cose non
sarebbe pazzesco anticipare uno scontro, col rischio di scatenare
davvero le correnti belligere dell'opinione francese? Questo
ragionamento persuade poco, s'intende, la gioventú di Roma, e
Pisacane pochissimo; ma l'opinione del Capo, che tutti sanno legato
da antichi vincoli ai leaders della democrazia francese, ha sì gran
peso che le opposizioni, pur fremendo, si tacciono.
Lanciata dunque all'Europa un'anticipata protesta contro la
violazione inaudita del diritto delle genti che la Francia minaccia
di consumare, il governo di Roma si limita ad apprestare entro le
mura la difesa della città. Tanto ingenua e profonda è l'illusione
nella quale Mazzini si culla che, per ordine suo, lungo la strada di
Civitavecchia vengono affissi vistosi cartelli, redatti in francese,
riepiloganti il buon diritto di Roma!
Abituato agli scacchi (piano di reclutamento suggerito nell'aprile
'48, tenuto in non cale; piani di guerra del maggio e del luglio
successivi, respinti; piano spedito al Bava, giudicato troppo
ardito), Pisacane non s'adonta per il rigetto delle sue proposte,
anzi volentieri s'adatta a studiare come meglio si possa tradurre in
effetto quel disegno che pur lo persuade sì poco; e tanta buona lena
vi pone che, per riconoscimento dei più, si dovrà in buona parte
proprio a lui e alle disposizioni da lui escogitate (oltre che, si
sa, alla eccezionale capacità combattentistica di Garibaldi) se la
prima giornata di guerra delle milizie romane si concluderà con un
successo autentico42.
Brusco risveglio per Mazzini ancora ostinatamente gallofilo quel 30
d'aprile, quei diecimila francesi avanzanti su Roma! Violentemente
attaccati e respinti, cento dei loro, morti, oltre a quasi trecento
arresisi, rimangon lí ad attestare a che sia ridotta la repubblicana
fraternità del governo di Francia. Garibaldi, viste le terga
nemiche, vorrebbe perfezionar la vittoria, gettandosi
all'inseguimento; e forse, per dovere d'ufficio, tocca per l'appunto
a Pisacane, che pur sarebbe dello stesso parere, trasmettere
l'ordine perentorio del triumvirato di non uscire dagl'immediati
dintorni della città. Mazzini, imperturbabile, si sforza adesso di
pensare che, avuta una buona volta la prova della risolutezza
romana, Parigi rinuncerà a colorire il suo iniquo disegno; animato
da tale speranza, che Pisacane, da buon militare, principia a
trovare pericolosa e ridicola, non giungerà egli perfino a ordinare
la restituzione dei prigionieri del 30?
Le perdite romane, in quello stesso scontro, non sono state gravi:
una settantina di morti, un centinaio di feriti, affidati questi,
nelle ambulanze reggimentali, oltre che a medici piovuti d'ogni
parte d'Italia, all'assistenza e alle cure di un Comitato di Signore
presieduto dalla Belgiojoso43. Fra le quali, e delle più attive,
brava infermiera espostasi al fuoco a Porta S. Pancrazio,
Enrichetta; il 5 di maggio il Monitore romano stamperà anzi di lei,
che firma adesso Enrichetta Pisacane, una commossa relazione sulla
parte presa dai trasteverini alla giornata del 30 d'aprile44.
Ma quella, dopo tutto, non era stata che una scaramuccia di poco
momento; nel seguito l'attività del Comitato dové naturalmente
moltiplicarsi ed estendersi, a centinaia affluendo i feriti negli
improvvisati ospedali per ricevervi, con le povere cure che la
chirurgia sapeva allora apprestare,
l'incomparabile conforto morale che solo la donna può offrire. Duri
mesi dunque, quelli di Roma, per Enrichetta, anticipata e oscura
Nightingale italiana45; poiché non vi è pena più intensa che il
vegliare le pene degli altri.
Roma, ancora tutta vibrante dell'insperato successo, osservava con
qualche inquietudine le mosse del corpo francese, accampatosi senza
apparenti intenzioni offensive a poca distanza dalle sue mura,
quando, dalla frontiera di Terracina, giunse il 2 maggio la notizia
dell'avanzata napoletana: 12 000 uomini e più che 50 cannoni!46 Il
dilemma era tragico. Per affrontare i borbonici e toglier loro la
voglia di compiere nel territorio della repubblica simili
passeggiate militari si sarebbe dovuto abbandonar Roma ai francesi,
né si poteva. Il mezzo termine scelto fu, com'è noto, l'urgente
richiamo del corpo di Mezzacapo e d'altre colonne operanti lontano
dalla capitale e insieme l'ordine a Garibaldi di spingersi con la
sua legione in ricognizione offensiva verso i colli Albani dove
intanto si erano provvisoriamente postate le truppe di Re
Ferdinando.
Dopo due lievi scontri la ricognizione aveva termine il 17 di maggio
e, caso strano, con pari soddisfazione d'entrambi le parti, i romani
vantando il pieno raggiungimento degli obiettivi propostisi, i
napoletani nientedimeno che d'aver costretto Garibaldi alla fuga.
Chi fosse il vincitore vero non venne chiarito neanche a guerra
ultimata; lo stesso Pisacane polemizzò in proposito col fratello
ufficiale borbonico, secondo il quale uno degli scontri — quello di
Palestrina — risaliva a gloria immortale dei suoi commilitoni!
Guerre e battaglie d'ottant'anni fa.
Comunque i napoletani si guardaron bene dall'avvicinarsi
ulteriormente a Roma; e poiché in breve tempo affluirono nella città
i rinforzi (portando a diciottomila uomini la guarnigione effettiva)
e s'erano intanto iniziate trattative d'armistizio con l'Oudinot
generale francese, la situazione della repubblica avrebbe potuto
dirsi radicalmente migliore se il terzo nemico, l'austriaco, presa
Bologna e tenendo ormai tutta quanta la Toscana, non avesse
rappresentato lui adesso la minaccia immediata, polarizzata su
Ancona, unico porto che a Roma fosse rimasto.
La necessità della difesa di Ancona, anzi, portò a un nuovo rimpasto
nell'alto comando, ché l'Avezzana venne inviato a dirigerla, e un
colonnello, il Roselli, prese il suo posto qual generale delle
operazioni. Un Bonaparte costui? Tutt'altro, ma senza dubbio il
migliore tra gli ufficiali di cittadinanza romana, e un romano
sembrò allora che ci volesse a quel posto, per più ragioni, o
pretesti, campanilistici. Pisacane, che andava pian piano
imponendosi come il factotum del triumvirato, fece in
quest'occasione un nuovo balzo in avanti, sostituendo nell'ufficio
di Capo di Stato Maggiore il Galletti, che del resto aveva già
completamente offuscato e per attività e per competenza. Poco prima
lo si era nominato altresì presidente del Consiglio di Guerra e
della Commissione per le requisizioni.47 Mazzini aveva sempre più
fiducia, e sempre più bisogno di lui. Lo avrebbe attestato più
tardi: «Per me egli non era solamente il capo dello Stato Maggiore,
esecutore rapido e diligente delle intenzioni del Generale in capo e
delle nostre; era l'ufficiale nato per la guerra d'insurrezione,
dotato di quella potenza d'iniziativa che trova la vittoria dove il
nemico, fidando nella scienza tradizionale, non prevede l'assalto,
ed al quale io poteva affacciare i più arditi consigli, securo ch'ei
non li avrebbe respinti unicamente perché in apparenza contrarî alle
così dette regole dell'arte bellica».
Tra i Roselli e i molti del suo stampo, pedantescamente aggrappati,
nonché a quelle regole, all'osservanza di una disciplina formale,
assurda in quei frangenti, e i Garibaldini, valorosissimi, sì, ma
che intendevan la guerra un poco troppo da anarchici, Pisacane
rappresentava infatti, se non il punto d'incrocio e d'intesa (ché il
suo carattere non si prestava a quel compito), certo una tendenza
media, assai più equilibrata d'entrambi.48
Andavan tutti d'accordo, intorno alla metà di maggio, che
bisognasse, ora che Roma era finalmente ben guernita di truppe,
uscire dalle mezze misure e finirla con quella inconcludente
guerretta; ma chi, al solito, voleva non si pensasse ad altro che a
trasformar la città in una piazzaforte sul serio, chi — Pisacane ad
esempio — diffidando della buona fede francese, pretendeva si
rinnovasse senza indugio, e in proporzioni più vaste, il conflitto
del 30 di aprile, per poi passare ai borbonici.
Mazzini, sempre invischiato nella pania francese (il 17 di maggio il
Monitore ufficialmente annunziava la sospensione delle ostilità
franco-romane), timoroso d'altronde che, ove si lasciassero i
napoletani avvicinarsi a Roma, l'Oudinot non ne prendesse pretesto
per «amichevolmente» occuparla, aveva un terzo progetto: uscir di
sorpresa dalla città con quasi tutto l'esercito e investire i
borbonici accampati in Velletri con un'offensiva siffatta da
obbligarli a mollare la posizione e comunque da infligger loro una
sconfitta che servisse a rianimare i difensori di Roma.
Pisacane — è Mazzini che lo attesta — fu il solo tra i capi militari
che, sedotto dall'«audace consiglio», se ne facesse banditore
entusiasta; laddove Roselli, in successive polemiche di stampa,
orgogliosamente si attribuí e la paternità e il merito di quel
progetto. La questione non è ancora perfettamente chiarita; certo è
comunque che Pisacane ebbe parte precipua nell'apprestamento tecnico
dell'operazione, la quale venne ben presto coronata dal più
brillante successo. Non era proprio lui che andava insistendo, fin
dai primi di marzo, che Roma s'avesse a difender fuori di Roma?
L'attuazione del piano seguí rapidissima e nel più grande segreto;
al punto che quando, alla sera del 16 maggio, i romani stupefatti
videro, reggimento dopo reggimento, ben diecimila uomini lasciar la
città per porta S. Giovanni con alla testa Roselli stesso e
Garibaldi e Pisacane, lo sbigottimento fu intenso, voci di
tradimento circolarono subito e mezza Assemblea si precipitò da
Mazzini a chiedergli conto di quel che stesse accadendo; ci volle
del bello e del buono per acquietarli un poco. La fortuna
assistendo, dubbi e sospetti si tramutaron poi presto in sconfinati
entusiasmi.
Il comando romano, infatti, o vogliam dire Mazzini, rivelò in questo
caso straordinario tempismo. Velletri? Diversivo a uso di politica
interna? Altro che questo! I napoletani, incalzati, spariron
d'incanto dalla regione dei colli, non solo, ma dovettero ripassare
in tutta fretta il confine. Disfatta morale aggravata dalla presenza
del re in persona fra le sue truppe. È vero che Ferdinando aveva
disposta la ritirata fin dal 17 di maggio — mentre i romani
raggiunsero le sue posizioni soltanto il 19 —, non appena cioè gli
era giunta notizia della sospensione di ostilità intervenuta tra
l'Oudinot e il triunvirato e dell'immediata mobilitazione di tutte
le forze romane contro di lui; ma la sua fuga, per quanto
ufficialmente attribuita alla fallita intesa con Francia, non
mancava per questo di costituire per lui, che il confine romano
aveva baldanzosamente varcato due settimane innanzi, uno scacco
bruciante e per la repubblica un clamoroso successo (che fosse poco
sudato non monta).
L'unico scontro verificatosi in quell'effimera campagna, d'altronde,
quello del 19 di maggio, aveva fornito una prova brillante
dell'efficienza delle truppe repubblicane, e comunque più che
bastevole ad accreditare la vanteria romana avere unicamente il loro
valore costretto il nemico alla fuga.49
Altra questione è quella, dibattutissima, se Garibaldi cui risaliva
il merito di codesto scontro fosse stato bene o male ispirato nel
provocarlo, spingendosi, come avea fatto contro gli ordini espressi
di Roselli, fin sotto Velletri con la sola avanguardia.
Fiumi d'inchiostro si sparsero su questo episodio, Mazzini, Roselli,
Pisacane e molti altri dei quarantanovisti lamentando la sua
imprudenza e indisciplina; Garibaldi e i suoi accoliti e
sostenitori, per contro, la lentezza di mosse e una tal quale
pedanteria dimostrata dallo Stato Maggiore, il quale — così
ironizzavano — si figurava forse di comandare a un agguerrito
esercito di veterani anziché a improvvisate colonne di volontari
tanto entusiasti quanto «scalcinati». La ragione, come accade, era
un po' di qua e un po' di là; è vero, tuttavia, che i fatti l'avevan
data, nel caso concreto, a Garibaldi, smentendo appieno le
preoccupazioni dei suoi critici non avesse l'intero corpo napoletano
a rovesciarsi sull'avanguardia romana. Sí che al solo Garibaldi si
dovette se l'esercito della repubblica poté rientrare in Roma
recando, tra i molti che gliene aveva regalati il Borbone, qualche
ramo di alloro che si era còlto da sé.
Ma neanche Pisacane era rimasto con le braccia in croce la mattina
del 19. Bensì, disposta l'avanzata generale, s'era preso il comando
di alcune forze miste, puntando su Velletri;50 e se a Velletri era
giunto troppo tardi per partecipare alla mischia, s'era segnalato
ugualmente eseguendo una fruttuosa ricognizione.
Il piano originale del comando romano, che la sortita garibaldina
aveva violato, era quello di girare Velletri, e guadagnando Cisterna
tagliare la ritirata ai borbonici o almeno assalirli sul fianco51.
Ma ora che conveniva di fare? Tornare al primitivo disegno o tentare
di espugnar Velletri? Garibaldi e Pisacane una volta tanto
concordano e già questi sta emanando gli ordini perché le truppe
discendano al piano quando Roselli, poco sicuro dei suoi uomini e
desideroso d'una esplicita autorizzazione di Roma, oppone il suo
veto. Si perde così quel pomeriggio prezioso a rinnovare inutili
attacchi contro Velletri, che l'indomani mattina, vuota di
difensori, cadrà automaticamente; ma intanto l'intero corpo
borbonico trae in salvo al di là dei confini.
La vittoria ad ogni modo era più che bastevole; poco opportuno
perciò l'invito del triumvirato al Roselli di inseguire il nemico
foss'anche sul suo territorio. Si eran pesate tutte le conseguenze
di una simile mossa? Al Generale e al suo Capo di Stato Maggiore
parve di no e che lo sforzo offensivo si sarebbe tragicamente
spezzato contro le due piazzeforti di Capua e Gaeta; onde, anziché
muoversi, comunicarono a Roma il loro parere assai ragionevole,
ricevendone in risposta l'ordine di rientrare in città. Restò
Garibaldi a eseguire con la sua divisione la marcia dimostrativa,
che si concluse, naturalmente, senza alcun resultato.
La campagna di Velletri, cagione d'orgoglio ai romani, aveva
rivelato in piena luce solare come sia difficile in un esercito
interamente composto di volontari, conservare il principio
gerarchico. Garibaldi aveva dato lo sgambetto a Roselli, il
colonnello Pisacane apertamente censurava il generale Garibaldi, la
truppa pensava che il Comandante in capo temporeggiasse
esageratamente, tutti avevan l'impressione che il triumvirato si
mescolasse troppo nelle cose di guerra. I malintesi, le gelosie, i
livori non avevano limite. Ma il più colpito fra tutti fu, come
sempre accade, il povero Capo di Stato Maggiore, tenuto responsabile
di tutti i mali, estraneo al bene. Basterà leggere, per farsene
un'idea, gli scritti sul '49 dei combattenti devoti a Garibaldi:
Hofstetter, ad esempio, che si fa eco dei severi giudizi pronunziati
su Pisacane da Manara (vero è che Manara fece più tardi ammenda
onorevole). Pisacane negligente nell'adempimento dei suoi doveri
d'ufficio (perfino dimentico, il 16 di maggio, di trasmettere al
reggimento Manara l'ordine di marcia, tanto che si sarebbe buscato
dal Manara medesimo un fiero rabbuffo; ma Pisacane «parve non
volerne saper nulla — e si ritrasse in fretta...»); Pisacane senza
una sola idea nella testa nella notte dal 19 al 20 di maggio, sotto
Velletri (Manara si recò da Roselli e «gli espose con italiana
vivacità, e senza il menomo riguardo le negligenze del suo Stato
Maggiore. Le parole del colonnello fecero impressione sul generale e
sui suoi aiutanti. Sentiva quegli la verità del biasimo; gli altri
non arrischiarono parola che fosse di difesa. Finalmente Roselli
disse al Capo di S. M. e al colonnello Haug che qualche cosa doveva
farsi»); Pisacane pavido dinanzi al pericolo! (Hofstetter fu
incaricato, verso la fine di giugno, di «mostrare al Capo di S. M.
la disposizione della truppa e la giacitura delle fortificazioni. Io
m'inchinai e condussi fuori il colonnello:... feci in fretta le
solite strade delle nostre linee e fortificazioni, ma nel passare
osservai che il colonnello non era tanto indifferente ai saluti
nemici come lo eravamo noi; anzi era d'opinione che la tale e tale
altra cosa avrei potuto spiegargliela nella città»)52. Peccato che
questi appunti su Pisacane contrastino radicalmente con quel che
sappiamo di lui! Ché negligente, passivo, inerte, pauroso, povero
d'iniziativa davvero non fu; ed anzi ebbe, se mai, proprio i difetti
opposti.
Molti attribuirono a lui l'invero pessima organizzazione dei
«servizi» durante la spedizione di Velletri. E sia.53 Ma non mi
sembra fosse equo pretendere che questi funzionassero perfettamente
durante lo svolgimento di una operazione che si era decisa in fretta
e in furia, e che si eseguiva con truppe in gran parte appena giunte
a Roma, equipaggiate alla meglio, guidate da capi che di mala grazia
si adattavano alla necessaria subordinazione gerarchica a un
generale di fresco promosso e dotato di scarso ascendente personale.
Si aggiunga che molti capi di corpo, avvezzi fino allora a
organizzare i servizi in un modo assai sbrigativo, taglieggiando
cioè senza riguardo e senza misura i disgraziati paesi attraverso i
quali per avventura passavano, mal si acconciavano alla nuova
disciplina imposta dal Comando, che, preoccupato del risentimento
delle popolazioni, giustamente intendeva porre un freno all'andazzo.
Altre critiche si mossero e ancora oggi si muovono a Pisacane
perché, quale Capo di Stato Maggiore, si permetteva di spedire
minuti e inderogabili ordini di marcia e d'operazione nientedimeno
che a Garibaldi.54 Ma questi critici dovevano e dovrebbero dolersi
non tanto con Pisacane, che faceva il mestier suo, quanto con chi,
potendo, non solo non aveva posto Garibaldi alla somma delle cose,
ma ne aveva anzi precisata la dipendenza gerarchica. Forse che la
parola «riguardi» ha una ragion d'essere o un ben che minimo
significato nel mondo militare?
Il giudizio severo contro Pisacane fu in qualche modo convalidato e
diffuso al gran pubblico dall'Assedio di Roma del Guerrazzi nel
quale a un supposto binomio Roselli-Pisacane, simbolo di debolezza,
vien contrapposta la geniale iniziativa di Garibaldi.
Ma Pisacane non sembra facesse gran caso di queste critiche, di
queste accuse. Sapeva che molte gli derivavano dall'aver egli voluto
e imposto quel riordinamento dell'esercito pel quale molti petulanti
e pretenziosi capi banda s'eran visti ridotti al rango di modesti
ufficiali, chiamati a eseguire, non più a dettar legge e tanto meno
a discutere: il quale aveva dunque rintuzzato ambizioncelle,
stroncato gloriuzze, ma insieme dato nerbo ed efficienza e unità,
per quanto si poteva, alle forze della repubblica. Sapeva che molte
altre derivavano, come suole, da gelosie mal dissimulate per l'alto
ufficio che gli era stato assegnato e per la reputazione che godeva
presso il potere politico. Perciò «tirava diritto», sdegnando
pettegolezzi e ripicchi.
Ma a lui la breve campagna contro i borbonici dovette esser fonte
d'una particolare penosa emozione. Sapeva già, il 16 maggio, o seppe
nel seguito (forse entrando in Velletri), che tra le file nemiche,
in qualità di comandante di uno squadrone di cavalleria, combatteva
suo fratello Filippo? Di quella cavalleria, per l'appunto, che in un
primo momento, sotto le mura della città, aveva messo in difficoltà
l'avanguardia garibaldina55, salvando essa sola — col suo impeto e
col valore riconosciutole anche da parte romana — la dignità
dell'esercito napoletano? Nient'altro che un puro caso,
fortunatissimo, avea voluto che i due fratelli non si scontrassero
armati, in quell'azione del 19 mattina! Comunque, tragica sorte.
Sono due anni che non si vedono, che vivon lontani ed estranei, e
l'occasione che materialmente li riavvicina è questa d'una guerra
che essi combattono da sponde opposte, l'un contro l'altro!
Né si può dire che sia caso eccezionale, nell'Italia d'allora,
questo, dolorosissimo, accaduto ai due Pisacane. Eccezionale è forse
che, al di sopra della mischia, essi riuscissero a conservare
rapporti affettuosi e financo a intavolare per lettera discussioni
amichevoli sulle vicende di quella campagna; ché, s'intende, Filippo
non volle mai ammettere doversi la ritirata borbonica neppure in
minima parte alla minaccia romana.
Del resto, mi si consenta la digressione, pare a me che si possa e
si debba ormai (son passati ottant'anni) guardare con uguale
rispetto al Pisacane «italiano» e a quello accanitamente borbonico;
e infatti se l'uno contribuí direttamente alla formazione unitaria
del nostro paese, l'altro — e con lui gl'innumerevoli dimenticati e
vilipesi che fino all'ultimo e con personale sacrificio sostennero i
regimi ritenuti legittimi — lasciò un esempio, sempre valido, di
coerenza ideale, di dirittura, di serietà, di fedeltà a un principio
e nella sua fortuna e nella sua definitiva disgrazia.56
Se il risultato della guerra di Napoli parve galvanizzare il corpo
della repubblica, e ne fioriron rinnovate speranze, la loro vita fu
breve. In Francia, infatti, lo scontro del 30 d'aprile aveva
prodotto una tremenda impressione. Il governo, costretto ad agire
energicamente, avrebbe potuto o richiamare la spedizione (ma il
prestigio francese, l'influenza in Italia?) o proclamare apertamente
la sua intenzione di rovesciare al più presto il regime repubblicano
a Roma per ristabilirvi il Pontefice (ma avrebbe l'Assemblea
consentito?) Scelse, tra gli scogli, una rotta intermedia, che
condusse, com'è noto, a uno fra i più disgustosi episodi della
recente storia di Francia e a un «caso» diplomatico assolutamente
senza precedenti: missione Lesseps (15 maggio), cioè, con incarico
di indurre il governo di Roma ad accogliere come amiche le truppe
francesi. Dopo due settimane di promettenti trattative (delle quali
Oudinot sa profittare per migliorare la sua posizione strategica e
rinforzare il suo corpo), quando di pieno accordo vien stabilito che
le truppe francesi seguitino a occupare il territorio romano al solo
scopo di garantirlo dall'invasione straniera, e sempre astenendosi
dal varcare la cinta dell'Urbe (31 maggio), una improvvisa
comunicazione del generale francese al triumvirato (1° di giugno)
significa che la convenzione Lesseps è da considerarsi nulla e come
non stipulata e che l'investimento di Roma è questione di ore!
La partita è perduta; né si vuole qui sostenere che senza Lesseps,
senza cioè che i romani, cullandosi in traditrici illusioni,
avessero per quindici giorni trascurato l'apprestamento della città
a difesa (tutti presi, dopo Velletri, da disegni di arresto
dell'avanzata austriaca), questa si sarebbe salvata; ma certo il suo
destino è affrettato e si è perduta comunque la possibilità, fino a
poco innanzi esistente, di attaccare i francesi finché inferiori di
numero. Mazzini amaramente rimpiange di non aver seguito a suo tempo
i consigli di Pisacane. L'ingenuità romana è ancora una volta
documentata dalla goffa lettera che il Roselli dirige al generale
Oudinot per pregarlo di prolungar l'armistizio in vista della
necessità di fronteggiare la minaccia austriaca; la risposta
francese, nella sua secchezza, sottolinea la sleale sopraffazione di
cui l'Oudinot non ha sdegnato di farsi strumento.
Per quanto la caduta di Roma sia matematicamente sicura e imminente,
uno slancio tanto più eroico quanto più inutile dei suoi difensori
decide la resistenza ad oltranza. «Le monarchie possono capitolare;
le repubbliche muoiono», dirà più tardi Mazzini. Le agguerritissime
truppe francesi, che s'imaginano di conquistar la città in un sol
balzo e senza colpo ferire, sperimenteranno con un mese di
assiduissimi sforzi, con perdite tutt'altro che lievi, con consumo
spropositato di munizioni, quel che possa valere, anche in una
piazza naturalmente indifesa, la disperata volontà di qualche
migliaio di italiani straccioni e avventurieri. E sì che la difesa
risente non poco del mancato accordo tra i capi, quali eroicamente
avventati, ma ignari della più tecnica tra le guerre, quella
d'assedio, quali forniti anche troppo di coltura scientifica, ma
inconsapevoli che in talune emergenze val meglio un pugno d'«arditi»
che una manovra sapiente.
Pisacane, che ha ferma l'idea della indifendibilità di Roma, insiste
ancora nel suo piano di trasformar l'assedio in battaglia campale:
per male che vada non altro danno ne deriverebbe che l'anticipata
caduta di Roma, ma se si vince le conseguenze sono addirittura
incalcolabili! Approva senz'altro, perciò, il piano suggerito da
Mazzini di uscir con tutto l'esercito, attaccare il nemico a Villa
Pamphilj, che è stata conquistata di sorpresa il 3 di giugno (mentre
Oudinot s'era solennemente impegnato a non iniziare le operazioni
prima del 4), prendere così al rovescio gli apprestamenti di assedio
e caricare i francesi in direzione del Tevere.
Ore e ore a interrogar le carte, ore e ore a studiare il terreno: è
lui che stabilisce la disposizione delle forze, è lui che prepara
gli ordini di marcia. Mazzini gli rende schiettamente questo onore
d'aver lui, lui solo tradotto quel pensiero in un magnifico disegno
pratico, dandogli «s'altri non lo rimutava poco prima
dell'esecuzione, tutte le possibili probabilità di trionfo».
«Questa idea di una battaglia è nuova», osserva Roselli, che conosce
a menadito la storia e la teoria della guerra d'assedio, quando
Mazzini lo chiama per sottoporgliene il disegno. «Sarà nuova, ma è
adatta alle circostanze», ribatte Mazzini. Roselli aderisce; ma
Garibaldi, incaricato di capeggiare l'impresa, s'impone a sua volta
al debole condottiero, persuadendolo dell'opportunità di rinunciare
alla progettata battaglia campale e d'operare in sua vece una
semplice sortita o sorpresa dimostrativa. «Colonnello — così
Garibaldi bruscamente interrompe Pisacane, che è venuto ad
illustrargli il primitivo piano d'operazione —, con le nostre truppe
sono impossibili le manovre». Pisacane si ritira «mortificatissimo».
La notte del 10 di giugno, non appena la sortita s'inizia, fuor di
porta Cavalleggeri, basta un modesto allarme per scompigliare le
truppe, le quali si ritirano nella più gran confusione.57
Giorno per giorno, tra episodi mirabili cari alla memoria degli
italiani tutti, ma necessariamente vani, la sorte di Roma precipita,
mentre Oudinot, con metodica calma, incalza nell'approccio alle
mura. Nel tempo stesso Ancona cade, presa dagli austriaci.
30 di giugno, giornata storica: gran rapporto, tenuto da Mazzini,
dei generali e capi di corpo. Mazzini prospetta le tre alternative
possibili: capitolare, resistere sulle barricate sino all'ultimo
sangue, uscir da Roma esercito, governo, assemblea e a marcie
forzate piombare in Romagna alle spalle degli austriaci.
Quanto a sé propende per l'ultima. Discussione: i più inclinano alla
resistenza ad oltranza, qualcuno suggerisce di andarsi a serrare in
Velletri o in Albano, altri (Pisacane) d'invadere il regno di Napoli
per tentar di sommuoverlo; la capitolazione è respinta. Ma
l'Assemblea cui compete la deliberazione finale non ha più il
coraggio delle grandi coraggiose risoluzioni; la maggioranza
presente che la fase rivoluzionaria è provvisoriamente tramontata in
Europa.
È dunque la resa.
Il comando militare si mette in relazione col campo francese, il
triumvirato si dimette.58 Cosa accadrà dell'esercito? Confusione
tremenda: Garibaldi e Roselli associati nel comando supremo. Il
primo, smanioso d'agire, pianta in tronco il collega e con 3000
uomini scelti si getta alla straordinaria avventura Sanmarinese. Gli
ufficiali superstiti, adunatisi il 2 di luglio, di notte, ascoltan
Pisacane che li incita a chiudersi col grosso dell'esercito nella
città Leonina per sostenervi un secondo assedio, ascoltan Sterbini
di parer contrario. Roselli ondeggia. Si decide finalmente di uscire
da Roma, ma la decisione non viene eseguita.
Dum Romae consulitur, i francesi procedono (la mattina del 3)
all'occupazione dell'Urbe. Con imperturbabile solennità l'Assemblea,
riunita per l'ultima volta, vota intanto la definitiva costituzione
dello Stato. E allora, abbattuto il governo, intimata dai francesi
l'uscita da Roma ai militari
«stranieri», all'esercito del Roselli non resta che l'auto
dissolvimento, preceduto da una solenne protesta, firmata da tutti
gli ufficiali, «contro la violenza che ha abbattuto il governo della
Repubblica Romana sorto dal libero voto del popolo, durato nel
perfetto ordine civile, e fatto sacro dal sangue versato per
difenderlo».
Il giorno 4 s'inizia l'esodo dei non romani da Roma, per terra, per
mare, diretti i più fuori d'Italia molti anche in Piemonte, l'unica
terra che abbia serbato e s'affidi alla libertà costituzionale:
triste viaggio quello che da Roma caduta, per Civitavecchia base
francese, e Livorno gremita d'austriaci, conduce a Genova pur mo'
domata nei suoi fremiti repubblicani e autonomistici; e come triste
l'esilio in posti ospitali e liberi, sì, ma che senza accennare a
protesta hanno assistito alla grande ingiustizia di Roma!
Si andavano spengendo così gli ultimi bagliori di quel fuoco
meraviglioso che, troppo improvviso e troppo splendido, era guizzato
sui primi del '48, e che ora la dura lezione dei fatti e la
dimostrata immaturità delle pur meno ardite speranze parevano aver
soffocato per sempre.
Anche Pisacane se ne va, non senza prima aver sostenuto in Castel S.
Angelo alcuni giorni di detenzione. Forse, contando sull'ascendente
che il suo nome e il suo grado esercitavano sui suoi commilitoni,
aveva deliberatamente violato l'ordinanza oudinottiana per lo
sgombro da Roma entro il 4 di luglio, nella speranza di effettuare,
d'accordo con Mazzini che si teneva ancora in città, qualche disegno
non grato ai francesi. Oppure incappò prosaicamente in qualche
disposizione di polizia come quella, del 12 luglio, che vietava in
Roma ai non francesi l'uso dell'uniforme militare?59 Potrebbe anche
darsi che non avesse ancora risolto dove recarsi: certo è che in un
primo tempo sollecitò il rilascio di un passaporto per l'Inghilterra
e da Mazzini biglietti di presentazione per i suoi amici inglesi
(uno dei quali, assai lusinghiero per lui, ci è stato conservato)60;
ma poi, liberato dal carcere mercè le premure di Enrichetta, si
risolse a tornare verso la già nota e già cara, ed ora nuovamente
gremita d'esuli italiani, terra di Svizzera.
Il 30 di luglio in compagnia dell'ex triumviro Saliceti e del
Galletti, la coppia Pisacane — mi pare di poterli ormai chiamare
così — sbarcava a Marsiglia.
Capitolo quinto
Dopoguerra difficile
Nuovo riflusso dell'ondata migratoria italiana, nella seconda metà
del '49: si diffonde fra gli esuli uno stato d'animo di febbrile
impazienza, un intenso bisogno d'operosità, e quell'inquietudine
propria di chi avendo assistito all'inaspettata realizzazione dei
propri ideali politici e poi al loro brutale soffocamento,
attribuito a cause esteriori, logicamente attende l'inevitabile
riaprirsi della crisi. È una minoranza sceltissima che lascia
l'Italia e che al trionfo, pur variamente prospettato, della causa
nazionale, pospone e sacrifica ogni considerazione di vantaggio
individuale o familiare. Uomini ostinati e decisi: ben pochi, è vero
se paragonati alla gran massa degli acquiescenti, pochi, comunque,
che non «molleranno» mai. Il che permise, si sa, ai sostenitori
impenitenti dello statu quo italiano di inferire che senza qualche
migliaio di intriganti riottosi il nostro paese sarebbe stata la più
pacifica terra del mondo; ma valse d'altronde a consacrare agli
occhi dei conterranei e d'Europa una causa che doveva pur trovare la
sua giustificazione nelle ragioni profonde della vita italiana,
rivestire certo carattere di assoluta irresistibilità, se una volta
penetrata di sé la volontà di questa minoranza d'uomini, tra i più
colti e riflessivi e preparati e moderni d'ogni provincia italiana,
poteva assorbirne ogni facoltà a tal punto da non conceder loro più
mai d'avere altra cura, altro pensiero, altra speranza che in essa e
per essa.
I più, come l'anno innanzi, riparano in Isvizzera; molti forse
obbedendo all'ingenuo eppur tanto comprensibile desiderio di non
lasciarla troppo, l'Italia, che troppo spazio di cielo, troppa
difformità d'idioma e di costumi non si frappongano fra loro e
l'Italia. Eppure, non è più l'estate del '48, quando, per tanti
segni evidenti, si rivelava imminente agli esuli la possibilità del
ritorno. Ora, da un capo all'altro della penisola, l'orizzonte è
abbuiato; due anni di lotte, dopo aver tutto sconvolto, non hanno
giovato in ultima analisi a mutare d'un palmo la carta d'Italia.
Ora, è l'esilio per davvero. Ma l'illusione regna benefica fra gli
emigrati.
Poveri quasi tutti, affittano stanzucce mobiliate a Losanna, a
Ginevra, a Lugano, a Capolago, a Locarno;61 molti s'aggruppano, per
paesi d'origine e più per concordanza d'idee, in una stessa casa o
alla stessa mensa, assieme discutendo il recente passato, leggendo
gli stessi libri e giornali e riviste, arrabattandosi a scovar
lezioni o impiegucci provvisori o traducendo o scrivendo. I giorni
di festa si ritrovano in brigata in qualche casa ospitale, o alla
Castagnola dai Cattaneo, o a casa Airoldi da Grillenzoni, o presso
il poeta Dall'Ongaro.
Piú tardi, quando il colpo di stato napoleonico avrà disperso fuori
di Francia gli oppositori democratici, molti di costoro affluiranno
in Isvizzera: nomi ben noti ai liberali d'Europa, nomi di scrittori
celebri, di giornalisti, di combattenti, saliti ai bagliori della
ribalta nel '48; e allora frequenti ritrovi presso costoro, come già
presso i profughi delle insurrezioni tedesche, e amicizie salde e
speranze comuni che nascono fra i proscritti, ai quali s'aggiungono
esuli polacchi e russi e ungheresi: imagine vivente, tutti assieme,
di quell'internazionalismo che i più tra questi patriotti sognano
come fine ultimo e logico sbocco della lotta per la libertà delle
nazioni. I fuorusciti di Roma, di Venezia, di Napoli, che pur già
dalla rovina dei sogni quarantotteschi hanno cominciato ad
apprendere la necessità di un'impostazione italiana e non più
regionale del problema politico, constatano adesso non esser questo
che un particolare aspetto d'un vasto problema europeo. Il trionfo o
la perdita della democrazia in Francia o in Russia o in Ispagna è
trionfo, è lutto per la democrazia europea. La libertà è una, la
battaglia vòlta alla sua conquista ha più fronti, ma un esercito
solo.
A Losanna, sulle sponde del lago, si riuniscono a vita comune in una
modesta villa (Montallegro) Mazzini, l'ex triumviro Saffi, Mattia
Montecchi, più tardi il veneziano Varè62; brevi soggiorni vi fanno
Filippo De Boni e Maurizio Quadrio, per qualche giorno v'abita lo
stesso Pisacane, fissatosi da prima a Ginevra63. «Da sessanta a
settanta franchi al mese per testa — racconta il Saffi — bastavano
al nostro mantenimento... Spendevamo la giornata a scrivere
articoli..., a tener viva una vasta corrispondenza epistolare, a
promovere, per quanto dipendeva da noi, l'ordinamento della parte
nazionale all'interno e fra gli esuli. Le prime ore della sera erano
date al conversare, a ricevere amici, al giuoco degli scacchi, di
cui Mazzini molto si dilettava...» E Mazzini, di Pisacane: «Ci
ricongiungemmo a Losanna dove io lo vedeva ogni giorno, sereno,
sorridente nella povertà, com'io l'aveva veduto in mezzo ai
pericoli».
Due grandi iniziative editoriali, accanto ad altre più modeste (tale
il foglio luganese il Repubblicano) dànno lavoro e retribuzione, pur
esigua, ai più colti fra gli esuli: l'una, varata dal Cattaneo,
ahimè ben presto troncata da meschine difficoltà materiali, è
l'Archivio triennale delle cose d'Italia dall'avvenimento di Pio IX
all'abbandono di Venezia,64 una raccolta cioè di testimonianze
immediate intorno a episodi del '48-'49; la seconda, mazziniana, è
una rivista di studi politicimilitari, che continua nel nome —
Italia del Popolo — il foglio repubblicano stampatosi per qualche
mese a Milano nel '48. Gli scrittori son tutta gente che ha molto
veduto e fatto e sofferto, in Italia, negli ultimi mesi.
Libri, riviste, opuscoli si spacciano sul luogo, ma soprattutto si
mira, attraverso a mille costosi e rischiosi accorgimenti, a
spargerli in Italia, e dovunque in Europa sono emigrati italiani, a
dispetto delle polizie, come sempre incapaci a impedire la
diffusione del libero pensiero.
Segno di declinante fiducia nell'azione questo scriver di storia,
questo riandar criticamente il recente passato? Non sembra; ché
dagli sforzi riuniti di quegli esuli, buoni a menar la spada a suo
tempo (e lo avevano, uno per uno, brillantemente mostrato) e ora la
penna, uscí un insieme di scritti che giovò immensamente a dare agli
italiani la fondata coscienza del loro diritto alla libertà e
all'autogoverno: prologo indispensabile a un'azione risolutrice.
Pisacane che a Roma è stato, più che del Roselli, il Capo di Stato
Maggiore di Mazzini, diventa ora l'autorizzato critico e storico
militare dell'Italia del Popolo. Esordisce anzi fin dall'agosto con
due scritti che vengon stampati come opuscoli, in attesa che la
rivista inizi le sue pubblicazioni: un Rapido cenno sugli ultimi
avvenimenti di Roma dalla salita della breccia al dí 15 luglio 1849
e una curiosa Lettre du Chef de l'état major de l'armée de la
république romaine au géneral en chef de l'armée française en
Italie. Il Cenno, composizione di mera cronaca, non offre oggi alcun
speciale interesse; la Lettre invece è documento tipico della
mentalità pisacaniana.
L'Oudinot, sbarcando sul suolo romano, aveva preteso, s'è visto, che
Roma aprisse fidente le porte alle sue truppe, accorse — così diceva
— a far atto di «fraternità». Giustamente respinto, s'era mostrato
qual era: nemico implacabile e, quel che è peggio, fedifrago; ora,
domata Roma, osava seguitare in piena mala fede a deplorare la
«inaspettata» necessità nella quale si era trovato di penetrare
nell'Urbe con la forza dell'armi. Bisognava inchiodare alla gogna
della sua dimostrata doppiezza questo messere, violatore d'ogni
norma di buona guerra. Ed ecco la bellissima lettera, fremente di
sdegno, grido di protesta di un militare sollecito dell'onor
militare contro chi lo trascinava nel fango. Perché evitava costui
di precisare i termini della missione Lesseps? Perché non confessava
al mondo che il potente governo francese s'era servito d'un inganno
volgare per penetrare in Roma? Due mesi per impadronirsi di una
città aperta! E il vergognoso rovescio del 30 di aprile, bella
gloria davvero per l'«eroe» di Roma!
Ultima parte, la meno buona: avesse il comando romano seguito i
consigli suoi, di Pisacane, allora sì che l'Oudinot avrebbe a
proprie spese imparato quanto mai ingrata e pericolosa si fosse
l'impresa di assalire un popolo intero deliberato a difendere la sua
libertà. Dove lo scrittore dimenticava due cose: la prima che i
nemici si vincono in campo e a nulla giovano, deposte le armi, le
postume rivelazioni, i cavilli e le bravate; la seconda che era
ancora un po' presto per arrischiare il computo dei meriti e delle
responsabilità della difesa di Roma e che, comunque, non proprio a
lui, ex capo di S. M., toccava aprire il torneo delle recriminazioni
dando addosso a superiori e a colleghi, e attribuendo col senno del
poi ai suoi inascoltati pareri tutte quelle probabilità di successo
che sembran sempre arridere alle iniziative inattuate. Petulanza e
superbia che gli procurarono inimicizie accanite e, peggio ancora,
freddezza di amici provati. Giusto è però concedergli le circostanze
attenuanti: ché a principiar da quella estate si verificò un vero
diluvio di pubblicazioni, nelle quali ogni capoccia vero o preteso
d'insurrezioni, ogni caporalaccio di truppe, ognuno insomma che nel
biennio non avesse assolutamente tenuto le mani incrociate sul
petto, magnificava quel che aveva fatto e veduto e detto e
profetato, ciascuno sentenziando che se si fosse dato retta a lui
l'Italia una sarebbe stata a quell'ora un fatto compiuto e
assestato.
Meridionale, colonnello a trent'anni, come poteva Pisacane,
imperversando l'epidemia, salvarsi dal contagio?
Il suo contegno, d'altronde, era anche determinato da necessità di
legittima difesa. Se egli non perdonava agli avventurieri della
guerra (tipo Garibaldi) e ai pedanti militari di vecchio stile (tipo
Roselli), questi due, e altri molti, non la perdonavano a lui, che
nel disimpegno dei suoi uffici romani aveva con la sua rigidezza,
s'è visto, irritato e superiori e inferiori. Ripicchi che si
rinnovano sempre all'indomani di un grande insuccesso: schiuma
residua della mareggiata.
Un passo di una lunga lettera diretta nell'autunno del '50 da
Enrichetta a Pisacane illumina vivamente questo stato di cose:
«L'altra sera passeggiando» — così ella scriveva — «ebbi una lunga
discussione col Boldoni» (l'antico compagno della Nunziatella, poi
tra i difensori di Venezia), «il quale diceva che tutti quei che
erano stati a Roma non avevano data alcuna prova di abilità; che il
solo Garibaldi era comparso e si era fatto amare e che aveva un
partito fortissimo in Italia... e tante bestialità simili. È proprio
un asino! Io a tutti quei che vengono qua e che hanno qualche
merito, cerco indagare ciò che si dice di te, ed ho trovato in tutti
che dicono avere tu i difetti ch'io ti trovai allora, cioè fosti
debole nel non rinunziare ad incarichi che ti venivano affidati, e
che non potevi disimpegnare come avresti voluto, cioè, l'essere
sostituito con Avezzana, capo di Stato Maggiore con Roselli. La
generalità dei capi dei corpi di Roma che sono tutti qui,
attribuiscono a tua incapacità di poter fare il capo dello Stato
Maggiore e che non sapevi consigliare Roselli. Dicono che avevi
esitazione nel dare gli ordini, e che spesso li cambiavi. Insomma io
speravo almeno che tu fossi restato oscuro, ma invece ti dànno molti
torti che non hai. Spero non ti dispiaccia ciò ch'io ti dico».
Speranza assurda: non era umano che a Pisacane dispiacesse
moltissimo, che ne rimanesse offeso e ferito e che abbondasse nella
controffensiva?
Ma alla sua guarigione da certe ubbie, da certe smanie di grandezza
giovò non poco, di certo, la vicinanza di Mazzini, il quale — di ben
più alto e generale riconoscimento meritevole che non spettasse a
lui — pur vilipeso nelle polemiche partigiane, calunniato, in cento
modi avvilito, di ciò noncurante, si mostrava assai più sollecito
del nuovo che di battagliar sul passato. A poco a poco, con molta
solitudine e molta riflessione, e soprattutto con l'acquistar
l'abitudine di quelle sode letture che agli uomini d'ingegno
insegnano infallibilmente a paragonare il poco che sanno col troppo
che ignorano e quindi a rispettare opinioni e attitudini discordi
dalle proprie, le asprezze e intolleranze del carattere di Pisacane
s'andarono attenuando, e con esse quella esagerata e quasi morbosa
preoccupazione dell'io di cui egli allora così intensamente
soffriva.
Otto furono gli articoli che Pisacane dal settembre 49 al luglio '50
pubblicò sull'Italia del Popolo: articoli di varia dimensione e
importanza, ma che a rileggerli rivelano tutti, nella concisa
sobrietà della forma, nella risoluta enunciazione del pensiero
sempre scheletricamente chiaro, nella precisione degli appunti
critici, una mente matura ed equilibrata, particolarmente inclinata,
s'intende, alla trattazione delle più diverse questioni in qualche
modo connesse con la scienza e la storia della guerra. Il primo fu
La Guerra Italiana, indagante le probabili vie della soluzione del
problema italiano. Questa, per Pisacane, dipende indubbiamente
dall'esito di un formidabile conflitto, ch'egli presente vicino a
scatenarsi nella penisola tra forze liberali e forze dispotiche, tra
quelle italiane cioè e quelle straniere o legate a interessi
stranieri; bisogna dimetter l'idea che il Piemonte possa costituire,
con la sua azione supposta a beneficio di tutti, un diversivo da
questo binario obbligato. Chi sappia infatti non lasciarsi
abbagliare dall'equivoco costituzionale constaterà che in Piemonte
le cose non si presentano diversamente che nel resto d'Italia: anche
lí una stragrande maggioranza assetata di libertà è oppressa da una
minoranza dispotica. Il problema, seppur con carattere d'urgenza
maggiore o minore, si presenta identico nella penisola tutta.
Orbene, posta l'innegabile preponderanza numerica delle forze
inclini a libertà sulle oligarchie di governo, l'esito del conflitto
offre una sola incognita: la maturità rivoluzionaria delle prime, e
cioè il grado di risolutezza con la quale nel momento decisivo esse
sapranno gettarsi all'azione. Con l'esperienza che gli viene dal
conoscere appieno sentimenti e aspirazioni dei popoli napoletano,
lombardo, piemontese e romano, Pisacane ritiene per certo che la
«rivoluzione morale» sia già compiuta in Italia: al cui avvenire è
lecito dunque guardare con assoluto ottimismo.
Ma nel conflitto quali saranno le forze operanti italiane?
Semplicissimo: i due eserciti piemontese e napoletano, i quali
finora obbediscono ai rispettivi sovrani ma che nel dí della lotta,
ricordando d'esser fatti di popolo, volgeranno certamente le armi
contro il comune nemico; dietro ad essi si affolleranno le
moltitudini, insorte progressivamente a principiar dal mezzogiorno
d'Italia (dove più diffuso e sentito è il malcontento)65 su su fino
al nord. Le forze avversarie, inoltrandosi nella penisola, saran
costrette dall'Appennino a sdoppiarsi; e sarà proprio là, allo
sbarramento appenninico, che la battaglia dovrà essere imposta; le
insurrezioni a catena, dilatandosi nel bacino del Po, serreranno il
nemico in una morsa di ferro.
Ottimismo esagerato, d'accordo. Ma l'articolo era importante non
tanto per le sue conclusioni discutibilissime quanto per le
premesse: non accadeva infatti tutti i giorni che un
«rivoluzionario» impostasse il problema italiano in termini di tanta
chiarezza staccandosi dalla consueta falsariga della vecchia
propaganda insurrezionistica, che faceva sempre discorsi generici e
troppo fidava, ammettendo l'insurrezione scoppiata, nelle capacità
improvvisatrici del popolo in rivoluzione o nella divina
provvidenza. Era, quello di Pisacane, un bilancio di forze che nel
suo semplicismo noi oggi tacciamo d'erroneo; il suo merito, per
altro, stava in ciò che esso dimostrava la necessità che bilanci
preventivi si tentassero e che ogni voce ne venisse rigorosamente
controllata. Gran passo innanzi, poi, che un militare, dal suo punto
di vista sottolineasse la possibilità e la eseguibilità dell'idea
mazziniana d'una rivoluzione integrale e sopraregionale.
Dall'articolo, che confidava la liberazione d'Italia non più alla
miracolistica azione d'un dei suoi Principi, ma alla volontà
rivoluzionaria dell'intero popolo italiano, balzava dunque
l'indicazione di una duplice azione: propaganda insurrezionale in
tutta la penisola e particolarmente nelle Due Sicilie, da un verso;
neutralizzazione della propaganda piemontese, dall'altro. Ai quali
imperativi Pisacane obbedirà strettamente negli anni avvenire.
L'idea dell'iniziativa dal sud, in special modo, diverrà la sua
fissazione: è vero che essa s'andava allora accreditando anche
indipendentemente da lui nell'ambiente mazziniano66, ma Pisacane lo
sentiva, ci credeva, v'era portato per istinto profondo più di
chiunque altro. Fin dal settembre di quell'anno, ad esempio, volle
entrare in corrispondenza con Nicola Fabrizi, meridionale anche lui,
che era come il padre spirituale di ogni manifestazione italiana nel
mezzogiorno della penisola: Fabrizi concordava appieno67. Ma perché
quell'idea potesse diffondersi dappertutto in Italia era necessario
dapprima purgare da molti preconcetti e diffidenze
antimeridionaliste gli italiani del resto d'Italia: come distruggere
ad esempio l'esosa leggenda che
circolava a danno dei meridionali (napoletani e siciliani in un
mazzo) essere il loro carattere molle e
arrendevole, atto a prorompere sì, ma non a resistere; o l'altra
della loro pretesa incapacità congenita a uno sforzo concorde?
Era stata allora allora pubblicata una relazione sulla campagna del
'49 in Sicilia nella quale l'autore, ex aiutante di campo del
generale Mieroslawski, aveva tranquillamente attribuito la colpa del
disastroso esito delle operazioni agl'isolani indisciplinati e
indolenti e al loro rovinoso governo. Pisacane, cui pure non era
sfuggito il carattere deplorabilmente più antinapoletano che
italiano, più autonomistico che democratico della rivoluzione
siciliana, colse la palla al balzo; e in un nuovo articolo
dell'Italia del Popolo, in mezzo a censure e sarcasmi all'indirizzo
dell'infausto condottiero polacco, che con la sua magra scienza
avrebbe condotto alla sconfitta non pure i siciliani ma il più
bellicoso popolo del mondo, tracciò un magnifico elogio morale e
politico dei meridionali in genere, sottolineando la continuità e
l'eroicità del loro sforzo per conquistarsi libere istituzioni.
Poteva dirsi altrettanto d'altri paesi più settentrionali, signor
Mieroslawski?
Ma anche l'antipiemontesismo ebbe Pisacane, da allora in poi, milite
attivo e accanito. Quella formola «lasciar fare al Piemonte» in nome
della quale troppa gente da troppo gran tempo andava ponendo bastoni
nelle ruote a chi intendesse suscitare un rivolgimento originale
italiano lo imbestialiva infatti al di là di ogni dire e gli
strappava le più veementi proteste. Poste le sue premesse ideali,
non era logico d'altronde che la quiete e la relativa floridezza
delle quali godeva il Piemonte venissero da lui considerate come
un'insidia all'avvenire d'Italia? A Giuseppe Montanelli che nel '49,
esule in Isvizzera, andava tessendo le lodi del Piemonte
costituzionale, un «eccellente repubblicano» ribatté «che la
sopravvivenza dello Statuto piemontese era, a senso suo, di tutte le
nostre disgrazie la maggiore, e bisognava desiderare che cadesse e
cadesse presto, affinché l'Italia fosse adeguata allo stesso
livello»68. Era Pisacane costui? Il Montanelli non dice: certo, eran
quelle le idee di Pisacane. Alle quali, sì, la storia ha dato torto;
ma, oltre che le opposizioni giovano sempre ai governi intelligenti
(e il Piemonte lo era assaissimo), è proprio impossibile oggi
riconoscere che, almeno in parte, aveva ragione Pisacane e con lui i
rivoluzionari intransigenti? Lasciamo andare che l'accentramento
monopolistico dell'azione italiana svolto dal Piemonte impresse una
obbligatoria etichetta monarchica al processo unitario; ma non è
forse vero che esso nel fatto scoraggiò, e certo non sollecitò in
misura adeguata la pur tanto necessaria collaborazione del popolo
italiano alla propria liberazione? Il Piemonte assicurava sì la
probabilità di una rapida ricostituzione d'Italia, ma questa
rapidità era utile o non piuttosto minacciava di danneggiare il
fondamento morale dell'unità? Probabilmente i responsabili della
politica piemontese non sospettaron neanche che la progressiva
piemontesizzazione delle élites italiane potesse essere indizio,
oltre che di realismo politico, di alquanta timidezza e
neghittosità; che la delega al Piemonte dell'azione italiana potesse
equivalere insomma, nella mente di molti patriotti non piemontesi, a
una specie di gravoso premio di assicurazione che conveniva pagare
pur di sottrarsi ai rischi, alle fatiche, alle incertezze e
lungaggini d'una genuina rivoluzione politica.
Dove per contro riesce anche oggi difficile seguire più oltre quei
rivoluzionari si è nel loro considerare decisamente più sano il
dominio straniero, più sano l'assolutismo oligarchico che non la
«canzonatura» di libertà rappresentata dal monarcato costituzionale;
poiché, secondo loro, l'assolutismo se non altro avrebbe eccitato
alla reazione e serbato le popolazioni vive e frementi e
potenzialmente almeno padrone del loro destino; laddove il
costituzionalismo, col gabellarle libere e sovrane, ne avrebbe
cloformizzati gli istinti rivoluzionari, smorzando in esse perfino
il desiderio della libertà integrale. Sí che il liberale vero
avrebbe dovuto e dovrebbe assai più impensierirsi dell'impianto di
un regime, diciamo, all'inglese, che non del prolungarsi (o
stabilirsi) d'un sistema antiliberale. Paradosso che ormai ha fatto
il suo tempo, come quello che ha condotto molti, in piena buona
fede, a farsi alleati della reazione per soverchio amore di libertà.
Ma fin che Pisacane sosteneva che la scintilla della emancipazione
italiana si sarebbe determinata non già nelle provincie nelle quali
si stava meno peggio e si godeva una maggior libertà d'azione, ma in
quelle più inermi e addormentate e oppresse, era nel vero e nel
giusto (astrazion fatta, s'intende, dall'intervento nel giuoco,
all'ultimo, di quelle soluzioni di compromesso delle quali egli,
mirando all'autoliberazione degli italiani, naturalmente non teneva
conto). E che vi fosse in questa sua opinione buona dose di
campanilismo napoletano, non importa davvero. Urgeva dunque di
render consapevoli le masse dei mali dei quali soffrivano e della
possibilità di rimuoverli. Prematuro sforzo, e in ultima analisi
nient'altro che pretesti offerti al Borbone per nuovi «giri di vite»
da praticarsi sugli infelici regnicoli, protestavano molti. Tanto di
guadagnato: pressione che in una caldaia aumenta oltre il normale,
scoppio vicino.
Chiarito l'obbiettivo della rivoluzione italiana, restava da
precisarne il come. È quel che Pisacane cercò di fare in altri due
numeri dell'Italia del Popolo (settembre-ottobre) col saggio La
scienza della guerra, mirante non solo a divulgare principii di
strategia e norme tattiche, ma a rimuovere talune delle più gravi
difficoltà contro le quali generalmente si urtavano i promotori
delle insurrezioni, giovani generosi ma per lo più inesperti.
S'aveva da tener presente l'esempio di Milano 1848? Era presto
detto: la via da seguirsi era precisamente l'opposta di quella che
allora avean scelta. Del possibile apporto di forze regolari alleate
(ossia di forze monarchiche) si facesse nessun conto; massimo conto
invece dei volontari, i quali andavano accolti con entusiasmo,
ordinati immediatamente, utilizzati al più presto, aumentati con
ogni mezzo; gli ufficiali si eleggessero dai volontari stessi,
compreso il comandante supremo; l'esercito insurrezionale fosse
mobilissimo, non tentasse — il nemico avanzando — difesa di
piazzeforti o città; evitasse con ogni cura una sorpresa a suo
danno; rifiutasse lo scontro, pur di poca importanza, ove non avesse
la preventiva certezza della vittoria; quando fosse forte abbastanza
per passare all'offensiva, proporzionasse via via gli obbiettivi
immediati al crescere della sua superiorità numerica. Monsieur de
Lapalisse? Può darsi; ma non era colpa di Pisacane se in più di
un'occasione gl'italiani insorti avevan dato prova d'ignorare, in
questa materia, lo stesso abbicí e troppo spesso d'apprezzar più la
gloria d'una scaramuccia vittoriosa o d'una posizione difesa fino
all'ultimo sangue, che non il raggiungimento dello scopo finale.
Quegli articoli fecero chiasso; e per esempio il general
Mieroslawski in persona fece a Pisacane l'onore di un'irosa
risposta, gremita di rinnovate accuse contro i disgraziati
siciliani. Ma a che pro discuter con lui?69 Comunque la fama di
Pisacane scrittore o era fatta o s'andava sicuramente facendo. Gran
peccato dunque che motivi a noi ignoti, ma facilmente intuibili
(d'idee si abbondava nella redazione dell'Italia del Popolo; non
così di danaro!) costringessero Pisacane a lasciare Losanna e il
tranquillo e operoso cenacolo mazziniano70. S'apriva un nuovo
periodo di ricerche infruttuose, di spostamenti, d'inquietudine.
Fu dapprima a Lugano, dove, per quanto non vi si trattenesse che ben
pochi giorni, «fece colpo» tra gli esuli italiani. Non era più il
capitanuccio ignoto e appartato dell'anno innanzi; era Pisacane, ex
Capo di Stato Maggiore della repubblica romana: emergeva dal gregge.
Il poeta e patriota Dall'Ongaro si era affrettato a comunicare il
suo arrivo al Tommaseo (in Corfú), definendo senz'altro Pisacane
come «l'anima e la mente di quel poco che a Roma si poté fare di
buono»71. Dall'Ongaro, è vero, era già intimo di Pisacane, che aveva
incontrato a Roma appunto; e delle sue doti di militare e di
scrittore di cose militari si professava da tempo ammiratore
entusiasta. Ma, siamo giusti, v'era di che ammirare questo nobile in
volontaria miseria, unicamente assorto, ormai, nel sogno
appassionato della emancipazione italiana. Spalle quadre, salute da
vendere, idee cristalline, era di quelli che col solo aderirvi
aggiungono credito alla causa che servono: un animatore. Bisognava
vederlo nelle discussioni! «Aveva scatti improvvisi», ci racconta il
Dall'Ongaro; «aveva collere che lo trasportavano intieramente.
Bisognava vederlo quando la conversazione s'animava e pigliava un
tono vivace, appassionato. Già, non si discuteva che della prossima
rivoluzione, delle prossime fucilate, della prossima proclamazione
della repubblica. Allora gli occhi di Pisacane scintillavano, la sua
barbetta bionda s'agitava convulsivamente e la parola gli usciva
dalle labbra calda, animata, fremente. Guai a contraddirlo!... Il
suo contradditore dinanzi a quella parola di fuoco piena di figure,
accompagnata da una mimica meridionale, espressiva, fantasiosa, era
subito costretto a ripiegare; a darsi per vinto. Chi pagava le spese
di quella turbinosa eloquenza era quasi sempre il disgraziato
tavolino intorno a cui quei colloqui tempestosi avevano luogo: il
poveretto scricchiolava da tutti i lati sotto i pugni poderosi che
ci batteva sopra il Pisacane»...
I soggetti di discussione, e magari di litigio, non mancavano certo,
pur tra colleghi in rivoluzionarismo repubblicano! Lasciamo andare
se fra tanti «giacobini» capitasse un monarchico, fra tanti liberi
pensatori un cattolico militante, fra tanti progressisti un
retrogrado; ma nel loro circolo stesso, pur progressisti,
antipapali, repubblicani tutti, erano gravissime scissioni teoriche
e pratiche. Propaganda d'azione immediata, o propaganda culturale e
spirituale a più lunga scadenza? Programma d'iniziativa italiana,
anche se isolata, o attesa d'un moto europeo, con iniziativa
prevedibilmente francese? Propaganda puramente politica o anche di
riforme sociali? Accordi con l'ambizioso Piemonte o azione
indipendente? Alleanza di tutte le forze liberali o intransigenza
repubblicana? Queste e molte altre questioni trovavan Mazzini e
Cattaneo ai poli opposti: ma se i due capi del movimento
repubblicano unitario e di quello federalista, pur seguendo ciascuno
la propria via, o non s'urtavano o, urtatisi, s'affrettavano a
scansarsi, i loro rispettivi seguaci, bizzosi sacerdoti ortodossi,
s'accapigliavano furiosissimamente, scagliandosi a vicenda accuse da
non si dire, terminando, s'intende, con lo screditarsi tutti:
sciupío d'inchiostro, fioccar d'incidenti personali, sabotaggio
delle iniziative reciproche. Chi voglia averne un'idea non ha che da
leggere I misteri repubblicani di Perego e Lavelli, maligno libello
uscito nel '51, che rimestando in quel mezzo sollevò un non più
visto vespaio. Non osava perfino il federalista Giuseppe Ferrari
scrivere a Mazzini, a lui direttamente, nell'ottobre del '50: «il
vostro sistema se lo seguite perderà il vostro onore», «la reazione
vi guadagna», «oggi il nemico vi sdegna; che domani una rivoluzione
scoppi a Parigi, accetterà subito la maschera offerta. Non capite
che allora tutti i traditori si chiameranno Mazzini?» Né è a dirsi
se le stesse divisioni non regnassero tra gli emigrati repubblicani
in Francia, ché anzi vi trovavano il terreno più adatto; tre sètte
(unitari federalisti e costituentisti), e una guerra a morte tra
loro.72
Come precisamente fra tante beghe la pensasse Pisacane non è ben
certo. Doveva molto a Mazzini, è vero, e aveva vissuto con lui in
quella intimità al cui incomparabile fascino nessuno sapeva
sottrarsi, e per lui aveva lavorato e lavorava tuttavia; ma il
soggiorno a Lugano, per quanto fugace, e la consuetudine più ancora
che col Cattaneo con gli amici di lui non poterono non ispirargli i
primi spunti di quella attitudine critica verso il «Maestro» che nei
due anni successivi egli svolse impetuosamente e quasi con ira.
Furon Mauro Macchi e De Boni, probabilmente, i colpevoli: assidui
entrambi alla Castagnola, entrambi per forma mentis, cultura,
interessi spirituali diametralmente discosti dal Mazzini il cui
misticismo inguaribile e l'apparente indifferenza pel problema
sociale a loro, positivisti e liberi pensatori, francamente
repugnavano. Da costoro Pisacane, che andava ancora alla cerca di un
credo definitivo o, diciamo, di un orientamento filosofico, attinse
comunque assai largamente.
Ma il soggiorno più formativo per lui fu senza dubbio quello di
Londra, iniziato sugli ultimi di novembre di quell'anno. Neanche a
Lugano egli avea trovato l'araba fenice della quale da tanto tempo
ormai andava vanamente in cerca, un impiego cioè; e già l'Italia del
Popolo, pur mò nata, rivelava minacciosi i segni della crisi
finanziaria che ben presto ne avrebbe spenta la voce; e sparivano i
risparmi modesti del periodo di guerra; e incombeva su lui come su
tutti gli emigrati la spada di Damocle di una possibile espulsione
dalla Svizzera. Si era risolto perciò, dopo aver consegnato a
Mazzini altri quattro articoli di critica e storia militare73, a
ritentare il viaggio oltre la Manica, d'infausta memoria per lui.
Sperava che, libero ormai nei suoi movimenti e non ignoto del tutto
e peritissimo in fatto d'ingegneria, non avrebbe stentato a
sistemarsi in un paese di grande industria. Ma se gli amici di
Mazzini lo accolsero letteralmente a braccia aperte e in mille guise
si prodigarono in suo favore, neanche lassú potè scovarsi il desiato
posto; sì che a Pisacane, confuso tra le migliaia di rifugiati
d'ogni nazione d'Europa, piombati lí perché attratti, come lui,
ancor più che dal miraggio della libertà inglese, da quello supposto
dei facili guadagni, fu giuocoforza far ancora buon viso alle solite
lezioni e ripetizioni: si sarebbe detto che agl'italiani non si
chiedesse altro, in ogni parte del globo, che lezioni e lezioni.
Miseria nera, però!
È vero che fin dall'agosto '49 funzionava a Londra, in soccorso
degli esuli indigenti, l'Italian Refugee Fund Committee, ma quanto
deboli le sue risorse, e poi come avrebbe potuto onorevolmente
ricorrervi il colonnello Pisacane, dei duchi di S. Giovanni? A
Londra gli ex combattenti italiani morivano allegramente di
fame...74
Il triste soggiorno si prolungò per Pisacane per quasi sette mesi,
fino al giugno '50; e non sappiamo neanche se gli fosse d'accanto, a
rallietargli l'esilio la sua Enrichetta.75 Ma non ci sono che
gl'intelletti miseri che attribuiscono alla miseria la pochezza
della loro vita: Pisacane non si lasciò intimidire dall'ostilità
della sorte, e bravamente si lanciò alla conquista di Londra, di
quella parte di Londra, per meglio dire, che aveva un interesse per
lui. Non capitava proprio tutti i giorni la possibilità d'incontrare
in un miglio quadrato gente della risma d'un Blanc, d'un Leroux,
d'un LedruRollin,76 d'un Cabet, d'un Dupont; né d'imbattersi, tra i
banchi del British Museum, col celebre autore del Manifesto dei
Comunisti. Chi di costoro riuscí Pisacane a avvicinare? Ahimè, non
si sa; alcuni di certo se il Macchi ci attesta che dalla viva voce
dei «capi della democrazia francese» egli apprese allora i rudimenti
delle nuove dottrine sociali. Le occasioni per frequentarli,
d'altronde, non gli dovevan mancare, ché nei salotti dei suoi nuovi
amici inglesi i socialisti erano allora alla moda ed era anche alla
moda che i democratici si riunissero in «agapi fraterne» in questa o
quella taverna, libando alle «immancabili» sorti.
Se dunque il soggiorno in Isvizzera aveva offerto a Pisacane la
possibilità di fare un nuovo passo in avanti nel superamento d'un
patriottismo troppo esclusivo e d'intuire la stretta interdipendenza
che correva tra gli avvenimenti politici dei vari Stati d'Europa, i
mesi di Londra riportarono la sua attenzione sulle relazioni
esistenti tra problemi politici e problemi sociali. Nel luogo e
nell'ambiente in cui un Marx andava studiando ed esponendo le cause
economiche dello scoppio rivoluzionario del '48, e un Ledru-Rollin
dipingeva nella sua opera sulla Decadenza dell'Inghilterra un quadro
impressionante delle condizioni del proletariato britannico; in cui
si compilavano, per seminarli poi in tutto il continente, giornali e
riviste ispirati al socialismo; in cui si formavano tra gli esuli
delle varie nazionalità clubs socialisti e comunisti; in questo
luogo e in questo ambiente Pisacane, all'indomani del '48-'49, non
poteva trascorrere sette mesi senza che il suo orientamento
spirituale ne risentisse profondamente.
È molto contrariante, in verità, che non si riesca a trovare una
sola traccia di questi contatti fra Pisacane e gli esuli democratici
di Londra. Ma quel che preme di rilevare è che, di ritorno
dall'Inghilterra, Pisacane ci appare assolutamente un altro uomo: in
un tessuto già favorevolmente disposto questo secondo viaggio in
Inghilterra ha inoculato per sempre ormai il germe della insolubile
questione sociale; e il primo effetto di questo mutato atteggiamento
fu quello di temperare i suoi ardori di rivoluzionario politico, di
cacciare nel suo animo un formidabile e inquietante punto
interrogativo al posto della baldanzosa affermazione, essere in
Italia già compiuta la rivoluzione morale, con la quale alcuni mesi
innanzi aveva concluso il suo articolo sulla Guerra italiana.
Ma perché poi, munito di un passaporto sotto mentito nome, quello di
Giacomo Stansfeld, lasciasse Londra per tornare ancora una volta a
Lugano, è un mistero. Forse una missione affidatagli da Mazzini?77
Oppure Cattaneo e Macchi o qualcun altro gli hanno trovato un
provvisorio impiego? Silenzio dei biografi: anzi Mazzini scrive che
da Londra ripartí per l'Italia e nei Cenni premessi ai suoi postumi
Saggi si legge che nel giugno '50 si trasferí dall'Inghilterra a
Genova. E non è vero.78
Eppure anche a Lugano non ha terren che lo regga, per quanto il noto
ambiente gli torni oltremodo gradito e gli amici lo accolgano come
un fratello: due, tre mesi, poi riparte e questa volta per l'odiato
Piemonte. La breve sosta è tuttavia importantissima. Pisacane
dev'essere tornato da Londra con la testa piena d'idee nuove e con
l'impressione di poter dominare da un punto di vista originale e,
almeno per i suoi compatrioti, affatto nuovo il complesso succedersi
dei recenti avvenimenti italiani.
Come scrittore militare, pur rivelando una tendenza costante a
trarre dai particolari conclusioni di carattere generale, egli ha
finora lavorato, si può dire, di dettaglio e intorno a dettagli
(anche l'ultimo suo articolo comparso nell'Italia del Popolo, nel
quale ha esposto la sua motivata avversione contro gli eserciti
permanenti, istituzione ch'egli ritiene storicamente superata e
ormai giustificabile solo in funzione e in servizio della tirannia
politica e sociale79, si lega sotto questo rapporto ai precedenti
suoi scritti). Ora tutto ciò non lo soddisfa più; sente che senza
una bussola il navigante anche provetto si perde nel vasto mare, e
che per abbracciare un ampio panorama bisogna salire in alto, dove i
particolari si fondono in linee e colori. Prima del suo viaggio a
Londra egli ha arrischiato delle previsioni politiche; ora s'accorge
che il loro valore è zero, in quanto egli ha implicitamente supposto
che le forze determinanti il domani sarebbero state le stesse che
hanno giuocato in passato. Invece — lo ha capito là fuori — quanti
nuovi elementi, interessi, dottrine, punti di vista si vanno
elaborando, dalla cui combinazione scaturirà senza dubbio un diverso
domani! Se tentasse, in base almeno a taluni di questi nuovi
elementi dei quali ha tanto inteso parlare e tanto letto in
Inghilterra, una nuova sintesi, una specie di consuntivo dell'epopea
quarantottesca? Gli pare che ora saprebbe assai meglio che non
l'anno innanzi intenderne certe deficienze e valutarne alcune
caratteristiche, oltre che avanzare più meditate e lungimiranti
previsioni sui futuri andamenti. Cattaneo, che ha pur mo' pubblicato
un suo saggio magistrale sulla rivoluzione milanese, lo incoraggia
al lavoro e lo aiuta a chiarire le idee; i suoi consigli, i dati che
egli solo può fornire, la sua fobia del generico salveranno Pisacane
dal cadere nelle astrazioni inconcludenti. L'occasione anche per
altri aspetti è magnifica: i più attendibili testimoni e attori
d'ogni importante episodio del '48-'49 sono, si può dire, tutti a
portata di mano, a Lugano o a poca distanza di lí; si può quindi
verificare ogni versione, chiarire ogni punto oscuro, costruire sul
solido; e poi utilizzare la collezione di narrazioni e documenti
raccolti per l'Archivio triennale. Al lavoro, dunque.
Si delinea così e poi d'un getto solo, diresti, si forma il primo
volume di Pisacane, La guerra combattuta in Italia nel 1848-1849,
che reca appunto la data di Lugano ottobre 1850. È un libro
appassionato e ispirato, animatissimo dalla prima all'ultima pagina,
una cosa perfettamente riuscita. La nuda militaresca concisione
della parte narrativa, la estrema vivacità dei giudizi critici,
l'originalità dell'assunto, l'equilibrato padroneggiamento della
materia, lo stile nervoso e asciutto dànno la misura del fervore da
cui è animato l'autore, della freschezza e novità delle sue
convinzioni; e insieme rivelano se non m'inganno a partito, una
nuova influenza di Cattaneo: incitatore prima ed ora giudice e
correttore severo. Ma del libro si dirà più innanzi, ché non venne
alla luce se non l'anno appresso.
Racconta il Macchi: «Molti mesi egli allora passò meco in quasi
fraterna dimestichezza con Cattaneo, con Dall'Ongaro, con De Boni80;
e presto abituatomi alla cara consuetudine della sua compagnia, non
dimenticherò mai il dolore, che sentii dentro di me il giorno in cui
ci diede addio, per raggiungere incognito quell'egregia signora, che
aveva abbandonato la primitiva famiglia, i parenti, gli agi
domestici, il paese nativo per dividere le tribolate sorti del
profugo politico».
Enrichetta dov'è? Tocchiamo qui forse il motivo dominante della
irrequietezza dimostrata da Pisacane negli ultimi tempi. La
«compagna» è materialmente e moralmente lontana, molto lontana da
lui, smarrita in un'angosciosa crisi spirituale, sulla quale solo di
recente il fortuito ritrovamento di una lettera ha gettato una prima
luce.
Genova, un piccolo albergo, il 10 di ottobre; scrive Enrichetta a
Carlo (dopo avergli narrato della sua vita solitaria, confortata di
quando in quando dalle visite di qualche amico di Pisacane e suo):
«Conforti è venuto in questo punto..., e mi ha esortato ad amarti
sempre, perché lo meriti, e ciò è pur troppo vero, e credo che ben
presto ti amerò molto, ed il giorno che avrò la risposta dalla
famiglia ti esorterò a venire in tutti i modi a vedermi... Ieri
Boldoni mi portò la tua del 7... La lessi, mi commossi molto, ma poi
sono ricaduta nell'incertezza di prima... ti prego, non farmi più
domande e né parlarmi più di questo nostro ultimo dispiacevolissimo
affare. È stata una cosa incomprensibile, e credo unica; io stessa
ne sono imbrogliata né so ben capirla... il certo si è che mi ha
cagionato solo immenso dispiacere, e molto volentieri cancellerei
dalla mia vita questi ultimi due mesi, che mi hanno fatto perdere
tutta l'illusione della superiorità ch'io supponeva avere nel mio
carattere. L'anello e i tuoi capelli una sola volta pensai di
toglierli, ma riflettendo ch'essi altro non erano che l'emblema di
dolce memoria, e come mai mi è dispiaciuto il rammentarmi del
passato, così li ho tenuti non provandone alcuna impressione. Io ho
creduto necessario, senza punto far leggere le tue lettere, dirne
qualche idea giusta che tu avevi per questo malaugurato affare, ciò
che ha indotto il tuo amico ad allontanarsi, non trovando altro
rimedio per dimenticarmi, ed io ho approvato con grande
soddisfazione, perché sicuro ci saressimo perduti entrambi,
continuando stare sì vicini. Ti confesso che per due giorni fui
dolentissima della sua partenza, ma ora la morale, la ragione, e
l'affetto che nutro per te non mi fa quasi più accorgere ch'io
avessi potuto pensare di amare un'altro...»
Si vorrebbe non credere: Enrichetta, che ha abbandonato marito e
figli per seguir Pisacane, Enrichetta, la Nightingale della
repubblica romana, la donna onorata dal Mazzini, innamorata di un
altro, dimentica d'ogni sua dignità? Dovremo dunque pensarla donna
leggera, instabile, colpevolmente volubile negli affetti?
Persuaderci che da lei Pisacane, anziché forza e serenità per la sua
dura vita, abbia attinto amarezze e delusioni?
Ma proseguiamo. «Né incolpare un solo della colpa di due, perché la
cosa più meravigliosa si è stata la prima scambievolezza... Il
ritratto che mi fai delle mie due esistenze è vero e crudele assai,
e mi ha immerso in tale stato d'incertezza da disperarmi... Ora
esaminiamo un poco. Io vorrei riunirmi a te..., ma il dispiacere di
rompere coi miei parenti è immenso, la precarietà della nostra
esistenza mi spaventa... Cosa decidere! Io non lo so... Se potresti
come tu dici divenire cittadino svizzero, allora sì che credo il
miglior partito riunirci, perché non potresti mai esserne cacciato e
difficilmente ci mancherebbe il pane. Sii più che sicuro che
qualunque cosa io scrivessi ai miei parenti essi si disgusterebbero
con me perché ora essi sono persuasi che io sia come in famiglia, e
punto dubitano ch'io potessi ricominciare a dispiacerli... Allorché
ho tue lettere vorrei venire da te, allorché ne ho da casa mia, non
vorrei più venire pensando che dispiacere ne avrebbe la povera
Mamma. Quest'incertezza mi uccide. Rileggendo il quadro che mi fai
della mia vita con te, mi deciderei di restarmi come mi trovo,
perché esso troppo mi spaventa, e sono certa che il mio naturale
s'irrita tanto della vita provvisoria da renderti troppo infelice.
Intanto se credi prudente di spendere qualche centinaio di franchi e
vorresti venire qui per meglio discutere a voce, direi non tardare
più...»
Arduo compito quello di dover ricostruire la storia di un'anima da
pochi frammenti superstiti: fosse anche a me lecito, sorvolando
sull'episodio scabroso, ripetere con Mazzini che al «santuario della
vita individuale» deve arrestarsi la curiosità del biografo! Ma in
quel santuario, ahimè, ficcò lo sguardo indiscreto la polizia, che
nel corso della perquisizione operata al domicilio di Pisacane, dopo
la sua morte, rintracciò, tra pochissime altre, la lettera di
Enrichetta, per sette anni dunque gelosamente custodita.
Quale si sia l'impressione che essa può suscitare al primo istante,
guardiamoci dall'avventar giudizi definitivi su circostanze che
restano tuttavia incerte ed oscure. Tentiamo di capire. Da qualche
accenno contenuto nella lettera stessa risulta che a Genova, in un
primo tempo, Enrichetta poteva contare sull'appoggio di un
«Achille», poi trasferitosi a Nizza, che a quanto pare era un suo
familiare, forse suo fratello. È possibile che il consiglio di
riunirsi provvisoriamente a questo suo congiunto le fosse venuto
dallo stesso Pisacane, al ritorno da Londra, e forse anche prima di
allora: che ella almeno godesse di un po' di pace finché egli non
trovasse, in un luogo o nell'altro, un'occupazione stabile.
Lunghi mesi di solitudine per Enrichetta, preghiere dei suoi perché
tronchi una buona volta la relazione con un uomo che in tre anni
d'unione non ha saputo offrirle che vita agitata e miseria;
nostalgia dei bambini lontani; venerazione per la mamma che «piange
sempre e domanda al cielo cosa ha mai fatto per esser così
punita...»; e non una casa, niente che le riempia le grigie
giornate. Questo basta per gettarla in un mare d'angoscie e di
dubbiezze. Mentre ella si trova in questo tristissimo stato, lontano
il suo Carlo e forse unicamente assorto nella stesura del suo libro,
tra quei che la frequentano, uno — il Cosenz, coetaneo e amico
d'infanzia di Pisacane — s'invaghisce di lei. Enrichetta, pur non
cessando di amare il suo Carlo, sente che una irresistibile forza la
trascina suo malgrado a ricambiar quell'affetto. È come se ella non
avesse più volontà sua; segue con la lucidità di un'allucinata il
progredir del suo male, ne fa una spietata diagnosi come se si
trattasse di un'altra persona, non sa reagire; i suoi sensi tendono
irresistibilmente verso quel nuovo tepore; la ragione, che si
ribella, crea il conflitto interiore, tormentosissimo. Leali fino
allo scrupolo, i due non nascondono all'amico lontano il loro
dramma, che è il suo dramma. Gliene descrivon le fasi con fredda
imparzialità, come se si trattasse di un problema difficile da
risolvere: che fare? Cosenz dovrebbe sposarsi di lí a poco, ma come
lo potrebbe onestamente?
Pisacane risponde: maledice, minaccia, vitupera? Macché. È
straordinaria la capacità che certi sentimentali dimostrano di
notomizzare il proprio sentimento affettando indifferenza pei
resultati che l'esame darà: Pisacane (lo s'intende dalla lettera di
lei) non scongiura neanche; probabilmente, riconosciuta la libertà
che ad Enrichetta compete di cercarsi la felicità ove meglio ella
creda, si limita alla parte del consulente. Nello stesso modo che,
italianissimo com'è, ha fatto un bilancio severo dei recenti
avvenimenti italiani, fa adesso, impassibile, il bilancio, che
potrebb'essere di liquidazione, della sua esperienza d'amore: come
se tutto ciò non fosse in carne viva... Non ha diritti, non ha
dunque pretese; ragiona solo nell'interesse di lei. Ma le cose che
dice, lui che nell'animo di Enrichetta ha imparato — ormai da dieci
anni — a leggere come in un libro aperto, son cose che aiutano lei a
veder chiaro, a distinguere, nella crisi, gli elementi puramente
sentimentali dai molt'altri di diversa natura: solitudine,
malinconia, nostalgia della casa e dei figli. Non è forse possibile
che Enrichetta abbia esagerato il suo male a forza di tormentarcisi
su? Che ingenuamente abbia veduto nel Cosenz, avvicinatosi quando la
crisi aveva raggiunto il suo apice, il deus ex machina che ne
l'avrebbe tratta fuori, quando invece nessuno fuorché il suo io
profondo avrebbe potuto placare la tempesta interiore? La risposta
di Pisacane, comunque, suona ad Enrichetta come la voce amica che la
risveglia dall'incubo. Finalmente si muove, reagisce al fatalistico
abbandono cui ha ceduto sinora, resiste alla corrente che stava
portandola via, nessuno sa perché. Cosenz è un amico provato,
capisce, si allontana. Enrichetta scrive meravigliandosi di aver
«potuto pensare di amare un altro».
La crisi è dunque superata? No, o almeno non del tutto. Tra la
famiglia che la rivuole e Pisacane che non può prometterle se non la
continuazione della vita errabonda menata fin qui (chiuse le porte
di Napoli, chiuse nel resto d'Italia, nessun punto fermo negli altri
Stati d'Europa; e la vita sempre eccitata e irrequieta del profugo)
ella esita. Sentendo fino a qual punto il suo «naturale» s'irriti
per l'instabilità e il provvisorio, condizioni nelle quali sembra
invece che Pisacane trovi il suo miglior rendimento, le vien fatto
finanche di dubitare del suo affetto per lui: lo ama davvero? Ma
allora perché la spaventa la prospettiva di tornare con lui? È un
soliloquio, sono i pensieri e i dubbi e le ipotesi che ogni persona
che ama si pone e si discute e scaccia e riprende cento volte al
giorno: è la vita dell'anima. Ma Enrichetta è troppo sincera:
trascrive queste notazioni intime, che svaporan di solito nel nulla,
su fogli di carta e le trasmette al compagno. Forse è un'abitudine
loro, di dirsi tutto, anche quello che molti non dicon neppure a se
stessi.
Lo so: sarebbe assai più edificante se dal '47 in poi Enrichetta ci
si mostrasse sempre a fianco del suo compagno, fedele, innamorata,
modesta, contenta di tutto, anche del perpetuo errare; lo so, la
crisi del '50 attesta una debolezza. Ma una macchia, ecco il punto,
non è. Prova ne sia la deferenza affettuosa che circonderà sempre
Enrichetta81, prova il perdurare della fraterna amicizia tra
Pisacane e Cosenz.
Era poi senza colpa Pisacane? Chi sa. Come tutti gli uomini cui
brucia in cuore una grande passione — per la politica, per la
scienza o per l'arte — egli aveva forse vissuto fino allora
unicamente preso da quella, travolto nel gorgo dell'attività
politica; dedicando, forse, troppo poco di sé, della sua intimità
spirituale, alla compagna, alla quale, quando l'aveva strappata alla
famiglia, egli aveva pur promessa una vita comune, nel più profondo
significato dell'espressione. Era andato in Algeria, e l'aveva
lasciata a Marsiglia; poi la ferita, la tumultuosa parentesi
dell'esilio in Svizzera, la breve permanenza in Piemonte, i mesi
febbrili di Roma, la prigionia, Ginevra, Losanna, Lugano, poi
Londra. La donna era giovane, avea bisogno d'amore, e da tre anni
anelava a un poco di felicità individuale!
Per questo appunto, perché alla donna pur alta e degna non basta
formalmente associarsi alla vita dell'amato, ma le è bisogno
irresistibile contribuire a foggiarla e insieme crearsi una vita
propria, per questo appunto i più fra gli uomini che si dicono
grandi perché hanno creato qualcosa nel mondo dello spirito, vissero
senza una donna, se pur seguiti e confortati lungo la via da
passeggeri affetti. Per questo appunto Mazzini, se amò, e amò più
volte con rara intensità, a nessuna donna mai volle consacrar la sua
vita, lui che pure serbò fino alla tomba l'accorato rimpianto di una
famiglia propria!
La crisi di Enrichetta è dunque insieme anche crisi di Carlo; c'è
della debolezza di qua, c'è dell'egoismo di là: torti reciproci. Si
era rasentato il disastro, erano corse parole, peggio che dure,
fredde, si era potuto credere che tanto amore naufragasse per sempre
nell'indifferenza. Ma la ripresa, previo abbandono immediato di un
assurdo dialogo epistolare, non poteva tardare. Minacciato
nell'unica consolante certezza della sua vita, Pisacane abbandona le
pazze idee per un tratto nutrite di adottare la cittadinanza
svizzera o di emigrare, per disperazione, fuori d'Europa e si
precipita a Genova. È l'autunno: fine d'ottobre o primi di
novembre82. Basta vedersi, parlarsi — dove, se non in un profondo
sguardo possono attingersi certe grandi certezze? — e la tempesta
pare una cosa lontana. Davvero si era potuta immaginare la vita
lontani l'uno dall'altro?
«Pisacane è tornato?» chiede Mazzini a Dall'Ongaro. No, non è
tornato e non torna. Resta vicino alla sua compagna, che ha tanto
bisogno di lui. Vuol riparare ai suoi torti. Si fisseranno a Genova,
dove egli tenterà di tutto pur di darle una casa e quel po' di
stabilità che è a lei indispensabile: «Il mio naturale s'irrita
tanto della vita provvisoria da renderti troppo infelice», aveva
scritto Enrichetta (e sarebbe bastato quel renderti, laddove ci si
sarebbe attesi un rendermi per far capire quanto ella ancora amasse
il suo Carlo!) Pisacane non lo scorderà più. Dal '50 al '57,
infatti, non si muoverà di là, da quei luoghi che avevan veduto
sfiorire e rinascere il suo unico amore: né per questo rinunzierà
affatto ai suoi ideali politici e sociali, ché anzi li andrà sempre
più affinando e approfondendo; né ai suoi amici, ché anzi li
coltiverà assiduamente; né, insomma, alla sua vita di azione; ma
tutto avrà ormai un suo centro, una sua base, un suo limite, un
punto di partenza e d'arrivo, tutto confluirà, tutto troverà ricetto
e comprensione nella casa comune.
Dalla rinnovata armonia ideale sgorgherà forza nuova per entrambi,
forza che varrà a lui per osare, a lei per comprendere, se non per
incitare.
Capitolo sesto
Primo libro
Genova formicolava allora di emigrati politici di tutte le regioni
italiane. Qualche anno più tardi una statistica ufficiale ne
censiva, tra stabiliti in città e dispersi in provincia, ben 1500!83
A Torino non minore affollamento, con questa differenza: che mentre
a Genova, sempre repubblicaneggiante e non per nulla la patria del
Mazzini, convergevano per lo più gli uomini di sinistra; nella
capitale, attirati dalle maggiori probabilità di cacciarsi in
qualche pubblico impiego, affluivano piuttosto gli elementi
temperati e costituzionaleggianti. Gran daffare e grattacapi d'ogni
genere, pel governo, questi emigrati: su cento che ne giungono
ottanta non recan con sé di che campare otto giorni. Conviene per
altro aiutarli, mostrar loro che solo il Piemonte, il quale in certo
modo rappresenta l'Italia di domani, prende interesse a loro; a
trattarli bene, c'è da convertirli tutti pian piano al regime
costituzionale e farne amici provati, checché stia per succedere,
del regno sabaudo. Bisogna per altro andar cauti per non urtare la
gelosa suscettibilità degli altri governi italiani. Eterna questione
dell'asilo ai fuorusciti: il Piemonte la risolve con molta abilità,
con molto tatto. Stanzia un sussidio annuo in pro degli emigrati
affidandolo, per la distribuzione, a un Comitato apposito, col patto
che li sorvegli e tenga in freno; spalanca le porte dell'Università
a taluni meridionali illustri nelle scienze84; rispetta il più che
può le mille iniziative di quest'accolta un po' turbolenta d'ingegni
senza patria, lascia che impiantino giornali e riviste, procura che
il censore li tormenti quanto meno è possibile; si oppone d'altra
parte alle manifestazioni collettive in genere, vorrebbe che
smorzassero tutti un poco la voce.
Se gli emigrati gli costano molto, se a volte gli suscitano grossi
guai all'interno e pericolosi incidenti diplomatici, un grandissimo
bene ne viene in ultima analisi al regno ospitale. Si può dire che
il tono della vita culturale piemontese venga rinnovato, sveltito,
sprovincializzato dal contatto con questa «intelligenza» italiana.
Il brio, la prontezza, la versatilità degl'ingegni meridionali ad
esempio (e solo di napoletani e siciliani ve n'erano presso che un
migliaio) esercita senza dubbio la più benefica influenza sul
massiccio, grave, qualche volta un po' tardo temperamento dei
pedemontani. La stampa di Torino, di Genova diventa in pochi anni,
non senza merito loro, strumento agilissimo, vivace, battagliero di
lotta politica; l'insegnamento superiore acquista in modernità e
spregiudicatezza; la letteratura politica in profondità varietà e
abbondanza. Talune nuove correnti ideali vengono addirittura
importate e propagate per opera quasi esclusiva di emigrati, molti
dei quali, viaggiando sovente e tenendo con l'estero assidua
corrispondenza, contribuiscono a far del Piemonte, assai più che non
fosse, una provincia d'Europa.
Grandi vantaggi politici, poi: nessuno ignora oggi fino a qual punto
gli statisti piemontesi — Cavour in ispecie85 — si valessero della
loro intrinsechezza con alcuni emigrati non soltanto per averne, in
merito alle cose italiane, informazioni precise, spunti e
suggerimenti, magari anche leali critiche; non soltanto per
allacciare quei discreti rapporti con circoli fiorentini, romani,
napoletani, che più tardi si sarebbero rivelati d'inestimabile
importanza; ma anche per usarli come ballons d'essai, lasciando
stampare a loro, sul conto degli altri Stati italiani, certe cose
che al Piemonte comodava fossero dette senza troppo rischio per sé.
E finalmente non era merito in parte dei rifugiati politici se il
Piemonte tra il '50 e il '59 diventò agli occhi d'Europa un modello
di quel che avrebbe potuto essere e sarebbe stato bene che fosse
l'Italia, una volta distrutte le anacronistiche sue divisioni?
Ma il gruppo repubblicano di Genova dava più preoccupazioni che
altro. È vero che senza quello e il suo continuo agitarsi sarebbe
riuscito difficile persuadere l'incredula diplomazia che in
tutt'Italia ribolliva un pericoloso scontento, in tutt'Italia,
salvo, s'intende, in Piemonte; ma non osavano quegli scalmanati o
molti tra loro sostenere l'identità sostanziale tra i vari governi
italiani, ponendo nel mazzo, tra quelli che si sarebbero dovuti un
dí rovesciare, anche il governo sardo, e non si credevan lecito di
mescolarsi nella politica interna del regno, in combutta con gli
oppositori d'estrema?
In questo ambiente, autunno del '50, capita Pisacane. Ex ufficiale
nell'esercito sardo, dimissionario alla vigilia della guerra per
passare alla difesa di Roma, intrinseco di Mazzini, braccio destro
di Avezzana, repubblicano dichiarato, egli non è precisamente, in
Genova, un ospite desiderato. E infatti l'autorità locale, alla di
lui richiesta appoggiata da un ragguardevole cittadino per ottenere
un permesso di soggiorno, risponde un «no» tondo, motivandolo col
fatto che «la diplomazia dà avvisi di prossimi movimenti
insurrezionali». «Che bestia!», commenta Pisacane, che di quel no
s'infischia perché sa che con un po' d'accortezza e molta
ostinazione potrà benissimo restarsene dov'è, più o meno
celatamente. Gli è che Pisacane non è venuto in Liguria unicamente
per godersi le bellezze della riviera e le grazie della sua donna:
anche di questo sono informate le autorità, bestie perciò fino ad un
certo punto. Piani insurrezionali (che comprendono la stessa Genova)
non cessano d'imbastirsi tra le file dei mazziniani, facenti capo
allora a un'Associazione Nazionale che Mazzini, su mandato di alcuni
rappresentanti del popolo, ha fondato a Roma dopo caduta la
repubblica, e poi diffuso in tutt'Italia86. Sospette perciò le
amicizie, sospetti i rapporti che Pisacane riallaccia con ufficiali
dell'esercito sardo, poco chiara fin dal principio la sua attività.
Che mai vuol dire Mazzini quando, nello stesso novembre '50, scrive
a Dall'Ongaro: «le basi di Pisacane sono giuste. Ma v'è già
un'embrione d'organizzazione militare per legioni in alcuni punti,
che può benissimo concordare»; o ad altri: «un po' di pazienza
ancora per l'organizzazione militare. Stiamo intendendoci coi nostri
militari di Genova, amici di Pisacane, per un insieme di
disposizioni»? Nessuno lo sa meglio del governo sardo: Mazzini e
Pisacane s'adoperano per costituire quel Comitato militare (ben
presto entrato in funzione, con Pisacane stesso e Giacomo Medici
alla testa) che nel movimento repubblicano dovrà agire come uno
Stato Maggiore generale, incaricato di studiare dal punto di vista
militare eventuali piani insurrezionali, di apprestare i necessari
armamenti, di afferrare in caso di tempesta scatenata la barra del
timone87.
Il progetto di una spedizione armata nel Sud, a sostegno di nuclei
sediziosi supposti in procinto di levarsi nell'una o nell'altra
provincia, ma più probabilmente in Sicilia, incomincia già a
delinearsi88. Ben presto un nutrito carteggio tra i mazziniani di
Londra, di Svizzera, di Genova, di Malta, di Napoli e Sicilia avrà
per oggetto sempre più definito questa impresa, a capitanare la
quale i più designeranno Garibaldi, allora imbarcato su bastimenti
mercantili nei mari d'America.
Troppo logico che di queste trasparentissime trame e della parte che
ad esse prendeva Pisacane il governo di Torino si mostrasse per lo
meno uggito. Tanto più che coincidevano con la clamorosa campagna
propagandistica iniziata dai repubblicani pel lancio del prestito
mazziniano dei dieci milioni. Questa campagna non fruttava, è vero,
i grandiosi proventi da costoro sperati, ma era sintomatico il
numero delle piccole sottoscrizioni, attestanti la diffusa
popolarità nel Piemonte
monarchico del programma e dei metodi di Giuseppe Mazzini. Facile e
sotto certi rapporti opportuno sarebbe stato proibir la vendita
delle cartelle, ma bisognava pur differenziarsi dall'Austria che nel
Lombardo Veneto s'andava coprendo d'infamia agli occhi degl'italiani
comminando ed applicando pene severissime contro quanti le
detenessero. A malincuore perciò il governo sardo si adattò a
tollerare la manifestazione repubblicana, di che la stampa
conservatrice non cessò dal maravigliarsi e muover proteste.
Pisacane esultava: «Il prestito cammina a gonfie vele, i biglietti
si negoziano pubblicamente...; tutti ne abbiamo presi; e gli
emigrati più poveri si associano e prendono un biglietto ogni
quattro o cinque persone».89
Per quanto seccato dai parenti di Enrichetta (con i quali pendevano
probabilmente meschine vicende d'interessi), e urtato dalle
incertezze cui lo condannava «il governo di questa Cina», Pisacane a
Genova si trovava benissimo: finanziariamente non c'era nulla di
nuovo, ma il gran daffare politico e la vicinanza di quasi tutti i
suoi amici lo mettevano in vena. Erano là, degli antichi compagni
della Nunziatella, oltre a Cosenz, i due Mezzacapo, Carrano e
Boldoni; tra i meridionali di sua conoscenza Conforti, Jovene,
Carbonelli, De Lieto, gli Orlando, Pilo; e la gente incontrata a
Milano, a Roma, fuori d'Italia; venne Macchi, conobbe Acerbi e
Napoleone Ferrari, rivide Bertani, Bixio, Medici, Cadolini, Quadrio,
Cenni, Sacchi, Gorini.90
Nello stesso novembre '50 erano giunte a Genova, per trattenervisi
tutto l'inverno, le due sorelle Emilia Hawkes e Matilde Biggs, nate
Ashurst, che Pisacane aveva frequentate durante il soggiorno di
Londra: intelligenti entrambe, intime di Mazzini; Matilde aveva con
sé le due sue bambine. Enrichetta ne divenne amicissima, e si
mantenne in attiva corrispondenza con loro anche quando tornarono a
Londra. («Elizabetta et Carolina mandano i loro amori anche alla
signora Enrichetta», scriveva ad esempio nel '52, nel suo goffo
italiano, alludendo alle figlie, Matilde Biggs).
Luogo di convegno per loro e per molti altri repubblicani genovesi o
emigrati era la casa della madre di Mazzini, che nel vedersi
d'intorno tutti quegli amici del figlio, nell'ascoltare le loro
confidenze e aver parte nelle loro discussioni, nel consegnare o
ricever da loro le novità e le istruzioni politiche da e per Londra
(dov'egli intanto era tornato), si confortava nella solitaria
vecchiezza, quasi illudendosi d'averlo un poco con sé, questo
figliuolo che pur non tornando da vent'anni nella sua casa sognava
sempre di finire la vita, a Italia rinata, solo con lei e alcuni
libri, in qualche romito luogo di campagna! Non di rado, fin quando,
invocando il figliuolo, la povera donna morí (nell'agosto '52),
Pisacane e la sua compagna varcaron quella soglia91. «Ricordatemi a
lei e ditele ch'io non la scordo e non la scorderò», così Mazzini
alla madre il 7 agosto '51, riferendosi a Enrichetta; e la madre,
dieci giorni più tardi, a Emilia Hawkes: «Ho dato la vostra
letterina alla signora Enrichetta che è buona sempre con me e mi
visita». L'amicizia devota durò, s'è detto, fino alla morte di Maria
Mazzini; seppur fu meno intensa negli ultimi mesi in conseguenza
forse dei dissapori che principiavano a manifestarsi tra Pisacane e
Mazzini. Il tono è un po' mutato, certo, quando il 24 febbraio '52
Maria Mazzini scrive all'Emilia: «Finora non diedi alla Delorenzi la
vostra pap(eletta) non vedendola che di rado ed ignorando la sua
abitazione, ma l'avrà». Nel giugno, comunque, l'epistolario
mazziniano nuovamente menziona frequenti visite di Enrichetta alla
«Scià Maria».
Altro luogo di ritrovo, le redazioni dei giornali e giornaletti di
sinistra, che a Genova non scarseggiavan davvero: a principiare
dall'Italia e Popolo, quotidiano ufficiale del mazzinianismo, il
quale, preso di mira (e ce n'era di che!) dal censore, mise insieme
in pochi anni la più ricca collezione di sequestri che mai giornale
subisse; per seguitar con la Maga, la Libertà, la Libertà e
Associazione, la Bandiera del Popolo, il Lavoro, l'Italia libera,
l'Amico del povero, l'Associazione.92 Poi le riunioni consuete nei
centri d'emigrazione, dove attorno ai migliori o più ricchi o più
dotti si affollavano gli oscuri e i meno anziani. Forse fu anche
Pisacane di quella congrega di giovani che scriveva Macchi a
Cattaneo il 13 maggio '52 — si radunavano «in certa casa tre volte
la settimana» per far lettura della nuovamente uscita e ostica
Filosofia della Rivoluzione del Ferrari, i più colti ingegnandosi
«di far comprendere i più scabri insegnamenti anche ai meno esperti
nelle filosofiche discipline».
Progrediva intanto, nella ritrovata serenità familiare, anche la
stesura della Guerra combattuta. Il 23 gennaio del '51 Pisacane
poteva spedire a Cattaneo parte del manoscritto, con preghiera di
dargliene un giudizio. Il che Cattaneo fece sui primi d'aprile con
assoluta franchezza; e Pisacane:
«Vi sono gratissimo della marca d'amicizia che mi date, nell'avermi
precisato dei fatti sul mio manoscritto; è questa una cosa che io
desideravo moltissimo e che apprezzo immensamente»93. Uguale favore
gli fecero il Macchi e il Dall'Ongaro; Dall'Ongaro anzi riguardò
tutto il lavoro dal lato stilistico, quello che era sempre stato il
tallone d'Achille di Pisacane. Ultimo e cospicuo recensore il
Mazzini, che pur lodando il «bel libro», non risparmiò censure e
consigli di soppressioni e revisioni.
Si trattava adesso di trovar l'editore: ed era tutt'altro che facile
per un'opera informata a principii repubblicani e antipiemontesi. A
pubblicarla in Piemonte c'era il pericolo d'un sequestro, aggiunto a
rinnovate persecuzioni pel suo autore; e questi preferiva evitarle.
Ma le ricerche condotte a Lugano dagli amici di là restaron vane: il
Daelli n'avea poca voglia. Pisacane s'era lusingato che il libro
potesse contribuire a restaurare le sue scosse finanze; ma sì! Se
volle concludere gli toccò rinunciare a cavarne un quattrino94; e
allora si profferí per stamparlo il Moretti di Genova, tipografo
dell'Italia e Popolo, contribuendo alle spese Nicola Ardoino, ex
colonnello di Pisacane in Piemonte ed ora giornalista repubblicano.
L'intesa fu che ad ogni buon conto, prima di metter fuori il volume,
se ne sarebbero spedite alquante copie in luogo sicuro.
L'autore figurava residente a Lugano; e infatti quando il 6 di
luglio l'Italia e Popolo dette l'annunzio della pubblicazione
imminente e il «programma» dell'opera, questo, a firma di Pisacane,
recava la data: Lugano, 1° giugno 185195. Come programma, o
soffietto, era abbastanza polemico:
«Le baionette straniere non hanno distrutto una Rivoluzione, ciò
sarebbe stato impossibile, ma hanno vinto gli sforzi di qualche
individuo. Far risaltare tutti i punti in cui questa verità rifulge
chiarissima è uno degli scopi principali della presente operetta».
Mazzini, appena lo ebbe letto, si affrettò a scrivere a Genova per
esprimere il timore che il libro di Pisacane non avesse a ridestar
«vespai e discussioni, dove il paese non lo richiede»96.
Messo in vendita sui primi d'agosto, esso suscitò infatti
straordinario scalpore. Pisacane aveva previsto le furie della
censura; gli si scatenarono addosso invece quelle, impreviste e
moralmente assai sgradite, degli stessi repubblicani! L'Italia e
Popolo dell'agosto non ci conserva che due documenti di quella
indiavolata polemica: una lettera di Nino Bixio, del 1897, per
rettificare in qualche punto la narrazione dell'episodio del 30
aprile '49 a Roma; e la seguente dichiarazione di Pisacane, del 22:
«Avendo per iscopo, nella narrazione dei fatti, la ricerca del vero
(l'autore) sarà gratissimo a tutti coloro i quali faranno rilevare
le inesattezze del libro per mezzo dei giornali; scorsi tre mesi
dalla pubblicazione dell'opera verrà pubblicato un supplemento, il
quale contenga tutte le giuste rettifiche, e così la narrazione
acquisterà pregio, come quella discussa al tribunale della pubblica
opinione». Dichiarazione che era di per sé sufficiente a fare
intendere quanto avesse avuto ragione Mazzini nel prevedere il
ridestarsi di incresciosi vespai. Altra lettera — privata questa —
di Bixio, da Torino, 20 agosto: «Ho veduto un amico che viene da
Genova, e mi dice che alcuni a Genova pensano di scrivere contro
Pisacane per rivendicare non so cosa a Garibaldi. Secondo me
(scriveva il futuro generale garibaldino) se Pisacane ha un torto, è
quello di aver detto poco. Quali sono i fatti che vogliono mostrarci
perché adoriamo un genio di convenzione? Siamo al tempo degli idoli?
Fatti ci vogliono, e non ciarle. Garibaldi può avere delle buone
qualità, ma quelle di un generale non certo». Condotta su questo
terreno — ha detto male di Garibaldi! — la polemica s'inviperí. La
dichiarazione di Pisacane non parve sufficiente. Seguirono incidenti
personali, violente diatribe. Il direttore dell'Italia e Popolo,
Remorino, che proprio in quei giorni lasciava l'ufficio e che pure
era stato fino allora nei migliori termini con Pisacane, lo
provocava addirittura a duello! Dallo scontro Pisacane usciva
lievemente ferito. E forse a questo primo duello altri sarebbero
seguiti senza l'energica intromissione di alcuni amici98.
Il 3 di settembre l'Italia e Popolo pubblicava una risentitissima
lettera di alcuni emigrati siculo-calabresi — tra i quali Fardella,
Calvino, Natoli — contro certi passi della Guerra combattuta
relativi al contegno degl'insorti siciliani nel 184899. Lo stesso
mese Macchi informava Cattaneo:
«L'istoria del Pisacane è abbastanza diffusa ma anche contr'essa si
sta condensando l'ira dei Garibaldini numerosi e potenti nella
Liguria»100.
Insomma un successone di pubblicità, ma ben pochi consensi: Pisacane
aveva urtato un po' tutti. Mazzini, in una lettera del 22 settembre,
riecheggiava un'opinione diffusa scrivendo: «... mi duole che, col
nemico in faccia, italiani abbiano a sciabolarsi fra di loro.
Pisacane è buonissimo... Ma egli pecca nella via che prende, come
molti di quei che scrivono. Oggi noi dobbiamo considerarci tutti
come soldati d'un esercito davanti al nemico: intenti a preparar
forze ed accordo per la battaglia. Può esserci dovere di scrivere
contro un individuo, se si crede che quell'individuo possa esser
chiamato a diriger le cose e possa per incapacità o malafede
rovinarle; ma ogni linea che vada più là, ogni linea inutile, ogni
linea che dicendo anche la verità dica una verità non importante per
la causa, è cagione di discordia e reazione nei ranghi, è una colpa.
Pisacane ha moltissime di queste colpe. Non parlo affatto
dell'aplomb col quale ei dichiara il governo di Roma aver mancato
d'energia e d'idee, benché sia male lo spargere scetticismo sugli
uomini capaci ancora di fare un po' di bene e che i padroni perciò
appunto vorrebbero minare, ma delle linee che hanno suscitato questo
subbuglio tra i Siciliani e lui. Probabilmente, sono linee avventate
ed ingiuste; ma quando anche esse nol fossero, era utile scriverle?
Credeva questo, ei dirà; ed è debito mio di pagar tributo alla
verità. Dico, che l'Italia non ha alcuna necessità di avere storici
in oggi, ma grande di avere combattenti. Non si tradisce, tacendo,
il vero. E la mia questione è oggi, se importi scriver tutto».
Parole sacrosante in un certo senso, vuote di significato in un
altro. Può mai dirsi infatti che un paese non abbia bisogno di
«storici», quando gli storici sian uomini che credono d'aver
ravvisato nei fatti presi in esame errori gravi o personali o
collettivi i quali, se non considerati e perciò ripetuti, possono
condurre a disastri avvenire? Quanto poi alla opportunità di tacere
alcune volte il vero, la difficoltà sta per l'appunto nello
stabilire queste occasioni. Non venne mosso, forse, l'identico
rimprovero di parlare secondo coscienza ma contro ogni opportunità
politica, al Mazzini quando, alcuni mesi più tardi, vergò parole
roventi contro la democrazia socialista di Francia?
Certo che nel suo libro Pisacane non aveva avuto il menomo riguardo
per chicchessia; lasciatosi andare sull'invitante piano inclinato
delle «stroncature», lo avea percorso tutto senza freni di sorta,
diresti quasi con voluttà; nel rilevare le deficienze di questo o di
quello raramente aveva sentito il bisogno di rammentarne insieme le
benemerenze; è anche vero che qua e là aveva un po' troppo posato a
giudice severo e imparziale di avvenimenti cui, non senza suscitar
moltissime critiche, aveva egli stesso partecipato. Andò a finire
che la modestia da lui dimostrata nel non accennare mai una sola
volta in tutto il libro all'opera da lui compiuta nel '48-'49 (tanto
più apprezzabile quanto più in contrasto col suo congenito
egocentrismo) parve — e non era davvero — una colpa di più.
È assai probabile che Pisacane ricavasse non poca amarezza
dall'accoglienza che la critica e il pubblico avean riservata al suo
libro; e ciò non tanto perché quasi nessuno lo avesse riconosciuto
per quel che dopo tutto e nonostante tutto esso era, un bel libro
cioè, solidamente costruito, vigorosamente scritto, personalissimo,
d'una cristallina chiarezza, e comunque assai superiore a molti
altri che sullo stesso argomento avevan visto la luce («forse la
miglior scrittura di guerra allora pubblicata» lo giudicò l'Oriani);
ma perché, pronti tutti a pizzicarlo su qualche inesattezza, su
qualche giudizio affrettato, nessuno davvero avesse mostrato
d'intendere la ragione, l'idea profonda, lo scopo del libro. Con la
Guerra combattuta egli si era proposto infatti di dare la
dimostrazione storica della intrinseca insufficienza della
rivoluzione italiana.
Molto semplice il ragionamento da lui svolto: inutile accapigliarsi
sulle responsabilità del «fiasco» del '48-'49; le colpe individuali,
importanti per altro verso, non spiegano nulla a questo proposito;
la rivoluzione è fatalmente fallita perché, dipendendo il suo
successo dall'attiva cooperazione del popolo italiano, si è dato
invece che il popolo o non mostrasse alcun interesse a promuovere
questo successo, o, una volta ottenutolo, a rassodarlo. Lo spunto
che ha indotto alla rivolta antidispotica — il principio nazionale
cioè — era sì abbastanza diffuso e popolare in Italia innanzi il
'48, e diffuso vi era il disagio per la dominazione straniera e
tirannica. Ma quasi ovunque s'era creduto dagli utopisti e dagli
stessi individui o gruppi che conducevan la battaglia che gli
italiani si sarebbero mossi non per altro che per assicurare il
trionfo delle loro idealità; non si era inteso invece che ogni ceto
sociale vi avrebbe preso interesse solo in quanto gli fosse dato
intravedere, come conseguenza necessaria di quell'astratto
trionfo, vantaggi tangibili e di essenziale importanza101. È vero
che in alcuni casi quegli individui e gruppi, stimando di non potere
da soli fronteggiare le forze organizzate dalla reazione, si erano
una buona volta decisi a sollecitare l'appoggio delle masse,
promettendo loro, in compenso di un'attiva collaborazione, che le
novità politiche cui si mirava avrebbero portato a un automatico e
radicale miglioramento delle loro condizioni sociali; ma non appena
ottenuto il successo e cacciate le vecchie oligarchie, quale
atteggiamento avevano assunto i nuovi governi insediatisi al loro
posto? Si eran forse preoccupati di alimentare il consenso dei più?
Di scavare un abisso incolmabile tra l'ieri e l'oggi mercè ardite
riforme sociali? Di creare d'urgenza una rete quanto più larga
possibile d'interessi conservatori? Neanche per sogno: espressione
d'idealità e d'interessi borghesi, essi non d'altro s'eran curati
che di soddisfare e quelle e questi e di consolidare le loro
posizioni. E perciò non soltanto avevano lasciato che l'ingenuo
calore delle masse s'intiepidisse, ma si erano affannosamente
adoperati a questo scopo. Sí che, rinfrancatesi in seguito le forze
reazionarie e passate alla controffensiva, gli uomini dei così detti
regimi liberali si erano trovati naturalmente isolati o presso che
tali nella disperata difesa del nuovo ordine di cose; del quale
isolamento, con incoscienza incredibile, avevano poi osato stupirsi
e non cessavano ancora di rammaricarsi. I disastri del '49 non
avevano dunque aperto gli occhi a nessuno? Non si era ancora inteso
l'equivoco che aveva determinato così sproporzionate illusioni,
prima, ed ora causava così irragionevoli scoraggiamenti?
Gli egoismi di classe avevano soffocata la rivoluzione italiana;
questa era la chiave dell'enigma; questo, seppure in altri termini
ma con altrettanta chiarezza, diceva la Guerra combattuta; ed era
pensiero acuto e fortissimo, cui ben pochi prima di Pisacane erano
giunti, e nessuno aveva espresso così incisivamente; pensiero ben
degno di venire apprezzato e svolto, almeno per quel tanto di vero
che esso conteneva accanto a evidenti semplicismi e inaccettabili
generalizzazioni. La rivoluzione italiana usciva dal suo processo
con una sentenza d'immaturità: trovandosi concordi nel deprecare i
mali del dispotismo e dell'asservimento straniero, gl'italiani
avevano infatti compiuta la fase negativa della loro liberazione; ma
non erano né risoluti né concordi nel determinare quel che si
sarebbe dovuto sostituire ai regimi condannati e ancora concepivano
miticamente l'indomani post-rivoluzionario, esponendosi così
infallibilmente a nuove delusioni, a nuovi bruschi risvegli. Forse
che il problema era proprio quello di stabilire se si dovesse mirare
a repubblica o a monarchia, a federazione o a unità? No, si trattava
di stabilire qualcosa d'importanza incomparabilmente maggiore: su
quali interessi dovesse poggiare il nuovo edificio, su quali
contributi s'avesse a contare per la sua costruzione, quali
resistenze bisognasse prepararsi a travolgere. Il ragionamento di
Pisacane si faceva qui stringente e inflessibile, per giungere a una
conclusione d'uno sconcertante radicalismo. Si voleva proprio far
l'Italia nazione? Sbaragliare per sempre le innumerevoli forze
d'opposizione? Ebbene, occorreva perciò che la stragrande
maggioranza degli italiani partecipasse davvero alla lotta; ma
l'esperienza del '48-'49 insegnava che questo fenomeno non si
sarebbe assolutamente verificato se il fin qui ristretto programma
nazionale non si fosse arricchito di qualche grande ideaforza capace
di scuoter le fibre delle masse proletarie, ed anzi impostato
addirittura su di essa e in vista della sua realizzazione. Tale
idea-forza non poteva essere ormai che la rivoluzione sociale;
urgeva proclamarne la bellezza e l'utilità e dar opera per bandirla
e promuoverla, non già come complemento della rivoluzione politica,
sibbene come sua giustificazione e «spiegamento». Ci si persuadesse
insomma che la rigenerazione d'Italia non si sarebbe verificata se
non in quanto le abusate espressioni di giustizia, di libertà,
d'autogoverno fossero venute finalmente a significare giustizia per
tutti, libertà per tutti, autogoverno del popolo e non d'una
minoranza privilegiata. E infatti che mai poteva al «popolo»
importare che in Lombardia ad esempio cessasse la dominazione
austriaca se, sparita quella, ne principiasse un'altra, nazionale o
no, a eternizzare la sua servitú?
Era considerare il problema italiano sotto un punto di vista di
stupefacente modernità. Si poteva non accettare l'ottimismo un po'
superficiale del socialismo pisacaniano (si vedrà in seguito che non
era soltanto suo), ci si poteva maravigliare che egli lo postulasse,
almeno apparentemente, solo in funzione e in servizio della
questione italiana, si potevano discutere e magari rifiutare molte
sue valutazioni assiomatiche; avrebbe dovuto, comunque, riuscir
difficile, dopo la pubblicazione del suo libro e di qualche altro
che seguí dappresso, continuare in certe impostazioni confusionarie
del nostro problema politico, volte a risuscitare tal quale
l'equivoco quarantottista e con esso, seppur sotto altra forma, le
amare sorprese del '49. Difficile? Ma non è forse eccezionale il
caso, tra noi, che uno scritto politico, di qualsivoglia importanza,
abbia esercitato un'effettiva influenza e lasciato un'impronta non
cancellabile nella vita reale? I libri in Italia si leggono dagli
studiosi e questi non contano nulla nel giuoco delle forze attive.
La Guerra combattuta non sfuggí a questa sorte: chi l'ebbe tra mano
prese infatti passione (s'è visto) ai pettegolezzi che ne
derivarono, lodò più o meno lo stile ecc. ecc.; ma le «proposte»
fatte da Pisacane alla classe politica italiana, importanti e nuove,
caddero miseramente nel vuoto. Del che, è vero, qualche colpa aveva
anche il suo autore; il quale, accingendosi ad esporre un pensiero
così inusato e aggressivo, lo aveva sin dalle prime pagine
presentato ai lettori nella sua formulazione più intransigente
dogmatica ed estrema. Si sarebbe detto che non gli bastasse la
pazienza a condurli pian piano, per via deduttiva, ad afferrarne la
logica derivazione da premesse accettabili e quindi, se non la
convenienza, la ragionevolezza.
Né si vuol lamentare con questo che non si sia davvero, in quegli
anni, fatto propaganda per la rivoluzione sociale; scartando questo,
che era in qualche modo il «programma massimo» della Guerra
combattuta, se ne sarebbe potuto estrarre pur sempre almeno una
indicazione di metodo, di praticità immediata. Studiare a fondo cioè
le condizioni della vita italiana nelle diverse regioni e nei
diversi strati sociali sì da chiarire, in base ai resultati
dell'indagine, tre cose importanti: 1) i moventi dell'adesione di
taluni ceti al movimento nazionale italiano; 2) le ragioni effettive
della indifferenza d'altri ceti — costituenti la grande maggioranza
della popolazione — di fronte al movimento stesso; 3) a quali
interessi e a quali ideali dovesse il programma nazionale d'ora
innanzi ispirarsi per poter guadagnare le solidarietà sufficienti ad
assicurarne il trionfo.
Il programma massimo di Pisacane non si presentava in fondo che come
la discutibilissima soluzione da lui proposta al terzo paragrafo:
non era difficile intravederne di più equilibrate; ad ogni modo
l'invito implicito ai partiti italiani per una maggiore concretezza
avrebbe potuto venir raccolto con sicuro beneficio di tutti. E
invece la minoranza repubblicana seguitò a trascurare affatto nella
sua propaganda il fattore sociale, seguitò — per quanto il suo
organo massimo, l'Italia e Popolo, mostrasse talvolta d'intendere
certe necessità nuove — a eccitare alla lotta e ai sacrifici per la
patria operai e signori, preti e soldati, proletari e impiegati,
tutti con un solo programma che, quando non era generico e miope al
punto da non vedere un palmo più in là dell'attimo rivoluzionario,
rispecchiava naturalmente le premesse, gli interessi e le
aspirazioni di un ceto ristretto di politicanti smaniosi di «dar
l'assalto alla diligenza», beninteso nella convinzione sincera
d'imbarcarvi poi tutti quanti. E proprio in quel torno di tempo,
tutti quelli che nel campo politico non eran repubblicani arrabbiati
principiarono ad ammetter la possibilità di una soluzione limitata
della questione italiana che rispondesse alle sole esigenze
d'indipendenza e di progressiva unificazione, rassegnandosi a
relegare in sottordine e anzi abbandonando in anticipo il terzo
comma fino allora considerato, la libertà cioè, e ripudiando una
volta per sempre i mezzi rivoluzionari, ossia la conquista profonda
di quei beni. Col delegare a un forte potere costituito (il
Piemonte) la direzione tecnica e l'accollo dei lavori e i rischi del
rivolgimento italiano, i patrioti rinunciavan, s'intende, a
controllarne l'esecuzione e si rendeva così possibile di differire a
cose fatte (non mai, certo, l'evitare per sempre) quell'esame delle
forze di sostegno e di attrito del nuovo edificio, cui Pisacane
scrittore riteneva indispensabile l'accingersi preventivamente.
E qui un dubbio affiora: che sarebbe avvenuto se le sinistre
avessero adottato programmi e metodi del socialismo rivoluzionario?
Si sarebbe raggiunta ugualmente l'unità d'Italia, e in qual modo, e
con maggiore o minore sollecitudine?
Assai ragionevolmente lo storiografo si guarda dalla fascinante
attrazione dei se, che dal reale lo condurrebbero al fantastico;
eppure non di rado accade che il cedere con accorta prudenza al
richiamo di un se spinga — per il solo fatto del domandarsi perché
mai una certa alternativa non si sia verificata — a meglio
profondare lo sguardo nel groviglio di circostanze dalle quali
derivò la inevitabile necessità di un determinato corso di eventi.
La propaganda di un pugno d'idealisti per la formazione dell'unità
italiana ebbe successo per uno straordinario complesso di
circostanze favorevoli; ma fondamentalmente perché collimò col
beninteso interesse della nuova borghesia in ogni regione della
penisola, avida di spazio, di liberi traffici, di largo mercato,
insofferente della rigidezza dei vecchi sistemi, che ostinatamente
le negavano ogni valore politico, ansiosa dell'avvento di un regime
nuovo, che promettesse di formarsi a imagine sua, al suo servizio,
adeguato e soggetto alle sue necessità e alle sue indispensabili
esigenze di sviluppo; di un regime il cui nerbo e le cui forze
fossero costituiti appunto da essa borghesia, i cui posti di comando
fossero spettati a uomini suoi; del quale insomma le toccassero i
benefici e gli utili.
Orbene, s'andasse dinanzi a questa gente ad agitare il vessillo
della emancipazione del proletariato, della rivoluzione sociale. Si
provasse a dir loro che i benefici della grande operazione
andrebbero divisi con i nullatenenti; che nel nuovo regime il troppo
si falcidierebbe per sovvenire al poco; che alla divisione degli
utili futuri delle aziende parteciperebbero anche gli operai; che le
imposte sarebbero progressive sul reddito e magari una porzione
cospicua dell'asse ereditario verrebbe confiscata a beneficio della
collettività; si provasse a suscitare agitazioni nei nascenti centri
operai o a metter su i contadini (figuriamoci poi a far propaganda
seria di comunismo). Effetto immediato e sicuro, tanto più generale
quanto più larga e fortunata si dimostrasse la seminagione del
sonoro principio dell'uguaglianza sociale, sarebbe stata la
contrazione del patriottismo borghese, l'affermarsi in sua vece di
un diffuso conservatorismo attaccato alla salvaguardia dei regimi
assolutisti, per principio e per intima necessità contrari a ogni
esperienza di rinnovamento sociale. Pochi idealisti disinteressati
(oppure politicanti spiantati, sicuri comunque di far fortuna nel
nuovo regime) non sarebbero bastati allora davvero a vincere le
innumeri forze che si opponevano al compimento della rivoluzione
italiana. Quale, per contro, avrebbe potuto essere il contributo
popolare? In verità, ipotetico alquanto e, nella migliore delle
ipotesi, a ben remota scadenza (non bastarono trent'anni, dopo il
'60, a far, non dirò del socialismo, ma del movimento operaio una
cosa seria tra noi!) E poi in qual modo si sarebbe potuta svolgere
una intensa propaganda sociale nelle masse, tale da trasformare la
loro inerte disperazione in attività autoemancipatrice, durando i
regimi antiliberali? Possibile determinare un vasto movimento, con
quegli esigui mezzi dei quali disponevano gli uomini di sinistra e
che si rivelavano miseramente insufficienti anche ai fini di una
limitata propaganda su una minoranza già pronta e ben disposta?
L'assioma secondo il quale lo sviluppo delle libertà sociali segue e
non precede l'acquisto delle più elementari almeno tra le libertà
politiche non ha, ch'io mi sappia, sofferto smentite mai.
D'altronde cosa predicare alle masse, i cui bisogni e le cui
aspirazioni si presentavan da noi così diversi e quasi in
opposizione reciproca da regione a regione? Rivoluzione sociale era
un termine troppo generico. Ma a parte questo, supposto anzi che si
potesse nell'Italia del '50 lanciare un'efficace propaganda
socialistica, non era forse chiaro che essa avrebbe accentuato
l'indifferenza del «popolo» per un problema, appetto a quello
sociale, tanto formale e di secondaria importanza come quello delle
istituzioni e delle etichette politiche?
Era dunque in preda a una ben strana illusione chi credeva che
suscitando nel bel mezzo della lotta politica la fiamma dell'odio di
classe, si sarebbe aggiunto sangue e vigore alla lotta; chi credeva
che il mito socialista proposto a un proletariato analfabeta e di
tipo prettamente preindustriale avrebbe giovato, sollecitandone le
immense energie vergini, al partito o ai partiti che in un risveglio
degli italiani ponevano la condizione di un effettivo rinnovamento
politico. Esso in realtà avrebbe avvantaggiate unicamente le forze
reazionarie, mentre l'idea italiana, stretta fra i due opposti
fuochi del socialismo e del conservatorismo ad oltranza, sarebbe
miseramente perita. Invero l'ipotesi che il nostro risorgimento non
si sarebbe verificato se non con l'alleanza di tutte le forze
interessate a mutar stato (ossia sotto una bandiera che promettesse
benefici essenziali a ciascuna di esse) rivelò la sua acutezza più
tardi e per l'appunto proprio quando il raggiungimento dell'unità
italiana, frutto degli sforzi e concretizzazione degli ideali di una
modesta minoranza, parve segnarne il constatato fallimento.
Necessariamente fallita nella contingenza, essa trionfava cioè in un
senso più assoluto, in quanto passava a costituire la pietra di
paragone delle gravi evidenti deficienze proprie a un grande
risultato raggiunto con minimi mezzi. Dal '60 in poi avrebbe dovuto
essa ispirare la politica italiana: s'era tirato su, in fretta e
furia, l'edificio; ora, perché non precipitasse addosso
agl'italiani, bisognava rifarlo tenendo presente quell'idea che
giustamente s'era dovuta scartare, un tempo, per considerazioni
d'opportunità, ma che restava ciò nondimeno impeccabilmente e
incontrastabilmente vera.
Capitolo settimo
Piemonte socialista
Pisacane fu il primo che tentasse di spiegare con motivi
prevalentemente economico-sociali l'insuccesso del biennio
rivoluzionario italiano. Esagererebbe per altro l'importanza della
Guerra combattuta chi la definisse perciò come un riuscito saggio di
applicazione integrale del materialismo storico: geniale
anticipazione, sì, ma troppo generica. Siamo alle soglie del
socialismo scientifico. Pisacane dimostra infatti nel suo libro più
fede che dottrina, più capacità d'intuizione che forza vera di
ragionamento; è il neofita entusiasta che scrive, non
l'argomentatore preciso e convincente che ha approfondito il suo
credo e sa misurarne la portata e i limiti. Se la Guerra combattuta
ha, in terreno italiano, tutto il valore e l'originalità d'una
scoperta, questa scoperta attende insomma o dal suo autore o da
altri sistemazione e sfruttamento adeguati.
Comunque è una pietra miliare nella storia del pensiero socialista
italiano.
Un socialista, nel Piemonte del '51? Stando alle versioni fin qui
accreditate della storia italiana recente, questo accostamento fa
addirittura trasecolare. Che anche Ferrari s'atteggiasse a
socialista in quel tempo, si sapeva; ma si osservava che a forza di
stare in Francia e di bazzicare i Proudhon e i Leroux egli si era
del tutto infranciosato. Vene socialistoidi si erano notate, è vero,
negli scritti del Franchi, ma chi pigliava sul serio questo prete
spretato, buttatosi ai più spregiudicati estremismi e a molte altre
stranezze, per poi tornare, vecchio pentito e contrito, in grembo a
santa madre chiesa?
Pisacane, dunque, isolato precursore e profeta del socialismo, unico
veggente in terra di ciechi: questa per l'appunto la leggenda che si
è accreditata fin qui. Tanto che quando si son volute stabilire le
sue fonti, identificare le suggestioni alle quali soggiacque, si son
fatti i soliti nomi dei socialisti francesi, i soliti nomi di
Ferrari e di Franchi. Cose viste, da lui, in fatto di
associazionismo operaio? Molte, ma tutte fuori d'Italia.
Si direbbe che a quel tempo, nel nostro paese, il problema del
lavoro non esistesse neanche.
Se tutto ciò fosse esatto, se Pisacane avesse cioè parlato, nel
Piemonte, nell'Italia del '51, un linguaggio nuovo e inaudito, la
controprova dovrebbe trovarsi nella stampa contemporanea. Figurarsi
se giornali e riviste di destra non avrebbero solennemente
condannato il novissimo eretico e quei di sinistra non avrebbero
segnalato, lodandola o no, l'audacia del suo scritto!
La controprova, invece, fallisce in pieno. La Guerra combattuta fece
sì, come s'è visto, un gran chiasso, ma solo in quanto la
maggioranza dei suoi lettori non restò affatto persuasa dei giudizi
perentori azzardati dall'autore sulla pretesa competenza di questo o
quel generale, sull'accortezza di questa o quella manovra guerresca,
e cose del genere. Poco scalpore, niente scandalo, per contro,
provocò il dichiarato socialismo di Pisacane. Gli è che di
socialismo e di questione sociale, nel Piemonte del '51,
contrariamente al supposto, si discorreva non dirò neanche spesso,
ma quotidianamente102; che i problemi operai v'erano all'ordine del
giorno; che Pisacane socialista non faceva che ricomporre, elevare a
sistema, portare alle estreme conclusioni motivi ideali e stati
d'animo assai largamente diffusi nell'ambiente medesimo nel quale
viveva. Non era, insomma, quel tale solitario navigatore per mari
inesplorati voluto dagli ignoranti biografi: quel mare formicolava
di vascelli — più o meno rapidi e moderni del suo — mossi dallo
stesso vento, diretti alla sua stessa meta. Ma forse è necessario,
per ristabilire il vero, distaccare per un poco lo sguardo dal
vascello di punta.
Che il problema sociale destasse allora in Piemonte l'interesse più
fervido (e, se si vuole, il più «interessato») appare chiaro a chi
scorra giornali e riviste del tempo.
Tutta suggestione di Francia, tutti riflessi degli esperimenti
quarantotteschi al di là delle Alpi, tutta influenza dei socialisti
stranieri amici dei democratici nostrani? No. Che la stampa
piemontese calcasse le orme della maggior sorella oltremontana non è
dubbio, così strette son sempre state ed erano anche allora le
relazioni culturali tra le due vicine nazioni; che la rivoluzione
parigina del '48 avesse esaltato e terrorizzato l'Europa intera, e
quindi il piccolo Piemonte, è ugualmente sicuro. Ma non per questo
si deve ritenere che il rigoglio di idee intorno al problema sociale
e di esperienze pratiche nel campo della organizzazione del lavoro
manifestatosi in Piemonte nel decennio anteriore al '60 sia
nient'altro che frutto d'importazione. Questo bisogno, che appare
quasi improvviso e come portato di subitanea esplosione negli uomini
colti piemontesi dopo il '49, di rivedere le basi della società e
negli operai di migliorare la propria sorte, non si è in realtà
verificato d'un tratto, ma preesisteva da lungo tempo. Solo che non
ebbe la possibilità di manifestarsi alla luce del sole, di
svilupparsi e di lasciar traccia di sé nella stampa se non dopo la
concessione dello Statuto, che garantiva la libertà di associazione,
di riunione, di parola e di stampa; o meglio, se non dopo il '49,
quando cioè, male o bene terminata la duplice guerra con le sue
conseguenze inevitabili di limitazione della lotta e delle libertà
politiche, al Piemonte fu dato finalmente applicare, e ai piemontesi
godere, le benefiche concessioni dello Statuto.
Frutto spontaneo, dunque, condotto a rapida maturazione del regime
liberale pur mò inaugurato, non è detto per questo che l'intenso
interesse per la questione sociale manifestatosi in Piemonte dopo il
'49 non abbia ricevuto fortissimo impulso dagli avvenimenti del
biennio precedente: tutti i grandi sconvolgimenti politici recano in
sé la radice di successivi perturbamenti sociali; e non è a dire se
le guerre e le insurrezioni e le divisioni stesse provocate
nell'ambiente sociale italiano dal vario atteggiamento di ceti e
gerarchie dinanzi alla crisi del '48-'49, e il generale
impoverimento del paese, non abbian prodotto un profondo turbamento
dell'equilibrio sociale e anche, come suole accadere, quella certa
inquietudine degli strati più bassi della società, che si manifesta
nella morbosa ansietà di migliorare il proprio stato economico e
nell'allentamento del rigido criterio gerarchico.
Nel biennio rivoluzionario si era parlato un po' dappertutto di
socialismo e di questione sociale; e le rivendicazioni del
proletariato, più o meno generiche, più o meno spontanee, erano
affiorate un po' dappertutto, in qualche luogo assumendo perfino un
aperto carattere sedizioso.
Il fenomeno, anzi, aveva cominciato a manifestarsi fino dal 1847,
vuoi in conseguenza del generale risveglio delle minoranze
liberaleggianti e della avvenuta concessione, in qualche Stato, di
alcune riforme; vuoi in conseguenza della carestia determinatasi
ovunque per via degli scarsi raccolti del '46103. Rivendicazioni,
meglio che del « proletariato», della povera gente; indistinta
volontà di miglioramento che proruppe qua e là in agitazioni senza
speranza e senza scopo preciso, nelle quali sarebbe vana fatica
voler oggi distinguere la parte giocata dalle frazioni operaie o dai
dispersi artigiani o dai braccianti agricoli. Quando i giornali
conservatori alludevano a questi moti e al rivelarsi di questi
torbidi desideri, li battezzavano piuttosto comunisti che
socialisti, e giustamente del resto ne additavano il carattere e i
limiti in un diffuso risentimento contro le classi ricche e in una
sommaria protesta contro l'ordinamento della proprietà. Moti di
questo genere si verificarono in Toscana, in Lombardia, in Romagna
nei primi mesi del '47, e non furon pochi tra i liberali quelli che,
notandone la contemporaneità e il naturale effetto di stringere i
timorosi ceti possidenti ai governi conservatori, vollero vedervi lo
zampino, oltre che del partito retrivo, del suo grande ispiratore e
sostegno: lo zampino dell'Austria104.
Di socialismo, inteso generalmente nel senso di riforme sociali più
o meno radicali da ottenersi con mezzi legali, inserite nel quadro
della auspicata generale riforma politica, cominciavano invece a
discorrere gli uomini colti, le teste calde del partito avanzato.
Carlo Marx, da Colonia, inneggiava ai principii professati dall'Alba
di Firenze105. Né l'Alba era sola a slanciarsi per quella via:
allentata la stretta della censura, la parola magica — socialismo —
e l'interesse non dirò predominante ma certo di primo piano —
problema sociale — erano affiorati spontaneamente e automaticamente
nella Toscana del '47, nell'identico modo che si sarebbe verificato
nel Piemonte del '49. Chi voglia saperne di più non ha che da
sfogliare la Rivista di Firenze, il Popolano, l'Italia, il
Conciliatore, il Nazionale, giornali e riviste che si stamparono in
Firenze o Livorno nel corso del 1847.
Con l'anno successivo naturalmente la propaganda socialista andò
intensificandosi in tutta Italia. Bagliori di comunismo si ebbero in
Puglia nella prima metà del '48, quando — sancita la Costituzione —
nella plebe rurale delle Due Sicilie si sparse la mirifica credenza
che Costituzione significasse, su per giú, distribuzione delle terre
ai lavoratori; e apostoli del comunismo si misero a girar le
campagne, incitando i contadini a invader senz'altro demani e
latifondi (terrore delle classi possidenti dalle cui stesse fila son
pure usciti molti di coloro che hanno spinto alle riforme politiche;
diffuse nostalgie di restaurazione del regime assolutista!) Dalla
propaganda è breve il passo all'azione: in tutto il Regno si
moltiplicarono gli episodi di occupazione di terre comunali106.
Nelle città, agitazioni consimili: a Napoli, ad esempio, mentre i
fogli democratici profittavano della breve parentesi costituzionale
per invocare e discutere ampie riforme sociali, i tipografi
dichiaravan lo sciopero, i sarti organizzavano clamorose
dimostrazioni di protesta contro il trattamento economico (aprile);
a Cava e a Salerno si registravano movimenti fra i tessili.
A Roma e in provincia eran quotidiane, quasi, le dimostrazioni
popolari contro la gente ricca.
A Firenze e in tutta la Toscana s'intensificavano le polemiche
giornalistiche e le discussioni nei circoli politici intorno al
problema sociale e al socialismo. Notoriamente mentiva il Guerrazzi
quando, sia pure a fin di bene, dichiarava al Consiglio generale, il
14 ottobre, che «il popolo nostro ignora perfino i nomi di comunismo
e di socialismo». A sbugiardarlo stavano le agitazioni dei facchini
e tipografi verificatesi a Firenze proprio nel marzo e la grande
dimostrazione dei disoccupati del luglio107. Ma la menzogna non era
sintomatica?
Neanche le Legazioni eran rimaste immuni dal contagio: c'era a
Bologna un giornale dal titolo significativo — Il Povero — il quale
svolgeva una così intensa propaganda socialista che ad esso si volle
da molti imputare il poco patriottico contegno tenuto da una
minoranza del popolino della città nell'agosto del '48. Idee
socialistoidi venivano nel contempo diffuse dai circoli democratici
di Modena, Ravenna, Faenza, oltre che di Bologna medesima.
Socialismo in Lombardia: dove, tra il marzo e il luglio del '48,
assai se ne discorse, un po' per naturale conseguenza della
rivoluzione di popolo108, un po' anche per opera d'interessati
agenti della monarchia sarda o, peggio, dell'Austria, postulandosi
l'equazione: repubblica = avvento del socialismo. Il Lombardo ad
esempio svolse, nella sua breve vita, aperta propaganda classista; e
L'Operaio, professantesi «egualitario», si pose a dar consigli di
associazionismo autonomo ai lavoratori109. Nell'Italia del Popolo,
che pure evitò sempre gli accenni alla questione sociale, si poteva
leggere, il 25 luglio, a conclusione d'una serie di articoli
dedicati a illustrare la tristissima sorte del proletariato
agricolo, la seguente sentenza: «... noi siamo ingiusti quando
chiediamo ad essi (ai contadini cioè) sacrifici per la patria che
conoscono tanto matrigna». E infatti i contadini dell'alta Lombardia
che, come è noto, contrastarono passivamente le operazioni
dell'esercito sardo, andavan borbottando, e qualche volta dissero
forte che «il regno dei signori» (i patrioti antiaustriaci) era
ormai tramontato per sempre110. Ai primi d'aprile, a Milano, si
verificarono, scriveva un giornale,
«attruppamenti» d'operai reclamanti un aumento di paga. Nel maggio,
i tipografi si misero in agitazione per protestare contro l'adozione
di un nuovo tipo di macchina; poco dopo fu la volta dei lavoranti
sarti.
Socialismo in Piemonte: dove Il giornale degli operai (Torino) si
fece banditore di animose rivendicazioni sociali, e in Parlamento
una sonora fischiata del pubblico accolse il rigetto, da parte della
maggioranza, della proposta instaurazione d'una imposta unica
progressiva sul reddito; a Genova, il 4 d'aprile, scoppiò
violentissimo lo sciopero dei facchini e quello dei carrozzieri,
protestanti contro l'introduzione degli omnibus; il giorno appresso
quello dei tipografi. Nel maggiogiugno, si ebbe minaccia di
sciopero, a Torino, da parte di lavoranti sarti e calzolai. Le
tendenze comuniste nella capitale sabauda erano così accentuate che
scrittori liberali mostrarono perfino di nutrire serie
preoccupazioni per l'avvenire di Torino industriale! A Genova nel
novembre un oratore popolare si permise di fare aperta propaganda
classista; nel marzo '48 qualcuno presentò al Parlamento una
petizione richiedente addirittura che «in nome dell'eguaglianza»,
«le sostanze e i beni si dividessero fra tutti i cittadini»111.
Socialismo in senso molto impreciso della parola? Generica
espressione di malcontento, chiassate e niente altro? Sia pure.
Certo è però che la borghesia italiana cominciò ad aver familiarità
con i due «spettri» del socialismo e del comunismo proprio in questo
periodo di tempo, e che da allora in poi i suoi portavoce non
cessarono più dal dilatarne minacciosamente le proporzioni e i
possibili effetti, o al contrario dall'ostentare calorose simpatie
socialiste, a seconda che si orientavano verso un conservatorismo ad
oltranza, deliberato a tutto pur di distogliere gli italiani
dall'impresa dell'indipendenza, o verso un liberalismo di sinistra,
ansioso d'interessare in qualche modo le masse all'edificazione
dell'auspicato Stato unitario.
Esempi di artificioso ingigantimento del pericolo socialista non
difettano davvero, anche a volersi fermare al 1849. La repubblica
romana, la sua assemblea, i suoi ministri e i suoi triumviri sono
senz'altro socialisti sfegatati per i fogli clerico-reazionari;
taluni dei quali non esitano a dichiarare che quell'assoluta
dedizione di sé alla patria in pericolo, richiesta da Mazzini ai
romani, non ad altro tende che a instaurare «nella teoria e nella
pratica il comunismo». Sacrosanta perciò la «crociata» francese: «La
Francia che combatte contro Roma — scrive, solenne, Il Saggiatore,
torinese, 15 giugno '49 — è il diritto che fa guerra al socialismo
di cui il santuario di Vesta... è divenuto centro e sinagoga».
Fioccano risposte furenti di quelli fra i difensori di Roma che
prendono sul serio le aberrazioni dell'estrema destra: «Qui non
siamo, l'ho detto sovente, né socialisti, né comunisti, né
montagnardi; noi siamo italiani e repubblicani», prorompe Cernuschi
nell'Assemblea romana, il 2 di luglio; e il Torre: «... noi fummo
trattati da discepoli di Proudhon e di Cabet. Né ci duole che così
la pensassero i diplomatici e gli uomini del francese governo... Ma
ci stupisce assai che scrittori italiani e costituzionali non
vergognassero di ripetere così stolte accuse».
Il fine propostosi dai clerico-reazionari con questo ricatto del
comunismo, che da allora in poi è diventato d'uso frequente, era ben
chiaro: dimostrare ai Principi italiani e ai loro governi che fuor
del più rigido ossequio alla volontà della Chiesa non c'era rimedio
possibile alle crescenti pazze pretese dei rivoluzionari. Dal che,
con agile passo, l'occhio volto alla liberale politica sarda, si
veniva a dimostrare come e qualmente le confische di beni
ecclesiastici, operate dai governi rivoluzionari e accennate da
quello di Torino, rientrassero senz'altro negli abominevoli confini
del «comunismo».
Pio IX, ufficialmente e privatamente, non parlava che di socialismo
e comunismo! Aveva principiato nel '46 (9 novembre), con l'enciclica
Qui pluribus; riprese il 20 aprile '49 con l'allocuzione Quibus,
quantisque lamentando il diffondersi ovunque del «luttuoso e orrendo
sistema del socialismo ed anche del comunismo»; l'8 dicembre '49
fulminò contro le perverse dottrine una furibonda scomunica: i
difensori della repubblica romana, vi si leggeva, non avrebbero
avuto altro scopo che quello «di spingere i popoli... a rovesciare
ogni ordine sociale, e al tempo stesso condurli ad abbracciare i
nefandi sistemi del nuovo socialismo e comunismo». E anche: «I
maestri tutti, sia del Comunismo che del Socialismo... si sono
riuniti in un comune disegno, ed è quello di agitare con perpetue
commozioni gli operai, ed altri uomini, specialmente delle ultime
classi, dopo averli sedotti con le loro menzogne, e illusi con le
promesse di una più felice condizione, e addestrarli a poco a poco
ad altri più gravi delitti, affinché in seguito possano servirsi
dell'opera loro per combattere il governo di qualunque siasi
autorità superiore, per derubare, saccheggiare e invadere, prima le
proprietà della Chiesa, poi di qualunque altro, e per violare infine
tutti i diritti umani e divini»...112
Calato il sipario sulle disgraziate esperienze del '48-'49, rimessa
ovunque la cappa di piombo della censura a soffocare le intemperanze
degli intellettuali, le polizie provvedendo a rintuzzare per conto
loro, energicamente, le pericolose tendenze della classe operaia, il
solo Piemonte, s'è detto, raccolse in qualche modo l'eredità
spirituale del biennio.
Il movimento di associazione operaia, intanto, fu incoraggiato,
laddove non mostrasse di perseguire larvati scopi politici. Prima
del '48 in tutto il regno non esistevano che 12 Società operaie di
mutuo soccorso: nel '59 esse ammontavano a 134. Importante passo
innanzi, queste Società principiarono fin dal 1851 ad allacciare
rapporti fra di loro e a discutere la possibilità di una
federazione.113 Nel '53 si riunirono in Congresso e fu da allora in
poi, anno per anno, una serie ininterrotta di Congressi (il 3° a
Genova, 1855) sempre più affollati, preziose occasioni per uno
scambio d'idee tra i più intelligenti operai e i democratici
borghesi che dirigevano il movimento: né è a dirsi se e quanto le
discussioni in merito a problemi del lavoro iniziate nei Congressi
trovassero seguito ed eco nella stampa del tempo.114
Accanto alle Società operaie, le cooperative di consumo e di
produzione; e in seno ad esse una marcata tendenza a esorbitare dai
fini del mutuo soccorso per sfociare, da un verso, nella politica,
dall'altro, nelle agitazioni economiche e negli scioperi.
Il movimento era più intenso e turbolento a Genova, dove Pisacane
risiedeva. Non resulta che egli se ne occupasse personalmente, ma
certo ne seguiva lo sviluppo e ne ricavò suggestioni per i suoi
scritti (nei Saggi ad esempio additò qual sintomo «del nuovo
giorno... la tendenza delle moltitudini all'associazione»). È noto
infatti che le relazioni fra l'ambiente democratico repubblicano di
Genova e la locale classe operaia si mantenevano assai strette e
cordiali.
Povero egli stesso e costretto a un mal retribuito lavoro, la dura
sorte del proletariato piemontese non poteva non impressionarlo
dolorosamente: salari di fame e per alcune industrie notevolmente
ribassati in confronto al decennio precedente; né sempre corrisposti
interamente in moneta, ma con un supposto equivalente in natura, a
tutto vantaggio degl'imprenditori; orari di lavoro abbrutenti,
inesistente legislazione protettiva del lavoro115. Le agitazioni e i
disordini si succedevano senza posa.
Nel '49 erano i vellutai di Zoagli che, richiedendo aumenti di
salario e cessazione appunto del pagamento dei salari in natura,
davan grossi fastidi alle autorità; sui primi di maggio del '50
erano i vignaiuoli di Cassolo Lomellina che clamorosamente
protestavano contro i licenziamenti arbitrari: seguivano incendi,
invio di truppe, arresti; nel '51 la polizia genovese segnalava
ufficialmente la «diffusione di massime socialistiche» a mezzo delle
associazioni in quella classe operaia; nell'ottobre '55, a Torino,
gli operai sarti si mettevano in isciopero; nel gennaio '56, in
tutto il Piemonte, si tennero foltissime adunate popolari per
protestar contro le tasse e sollecitare l'istituzione della famosa
imposta unica progressiva sul reddito. Nel novembre del medesimo
anno gli operai sarti di Genova, in un memoriale presentato ai loro
principali, chiedevano (ma non ottenevano): aumento nella mercede,
pagamento dei salari in moneta, orario di lavoro di... 11 ore!116
Sembrerebbe già abbastanza; ma non ho scelto e citato, tra i molti,
che qualche episodio più caratteristico, atto a documentare il
progressivo destarsi di una coscienza di classe nel proletariato
subalpino.
Accanto a questa «prassi», e in parte come conseguenza di essa, come
caloroso il corrispondente interesse o la corrispondente
preoccupazione dei ceti borghesi per la questione sociale!117
Si prenda un giornale liberale, il torinese Risorgimento (Cavour,
Balbo, Castelli, Ricotti) e si osservi quanto assidua e zelante sia
la vigilanza — non saprei come meglio definirla — che esso,
fin dai suoi primi numeri, esercita sull'avanzarsi del socialismo. I
suoi articoli in materia sembrano addirittura bollettini di guerra
di un esercito assediato!118 Se già nel '48 il Risorgimento ha
ritenuto possibile un'ondata socialista in Italia come conseguenza
degli avvenimenti francesi, dal '50 in poi questa preoccupazione
diventa un'idea fissa: non una parola, non una mossa dei socialisti
di Francia sfuggono ai suoi redattori, ogni accenno a socialismo
vero o supposto che possa constatarsi in Piemonte vien da costoro
denunciato d'urgenza; la nuova barbarie, pretendono, sarebbe lí lí
per sommerger l'Europa! Piú combatte il nemico, più s'adopra a
gonfiarne l'importanza e il pericolo, e più, s'intende, il
Risorgimento contribuisce senza volerlo a fargli réclame.119 «Non
passa giorno — si legge nel numero del 29 gennaio '50 — senza che ci
alletti l'occhio e l'orecchio qualche massima sociale» sospetta; o
non s'intende dai democratici che «ai dí nostri l'attuazione di una
tale idea (il socialismo cioè) avrebbe per inevitabile conseguenza
il ritorno al principio del governo assoluto»? (8 febbraio). E il 12
marzo: «La parola socialismo... è una parola che scotta; poté essere
innocente e nobile nel suo primitivo senso, ma i piccoli Considérant
e Proudhon dei nostri dintorni, scherzando troppo sopra certe
materie, finiranno per fare scoccare il grilletto di un'arma che
poco conoscono». A giornaletti piemontesi di provincia che «fanno il
Leroux ed il Proudhon del loro circondario» fa la predica il 20
d'aprile anche il Torelli (che ha preso a stampare nell'appendice
del Risorgimento, sotto lo pseudonimo di Ciro D'Arco, una
vivacissima serie di lettere sulla questione sociale), lamentando il
progredire di certe tendenze «in un paese finora immune dalla
tempesta socialista».
Quali erano questi scapestrati fratelli minori del Risorgimento?
Vediamone uno, Il Carroccio, di Casale, diretto dal Mellana.
Discorre a tutto pasto di socialismo, è vero, e non nasconde la sua
viva simpatia per esso, e spesso e volentieri riproduce articoli
socialistoidi dalla stampa francese; giusto è osservare per altro
che si trattava d'un socialismo all'acqua di rose, tutto riforme e
progressive conquiste, niente miracoli, niente violenze. Che
importa? Il 31 luglio '50 Il Carroccio vien sottoposto a processo,
nientedimeno che sotto l'accusa di bandire le dottrine socialiste
(nel caso, qual legge ne aveva mai proibito la diffusione?) Alla
udienza, naturalmente, è un gran battagliare sull'idra malefica e le
sue varie tendenze. «Non ignoro qual pericolo si corra non solo
quando si prende la difesa del socialismo, ma anche quando se ne
parla con qualche moderazione...», esordisce uno dei difensori, il
Sineo. L'altro (il Rattazzi) nobilmente rivendica il rispetto dovuto
alla libertà di stampa, anche quando essa venga utilizzata per
divulgar dottrine contrarie al diritto di proprietà; sempreché non
si tenda a tradurle in atto con mezzi illegali.
Nel deliberare l'assoluzione del giornale incriminato, tra gli
applausi del pubblico, i giurati di Casale seguon l'esempio dei loro
colleghi di Alessandria, che pochi giorni innanzi in un processo
identico hanno mandato assolto L'Avvenire, altro foglio d'estrema
sinistra. Il Carroccio s'affretta a render conto ai lettori del
riportato trionfo, malignamente garantendo all'autorità giudiziaria
che «i socialisti loro sapranno buon grado della cura che si
prendono di far conoscere e propagare le dottrine loro». Piú
malinconica la moderata Concordia (Valerio, Correnti): «Il pubblico
ministero ieri ha tessuto la storia del socialismo, ed ha così
insegnato le più tristi teorie al nostro popolo che le ignorava
affatto...»
Mutiamo ambiente: sfogliamo un giornale clerico-reazionario, Lo
Smascheratore, di Torino, che ha giurato eterna guerra alla
democrazia e alle sue «inevitabili» degenerazioni socialiste. Il 18
maggio '49 esso gravemente c'informa che «tanta parte dei colti
operai della città» è dichiaratamente socialista; il 27 giugno
addita ai moderati, ciechi e sordi, il «rovinoso torrente del
comunismo», che avanza; tre giorni appresso li previene esser
l'attuale trionfo del radicalismo preludio «alle brutali
triturazioni del socialismo, del comunismo». Non mancano, s'intende,
né il ricatto sul «turpe comunismo» considerato quale inevitabile
effetto dell'attenuarsi della fede cattolica, né l'indiretto e
involontario incitamento all'odio antiborghese («Bel sovrano — il
popolo — che una volta era libero sotto nome di schiavo; oggi è
schiavo sotto il nome di libero!» — 12 novembre), tutti consueti
elementi della propaganda clerico-reazionaria. Di tanto in tanto,
invece, qualche azzeccata punta contro le pose della borghesia
democratica: «In questi ultimi anni — scrive ad esempio il 21
febbraio '50 — la parola d'ordine, lo specifico per far fortuna si è
la tenerezza per il popolo che si ha sempre fra le labbra»; e il 1°
di giugno: pare impossibile che non si possan più scrivere due righe
«senza levarsi il cappello a monsú il Popolo».
Il Risorgimento, Il Carroccio, Lo Smascheratore sono esempi tipici
dell'appassionato fervore sociale che animava in quegli anni le
diverse frazioni della borghesia colta piemontese. Ma quanti altri
giornali implicati nella grande polemica si potrebbero citare!
Filosocialista è la torinese Gazzetta del Popolo (Borella, Bottero,
Govean), avanguardia della democrazia radicale; filosocialista La
Fratellanza di Cuneo (ecco forse un altro di quegli imprudenti
giornaletti di provincia, ai quali accennava Il Risorgimento), che
nel marzo 1850 dichiara non essere le libertà politiche se non
«crudele ironia pei molti che soffrono». Nel gennaio 1850 inizia le
sue pubblicazioni a Torino L'Universitario, il cui programma reca,
oltre l'impegno di dedicarsi al «miglioramento di condizione delle
povere classi», un grido di «guerra agli abusi ed a' privilegi». La
Voce del deserto, torinese anche essa e diretta dal Brofferio, fa
aperta professione di socialismo: ne I Mietitori, ad esempio,
poesiola stampata l'8 settembre, mentre si lamentano le crude
disuguaglianze sociali («qua si agonizza di fame e sete — là si
singhiozza di sazietà»), è stigmatizzata l'assurda pretesa che molti
hanno di trovare sinceri affetti di patria in «chi suol non ha»; un
articolo del 24 novembre risolutamente afferma («a costo di sentirci
a chiamare socialisti») notarsi nell'ordine sociale «capitalissimi
vizi da riformare» se si voglia davvero «ricondurre l'Europa a
riposate condizioni». Lo stesso giornale mazziniano Italia e Popolo,
di Genova, che pur riceve da Londra istruzioni antisocialiste,
abbonda nel senso contrario, come dimostra il canto allo Sciesa
dovuto a «un operaio» e pubblicato il 19 agosto 1851, come dimostra
un articolo dell'11 settembre 1851 in suffragio della tesi, diciamo
così, pisacaniana, secondo la quale non vi sarà vera rivoluzione
nazionale se non accompagnata da una rivoluzione sociale.120 Accenni
filosocialisti del resto non eran mancati, nel 1850, nella stessa
Italia del popolo, la rivista mazziniana cui Pisacane aveva
collaborato e che, stampata in Isvizzera, aveva forte diffusione in
Piemonte.
Qualche anno più tardi, e precisamente nel '54, Tommaso Villa,
direttore di un quotidiano torinese d'intonazione mazziniana (il
Goffredo Mameli, giornale della gioventú italiana) si buscava un
rabbuffo da Mazzini in persona per aver stampato, il 21 dicembre,
l'articolo poco ortodosso Un pò di socialismo.
Vi erano poi i giornali prettamente operai: e a sincerarsi
dell'immensa suggestione esercitata in quel tempo dal socialismo il
lettore non ha che da sfogliare le brevi collezioni del Proletario,
Torino; L'Uguaglianza, Torino; Il giornale degli operai, Torino; o
dei giornaletti genovesi L'amico del povero; Il lavoro; La Bandiera
del popolo; L'Associazione; La libertà e associazione (lodato da
Pisacane nei Saggi), stampati tutti fra il '50 e il '55.
Nel 1853 esce a Torino il settimanale L'Imparziale, che propugna una
sorta di socialismo legalitario da attuarsi attraverso una grande
organizzazione di credito popolare e la moltiplicazione delle
associazioni operaie. Due anni appresso è la volta di un importante
quotidiano dedicato al popolo, La Speranza: esso apertamente
propugna La necessità dello sviluppo del socialismo nelle classi
operaie, reca articoli a firma «un operaio socialista», incoraggia
il libero associazionismo dei lavoratori, afferma non essere più
concepibile un rivolgimento politico che non adduca al popolo «un
vantaggio materiale, un miglioramento nella sua condizione
d'esistenza». È troppo naturale che un così fatto giornale incappi
ben presto nei rigori della giustizia: 20 settembre '55, primo
sequestro per un articolo I ricchi ed i poveri; nelle sei settimane
successive altri cinque sequestri! Ma i redattori non attenuano il
loro linguaggio, si ridono anzi di «chi si abbandona a stolide paure
e grida al fuoco, ai ladri, ogni volta che intende pronunciare nome
di popolo, di miseria, di problemi sociali»; mettono in luce
l'internazionalità della causa della emancipazione operaia, e — a
buon intenditor... - dicono chiaro che «la servitú delle classi
laboriose è più dura ed umiliante in patria libera che in patria
serva».
La Speranza rappresenta in certo modo L'Avanti! degli operai
piemontesi, tre quarti di secolo or sono. Né manca l'organo di
cultura, La critica sociale di quei tempi, destinato
all'intellettualità filosocialista: è questo La Ragione che Ausonio
Franchi fonda a Torino il 21 ottobre del 1854 (collaboratori De
Boni, Ricciardi, Macchi, Ferrari, Levi e vari stranieri; dapprima
quindicinale, poi settimanale, e finalmente quotidiano). La Ragione
aderisce al socialismo riformista sul terreno economico, come al
repubblicanesimo in politica, e al libero pensiero in materia
religiosa. In nessun altro giornale il quadro delle inique
disuguaglianze sociali è tracciato con più vivezza e misura; in
nessun altro la prolungata discussione sul problema sociale (cui
prendon parte, cortesemente ospitati, anche semplici operai) è più
proficua ed equilibrata; gente fattiva e di cultura, questi della
Ragione, che agiscono all'infuori di qualsiasi partigiano interesse.
«Dunque gridiamo anche noi unità e indipendenza, e nasca quel che
vuol nascere (si legge nel numero del 15 dicembre '55); dal giorno
in cui l'aborrito straniero non calpesterà più la sacra terra
italiana, siamo certi sparirà la miseria e la corruzione che ci
rodono... e le lodole cadranno dal cielo belle e arrostite... Ma
della vostra libertà che ci lascia morir di fame... io me ne rido.
Siamo stanchi di tante ludificazioni di libertà... In breve, più che
la tirannia straniera, più che lo smembramento della famiglia
italiana, ci dan da pensare il nuovo organamento sociale al domani
della lotta, e i mezzi radicali, onde sgombrare dal nostro bel paese
privilegi, ipocrisia, ignoranza e miseria, al dí della vittoria. Che
governi Dio o il Popolo, che si confederi o si agglomeri la
popolazione frazionata della penisola, poco importa; saran sempre
rivoluzioni da scoiattoli, quelle che non tendono a trasformare da
cima a fondo questa fracida e sgangherata baracca».
Fin qui la stampa periodica, o meglio un campionario scelto della
medesima. Ma che diluvio di libri e di opuscoli, poi!
Il '51 fu l'anno fecondo: si aprí con La federazione repubblicana di
Giuseppe Ferrari, stampata sì all'estero, ma in Piemonte assai letta
e discussa (si vedrà come eccitasse insieme l'ammirazione e lo
sdegno di Pisacane). Direttamente influenzata da quello scritto, che
deve considerarsi fondamentale da chi voglia studiare lo sviluppo
dell'idea socialista in Italia, usciva pochi mesi dopo, dovuta al
Montanelli, l'Introduzione ad alcuni appunti storici sulla
rivoluzione d'Italia. Gran nome, quello del Montanelli: il suo libro
quindi circolò dappertutto, al suo generico contenuto socialista
conferendo singolare importanza l'anzianità dell'autore quale
fautore di riforme sociali. L'Introduzione tenta di impostare la
questione italiana da un punto di vista generale europeo, ponendo in
rilievo come essa non sia se non un episodio della lotta mondiale
tra rivoluzionari e conservatori, quando per conservatori
s'intendano i militari, il clero e i «monopolisti del capitale». «Il
perno della reazione europea è la plutocrazia», ammonisce il
Montanelli, il quale brillantemente riprendendo un argomento già
largamente discusso nella stampa democratica, sostiene la vanità
d'una rivoluzione meramente politica. «Senza cambiare l'ordine
economico d'Europa, resterebbe infeconda la nostra vittoria... la
rivoluzione europea si risolve nella riforma delle condizioni
sociali economiche d'Europa, e perciò l'Italia non può sperare
riscatto altro che dai principî da cui questa riforma s'attende»,
ossia dall'attuazione del socialismo. I patriotti italiani si
chiamino dunque ormai, e apertamente, socialisti, e come tali
arditamente operino.121
Dopo l'Introduzione, era la volta della Guerra combattuta. Tornava
poi nuovamente in lizza il Ferrari con l'attesa e ancor oggi
notissima e per molti aspetti pregevole sua opera, Filosofia della
rivoluzione, anch'essa uscita dai torchi di Capolago, ma largamente
diffusa a Genova e a Torino. Distaccandosi dai socialisti
rivoluzionari, Ferrari vi riconosceva l'impossibilità di abolire
d'un tratto l'istituto della proprietà, pur ravvisando nella sua
progressiva limitazione fino al termine, assunto a mito, di una
generale distribuzione delle terre (legge agraria), il fondamento
del progresso sociale. L'evoluzione dell'umanità deriverebbe
dall'urto dialettico tra istinto di proprietà e istinto di
comunanza; e il diritto ereditario, da limitarsi progressivamente,
sarebbe la leva sulla quale la società moderna dovrebbe d'ora
innanzi agire per raggiungere un assetto migliore, basato sul
principio attuato della maggior possibile eguaglianza sociale.
Appassionatamente sensibile alle miserie della maggioranza della
popolazione, Ferrari abilmente difende la sua visione ottimistica
della società futura dalle tradizionali critiche degli
anti-socialisti, con grande acutezza abbozzando altresì una
giustificazione preventiva di certe necessità d'azione antiliberale
(dittatura del proletariato, per dirla in breve) che s'imporranno ai
combattenti per la libertà e l'eguaglianza integrali.
Ma questa non è che la parte ultima, conclusiva di un'opera
dedicata, nel suo complesso, alla giustificazione storica,
psicologica e filosofica del principio dell'uguaglianza.
Filosocialista era, accanto al Ferrari e al Montanelli, Ausonio
Franchi. L'editore della Ragione, infatti, in un suo libriccino
sulla Religione del secolo XIX (1853) così presentava ai lettori lo
scabroso soggetto: il socialismo «è la religione degli operai; esso
dà il carattere al movimento del nostro secolo, che è...
l'emancipazione del proletario; esso predomina già su d'ogni altro
principio in Francia ed in Germania, e comincia a propagarsi in
Inghilterra ed in Italia; esso detterà la legge della prossima
rivoluzione». E concludeva, non senza enfasi: «l'onda del socialismo
sollevasi di giorno in giorno più alta, s'avanza più impetuosa,
rumoreggia più forte».
Gli scrittori minori di cose sociali eran poi legione nel Piemonte
del tempo: economisti e filosofi, sacerdoti e liberi pensatori,
uomini politici e dilettanti delle più svariate tendenze.122
Rosmini pubblica (Genova, 1849) un pesante studio critico sul
comunismo e socialismo. Il padre Tapparelli D'Azeglio agita in un
suo diffusissimo opuscolo il pauroso fantasma del socialismo. Il
siciliano Corvaja, un genialoide che imbottisce d'insopportabili
stramberie poche idee nuove e felici, escogita una panacea generale
per guarire la società di tutti i mali del monopolio, né prima né
ultima delle sue trovate intorno alla questione sociale; un anonimo
che giura nella «supremazia democratica pura» rivolge un appello ai
repubblicani, socialisti e comunisti perché s'abbiano a unire fra
loro (Genova, 1850); un altro anonimo clericaleggiante stampa nel
'51 un saggio sesquipedale sul socialismo e le sue varie dottrine e
tendenze; v'è perfino chi traduce Gesú Cristo davanti un consiglio
di guerra allo scopo di dimostrare che la dottrina socialista deriva
direttamente dal Vangelo (1850); Massino-Turina, un economista,
pretende d'aver trovato il verso di fermare il corso della miseria
(1850); valanghe di libri e d'opuscoli propugnano l'instaurazione
dell'imposta unica progressiva sul reddito. Un deputato, il
Turcotti,123 esamina con mentalità di socialista temperato i diritti
che a ciascun uomo competono sul frutto integrale del proprio
lavoro; Raffaele Conforti124 studia il problema del lavoro da un
punto di vista giuridico astratto; un Quaglia considera
dottrinalmente il fenomeno dell'associazionismo operaio; il Carpi
inizia fin d'ora le sue celebri indagini sulla diffusione del
credito; un Giulio si scaglia contro le tasse che colpiscono la
povera gente; dozzine di scrittori (Cavedoni, Liberatore, Grimelli,
Nobili ecc.) suonan l'allarme contro il socialismo in progresso.
Tesi pro e contro il socialismo si trovano svolte, e assai per
disteso, nelle trattazioni d'economia d'uno Scialoia (che è un
temperato socialista di stato), d'un Boccardo e d'innumeri altri
minori (Trinchera, Rusconi, Meneghini). Un di costoro, il Giudice,
si protesta antisocialista convinto, ma nel contempo svolge una
critica a fondo della società capitalistica e rompe una lancia in
pro d'una autoemancipazione operaia e contadina che si potrebbe
sollecitare mercè la diffusione del mutuo soccorso. Né è a dirsi se
di socialismo non fosse parola nelle troppe pubblicazioni pseudo
storiche scritte a fini d'edificazione da penne clerico-reazionarie,
tutte in cento modi diversi manipolanti il famoso ricatto del
comunismo.
Ma quel che forse colpisce di più chi rievochi le correnti di
pensiero prevalenti allora in Piemonte si è il fatto che anche in
moltissime pubblicazioni non attinenti alla questione sociale,
venute alla luce dal '49 in poi, si trovano pagine e pagine dedicate
ad essa come alla più grave preoccupazione del giorno. Di Gioberti e
del suo vivo interesse in materia è superfluo parlare125; ma si
vedano, a conferma, le opere di Macchi, De Boni, Tuvèri, Mancini126;
si leggano, negli Avvedimenti politici del reazionario Solaro della
Margarita, i paragrafi dedicati alla sovranità del popolo, alle
ineguaglianze sociali, i frequenti apocalittici accenni al
socialismo e al comunismo; si veda, tra le Prediche domenicali
raccolte in volume dal Bianchi Giovini, quella che tratta del
comunismo; si riapra il noto libello di Perego e Lavelli sui Misteri
repubblicani, che «nell'attuamento delle società operaie in
Piemonte» saluta il «primo gradino al tempio del socialismo».
Perfino l'Enciclopedia popolare consacrava un benigno articolo alla
voce Socialisti; perfino un militare, il Roselli, discorrendo della
spedizione di Velletri si sentiva tratto a ragionare (o sragionare)
sul socialismo; e nelle sue Lezioni di elettricità, o meglio nella
prefazione a questo suo libro, il Matteucci, da buon liberale,
trovava modo di dare addosso al socialismo.127
Anche i poeti presero la rosolía; poeti come Dall'Ongaro (Libertà e
lavoro); come Revere, come Curzio, che piange le ineguaglianze
sociali e sogna un avvenire più giusto; come il comunisteggiante
Gojarani, che freme dinanzi allo sfruttamento che pochi privilegiati
esercitano a danno della «miseranda schiatta»; poetucoli come il
Mazzoldi (Il ricco ed il povero)128.
E come fioccavano le traduzioni in lingua italiana di opere
straniere pro e contro il socialismo (ma piuttosto contro che pro)!
Libri e pamphlets di Thiers, Blanc, Cortez, Schmit, per non citare,
fra i tanti, che pochi nomi più illustri.129
Una conclusione, mi sembra, può trarsi da questo arido elenco di
nomi, di dati, di libri: e cioè che, dedicandosi allo studio del
problema sociale, Pisacane non ha fatto che cedere alla potente
suggestione dell'ambiente in cui ha vissuto, sia questo inglese,
svizzero o sardo. L'Europa tutta, in quegli anni, vive sotto
l'incubo o nella speranza messianica di un imminente cataclisma
sociale. Socialista, egli non sta dunque solo e sdegnoso, neanche in
Italia, in mezzo a un mondo ignaro dei vizi della società borghese;
al suo fianco, o per combattere la stessa battaglia o anche per
figurar di combatterla, è anzi in Piemonte, e nella stessa Genova,
una frazione non disprezzabile della classe colta, nativa o
emigrata; contro di lui, contro di loro è quasi tutta la stampa,
espressione dei ceti di governo, che con sproporzionati attacchi li
aizza alla lotta; intorno a loro, incapace d'intendere le premesse
dottrinarie del socialismo, ma già decisa a conquistare, con
l'associazione, col risparmio, con le buone e con le cattive, un
miglioramento del proprio tenore di vita, è una élite della classe
operaia.130
Pisacane, con la sua Guerra combattuta, dovrebbe avere un posto
onorevole tra i socialisti piemontesi. Resta nell'ombra, invece, un
po' perché a quasi tutti è stranamente sfuggito il valore del suo
libro dal punto di vista sociale; un po' perché gli mancano qualità
giornalistiche; ma soprattutto perché, ingolfato nello studio
puramente teoretico di un sistema in cui tutto invita all'azione e
impone l'azione, egli tarda a rendersi conto che il suo preciso
dovere di socialista è quello di «gettarsi» nel popolo. Comunque il
suo sogno, dal '51 in poi, resta pur sempre quello di farsi avanti
nella battaglia social-politica, d'acquistarvi con la dottrina, più
che con la facile audacia dialettica cara agli pseudo socialisti
imperversanti nella stampa piemontese d'estrema, la competenza e
l'autorità d'un capo, per poi davvero volgersi dal cerchio dei dotti
alle moltitudini inerti, e guidarle alla conquista di un mondo
migliore e più giusto.
Capitolo ottavo
Raccoglimento
Spentasi l'eco clamorosa e meschina suscitata dalla pubblicazione
del suo libro, Pisacane, un po' perché disgustato dalle polemichette
astiose, dai malintesi e ripicchi, ma più perché gli preme adesso di
approfondire i gravi problemi che ha soltanto sfiorato nella sua
Guerra combattuta, muta vita radicalmente. Va ad abitare in campagna
(dove, fra l'altro, si spende assai meno), dirada i convegni con gli
amici, riduce la sua corrispondenza, e legge, legge, legge. Fervore
di vita interiore, quieta serena intimità con Enrichetta, in attesa
che il turbine dell'azione — per ora sopito — lo riafferri. «Noi,
scrive nel '52, viviamo in campagna ad un tiro di cannone dalla
Superba. Amenissimo sito, una buona abitazione per poco ed il
vantaggio che il padrone di casa mi ha completamente affidato una
ricca libreria, per me risorsa grandissima». La casa sorgeva sul
colle di Albaro, poco lungi da quella dei Cadolini, intimi di
Pisacane, e dalla villetta «Paradisino» nella quale attorno ai
fratelli Orlando solevan riunirsi a conversazione moltissimi loro
amici emigrati.
Giudicato dal di fuori, da chi non sapeva capacitarsi che un uomo
del '48 potesse trascorrere gli anni fra i libri, in una placida
attesa, questo ritiro spirituale di Pisacane poté sembrare dal punto
di vista politico indizio di raffreddamento, di rinunzia; e non era.
Ogni temperamento ha le sue diverse esigenze. Mazzini, ad esempio,
checché protestasse in contrario, non produceva, non era lui, non
viveva insomma, se non lo circondava l'affannoso va e vieni degli
amici esuli o di passaggio, o non lo elettrizzava il miraggio di
un'azione imminente. L'atteggiamento pacato di Pisacane, di molti
altri vicini a lui, non poteva perciò non indispettirlo. Li
conosceva «italiani» ardenti al pari di lui; come dunque potevano
badare ai propri spirituali o materiali interessi, chiudersi o quasi
nel cerchio della loro vita individuale, in attesa dei comodi «tempi
migliori»? Se l'Austria impiccava e il Borbone colmava le galere,
come non sentivano essi l'irresistibile bisogno di balzare in piedi,
di gettare il libro, la penna, gli affari, per agire, per gridare al
mondo la loro esasperata protesta? «...Amici, concretiamo perdio!...
Vogliamo lasciare a mezzo, a furia di discussioni, un duello a morte
che abbiamo, con grande apparato di frasi e minaccie, intimato
all'Austria e ai nostri padroni?» È vero, essi non condannavano a
priori l'azione, anzi, a sentirli, non desideravano altro; ma le
condizioni che ponevano alla loro collaborazione, le garanzie che
esigevano erano tali e tante che con ciò solo rivelavano appieno la
loro intima sfiducia e un crescente pessimismo. Mazzini ora li punge
e li esalta, ora pretende di ignorarli e li taccia di imbelli e
«neutrali», ora prorompe in disperate catastrofiche previsioni
sull'avvenire delle cose italiane affidate a uomini di così fiacca
tempra; salvo poi a riaccostarli, a lusingarli, a sottoporre loro un
«ultimo» piano, una «ultima base» di intesa. Il perpetuo sfogo
contro di loro fa per altro trasparire la convinzione radicata in
lui che quel gruppetto di dissidenti, ove avesse davvero voluto,
avrebbe fatto incommensurabilmente più e meglio di mille altri
rumorosissimi omuncoli che gli si tenevan d'intorno, invariabilmente
disposti, loro, ad agire.
Pisacane che fa? Medici è morto? E Cosenz dov'è?131 E Mezzacapo e
Gorini e Masi? Faccian di tutto, i fedeli, per smuoverli,
pungendoli, «ma in modo amorevole di chi stima». «In tutta Italia
v'è un certo fermento, e riescirebbe decisivo, se... i militari di
Genova e Torino tornassero nei sensi; ma questo non sarà». Povero
Mazzini! «Sono nauseato — scrive una volta — ... La classe media, la
cospirazione ufficiale, è pessima... I militari graduati, i più
almeno, ostacoli potenti. Dieci di loro che dicessero di esser con
me e per movere, spianerebbero le difficoltà... Non vogliono...
Siamo frutti avvizziti, diventati marci prima di giungere a
maturità. L'azione non è sentita. I migliori... son diventati
codardi. Se han fatto belle cose nel '48 e nel '49, tanto peggio per
essi ora; ora, sono codardi».
I quali «codardi», rassegnati alla gragnuola, parevan gente che a
gran fatica fosse riuscita a sottrarsi a un'influenza potente che
per anni avesse paralizzata la loro volontà; a giudicar dal loro
contegno avresti anzi detto che temessero di ricaderci da un momento
all'altro. Seguitavano a professar reverenza per Mazzini, ma avevan
principiato a raffreddarsi con lui, col «tiranno» di Londra, fin dal
momento che, radunandosi a Genova, s'eran persuasi dell'importanza
cospicua che rivestiva ormai il loro gruppo e per contro della
qualità innegabilmente scadente degli emissari ufficiali del
mazzinianismo in Piemonte, buoni a nulla se non giungesse loro
l'imbeccata di Londra.132 Di Londra, e perché mai? Forse che il
legittimo comitato direttivo del moto italiano non risiedeva ormai
di diritto fra Torino e Genova, fra le migliaia di rifugiati d'ogni
regione che v'avean preso stanza? Fior d'italiani tutti costoro,
esperti di carcere di guerra e d'esilio, provatamente all'altezza
d'un compito direttivo, dunque. Mazzini, sì, era il migliore tra i
veterani del patriottismo italiano, ma non era appunto un po' troppo
un veterano, ostinato a imporre nel '50 sistemi d'organizzazione e
mezzi di lotta escogitati con successo vent'anni prima ed ora
sorpassati? Le istruzioni che spediva dall'Inghilterra non
rivelavano forse l'inevitabile distacco suo dalla realtà italiana,
un certo che di estraneo, di non commisurato alle necessità del
luogo e del momento, di cosa giusta teoricamente, ma stonata, non
pratica? Quante volte le sue assicurazioni sulla indubitabile
maturità della situazione in questa o quella provincia non s'erano
rivelate frutto d'inattendibili informazioni d'uno solo,
contrastanti con mille segni palesi a tutti fuori che a lui! Eterno
malinteso fra i rivoluzionari di fuori e quelli di dentro:
inevitabili accuse incrociantesi d'inerzia a questi, d'imprudenza a
quelli. «Questa questione della Direzione diventa esosa, protestava
Mazzini. Io dichiaro pormi semplice ed ultimo subalterno sotto
quella del primo caporale che sorge e mi dice: organizzo e fo io»;
ma poi: «S'io corrispondo come centro, è perché tutti quelli che
vorrebbero fare s'indirizzano a me». Non voleva intendere che il
dissenso volgeva non solo sulla opportunità o meno di spostare il
centro direttivo della cospirazione repubblicana, ma altresì, e anzi
principalmente, sulla opportunità o meno di proseguire la sua
tattica dell'azione a ogni costo e dovunque: nelle provincie
«mature» e in quelle che dormivano, nelle prime perché vi arrideva
la speranza del conclusivo successo, nelle seconde perché occorreva
pure svegliarle.133 Avrebbe obbedito, sì, a un caporale qualunque,
sottinteso però che questo avesse, dall'a alla zeta, le sue medesime
idee... E invece questi militari di Genova condannavano aperto lo
stillicidio dei piccoli moti da lui messi su, e da un pezzo
ripetevano con aria d'importanza che si dovessero concentrare uomini
e mezzi, e risparmiarli in attesa d'aver raggiunto un indiscutibile
grado di preparazione e che si presentasse un'occasione
eccezionalmente favorevole. Bella scoperta! Anche Mazzini diceva
così, soltanto che loro non trovavano mai il momento opportuno, e a
lui pareva che dieci volte l'anno lo si fosse lasciato sfuggire; per
loro le forze non eran mai sufficienti e a lui, per meravigliosa
illusione che i disinganni patiti non offuscavan neanche, parevan
sempre imponenti. Differiva, insomma, la disposizione profonda
dell'animo: se da Napoli, da Milano, dalla Sicilia, s'invocavano
aiuti per un moto già stabilito, dovrei io rifiutarmi, domandava
Mazzini, in nome della grande iniziativa avvenire? E non assumerei
in tal modo la responsabilità del fallimento di quel moto?
Rispondevano i dissidenti che a guardar bene si trattava sempre
d'iniziativa sua, diretta o indiretta, di spinta originariamente
data da lui e che a lui tornava, in seguito, sotto specie
d'iniziativa locale; e perciò bisognava boicottarle tutte, queste
pericolose proposte partenti dalle varie provincie, a meno che non
fossero di tale importanza e non presentassero, già di per sé, tali
elementi di probabile successo da rendere opportuna una
mobilitazione generale delle riserve del partito. Il giudizio
definitivo, comunque, fosse lasciato a loro, riuniti in Comitato
militare, a loro esperti in materia.
Mazzini concludeva che se la rivoluzione italiana doveva attendere
il beneplacito dei signori ufficiali, tant'era non pensarci più, e
acconciarsi una volta per sempre al giogo degli austriaci e del
Borbone e del Papa.134
La dolorosa schermaglia si protrasse per anni. Da Londra partivan
piani su piani, che i «militari» di Genova invariabilmente
bocciavano. Già nel '50, verso la fine dell'anno, Pisacane lamentava
che in essi si ripetessero «i passati errori fatali». Nel '51
Mazzini voleva agire in Sicilia: parere contrario. Nel '52 in
Lombardia: ma Pisacane e Mezzacapo, pel Comitato, stavan studiando
di far qualcosa di serio nelle Due Sicilie (come ben sapevano, del
resto, le autorità napoletane).135 I processoni di Mantova, nel
dicembre di quell'anno, e il fallimento dell'insurrezione milanese
del febbraio '53 (sconsigliatissima, questa, dal gruppo di Genova)
non potevano certo rinsaldare i rapporti già tesi tra Genova e «li
incorreggibili di Londra», come in una lettera a Pisacane li bollava
Cattaneo.136 Tutt'altro: «... Non credere che la fazione mazziniana
sia del tutto spenta — scriveva Pisacane medesimo, il 31 di marzo,
con freddo distacco, a un suo amico —: essa continua a pretendere il
primato. È imminente la pubblicazione di un opuscolo del Mazzini, in
giustifica del suo operato, in accusa dei tepidi e codardi, giusta
la sua nuova fraseggiatura adottata. Tale fazione non sarà mai
nulla, ma ci darà ancora molestia». Povero Mazzini!137
Se i Medici, i Cosenz, i Mezzacapo si erano staccati da lui per le
accennate divergenze di natura politica, infastiditi altresì come
liberi pensatori o tepidi cattolici dalla sua calda e persistente
predicazione di nuovi valori religiosi138, un terzo motivo, anche
più grave, valse ad approfondire il dissenso con Pisacane: il
diverso atteggiamento intorno alla questione sociale.
Nell'affettuoso cenno più tardi dedicato all'amico caduto, Mazzini
francamente lo ammise: «Da Genova... ei mantenne corrispondenza con
me: corrispondenza liberamente fraterna, come dovrebbe correre fra
uomini che sentono la propria dignità, e onorano anzitutto il
Vero... E noi dissentivamo su parecchi punti; sulle idee
religiose...; sul così detto socialismo, che riducevasi a una mera
questione di parole dacché i sistemi esclusivi, assurdi, immorali
delle sètte francesi erano ad uno ad uno da lui respinti; e sulla
vasta idea sociale... io andava forse più in là di lui».139
«Questione di parole»? Nella Guerra combattuta, è vero, l'argomento
non era stato gran che approfondito; ma durante il soggiorno di
Genova, né Mazzini poteva ignorarlo, l'evoluzione di Pisacane a
sinistra era stata continua e decisa, come si rileva dalle sue
lettere. Giustissimamente osservava Mazzini esser il socialismo
espressione elastica sotto cui poteva celarsi, e si celò e confuse
stranamente in quegli anni, la merce più varia; ma era gratuito
cacciar così nel folto mazzo degli pseudo-socialisti Pisacane, che
alla palingenesi sociale rivoluzionariamente imposta dalle classi
lavoratrici ai ceti privilegiati credeva davvero.
«Sulla vasta idea sociale io andava più in là di lui». Era esatto?
Non troppo: Mazzini, si sa, era un riformista temperato; pur
sostenendo la necessità di un profondo mutamento nell'assetto
sociale, non lo concepiva altrimenti che come frutto d'un lento
processo evoluzionista imperniato sul cooperativismo operaio e sulla
diffusione del credito; secondo lui, non si trattava tanto di
distruggere i fondamenti della società borghese quanto di
soppiantarli in progresso di tempo, creando e incoraggiando la
formazione di nuovi aggregati sociali, di nuove forme di proprietà
che in un futuro più o meno remoto sarebbero state le sole ad avere
esistenza legale. Egli contava sull'appoggio della borghesia per
l'emancipazione dei lavoratori, non aveva idee intorno al problema
del proletariato agricolo, non considerava le conseguenze sociali
della nascente grande industria: quando diceva lavoratori intendeva
artigiani; protestava contro ogni sistema che portasse attentato
alla libertà individuale.140
Pisacane — basta per questo leggere la Guerra combattuta — vedeva le
cose in modo radcalmente diverso: negava la collaborazione di
classe, concepiva il rinnovamento sociale unicamente come portato
d'uno sforzo violento, intransigente, integrale del proletariato
contro la ferrea cornice della società borghese. L'evoluzione
pacifica era per lui una furba invenzione della borghesia timorosa
d'esser detronizzata.
Cosicché se Pisacane diffidava, in terreno sociale, del pacifismo
mazziniano, Mazzini, più vecchio, e che conosceva da vicino la
storia di molti estremisti, sinceramente credeva, a conti fatti,
d'esser più socialista lui, che da dieci anni additava ai lavoratori
quel suo programma moderato e immediato, corrispondente alle loro
effettive condizioni morali e materiali, che non il suo bollente
amico e tutti gli apostoli del socialismo integrale, i quali,
agitando miti estremisti e propinando assurde illusioni alle masse,
le inducevano a perdere i concreti benefici dell'oggi per le
nebulose fantasie del domani.
Il dissenso era grave, ma forse sarebbe rimasto in sordina ove
Mazzini non avesse, proprio nel '51, avvertito la necessità di
reagire contro la moda del socialismo, imperversante sul continente.
Quanti non la pretendevano a socialisti che poi, se avessero davvero
veduto scatenarsi la guerra di classe, prender piede gli scioperi o
anche soltanto tentarsi qualche esperimento cooperativo su larga
scala avrebbero mostrato d'urgenza sotto la maschera progressista il
ceffo conservatore! Bisognava bucare questa vescica, pericolosa, per
le sorti della democrazia europea, la quale, disperdendosi in cerca
di pretesi ideali assoluti, finiva, come sempre accade, col
trascurare gli immediati urgenti doveri che le incombevano.
In due manifesti lanciati rispettivamente a nome del Comitato
centrale democratico europeo (1° giugno) e del Comitato nazionale
italiano (30 settembre), Mazzini s'affrettò dunque a precisare fino
a qual punto socialismo e democrazia fossero termini compatibili,
quale potesse essere in altre parole il programma massimo d'un
democratico in terreno sociale. Riverniciate, le vecchie sue formole
suonavan nuove (abolizione della miseria, eguaglianza economica e
via discorrendo), ma in ultima analisi eran sempre le stesse, d'un
moderato che non crede ai miracoli: più eque relazioni fra contadini
e proprietari, fra operai e capitalisti, imposta unica sul reddito,
incoraggiamento alle associazioni operaie, scuola di Stato,
semplificazione dell'organismo giudiziario. Chi uscisse di lí, chi
predicasse sovvertimento delle condizioni sociali, adozione di
sistemi violenti ed esclusivisti, tradiva la democrazia.
Un'aggiunta, per gli italiani; appena compiuta la rivoluzione
politica, ci si affrettasse a dar fuori provvedimenti di sollievo
per le classi più povere, che il popolo realizzasse subito «che la
rivoluzione s'inizia per esso».
A Pisacane, che non sognava allora se non rivoluzione sociale e non
vedeva intorno a sé che inique ingiustizie da vendicare («Qui, aveva
scritto a un amico in febbraio, si sono date feste che hanno costato
18 000 franchi, mentre tanti muoiono di fame; sono cose che fanno
venir la febbre»), a Pisacane il programma mazziniano parve
naturalmente un palliativo ridicolo. Si sfogò con Dall'Ongaro: «il
dire più eque le condizioni fra contadino e proprietario, fra
capitalisti e operai non ammette che due casi: o P.(ippo) crede
possibile risolvere il problema sociale senza abolire la proprietà,
ed allora non ha studiato a fondo la società presente; o P. parla
così per non intimidire i proprietari, e allora simula; ciò non è da
rivoluzionario... Ho studiato con assiduità (e non ho ancora
terminato) tutti gli economisti e i socialisti e ti assicuro che per
ottenere ciò che vuol P. non ci è mezzo termine; gli strumenti del
lavoro debbono essere in comune. Perché temere di parlar chiaro,
perché non fare tra le masse una propaganda di questo genere, la
quale è facilissima?»
Mazzini avrebbe potuto domandare a Pisacane perché mai non la
iniziasse lui, tale propaganda, se gli pareva utile. Pisacane
avrebbe probabilmente risposto che nel momento era tutto assorto
nell'esame teorico della questione, nella lettura di opere
d'economia, di storia, di filosofia, da Vico a Pagano, da Filangieri
a Galluppi, da Beccaria a Romagnosi fino a Leroux, a Blanc, a
Proudhon, ma che era ben deciso, una volta ferratosi nelle sue
convinzioni, a rilanciarsi nell'agone politico. Comunista o
collettivista, proudhoniano o d'altra scuola ancora, d'una cosa era
certo: che le mezze misure non conducono a nulla e che il mondo, per
progredire, ha bisogno di scosse.
L'urto fra i due in materia di politica sociale s'inasprí ancora nel
seguito: nel '51 Mazzini era pur sempre, per Pisacane, il vecchio
amico Pippo; dal '52 in poi non lo fu più. Pareva adesso che un vero
furore antisocialista si fosse impadronito di Mazzini, folgorante
scomuniche ai novissimi eretici. Quando mai aveva trovato accenti
tanto vibranti e sdegnosi nella sua carriera rivoluzionaria? Mazzini
alleato della reazione, Mazzini «dall'altra parte»: era uno
spettacolo doloroso davvero.
Il nuovo manifesto del Comitato nazionale italiano (gennaio '52) e
poi il vivacissimo scritto Doveri della democrazia (marzo) erano
infatti requisitorie spietate. Onta ai socialisti per aver preteso
ridurre «alle proporzioni di un problema economico... l'immenso moto
delle generazioni anelanti unità di progresso, d'educazione, di
fede»; onta a loro per aver spenta nel popolo ogni idea di dovere,
ogni virtú di sacrificio; per avere identificato il «nome santo» di
repubblica col concetto e la pratica della guerra di classe, con un
impossibile annientamento della borghesia; onta ai socialisti
francesi responsabili della vergognosa acquiescenza del «popolo
iniziatore» alle baionette napoleoniche; onta e rimorso per avere,
nell'epoca sacra alla ricostituzione delle nazionalità, infiacchito,
per quanto potevano, ovunque, l'amore di patria. Sono essi che,
ponendo come fine alla vita anziché il compimento d'una missione la
bruta ricerca della felicità, che sospingendo l'operaio all'egoismo
borghese, hanno tradito con la Francia il moto di rinnovamento
europeo.
Manifesti e scritti se non in tutto equanimi, certo tra i più
ispirati commossi e impetuosi che Mazzini avesse mai dettato:141
corsero in un baleno l'Europa, suscitando infiniti commenti, aspre
risposte polemiche, goffe adesioni.142 Rabbiosa, s'intende, la
reazione dello stato maggior socialista esule a Londra contro
l'antico compagno di lotta, rivelatosi in quel triste frangente —
dicevano— strumento e complice delle vendette borghesi. Perfino
Ledru-Rollin, suo braccio destro nel Comitato europeo, trovò
inescusabile che Mazzini avesse atteso la tragica dispersione della
democrazia francese per assalirla a quel modo. Tra i radicali
italiani, grande emozione, battaglia accanita d'opinioni discordi: a
Parigi i più giurano che Mazzini è ammattito, a Torino, a Genova non
si discorre d'altro; la madre del grande proscritto teme più adesso
per l'incolumità di suo figlio che non mai per l'innanzi! Quanto a
Mazzini, egli soffre piuttosto per le interessate lodi di certa
stampa che non pel cumulo d'ingiurie che gli piovon sul capo. Ha la
coscienza tranquilla: amare sì le verità che ha detto, amarissimo il
dirle, ma avrebbe mancato al suo dovere tacendo. Bisognava pure che
i lavoratori d'Europa sapessero che mentre il tiranno francese
legava la nazione per le mani e per i piedi, la democrazia
socialista seguitava a cianciare di giustizia sociale e gli operai
imperturbabili a occuparsi di questioni salariali: a tanto, al
dispotismo cioè, conduceva senza fallo una dottrina che predicava
l'indifferenza per le sorti della lotta politica.
Stesse del resto la Francia, da tempo imbarbarita e corrotta,
contenta del suo stato; l'essenziale era che l'esperienza sua (dalla
repubblica sociale alla reazione militare) non servisse di comodo
pretesto ai ceti conservatori di tutta Europa — Mazzini naturalmente
pensava soprattutto all'Italia — per riprendere su vasta scala le
note speculazioni sulle «inevitabili» degenerazioni dei regimi
liberi. Questione di vita o di morte, dunque, per la democrazia, una
volta isolato il caso francese e diagnosticatone il male, segnalarne
agli altri popoli, perché potessero combatterli, i germi epidemici.
Pisacane dissentiva toto cœlo: ma a che pro polemizzar con Mazzini?
A che pro farsi avanti a dimostrare ad esempio, contro di lui,
doversi i guai di Francia, anziché al dilagare del socialismo, alla
debolezza di quel movimento in un paese dalla borghesia strapotente?
A che pro? Era ormai così lontano da lui in tutte le questioni
importanti, così diversamente orientato! Gli pareva che Mazzini,
nuovo Giosuè, pretendesse fermare il corso del sole: il sole,
avanzando, avrebbe folgorato, nonché Mazzini, tutti coloro che
credevano di potere inchiodare l'umanità a ideali e valori
sorpassati, incapaci di guardare innanzi, incapaci d'intendere le
esigenze e le aspirazioni delle nuove generazioni. Meglio era dunque
lasciare che i «vecchi» (Mazzini era sulla breccia dal '30!)
sfogassero la loro vana stizza perché i giovani li disertavano, e
impiegare il proprio tempo a studiar le vie del domani: radicare le
proprie convinzioni nel profondo terreno del passato per acquistar
la certezza di saperle poi, quando scoccasse l'ora d'agire, adattare
alla tempra degl'italiani, e anche per cercarvi la conferma di certe
nuove intuizioni sul meccanismo sociale balenategli nell'osservare
la vita moderna.
Nessun desiderio di polemica, molto di solitudine e di
raccoglimento. Il naturale distacco dalle cose dell'oggi che prende
chi abbia d'un tratto scoperto l'immensità delle cose che furono. E
anche quando lo riafferra il giuoco della politica attuale, gli
piace intrattenersene con uomini che siano anch'essi un po' distanti
dalle meschinità della lotta, al di sopra della mischia, differenti
insomma da questi «insopportabili mazziniani» che pretendono
occuparsi di tutto, dettar legge a tutti e che vivono nella certezza
che niente accada in Italia se non voluto e predisposto da loro.
«Pisacane, che ho promosso e sostenuto fino a farmi nemici, s'è
raffreddato con me — constata, non senza amarezza, Mazzini, — credo,
perché l'ho biasimato d'aver detto male di Garibaldi: poi per
nozione d'indipendenza personale proudhoniana e materialismo
teorico».143
Cattaneo, Ferrari, Franchi, Macchi, queste le costellazioni più
luminose nel cielo pisacaniano dopo il tramonto, che sembrava
definitivo, dell'astro Mazzini: era il gruppo dei federalisti, la
cui produttività dottrinale cresceva di pari passo con la sua
impotenza e inattività politica.
La corrispondenza tra Pisacane ed essi corse fitta in quel tempo, e
svariata: sulle cose d'Italia e d'Europa, su libri, su uomini, su
idee, su quel che era stato e su quel che sarebbe.
Era logico che Pisacane studioso si avvicinasse sempre di più alla
loro sonante officina intellettuale: non che quei quattro andassero
in tutto d'amore e d'accordo, né che egli fosse disposto ad
accettare come infallibili oracoli le loro sentenze; tutt'altro. Ma
c'era in essi perenne novità d'idee, c'era fervore, c'era l'afflato
di una cultura sollecita di conservarsi aggiornata e sopranazionale;
c'era una spregiudicatezza totale di principii, e, in seno al
gruppo, nessuna necessità di disciplina. Chi poi contribuiva ad
unirli era... Mazzini: il quale, con i suoi seguaci, serviva da
bersaglio alle loro frecciate epistolari. C'era da sentirlo, ad
esempio, Cattaneo, quando gli pigliavan le furie per qualche nuovo
colpo inscenato da costoro! «Non s'accorgono — scriveva a Pisacane
dopo "le sterili sventure di Mantova" — non s'accorgono che un
intervallo di tre anni ha già mutato totalmente le cose materiali,
che qualunque siffatta impresa, se potesse riescire, non sarebbe
altro che una calamità. Ma essi hanno la dottrina del martirio,
stolta e scellerata, e sciupano carte, che, giuocate a luogo e
tempo, avrebbero potuto essere preziose... Dicono: azione e
silenzio. L'azione è un assurdo, e il silenzio è un tradimento». E
concludeva: «Dai professori di rivoluzione non s'intende come le
rivoluzioni e le stagioni non sono al comando dell'individuo, e si
pretende farle nascere a forza».
Ferrari rincarava la dose; già nell'autunno del '51 s'era dato un
gran daffare per un iracondo manifesto antimazziniano del gruppo
federalista; nel gennaio seguente, lamentando il colpo di Stato
napoleonico, trovava ragione di conforto nel fatto che Mazzini,
addossandone la colpa alla democrazia, si fosse una volta per sempre
screditato agli occhi di quella; nel maggio se l'era presa col buon
Mauro Macchi (che nell'Olimpo federalista rappresentava la divinità
più mite e indulgente, ma insieme di minor forza creatrice) perché,
pur contrario a Mazzini, aveva osato difenderlo dalle accuse
grossolane dell'abate Gioberti.144
Il qual Ferrari era socialista, ma aveva agli occhi di Pisacane, fra
tanti meriti d'originalità e d'ingegno, la colpa di veder tutto dal
punto di vista francese e di pretendere che Parigi fosse il cervello
del mondo. Aveva scritto per esempio a Cattaneo nel settembre '50, e
ribadito l'anno di poi nella sua Federazione repubblicana, doversi
il concetto della rivoluzione italiana trasformare in conformità
delle nuove ideologie rivoluzionarie prevalenti in Francia; farsi
socialista, cioè; dovere inoltre i rivoluzionari italiani contare
sull'intervento armato francese (o meglio proporsi di determinarlo)
come sull'unica probabilità seria di successo per la causa loro.
Pisacane, che pure ammirava devotamente come il Ferrari scrittore,
rara avis in Italia, camminasse «diritto alla ricerca del vero»,
trasecolava: sarebbe stato dunque inevitabile per l'Italia «il
subire la dittatura francese»? Neanche per sogno: «si supponga
sgombro il suolo italiano dagli stranieri, e si paragoni quale delle
due nazioni, la Francia o l'Italia, sia più prossima alla
rivoluzione sociale... Tanto in Francia come in Italia la potenza è
rappresentata dal popolo, la resistenza dalla borghesia; ed egli è
fuori dubbio che il rapporto fra queste due forze mostra che
l'Italia potrebbe rompere l'equilibrio con maggiore facilità... La
Francia non avrà (dunque) bisogno d'inviare i suoi eserciti,
perocché le idee valicheranno le Alpi prima delle sue armi, e
basteranno a compiere la rivoluzione italiana».145 È vero,
soggiungeva più tardi a Cattaneo, che nella corsa al progresso
civile un terribile svantaggio grava sull'Italia rispetto alla
Francia per l'inferiorità della sua cultura politica e sociale;
pure, fra le due nazioni, l'Italia si presenta indubbiamente più
matura alla rivoluzione sociale se non altro per l'inveterato
distacco della popolazione dalle oligarchie di governo.
Tutt'altro che supina adesione alle tesi del Ferrari, si vede, o a
quelle consimili professate dal Franchi, il quale non per nulla,
lasciando con la tonaca il suo vero cognome di Bonavino, s'era
prescelto quello pseudonimo. Giusto era però riconoscere a entrambi
(contro ai mazziniani ortodossi che non si davan neanche la pena di
confutarli, parendo loro che a liquidarli per sempre bastasse lo
spargere ch'erano antiitaliani) il grandissimo merito di mettere in
circolazione, di «muovere» delle idee.
Ma più complesso e profondo e concreto di Ferrari — grande in una
parola — era comunque, per Pisacane, Cattaneo. Voi — gli scriveva un
giorno — «siete disceso dalle nuvole ed avete iniziato sul versante
delle Alpi la scienza che speriamo irradierà un giorno l'Italia!»
Prezioso privilegio dunque quello di carteggiare con lui sulle
questioni del giorno, e di sorprendere nel travaglio stesso della
sua elaborazione, ancora incerto e indagante, quel suo acuto
pensiero che poi, negli scritti dati alle stampe, si concretava
sempre in espressioni così ammirevolmente chiare e definitive.
Prezioso privilegio quello di sottoporre a lui, familiarmente, dubbi
teoretici e questioni difficili: ad esempio, come conciliare le
opposte esigenze d'unità e insieme di libertà federale, proprie a
una nazione moderna? Se «la centralizzazione è il dispotismo (e) la
federazione è la debolezza», come mai potrà salvarsi la libertà,
soffocata dall'una, compromessa dall'altra? (gennaio 1853).
Cattaneo, rispondendo, dava sempre l'impressione di un vento robusto
che liberasse il cielo dalle nebbie vaganti.
Eppure, per quanto Cattaneo intendesse come pochi in Italia
l'importanza capitale del fattore economico nella storia, Pisacane
non poteva non lamentare il suo disinteresse quasi assoluto pel
problema sociale, il disinteresse d'uno che si sarebbe detto non ne
avvertisse neanche la crescente influenza nel mondo moderno.
Stupenda ad esempio e azzeccata nelle sue previsioni la lettera che
aveva ricevuto da lui di commento al colpo di Stato napoleonico, la
quale terminava invitandolo a prepararsi a prossime guerre. («Io
sono quinquagenario e togato, e sto a vedere. Voi siete giovane e
soldato, se vi sono uova rotte dovete avere una mano sulla
frittata»); ma come poteva Cattaneo limitarsi a trarre da
quell'avvenimento illazioni meramente politiche, come mai non ne
scorgeva le sintomatiche premesse e derivazioni sociali? Pisacane, a
vero dire, non aveva occhi che per quelle, e non vedeva chiare che
quelle: «Credo che hai veduto col fatto, scriveva a Dall'Ongaro, che
le masse non si battono più per servire l'ambizione di pochi, le
masse quindi si muoveranno spinte dal solo miglioramento materiale,
e che la sola rivoluzione possibile in Europa, è la grande
rivoluzione sociale; è la spogliazione della borghesia, come fu
quella della nobiltà nell'89. Credi tu che in Lombardia le masse
correrebbero alle armi come vi corsero nel '48? Vane speranze; la
bandiera che potrà muoverle è solo quella dell'abolizione della
proprietà... Il popolo si muoverà solo quando vuole, quando le idee
sono mature, e non già quando gli altri vorranno».146 Aveva proprio
la fissazione della rivoluzione sociale! Ma sul terreno politico era
miope lui quando, a Cattaneo che s'aspettava l'impero e prossime
crisi sul Reno e sul Po quali conseguenze inevitabili del 2
dicembre, opponeva esser Napoleone un omuncolo troppo inferiore a sì
gran compiti; ché se poi i fatti lo smentissero e nascesse per
davvero la guerra, «mi sentirete in campo... Vivo sempre di questa
speranza e attendo con pazienza».
Beato nel suo ritiro, assorto nelle sue gravi letture (cui sempre
seguivano copiosissimi appunti), Pisacane faceva tuttavia frequenti
gite in città, sia per impartirvi quelle poche lezioni, sia per
incontrarvi gli amici, sia per fruire della possibilità, preziosa
per lui che s'andava facendo ormai scrittore di professione, di
partecipare alle manifestazioni della vita culturale cittadina. Non
se ne sa gran che; ma è probabile, ad esempio, che seguisse in
qualche modo i lavori di quella Accademia di filosofia italica,147
un po' circolo di conferenze e conversazione, un po' anche casa
editrice, che il Mamiani aveva fondata intorno al '50 e della quale
era membro, col Bonghi, col Boccardo e con molti altri, il Conforti,
intimo di Pisacane; il quale forse da quell'ambiente studioso,
seppure politicamente moderato, trasse gusto e abitudine alle
letture di filosofia.
Nel '51 Ausonio Franchi, terminata la sua Filosofia delle scuole
italiane,148 sorta di manifesto del razionalismo filosofico
destinato a far chiasso e per la novità della tesi e per il brio
dello stile e per la impeccabile stringatezza del ragionamento, la
lesse a una cerchia d'amici e simpatizzanti tra i quali era il
Macchi: è abbastanza probabile che Pisacane fosse del numero. Come
anche che s'adunasse più volte con altri emigrati per leggere e
commentare quella Filosofia della rivoluzione del Ferrari, che sotto
il grave pondo e dello stile e della mole e nonostante l'esposizione
prolissa, serbava anche ai profani pagine suggestive e piene
d'interesse, specialmente laddove trattava del problema sociale.
A Genova eran poi biblioteche e giornali; e i giornali a quel tempo
erano di solito, prima che fogli stampati, salotti politici e
letterari.
Ancora nel '51 si costituí un Comitato dell'emigrazione italiana,
indipendente da quello ufficiale funzionante a Torino. Pisacane di
certo se n'interessò, tanto più che aveva colore repubblicano anzi
che no e che v'avevano parte cospicua i due suoi amici Medici e
Conforti.149
Nel giugno-luglio '52 si trattenne per qualche settimana a Genova il
celebre rivoluzionario russo Alessandro Herzen:150 era intimo di
Medici, legato a molti altri emigrati italiani da lui già conosciuti
nel '49 in Isvizzera. Vide assai spesso Pisacane col quale discusse
a fondo della situazione napoletana e, verosimilmente, del problema
sociale. Herzen, che tra gli amici italiani si trovava a tutto suo
agio e che ne ammirava sinceramente le istintive doti
rivoluzionarie, scrisse più tardi in termini di vero entusiasmo per
Pisacane. Ma chi potrebbe precisare fino a qual punto i contatti con
Herzen non incoraggiassero l'evoluzione a sinistra del «romito» di
Albaro?
C'era insomma, vivendo alle porte di Genova, di che riempire
utilmente le proprie giornate, quand'anche i politicanti frenetici
tacciassero Pisacane d'inconcludente e d'ozioso.
Sui primi del '53, una profonda emozione (che da Napoli condivideva,
affettuosa, l'unica sorella di Pisacane, e con essa un suo
figliastro professantesi ammiratore delle di lui prodezze
rivoluzionarie): Pisacane è doventato babbo; è nata una piccola
Silvia.151 Ma da quante ambasce non venne turbata la gioia della
paternità: tormento della cresciuta penuria, ora che le bocche da
sfamare eran tre e s'era dissipata la speranza, da qualche tempo
nutrita, di ottenere una cattedra nel liceo di Lugano, auspice
Cattaneo;152 meschinità burocratiche per la registrazione di Silvia,
figlia illegittima e negata al battesimo: figurarsi, nel Piemonte
cattolicissimo! Si dovette ricorrere a un notaio che attestasse lui,
per atto civile, esser la bambina venuta alla luce. Ma Pisacane,
fedele ai dettami di quella scuola del libero pensiero razionalista
la quale andava in quegli anni combattendo in Italia le sue prime
battaglie, si proclamò orgoglioso di avere impedito che il piccolo
essere ignaro ricevesse il suggello d'una fede imposta. Sentiva
d'averne difeso, lui padre, la libertà.
Ahimè, poca salute fin da principio, povera Silvia, delicata
creatura votata a una grigia vita di dolore e di rinunzia. E se non
era il Bertani amico dei Pisacane, gran patriota e più gran medico,
a prenderne cura, la malattia gravissima che presto la colse e ne
minacciò l'esistenza per quasi sei mesi se la portava via di
sicuro.153 Sei mesi di angoscia per Enrichetta, sei mesi di doppia
ansietà per Pisacane: commossa riconoscenza d'entrambi, a guarigione
avvenuta, per l'amico salvatore.
Agli affanni domestici si aggiungevano, non meno preoccupanti,
quelli politici: la tempesta furiosa scatenatasi, in conseguenza dei
moti milanesi del 6 febbraio, contro gli emigrati in Piemonte.
Espulsioni a bizzeffe, tra gli altri del buon amico Macchi, del
Crispi, del Maestri; molte altre minacciate e tenute in sospeso;
ingiunzione a più d'uno fra i nullatenenti d'andarsene, e sia pure
col viaggio pagato, in America; verifica severa dei permessi di
soggiorno, e finalmente la proibizione generale odiosissima, che
convertiva l'ospitalità in confino, di allontanarsi per qualsivoglia
motivo dal comune di residenza.154 Un'ira di Dio: per fortuna durò
poco. Sta bene che bisognava pur dare qualche soddisfazione
all'Austria la quale pretendeva che il 6 febbraio fosse stato
preparato entro i compiacenti confini sabaudi; ma il governo di
Torino uscí giustamente malconcio, nonché dalle censure degli
emigrati (estranei i più o, se consapevoli, contrari all'ultima
impresa mazziniana) da
quelle, indignate ed unanimi, della democrazia piemontese.
Tanta tempesta non impediva affatto che gli emigrati di Genova,
simili in questo ai loro colleghi d'ogni tempo e paese, si
dividessero in gruppi e gruppetti antagonistici, un po' per varietà
di programmi politici, un po' anche per più meschine ragioni:
qualche volta pareva che stessero là non tanto perché impegnati a
condurre la lotta contro i governi che li avevano espulsi, sibbene
contro i loro propri compagni di causa! Il guaio era che avevano
tutti molto tempo da perdere e poco o niente da fare.
Nel '53, ad esempio, levò clamore e suscitò polemiche senza fine un
libercolo stampato dal general Roselli a propria difesa intorno alla
Spedizione e combattimento di Velletri. Dallo scrittore in fuori
nessuno che fosse nominato in quelle Memorie se la cavava con meno
di un'acida nota: bistrattato, s'intende, anche Pisacane, suo ex
capo di Stato Maggiore.155 Pisacane, che del resto non aveva
lusingato il Roselli nella sua Guerra combattuta, sferrò d'urgenza
il contrattacco con un precisissimo articolo pubblicato in tre
numeri della Voce della Libertà di Torino156. Seguí, sullo stesso
giornale, una violenta stroncatura di Pisacane a firma d'un tal
Massimino Trusiani.157 Ma la testa di turco del Roselli era l'eroe
di Velletri, Garibaldi, contro il quale le parole usate eran grosse.
Inde irae, battibecchi personali, un finimondo nella stampa
democratica. Il 4 agosto 1854, sull'Italia e Popolo, uno sprezzante
comunicato di Garibaldi; il 15 una contro dichiarazione di «alcuni
ufficiali della repubblica romana» (Pisacane?); il 20 Roselli, senza
peli sulla lingua, rincara la dose: la condotta di Garibaldi a
Velletri fu «un delitto... certamente più complicato e peggiore di
quello del generar Ramorino in Piemonte». Garibaldi infuriato lo
manda a sfidare, Roselli... non accetta; e quando gli dànno del
vigliacco e bugiardo, senza scomporsi risponde che coi rodomonti a
corto di ragioni è inutile battersi.158
Se i pezzi grossi trascendevan così, figurarsi la truppa minuta. E
tutto ciò con la presunzione sincera di giovare alla causa italiana,
tutto ciò nonostante che non scarseggiassero soggetti di grave e
giustificata preoccupazione collettiva. Il '54, infatti, fu l'anno
del colèra: un colèra tremendo che infuriò nell'estate e mieté
vittime a migliaia dappertutto in Europa, ma a Genova con
particolare violenza, assottigliando paurosamente le fila degli
emigrati.159 Straordinari servigi rese in quell'occorrenza
un'associazione di soccorso gratuito ai colpiti che subito si
costituí tra gli emigrati medesimi, offrendosi molti o come medici o
come infermieri. Cessato il morbo, l'associazione non venne
disciolta, ma trasformata (nel novembre del '54) col nome augurale
di Solidarietà nel bene, in un circolo permanente d'assistenza
ritrovo e lettura. Centotrentatre gli invitati alle prime adunanze,
e Pisacane e molti amici suoi naturalmente tra quelli; ma socio
effettivo Pisacane non divenne mai «unicamente perché essendo povero
non si sentiva di potersi obbligare alla modesta tangente».
Al colèra si aggiunse la minaccia imminente di una guerra europea.
Precipitava infatti la crisi orientale, Russia contro Turchia, e poi
Francia e Inghilterra contro la Russia; Austria ondeggiante:
febbrile ansietà negli ambienti politici. Una bufera di quella sorta
poteva sconvolgere la carta d'Europa!
Febbraio '55, la guerra per davvero.
8 marzo, Cattaneo a Pisacane: «Ne capite qualche cosa?... Vi par
possibile che questo vortice di tutti i venti passi rasente
l'Italia, senza toccarla? E se la tocca, dove sarà? e dove, e
quando, e come sarà?... Dopo il turbine chi resterà in piedi?... Il
talento è inutile... e li occhiali sono un impaccio, se ogni volta
che si ha maggior voglia di vedere dove il diavolo ci porta è
proprio quello il momento che si deve rimanere a occhi chiusi».
Ma se Cattaneo era al buio, figurarsi Pisacane; il quale una cosa
sola allora capiva, che cioè quella guerra, in sé e per sé estranea
affatto agl'interessi italiani, avrebbe forse potuto fornire
un'occasione preziosa per la soluzione italiana della questione
italiana: distraendo l'attenzione di Francia e d'Austria dal famoso
equilibrio nella penisola, così caro ad entrambe, e soprattutto
decongestionando l'Europa di truppe. Non aveva egli scritto
quattr'anni innanzi che, supposta l'Italia sgombra dagli stranieri,
non era poi tanto difficile di provocarvi lo scoppio della
rivoluzione integrale? Perciò a Cattaneo che lo incitava a partir
per la guerra «poco importava se coi Turchi o coi Russi, purché
potesse acquistarvi esperienza delle guerre grandi e reputazione»,
egli rispose di no: quello era un momento da non lasciare
l'Italia.160
Né egli solo la pensava così: era presentimento abbastanza diffuso,
seppure indeterminato, che da quel conflitto anche a noi sarebbe
derivato qualcosa. Ridda di vaticini; ma certo eran pochi quelli che
s'aspettavano la mossa del ministro Cavour, partecipazione cioè del
Piemonte alla guerra a fianco delle potenze occidentali. Colpo di
genio che la parte democratica, in blocco, fraintese, scagliando
contro di esso il furore appassionato delle sue proteste. Lo
sconfitto del '49 alleato dell'Austria? Era dunque la diserzione
definitiva dall'impresa italiana ed antiaustriaca! Al punto che,
quando l'intervento sardo venne irrevocabilmente deciso (con soli
trentun voti di maggioranza alla Camera e venticinque al Senato), e
s'apprestò il corpo di spedizione, né Mazzini né la maggior parte
dei repubblicani piemontesi o emigrati dubitaron di gridare al
tradimento e di sobillare i soldati perché gettassero i fucili:161
«Quindicimila fra voi stanno per essere deportati in Crimea. Non uno
forse tra voi rivedrà la propria famiglia... Morrete senza gloria...
L'ossa vostre biancheggeranno, calpestate dal cavallo del cosacco,
su terre lontane né alcuno dei vostri potrà raccoglierle e piangervi
sopra...» Ingiustificabile eccesso, d'accordo; non era da Mazzini
l'appello alla paura! Ma, d'altra parte, non lasciava tanto furore
comprendere come, nonostante l'antipiemontesismo ufficiale, i
rivoluzionari contassero ancora, per risolvere la questione
italiana, sull'esercito sardo? Protestavano perché, mentre l'Italia
era in ceppi, si mandassero quegli uomini a servire una causa
lontana: non era questa una confessione preziosa? Se costoro fossero
stati repubblicani al cento per cento, non avrebbero salutato con
gioia, dopo l'impegnarsi dell'Austria in quella guerra lontana,
l'impegnarsi anche dell'«altro nemico»?
Partito il contingente sardo, comunque, la via da seguirsi per i
rivoluzionari parve chiaramente tracciata: profittare della
situazione per riprendere in pieno, con disperata energia, il
bombardamento d'insurrezioni in Italia. Per l'ennesima volta ecco
Mazzini ripetere il suo ora o mai; furono in molti, anche fra i
dissidenti di ieri, anche fra i «militari di Genova» che finalmente
risposero: siamo con voi. Ma nessuno dimostrò, nel riaccostarsi a
Mazzini, più lieto slancio di Pisacane.
Dopo tanto blaterare contro il «tiranno di Londra» gli ex dissidenti
eran dunque già tutti a Canossa?
Niente Canossa, nessuna rinuncia ideale, né di qua né di là: le
profonde divergenze dottrinali e di metodo che avevano scisso il
movimento repubblicano d'azione sussistevano ancora; e i dissidenti
stringevan la mano non a Mazzini individuo, ma al capo responsabile
d'un grande partito politico. Alla necessità di una tregua, anzi di
una azione comune s'era giunti da ambo le parti dopo un
coscienziosissimo esame della situazione italiana quale si era
venuta sostanzialmente modificando negli ultimi tempi.162
E infatti qual era sempre stato il postulato fondamentale comune ai
due gruppi? Quello che esigeva, si sa, una soluzione rivoluzionaria
e unitaria del problema italiano. Orbene la consultazione anche
superficiale del barometro politico nell'anno '55 indicava invece
una tendenza chiarissima verso soluzioni di compromesso per giungere
a un sistema di monarchie costituzionali più o meno federate.
Bastava, per constatarlo, osservare cosa stesse accadendo in quelle
tre regioni della penisola nelle quali lo statu-quo si era
costantemente mostrato più instabile e che perciò erano state sempre
considerate come probabili focolai d'una crisi rivoluzionaria: il
Lombardo-Veneto, gli Stati Romani, le Due Sicilie.
Nel Lombardo-Veneto, un po' per la migliorata situazione diplomatica
dell'Austria, un po' per la diminuita tensione dei suoi rapporti col
regno sabaudo (alleanza antirussa), lo statu-quo appariva
evidentemente più incrollabile che mai; l'unica lontana possibilità
d'un suo mutamento era legata a un accordo europeo, in base al quale
l'Austria si fosse piegata a una cessione totale o parziale dei suoi
dominii italiani al Piemonte, in cambio di compensi territoriali in
altre regioni. Comunque, niente da fare per il partito
rivoluzionario nella pianura del Po.
Negli Stati Romani, retti da un governo sempre più screditato e
inceppato nel suo funzionamento, lo statu-quo era solidamente
assicurato dalle baionette francesi; anche qui, dunque, nessuna
speranza.
Nelle Due Sicilie, che il cronico malcontento dei ceti medi, la
ridda dei processi politici, l'infortunio Gladstone, l'isolamento
diplomatico se non proprio l'abbandono delle potenze, designavano
come l'epicentro probabile d'un eventuale terremoto rivoluzionario,
principiava a prender piede e a raccogliere larghe adesioni una
soluzione antirivoluzionaria (seppur violenta) appoggiata, così
pareva, a Parigi e a Torino: la restaurazione della dinastia dei
Murat.
Il partito rivoluzionario si vedeva così minacciato nelle sue
finalità dal pericolo che, ovunque in Italia, la prepotente
aspirazione degl'italiani coscienti a un ordine nuovo, anziché
servir di lievito a un risorgimento integrale, venisse
cloroformizzata e spenta per mezzo delle così dette transazioni
realistiche, di baratti, di pateracchi principeschi. Era la missione
d'Italia che in tal modo si smarriva, era il sogno unitario che
crollava forse per sempre, erano gl'italiani sottratti alla dura
formativa scuola del sacrificio. Di fronte al moltiplicarsi delle
iniziative dall'alto e al crescer del loro prestigio, cadeva dunque,
necessariamente, ogni dissenso tra i rivoluzionari sul fare o non
fare immediato; c'era il caso, se si aspettava troppo, di trovarsi
un bel giorno innanzi a irrimediabili fatti compiuti, venissero
questi da un Napoleone o da un Cavour o da un Murat o da un convegno
di Ministri degli Esteri. Occorreva quindi reagir prontamente,
precipitando uno scoppio rivoluzionario in quel Mezzogiorno che,
nonostante tutto, si presentava ancora come l'unica terra italiana
nella quale gli agitatori potessero riporre un filo di speranza; per
fortuna la soluzione Murat non era affatto sentita in Sicilia. Ma
non c'era tempo da perdere: se alla caldaia napoletana si lasciavano
applicare valvole di sicurezza Murat, la partita era definitivamente
perduta.
Di tutto ciò Mazzini si rese conto con perfetta lucidità tra il
cadere del '54 e il principio del '55; fu allora che, abbandonando
la speranza lungamente nutrita di suscitare la rivoluzione italiana
coll'istigare i lombardi a rinnovare il conflitto con l'Austria,
diramò l'ordine di concentrare il fuoco sulla Sicilia e su Napoli. I
«militari di Genova», e con essi molti altri rivoluzionari più o
meno antimazziniani fin qui, che avevan sempre sconsigliato
l'insurrezionismo a ripetizione nell'alta Italia, si posero
senz'altro a sua disposizione.
E così i successi della politica europea del Piemonte, atteggiantesi
ormai a potenza rappresentativa d'Italia, e nel Piemonte stesso e in
tutta Italia la crescente popolarità del partito nazionale che
incondizionatamente appoggiava quella politica, e nel Mezzogiorno i
progressi del murattismo, tutto ciò inquadrato in una valutazione
forse eccessivamente severa delle cose italiane, resero l'unità e
l'energia al movimento mazziniano; lo salvaron cioè da una
bancarotta morale che nel '54, all'indomani di due gravi sconfitte
(Milano '53 e Sarzana '54), appariva per molti segni e probabile e
prossima. La ripresa fu infatti straordinariamente vivace; si
sarebbe detto che una scarica elettrica avesse percosse le torpide
membra del partito: dissidenti che rientravan nei ranghi, «tepidi»
che si rianimavano, affluir di nuove reclute, e intorno al partito
quell'alone di consensi, di anonimi incoraggiamenti, quel fioccar di
proposte, che da tempo eran venuti a mancare, sintomi tutti della
vitalità d'un movimento politico.
Mazzini stesso, rendendosi conto che la battaglia suprema
s'approssimava, pareva pervaso da uno slancio nuovo, da un rifiorito
ottimismo; le delusioni passate non erano, ancora una volta, che
fuggevoli ombre; il suo stile ritrovava il tono ispirato e
profetico: «V'è tal momento, scriveva in gennaio, in cui una
insurrezione importante non suscita un popolo; tal altro in cui una
sorpresa audacemente eseguita, una bandiera inalzata da un pugno
d'intrepidi, una banda sull'Appennino, è la scintilla che dà moto
all'incendio. Credo che il nostro momento sia questo». Che lo fosse,
sentiron tutti, d'un tratto, i rivoluzionari repubblicani, e chi non
l'ebbe a sentire, voleva dir proprio che tale non era e non sarebbe
stato più mai.
Stretta la prima intesa generica, Mazzini si preoccupò di
perfezionarla, e a tal uopo accortamente si serví della intelligente
sua amica, e amica insieme di Pisacane, Emilia Hawkes: questa fu a
Genova per quasi sei mesi, dal gennaio al maggio del '55. Le donne
riescon talvolta mediatrici abilissime: molte cose che Mazzini
avrebbe voluto dire agli ex dissidenti, e non sapeva come per
l'antica ruggine, scriveva invece a lei ed essa con femminile garbo
comunicava a loro, eliminando ogni sorgente di possibile attrito,
scegliendo il momento opportuno per battere ora quel tasto ed ora
quell'altro. Era ancora l'Emilia che convogliava a Londra le notizie
di Genova, e anche questo faceva con conoscenza perfetta dell'amico
di lassú, delle sue debolezze e dei suoi punti sensibili, animata
sempre dal desiderio vivissimo che quella tregua s'avesse ben presto
a tramutare in una pace definitiva. Il suo soggiorno coincise
infatti con la progressiva ripresa dei rapporti cordiali d'un tempo
fra i due gruppi avversari; né diminuisce affatto il suo merito la
considerazione che forse a facilitare l'intesa contribuí anche la
prospettiva, grata ai militari di Genova, che il mutamento di fronte
del partito avrebbe inevitabilmente portato a un trasloco del
quartier generale rivoluzionario da Londra a Genova, testa di ponte
obbligata per qualunque movimento antiborbonico.
A partir dal febbraio, il nome di Pisacane ricompare con frequenza
nell'epistolario mazziniano; nel marzo il «proudhoniano» è già
qualificato «tra i migliori», e nello stesso periodo colui che solo
due anni innanzi aveva scritto della «fazione» mazziniana che
purtroppo non era per anco del tutto spenta, poteva arricchire le
sue povere entrate accettando — su invito della direzione — di
collaborare a quell'Italia e Popolo, che era appunto l'organo
ufficiale del mazzinianismo in Italia. Era stata, questa, un'idea di
Mazzini, un po' per riconquistare l'amico, un po' per rinsanguare
con l'ardore di lui l'assai fiacco giornale. «Come siete con
Pisacane? (aveva chiesto a uno della redazione). Parmi strano, se
non siete nemici, che non abbiate avuto ricorso a lui per qualche
articolo sulla guerra attuale di tempo in tempo. È capace assai».
Fatto sta che da mezzo febbraio a tutto aprile comparvero
sull'Italia e Popolo frequenti e notevoli articoli di commento
militare alle cose d'Oriente. Tutti di Pisacane? Difficile dirlo,
ché i collaboratori di quel giornale, Mazzini eccettuato, non
firmavano mai. Di Pisacane era certo quello dal titolo audacemente
ironico Viva il trattato (il trattato di adesione del Piemonte
all'alleanza delle potenze occidentali), stampato il 21 di febbraio:
lo si sa da una lettera.163 Altri articoli che direi suoi, a
giudicar dallo stile e conoscendo le idee generali e le passate
esperienze di guerra di Pisacane e i testi militari cui egli soleva
ricorrere, sono Previsioni sulla guerra di Crimea (18 febbraio),
Considerazioni sulla guerra d'Oriente (14, 15, 17 marzo), La
capacità militare di L. Napoleone (27 marzo), La disciplina degli
eserciti e l'ubbidienza passiva (30 marzo), Le condizioni degli
alleati in Crimea (4 aprile). Lo scrittore si mostrava scettico
sulla possibilità di successi dell'esercito collegato, non credeva
alla caduta di Sebastopoli, trovava che il comando alleato era
inferiore al suo compito; dalla critica di dettaglio saliva alla
dimostrazione della superiorità degli eserciti volontari su quelli
stanziali; lodava l'infelice indirizzo di Mazzini alle truppe sarde;
stroncava la comoda tesi alleata segnar quella guerra l'urto tra le
democrazie d'occidente e l'autocratismo russo; analizzava
spietatamente tali pretese democrazie e affermava poter solo
l'Europa libera, l'Europa dei popoli associati, atterrare
definitivamente i regimi assolutisti. «Chiunque non adagiasi ne'
presenti mali, non ha altro faro, né altra speranza che il vessillo
della rivoluzione». Aveva dunque tutte le idee di Pisacane; e in più
lo stesso gusto suo per le anticipazioni storiche, la stessa sua
complessità di vedute e di ragionamento, l'identica specialità dei
bruschi passaggi dalla storia alla politica, dalla scienza militare
alla psicologia dei popoli.
Di Pisacane o no, questi articoli una cosa dimostrano a luce solare:
quanto larga, cioè, o meglio illimitata, fosse la libertà di stampa
che il governo di Torino, perfino in tempo di guerra, credeva suo
debito e suo pro di liberalmente osservare.
La politica è un'infida distesa di sabbie mobili: finché te ne tieni
lontano, stupisci che quei che vi son capitati in mezzo non riescano
a sottrarvisi più, e gestiscano e gridino come gente invasata. Ma se
per caso ti ci avventuri anche tu, presto ti accorgi che l'uscirne è
pressoché impossibile: vi affondi lentissimamente, ma senza mercé.
Pisacane v'era caduto, proprio per caso, nel '47; nel '51,
riuscitogli di sollevarsi un poco, s'era illuso di poterla scampare;
quattro anni più tardi s'inabissava anche più irrimediabilmente di
prima. Qualche lettera a Mazzini, quei pochi articoli sull'Italia e
Popolo, nient'altro di concreto aveva fin'allora concesso alla
politica attiva; ma era il piede dell'insabbiato, era il
rovesciamento totale delle sue posizioni, era la fine del periodo di
pace operosa, era l'addio al ritiro di Albaro. Lo aveva tradito,
ancora una volta, la tempra esuberante e impulsiva: quando mai gli
era riuscito di far le cose a mezzo? Distrattosi, rotto
l'incantesimo, non trovò più il verso, per voglioso che fosse,
d'inchiodarsi al suo tavolo, al lavoro paziente di tutti i giorni.
Giunto dopo anni di dispersione a realizzare che doveva pur
qualcosa, oltre che al genere umano, alla famiglia e a sé, avviatosi
appena sulla via banale d'una occupazione fissa e retribuita, ecco
che retrocedeva d'un tratto, per ricadere nei generosi eccessi di
ieri.
Concorso a Oristano, in Sardegna, per l'ufficio d'ingegnere
municipale; Pisacane lo vince, ma in Oristano non va: allontanarsi
tanto in tempi calamitosi?
Un posto d'addetto alle nuove costruzioni ferroviarie (erano in
studio o in corso la MondovíCeva, la Bra-Mondoví);164 Pisacane lo
accetta, si reca a Mondoví, ma è cosa che dura non più di qualche
settimana: non è egli, che diamine, uomo da stipendio mensile, né ha
le attitudini dell'impiegato. Maiora premunt: c'è da fare nel Sud. E
allora Enrichetta e Silvia son costrette a lasciare Albaro, a
installarsi con lui proprio nel cuore di Genova; di nuovo
s'ingolfano tutti nelle alterne grandezze e miserie (questa assoluta
e quella assai relativa) che il mestiere d'insegnante privato
conduce invariabilmente con sé.
Ma in quel periodo di pace operosa che la nostalgia dell'azione e il
conseguente riavvicinamento a Mazzini eran venuti a concludere così
bruscamente, Pisacane non aveva soltanto riflettuto parecchio e
letto una filza di libri e dettato quei quattro o cinque articoli.
Il frutto più cospicuo del suo lavoro era un voluminoso manoscritto
che adesso egli riponeva nel suo cassetto, nella vana lusinga di
condurlo a compimento un dí o l'altro. Era il manoscritto di quei
Saggi storici-politici-militari sull'Italia che rappresentano il
punto terminale della sua faticosa evoluzione teorica.
L'opera gli si era venuta componendo pian piano e quasi
insensibilmente, fuor dalla congerie di appunti e osservazioni che
egli aveva tratto via via dalle sue letture.165 In un primo tempo
Pisacane aveva lavorato esclusivamente per sé, assillato
dall'esigenza di «formarsi un convincimento che, essendo norma delle
sue azioni, fra il continuo mutare degli uomini e delle cose, lo
avesse mantenuto sempre nel medesimo proposito». Non voleva, ecco,
che la sua politica fosse mera improvvisazione governata
dall'intuizione o dal caso. Soltanto più tardi, parendogli di aver
raggiunto una visione sintetica di qualche importanza, s'era
persuaso dell'opportunità di comunicare al pubblico italiano le sue
conclusioni.166 Ma il destino gli negò di vedere i suoi Saggi
stampati. Furon gli amici infatti che, morto lui, ne curarono la
pubblicazione, in quattro volumi, 700 pagine e più (I, Cenni
storici; II, Cenni storici militari; III, La rivoluzione; IV,
Ordinamento dell'esercito italiano).167
Qual è il valore dei Saggi? Ultimamente lo si è piuttosto esagerato,
probabilmente per reazione all'ingiusto dispregio in cui furono
tenuti nei loro primi trenta o quarant'anni di vita. Il libro
presenta infatti gravi difetti di costruzione, è sproporzionato e
prolisso, generalmente mal scritto, di rado originale, pesante
ovunque di faticata erudizione. All'ambiziosissimo intento:
«determinare l'avvenire d'Italia studiandone il passato» mal
corrispondeva la preparazione dell'autore, digiuno o quasi di
cultura giuridica e storica (relativamente più dotto, se mai, in
quella che allora si diceva «filosofia civile»). Molte le sue
letture, sì, ma frettolose e troppo immediatamente sfruttate; le sue
fonti — gli scrittori politici napoletani del '700, s'è detto, da
Vico a Pagano, più Romagnosi, Ferrari e i socialisti francesi del
tempo suo, capofila Proudhon — affiorano, nei Saggi, continuamente:
Pisacane non ha saputo farne sangue del suo sangue, convertire cioè
l'erudizione in cultura.
Di storia d'Italia, dall'antichità preromana su su fino al secolo
decimonono, ce n'è forse anche troppa nel primo Saggio; ma dove non
ti si rivela meramente manualistica, ben t'avvedi che Pisacane la
conosce solo attraverso le interpretazioni dei suoi economisti e
filosofi. Né d'altronde questa minutissima indagine sulla fortuna e
la decadenza dei successivi regimi politici-sociali gli serve gran
che per determinare l'avvenire d'Italia: tra la molteplice
esperienza del passato e le vie del domani la discontinuità, il
distacco sono evidenti. Difetta a Pisacane il rigor logico delle
deduzioni; le sue profezie risultano perciò il più delle volte
arbitrarie.
Maestro egli si rivela, è vero, tanto nel tracciare la storia
dell'arte bellica (nel qual campo orgogliosamente e abilmente
rivendica la superiorità italiana) quanto nel disegno di una
radicale e originale riforma degli ordinamenti militari
(sostituzione della nazione armata agli eserciti stanziali);168 ma
questa parte, che riempie interamente i Saggi 2° e 4°, viola
l'armonica economia del lavoro con la sua successiva lunghezza e
minuzia.
Opera mancata, dunque? Nel suo insieme, e in relazione all'intento
assegnatole, direi senz'altro di sì. Probabilmente lo stesso
Pisacane, se avesse potuto riprenderla in mano qualche anno dopo la
prima laboriosa stesura, avrebbe constatato che i Saggi non erano
che il materiale dal quale un libro buonissimo e utilissimo avrebbe
potuto cavarsi, a condizione che quel materiale venisse vagliato,
ordinato, padroneggiato. Egli si era, invero, cimentato un po'
leggermente con un assunto, diciamolo schietto, più grande di lui.
Si veda ad esempio, sempre nel primo volume, la sua argomentazione,
molto più brillante che solida, doversi la decadenza dei cicli di
civiltà imputar sempre all'ineguale distribuzione delle ricchezze:
coi dati stessi da lui fornitici (nonostante che siano di scelta più
che arbitraria) non si sentirebbe chiunque di sostenere dieci tesi
diverse dalla sua, seppure altrettanto partigiane e fragili? E per
esempio quella che il declinare del mondo romano sia seguito non
tanto alla crescente sperequazione economica quanto alla
degenerazione del sistema militare?
Col che non vuol negarsi affatto che nei Saggi non siano pagine
belle (anche stilisticamente) e, quel che più importa, pensieri e
intuizioni di notevole acutezza e importanza. Tutt'altro: chi
riducesse i quattro Saggi alla mole d'un solo farebbe d'uno
zibaldone indigesto un'antologia storica e critica leggibilissima, e
utilmente leggibile. Ma per venire a quel che più c'interessa
conviene sottolineare che i Saggi costituiscono la prima
applicazione in Italia (rozza e approssimativa fin che si voglia) di
quel metodo economico-storico che nella Guerra combattuta era stato
appena annunciato: il metodo poi definito del materialismo storico.
«Scorgeremo come un importantissimo fatto o legge di economia
pubblica trovasi, con le medesime conseguenze, ripetuto in tutte le
antiche società, e quindi sarà indubitato che, esistendo fra noi,
dovrà produrre l'effetto medesimo». Così fin dalle prime pagine dei
Saggi: questo fatto o legge Pisacane ravvisa, risalendo di causa in
causa, nell'istituto della proprietà privata, corruttore d'ogni
assetto sociale, ispiratore di pessime costituzioni, fonte prima
d'ogni nequizia umana. L'uomo, volto alla ricerca dell'utile, non è,
per questo benthamiano integrale, buono o cattivo in sé: sono le
leggi sociali che, facendo coincidere o meno il suo utile privato
con quello della collettività, gli dànno o gli tolgono l'apparenza
della virtú; è l'istituto della proprietà privata che fa l'uomo
homini lupus; rimossolo e resane impossibile la ricostituzione, la
società umana potrà finalmente trovare un assestamento duraturo e
migliore. La disamina del meccanismo sociale si fa qui penetrante:
la storia ha già mostrato a Pisacane l'inevitabile tendenza delle
ricchezze all'accumulazione, di conseguenza l'accentrarsi del potere
politico in un ceto sempre più ristretto, causa prima di decadenza.
Studiando la civiltà capitalistica egli fa un passo innanzi: quanto
più crescono le ricchezze sociali — e il mondo ne produce in assai
maggior copia che non nei secoli andati — tanto più la classe
lavoratrice s'immiserisce.169 «Le macchine e la divisione del lavoro
hanno accresciuto il prodotto netto e nello stesso tempo ribassato
grandemente il salario». La traiettoria fatale delle civiltà sarebbe
dunque nuovamente al suo termine (che Pisacane ravvisa nel
dispotismo militare); senonché l'enormità stessa dei mali che
affliggono la società moderna porta in sé il suo rimedio definitivo:
la rivoluzione sociale, la rivolta degli sfruttati cioè, mirante
appunto all'abolizione integrale della proprietà privata. Sulla
fatalità di questa benefica catastrofe Pisacane non nutre dubbi di
sorta; di più: nega esplicitamente che essa si possa incanalare,
ritardare o affrettare. I riformatori sociali non fanno che
antivederla: le loro profezie sul suo svolgimento sono esercitazioni
intellettualistiche utili solo per dimostrare ai conservatori
impenitenti che un assetto sociale diverso in tutto da quello
esistente è pensabile.
Come socialista, Pisacane sfugge alle classificazioni consuete:
anarchico federalista nel battere in breccia ogni rudimento di
governo centrale (superbe, vibranti queste sue pagine sulla
libertà!) e nella dinamica del processo rivoluzionario, ti si rivela
comunista autoritario laddove prevede che nella società
post-rivoluzionaria ogni forma di attività farà capo e verrà
disciplinata da due grandi, onnipossenti Associazioni
monopolistiche, di lavoro agricolo e di lavoro industriale, all'una
delle quali ogni cittadino verrà obbligato ad iscriversi e alle
quali verranno devolute tutte le forme di proprietà.170 Né il suo
socialismo ha alcun carattere internazionale; concepito soprattutto
in funzione e presentato qual soluzione della crisi italiana, esso
non solo non implica superamento del patriottismo, ma anzi
intensificazione, sviluppo massimo dei caratteri distintivi d'ogni
nazione.171 L'Italia socialista di Pisacane non vuol essere,
insomma, nel mondo, la grande proletaria e basta: d'idealità
pacifiste non è parola nei Saggi, anzi si discorre anche troppo di
quel che potrà essere l'ordinamento militare più efficiente e più
adatto alla sua importanza avvenire. Gli è che nonostante
che la sua utopia lo porti a vagheggiare la trasformazione della
società in un eden per tutti, imperniato sulla solidarietà degli
interessi (Libertà ed Associazione è la sua formola preferita), il
suo temperamento lo costringe nel contempo a conservare l'istintiva
visione della vita come aspra continua lotta d'individui e
collettività e a considerare il perfezionamento morale e materiale
degli istituti e degli uomini come condizionato appunto al perpetuo
rinnovarsi di quella lotta (e cioè della concorrenza).
Ma quali che siano le contradizioni del suo socialismo
(principalissima appunto la contradizione fra il fondamento liberale
della rivoluzione sociale e quello illiberale, antiindividualistico,
costrittivo che informa la sua concezione del novus ordo
post-rivoluzionario) la sua importanza nella storia del nostro
pensiero politico, e insieme ai suoi limiti, risiedon di certo nella
saldatura che esso presenta tra rivoluzione sociale e scioglimento
del problema nazionale italiano. Sul qual punto, del resto, i Saggi
non fanno che approfondire e stringere le considerazioni già
abbozzate nella Guerra combattuta: per vincere la battaglia politica
che deve dar vita all'Italia libera, una sola forza è veramente
efficiente, quella costituita dagli italiani tutti che ravvisino
nella vittoria il conseguimento di un beneficio comune.
Se poi, chiusi i quattro volumi dei Saggi e distolto lo sguardo
dalle questioni speciali in essi trattate, si domandasse in che mai
consista, nonostante ogni loro difetto, l'attrazione che ancor oggi
indiscutibilmente essi esercitano, credo sarebbe giusto rispondere
che essa deriva in gran parte dalla personalità dell'autore.
Commovente e nuovo è vedere quest'uomo di media cultura, non nato
agli studi, ma ansioso di contribuire con tutto se stesso al
risorgimento della sua patria, sobbarcarsi a una fatica così
gigantesca come quella di andar ricercando nel passato d'Italia il
riposto perché delle sue condizioni presenti e i sintomi e il senso
probabile della sua ripresa imminente, e d'anticipare le vie che la
sua patria ricostituita a nazione dovrebbe proporsi di battere.
I Saggi non sono, in conclusione, un gran libro e Pisacane, non
appena deposta la penna, si dimostrò ben poco fedele allo spirito
loro e ai postulati teorici che v'avea svolti. Ma quale mirabile
esempio, nella stessa loro insufficienza, non offrivano essi agli
italiani!17
Gli amici federalisti, che conoscevano il Pisacane dei Saggi, non
intendevano come colui che aveva scritto in testa a un suo libro:
«le rivoluzioni materiali si compiono allorché l'idea motrice è già
divenuta popolare», colui che aveva ripetutamente bollato
l'inutilità e la fragilità di una rivoluzione puramente politica,
potesse da un giorno all'altro far marcia indietro e tornare
all'insurrezionismo di Giuseppe Mazzini.173 Ma Pisacane non li
ascolta più, quegli amici, o gli par che sragionino; serba in pieno
le sue concezioni sociali e le sue riserve politiche, ma in sede
teorica. E che, dovrebbe dunque, mentre le cose precipitano, mentre
di giorno in giorno si corre il pericolo di veder Murat a Napoli,
meriggiar quietamente sulla dolce riviera ligure, in attesa che lo
spirito santo faccia germogliare nel cuore e nel cervello d'ogni
italiano idee e volontà smarrite da secoli? No, queste idee, queste
volontà, la fiducia nella propria energia e lo spirito di
sacrificio, vanno suscitati e incoraggiati d'urgenza. Il processo di
combustione interna italiana minaccia di risolversi, anziché in un
gigantesco incendio purificatore, in una gaia luminaria di
festeggiamenti a monarchi ambiziosi e fortunati: non spetta dunque
agl'italiani del suo stampo di correr tutti, col tizzo acceso in
mano, ad appiccare il fuoco? Se poi nella fretta accadrà di strafare
o far male, vuol dire che il mal fatto si correggerà in appresso.
Tutto fuorché l'adattarsi ai ripieghi e ai mezzi termini.
Né s'avvede, Pisacane, o non vuole far mostra d'avvedersi, della
contradizione in cui si dibatte. Precipita all'azione perché
terrorizzato dalla possibilità che le cose italiane trovino una via
d'uscita arivoluzionaria, ma intanto prosegue imperturbabile a
proclamare che non può darsi soluzione definitiva se non nel senso
propriamente rivoluzionario; pensa a una spedizione nel Sud in
parte come contro-mina a Murat, ma intanto affetta non temere
minimamente costui; nega che mai i
Savoja possano farsi liberatori d'Italia, ma agisce esattamente come
chi più li paventa.
Contradizione che è tutto un angoscioso dramma di coscienza:
l'eterno dissidio, che ci tormenta tutti, tra esigenze di ragion
pura e esigenze e richiami di ragion pratica. Ma in questo caso la
contradizione non si spiega compiutamente, ahimè, se non ammettendo
che l'esaltazione entusiastica della intelligenza, del valore, del
carattere degl'italiani cui egli si è abbandonato nei Saggi (una
specie di «Primato» in bocca a un socialista!) dichiarando di
derivarne la certezza d'una soluzione integralmente rivoluzionaria
della crisi italiana, corrisponda assai poco alle sue convinzioni
profonde; e forse non sia che un accorgimento politico abilmente
usato da chi, inclinando a pessimismo, voglia ciò non pertanto
incitare i suoi connazionali all'osare. Poiché accade talvolta che i
poltroni impenitenti si scuotano piuttosto a immeritate lodi che a
giusti rimproveri.174
Capitolo nono
Questione borbonica
Per taluni suoi avversari politici Mazzini era, si sa, una specie
d'Iddio onnipossente e maligno che, ingelositosi delle fortune
italiane, si fosse fitto in capo, per mala sorte nostra, di
contrastarle e spegnerle con ogni sua forza e dovunque. Disfattista
a Milano nel '48, pericoloso estremista a Roma nel '49, e poi
carnefice della migliore gioventú, complice de' governi tirannici
con quel suo continuo offrir loro nuovi motivi di repressioni
violente, diffamator del Piemonte «palladio delle libertà italiane»,
vergogna dell'Italia all'estero. Tutte le colpe eran sue.
Vollero adesso costoro che il murattismo, del quale egli andava
parlando come d'un grave imminente pericolo, non fosse che una bolla
di sapone da lui sapientemente gonfiata per giustificare il suo
intervento nelle cose di Napoli e per riattirare al suo giuoco molti
emigrati meridionali che da un pezzo ne avevano abbastanza di
lui.175 Chi mai, da Mazzini in fuori, prendeva sul serio in Italia
la fola Murat?
L'odio di parte annebbiava loro la vista: fola, sì, ridevole per
giunta, era stato il murattismo fin quando Napoleone non s'era fatto
padrone di Francia; da allora in poi, stabilitosi il pretendente
ufficioso (Luciano) a Torino qual Ministro francese e poi salito ai
sommi gradi massonici, s'era mutato in un pericolo vero.176 Luciano
infatti si era subito messo attivamente al lavoro, stabilendo
contatti sempre più numerosi nell'ambiente degli emigrati
napoletani, sfruttando abilmente il rimpianto che i più vecchi tra
loro nutrivano per re Gioacchino: impareggiabile nell'arte di dire e
non dire, attento a non compromettersi troppo, Luciano era
insinuante nelle lusinghe, largo nelle promesse, regale addirittura
nell'assumere impegni politici; il suo regime, se mai si fondasse,
sarebbe schiettamente costituzionale, egli si porrebbe deciso
alleato del Piemonte nella crociata antiaustriaca, godrebbe
l'amicizia, non mai la tutela di Francia. Lui re, insomma, l'Italia
sperimenterebbe finalmente l'indipendenza, la prosperità e, chi sa,
la grandezza!
Tale propaganda, autorizzata a Parigi e, per amore o per forza,
tollerata a Torino, aveva gradatamente attecchito. Nel '50 e
nell'anno seguente si era ancora ai «si dice»; nel '52 avea già
portato a misteriosissimi viaggi di Guglielmo Pepe in persona a
Nizza e a Genova, seguiti da abboccamenti con Mezzacapo, Musolino,
Carrano, Boldoni, Cosenz, verosimilmente con Pisacane medesimo.177
Conversioni? Se ne sapeva poco (solo più tardi si venne a sapere di
Mezzacapo), ma Pepe era pure un gran nome e una gran garanzia, e se
inclinava a murattismo lui... Dal '52 al '55 la situazione francese
si era andata stabilizzando, quella napoletana aggravando: le azioni
di Murat automaticamente salivano. Ma fu proprio nel corso del '55
che fecero un balzo in avanti: opuscoli-manifesti lanciati con
chiasso a Torino e a Parigi, dichiarazioni di Murat alla stampa,
quotidiani passati al suo servizio, un Saliceti, ex triumviro a
Roma, stipendiato da lui, Montanelli sostenitore aperto, voci
abilmente messe in giro sul filomurattismo di Cavour.178 Nei circoli
diplomatici, che ormai consideravano la situazione napoletana con
assoluta «fluidità» di vedute e assenza totale di solidarietà
dinastica, molti dicevano forte che una restaurazione Murat
rappresentava il più pratico rimedio possibile. Se alcuno obiettava
non doversi i mali italiani curare con medicine di fuori, gli agenti
del murattismo replicavan vantando l'italianità dei Murat e
sbandierando l'antico proclama di Rimini. Il pericolo c'era!
Il 20 luglio '55 anche Pisacane, in una vigorosissima lettera
stampata sull'Italia e Popolo, lo denunciò, ponendo in rilievo con
mordente irrefragabile argomentazione la bassezza, l'inutilità ai
fini della liberazione d'Italia, e soprattutto l'assoluta
inattualità dei disegni murattisti. Rincarò la dose il 22 settembre,
sulla stessa Italia e Popolo: era tempo di finirla con le poetiche
reminiscenze del re fucilato; chi era stato costui, in Italia, se
non un «seide» di Napoleone, un violatore d'istituti di tradizioni
d'aspirazioni italiane? Quale la sua gloria, in cosa mai la
prosperità del suo regno, che solo la gran distanza di tempo
indorava? Il giudizio della storia non era dubbio: la dominazione
francese a Napoli si era risolta in un vergognoso disastro. E si
sarebbe dovuto lottare e soffrire, e si sarebbe dovuto esporre il
paese ai rischi d'uno sconvolgimento per ripiombare,
volontariamente, nelle condizioni di allora?
Quattro giorni appresso, un reciso comunicato alla stampa sarda: gli
emigrati delle Due Sicilie dichiarano «che siccome avversano
l'attuale governo (borbonico)... perché incompatibile con la
nazionalità italiana, per la ragione istessa avversano qualsiasi
forma di governo che potesse costituirsi col figlio di Gioacchino
Murat, e tanto maggiormente che in tal caso quel regno diverrebbe
indirettamente una provincia francese». Trenta firme: tra l'altre,
quelle di Pisacane, Cosenz, Boldoni, Pilo. Non molte, invero, nella
gran massa di emigrati meridionali! Murattista, dunque, la
maggioranza?179 Tutt'altro; ma diffidente de' mazziniani e dei loro
metodi e non disposta a mostrarsi in combutta con loro, sì certo. La
qual discordia fra i liberali napoletani giovava immensamente,
s'intende, anzi tutto ai borbonici, poi anche alla frazione Murat.
Prima misura di guerra antiborbonica e antimurattista era dunque,
pei mazziniani, il procurare, sottolineando la gravità del pericolo
e temperando il proprio programma, la formazione d'una provvisoria
alleanza, d'un fronte unico tra le varie correnti dell'emigrazione
che non fossero passate a Murat. Nell'autunno '55 non ebbero altro
pensiero. Il blocco riuscí, come sempre riescono quando a proporli
si fa la frazione estrema, la più intransigente; in questo caso,
poi, si dimostraron negoziatori preziosi quei «militari di Genova»
che potevan ben dire: fummo anche noi contro Mazzini, ora ci uniamo
a lui perché agire bisogna; Mazzini comunque è in mano nostra,
niente farà senza che noi vogliamo. Nacque così tra il cadere del
'55 e i primi del '56, con sede a Torino, un Centro politico avente
per scopo dichiarato quello di controllare unificare e finanziare
eventuali iniziative (oltreché proporne d'originali) volte ad
agitare dinanzi all'opinione europea la questione napoletana e a
sollecitarne una soluzione impostata sulla detronizzazione borbonica
e sul veto a Murat.180 Membri del Centro gli emigrati delle Due
Sicilie, senza distinzione di confessione politica; componenti il
Comitato d'agitazione quattro o cinque costituzionali
piemontesizzati tipo Scialoia e Massari, quattro o cinque
rivoluzionari repubblicani tipo Pisacane e Cosenz.
Nei primi mesi tutto andò a meraviglia: un diluviare di lettere da e
per Napoli, da e per la Sicilia, da e per Parigi e Londra; molte
adunanze; intensa campagna finanziaria; viaggi d'intesa in Italia e
fuori d'Italia (Musolino, ad esempio, fu a Londra «per delegazione
dei nostri di Piemonte ed in ispecie di Pisacane»).181 In che
consisteva la propaganda che si faceva? Ce lo dice una lettera,
ch'io riassumo, di Pisacane a Plutino, 30 dicembre '55, intesa a
cavargli quattrini: passato è il tempo delle discussioni teoriche,
egli argomentava; in sede teorica né i piemontesisti posson
convincer me che Vittorio Emanuele sia la fortuna d'Italia, né io
convincer loro che lo sia la repubblica. Piemontesisti e
repubblicani presumiamo tutti che i «fatti» ci daranno un bel giorno
ragione. È dunque nell'interesse di entrambe le parti di promuovere
«fatti» e rimetterci, pel bene del paese, alla risposta dei fatti.
Se il Piemonte ha davvero, come dice, intenzione di agire per la
causa italiana, essi gliene offriranno l'occasione; se i
repubblicani interpretano davvero la volontà dei più solo i fatti lo
mostreranno. C'è poi il pericolo murattista: pazienza quei che ne
ridono e non voglion perciò dar mano libera ai rivoluzionari, ma vi
son altri che pur ritenendolo grave vi si rassegnano supinamente
perché supposto conforme agl'incontrastabili interessi francesi. «Se
otto milioni d'italiani debbono sottostare necessariamente al
governo che gli potrà essere imposto da 20 a 30 mila francesi,
allora con sì poca coscienza delle nostre forze, ogni ulteriore
ragionamento è inutile, lasciamo ai nostri padroni di casa la cura
di migliorare le nostre condizioni ed ognuno pensi a sé».
Murattismo a parte, si vede chiaro come il Centro si fondasse assai
più sull'equivoco che su un'intesa leale. Era facile infatti
stendere un programma magari anche insurrezionale, con impegno
reciproco di assoluta astensione da ogni propaganda di partito; ma
nel fatto, come eseguirlo? Come evitare che ognuna delle parti
contraenti si limitasse a proporre quelle sole iniziative che
giudicasse convenienti al raggiungimento dei propri fini e si
opponesse ad ogni altra? Come annullare gl'inevitabili sospetti
reciproci di contribuire senza saperlo alla vittoria dell'alleato
d'oggi, sicuro avversario di domani? Sarà vero o non vero (e a me
non pare credibile) quel che scrisse il La Farina che la
costituzione del Comitato «era stata una finta per allontanare la
sorveglianza di Napoli da quelli che realmente operarono» — e
intendeva gli emissari del governo piemontese —;182 certo è comunque
che quanti avvertivan davvero l'imperativo categorico di affrettare
una soluzione definitiva del problema napoletano, non stentarono a
rendersi conto qual sorta di cappa di piombo si fossero messi
addosso, assumendo l'impegno assoluto di neutralità di bandiera; un
Pisacane, che dichiarava di preferire l'assolutismo borbonico al
costituzionalismo piemontese non poteva continuare a lungo a
lavorare a fianco d'uno Scialoia, ad esempio, il quale dal canto suo
avrebbe preferito le mille volte di morire in esilio piuttosto che
veder la repubblica a Napoli!
Tramontata la breve luna di miele, nuovamente pensosa ogni parte
della propria responsabilità, il primo scoglio che il Centro
incontrò sulla sua rotta bastò quindi a sfasciarne il fragilissimo
scafo.183 Lo scoglio fu la proposta formale avanzata dai
repubblicani in seno al Comitato d'una spedizione armata nel Sud,
che ponendo gli oppositori napoletani dinanzi al fatto compiuto e
offrendo loro così la prova della fattiva solidarietà del resto
d'Italia, li forzasse a tradurre finalmente in azione la fin qui
inconcludente querimonia verbale contro il regime borbonico.
Disperazione dei costituzionali, persuasi che si sarebbe in tal modo
irreparabilmente compromessa, precipitandola, una situazione, come
quella napoletana, promettentissima e tuttavia non ancora del tutto
matura; della quale immaturità, secondo essi, fornivano, senza
volerlo, la più bella prova gli stessi repubblicani, quando
insistevano sulla inderogabile necessità preventiva d'introdurre
forze esterne nel regno, per farlo insorgere. Ribattevano questi,
chiedendo che mai, dunque, si dovesse fare per Napoli. E giú i
costituzionali a magnificare le campagne di stampa in Piemonte e
fuori, le pressioni sistematiche sulle cancellerie europee, e
nell'interno del regno non tanto insurrezioni, buone a riempir le
carceri, sibbene solenni, pacifiche dimostrazioni popolari
antiborboniche. Il guaio era che non si trovava mai l'occasione per
promuovere queste tranquille dimostrazioni. Era stata sì lanciata
una proposta Manin per indurre i napoletani a rifiutar le imposte,
ma si era finito col trovarla — giustamente del resto — più
rivoluzionaria e più problematica di qualsivoglia spedizione armata.
Restò ciascuna delle parti, come accade, della propria opinione:
quei di sinistra anzi sempre più infervorati nel loro progetto e
sospinti ad effettuarlo dalla minaccia murattista; quei di destra
sdegnati e deprecanti, a profetar sciagure. Né valse che i primi
promettessero di non dare alla spedizione carattere repubblicano;
gli altri ribattevano che il progetto in sé era tutta una
dichiarazion di principii!184 Nel contrasto, s'è detto, il neonato
Centro politico chetamente cessò di vivere.
L'idea della spedizione era tutt'altro che nuova (e del resto sorge
sempre spontanea, irresistibile quasi, tra i fuorusciti d'un paese
tiranneggiato): si ricollegava a varie proposte affacciate da
Napoli, dalla Sicilia, da Londra; era un tempo, quello, nel quale
pareva anzi che i rivoluzionari italiani avessero tutti la monomania
delle imprese antiborboniche!
I rivoluzionari di Napoli avevano costituito, sin dal '53, un
Comitato insurrezionale repubblicano delegato a dirigere il moto
antiborbonico nelle provincie (dove si erano fondate numerose
sezioni) e a corrispondere con gli emigrati repubblicani a Malta, a
Genova, a Londra. Nicola Mignogna, Teodoro Pateras, Giuseppe
Fanelli, Luigi Dragone e qualche altro n'erano i più cospicui
esponenti.185 In breve tempo il Comitato era doventato il
monopolista della propaganda rivoluzionaria nelle regioni
continentali del regno.
Sullo scorcio del '55, nonostante che fosse stato arrestato, per
venir poi bandito dal regno, il Mignogna,186 factotum del Comitato,
i suoi colleghi erano giunti alla conclusione che la preparazione
rivoluzionaria del paese in genere, e l'efficienza del loro gruppo
in ispecie avessero raggiunto un punto così soddisfacente da render
consigliabile quel passaggio all'azione diretta, cui la minaccia del
murattismo, d'altronde, conferiva un carattere di grandissima
urgenza.
Preparazione rivoluzionaria, azione diretta, cosa significavano
queste solenni parole, senza dubbio pronunciate e scritte in piena
buona fede? Su quali dati poggiavano? In qual misura esprimevano il
pensiero di quel manipolo d'uomini che sparsi nelle varie provincie
rappresentavano lo strumento della rivoluzione da farsi? Fino a qual
punto tenevano conto del naturale scarto che esiste sempre tra le
intenzioni più generose e la loro attuazione? In base a quale
criterio chi usava quelle parole valutava le forze di resistenza del
regime che si voleva rovesciare?
Tutto ciò era assai poco chiaro, e v'eran ben poche idee concrete
nella mente di Giuseppe Fanelli (un giovanotto sui venticinque anni,
che nel '48 e nel '49 aveva brillantemente assolto il dover suo
battendosi in Lombardia e alla difesa di Roma),187 quando, per
incarico del Comitato, egli comunicò ai dirigenti il movimento
mazziniano l'intenzione dei rivoluzionari napoletani di dar fuoco
alle polveri, e chiese loro appoggio di consigli e di mezzi. Il
Comitato voleva far qualcosa atto a «svegliare» il popolo, pensava a
una serie di grossi colpi terroristici e insurrezionali, che non
dessero tregua al governo e suscitassero sempre più viva
l'impressione in Europa che alle falde del Vesuvio mugghiasse un
tremendo vulcano morale. Proposte generiche, tutte. Una sola
concreta: quella appunto d'una spedizione armata che avesse per
scopo di liberare un gruppo di prigionieri politici per poi
sbarcarli, armati, in un punto designato della costa napoletana, a
iniziar la rivoluzione.188
Un'idea molto simile, ma assai più limitata, l'aveva avuta Antonio
Panizzi, esule a Londra, fin da quando Settembrini e compagni eran
stati rinchiusi nell'ergastolo dell'isola di S. Stefano, in
rivoltante promiscuità con centinaia di condannati comuni
(imperdonabile obbrobrio, a quei tempi, per l'Europa civile!): farli
fuggire.189 Il progetto, piaciuto a moltissimi, italiani ed inglesi,
pareva avviato sul principio del '55 a sollecita esecuzione:
avvisati e favorevoli gli ergastolani, complici preziosi lo stesso
ministro d'Inghilterra a Napoli (William Temple190, fratello di
Palmerston!) e il suo collega a Torino; Garibaldi disposto a
capitanare l'impresa, Bertani impresario, danaro fin che se ne
voleva. A Genova era il segreto di Pulcinella.
Ma un primo tentativo d'esecuzione, operato nell'autunno di
quell'anno, fallí miseramente con un naufragio nel mar
d'Inghilterra. Ci si preparò per la primavera seguente.
Fu all'indomani di quel disastro che giunsero a Genova e a Londra le
proposte di Napoli:191 era troppo naturale che si pensasse a
coordinare i due piani. Il popolo meridionale è un popolo
sentimentale: quando avesse saputo che i prigionieri politici,
fuggiti dal carcere, levavan la bandiera della rivolta, li avrebbe
appassionatamente seguiti. Così pensò Pisacane, così pensarono molti
altri mazziniani con lui. Non li sfiorava neanche il dubbio che
forse gli ergastolani avrebbero preferito ricuperar la loro libertà
per vivere quieti in paese straniero anziché compromettere con essa
la vita in una sommossa violenta. Nacque in tal modo il progetto dai
mazziniani caldeggiato, senza fortuna, in seno al Centro politico.
La nave liberatrice, raccolti gli ergastolani a S. Stefano, avrebbe
dovuto far scalo a Ventotene (ché tra le due isolette, l'una un
cupolotto roccioso, sormontato da un solo immenso edificio,
l'ergastolo, l'altra più grande e piatta e popolata, non corre che
un brevissimo tratto di mare) per imbarcarvi i relegati politici — i
confinati cioè192; quindi, a un trenta miglia da Ventotene, a Ponza:
altri relegati da liberare; e finalmente, armatili tutti, gettarli
su qualche remoto tratto della costa donde, col concorso d'altre
forze, iniziare la marcia insurrezionale sulla capitale.
Il piano era elettrizzante: di quelli che, quando una volta ti si
sono affacciati alla mente, ti metton la febbre in corpo e ti
vietano il sonno la notte.
Squagliatisi i «codini» del Centro, bisognava adesso conquistare
all'idea della spedizione il gruppo Panizzi-Garibaldi-Bertani;
nonché... gli ergastolani. Si tentò all'uopo il tentabile: Mazzini
in persona si portò a Genova segretissimamente, nel giugno '56, per
«lavorare» ad uno ad uno i seguaci di Garibaldi, per rinsaldare i
rapporti con gli ex dissidenti.193
Per quanti anni non aveva sognato di ritornare a casa! Ma la casa
era chiusa, la santa madre riposava a Staglieno. Mazzini visse
quegli affannosi mesi di Genova mutando frequentemente d'alloggio
(ospite per un tempo anche dei Pisacane), uscendo di rado e
solamente di notte: «uno scoiattolo in gabbia».
Da principio pareva che l'accordo fosse facile a stringere: «Li ho
veduti tutti», scriveva Mazzini il 12 luglio, «siamo di bel nuovo
d'accordo... Pisacane è quello che mi dimostra la più calda amicizia
e a cui parve fare il maggior piacere vedermi». Sul più bello invece
andò tutto per aria: Garibaldi, Bertani, Medici (antico beniamino di
Mazzini), significarono seccamente che il progetto Panizzi o si
eseguiva tal quale o non se ne sarebbe fatto di nulla. Gelosia per
Mazzini?194 Contrarietà degli ergastolani? Pressioni torinesi? Le
tre cose insieme, probabilmente; ma più di tutto, io credo, l'aver
Mazzini lasciato fin d'allora intendere che alla spedizione e alla
conseguente insurrezione nel Sud sarebbe stato opportuno associare
una serie di moti da scatenarsi nel resto d'Italia a sostegno di
quella; segnatamente, una rivolta a Genova.195 Formidabile errore.
Mazzini, deluso, infuriava nella sua corrispondenza contro Medici e
Bertani, che riteneva responsabili primi del rifiuto di Garibaldi:
stigmatizzava la loro «inerzia assoluta», la loro «ostinazione» da
presuntuosi. Ma in questo caso non ci si poteva domandare: di chi la
colpa? Accadeva anche a Mazzini talvolta di sostenere disegni
manifestamente assurdi o rovinosi; non gli accadeva mai, questo era
il guaio, di trovare chi, pari per genio a lui, capace di resistere
alla sua sfavillante eloquenza, riuscisse a persuaderlo del suo
errore. Tra quei che lo ascoltavano, i più finivano sempre per
stringersi a lui in un impeto di fede e d'ammirazione commossa, che
magari non presupponeva ragionato convincimento; i meno, che non gli
cedevano, passavano per ostinati solo perché i motivi pur
fondatissimi della loro opposizione, nel contraddittorio, si
spezzavano contro l'invincibile superiorità dialettica spiegata da
lui. Il genio può esser pericoloso.
La mancata cooperazione di Garibaldi e dei suoi era un intoppo
gravissimo, ma non poteva costituire per Mazzini una ragione
sufficiente per abbandonare i suoi piani. Se Medici era «perduto»,
Pisacane, Pilo, Cosenz, Acerbi, uomini di eccezionale valore, erano
tutti suoi. Contando su di essi, contando sui molti che subivano a
Genova la loro influenza, contando sul Fabrizi di Malta, contando
sui fondi che si sarebbero potuti, certo, racimolare all'estero, si
poteva tranquillamente rispondere a Napoli: la spedizione, come voi
la volete, verrà eseguita.196
Ai primi di novembre Mazzini tornò in Inghilterra. Ma Pisacane
continuava a sperare che all'ultimo Garibaldi si sarebbe unito a
loro: il progetto panizziano, infatti, sconsigliato nell'agosto dal
Temple in vista di una probabile amnistia politica e poi danneggiato
dall'improvvisa morte di quel ministro avvenuta poco dopo, scivolava
pian piano nel nulla. Parimenti nel nulla, all'incirca nel medesimo
tempo, finiva un altro audace progetto, vagheggiato da emigrati
meridionali (da Pisacane per più ragioni mal visto), quello cioè di
far sbarcare in Sicilia, per sollevarla, un contingente della
Legione anglo-italiana, di stanza a Malta.197
Pisacane tornava perciò all'assalto col vecchio amico Bertani:198
perché opporsi al progetto Mazzini, gli scriveva il 24 settembre,
progetto che rispondeva in tutto e per tutto alle richieste degli
amici di Napoli, e alla cui esecuzione era condizionato lo scoppio
della rivoluzione nelle Due Sicilie? Non sapeva Bertani che esso si
sarebbe in ogni modo eseguito? Mazzini non faceva question di
bandiera: arbitro «il paese che sollevasi»; né di persone, che anzi
Pisacane era autorizzato a delegare a Bertani la scelta dei
partecipanti alla spedizione. Quanto al comandante, nessun dubbio:
«non potrà essere che Garibaldi».
Che Bertani tenesse duro, non è meraviglia: la lettera, tra le altre
cose, non accennava neanche al punto controverso delle insurrezioni
di Genova e d'altri centri italiani.199 Può stupire, piuttosto,
l'improvviso accesso di garibaldinismo di Pisacane stesso. Tanto
mutato, dunque, di fronte al suo antico e «riottoso» superiore di
Roma contro il quale, non eran trascorsi che pochissimi anni, avea
ritenuto suo preciso dovere scrivere e dire «tutta la verità»?
Affatto mutato (e lo dimostra una nota nel IV dei Saggi); solo che
Pisacane, il quale non aveva adesso altro pensiero che la spedizione
e la sua migliore riuscita, non poteva non riconoscere, e sia pure
con qualche amarezza, la straordinaria popolarità goduta da
Garibaldi in ogni regione d'Italia;200 non poteva non riconoscere di
quanto sarebbero aumentate le probabilità di successo dell'impresa
se ad essa fosse legato il suo nome ormai leggendario (leggendario
nel Mezzogiorno proprio in virtú dell'episodio di Velletri, povero
Pisacane!) Sacrificava perciò le sue personali opinioni e si poneva
senza esitare in sottordine a Garibaldi; che si voleva di più da
lui?
Era un esempio altissimo che Pisacane dava ai patrioti italiani: non
avrebbe egli servito foss'anche il diavolo in persona se in così
fare avesse potuto aumentare d'un ette le probabilità di successo
della spedizione?
Poiché per scuotere i suoi placidi connazionali e gettarli nella
rivolta, Pisacane lo capiva benissimo, non bastava fornir loro una
propizia occasione e mezzi adeguati (come avevano erroneamente
supposto quei della Legione Anglo-italiana); ma bisognava appunto
colpire l'imaginazione popolare ponendo a capo dell'impresa
destinata a suscitar la rivolta un di quei nomi di eroi che la plebe
meridionale venera come santi e rispetta come briganti; e insieme
fare appello, clamorosamente, alla innata generosità del sentimento
popolare, notoriamente assai più incline alla pietà che all'odio,
assai più largo di commiserazione alle vittime della tirannia che
atto a rovesciare il tiranno in nome della comune libertà
conculcata. La marcia degli ergastolani su Napoli, capeggiata da
Garibaldi, era stupendamente calcolata per esasperare fino
all'esplosione il senso di giustizia dei napoletani, offeso giorno
per giorno, in una lunga serie di anni, da imperdonabili enormità
giudiziarie. (Come remoti, astratti e dottrinari, al confronto, i
pensieri sulla rivoluzione già svolti nei Saggi! Ma Pisacane si era
adesso buttato al fare, e lo servivano meglio ormai certe azzeccate
intuizioni di psicologia della folla che non i rigidi postulati
della sociologia e della scienza economica).
Da quell'estate del '56 Pisacane, si può dire, non ebbe più un
giorno, non ebbe più un'ora che non fosse dedicata a concretare il
progetto di spedizione, a perfezionarne la tecnica dell'esecuzione,
a studiar nuove forme di propaganda nel Sud. Cosenz e Pilo gli eran
validi collaboratori. Da principio, pur cominciando a esaltarsi,
egli esigeva formali garanzie da Mazzini che l'impresa si sarebbe
compiuta solo nel caso che si potesse disporre di larghissimi mezzi
e d'uno scelto contingente di uomini.201 Pian piano però, e quasi
impercettibilmente, le sue esigenze si ridussero, si fecero
condizionate, finirono con l'annullarsi. Il successo d'una
rivoluzione non poteva, che diamine, dipendere da così poco. Si
dovea fare? E si sarebbe fatto, a costo di partire con quattro
seguaci e due pistole a testa!
Buona parte dell'attività pisacaniana fu spesa altresì nella
redazione d'un periodico clandestino, destinato a «tener su» gli
animi nelle «provincie schiave». Mazzini non ne voleva sapere:
fremeva a sentir ciarlare di stamperia quando gli pareva che fosse
tempo di «vendere l'orologio e fare côute qui côute in Sicilia, in
Lunigiana, in Rocca Cannuccia, al diavolo, qualche cosa». Ma quando
ebbe letto i primi numeri della Libera Parola (venuta alla luce in
agosto per opera oltre che di Pisacane, di Quadrio, Pilo, Savi,
Cadolini) e poté constatarne gli effetti nelle Due Sicilie, mutò
radicalmente parere.
Di piccolo formato, tirata su carta sottilissima, recante da
principio la falsa indicazione di Malta, poi quella d'Italia, la
Libera Parola veniva spedita a migliaia di copie dappertutto nella
penisola; durò fino all'aprile seguente, un po' settimanale, un po'
quindicinale e mensile; morí non tanto per la cronica scarsezza dei
fondi quanto per la paura de' tipografi.202
Il programma era volutamente generico o almeno pretendeva di
esserlo: «Noi vogliamo la nostra patria grande e felice. Vogliamo
dunque la rivoluzione, altro mezzo non vi ha. Rivendicarsi in
libertà per acquistare l'indipendenza e quindi costituire la grande
unità italica è l'esplicamento naturale di questa maestosa e
terribile forza che deve dare alla patria figura ed essere di
nazione.
Qual italiano potrebbe rifiutare il suo concorso? Questa della
rivoluzione è bandiera unificatrice. Possono schierarsi sotto con
tranquilla coscienza tutti i patriotti... Si combatta e si vinca. Al
giorno del trionfo le discussioni sull'assetto politico... Fedeli al
principio della conciliazione dei partiti sul terreno comune della
rivoluzione, vigorosamente combatteremo le pretensioni di monopolio
dinastico che qua e là potessero scaturire a danno e vergogna
nostra...»
Che era come dire: vedete, non parliam di repubblica; sia chiaro
però che di monarchia non ne vogliam sapere...
Il punto di vista rivoluzionario veniva energicamente ribadito in un
secondo articolo (Dove siamo? che faremo?) di evidente paternità
pisacaniana, concluso a mo' di un ordine del giorno:
«Considerando che la rivoluzione italiana è generalmente
riconosciuta probabile e vicina; che la diplomazia non crea i fatti,
ma li sancisce; che nello stesso tempo in cui teme lo scoppio d'un
moto italiano, e si ingegna allontanarlo con ripiego di riforme, è
pur pronta a transigere coi fatti compiuti; che il Piemonte è
vincolato alla diplomazia per antichi e recenti trattati; che è
quindi contro ogni verosimiglianza poter giammai la monarchia sarda
iniziare l'insurrezione italiana, inimicandosi così tutti i governi
d'Europa ed esponendosi ai pericoli d'una rivoluzione. Risulta che
tanto i monarchici quanto i repubblicani devono, con tutti i mezzi
di cui dispongono, spingere le popolazioni italiane delle provincie
oppresse; i repubblicani, perché han fede soltanto nella
insurrezione nazionale; i monarchici, nell'intendimento di creare al
principato sardo un'occasione d'intervento».
Dopo i primissimi numeri il pensiero degli scrittori s'andò
chiarendo e rinforzando in senso estremista (di pari passo con
l'aggravarsi del dissidio tra il gruppo mazziniano e quello
garibaldino): l'èra della inconcludente resistenza passiva, delle
proteste platoniche contro i regimi dispotici aveva ormai fatto il
suo tempo; urgeva adesso passare a una decisa azione rivoluzionaria
in tutta Italia; il punto morto, e cioè il reverenziale timore che
il popolo, ignaro della sua immensa energia potenziale, nutriva per
le baionette dei tiranni, andava superato con la violenza, d'un
balzo solo. La penisola era tutta percorsa da una «striscia di
polvere»: trovare chi le appiccasse il fuoco, ecco il problema
immediato, risolto il quale il più era fatto.
L'accento cadeva naturalmente sulla situazione di Napoli, giudicata
rivoluzionaria per eccellenza; e quindi, per contrasto, sul
murattismo: diffidassero i napoletani degli aiuti stranieri! Si
persuadessero esser preferibile le mille volte il dispotismo
domestico «che almeno ha certi limiti» e «considera lo Stato come
suo patrimonio» alla libertà concessa da un regime straniero. La
libertà è una conquista attiva; libertà donata è un bisticcio di
parole. Peggiori dei borbonici, più antiitaliani degli stessi
austriaci, i fautori di Murat, che pretendevano insegnar l'odio al
tiranno, non alla tirannia.203 Se mai un giorno l'Italia sarà
libera, essa potrà dimenticare «che molti, costretti dall'imperiosa
necessità e dalla forza delle circostanze saranno stati costretti a
servire i caduti governi, ma nei murattini non vedrà che uomini i
quali per una bassa ambizione, o per cupidigia... tentavano
arrestare e distruggere parte di quel lento ed angoscioso lavoro,
volto alla conquista della nazionalità, che tanti martiri costa alla
nostra patria».
Scuola di coraggio, d'italianità, di fiducia nelle proprie forze,
dunque, questa Libera Parola, che investiva il lettore col
prorompente entusiasmo dei suoi redattori: perfino i succinti
commenti dedicati alla cronaca politica parevano scritti con la
febbre a quaranta!
Bellissimo, trascinante, fra i tanti, l'articolo Esempi all'Italia.
Se la coscienza della loro forza e le memorie del '48 non bastano a
convincer gli italiani «che l'Austria e i principi suoi satelliti
possono essere abbattuti e vinti; se l'ambizione di emulare gli
studenti alemanni i quali al canto degli inni di Körner iniziarono
nel 1813 la gloriosa lotta dell'indipendenza, non sorride alla
gioventú delle Università d'Italia...; se qualche ignoto Wallace
italiano non sente l'ispirazione di tentare con dieci uomini, come
l'eroe scozzese, l'animo della sua nazione...; se i patrioti
italiani d'ogni località non sono così santamente compresi del
dovere d'insorgere, e non dànno il segnale, sicuri di essere seguiti
da tutta la penisola... se invece preferiscono far mostra della loro
mezza scienza, contando con la carta geografica alla mano, le
difficoltà politiche e militari da vincersi; se nel paese classico
di Fra Diavolo, di Rinaldini, del Passatore e dei Lazzarini... non
sorge nell'anima di alcuni strenui giovani il generoso pensiero di
farsi i Fra Diavolo e Lazzarini della libertà, di tentare e soffrire
per l'indipendenza d'Italia quanto Gasparone, De-Cesaris e migliaia
dei loro simili hanno tentato e tentano tutt'oggi per un pugno
d'oro; se a questi giovani non sorride l'idea di levare la sacra
bandiera nazionale, di combattere all'aperto, di collina in collina,
di valle in valle..., di raccogliere intorno a loro la popolazione
pugnace... o infine di cadere combattendo, colpiti nel petto,
guardando il nemico in viso, rendendo percossa per percossa... oh
allora, ogni parola è inutile. I minatori di Carrara scaveranno
marmi, i canapini bolognesi flagelleranno le canape, i montanari
bresciani faran carbone... ma l'Italia sarà schiava! Vogliono questo
gli Italiani?»
Stupende parole ch'io non saprei attribuire se non a Mazzini o a
quello tra i suoi seguaci che fin d'allora si preparava
coscientemente a tradurle in azione, facendosi, alla lettera, il Fra
Diavolo del risorgimento italiano.
Il crescente isolamento delle Due Sicilie in Europa (autunno '56,
rottura delle relazioni diplomatiche con Inghilterra e con Francia,
disinteresse austriaco; Russia, la sola potenza filoborbonica, poco
ascoltata e comunque troppo lontana; gennaio '57, Palmerston che
parlando di Napoli conferma in pieno la tradizionale politica
inglese del non intervento) veniva intanto largamente sfruttato dai
mazziniani, che ne interpretavano talune manifestazioni come un
lasciar «via libera» a loro e un invito a far presto;204 uguale
incoraggiamento ne cavavan però, dal canto loro, i murattiani, che
negli ultimi mesi avevano visibilmente guadagnato terreno e dei
quali si diceva da bene informati che andassero compiendo
preparativi militari;205 sì che ad esempio se ai mazziniani
riuscivan preziose le cortesie dei consolati inglesi (senza le quali
le comunicazioni con Napoli sarebbero state pressoché impossibili)
chi mai sapeva fino a qual punto non si giovassero gli avversari di
quelle de' consolati francesi?206 Il pericolo di vedersi scavalcati
dai murattiani rendeva dunque sempre più rabbiosa e frenetica
l'attività dei mazziniani. I loro corrispondenti di Sicilia e di
Napoli venivan continuamente incalzati perché, in attesa della
spedizione, facessero: gesti individuali, dimostrazioni, rivolte
locali, non monta, purché facessero e arroventassero l'ambiente e
disponessero il terreno all'imminente sforzo finale. Fu, negli
ultimi del '56 e sull'inizio del '57, una tempesta spaventosa e
cruenta, tanto più che molte altre iniziative terroristiche si
svolgevano autonome, senza controllo di partito.
Il barone Bentivegna alzava nel novembre del '56 la bandiera
dell'insurrezione nella Sicilia occidentale; in altri luoghi
dell'isola seguivano moti e tumulti. Sorpresa dei mazziniani in
Piemonte dai quali si era pur concertata quell'impresa, ma pel
gennaio del '57. Pisacane a Fanelli: «... quello che fece era colui
che aveva moltissimo cooperato al lavoro; erasi avvisata Messina di
attendere il piano, l'eroe temendo la cosa si scoprisse, e che le
mire erano su di lui, senza avvisare anticipò... Noi dopo che avemmo
l'accordo per la paccottiglia, ricevemmo inaspettato avviso del
fatto ed assicurazione della risposta di Palermo, poi non più
nuove...» Comunque, poiché le prime informazioni inducevano a bene
sperare, una ventina di emigrati napoletani, riunitisi
immediatamente a Genova,207 risolvettero di provocare un'agitazione,
ed anche, ove ciò fosse possibile, un movimento insurrezionale nelle
provincie di terra ferma del regno di Napoli. Pisacane, De Lieto e
Salomone, incaricati di diriger l'azione, si posero senz'altro al
lavoro;208 Rosolino Pilo partí per la Sicilia; e già si pensava di
precipitare la spedizione che s'andava faticosamente organizzando,
quando Bentivegna e compagni venivan disfatti dalle forze
borboniche; Bentivegna, catturato, mandato a morte!209
L'8 dicembre, a Napoli, il soldato calabrese Agesilao Milano
attentava alla vita del re.210 Processato e condannato alla forca
sublimava, con le dichiarazioni rese nel dibattimento, la sua figura
di tirannicida: «... vi prego di far giungere ai piedi del Sovrano
l'umile preghiera di visitare le sue provincie, per vedere a che son
ridotti i suoi sudditi».211 Si dette invano la caccia ai suoi
supposti complici: tra gli altri giunse a sottrarsi all'arresto,
fuggendo, un giovane, Falcone, suo conterraneo e compagno di studi,
il più indiziato di tutti;212 il quale, riparato a Malta, si portò
poi a Genova, a tempo per fraternizzare in extremis con Pisacane.
In tutto il regno, dopo l'8 dicembre, si ordinarono (è la parola e
corrisponde del resto a consuetudine invalsa) memorabili feste per
celebrare la salvezza del re; ma un diplomatico dalla politica
piuttosto obliqua, il ministro del re sabaudo a Napoli, «cercava
invano lo scoppio di quell'entusiasmo spontaneo e sincero, che
credeva poter attendersi dalla popolazione napoletana»; e mentre
egli ne inferiva con mal celata soddisfazione «che parziali moti
sediziosi possono da un momento all'altro verificarsi», nel suo
Piemonte bonariamente il governo chiudeva un occhio, o tutti e due,
sulle clamorose manifestazioni indette dagli emigrati per esaltar la
memoria di Agesilao Milano!213
In quello stesso mese di dicembre, un altro colpo: lo scoppio della
polveriera di Napoli; e il 4 di gennaio saltava in aria una fregata
rigurgitante di truppe. Disgrazie? Pare di sì; ma tali non parvero,
sul momento, né a palazzo reale, né al grosso della popolazione
turbata, né ai residenti stranieri.214 «L'allarme della corte —
scriveva infatti al suo ammiraglio il comandante di una nave da
guerra inglese stazionante a Napoli — è giunto all'estremo, e il re
si è improvvisamente ritirato a Caserta»;215 fioccano gli arresti,
la polizia sembra impazzita. E il console inglese: «La paura e
l'eccitamento generali sono grandissimi. Il terrore regna a
Palazzo».
In febbraio, brutte notizie dalla Sicilia: conflitto verificatosi il
6 di quel mese tra la pubblica forza e un gruppo di rivoltosi
latitanti della banda Bentivegna; processo e fucilazione (16 marzo)
di Salvatore Spinuzza.216 Le autorità siciliane vivevano sotto il
terrore continuo di uno sbarco di fuorusciti!
A Napoli le truppe di terra e di mare venivano eccitate alla
ribellione con manifestini incendiari inneggianti ad Agesilao
Milano; altri proclami, che bollavano lo spergiuro del re nel '48,
si trovavano affissi per le strade o venivan temerariamente lanciati
nei pubblici ritrovi.217
Ed eran rivolte o attentati o manifestazioni che, nel mentre
rendevan furente la polizia borbonica, si ripercuotevano in tutto il
regno in ondate di commozione e di paura, e queste alla lor volta in
una isterica attesa ahimè passiva di novità sempre più gravi. Lo
stesso accadeva fuori del regno, se non peggio ancora, gonfiate come
venivan quelle notizie, sistematicamente, dalla stampa democratica,
che ne rilevava il nesso con altri avvenimenti significativi taciuti
dal governo e dai giornali napoletani.218 Sí che pian piano si
persuadevano tutti che lo scontento di quel popolo fosse giunto
all'estremo ed accennasse ormai a tradursi in una di quelle generali
e definitive proteste, che mentre nascono dalla sensazione diffusa
della impossibilità di star peggio, conducon d'un tratto a
sincronizzare gesti isolati e a far fruttare al cento per uno
sacrifici individuali o di pochi, fin allora giudicati di nessun
rendimento.
Eran loro medesimi che le inscenavano; pure, ogniqualvolta giungesse
ai mazziniani fuori del regno notizia di «novità» ivi scoppiate, la
loro volontà rivoluzionaria si tendeva fino allo spasimo. Febbrile
era principalmente l'opera spiegata da Mazzini a Londra, Fabrizi a
Malta, Pisacane a Genova, in connessione col Fanelli di Napoli, come
ben s'intende leggendo la Cronaca del Comitato segreto di Napoli
(stampata venti anni più tardi),219 che raccoglie il carteggio
scambiato fra costoro dal principio del '57 al fatalissimo luglio
del medesimo anno220. Fra centinaia di lettere non una che non si
riveli vergata sotto l'assillo della massima urgenza, non un rigo
che non si riferisca al grande soggetto; in tutte, quell'ardore
quasi maniaco, quella concisione, che pare precipiti al dramma,
imposta dalle difficoltà della scrittura criptografica. Documento
dunque, quel libro, di eccezionale valore, seppure più psicologico
che storico. Fra intese e malintesi, entusiasmi e depressioni, crisi
di debolezza e parossismi di disperata energia, vi si disegna
nettissimo uno dei più tragici conflitti d'anime che sia dato
ricostruire: dissonanza di strumenti uno per uno perfetti e
purissimi, che non riuscivano a intonarsi a concerto.
Colpisce a tutta prima il contrasto netto di tempra fra quelli che
si possono dire i due protagonisti dell'epistolario: Pisacane e
Fanelli.
Fin dall'estate del '56 Pisacane, s'è detto, è doventato «l'uomo
della spedizione», il massimo esponente delle speranze ad essa
legate; tanto che mentre egli, modestamente, conta sempre su
Garibaldi quale grande riserva da reclutarsi all'ultimo, Mazzini
vuole invece che i napoletani guardino a lui con piena fiducia, non
soltanto per la direzione dell'impresa, ma anche per eventuali
altissimi incarichi post-rivoluzionari: cerca insomma, con ogni
mezzo, di accreditare il «mito» di Pisacane.221 Pisacane ne è degno:
le sue lettere a Fanelli, precise, sicure, animatrici, denunziano
infatti uno stato d'animo di perfetta calma interiore; egli ne balza
fuori, se confrontato col Pisacane del primo periodo rivoluzionario,
come più maturo, più solido, più disinteressato; le sue vedute sono
semplici e rettilinee, la volontà, meglio che ferrea, implacabile.
«Se nessuno si muove?... Creperemo», scrive tranquillamente una
volta.222
Varia esperienza, molteplicità un po' dispersa d'interessi
spirituali, certa saccente superficialità di cultura sembra che
s'equilibrino, ora, nello sforzo, per confluire in quel solo
fermissimo volere, tutto teso a uno scopo. Dinanzi alla sua
dichiarata certezza (e insisto sull'aggettivo) ogni dubbio finisce
col cadere, ogni contrasto si spiana; la penna pesante dei Saggi ci
si rivela d'un tratto capace di scrivere con una robusta asciuttezza
e un rigor logico davvero insospettati. Le sue lettere si rovesciano
su Fanelli con tanta precipitosa irruenza che solo un freddo
indifferente o un altro Pisacane potrebbero salvarsi dall'esserne
travolti.
Fanelli, si sa, non era né questo né quello: ma un entusiasta e un
debole. D'aperta intelligenza, mazziniano convinto, gran volontà di
fare, sì; ma anche un carattere morbidamente incerto,
impressionabile, a scatti: nei momenti più critici, quando
soprattutto importa di conservare la calma, egli si perdeva invece
in esaltate crisi d'entusiasmo o di terrore, sotto l'incubo di
sproporzionati fantasmi.223 Fisicamente incapace, dunque, nel suo
squilibrio, di assumere o sostenere responsabilità, ché anzi la sola
prospettiva che gliene venissero addossate bastava a paralizzarlo; e
insieme, per generosità e per ingegno, uomo nato di prima fila!
Tale il disgraziato corrispondente di Pisacane e Mazzini a Napoli,
che avrebbe senza dubbio lasciato di sé migliore ricordo, se il
Comitato di Napoli avesse seguitato ancora, dopo il '56, a disporre
le pedine per la grande partita rivoluzionaria da giuocarsi in un
lontano avvenire. Fanelli, non sapeva neanche lui com'era andata, si
trovò invece, sui primi del '57, impegnato a fondo nella partita
«bella», quando del giuoco ignorava affatto (e a lui pareva
sinceramente d'averne avvertiti gli amici) le regole e perfino le
mosse. Nel comprensibile affanno finí col perder di vista il
bersaglio medesimo, tanto che giunse al finale persuaso, diresti,
che la minaccia di scacco gli venisse non già dal regime borbonico,
ma proprio e unicamente da quel dannato binomio: Pisacane-Mazzini.
Né questa può dirsi un'imagine sforzata del vero. Bisognerebbe, per
convincersene appieno, leggere ad una ad una le sue missive, povero
Fanelli, così vaghe, ineguali e contradittorie, dalle prime che
parevano addirittura ordinanze o richieste d'un comandante in capo,
alle ultime somiglianti piuttosto a timide giustificazioni del
subordinato cui, col rimprovero solenne, sia stato impartito
l'ordine di condurre senza più discutere il suo reparto
all'assalto.224
Ma basteran qui pochi esempi.
Siamo nel febbraio '57. Son già vari mesi che Fanelli ha scritto a
Genova e a Londra: la rivoluzione è matura nelle Due Sicilie; a
farla esplodere occorre solo una scintilla esterna; sia questa una
spedizione armata. Adesso, nuove insistenze.
2 febbraio, Fanelli a Mazzini e a Pisacane: «Io adunque ricorro a
voi in nome del paese infelice, e vi domando consiglio ed aiuto...
Noi abbiamo un lavoro che mi sembra bastevole elemento per una
iniziativa imponente e decisiva... Manchiamo di direzione interna
proporzionale all'opera da iniziarsi, manchiamo d'armi e danaro: voi
potete coadiuvare in ciò che a noi manca?»
10, 16 febbraio, risponde Pisacane: Fanelli conti pure su appoggio
illimitato di consigli, di danari, di uomini. Non ad altri che a lui
spetta però l'esporre il piano d'azione, studiato in accordo con le
possibilità locali. La spedizione concordata partirebbe, e presto,
da un porto da destinarsi: quali la rotta, lo scalo, il punto di
sbarco migliori?
Fanelli, 25 febbraio: gli sembra che la spedizione possa seguire il
primitivo piano, scalo a Ponza cioè per liberarvi i deportati
politici, e poi sbarco con essi in qualche punto della costa a
mezzogiorno di Napoli.225 Ma non vorrebbe, per carità, che ci si
rimettesse unicamente a lui in cosa di tanta importanza: «Ammetto
che sul luogo soltanto si è giudice competente... però non credo che
io solo possa essere questo giudice...»
Pisacane lo tranquillizza il 10 di marzo: intenda bene Fanelli, la
responsabilità di risolvere o contromandare la spedizione non spetta
affatto a lui, ma tutta allo scrivente e a Mazzini. Egli non ha
che a precisare, una volta per sempre, in qual misura un contingente
armato che sbarchi sulla costiera napoletana possa contare su
appoggi locali.226 Accettata la rotta proposta da lui, il punto
d'approdo verrà scelto sulla costa del Cilento (fra Sapri e Salerno,
cioè); il momento dell'azione? Vicino, probabilmente; perciò si
tengano pronti, Comitato e sezioni.
Stupore di Fanelli; il quale, come se nulla fosse, vien fuori il 19
di marzo con la notizia fino allora chi sa perché gelosamente
taciuta esser le fila della cospirazione in Cilento quasi
completamente disperse. L'affare, scrive adunque con imperturbabile
calma, «mi sembra che debba pigliare un po' per le lunghe». Furia
santissima di Pisacane, che comincia a conoscere il suo uomo. Vedo,
gli risponde il 31, che il «vostro termometro segnava varii gradi
sotto il zero, mentre il giorno antecedente... aveva ricevuta una
(lettera) da Mazzini che sembrava alla temperatura dell'acqua
bollente. Io amo meglio bollire che gelare; in luogo di farla da
moderatore ho risposto con temperatura anche più elevata». Il
Cilento è sconsigliabile? «In nome di Dio abolite i condizionali, io
dico Cilento perché così mi hanno suggerito le notizie da voi
fornite; ma tale scelta è assolutamente subordinata alla vostra
volontà; voi avreste dovuto dirmi: no Cilento non vale, bisogna
attenersi a Basilicata ed indicarmi la spiaggia... avreste potuto
scrivermelo recisamente». Bando agl'indugi, Fanelli scelga
immediatamente e definitivamente il luogo opportuno per lo sbarco; e
in quel luogo, al momento dato, si faccia trovare egli stesso con i
gruppi d'azione, e a Ponza una persona fidata pensi a organizzare la
rivolta da suscitarsi all'arrivo del vapore.227 L'epoca della
spedizione resta fin d'ora stabilita per la fine di aprile o primi
di maggio.
Dallo stupore Fanelli, nel buscar la strigliata, precipita
addirittura in una crisi di disperazione: l'organizzazione non è a
punto! Mancano danari e armi! Manca la «direzione interna»! Si crede
forse ch'egli sia «Padre eterno»? prorompe il 2 d'aprile.228 Chiede
un mese, un mese solo di proroga. Ma nella chiusa si contraddice:
«... Se Mazzini e voi giudicate... si possa dal fatto di Ponza avere
il resultato dovuto, io allora essendo fuori dei miei calcoli di
probabilità... sarò non ostante l'individuo di cui potrete disporre
come v'aggrada, e soldato che non manca al suo posto...»
Invocato a chiarire il malinteso, interviene Fabrizi scrivendo a
Mazzini perché non precipiti, a Fanelli perché abbandoni una buona
volta l'idea di poter perfezionare a tutto suo agio i preparativi,
necessariamente febbrili, di un'insurrezione.
Pisacane è più esplicito: «Voi... pensate costituirvi promotori di
rivoluzione, e fate dipendere dalla vostra personale cooperazione il
risultamento buono o tristo... Mazzini ed io siamo convinti che
rivoluzione è nel cuore..., e vogliamo mandare ad effetto una
congiura ristretta, rapida... Vista la cosa sotto questo lato,
importa sommamente non far precedere il fatto d'armi da nulla che
possa dar sospetti al governo...» E poi, appassionatamente: «amico
caro, unito a voi ho cercato a far rivolgere Mazzini verso il
Sud;229 ho superato tutte le difficoltà prevedibili prima, ho
offerto me stesso, vi ho scritto le mie ragioni e le cose che mi
sono indispensabili, le quali non richiedono tempo lungo; se poi si
rimanda alle calende greche... comincio a vederci nero; tali cose,
quando si spandono troppo, si prolungano... finiscono per abortire,
spero che rimarrò bugiardo».
Per non restar bugiardo e per tagliar corto ai fanelliani
tentennamenti, s'induce, se mai, ad affrettare ancora: e il 5
d'aprile ecco una lettera al malcapitato suo corrispondente, per
informarlo che la spedizione si farà, senz'altro, alla fine del
mese; si accetteranno da lui osservazioni e consigli sul modo, non
una parola sul tempo. «Noi non pretendiamo da voi l'assicurazione
che tutti insorgano, tutt'altro... noi desideriamo che Isola (Ponza)
accetti dal luogo, e quando ci dite Isola accetta tutto è fatto».
Mazzini, con solenni parole, rincalza: «Noi individui, qualunque sia
la nostra attività, non possiamo creare l'insurrezione d'un popolo:
noi non possiamo che crearne l'occasione. O il popolo fa; e sta
bene; o non fa, e non siamo mallevadori che davanti a Dio e alla
nostra coscienza. Unico debito che ci corre è quello di studiare
coscienziosamente l'opportunità del momento: coglierlo, e offrire
con una mossa audace l'iniziativa alla nazione, è il genio
rivoluzionario. Per me, per noi, il momento è giunto».230
Prevedibile la risposta dell'atterrito Fanelli (16 aprile), che
disperatamente s'abbranca all'unica leva lasciatagli in mano:
«Nell'isola di Ponza non abbiamo relazione»; sei settimane di tempo
sono il minimo indispensabile per stabilir dei contatti.
Perché non dirlo prima? Perché aver perduto mesi preziosi? Perché
ridursi alla vigilia dell'azione per confessare che organizzazione
non c'è? Tali le accorate e sdegnose recriminazioni di Pisacane a
Fanelli; al che questi, già rimbrottato dall'amico Fabrizi: ma
«l'affare delle isole fu da me proposto quasi ad esempio... mentre
molti altri avrei potuto proporvene». L'indulgenza di Pisacane ha
questa volta un limite: «Voi — così lo fulmina il 12 di maggio —
volete sciogliervi da ogni responsabilità, e fate bene, io per parte
mia ve ne ho sciolto completamente...; ma dire che il negozio isola
era un'idea, un esempio, perdonate ciò è un voler spingere la cosa
troppo oltre...»231
Il drammatico colloquio si prolunga così; da un lato disperati
sforzi per rimandare, il sollevare ogni giorno nuovi e più gravi
ostacoli all'azione imminente; dall'altro la risoluta volontà di
concludere (meglio concluder male che rinunciare), che risponde con
l'isolare e travolgere ad una ad una le rinascenti difficoltà,
qualche volta, mezzo più spicciativo, col non considerarle neanche.
Se il rimandare, così ragiona Pisacane, avesse almeno contribuito a
far avanzare di un pollice l'organizzazione! Ma no; col trascorrer
del tempo, come sempre accade, le energie si sono afflosciate, son
cresciuti i timori, diminuiti gli adepti, rimaste le difficoltà tali
e quali. O non lo sente perfino Fanelli e nel suo perpetuo
ondeggiare non avverte egli stesso il bisogno di scrivere agli amici
(il 30 d'aprile): «Il generale volere è per un cangiamento e sia
qualunque... La rivoluzione è indispensabile... veggo chiaro essere
impossibile o almeno lunghissimo il tempo per ottenersi de' grandi
preparativi...
Nel Sud dovrebbe farsi al più presto la rivoluzione... Ma non
ostante, se v'è tempo...» ecc. ecc.?
Come regolarsi con un nevropatico di questa forza, che, soverchiato
da cose più grandi di lui, anziché cedere ad altri la direzione del
moto, si contenta di sfogarsi in deplorazioni puerili:
«Com'è dura la condizione di chi ha anima che ribolle oltre il
confine, di chi è tenuto generalmente, ed è forse il più eccitato in
tutto il partito del Sud e deve per dovere parlar parola di
ghiaccio!!»? Non resta, evidentemente, poiché è troppo tardi ormai
per sostituirlo, che esautorarlo di fatto, limitandosi a
trasmettergli ordini, istruzioni, incitamenti e rimbrotti,
cestinando senza pietà le sue geremiadi inutili.
Così, ai primi di maggio, gli si comunicava seccamente la nuova data
«definitiva»: il 25 del mese. Tanto meglio se ci si potesse
accordare coi deportati nell'isola; in caso diverso, nessun rinvio:
la spedizione avrebbe puntato direttamente alla costa.
E mentre Fanelli, al quale Mazzini e Pisacane dovevano sembrare geni
furiosi e implacabili, esprimeva il dubbio che a Genova si facesse
«la burletta per divagarsi dalle gravi preoccupazioni», o lamentava
che lo si facesse «morir di palpiti, parlandomi sempre di otto in
otto giorni e al più da un mese all'altro per l'insurrezione»,
Mazzini, fulminandogli l'«adesso o più mai per forse dieci anni»,
gli dava ordini minuti e precisi, in tono di chi non ammetta
repliche: vedere il tale a Napoli, dir questo, chieder quello,
minacciare così e così, recarsi qua o là, preparar queste e queste
manifestazioni, scriver questi proclami; eseguire insomma, e
appuntino, le istruzioni di Pisacane.232 Pur non cessando dal
protestare, dal declinare ogni e qualsiasi responsabilità, Fanelli
finalmente chinò il capo; si perse meno in lettere e si mise a fare
di più, tentando di ripigliare il molto tempo sprecato: allacciò
rapporti con gli esponenti delle varie opposizioni di Napoli,233
mandò avvisi alle isole, alle sezioni tutte, agli amici residenti in
località litoranee, tentò il tentabile per scuoter le provincie,
facendo coi suoi corrispondenti — ma troppo tardi! — quella parte di
animatore gagliardo e risoluto, insofferente degli altrui indugi e
dubbiezze, che Pisacane aveva fatto con lui; con la differenza che
mentre per Pisacane era quello l'atteggiamento spontaneo
corrispondente al fuoco interiore, per Fanelli non era che una parte
male appresa e goffamente recitata sotto gli occhi minacciosi e
severi del suggeritore. Chi mai poteva subire la sua suggestione?
A Genova, intanto, il piano della spedizione si delinea senza
incertezze, se pure con successivi spostamenti di date (dalla fine
di aprile si va alla fine di maggio, e poi al 10 di giugno): resta
inteso che Pisacane, Cosenz e Pilo, a capo di una trentina di
volontari (reclutati, questi, da un Barbieri di Lerici, uomo di
mare) s'imbarcheranno sul postale bimensile Genova-Cagliari-Tunisi;
Fabrizi procurerà per alcuni di essi una falsa richiesta di lavoro,
datata da Tunisi.234 Una goletta, da
tempo acquistata, caricherà in precedenza una provvista d'armi,
recandosi poi a incontrare il vapore in un punto fissato della sua
rotta normale. Giunta in vista la goletta, quei del vapore daranno
il segnale per l'ammutinamento; riuscito il quale, e trasbordate le
armi, lo dirigeranno su Ponza; là, sorpresa la guarnigione,
imbarcheranno quanti più relegati sarà possibile; indi, ripetuto o
no il tentativo, a seconda delle ultime informazioni che
perverranno, a S. Stefano e a Ventotene, fileranno verso la costa a
sud di Salerno (nell'aprile si decide per Sapri):235 ivi avran luogo
lo sbarco generale, la riunione con le squadre rivoluzionarie
dell'interno, l'inizio della marcia su Napoli. Nel frattempo, giunta
a Genova notizia telegrafica dell'avvenuto sbarco, immantinente vi
scoppierà, e scoppierà anche a Livorno, la sommossa da tempo
disposta. La scintilla da Sapri si propagherà così nell'Italia
settentrionale e centrale; e se non altro l'esser padroni di quei
due porti metterà in grado gli amici di Pisacane di soccorrer
d'urgenza la sua spedizione con l'invio, su navi requisite, di
uomini, d'armi e di quant'altro mai possa occorrere.
La cosa più urgente dunque, verso la fine di aprile, è l'allacciare
rapporti diretti con S. Stefano e con Ventotene: Fanelli, che è
finalmente entrato in relazione con Ponza, a questo non è ancora
riuscito; ed è abbastanza importante sapere se gli interessati
gradiscono d'esser liberati e spediti in guerra contro Napoli! È
Pisacane che si assume l'incarico: scrive a un Pisani in Ventotene,
a Filippo Agresti in S. Stefano. Della prima lettera è notevole
l'esordio drammaticamente conciso: «Amico. Noi siamo un'antica
conoscenza, i vostri principî mi son noti, i miei sono anche noti a
voi, ma io non vengo a discorrere di principî; da molti anni si
discute e si ciancia, senza ottenere il minimo frutto. L'opinione
pubblica europea che prima ci era favorevole, ora si rivolge contro
di noi, vedendo che un popolo che si sopporta tale tirannia e non fa
altro che svelarne le infamie al mondo per eccitarne la compassione
come quei mendicanti che pongono in mostra le piaghe di cui è
coverto il loro corpo è un popolo degradato. Noi sentiamo ogni
giorno mormorare a voce sommessa siffatte ingiurie, premiamo
l'affanno del cuore nella speranza di splendide condizioni.
L'opportunità ci si offre, mi diriggo a voi».236 Prosegue la lettera
esponendo in breve il piano di sbarco nell'isola. Accetta il Pisani
di dar man forte all'impresa? E quanti con lui?
L'interpellato dovette risponder favorevolmente se Fanelli, il 30 di
maggio, lo avvertiva di tenersi pronto per l'11-13 giugno e lo
pregava di fornirgli al più presto le indicazioni opportune per
eseguire nel miglior modo la sorpresa sull'isola.
Con l'Agresti fu diverso. Rispose dapprima in modo generico;237 otto
giorni dopo (ma sì, c'era un regolare servizio di posta...
clandestina tra S. Stefano e la terra ferma, povero re Ferdinando!),
pur professandosi favorevole all'esecuzione del progetto, nobilmente
avvertí l'obbligo d'informare gli amici che gli ergastolani politici
eran sì e no una cinquantina, dieci de' quali o per età o per
acciacchi inamovibili; si correva dunque il gravissimo rischio di
liberar dei delinquenti veri in gran numero e pochi patrioti
(avessero quei di Ponza dato lo stesso avviso!).238 Ma la terza sua
lettera — ispirata, sembra, dallo Spaventa suo compagno di pena, mal
prevenuto contro Mazzini e le sue iniziative — dovette contenere un
risoluto invito a non occuparsi di S. Stefano;239 imbarazzato e
preoccupato, Fanelli gli rispondeva infatti il 29 maggio, così:
«spero far arrivare il protesto vostro al traente prima di
quest'epoca (la data della partenza da Genova), ma è bene che voi
facciate ogni sforzo per apparecchiarvi almeno per un acconto pel
possibile caso che il protesto non arrivasse in tempo al suo
destino». Fatto sta che allo scalo a S. Stefano si finí col
rinunciare affatto, fissando invece come obiettivo principale Ponza,
e accessorio e subordinato alle circostanze, Ventotene.
Alle difficoltà derivanti dalle deficienze di Fanelli e dalle
ritardate comunicazioni si aggiungevano naturalmente quelle dovute
alla mancanza di fondi.240 Ventimila lire, versate da Adriano Lemmi,
qualche altra oblazione, sta bene. Ma si dovevano spedire migliaia
di lire a Napoli, di abbondante danaro doveva esser fornito il capo
della spedizione, e bisognava acquistare intere casse di armi!
Mazzini non aveva requie: sollecitava gli amici e gli amici degli
amici, caricava d'ipoteche il suo minuscolo patrimonio. È doloroso,
scriveva, «ch'io debba arrossire mendicando qua e là lire sterline
agli inglesi che le dànno a un po' d'influenza personale, ma
inarcando le ciglia, e dicendomi: dove diavolo è il Partito fra
voi?»241 Procurarsi daghe, fucili, pistole, d'altronde: non era
agevole ottenerli neanche a pronti contanti, e tanto meno
trasportarli, una volta acquistatili. Un certo stock, a quanto
sembra, venne fornito dagli Orlando di Genova; altri giunsero a
Genova, celatamente, da Torino. Pisacane a Cosenz, 17 maggio: «Avrai
ricevuto la mia ultima in cui ti annunziavo l'arrivo di 116
(cifrario: armi), collocati in luogo sicuro ed opportuno pel resto
da farsi... L'italianissimo Cavour ha fatto inviare da Torino una
circolare a tutti i carabinieri onde visitare i carri sullo
stradale, per fortuna il nostro arrivò quasi 24 ore prima di quello
che avevamo calcolato, altrimenti chi sa che cosa sarebbe
avvenuto...»
Notizie vaghe su questo tramestio d'armi trapelavano alle autorità
genovesi e ai consoli stranieri, specie a quello toscano e
napoletano. S'incrociavano dispacci allarmati accennanti a un
supposto deposito di fucili nell'isola di Capraia, o a una imminente
spedizione armata nel Sud, o semplicemente a misteriosi imbarchi di
misteriose casse su vapori in partenza da Genova.
Pisacane contava massimamente, pel successo della sua impresa, nel
segreto.242 Ma sì! Già nel dicembre '56 il governo francese era
informato di una macchinazione mazziniana in Genova; e nel gennaio
'57 quello napoletano sapeva della sospetta azione svolta da un
sedicente inglese, di nome Charles, in connessione con gli
oppositori in Sicilia (Charles era il nome di guerra di Pisacane!);
e nel febbraio perfino il Times di Londra arrischiava supposizioni
in proposito, ripetendo quel nome;243 il 4 d'aprile la polizia
toscana veniva informata essere «stati noleggiati nel porto di
Genova per rilevante prezzo due bastimenti da servire a segrete
speculazioni che dovevano aver luogo sulle coste della bassa
Italia»;244 il 30 dello stesso mese Fanelli avvertiva gli amici che
«un vapore da guerra costeggia la Calabria per evitare un...
presuntivo sbarco di murattisti»;245 il 21 maggio l'Intendente di
Genova, chiamato a render ragione delle supposte spedizioni d'armi
da quel porto, non poteva recisamente smentire i rumori corsi in
proposito, ammetteva comunque «che armi vecchie d'ogni sorta sono
state comperate in città e spedite all'estero»;246 il 29 dello
stesso mese agl'Intendenti di tutte le provincie litoranee delle Due
Sicilie si spedivan da Napoli istruzioni d'intensificare la
vigilanza costiera, e speciali raccomandazioni venivano fatte
all'Intendente di Salerno, sotto la cui giurisdizione cadeva appunto
la costiera di Sapri!247 E finalmente, il 13 giugno, la polizia
genovese accertava che il postale Cagliari della linea
Sardegna-Tunisi compiva carichi d'armi abbastanza inspiegabili.248
Altro che segreto! I preparativi della spedizione venivano seguiti,
passo per passo, dalle polizie di tutta Italia; e se il progetto
poté, dopo tutto, eseguirsi, ciò si dovette proprio al fatto che, a
forza di gridare per mesi e mesi al lupo, i rapporti di polizia
finirono per lasciare increduli i rispettivi governi. Non quello di
Torino, è vero; ma su i molti e coscienti peccati di debolezza da
esso commessi verso i rivoluzionari napoletani (i quali, va detto,
non ne ebbero, per parte loro, che un assai vago sospetto), sembra
superfluo anzi che no l'insistere; poco se ne sa, più s'intuisce; la
verità vera, forse, non la sapremo mai.249
Capitolo decimo
Testamento
Mentre si approssimava la data per l'esecuzione del tentativo, una
crescente agitazione s'impadroniva di quasi tutti gli organizzatori,
sia che temessero per loro stessi, sia che soltanto allora
riuscissero a misurare qual sorta di responsabilità si fossero
assunti, sia finalmente che l'ostinata contrarietà alla spedizione
di molti fra i migliori amici li rendesse proprio all'ultimo
dubbiosi. Pisacane no. Era anzi sempre più calmo: più affettuoso e
indulgente nelle lettere a Fanelli, meno concitato in quelle a
Mazzini o a Fabrizi, sereno e rasserenante nei colloqui coi
«complici». Nonostante l'imminente ciclone la sua normale attività
proseguiva imperturbabile.
Ed eccolo modestamente occupato a impartire lezioni di matematica
fino al giorno della partenza, eccolo dissipare col franco sorriso i
sospetti degli amici non a parte del segreto, eccolo, nella
corrispondenza coi conoscenti, distendersi a ragionare del più e del
meno, come se nulla fosse.
Il 9 maggio '57, per esempio (quando pare che la spedizione debba
effettuarsi alla fine del mese), così risponde a una lettera di
Giovanni Cadolini, il quale gli ha offerto un posto d'ingegnere nel
suo studio a Oristano: «Il lavoro che mi proponete mi sarebbe molto
omogeneo, ed i patti accettabili, perché proposti da amici in
compagnia dei quali sarei contentissimo di lavorare; ma per tutto
questo mese e l'entrante sono già impegnato e non potrò lasciar
Genova, quindi non posso che ringraziarvi di cuore della memoria che
avete conservato di me, sperando rivedervi in migliori occasioni. In
politica qui si vegeta... Al Parlamento subalpino si recita sempre,
non saprei se il dramma, commedia, o farsa. Quando finirà? Spero...
(sic) ed abbracciandovi sono».
17 di maggio, lettera a Cosenz: di tutto un po'. D'una partita
d'armi che è felicemente arrivata,250 di certe medaglie fatte
coniare in memoria di Agesilao Milano, d'un libro del Carrano sul
Pepe, della giornalista inglese Jessie White.
Il 26 trasmette a un amico, a Milano, informazioni minute su una
partita di bachi e di «semi di Calabria»;251 ma è una formola
convenzionale per annunziare il prossimo imbarco... Tutto fuoco di
dentro ma all'aspetto esteriore quieto e composto è Pisacane; né
solamente per deviare, col contegno, l'eventuale vigilanza della
polizia. Come mutato dal Pisacane di pochi anni innanzi (quello
descrittoci dal Dall'Ongaro), gesticolante, rumoroso, parolaio! Lo
conobbe in quelle ultime settimane un mazziniano fiorentino, Andrea
Giannelli, allora ospite a Genova di Costantino Mini, che abitava, a
un piano diverso, nella casa medesima di Pisacane (Via Colombo,
numero quattro).252 «Il Mini — racconta il Giannelli — mi presentò
al Pisacane, che rividi solo qualche altra volta; e sebbene non mi
spiegasse minutamente i suoi disegni, pure capii che qualcosa di
straordinario egli stava preparando». Pisacane «lasciò in me
un'indicibile espressione (sic) d'uomo predestinato. Di carnagione
candida, barba e capelli rossi-biondicci, gli occhi celesti, di
statura media ed abbastanza complessa, il portamento composto, di
non molte parole e misurate tutte ed a proposito, rivelavano in lui,
preso così nell'assieme, un uomo superiore...»253
L'11 di maggio, con prodigiosa disinvoltura sfidando le ricerche
della polizia, Mazzini — via Torino — ritorna a Genova. Il sapere
che c'è, che è fra loro, il poterlo qualche volta vedere, galvanizza
i compagni.
Non ha un momento di requie; tre distinte gigantesche imprese da
condurre a punto e sincronizzare: Sapri, Livorno e Genova! E,
insieme, amici sicuri da raffermare, incerti da scuotere, tepidi da
neutralizzare, nemici da tenere a bada; proclami e manifesti da
dettare e passare alla stamperia clandestina; cento dettagli da
stabilire per le imbarcazioni, per le armi; intese da precisare; e
in più sviare i sospetti delle autorità: un inferno!
Il giorno 12 Mazzini si abbocca con Pisacane; poi, quasi tutte le
notti, sono convegni segreti e di decisiva importanza. Pochi giorni
dopo, ecco a Genova Jessie White, mazziniana esaltata, ben nota per
una serie di clamorose conferenze sull'Italia tenute in Inghilterra,
venuta adesso in Italia per assicurare al Daily News, nell'imminenza
dei moti insurrezionali, corrispondenze tali da guadagnare ad essi
la simpatia del pubblico inglese.254 L'arrivo di questa rumorosa e
imprudente reporter (imprudente al punto da discorrere a voce
spiegata di quel che sta per succedere, in una stanza d'albergo, a
Torino)255 è particolarmente importante in quanto è proprio per
mezzo di lei che gli organizzatori della spedizione fanno un ultimo
tentativo per ottenere la cooperazione di Garibaldi. Già nel
febbraio di quell'anno, a ripetute pressioni della White in
proposito, il generale ha risposto:
«Se io fossi sicuro d'esser seguito da un numero ragguardevole
presentandomi con una bandiera sulla scena d'azione del mio paese e
soltanto con piccola probabilità di successo — dubitereste voi ch'io
mi lancerei con gioia febbrile al conseguimento di quell'idea di
tutta la vita, abbenché mi si presentasse, per compenso, il martirio
più atroce?... Se non mi lancio a capitanare un movimento — è perché
non vedo probabilità di riuscita... non dirò agl'Italiani — Sorgete!
per far ridere la canaglia...»256 La White non si dà per vinta. Agli
ultimi di maggio combina un ritrovo a Torino fra Garibaldi e
Pisacane, presenti lei medesima e Nicotera, allora giovane di studio
del Mancini. Ma Pisacane, munito dei piani della spedizione e della
corrispondenza col Comitato di Napoli, spiega invano la sua
appassionata eloquenza: Garibaldi, appoggiato a Genova da Bertani e
Medici, è fermissimo nel diniego, ben persuaso che senza l'appoggio
del governo sardo sia impossibile ormai raggiungere in Italia per
via d'insurrezioni alcun resultato apprezzabile.257 A Nicotera
invece sembran più che esaurienti le documentate assicurazioni di
Pisacane esser tutto «disposto nel Regno, e che soltanto vi
bisognava un'iniziativa»: tanto più che gli consta che Pisacane s'è
rifiutato di prender parte in passato ad altri movimenti
insurrezionali da lui considerati immaturi. L'acquisto di Nicotera,
intellettuale di fegato, popolare nella nativa Calabria, è
incoraggiante e importante.258
Piú tardi, il 22 o il 23 di giugno, trovandosi Garibaldi in Genova,
Pisacane s'abboccherà un'ultima volta con lui, ma senza frutto.259
Mazzini spedisce intanto a Fanelli le istruzioni definitive
sull'azione da svolgersi a Napoli a sbarco avvenuto. Bisogna che
Napoli insorga. Si badi bene però: «astenersi da manifestazioni
esclusive», affermare fin da principio il carattere nazionale del
movimento, stroncare inesorabilmente ogni deviazione murattista.
Sfruttare senza esitazione il primo fermento che la notizia dello
sbarco produrrà nella popolazione, non lasciarsi «sedurre dalla
tendenza così facile e funestissima ad aspettare che lo sviluppo del
moto provinciale assuma proporzioni imponenti». Si tenti subito un
colpo d'audacia, per esempio impadronirsi di sorpresa d'uno dei
forti che circondano Napoli; nel tempo stesso, non prima, si
spargano tra i militari e i borghesi proclami insurrezionali e si
faccian sparire «per fatto individuale» gli alti gradi
dell'esercito.
Stia tranquillo, Fanelli: poco prima del «fatto» giungerà a Napoli,
per assisterlo, un Commissario politico (il Quadrio); fors'anche un
tecnico militare (il Cosenz). Mazzini intanto gli acclude due
abbozzi di proclami, rivolti ai cittadini e ai soldati: concitati,
trascinanti, generici; mazziniani, nell'intonazione, al cento per
cento.
Tutto ciò il 24 di maggio. Il 1° di giugno parte per Napoli un altro
proclama ancora: a Genova evidentemente si teme che Fanelli non
sappia, nel giro di poche righe, riepilogare le cause
dell'insurrezione e scuotere l'animo dell'anonima folla. Il nuovo
proclama è scritto di pugno di Pisacane, Mazzini non ha fatto che
correggerlo qua e là.260 Che differenza fra questo e i due
precedenti! In quelli ricorrono le parole dovere, missione, patria,
sacrificio, onore; questo non è che un contratto proposto ai
napoletani dagli iniziatori del moto: seguiteci e noi vi daremo, sul
terreno politico, suffragio universale, libertà di associazione, di
parola e di stampa, educazione nazionale, libertà dei comuni, unità
nazionale; su quello economico, assistenza obbligatoria ai
nullatenenti infermi e vecchi, abolizione dei dazi e delle imposte
indirette, tassa unica sul reddito con esenzione dei redditi minimi,
imprendimento d'immensi lavori pubblici per sovvenire alla
disoccupazione, larghissimi crediti alle associazioni di lavoro,
sfollamento della burocrazia.
Tutte riforme che Mazzini bandisce da un pezzo, ma quando mai ha
egli fatto leva così esplicitamente su di esse per trascinare le
masse all'insurrezione? Il proclama è dunque un tipico frutto della
collaborazione tra il suo dogmatismo morale e il pragmatismo di
Pisacane. Pisacane concede un fuggitivo accenno introduttivo alla
tradizionale formola Dio e Popolo261 e acconsente a ridurre a poche
ricette d'un blando riformismo il vasto suo programma sociale;
Mazzini si rassegna per parte sua a che l'appello alla rivoluzione
politica venga contaminato da una serie di materialistici do ut des.
Pisacane sa fin troppo che la stragrande maggioranza della
popolazione non avverte gl'imperativi di libertà se non in funzione
del problema economico; Mazzini si affretta a mettere in chiaro,
scrivendo a Fanelli, come «le promesse contenute in questo scritto
possano verificarsi tutte senza sovversioni di diritti acquisiti,
senza sconvolgimenti sociali».
Non mancano gli accenni alla questione militare, e questi son tutti
di pretta marca pisacaniana: esercito nazionale, gli ufficiali
eletti a suffragio indiretto dalla truppa medesima; non appena
raggiunta l'unità italiana, organizzazione della nazione armata. In
un proclama speciale dedicato all'esercito, l'invito
all'insurrezione è accompagnato naturalmente dalla promessa di
promozioni speciali a quelli tra i militari che v'aderiranno più
presto.
La notte del 4 di giugno, in Genova, gli organizzatori e i fautori
della spedizione si riuniscono segretamente per prendere gli ultimi
accordi, rivedere punto per punto il progetto e valutarne
definitivamente le probabilità di successo. Salvo Castelli,
meridionali tutti: Pilo, Pisacane, Nicotera, Cosenz, Carbonelli,
Mignogna, Falcone, portavoce di Fabrizi, di fresco giunto da
Malta.262
All'ora designata, con quel tanto di mistero e di rischio che vale a
dare il batticuore agli astanti, ecco Mazzini. Sebbene
particolarmente ottimista in quei giorni, Mazzini era tuttavia molto
perplesso. Lasciamo andare Fanelli che con le sue crisi alterne di
disperazione e di esaltazione avrebbe fatto dubitar della fede un
dei dodici apostoli; ma sconcertavan Mazzini la contrarietà d'un
Saffi e d'un Crispi all'impresa di Genova, il pessimismo d'un
Musolino, l'atteggiamento intransigente dell'equilibrato Bertani che
perfino evitava d'incontrare gli amici per non saper da loro a che
punto ne fossero 263(onde Pisacane: «Pare impossibile! così
entusiasta l'anno passato, ora così irremovibile»). Per di più
mancavano ancora notizie precise su Ventotene e su Ponza; di Sapri
non si sapeva che quello che ne dicevano le carte geografiche, e non
ci si fondava che su presunzioni generiche quanto allo stato d'animo
dei gruppi di opposizione nel napoletano: in quali e quanti paesi la
notizia dello sbarco avrebbe determinato l'insurrezione? Fino a che
punto si poteva contare sull'affluire di compagni armati sul lido di
Sapri? Mistero, mistero. Ed eran sei mesi abbondanti che non ci si
occupava di altro!
Ragionevole dunque che a Mazzini tremassero i polsi nell'atto di dar
fuoco alle polveri: fuor che Mignogna non eran tutti ragazzi,
appetto a lui cinquantenne, gli otto adunati? Tremenda la
responsabilità che per l'ennesima volta in sua vita gli gravava le
spalle, insopportabile la ricorrente tempesta del dubbio. Su tutti
pesava, quella notte, come un oscuro presagio, l'ombra di
Bentivegna; perfino Nicotera, un vulcano di solito, si diceva poco
persuaso della maturità rivoluzionaria del suo Mezzogiorno.
Ma come un improvviso raggio di sole disperde una densa cortina di
nuvole, così la sicurezza pacata, il logico ragionare, la voce
insieme ferma e appassionata di Pisacane valsero a dissipare ogni
esitazione con tale facilità, con tale prontezza che alle postume
riflessioni di coscienze turbate il miracolo dovette sembrare
spiegabile solo qual frutto di una vera suggestione collettiva.
Perché mai tormentarsi di dubbi? Troppi segni accusavano ormai
l'esistenza di una situazione tipicamente pre-rivoluzionaria nelle
Due Sicilie, troppe scintille eran sprizzate qua e là perché si
potesse mettere in forse l'imminenza e la gravità dell'incendio. La
cronaca degli ultimi mesi non era stata che una lunga teoria di
sedizioni, rivolte, attentati, collettive proteste: falliti tutti,
tragicamente scontati, è vero, ma non forse esclusivamente perché
quegli episodi si erano svolti indipendenti e isolati l'uno
dall'altro né alcuno di essi si era rivelato di tanta importanza da
costituire seria minaccia per la conservazione del regime borbonico?
Non più si trattava dunque di star lí a soppesare le disposizioni
del popolo napoletano, fin troppo chiare: o che si voleva, che esso
insorgesse d'un tratto, tutto insieme, inerme di fronte alle
baionette tiranniche? Era tempo di offrirgli un'occasione
irresistibile, una base d'appoggio se si voleva che osasse: la
spedizione, precisamente, la marcia dei prigionieri armati.
Inadeguata la preparazione? E poco risoluti sembravano i
rivoluzionari, laggiú? Ben naturale: quante volte, dietro precise
promesse di aiuto esterno, pochi audaci si erano mossi per cadere da
soli! La dolorosa esperienza rendeva diffidenti adesso anche i più
generosi. Ma se mai un giorno essi avessero veduto le vecchie
promesse tradursi in realtà e la troppo decantata solidarietà
italiana manifestarsi davvero attraverso altri moti scoppiati in
altre regioni della penisola, chi mai li tratterrebbe più? Il
ricordo dei compagni caduti centuplicherebbe la loro energia, e il
mondo, anche troppo disposto sin qui a deplorare l'inerzia dei
napoletani, stupirebbe del numero e della foga degli antiborbonici.
Se gli animi, nella fase della preparazione, oltre che intimidirsi,
si dividevano, non era anche questo ben comprensibile? Solo la magia
dell'azione sa far tacere i dissensi.
Così, quella notte, parlava Pisacane; e i volti dei suoi ascoltatori
si contraevano in un'espressione di risolutezza incrollabile e i
sedici occhi mandavano lampi. Fatuità nel parlatore? Leggerezza
negli altri? No: Pisacane esercitava sugli amici, su Mazzini pel
primo, l'ascendente invincibile di chi, sostenendo la necessità e la
bellezza d'una impresa arrischiata, assume per sé, del rischio, la
massima parte.264
Fu così che venne irrevocabilmente decisa, nei suoi minuti dettagli,
l'impresa di Sapri, combinata con i moti minori di Genova e Livorno;
Pisacane capo della spedizione, Nicotera e Falcone in sottordine;
Pilo distaccato sulla goletta destinata a incontrarsi col Cagliari;
Cosenz capo militare nel napoletano; Mignogna incaricato di
informare telegraficamente Fanelli; partenza della goletta il 6
giugno, della spedizione il 10.265
Dopodiche l'adunanza si sciolse.
Due giorni di ansiosi preparativi.
Il 6 giugno, a notte alta, accompagnato da altri emigrati fra i
quali un Pisani, fratello del relegato, Rosolino Pilo si portò
presso Rivarolo di Ponente, in una villa sul mare dove in precedenza
si erano trasportate dodici casse di «letti di ferro»
(duecentocinquanta fucili, con relative munizioni, e
duecentocinquanta daghe). A mezzanotte, mentre qualcuno pensava a
tener lontane le guardie di dogana, si trasferí questo carico sulla
goletta già pronta in attesa.
Era comandata, questa, da un vecchio lupo di mare cui si eran
promessi lauti guadagni purché si fosse prestato a tener mano a un
contrabbando. Ma il pover'uomo, osservate che ebbe le casse, non
stentò a rendersi conto di che mai si trattasse; sì che, nel timore
d'incorrere in rischi più seri dell'usato, bruscamente rifiutò di
partire. Lieve impaccio per quei giovanotti già d'accordo col
rimanente dell'equipaggio! Al vecchio, che tra molte bestemmie
piangeva e profferiva minaccie, si tolse il governo della nave e fu
lasciato in un canto a ruminar la sua ira.
Pure quel pianto fu un cattivo presagio. I primi due giorni si ebbe
infatti a lottare con l'assoluta mancanza del vento, che fece
dubitare non si sarebbe raggiunto in tempo il luogo destinato; e
quando, la notte dall'8 al 9, finalmente, le vele si gonfiaron d'un
tratto, non era vento, era bufera scatenata. «Il mare divenne più
che burrascoso, un vento tutt'affatto contrario cominciò a soffiare:
il battello ruppesi nella carena e l'ondate del mare penetravano
dentro, di modo che in pochi momenti si giunse ad avere quattro
palmi d'acqua. Per maggior mala sorte il bastimento trovavasi con la
pompa inservibile, s'era senza carta di navigazione, con attrezzi e
cordaggi vecchi, che rompevansi ad ogni infuriar di vento. Li
marinari per la folta nebbia non sapevano più dove stava la terra e
quindi perdevansi d'animo. Si raccolsero tutti a consiglio col
vecchio capitano».266 Impossibile approdare in un porto vicino, per
via del carico; impossibile d'altronde proseguire per via del vento
contrario; imminente il naufragio se non s'invertiva la rotta e non
si gettavano immediatamente a mare le dodici casse. Netta ripulsa di
Pilo: mancare all'incontro, gettare le armi — ognuna delle quali era
costata miracoli di audacia, di astuzia, di passione — significava
compromettere irreparabilmente la spedizione. Ma come tre giorni
innanzi alla volontà contraria del vecchio si era violentemente
imposta la forza del numero, così ora la disperata resistenza di
Pilo s'infranse contro il pànico timore dei suoi compagni.
Liberata dunque la goletta dal peso e il capitano dal gran pensiero,
questi riprese il comando e quella, il vento aiutando, filò verso
Genova.
E se non si giungeva in tempo per fermare gli amici? (Il Cagliari
avrebbe dovuto salpar l'indomani). Dopo il mancato incontro, cosa
avrebbe risolto Pisacane? Proseguirebbero inermi? E ammesso pure che
si giungesse a prevenirli, che fare se fosse intanto già partito il
dispaccio per quei di Napoli, perché iniziassero il moto? Ma il
vento, per fortuna, soffiava talmente impetuoso che «in 3 ore circa
si rifece il cammino che si era fatto in tre giorni e si giunse alle
3 ore pom. del giorno 9 giugno nel porto di Genova». E allora le
ansie dello sbarco. I doganieri non si sarebbero insospettiti nel
veder calar giú da una goletta quei tipi così poco marinareschi?
Nessun genovese si trovava tra i passeggeri e Pilo era noto anche
troppo alla locale polizia. Ma no: il mare agitato favorí la
manovra; e poté il povero Pilo mandare altri dapprima e poi correre
disperato lui stesso a casa di Pisacane ad annunziare lo sciagurato
incidente.
A Genova tutto era pronto. Senonché si era dovuto, la mattina stessa
del 9, superare una imprevista difficoltà, provocata (ebbe a dire
Mazzini) dal «voltafaccia» di Cosenz;267 questi, si è visto, avrebbe
dovuto partire per Napoli per assumervi la direzione militare
dell'insurrezione. Recatosi a Genova per prendere imbarco, aveva
appreso, all'ultimo, che Quadrio era stato designato a Commissario
politico e lo avrebbe accompagnato nel viaggio. Perché gli si era
taciuta la circostanza? Porre Quadrio alla testa delle cose non
significava forse assegnare al moto quell'etichetta di mazzinianismo
assoluto, che secondo le intese corse avrebbe dovuto evitarsi?
Cosenz avea fin qui tutte le ragioni del mondo e avrebbe potuto
giustamente pretendere la sostituzione di Quadrio; si mise dalla
parte del torto prendendo precipitosamente una risoluzione ab irato:
quella di tornare a Torino senza cercar di Mazzini, lasciando solo
«una lettera nella quale dichiarava che non voleva essere lo
strumento di nessuno». Ma forse Cosenz non si era reso conto di
sabotare con quel ripicco le sorti stesse e della spedizione e del
moto di Napoli.
Toccò a Pisacane, avvezzo d'altronde a certe sorprese da parte di
quell'amico, di rabberciare alla meglio le istruzioni a Fanelli,
avvertendolo che a Napoli si sarebbe recato soltanto il Commissario
politico: alle cose militari provvedesse da sé.
Quanto agli uomini della spedizione, marinai e artigiani della
Liguria, della Lombardia e delle Marche, gente devota a Mazzini,
essi erano agli ordini. Pisacane, addí otto di giugno, li aveva con
maschie parole sommariamente informati dello scopo e delle modalità
dell'impresa.268 La rotta era stata accuratamente studiata, e a
Pisacane si era affidato il magro «tesoro» dell'impresa. Il
dispaccio per confermare al Comitato di Napoli la imminente partenza
era infine stato spedito quando, trafelato e disfatto, giunse
Rosolino Pilo.269 Era il disastro! S'imponeva il rinvio sine die
della impresa; ma come avvertire Fanelli? Le menti agitate di
Pisacane e Enrichetta, di Pilo e dell'amico genovese Mazzini, che
era con loro, si figuravano già Napoli in tumulto e nuclei di
insorti del Cilento, di Basilicata e Calabria in marcia verso la
costiera di Sapri, nella rischiosissima attesa del Cagliari, e paesi
e città più lontani in rivolta, nella fidente attesa della
rivoluzione italiana, attesa che si tramuterebbe ben presto in
disperata angoscia, mentre la repressione borbonica avrebbe
soffocato nel sangue quegli efimeri focolai d'incendio. Senza capi,
senza programma, male armati, delusi, i compagni laggiú sarebbero
caduti ancora una volta da soli, maledicendo.
No, questo non doveva accadere.
I quattro corsero da Mazzini, che si teneva allora celato in casa
Pareto: Mazzini rimase atterrito. «Un intiero edificio costrutto con
una difficoltà infinita, — scrisse a un amico — successo insperato
fino a ieri, ed avverti che oggi era il giorno decisivo, venne
abbattuto da un colpo di vento, a cagione di un naviglio sbattuto
dalla tempesta, che gittò in mare il materiale e gli altri
oggetti... Ce n'è da darsi la testa nel muro... »270 Che fare?
Impossibile spiegar l'accaduto per telegramma; per lettera, sì,
profittando del postale per Napoli che partiva nel pomeriggio; ma a
chi affidare uno scritto così compromettente? Si pensò, al solito,
al consolato inglese e la lettera, vergata in grandissima fretta, vi
fu recapitata; ma il consolato era chiuso!
Fu allora che parlò la compagna di Pisacane. Essa aveva assistito
con grande inquietudine a tutti i preparativi della spedizione,
troppo generosa per dissuaderne il suo Carlo in nome del suo amore o
dei diritti della piccola Silvia, troppo intelligente e sensata per
non prevederne il tragico esito; aveva, per mesi e mesi, taciuto.
Ora parlò con rude schiettezza.271 Non sapeva intendere come ci si
potessero fare tante illusioni sulla serietà e l'entità dei
preparativi compiuti dal Comitato di Napoli. E infatti, delle due
l'una: o laggiú si andava organizzando davvero una vasta rivolta, e
allora che bisogno poteva mai esserci di questa pericolosissima
spedizione di pochi? O invece una spinta dall'esterno — così lieve!
nessuno come lei poteva sapere quanto terribilmente lieve! — si
riteneva proprio indispensabile, e allora che mai doveva pensarsi di
quei preparativi? Il forzato rinvio, comunque, giungeva forse
provvidenziale: già che occorreva ad ogni costo avvertire Fanelli,
andasse Carlo in persona a Napoli, prendendo imbarco sul postale in
partenza, e profittasse della gita per accertarsi della situazione
effettiva. Troppo aveva detto e disdetto, promesso e ritirato il
Fanelli: sì che soltanto dopo il controllo eseguito sul posto da
Pisacane si sarebbe potuto risolvere in tutta coscienza se fosse il
caso o meno di ripigliare il progetto.
Animata dalla segreta, umana speranza che Pisacane tornasse da
Napoli deluso e sfiduciato, persuaso cioè come lo era essa da tempo,
e come egli stesso s'era mostrato in passato, che il forzare con
imprese avventate la dura realtà del regime borbonico, resistente a
ben altre scosse, sarebbe stata pura pazzia; allucinata dal ricordo
anche recente dei tanti che, scambiando lo stato d'animo proprio con
quello di tutto un popolo, si erano invano sacrificati, essa non
esitò un istante a esporre il suo compagno al pericolo immediato,
che pur non si dissimulava affatto, di cadere nelle mani della
polizia napoletana: Pisacane era disertore dell'esercito borbonico!
Gli è che essa non agiva soltanto per fini egoistici: al rischio,
supposto inutile, di molti, preferiva malgrado tutto il rischio
corso da un solo, fosse quest'uno il suo caro, il padre di sua
figlia, la ragione stessa della sua vita.
Senza indugio Pisacane accettò; e gli altri approvarono. «In due ore
— attestò Mazzini nei Ricordi — ei decise; fece tutti i preparativi
opportuni, abbracciò la donna del suo cuore, che si mostrò in tutto
degna di lui, e partí. Era determinazione per lui più grave
dell'altra; era l'esporsi a tortura e a morte solitaria, senza
difesa, non coll'armi in pugno e lottando. E nondimeno, chi lo vide
in quelle ore avrebbe detto ch'ei s'avviava a diporto». Aveva
infatti nel cuore una pace profonda: se la spedizione forzatamente
mancava, non lui mancava; se il rinvio avesse malauguratamente
prodotto, laggiú, una catastrofe, era ben giusto che travolgesse lui
pel primo. Ma una voce interiore, ottimista, gli diceva che col suo
arrivo a Napoli tutto si sarebbe appianato e il tentativo, a breve
scadenza, si sarebbe potuto ripetere; chi sa mai, fors'anche gli si
sarebbe rivelata la possibilità di una iniziativa immediata nella
capitale; e in quel caso, nessun rinvio (pericoloso sempre) dei moti
di Genova e Livorno.
Degno di Mazzini — che, vinto il primo smarrimento, era già pronto a
ricominciare tutto da capo — Pisacane assicurava un amico che
«accostumati ormai alle disgrazie ed alle delusioni, esse non ci
scoraggiano — ma con maggiore pertinacia ci legano all'impresa».
Munito d'un passaporto falso, inosservato dalla polizia, s'affrettò
dunque sull'Aventino in partenza.272 Il viaggio fu turbato da
continue apprensioni; ancora da Civitavecchia, dove il postale
faceva scalo, egli scriveva a Fabrizi: «se ci sarà fallimento non
voglio rimproverarmi né debolezza, né mancanza di energia; ma
soccombere con la coscienza degna di me e de' miei amici». Forse
travestito, sbarcò incolume a Napoli, venerdí dodici giugno; si
precipitò da Fanelli.273
Non appena ricevuto il famoso dispaccio, Fanelli, pur mal persuaso e
sconvolto, aveva diramato nelle provincie l'ordine d'azione per il
13 giugno. Il contrordine fu adesso comunicato d'urgenza: ma ci
volevano altro che ventiquattr'ore per giungere ovunque! Sí che,
come si seppe di poi, all'indomani il lido di Sapri si mostrava
insolitamente animato e la polizia borbonica notava, in varie
località di provincia, segni di agitazione. Però niente di grave
accadde, né tumulti né arresti.274 Si eran salvate le possibilità di
un prossimo bis e insieme si era inscenata una sorta di prova
generale del movimento nei piccoli centri lontani, della quale e
Fanelli e Pisacane, un po' alla leggera, si dichiararon soddisfatti
appieno. La complicazione più grave provocata dal rinvio era
costituita piuttosto, o così parve, dalle confidenze pur vaghe che
nella imminenza del moto Fanelli aveva creduto di dover fare agli
esponenti del partito moderato costituzionale275; vero è che in
risposta alle sue sollecitazioni di aiuto o di benevola neutralità
gli si eran prodigati molti no, se e ma; restava comunque il fatto,
per niente rassicurante, che molta gente per principio contraria ai
metodi rivoluzionari era ormai a conoscenza o subodorava il
«segreto».
La sera del 13 il Comitato di Napoli tenne riunione in casa Dragone,
presenti, oltre Pisacane e Fanelli, Giuseppe Lazzaro, Teodoro
Pateras, Giovanni Matina, Antonio Rizzo, Luigi Fittipaldi, Raffaello
Basile e Giuseppe De Mata. I convenuti, a ciascuno dei quali faceva
capo l'organizzazione rivoluzionaria in questa o quella provincia,
resero conto dell'opera svolta, presentarono nominativi e
statistiche, esibirono l'intero carteggio scambiato coi rispettivi
nuclei.276 Il problema da risolvere era il seguente: è in grado il
Comitato di Napoli di suscitare l'insurrezione nel regno senza che a
muovere gli animi intervenga dapprima il fatto nuovo, sensazionale
dello sbarco dei fuorusciti e dei prigionieri? Si dovette concluder
pel no. Pisacane riferí subito a Pilo: «non vi è nulla di concreto
pel momento; vi sono elementi disgregati, né possono concretarsi in
pochi giorni: contavano tutti sul fatto nostro».
Ritentare, dunque, la spedizione mancata? Pisacane, il giorno 14, si
pone a valutarne in concreto le probabilità di riuscita: continua
con le consultazioni con gli amici del Comitato, s'abbocca con
moderati, scrive di nuovo alle isole.277 Il giorno appresso ha già
ritrovato il perduto ottimismo, per quanto non ancora si senta di
prendere una decisione in proposito. Scrive a Pisani: se la
spedizione si farà, si farà con i duecentocinquanta fucili in meno;
quaranta uomini armati, e basta. Ci sono speranze di successo a
Ventotene, e i relegati accetterebbero questo piano ridotto? «Le
cose sono in modo, che un impulso, una scintilla può produrre un
incendio, questo è il mio convincimento morale...»
Il 16 giugno è la risoluzione finale: lo sbarco a Sapri avrà luogo,
avvenga che può. Ultime istruzioni a Fanelli, agli altri membri del
Comitato, più o meno le stesse già concertate a Genova; unica
variante essenziale, certo suggerita dalla poca incoraggiante
esperienza fatta in quei giorni, quella di «evitare ogni
discussione» coi moderati, «procedendo sempre ad assimilarsi gli
elementi di azione,... opponendosi occultamente con ogni mezzo alle
dimostrazioni. Cedere alle loro pretese di ammettere il grido di
costituzione (perché l'avvenire è nostro) nel solo caso che da
questo dipendesse il fare o il non fare immediato».
Contemporaneamente, Pisacane informa Fabrizi: «Ho trovato una gran
quantità di ottimi elementi; e più di quelli che assicurava il
coscienziosissimo Kilburn (nome di guerra usato da Fanelli); manca
(come egli dice) un centro intorno a cui questi elementi
indissolubilmente rannodarsi; ma non vi è mezzo per crearlo ed a
questo male che dipende da esuberante individualità, non v'è che un
solo rimedio: che il nostro operosissimo si tenga strettamente unito
con costoro, e si accrediti presso di loro coi mezzi che noi
dobbiamo fare ogni sforzo per fornirgli... Ed ora è d'uopo, che io e
lui (Fanelli) prefiggendoci come scopo lo stabilito, pieghiamo come
si dovrà alle circostanze».
Fanelli subisce in pieno la suggestione ottimistica esercitata dal
suo amico, e quella sorta di contagiosa serenità che ne emana si
impadronisce di lui. Il 17 giugno, infatti, trasmettendo un
biglietto di Pisacane — nel frattempo partito — assicura l'Agresti
che dopo il disastro avvenuto «noi... non siamo men fermi nel nostro
proponimento, e speriamo o col ripetere il progetto o con
imprenderne qualche altro (che abbiamo pur da gran tempo ruminato e
disposto) di venire sollecitamente allo scopo desiderato». Due
giorni dopo, lettera a Pisacane: «...per carità, sbrigate l'opera
vostra. I moderati ci stanno tendendo una contromina nella
provincia. I murattisti si apparecchiano ad approfittare dell'opera
nostra, bisognerà che agiamo di sorpresa... Tutto ciò che dovete
sbrigatelo; io non credo che possiamo durare a lungo senza avere
arresto, ed allora le faccende potrebbero rimanere sospese per un
pezzo e con grave danno». Gli stessi appelli, febbricitanti, rivolge
agli amici di provincia. «Tenete tutto prontissimo», raccomanda a
Giacinto Albini (il 18); l'insurrezione non è che ritardata «di
qualche giorno». Lo stesso scrive al Libertini (20 giugno): l'azione
è «sospesa» per «pochissimo», bisogna «intanto giovarci della poca
dilazione»; lo stesso al Magnone (22 giugno).
Ma non sarebbe stato Fanelli se quando poi Pisacane, tornato a
Genova, gli annunziò l'imminente concretarsi dell'impresa, non ne
fosse rimasto sbalordito addirittura e non avesse per l'ennesima
volta maledetto il momento nel quale s'era messo in contatto con
quel pazzo furioso.
Pisacane era ripartito da Napoli, per via di mare, il 16 giugno.278
Si sentiva tranquillo e pieno di speranza: il resultato più
importante del suo viaggio era stato quello di avergli permesso di
rendersi conto pienamente, in anticipo, dell'immenso effetto morale
che lo sbarco a Sapri avrebbe provocato in tutto il regno; i
rivoluzionari napoletani, ricchi delle migliori intenzioni, ma
incerti e indolenti, avrebbero indubbiamente reagito, di fronte al
fatto compiuto, con quell'energia che spesso gli irresoluti
dispiegano all'improvviso quando una travolgente forza esterna non
lascia loro altra alternativa che quella di agire in una certa
direzione o di passar da codardi. Del loro zelo antiborbonico non si
poteva dubitare: bisognava dunque cacciarli per forza in questa via
senza uscita. Altra certezza che egli portava via con sé era quella
del fracidume dell'edificio borbonico, ritto ormai per sola forza
d'inerzia. La piccola folla dei discordi rivoluzionari napoletani
stava lí quieta a riguardare il palazzo; tutti architetti, perdevano
il tempo a disputarsi l'accollo della demolizione, vantando ciascuno
la superiorità del proprio progetto e delle proprie maestranze. Non
intendevano dunque che al primo colpo di piccone un po' deciso
l'oggetto delle chiacchiere loro si sarebbe sfasciato in un nuvolone
di polvere?
Il vapore si staccava dal porto. Lontanava nel sereno orizzonte
Napoli,279 la sua Napoli, per la quale Pisacane soffriva la
nostalgia senza requie di tutti i figli del Vesuvio raminghi nel
mondo: Napoli, dove aveva sognato i sogni della sua adolescenza,
dove era nato il primo, l'unico amore della sua vita, dov'era la sua
casa di un tempo, con sua madre, con la sorella sposata. Aveva
potuto abbracciarle e rivedere il fratello ufficiale borbonico cui,
pel tramite di Fanelli, aveva, alcuni mesi innanzi, mandato un suo
messaggio? Chi sa.280
Patriota italiano, egli restava ancora e innanzi tutto napoletano:
fiero del suo paese, lieto di sentirsi parte di quella folla
variopinta, rumorosa ed espressiva, in mezzo alla quale si era
mescolato ancora una volta, dopo dieci anni di assenza; fiducioso
che quel popolo sobrio e paziente, ma all'occasione valorosissimo,
fosse il più degno in tutt'Italia e il più pronto a dare il segno di
una generale insurrezione per la libertà.
Via via che si dileguava nella distanza il volto materiale della
città, doveva vibrare nella commossa imaginazione di Pisacane
l'altra Napoli, quella delle sue speranze: Napoli insorta, la Napoli
generosa ed eroica che la reazione del 15 maggio aveva soffocato; e,
a Napoli insorta, il lieto affluire di volontari da ogni parte
d'Italia, per ripigliar la guerra, dai Borboni malamente troncata
nove anni innanzi.
Pensieri esaltati certo lo accompagnarono in quel viaggio, che
alcuni giorni prima aveva compiuto in direzione opposta, il cuore
turbato da miste speranze e timori.
A Genova il ritorno di Pisacane era ansiosamente atteso dagli amici:
avevano passato, dal 9 di giugno, giorni d'inferno. La sera stessa
della partenza dell'Aventino si era loro improvvisamente e
dispettosamente presentata la possibilità di «rimbarcare altra
partita di mercanzia», e cioè di non rimandare la spedizione neanche
di un giorno;281 poi si erano accorti che la polizia piemontese
stava ormai sull'avviso e, pure ignorando ancora che al governo
francese si era da qualche ignoto giuda
comunicata la cifra usata nella loro corrispondenza settaria, si
eran persuasi che, con tanta gente a parte delle loro intenzioni,282
o si agiva entro pochissimi giorni o l'iniziativa era da
considerarsi come senz'altro perduta.283 «Tento di fare il lavoro
del ragno — così si esprimeva il 20 di giugno la formidabile volontà
realizzatrice di Giuseppe Mazzini —; se poi tutto avesse a fallire,
sarò costretto, non dirò contro coscienza, ma certo con molta
riluttanza, a finirla con un coup de tête». Intanto nuove armi si
eran raccolte e nascoste, altro danaro era affluito. L'ultima parola
spettava a Pisacane.
Questi sbarcava a Genova il 19 di giugno, determinando addirittura
un'esplosione generale di ottimismo; si sarebbe detto che avesse
recato notizia della rivoluzione trionfante nelle Due Sicilie!
«Tornò trasfigurato e raggiante — scrive la Mario —:284 tutto era
combinato nuovamente cogli amici a Napoli. Vinceremo, disse, basta
una scintilla: da per tutto la mina è preparata, le comunicazioni
stabilite, audaci i capi, sicuri i seguaci. La rivoluzione è nei
cuori di tutte le classi colte; il napolitano andrà in fiamme. Il
murattismo non esiste se non nella testa di Napoleone e de' suoi
fidi di Piemonte. L'esercito sarà con noi, la plebe con chi vince».
Presso a poco negli stessi termini scrive Nicotera. E Mazzini:
«Tornò lieto, convinto, anelante azione, e come chi sente, toccando
la propria terra, raddoppiarsi in petto la vita. Gli balenava in
volto una fede presaga di vittoria. I nostri non lo avevano
ingannato; non gli avevano celato le gravi difficoltà che si
attraversavano alla riscossa; avevano ripetuto che un indugio le
avrebbe spianate. Ma, al di là delle obiezioni pratiche, egli aveva
veduto gli animi risoluti e vogliosi, il terreno disposto, il
fremito dei popolani... e mi scongiurò di rifar la tela pel 25...
Fui convinto...» A sentire il Carrano, Pisacane avrebbe, scherzando,
asserito che perfino i cocchieri delle carrozzelle di Napoli erano
ormai repubblicani convinti!285
In realtà fu un eccitarsi reciproco: ciascuno nutriva dei dubbi su
qualche punto del vasto progetto, ciascuno, nel mentre si sforzava
di dissipare gli altrui, si lasciava volentieri tranquillizzare sui
propri. Mazzini ad esempio era certo di Genova, poco persuaso di
Napoli; Pisacane, viceversa:286 a forza di discorrere assieme,
ogni dubbio svaní. L'aver da mesi l'attenzione concentrata, e quasi
gli occhi sbarrati, sul medesimo intento, tolse forse ad entrambi la
necessaria calma, quel certo distacco che era necessario per
valutare la situazione effettiva. È anche vero però che persone fino
allora tenute all'oscuro di tutto, cui si svelarono all'ultimo i
piani d'azione, dichiararono, dopo averne coscienziosamente
esaminate le basi, di ritenerle serie e fondate; tale quel capitano
di mare Danèri, cui venne offerto in extremis d'imbarcarsi sul
Cagliari per assumerne il comando dopo avvenuto l'ammutinamento. In
massima accettò lí per lí, ma poi si recò da Mazzini (nascosto
allora in casa di suo fratello Francesco) e gli chiese: «Che fiducia
avete voi in questa spedizione? non sarà una seconda spedizione dei
fratelli Bandiera? Ed egli: al punto in cui sono le cose, giudicate
voi se si deve tentare o no. E mi porse diverse carte dicendo;
queste sono le ultime corrispondenze del Comitato di Napoli, sapete
che oltre ciò Pisacane andò a Napoli travestito da prete (?) e
ritornò più entusiasta che mai. Letta la corrispondenza del
Comitato, risposi a Mazzini: se la centesima parte delle promesse ed
assicurazioni che dànno, è vera, noi siamo colpevoli per avere
aspettato tanto».287 Non dunque fu il solo Pisacane che convertí gli
altri all'azione immediata; furon tutti e nessuno, fu un qualche
cosa che era più forte di loro, una fatalità alla quale, inconsci,
obbedivano tutti.
La partenza venne nuovamente stabilita pel 25 di giugno col
piroscafo Cagliari; Pilo avrebbe preceduto di un giorno, con una
flottiglia di barche, recando un nuovo seppur più modesto carico
d'armi; arrivo presunto a Sapri domenica 28. Lunedí 29 era S.
Pietro, festività solenne; ed era parso importante che Pisacane, nel
primo giorno di marcia all'interno, non avesse a trovare i paesi
deserti, la gente tutta dispersa nei campi, al lavoro. Nella notte
dal 28 al 29 sarebbero intanto scoppiate le insurrezioni di Livorno
e di Genova.
Tremendamente affrettata la cosa, è vero, anche rispetto agli
accordi che si erano stretti col Comitato di Napoli, ma in quegli
stessi giorni non scongiurava lo stesso Fanelli che si facesse
presto, il più presto possibile? Fanelli venne avvertito alla prima
occasione di postale in partenza, martedí 23; sì che al più presto
la notizia non poteva raggiungerlo che venerdí 26, all'indomani
della partenza del Cagliari! «Gl'indugi — spiegò Pisacane in quella
lettera che era la conclusione del loro lungo carteggio — (sono)
impossibili per ragioni troppo lunghe ed inutili a dirvi. Io ho
accettato, e perché accetto sempre quando trattisi di fare, e perché
sono convinto che questo è l'ultimo gioco che per ora si farà, e se
mai non cercheremo trarne tutto il profitto possibile, faremo tale
errore, che verrà scontato con lunghissimo sonno...» E poi, con
magnifica tranquillità: «Appena saprete il contratto conchiuso a
Sapri, spedite quelle merci dispaccio. Finalmente se per caso in
luogo di sapere la conclusione del contratto per le merci Sapri,
venisse a vostra conoscenza un disastro nostro, spedite qui le merci
dispaccio all'indirizzo medesimo, ma con questo altro così
stabilito. La cambiale è stata rifiutata. Dunque queste merci
significano disastro... Spero che la cosa vada, ma non possiamo
esser certi di nulla, voi continuate a lavorare alacremente su
quelle basi, giacché se per imprevedibili eventualità ciò non avesse
luogo, il monopolio di Genova è inevitabile; e quindi la conseguenza
immediata, è il nostro contratto, dunque, comunque vadano le cose,
ritenete, che se il tutto non sfuma, la cosa avverrà con differenza
di pochi giorni».
Pisacane si lusingava che Fanelli avesse, dopo la sua partenza da
Napoli, sistemato le poche pendenze importanti che ancora restavano,
e nella lettera glielo diceva; poi aggiungeva, a mo' di poscritto:
«Se nella vostra che ricevo leggerò tutte queste cose, sarò
contentissimo». Gli era dunque pervenuta, nel mentre scriveva, la
lettera Fanelli del 19, la quale — come tutte le altre — andava
decifrata; ma in essa, s'è visto, non c'era di concreto che l'invito
a sbrigarsi, di tutto il resto ne quidem verbum.
Dal 23 alla partenza non giunse più altro; sì che Pisacane, quando
si mosse, si trovava nella situazione seguente: ignorava se i
relegati di Ponza e Ventotene fossero disposti a dargli man forte,
mancava di una carta o di un disegno di quelle due isole che
servissero a indicargliene almeno gli edifici importanti, i depositi
d'armi e gli appostamenti difensivi;288 non sapeva neanche con
assoluta certezza se Fanelli avrebbe fatto in tempo a diramare in
provincia l'avviso dello sbarco imminente. Sapeva solo una cosa, e
su questa contava, che ad ogni modo a Napoli lo si sarebbe
appoggiato con moti di piazza e con colpi di mano; né dubitava ormai
dell'esito, di decisiva importanza, delle rivolte di Livorno e di
Genova.
Il 24 di giugno — manca un sol giorno all'imbarco — Pisacane
riunisce in una casa fidatissima — quella dell'ardente mazziniana
Carlotta Benettini — l'intero «corpo» della spedizione (oh non son
molti, entrano tutti in una stanza sola...), e a ciascuno consegna
una pistola, uno stilo ed un berretto rosso; null'altro. Poi
Pisacane va dalla White, la sola straniera addentro alle segrete
cose, e le consegna alcune sue carte alle quali tiene di più: non
vuol che finiscano nei polverosi archivi di polizia. C'è una cara
vecchia lettera di Carlo Cattaneo; ci sono alcuni ricordi, c'è
soprattutto il suo Testamento politico. Jessie, commossa, promette
di tenerli per sacri: promette di vegliare su Enrichetta e su
Silvia.
Nel Testamento Pisacane ha tentato un'impresa difficile: quella di
giustificare l'imminente suo gesto con le dottrine sociali e
politiche già svolte nei Saggi. È il socialista che va volontario
alla guerra e che partendo dice: morirò socialista. Il documento è
breve, sdegnoso; il suo stile incisivo e sicuro, quasi a coprir con
la forma la fragilità dell'assunto: ma chi legga attentamente e non
si lasci trascinare dalla foga irruente del discorso (che scandalo
quell'improvvisa uscita: «per me dominio di casa Savoia e dominio di
casa d'Austria è precisamente lo stesso!») e dalla sicurezza
apodittica degli enunciati, ben s'avvede che Pisacane non è riuscito
a conciliare le antinomie del suo spirito.
Nella prima parte è il socialista determinista che parla e
profetizza: «Io credo che il solo socialismo... sia il solo avvenire
non lontano dell'Italia e forse dell'Europa... Sono convinto che le
ferrovie, i telegrafi, il miglioramento dell'industria, la facilità
del commercio, le macchine, ecc. ecc. per una legge economica e
fatale, finché il riparto del prodotto è fatto dalla concorrenza,
accrescono questo prodotto, ma l'accumulano sempre in ristrettissime
mani, ed immiseriscono la moltitudine; epperciò questo vantato
progresso non è che regresso: e se vuole considerarsi come
progresso, lo si deve nel senso che accrescendo i mali della plebe,
la sospingerà ad una terribile rivoluzione, la quale, cangiando d'un
tratto tutti gli ordinamenti sociali, volgerà a profitto di tutti
quello che ora è volto a profitto di pochi». È qui in pieno, si
vede, la dottrina dei Saggi, con la medesima concezione della
meccanicità del processo sociale, lo stesso schematismo semplicista,
lo stesso catastrofismo: la rivoluzione sarà non tanto perché è
giusto che sia, e neppure perché le masse lotteranno per imporla, ma
semplicemente perché è inevitabile che sia, come resultato
immancabile d'un contrasto di forze sfuggenti al controllo degli
uomini. Nessun appello alle masse: determinismo puro.
Ma nella seconda parte del Testamento (che con un brusco «Sono
convinto che l'Italia sarà libera e grande oppure schiava»
immediatamente fa seguito al passaggio su riportato) Pisacane ci
appare un altro uomo. Poiché, se egli vi riconferma la necessità
d'una soluzione rivoluzionaria del problema politico italiano,
subito aggiunge: «Ma il paese è composto d'individui, e poniamo il
caso che tutti aspettassero questo giorno (della rivoluzione) senza
congiurare, la rivoluzione non scoppierebbe mai». E poi: «Con tali
principii avrei creduto mancare a un sacro dovere, se vedendo la
possibilità di tentare un colpo in un punto, in un luogo, in un
tempo opportunissimo, non avessi impiegato tutta l'opera mia per
mandarlo ad effetto... Cospirazioni, congiure, tentativi, ecc. sono
quella serie di fatti attraverso cui l'Italia procede verso la sua
meta». La rivoluzione, adunque, potrebbe anche non essere; v'è, sì,
in Italia un equilibrio instabile, ma per rovesciarlo occorrono
colpi di maglio. Volontarismo, violenza: «Il lampo della baionetta
di Milano fu una propaganda più efficace di mille volumi scritti dai
dottrinari». Dov'è lo scientifico autore dei Saggi? E come può egli,
che attende la rivoluzione integrale dal maturarsi d'un processo
economico, appassionarsi ai problemi così detti della libertà
borghese? Se è vero che il socialismo è «il solo avvenire d'Italia»,
cos'è mai questa «meta» di cui adesso ci parla e per raggiunger la
quale gli sembra che valga la pena di mettere a repentaglio la vita?
È forse quella di conquistare ordinamenti liberi perché il popolo,
godendone, acquisti le capacità necessarie a promuovere in un
secondo tempo la rivoluzione sociale? Ma allora addio determinismo:
l'avvento del socialismo sarebbe dunque condizionato alla volontà
socialista del popolo!
Ad ogni modo, si vede, la contradizione è gravissima; così grave che
sembra quasi legittimo dubitare che il socialismo testamentario di
Pisacane, meccanica ripetizione di formole evidentemente già
superate nel suo spirito, non abbia ormai altro valore che quello
d'un ingenuo tentativo di salvataggio: salvataggio della sua
coerenza ideale, compromessa dal suo atteggiamento politico.
«Se mai nessun bene frutterà all'Italia il nostro sagrificio, sarà
sempre una gloria trovar gente che volonterosa s'immola al suo
avvenire». L'ex socialista Pisacane, adesso mazziniano esaltato, non
farebbe dunque che continuare la tradizione, ormai lunga in Italia e
tutt'altro che socialmente rivoluzionaria, di eletti campioni dei
ceti più alti, che periodicamente si sacrificano al bene supposto o
reale di un popolo inerte; non altri egli sarebbe che il successore
dei Bandiera, l'emulo di Bentivegna e dell'attentatore Milano. E
nemmeno egli s'illude, col suo «colpo», di doventare «il salvatore
della patria»: no, non altra missione egli rivendica a sé che quella
di propagar la scintilla. «Giunto al luogo dello sbarco... per me è
la vittoria, dovessi anche perire sul patibolo». Ma come è
pessimista, «disincantato», remoto le mille miglia dal misticismo
del Dio e Popolo, questo eroe mazziniano!
«La propaganda dell'idea — scrive nel Testamento — è una chimera,...
l'educazione del popolo è un assurdo. Le idee risultano dai fatti,
non questi da quelle... se non riesco, dispregio profondamente
l'ignobile volgo che mi condanna, ed apprezzo poco il suo plauso in
caso di riuscita». Quando mai un gesto così profondamente
idealistico come quello di Sapri fu preparato con maggiore freddezza
e con meno illusioni?
In conclusione: è, questo Pisacane ultimo, un transfuga del
socialismo, un disperato, un vinto?
Io non lo penso. Penso invece che il Testamento, vergato con mano
febbrile, sia l'espressione di una profonda crisi interiore in pieno
sviluppo; penso che esso avrebbe preluso, ove l'autore fosse
sopravvissuto a Sapri, a una profonda revisione della sua concezione
sociale e politica (cristallizzata nei Saggi) e propriamente nel
senso, più sopra adombrato, volontaristico. Di questa crisi, è vero,
il Testamento non offre che incerte indicazioni; ma si confronti, in
esso, la freddezza dogmatica con la quale son ripetute le formole
socialiste ricavate tal quali dai Saggi, combattivo calore che anima
i successivi passaggi sull'azione politica riservata a una minoranza
decisa; si rifletta all'«ignobile volgo». Tutto si spiega, e le
contradizioni s'intendono, se appunto si ammetta che Pisacane stia
evolvendo in quest'ora (verosimilmente sotto l'influenza e l'esempio
del più volontaristico tra i grandi lottatori politici, Mazzini)
verso un socialismo rivoluzionario antideterministico per
eccellenza, fondato sull'azione diretta, e anzi sulla violenza
esercitata nel nome e nell'interesse del popolo da una ristretta
élite ardita e dinamica: socialismo d'un uomo d'azione che, avendo
ricavato dall'esame scientifico della costituzione sociale la
convinzione della fatalità economica della rivoluzione proletaria,
intende poi come il processo vada sollecitato e moralizzato
dall'azione sovvertitrice, se non del proletariato medesimo, dei
suoi interpreti e rappresentanti. È insomma il socialismo d'un
democratico senza illusioni; vogliam dire la parola moderna? D'un
sindacalista rivoluzionario, d'un Sorel avanti lettera. Il
passaggio, frequentemente ripetutosi di poi, è quello che dal mito
dell'eguaglianza, della libertà assoluta e del livellamento di
classi conduce pari pari a giustificare la violenta sopraffazione
della volontà della maggioranza (che può essere anche non volontà)
da parte di una minoranza auto-proclamatasi depositaria delle sue
aspirazioni profonde; dal postulato della identità dei diritti alla
enunciazione della missione privilegiata delle élites. Lotta contro
l'adattamento, la cristallizzazione, l'immobilità: allenamento
rivoluzionario delle élites, e loro rinnovamento attraverso
l'affluenza di elementi nuovi via via staccantisi dalla gran massa
amorfa.
Il sindacalista rivoluzionario moderno mira allo sciopero generale
(paralisi dello Stato borghese) attraverso una serie di scioperi
violenti di categoria; ma pur di sottrarre il ceto operaio alla
pratica riformistica distruttrice del mito rivoluzionario aderisce
magari alla guerra borghese. Pisacane a che mira, a che ha sempre
mirato fin da quando, dopo il '50, s'è messo a pensare con la sua
testa? A risolvere i problemi politici e sociali d'Italia con forze
che siano originali italiane ed espressione di esigenze autentiche
del corpo sociale italiano. Di fronte alla pratica riformista
(azione dei principi), mietitrice di sempre nuovi successi, egli ha
inteso la necessità non priva di urgenza di suscitare, dal corpo
inerte della nazione, sussulti, scintille, affermazioni violente e
spontanee di una potenziale sovranità popolare. Rivoluzione sociale,
rivoluzione politica non son che vane parole se non presuppongono,
se non si risolvono appunto in uno sforzo di liberazione interiore
che muova dal basso, dal sottosuolo sociale, trovi espressione in
élites rappresentative e si imponga come volontà di lottare. Per un
rivoluzionario dello stampo di Pisacane il problema già tanto
discusso dell'ordine di precedenza tra le due liberazioni, l'una
dall'asservimento politico, l'altra da quella sociale, ha perso
dunque ogni concreto interesse, poiché si tratta piuttosto di creare
l'atmosfera favorevole ad entrambe, pregna d'intolleranza d'ogni
giogo, satura di volontarismo, dinamica; di allenare frazioni sempre
più numerose della popolazione ad osare, a infranger barriere e
divieti, a reclamare i diritti di libertà conculcati, ed anzi a
conquistarseli con la violenza. Solo in un'atmosfera siffatta, solo
partendo da queste premesse potranno gli italiani doventare un
popolo libero. S'intende dunque come, per Pisacane, Sapri non
costituisca che una delle tappe obbligate di questo itinerario,
necessariamente assai lungo. E come ai sindacalisti rivoluzionari
d'oggidí, tutti tesi verso il grande sussulto finale, riescono
alquanto indifferenti le cause e le finalità contingenti dei singoli
scioperi, così si spiega perché Pisacane assegni così scarsa
importanza ai particolari d'esecuzione del suo progetto e perfino
alle stesse probabilità maggiori o minori d'un suo successo. Gli
«scioperanti» del Cagliari verranno aggrediti e sopraffatti dai
«krumiri»? È ben possibile, è anzi assai verosimile; ma che importa?
L'essenziale è di agire, di scuotere: scagliare il sasso nella morta
gora. La catena di scioperi parziali, per sfortunati che siano,
condurrà poi fatalmente al grande sciopero ultimo, alla liberazione
integrale cioè delle masse asservite.
«Giunti al luogo dello sbarco per me è la vittoria». Non sembra
adesso che questa espressione, scambiata sin qui per una volata
romantica assai poco in accordo coi precedenti di Pisacane, acquisti
un significato positivo e preciso? E che la sfida di lui morituro
all'«ignobile volgo» perda quel carattere di odiosa sprezzante
superiorità da un verso, di desolata disperazione dall'altro, che a
tutta prima ci aveva colpiti, leggendo il Testamento politico?
Ma sia che si voglia interpretare quel documento come sintesi
superficiale e affrettata d'un pensiero ormai tarato dalle
contradizioni, sia che si voglia considerarlo, come a me pare più
giusto, quale espressione d'una cosciente crisi interiore in pieno
sviluppo, certo è che mai un testamento — sinonimo di volontà
estrema, chiara e sicura — dette al lettore, meno di questo
pisacaniano, il senso consolante di una pace raggiunta e d'una
verità, sia pure parziale, nella quale lo spirito abbia trovato la
quiete.289
Lo stesso 24 di giugno, mentre il pensoso Pisacane dà in questo modo
il suo addio alle lotte della vita, Falcone — ventitre anni — si
congeda dagli amici con una breve lettera di commovente semplicità:
diano essi il suo ritratto alla madre e dicano ai suoi fratelli «nel
caso che non debba più rivederli... essere mio desiderio che
imitassero il mio esempio. Ei sono dotati di un'indole energica, e
volendo son sicuro che faranno ciò che forse non potrò fare io
medesimo». Nient'altro: solo le scuse per essere partito senza dare
all'amico Sprovieri «l'ultimo addio!»290
Cuore saldo, questi giovani. «I vostri operai inglesi — disse alla
White uno dei due Poggi,291 marinaio, imbarcandosi sul Cagliari —
vedranno che i loro fratelli italiani sanno conquistare la loro
libertà, o morire per essa». Dodici giorni innanzi, questi umili
seguaci di Pisacane292 (non tutti, ché alcuni di essi vennero
prescelti o si offersero nei giorni successivi), avevano firmato una
commovente bellissima dichiarazione Ai fratelli d'Italia; chi la
dettò?293 Non monta; essi la sottoscrissero e, consegnandola a
persona di fiducia, espressero il desiderio che «quando che sia»
venisse data alle stampe «perché il nostro popolo non disconosca i
motivi che determinano la nostra accettazione».
«Noi partiamo. Partiamo, non allettati da... speranze di guadagno e
di gloria,... non costretti da invasione straniera o da crudele
tirannide domestica... Cittadini di uno Stato comparativamente
sicuro in Italia... tuttavia non ci sentivamo liberi e felici. Dal
Nord e dal Sud ci giungeva il pianto e il fremito di genti schiave e
martirizzate!... La coscienza ci dice: fino a tanto che 20 milioni
d'italiani sono schiavi, non abbiamo diritto di essere liberi se non
a patto di consacrare la vita all'emancipazione di tutti. La piccola
patria di Genova e di Piemonte non ci basta più... E perciò
partiamo... Siamo ben pochi a tentare la prova, perché chi governa
non ama l'Italia, e avversa chi s'adopra a liberarla... Noi, da un
governo egoista e codardo siamo costretti a involarci fra le tenebre
a guisa di contrabbandieri... La prova è difficile; il nemico che
intendiamo assalire è forte...: la provincia, in cui speriamo
piantare la bandiera Italiana, è abitata da gente buona ma
ignorante, a cui forse si farà credere essere noi masnadieri o
pirati scesi al saccheggio. Forse ci toccherà d'essere accolti, come
il drappello dei Bandiera, quali nemici dei nostri fratelli. E sia
pure! Poveri popolani, non abbiamo se non la vita da dare
all'Italia, e di gran cuore l'offriamo... Se l'impresa riesce,
secondateci, fratelli di Genova... Trasformate lo Stato Sardo in
provincia italiana... Se cadiamo, non ci piangete... Se non ci è
dato più vedere le nostre Riviere bagnate dal mare, date una carezza
d'affetto agli orfani bambini che lasciamo tra voi: educateli nella
religione della Patria: raccogliete la bandiera che, nel morire, ci
sarà sfuggita di mano; e se — libera l'Italia dalle Alpi al mare —
vi sovverrà dei morti fratelli, ergete allora — non prima — a coloro
che per la Patria hanno incontrato la morte, una tomba. Una tomba,
in terra libera e per mani libere, consolerà le anime nostre. Viva
l'Italia!»
La dichiarazione, si noti, fu scritta il giorno dodici: per tredici
giorni dunque quei poveri popolani seppero tenere il tremendo
segreto, pur vivendo la tumultuosa vita della grande città, fra
tentazioni d'ogni sorta. Tredici giorni per ripensare le parole
sottoscritte, valutare i pericoli dell'impegno assunto, ritrarsene,
o guadagnarsi favori e compensi a mezzo di delazioni. Ma non
fiatarono. Dei dodici firmatari, poi, tre furono uccisi, gli altri
tutti, fatti prigionieri, intristirono a lungo nelle carceri
borboniche. Che importa se, dopo mesi e mesi, fallito il grande
disegno, alcuni di costoro, tra le gravi more del processone di
Salerno, pensando alle famiglie lontane e in miseria, protestarono
al giudice d'aver sempre ignorato lo scopo del viaggio? D'esser
stati costretti, una volta attirati sul Cagliari, a eseguire nolenti
gli ordini dei capi? Se uno affermò che gli s'era promesso, per
indurlo a imbarcarsi, certo lavoro a Tunisi, e un altro che riteneva
trattarsi d'una impresa di contrabbando? Troppo logico che ci si
fosse accordati in anticipo perché i gregari, in caso d'insuccesso,
venissero sollevati da qualunque responsabilità. Non altrimenti, del
resto, si comportò il Danèri, cui convenne allora protestarsi
innocente, e che solo più tardi, caduto il Borbone, menò gran vanto
del suo operato: i nove popolani superstiti, come accade, si
tacquero, e nessuno per lunghissimi anni si ricordò in alcun modo di
loro.294
Sereni e animosi fino all'ultimo, gl'impresari della «pazza»
impresa, Pisacane, Pilo, Nicotera; ma come materiata di dolore,
quella serenità, e con quanta disperata energia conquistata! Il loro
sorriso brillava tutto di lacrime.
Pilo si era creato da tempo una famiglia illegale: la sua compagna,
Rosetta, e un loro bambino. Era fragile, appassionata, egoista, —
donna! — questa Rosetta; e tratteneva, adesso, disperatamente il suo
uomo. Già l'anno prima, quando Pilo era partito per la Sicilia, essa
aveva giurato di uccidersi; e l'aveva torturato come solo la donna
che ama sa fare: «Io per te ho rinunziato alla stima di tutti,
perfino a quella di mio padre (aveva infatti abbandonato, per seguir
lui, il marito che non aveva mai amato); e tu mi lasci per non
rinunziare alla stima dei tuoi amici...!» Questa volta Pilo ha
tentato di farle credere che parte per vendere un quadro di grande
valore; Rosetta dubita, esige giuramenti solenni. Quando sa il vero,
n'è come infranta. Il 6 giugno — prima partenza di Pilo —:
«Questa tua partenza mi ucciderà, te lo giuro — gli scrive — ma tu
lo vuoi, sia; comprendo bene che tu mi malediresti, se io ti
trattenessi; ebbene, io ti lascio libero. Rosolino, tu mi hai
giurato..., che la notte del 17 giugno 1857 sarai in Genova. Bada di
non mancare; se no non troverai più me in vita». — Il martirio
ricomincia, dopo il 20 di giugno; Rosetta vorrebbe salpare con lui!
Ma poi si rassegna: basta che Rosolino s'impegni a ritornare al più
presto «per pietà del mio stato, di me, della tua povera Rosetta,
che muore di amore, di dolore per te, che t'ama, t'ama alla follia;
che per te muore»; il cuore impazzito le detta infine parole
tremende: «Dio non è né può essere con la tua causa. Dio non
permette le guerre civili, nelle quali il fratello uccide il
fratello» — e allude spietatamente alla circostanza che un fratello
di Pilo, come il fratello di Pisacane, è un borbonico
reazionario!295 — «Tu ami tuo fratello come un tuo padre, e siete
nemici di partito, e... fate la guerra tra voi. Se vince il tuo
partito, è in pericolo la vita di tuo fratello; se la tua causa
perde, ecco gli amici politici di tuo fratello faranno il possibile
per darti in mano della polizia e fucilarti. E tu chiami questa una
guerra santa? Oh, è un'infamia!...» Ma Pilo tien duro, riparte. E il
25 la povera donna gli scrive (chi sa dove!): «Io cerco di stare
ridente per tema sempre che un mio sospiro possa comprometterti...
lo crederesti? alla notte non dormo per tema di parlare
nell'agitazione, nella quale mi trovo, e tradire in sogno il tuo
segreto».296
Nicotera, che aveva nettissimo il presentimento di non più tornare,
s'era fidanzato, a Torino, con Gaetanina Poerio, figlia di Raffaele.
Altra creatura fragile e innamorata, che la bufera schiantava.
Sposatasi nel '60, essa diventò poi «donna politica» e divise gli
ideali e i cospicui onori toccati al marito. Ma allora! Nel '59 —
mentr'egli scontava in galera l'audacia — Gaetanina, rievocando il
'57, freddamente scriveva a Pilo: «La parte profonda, che
naturalmente io doveva prendere negli avvenimenti, in cui Giovanni
era involto, fece sì ch'io fui messa a parte di molte cose... alle
quali ero perfettamente estranea sia per convinzione, sia per altri
riguardi. Non partecipo alle speranze ed alle opinioni di
Giovanni... perché giudicando freddamente le cose veggo che sono
impossibili a realizzarsi e che sono propugnate da pochi...»297
Pisacane, che aveva scritto il suo Testamento, che aveva disposto
minutamente delle sue povere cose,298 lasciava Enrichetta, lasciava
Silvia di appena quattro anni; e come le amava! Enrichetta, più
temprata, più esperta, più intelligente della compagna di Pilo o
della fidanzata di Nicotera, non poteva neanche disapprovare in
tutto la risoluzione di Carlo: aveva discusso con calma il pro e il
contro, aveva suggerito il sopraluogo a Napoli, divideva gl'ideali
di Pisacane; eppure avrebbe voluto, come donna, abbrancarsi
disperatamente al suo caro che (essa lo sentiva come una certezza
interiore) non sarebbe tornato più mai, e rinnegare una fede prodiga
unicamente di tanti dolori. Ma s'impose e riuscí a farsi forza. Di
più: s'offri, pel caso che la rivolta divampasse a Genova, qual
direttrice delle ambulanze; come a Roma nel '49.299 Pisacane salpa,
ed essa, come Rosetta, in una atroce eventualità ahimè fin troppo
prevista, non potrà dirsi neanche sua vedova; «druda» di Pisacane la
designeranno le spietate carte di polizia!
Anche in questa sua pagina estrema, la storia d'amore di Pisacane
conserva la sua gelosa intimità: non una lettera loro, non un
accenno d'altri ci restano per fissare nella nostra imaginazione
quell'addio consapevole, che dovette pur essere infinitamente
triste.300 Amore che aveva accompagnato tutta la vita di Pisacane,
fin dalla lontana adolescenza; che aveva avuto i suoi splendori e le
sue ombre presto dissipate, e la definitiva consacrazione, in
Silvia. Amore dei sensi e dello spirito,
fusione d'anime, illimitata confidenza reciproca. «Amore delle
epoche di credenza», lo definí giustamente Mazzini, notando come i
due amanti, anziché rinchiudersi in esso e ricercarvi la individuale
felicità, ne avessero tratto una sempre più viva e operante
devozione a finalità collettive; e Mazzini fu a Genova, nel maggio e
nel giugno del '57, intimo dei Pisacane. La sua parola assurge
perciò a incomparabile testimonianza d'onore per Enrichetta cui,
umana giustizia, neanche un raggio della postuma gloria di Pisacane
visitò poi nei tetri anni di solitudine, ché anzi la sua povera vita
parve, nel contrasto, farsi più oscura e gelida: dimenticata da
tutti.
Capitolo undicesimo
Fine
Havvi un'altra chimerica idea sparsa in Italia. Sognano alcuni che
fra un gruppo di montagne, anche un pugno di giovani arditi,
potrebbero difendersi contro un prepotente nemico. Ma in primo
luogo, la guerra rivoluzionaria essendo d'offesa e non già di
difesa, così operando mancherebbesi al fine prefisso; inoltre, tal
genere di guerra può combattersi solamente da coloro che abitano in
questi monti... Ma può combattere in tal modo gente a cui siano
nuovi i luoghi, e che non possegga neppure una capanna, neppure le
vettovaglie necessarie per un giorno?
Saggi, IV, 143-144
«Questa volta — scriveva Pilo a Fabrizi alla vigilia d'imbarcarsi
col nuovo carico di fucili e munizioni — m'auguro che si sarà più
fortunati. Per Dio! Non credo che si debba una seconda volta
scatenare un diavolerio tale da farci mancare all'impresa».
Il tempo fu, invero, galantuomo; ma Pilo e i suoi diciassette
compagni, fissando per le ore della notte e per un punto a 30 miglia
al largo di Sestri il ritrovo col Cagliari dimostrarono ahimè di
avere appreso meno che niente dalla prima esperienza fallita: le
poche barche a remi sulle quali, la sera del 24, essi presero il
largo, non disponevano neanche dei più elementari strumenti di
orientamento! Al Danèri, tecnico navale, nessuno aveva chiesto
consiglio.
Nel pomeriggio di giovedí 25 partirono quelli del Cagliari.301
S'imbarcarono alla spicciolata, ostentando di non conoscersi fra
loro; alcuni hanno il biglietto per Tunisi, altri (come il
«possidente» Pisacane e l'«avvocato» Nicotera) per Cagliari; più
d'uno viaggia sotto mentite spoglie: Falcone ad esempio è il sig.
Giuseppe Capatti.302
Allegria generale. Mazzini, che li abbraccia uno per uno, resta
colpito dal «sorriso di fede ignara del tempo» che lampeggia sul
volto di Pisacane: lo stesso sorriso che lo ha stretto a lui «nel
primo nostro colloquio a Roma». Eppure, nessuna notizia da Napoli!
Ma Pisacane tranquillamente ripete: «S'io riesco ad eseguire lo
sbarco, se non mi arresta qualche vascello da guerra del Borbone,
potete ritenere sicuro il buon successo, e certo il trionfo della
rivoluzione».
Sale a bordo, per salutare i partenti, un gruppetto d'amici: tra gli
altri Jessie White; anch'essa, che reca a Nicotera «un fervorino pei
macchinisti inglesi a bordo del Cagliari»,303 resta ammirata del
sorridente aspetto, della maschia risolutezza di quei trenta
giovani.
Altri complici e amici — e forse Enrichetta tra loro — spiano
ansiosi dall'alto della collinetta del Carignano la partenza del
vapore. Si è notato che la vigilanza della polizia sulle banchine è
stata intensificata in quei giorni; si teme (qualcuno forse lo spera
in cuor suo?) che nasca qualche trambusto, prima del levar delle
àncore.
Niente: gli ufficiali di sanità discendono tranquillamente a terra,
il Cagliari (sono le sette pomeridiane) finalmente si stacca; dal
Carignano se ne segue con emozione la rotta, finché la nave non si
cela nell'orizzonte brumoso.
Venerdí 26 fu giorno di passione per Mazzini e i suoi complici
trattenutisi a Genova. Bruciava nelle loro mani il telegramma
convenzionale da spedirsi a De Mata: solo al ritorno delle barche si
sarebbe potuto sapere se l'ammutinamento a bordo era riuscito, e
queste non tornavano mai! Spedir senz'altro il dispaccio? Aspettare
ancora? Nell'uno e nell'altro dei casi si correva un pericolo grave,
quello di scatenar la sommossa nel napoletano senza l'appoggio della
spedizione, o di esporre Pisacane a sbarcare inatteso.
«Fin ora non ho notizie esatte — spasimava Mazzini in un biglietto
alla White, la sera inoltrata di quel giorno —. Ma tutto fa credere
che le barche e il vapore non si siano incontrati. Se il vapore è
nostro, a Pisacane mancheranno 19 uomini, 100 fucili ecc. Tuttavia è
uno di quei passi dai quali non si può tornare indietro; e se hanno
agito, qualcosa debbono tentare; è delitto di pirateria, il loro. Se
le barche avessero incontrato il vapore, le più piccole sarebbero
ritornate di pieno giorno; il non esser giunte dimostra che, cariche
come sono di uomini e di fucili, non osano venire se non di notte...
Questa fatalità... è veramente troppo grave da sopportare per un
uomo; tuttavia, la sopporto...» Non aveva suggellato la lettera che
gli toccò aggiungere, con la morte nel cuore; «No; non si sono
incontrati».304
Come il 9 di giugno, ma disfatto questa volta, preda di una
violentissima crisi nervosa, era tornato Rosolino Pilo: nonostante
l'accensione di razzi luminosi e di fuochi, nonostante che le barche
avessero perlustrato durante tutta la notte la zona stabilita,
nessuna traccia s'era trovata del Cagliari! Colpa del vento, che
aveva soffiato furioso, e forse inavvertitamente spinto a deriva le
barche?305 Pilo non riusciva a spiegarselo. Si era dovuto comunque
passar la giornata al largo, per poi, dopo il tramonto, approdare al
promontorio di Portofino e nascondervi alla meglio, in caverne, le
casse dei fucili.306
Che n'era dunque di Pisacane? Pilo vedeva terribilmente nero:307
secondo lui, era il disastro definitivo. Mazzini poi! Raddoppiavano
in lui le incertezze per Napoli, per Livorno e per Genova.
Ma ecco, il mattino del 27, a rianimare le cadute speranze, un
telegramma convenzionale da Cagliari: il postale, atteso in giornata
del 26, non v'era giunto. Segno certissimo che Pisacane non s'era
dato per vinto, dopo il mancato incontro. A precipizio allora venne
spedito — ma era assai tardi! — l'avviso a De Mata, e si
confermarono gli ordini per Livorno e per Genova.
Mazzini, pur dubitoso che Pisacane potesse, con quei pochissimi
mezzi, eseguire il suo piano, andò pian piano ricuperando la calma
abituale: il grande giuoco, e forse il giuoco finale, stava per
iniziarsi.
L'ammutinamento a bordo del Cagliari era infatti perfettamente
riuscito, appena un'ora dopo la partenza da Genova.308 Quattro
urlacci (Italia, libertà, repubblica) dei congiurati, radunatisi
all'improvviso in coperta, pistola alla mano, berretti rossi in
capo,309 e il capitano, Sitzia, più morto che vivo dallo spavento,
s'era lasciato tradurre dal ponte di comando in cabina, dove
l'avevano lasciato con una sentinella alla porta; il resto
dell'equipaggio, macchinisti inglesi compresi, aveva ceduto con
marcata sollecitudine all'intimazione degli ammutinati di non tentar
resistenza di sorta.310 Quanto al Danèri, egli aveva finto benissimo
di cedere a una sopraffazione inaudita quando s'era piegato ad
assumere, lui semplice passeggero, il comando della nave.
Il cambio della guardia, bisogna convenirne, non avrebbe potuto
svolgersi più incruento e pacifico. Ad aggiungergli comicità pensò
poi il cuoco di bordo, nella deposizione resa dinanzi ai giudici
salernitani: «Io stava in cucina in coperta ad una cotteletta pel
capitano (sic), quando sentii un gran rumore, e delle grida, e vidi
che vari, afferrato il capitano, che dava ordini, lo fecero entrare
nel suo camerino pure in coperta. Rimasi spaventato di
quell'operato, ma pur essendo colla cotteletta m'accostai al
camerino del capitano per chiedere se voleva esser servito, ma
trovai il capitano tutto spaventato e piangente, e mi disse che egli
non comandava più. Intanto un certo Nicotera mi afferrò pel colletto
della camicia, e con pistola in mano mi disse che era egli che
comandava, e io risposi che avrei fatto da mangiare... e durante
quel viaggio il Nicotera mi dava gli ordini di tenermi ad economia,
vedendo che pochi erano i viveri che avevamo». Era quel cuoco
medesimo che, giunto il Cagliari a Sapri e invitato a sbarcare, così
modestamente se ne schermiva: «che avevo il brodo al fuoco, e che
non potevo abbandonare la cucina», sì che «mi lasciarono quieto».311
Mentre il Cagliari, mutata rotta, si dirigeva al punto stabilito per
l'incontro con le barche di Pilo, Pisacane — su richiesta del
Sitzia, che non ad altro pensava che a «mettersi a posto» con la sua
Compagnia — verbalizzava l'accaduto sul giornale di bordo. Il suo
resoconto, immediatamente firmato da ventuno dei suoi seguaci, si
chiudeva con una Dichiarazione di superba bellezza:312
«Sprezzando le calunnie del volgo, forti della giustizia della causa
e della gagliardia delle nostre anime ci dichiariamo gli iniziatori
della rivoluzione italiana. Se il paese non risponderà al nostro
appello, noi senza maledirlo sapremo morire da forti seguendo la
nobile falange dei martiri italiani. Trovi un'altra nazione del
mondo uomini che come noi s'immolino alla sua libertà, ed allora
solo potrà paragonarsi all'Italia, benché sino oggi ancora schiava».
Dalle nove alle dieci le barche avrebbero dovuto essere in vista; il
Cagliari accese speciali lumi a prua, incrociò nei paraggi, più
avanti, più indietro, a velocità ridottissima: inutilmente. Si
scrutò il mare da ogni parte, si ordinò, a bordo, il più assoluto
silenzio: le macchine sussultavano appena, si sarebbe potuto
cogliere anche un grido lontano. Ma che: nessuna luce nella notte
fonda, nessuna voce nel vasto silenzio.313
Passavan le ore: si stava perdendo del tempo prezioso, in una
ricerca probabilmente vana. Che fare? Gli stessi dubbi lancinanti
che un po' più tardi avrebbero attanagliato l'animo degli amici di
Genova. Tornare a terra, come se niente fosse? Una fine
tragicomica... Oppure attendere, incrociando in alto mare, il 29 di
giugno, per sbarcare in qualche punto della Liguria, e marciare su
Genova?314 Ma le scorte di carbone non eran bastevoli;315 e poi il
moto di Genova non sarebbe stato contromandato, nella incertezza
sulla sorte del Cagliari?
Fu una fortunata scoperta quella che indicò la via da seguire: nella
stiva del vapore, tra l'altre merci, si trovavano «tre casse di
boccacci di venticinque ognuna, tre di fucili a due canne di venti
ognuna, ed una cassa di semplici canne», dirette a Tunisi. Era il
carico d'armi che il Cagliari, da qualche tempo, recava in ogni suo
viaggio da Genova, e che tanto avea dato da pensare allo zelante
console napoletano. Come mai né Mazzini né Pisacane l'avevan
saputo?316 Comunque, era la manna dal cielo! È vero che non c'eran
cartucce; ma con la polvere da sparo di dotazione del Cagliari i
rivoltosi le fabbricaron da loro. La nave allora (era il mattino
ormai) prese la via del Sud. Navigazione normale. Pisacane
profittava di quella provvisoria quiete per studiare i suoi appunti
topografici, per scriver lettere ed abbozzare proclami, che Falcone
poi ricopiava; Nicotera fungeva da commissario di bordo.
L'alba, il primo mattino: niente di nuovo. All'undici apparve alla
vista una squadra di legni da guerra. Non si sa mai: venne sgombrato
il ponte, si serrarono giú nella stiva passeggeri ed equipaggio. Le
navi sfilarono dappresso, potenti e sicure, senza far caso del
Cagliari, dileguandosi poi verso levante; era la squadra
mediterranea inglese che, al comando dell'ammiraglio Lyons, si
trasferiva dalla Sardegna a Livorno, in giro di visite ufficiali.
Del viaggio del Cagliari il Lyons, nonostante qualche apparenza
sospetta, sapeva in verità meno che nulla.317
Scorse tutto il resto del giorno, che era venerdí 26, senz'altri
incidenti. Si procedeva a nove miglia all'ora.
Ponza, vigilata dalle due isolette minori, disabitate, di Palmarola
e Zannone, non comparve che all'alba di sabato; essa si presenta
rocciosa, allungata ad ellisse, le sponde tormentate precipitanti a
picco nel mare; la vegetazione è povera e bassa. In faccia a Ponza,
sulla lontana costa, s'indovina Gaeta; a un trenta chilometri, in
direzione sud-sud est spicca il profilo schiacciato di Ventotene e
l'altro, rigonfio, di S. Stefano.
Il Cagliari giungeva da nord-ovest; Ponza gli si offriva dal suo
fianco più aspro dove non è luogo all'approdo di navi grosse, ché
l'incantevole insenatura falcata detta Chiaja di Luna, tutta serrata
da una ciclopica muraglia naturale, e — all'estrema punta
settentrionale — il porticciuolo di Forni hanno fondali assai bassi.
Dalla Chiaja di Luna un passaggio in parte scoperto, in parte
sotterraneo, di costruzione antichissima, mena con breve tragitto
all'opposta sponda dell'isola dove, attorno a un buon porto, l'unico
di Ponza, s'addensa l'abitato principale.
A Napoli qualcuno pratico del luogo aveva suggerito che il Cagliari,
anziché attaccare nel porto, calasse scialuppe innanzi alla Chiaja
di Luna; e infatti di là la sorpresa su Ponza sarebbe stata più
facile; ma i venti o i venticinque uomini che l'avessero eseguita
avrebbero dovuto attraversare tutto il borgo prima di poter
affrontare la guarnigione, prima di potersi incontrare col grosso
dei relegati; né la loro azione avrebbe potuto essere appoggiata dal
Cagliari, lasciato dall'altra parte dell'isola: l'esito, dunque, si
presentava infausto. Molto più promettente e sicuro, se pur
necessitava più astuzia, il piano che si seguí.
Il vapore doppiò l'isola e, invertita la rotta, avanzò fino
all'imboccatura del porto, intorno al quale il paese raduna a
gradinata semicircolare le sue casette dai colori vivaci. L'arrivo
di un bastimento di quella stazza a Ponza era allora un fatto più
eccezionale che insolito: piccoli navigli a vela bastavano pel
servizio dell'isola, e solo di tanto in tanto vi capitava, dalla
prossima Gaeta, qualche scorridora borbonica in missione militare.
Quando dal Cagliari, dunque, si fanno le segnalazioni d'uso per la
richiesta del «pilota pratico», necessitando la nave di riparazioni,
non è meraviglia che i ponzesi tutti e i relegati318 — liberi questi
di circolare in paese dall'alba al tramonto, e ghiotti, s'intende,
d'ogni novità che venga a rompere la desolante monotonia di quella
vita d'esilio — s'affrettino alle finestre e alla spalletta
fronteggiante il porto, per godervi l'inatteso spettacolo.
Il pilota s'accosta con la sua barca alla nave, disposta in modo da
celare al paese la murata recante la scaletta d'imbarco: giunto che
egli è sotto bordo, un gruppo di rivoltosi che ha preso posto in una
lancia, ghermitolo, lo costringe con minacce a salire sul ponte per
fornir schiarimenti sull'isola. Lo stesso trattamento, sempre
inosservato da terra, viene usato al capitano del porto e a un
ufficiale della piazza, sopraggiunti di lí a poco. Poi, mentre una
signora che è fra i passeggeri (un'italiana residente a Tunisi)
compiacentemente si presta a stornare eventuali sospetti camminando
tranquilla su e giú sopra coperta,319 il Cagliari s'avanza nel bel
mezzo del porto, getta l'àncora, cala le imbarcazioni. I rivoltosi
si dividono in tre squadre: la prima, per ogni evenienza, rimane
sulla nave (saggia precauzione, ché — depose poi al giudice il
fuochista Rebora — già era corsa fra gli uomini dello spodestato
equipaggio l'«intelligenza» di far partire il vapore piantando a
terra gl'incomodi nuovi padroni); la seconda, con Nicotera, Falcone
e Danèri, accosta alla banchina, e là garbatamente domanda il
permesso di visitare l'isola; la terza, con Pisacane in testa, s'è
riservato il compito più arduo: girare in barca la gettata del molo
e assalir di sorpresa il posto di guardia (la Gran Guardia, secondo
la pomposa nomenclatura borbonica). Non appena impegnato da questa
squadra il conflitto - quattro feriti fra i rivoltosi — il gruppo
Nicotera si avventa su altri militari di fazione sulla banchina, due
ne getta in acqua, i restanti fa prigionieri. Indi corre a rinforzar
Pisacane. La Gran Guardia si affretta a deporre le armi. Due cannoni
che minacciano il porto vengon resi inservibili. I rivoltosi, a
squarciagola inneggiando all'Italia, alla repubblica, alla
liberazione dei relegati, si scagliano adesso contro il palazzetto
dove ha sede il comando, fronteggiante la Gran Guardia. Per le scale
dell'edificio un coraggioso ufficiale, il tenente Cesare Balsamo, li
affronta con la sciabola sguainata; ma è sopraffatto, e stramazza
colpito al petto. Un aiutante, che da un terrazzo del secondo piano
invoca al soccorso, resta ferito. Il comandante la guarnigione non è
un eroe: si dà prigioniero320 (salvo poi, nei suoi rapporti, a
gonfiare per sua giustificazione l'impresa del Cagliari fino a
paragonarla a quelle dei «tempi del Barbarossa» e anche all'«inumana
e barbara pirateria africana»). Tra quel frastuono ecco intanto
affollarsi nella via sottostante i relegati a centinaia, pochi
«politici» e molti «comuni» (o coatti, come oggi si direbbe): non
han tardato a prender fuoco anche loro ed ora gareggiano con quelli
del Cagliari nell'affrontar militari, nel far razzia d'armi, e più
nel gridare evviva ed abbasso.
Resta da conquistare il castello, un massiccio edificio che incombe,
dal sommo del poggio, sul paese e sul mare: in esso, col grosso
delle forze borboniche, è alloggiata la compagnia dei militari in
punizione, assai numerosa dopo l'attentato Milano. Il castello, chi
lo guardi, sembra addirittura imprendibile; senonché, mentre a
difenderlo son dei «territoriali» poltroni, resi esitanti, per di
più, dalla voce che subito circola tra loro non essere il Cagliari
che il messaggero d'una gran rivoluzione scoppiata in terra ferma
(voce, questo è il guaio, non affatto incredibile), ad assalirlo è
una mano d'arditi; s'aggiunge il caso che quasi tutta l'ufficialità
dell'isola, acquartierata in una casa a mezza salita, anziché
precipitarsi al primo allarme in castello, si lascia sorprendere
inerme, e in blocco ridurre all'impotenza. In men che non si dica,
dunque, il castello, con tutti i suoi difensori, col suo
fornitissimo magazzino d'armi, coi suoi bravi cannoni puntati, passa
ai rivoltosi, coi quali i militari in punizione fanno immediatamente
causa comune.321
Pisacane è il padrone di Ponza; o piuttosto lo è la marmaglia dei
relegati comuni, i quali — liberati per prima cosa i detenuti dal
carcere — a modo loro gioiscono della conseguita vittoria, sfogando
il rancore della lunga massacrante disciplina forzata: il paese
(sono le dieci appena) è in pieno tumulto, i ponzesi spauriti si
barricano in casa o fuggon nei campi, l'archivio giudiziario e
quello di polizia vengon dati alle fiamme, vari edifici pubblici
sottoposti al saccheggio, abitazioni particolari visitate e
spogliate. «Senza una camicia» rimasero perfino gli agenti della
pubblica forza!322
Così l'ideale rivoluzionario di Pisacane e compagni principiava a
trovare attuazione. L'elemento più preoccupante della situazione era
costituito, senza dubbio, dalla vastità stessa del successo, dalla
stessa unanimità dei consensi trovati fra le varie categorie di
quegli obbligati residenti di Ponza: relegati delle due specie,
militari in punizione, detenuti comuni. Non era facile per quelli
del Cagliari frenare lo zelo... rivoluzionario dei loro troppo
numerosi accoliti, quietare il paese, tentar di discernere, in
quella folla in tumulto, chi fosse meno indegno di seguirli a Sapri.
Sul Cagliari avrebbero voluto salir tutti quanti. Come fare a
distinguerli? Salí chi poté. 117 militari in punizione, 128
detenuti, 75 relegati, dei quali solo una dozzina politici, 3
presidiari e due povere donne, consorti di relegati!323 La ressa, il
tramestío eran terribili; quelli che restavano a terra reclamavano a
gran voce promesse che presto si tornerebbe a liberarli tutti. È
vero che poi, al processo di Salerno, qualcuno di quei fuggitivi
venne fuori con l'asserzione che Pisacane e compagni «qualunque
giovane incontravano nel paese a viva forza gl'imponevano di
seguirli»;324 ma è mai possibile che trenta individui potessero
forzar la volontà di oltre trecento? La fola venne d'altronde
smentita da tutti i testimoni. Piú verosimile, se mai, che le
presunzioni ottimistiche sul successo finale dell'impresa,
partecipate da quei del Cagliari, in perfetta buona fede, ai loro
seguaci di Ponza, si tramutassero, passando di bocca in bocca,
complice l'eccitamento di tutti, in assicurazioni categoriche.
Tipica a questo proposito la deposizione del relegato Signorelli
Rocco: «Sí il cosiddetto generale che gli altri... faceano intendere
nell'esortare la massa che ben altri 18 vapori sparsi nel mare
conteneano lor compagni, e che tutti doveano vedersi al Pizzo...,
che eran protetti dal Turco e dallo Inglese».325 Dove si vede come
certe speranze, invero assai problematiche, nutrite dai capi si
fossero trasformate, nella fantasia di ignoranti seguaci, in dati di
fatto accertati.
Il programma della spedizione preventivava una sosta a Ponza di non
più che otto ore, per poi, se necessario, far tappa a Ventotene. Nel
fatto, un po' per la gran confusione, un po' per la necessità di
rifornire di combustibile il Cagliari, l'intera giornata del 27 di
giugno trascorse prima che si fosse pronti alla partenza. A
Ventotene si dové rinunciare.326 Ritardato sull'ultimo da un
disgraziato incidente, il vapore non levò l'àncora che a mezzanotte
circa. Danèri stava infatti per ordinare l'avanti,327 quando —
nell'oscurità — fu intravveduta una barca che a gran forza di remi
si allontanava dal porto. Non era un momento, quello, propizio alla
pesca: sospetta, dunque, la barca. Dal Cagliari si cala
all'inseguimento una lancia; ma mentre Nicotera, con altri, fa per
prendervi imbarco, nell'orgasmo e nel buio, precipita in acqua. Lo
tiran su vivo per puro miracolo. Nell'incidente si perde del tempo,
e intanto la barca si è perduta di vista: prudenza vuole che il
Cagliari, ormai già tanto in ritardo sull'orario previsto, non si
trattenga più oltre nelle acque di Ponza; e dunque, partenza
direttamente per Sapri. La barca misteriosa, intanto, si dirigeva a
Gaeta, dov'era la Corte reale, recandovi le straordinarie notizie
dell'isola e, tra molte voci infondate, quella esattissima della
destinazione del Cagliari. Gran merito, questo notturno raid, del
parroco di Ponza, Vitiello, che n'avea presa l'iniziativa un po' per
paura di nuovi eccessi dei relegati a suo danno, un po', disse lui,
per senso di dovere, ma più che tutto per ragionata speranza di
ricompense e favori: certo si è che la casata sua figura oggi tra le
più facoltose e altolocate dell'isola.328
Quando si venne all'inchiesta ufficiale sullo straordinario episodio
della «presa di Ponza», le supreme autorità napoletane non poterono
acquietarsi di certo alla versione, premurosamente accreditata dagli
interessati, che la forza discesa dal Cagliari fosse ingentissima.
Ma la ricerca delle responsabilità dovette riuscire alquanto penosa.
Molto si disse e fantasticò, è vero, sulle intese che evidentemente
i relegati politici dovevano aver stretto in precedenza, per chi sa
quali vie misteriose, con gli organizzatori della audacissima
impresa329 (siamo giusti, chi poteva mai imaginare che Pisacane
fosse davvero partito da Genova così digiuno d'intese da ignorare
perfino che a Ponza i relegati politici fossero quantità
trascurabile?) La versione ufficiale, dovendo spiegare la paralisi
della guarnigione militare dell'isola, preferí dunque attribuirla
piuttosto alla rivolta di varie centinaia di relegati che non alle
mosse abilissime di una ventina di «esteri». Ma come dar buono che
codesta guarnigione, sia pure costretta alla lunga ad arrendersi,
non avesse almeno tentato una resistenza onorevole? Il furibondo
rapporto di quel genio strategico del maggiore D'Ambrosio330 (4 di
luglio) poneva in rilievo che «niuno dei funzionarii militari — a
principiare da lui! — aveva adempiuto al proprio dovere, per salvare
l'onore militare... talché senza l'onorevole risoluzione di tre
individui di truppa, avrebbe quell'orda di settarii lasciato sul
terreno un ufficiale, ferito un aiutante, portando via armi,
munizioni e denaro, senza che un colpo di fucile nemico l'avesse
risposto, caso unico nella storia di siffatti attentati». Su tutto
ciò i giornali borbonici serbarono, s'intende, il più accurato
silenzio.331 Era infatti un caso unico di vigliaccheria e
d'insipienza. Ma alle supreme gerarchie napoletane non isfuggí di
certo, seppur repugnassero ad ammetterlo pubblicamente, che la
spiegazione vera, oltre che nello scarso valore delle loro milizie,
dovesse cercarsi nella perplessità che aveva preso la guarnigione di
Ponza al precipitoso divulgarsi della notizia, che la rivoluzione
fosse già bell'e scoppiata nel regno; cioè nel fatto che male si
battono, quando non arrida loro certezza assoluta di vittoria, i
difensori di un regime quotidianamente discusso, minato e minacciato
e messo al bando degli Stati civili. Come pretender da essi eroica
fermezza nella repressione dei ribelli quando li turbi la sensazione
che i ribelli di oggi potrebbero diventare i dominatori di domani?
Non restava al Borbone che consolarsi al pensiero che quel dannato
brigante di Pisacane, sbaragliatore di truppe e conquistatore di
castelli, avesse apprese la strategia e la tattica, così
magistralmente applicate nella «presa di Ponza», sui banchi della
sua Nunziatella!
Il ponte del Cagliari, finalmente in navigazione, brulicava di
gente. Ponza era già un episodio lontano, conchiuso: la spedizione
principiava allora.
Uomo di guerra e teorico della guerra, ecco dunque Pisacane al suo
vero posto, e nelle circostanze migliori per applicare i suoi
principii teorici! Non aveva egli infatti sognato sempre di trovarsi
alla testa di un piccolo corpo insurrezionale, veloce, omogeneo,
entusiasta, che partisse dall'Italia meridionale per risalire al
nord, suscitando al passaggio ondate rivoluzionarie di crescente
violenza ed ampiezza? Ebbene, ecco qua al suo comando trecento non
già «soldati» ma volontari autentici, animati, se non da un comune
desiderio di gloria, da un comune interesse: quello di seppellire
nelle rovine del regime borbonico il loro turbinoso passato;
incoraggiati da un clamoroso successo pur mo raggiunto; velocemente
diretti verso un punto dove ad attenderli sono altri nuclei di
armati; favoriti in pieno dal coefficiente «sorpresa». Potevano
darsi condizioni migliori? Piú promettenti?
Chiuso in cabina, Pisacane stillava — ricavandole dalla decennale
esperienza di insurrezioni combattute o criticamente studiate —
minute norme disciplinari e strategiche per le operazioni future del
suo piccolo esercito: gli uomini divisi in tre compagnie, le
compagnie in dieci squadre, i gradi assegnati a relegati politici o
a militi della compagnia di punizione,332 lui stesso generale,
Nicotera colonnello, Falcone maggiore; distribuite le armi; nominato
un Consiglio di guerra chiamato ad applicare un molto sommario
codice militare. Ma non alzava mai dunque i suoi limpidi occhi dai
fogli, il general Pisacane? Non lo colpivano i ceffi dei suoi
seguaci? Ladri e ricettatori, lenoni, barattieri... Qual nuova
insania poteva travestirli in militi iniziatori della indipendenza
italiana? Come poteva egli seriamente incitarli a «battersi con le
truppe di Ferdinando per riscattare la libertà», a battersi «con
coraggio e bravura»?333 Con venti giovinotti di cuore egli era
riuscito, sì, d'impadronirsi di Ponza; ma ora, con quei trecento
lazzaroni, che andava a fare nel regno di Napoli? Non gli sovveniva
la dichiarazione dei suoi compagni di Genova, quella del 12 giugno:
«Forse si farà credere essere noi masnadieri o pirati scesi al
saccheggio»? O quel che egli stesso, nel quieto tempo di Albaro,
aveva scritto intorno al reclutamento degli eserciti: «l'ammettere
nelle (loro) file quelle classi di persone, che alla miseria estrema
aggiungono pessimi costumi... rende l'esercito terrore ai cittadini.
In Napoli si è toccato l'estremo confine dell'avvilimento;
l'esercito viene ingrossato dei condannati alla galera»?
È vero che a Ponza, in tanto tumulto, con una folla frenetica
addensata sulla banchina, invocante l'imbarco sul Cagliari, non era
stato possibile far distinzioni troppo sottili fra politici e non
politici: due terzi dei delinquenti comuni amano sempre atteggiarsi
a vittime di persecuzione politica; come dunque controllare
l'identità di ciascuno, poi che era andato distrutto l'archivio di
polizia? Era pur logico, d'altronde, che lí per lí si decidesse a
quella che pareva la condizione fondamentale per la buona riuscita
della spedizione: armare quanta più gente fosse possibile per
assicurare almeno i primi passi della marcia insurrezionale. Ma poi,
staccatasi la nave da Ponza, esaminati un po' più da vicino i loro
nuovi compagni, ben si erano avvisti Nicotera e Falcone del
colossale errore compiuto; e a Pisacane avevano affannosamente
proposto di rimediarvi, sia sbarcando d'urgenza in un punto
qualsiasi della costa quella pericolosa zavorra, sia, raggiunta
Sapri, lasciandola a bordo del Cagliari.334 Perché mai Pisacane si
rifiutò di ascoltarli? Gli repugnava tradire, sia pur di fronte a
cotal gente, gl'impegni presi, o forse gli apparve la cosa
impraticabile, in trenta o quaranta che erano contro quasi trecento?
Difficile dirlo, difficile ricostruire nelle sue fasi quello che
dovette pur essere un tormentoso dramma interiore. Certo è però che
l'atteggiamento visibile di Pisacane, da Ponza in poi, non ha niente
che riveli penosa accettazione di una realtà considerata repugnante.
Egli si mostra anzi fermamente convinto della possibilità di
trasformar quella feccia, durante il breve tragitto, in una banda
disciplinata, combattiva e, chi sa, valorosa. L'idea di farne il
primo nucleo del futuro esercito insurrezionale italiano non gli
pare mostruosa. I due sentimenti profondi e istintivi che ha inteso
vibrare in quelle anime buie — l'aspirazione alla libertà e l'odio
al «governo» — lo hanno forse tratto in errore? Non si è reso conto
che l'odio al governo è odio alla legge, che la libertà desiderata
non è che libertà individuale? Che costoro non hanno alcuna idealità
collettiva, che mirano soltanto al tornaconto personale? Chi sa. Può
anche darsi che, fuor d'ogni considerazione morale, egli abbia
intuito il partito che nella imminente lotta antiborbonica è
possibile trarre dalla disperata volontà di difesa di un'accolta di
evasi dal carcere. Ma, posti i suoi precedenti di lottatore politico
e di riformatore sociale, è assai più probabile che lo lusinghi
davvero la speranza di riuscire ad appassionare costoro, sì bramosi
di libertà per se stessi, all'impresa di liberazione di tutto un
popolo, alla conquista di ordini liberi.
Di pochi giorni innanzi è il suo dichiarato disprezzo per l'ignobile
volgo; ma ora, al cospetto di quel volgo nel volgo, di quella povera
scoria d'umanità, diresti che uno slancio nuovo di fraternità lo
pervada. Il moralista riaffiora, e quasi sembra che si compiaccia
della prospettiva paradossale che gli si para dinanzi: lanciare cioè
due o trecento amorali al rovesciamento di un regime dichiarato
decaduto in quanto immorale. Gesto sublime, e ingenuo fino al
ridicolo; da moralista appunto, che si diparte dalla premessa esser
la colpa, nell'uomo, un portato dell'iniqua costituzione sociale, e
perciò, nella maggior parte dei casi, non addebitabile al singolo
che la commette.
La spedizione di Sapri, concepita come sfida a un regime politico,
acquista in tal modo un ben più vasto significato di sfida
deliberata contro la società in generale. La morte del suo
protagonista, tra quei galeotti terrorizzati e fuggenti, assurgerà
ad una incomparabile donchisciottesca grandiosità da epopea.
Domenica sera, 28 di giugno. Ecco il golfo, largamente arcato, di
Policastro: nel fondo, la bellissima, ridente baia di Sapri; il
paese è un po' discosto dalla riva, tra due poggi che digradano al
mare; duemila abitanti, i più pescatori e pastori. Il Cagliari, dopo
una giornata di quieta navigazione, si arresta a una certa distanza,
protetto alla vista dal promontorio che serra Sapri a nord-ovest. Si
attende, per lo sbarco, l'ora convenuta col Comitato di Napoli.
Annotta. A terra, di qua, di là, privati cittadini e impiegati
governativi avvistano la nave; una barca della dogana s'approssima;
il Cagliari, riconosciutala, la saluta con un colpo di «boccaccio».
Sapri è avvertita. Dispacci d'allarme partono precipitosamente pel
capoluogo e per la capitale remota.
Disposto lo sbarco, il Cagliari s'avvicina alla spiaggia. Restano a
bordo i passeggeri, il vecchio equipaggio,335 eccezion fatta d'un
cameriere di bordo — tale Mercurio336 — spontaneamente aggiuntosi ai
rivoltosi, i feriti di Ponza337, il capitano Danèri. Pisacane
consegna a quest'ultimo, che dovrà curarne ad ogni modo il recapito
(chi mai prevede l'imminente cattura del Cagliari?) due lettere, una
per Mazzini, l'altra per Enrichetta. La prima contiene il resoconto
dell'episodio di Ponza e riassume gli elementi favorevoli sui quali
egli conta per il buon proseguimento dell'impresa; la seconda —
riferisce il Danèri — «prometteva eterno affetto, conchiudeva
esortandola a sperar bene prendendo buon augurio dal primo colpo
riuscito».
Alla svelta, non senza qualche confusione, i rivoltosi scendono a
terra, nei pressi di una casetta bianca, isolata, prescelta pel
luogo di convegno. (Nessuna spigolatrice, oh! Mercantini, è
presente: è notte, e sulla spiaggia non crescon le spighe).
I capi gridano la parola d'ordine: Italia degli Italiani; il grido
viene ripetuto una, due, dieci volte: nessuno risponde, nessuno
appare. Silenzio che diffonde un primo sottile disagio. Possibile
che sul lido di Sapri non abbia a trovarsi nessuno degli amici o che
questi, trattenuti altrove, non abbian mandato qualcuno a recar
notizie di loro? Eppure sul lido, fuor dei trecento, non c'è anima
viva: due impiegati al telegrafo, che sopraggiungono, vengon
senz'altro arrestati.
Per rinfrancare i suoi uomini, Pisacane li arringa come se fossero
veterani di cento battaglie:
«Figliuoli, noi siamo stati ventuno individui che vi abbiamo
liberati dall'Isola, adesso voi dovete liberare il Regno...»338 Poi
dà l'ordine che si avanzi su Sapri. A Sapri la Guardia urbana (una
piccola squadra) è da tempo radunata a battaglia; ma non appena
scorge vicino il nemico, scaricati per debito di coscienza i fucili,
si dà alla campagna. Sapri viene così occupata, lo stemma reale
abbattuto e calpestato; ma le case del paese sembran deserte, porte
e finestre restan serrate; la maggior parte degli abitanti son
scappati in campagna, solo qualche donna o ragazzo curioso
occhieggia dalle persiane socchiuse. Da un'osteria ancora aperta
escono pochi uomini, ma oppongono un impacciato silenzio o
rispondono per monosillabi alle infiammate perorazioni dei
comandanti quella caterva di male in arnese. Il solo che abbocchi è
un vecchio pregiudicato: unica recluta in Sapri! E sì che a Pisacane
resulta, di certa scienza, che il 13 giugno, in attesa del primo
mancato sbarco, numerosi amici vi si son dati convegno.
Queste eran le accoglienze «imponenti» sulle quali si poteva
sicuramente contare, questo era il paese gremito di «liberali».
C'era, in verità, da sperar bene pel séguito! Non aveva assicurato
Fanelli che l'inoltrarsi dei rivoltosi sarebbe stato né più né meno
che una marcia trionfale attraverso una fila di paesi festanti? Lo
spaventoso silenzio di Sapri deserta e buia faceva presagire invece
chi sa quale misterioso agguato dietro quei monti ignoti.
Sul suo libretto di appunti Pisacane avea segnato il recapito di un
sicuro e facoltoso liberale di Sapri: il barone Giovanni Gallotti.
Da lui, dai suoi familiari, gli avevan detto a Napoli, avrebbe
ottenuto non solamente danaro e provvigioni, ma ogni sorta
d'appoggi. Identificata la casa, Pisacane bussò, fu freddamente
ricevuto: lo sbarco? E che ne sappiamo noi, protestarono i Gallotti.
Di preparativi rivoluzionari compiuti nella regione non abbiamo mai
inteso parlare! In casa poche armi, qualche chilo di pane, che
Pisacane, indignato, requisì: in abbondanza non avevano i Gallotti,
i quali appartenevano a una famiglia d'antichi patrioti, che una
paura grandissima e un fanelliano terrore di responsabilità. Piú
tardi — nelle segrete salernitane — si affannarono in untuose
proteste di devozione al trono, rammentando gl'importanti servigi
resi, e imprecando, furibondi, contro i «maledetti rivoltosi».339
Andata a vuoto la visita ai Gallotti, fallita del pari l'incursione
eseguita dal bollente Nicotera contro le case dei Peluso,
responsabili dell'eccidio del patriota Carducci nel '48, fu
giuocoforza acconciarsi a pernottare a Sapri. Notte d'angoscia pei
capi, che pur si sforzavano di tranquillizzarsi a vicenda; notte di
terrore pei loro seguaci, che solo adesso — sparito il Cagliari, e i
fantasmi delle tenebre ingigantendo i pericoli — principiavano a
misurare la tremenda avventura alla quale s'eran mischiati. Folle in
tumulto, confusione, entusiasmo, fucilate magari, questo sì
s'aspettavano; ma non quell'atroce silenzio più pauroso di qualunque
minaccia. Si era parlato loro di appoggi imponenti, e non avevano
visto nessuno; si parlava ora della marcia da compiere, ma chi di
loro conosceva quei luoghi? E i capi stessi, quel generale, quel
colonnello, esigenti e severi, chi erano, donde venivano, come
potevano illudersi di vincere il governo del re, che disponeva di
soldati a migliaia, e avea vapori sul mare, e il «telegrafo
elettrico»? Ed essi eran fuggiti dalla relegazione, dal carcere, ma
che forse eran liberi adesso, o non erano invece passati sotto una
disciplina più dura e arbitraria? A Ponza, almeno, il domani seppur
triste era certo, e la libertà s'avvicinava ogni giorno. Perché
dunque si erano indotti a fuggire?
Disertarono alcuni, quella notte medesima: chi per puro terrore, chi
nella speranza di guadagnarsi indulgenza con delazioni all'autorità,
chi per profittare delle case deserte e delle donne indifese;
qualcuno, nostalgico, prese la via del paese lontano, Puglie,
Calabria, centinaia di miglia.340
Dietro quella cortina di monti, intanto, la bufera si andava
addensando.
Gaeta era stata avvertita, in giornata del 28, dell'episodio di
Ponza. Nonostante fosse domenica, il telegrafo, cui s'ebbe d'urgenza
ricorso, funzionò egregiamente, recando la notizia dell'imminente
sbarco alle autorità costiere, agli Intendenti, ai comandi militari.
Quando i rivoltosi prendevan terra, già Salerno, sotto la cui
intendenza era Sapri, era stata informata che i fuggiaschi di Ponza
sarebbero, d'ora in ora, approdati; e quell'Intendente, senza
indugio mobilitate le truppe, provvedeva d'urgenza a diramare
l'avviso. Non era la mezzanotte di quella stessa domenica che due
fregate trasportanti soldati, incuorati alla partenza
dall'intervento del re in persona, lasciavan Gaeta per lanciarsi
all'inseguimento del Cagliari; poche ore dopo un altro vapore con
altre truppe. In due giorni, tra bastimenti effettivamente partiti
ed altri mobilitati e sotto pressione, non meno di dieci unità
vennero impiegate alla cattura degli evasi di Ponza!
Il Cagliari, insomma, aveva appena doppiato, sulla via del ritorno,
il capo del golfo di Policastro, che già la Corte, il governo e
tutte le autorità interessate sapevano dell'avvenuto sbarco.
L'elemento primo di successo sul quale Pisacane contava, la
sorpresa, veniva dunque a mancare del tutto. La mattina di lunedí
29, mentre due legni borbonici catturavano il Cagliari all'altezza
di Capri, e i passeggeri e l'equipaggio subivan l'arresto,341 sei
compagnie di cacciatori si mettevano in marcia da Salerno verso la
regione di Sapri (oltre 150 chilometri!) e il Sottintendente di
Sala, radunando tutti i distaccamenti militari e di guardia urbana
che avea sottomano, li fondeva in un unico corpo di battaglia,
avviandoli su Padula. Fra le popolazioni del distretto venne diffusa
la voce che 300 briganti, evasi dal bagno di Ponza, si avanzavano da
Sapri saccheggiando, uccidendo, stuprando; fidassero, «quei buoni
villici», nel valore delle truppe reali accorrenti; e ove non si
trovassero in grado di opporsi all'invasione dei malfattori, si
concentrassero armati verso l'interno. Una vera e propria
mobilitazione generale.342
E a Napoli? Cosa faceva Fanelli?
Nel pomeriggio di venerdí 26, il disgraziato aveva ricevuto l'ultima
lettera di Pisacane. Invece di precipitarsi dagli amici per
concretare immediatamente il da farsi, invece di spedire d'urgenza
avvisi in provincia, invece insomma di utilizzare anche i minuti di
quei due giorni che ancor gli restavano, Fanelli prese la penna e...
scrisse a Pisacane, che pur sapeva già in viaggio! Scrisse
concitato, risentito, fuori di sé: impossibile predisporre le cose
pel giorno 28, impossibile prevenire in tempo i nuclei lontani, non
tutti condotti a termine ancora i preparativi concordati. «Ardo per
la sollecitudine, ammetto la fretta, ma il precipizio in cose di
tale importanza... non è opera che approvo... Mi pareva bene morire
in guerra; ma invece pare che lo debba di crepacuore, di bile, e di
attacchi nervosi». E in un poscritto febbrile, a Mazzini,
assicurandolo che comunque avrebbe fatto del suo meglio: «Onorevole
maestro e fratello. Rifletto che questa mia non potrà pervenire
all'amico a cui è diretta; perché a questa ora forse è già in via;
perdonate il modo con cui è scritta. Addio di somma fretta».
Il giorno dopo — quando Fanelli, immerso nella più nera
disperazione, ancora non si è mosso — ecco gli giunge il dispaccio
Mazzini. Non gli restano che ventiquattr'ore per dar fuoco alle
polveri: ma con qual mezzo avvertire gli amici, almeno quelli in
provincia di Salerno? Il Comitato, organizzatore di un così vasto
moto, non ha neanche dei corrieri a disposizione! Fanelli aveva poi
sempre mentalmente scaricato le difficoltà finali sulle spalle del
supposto «capo militare» che avrebbe dovuto arrivare da Genova: di
quali miracolistiche virtú risolutrici non lo riteneva egli capace,
se avea di giorno in giorno rimandato, in sua attesa, l'adozione di
certi minuti ma indispensabili provvedimenti che soprattutto
esigevano gran tempo, e che alla vigilia del moto neppure il
padreterno avrebbe ormai potuto condurre a buon fine! Questo capo
non era giunto e non giunse; con esso venne a mancare a Napoli la
volontà inflessibile di mantenere a ogni costo tutti gl'impegni
assunti. Nel Comitato qualcuno espresse perfino dei dubbi
sull'autenticità del dispaccio; e avanzando la comoda ipotesi che si
potesse trattare d'un poliziesco tranello, si cavò dagli impicci,
ecclissandosi. Così, discutendo, si persero altre ore preziose.
Fanelli, pover'uomo, raccolse le sue poche energie e, in
quell'ultimo giorno, superò se medesimo. Ma non era temperamento
adatto a travolgere prevedibili, umane riluttanze e incertezze.
«L'ora solenne è presta: apparecchiatevi a coglierla
diffinitivamente», scrisse ad esempio a Giacinto Albini, che da
Montemurro dirigeva il movimento in Basilicata. Apparecchiatevi? Ma
se lo sbarco a Sapri doveva aver luogo di lí a poche ore! Ci voleva,
al suo posto, un che ordinasse: radunatevi alla tal ora in tal
luogo; marciate in direzione tale, fate così e così; un che dicesse:
noi tutti stiamo per muoverci, se voi mancate siete un vigliacco.
E invece, in altra lettera (era già il due di luglio), Fanelli si
raccomandava inutilmente così:
«Per carità non tardate un momento; aiutate l'eroismo di quegli
uomini preziosi, salvateli col vostro moto... insorgete, che noi
insorgeremo appena ricevuto l'avviso della vostra insurrezione per
rendere più colossale il movimento». Ma Montemurro pensava: se non
si muove Napoli, perché dovremmo sacrificarci noi?
I capi politici del movimento in provincia si trinceravano inoltre
dietro un comodissimo alibi: anche a loro era stato promesso l'invio
di tecnici militari per assumere il comando dei nuclei d'azione;
questi non s'eran visti; e che, si pretendeva forse che delle
personalità politiche si tramutassero in quattro e quattr'otto in
caporali di truppa? Ohibò!
In alcuni centri anche importanti, poi, le comunicazioni del
Comitato o non giunsero affatto, per incredibile trascuratezza
degl'improvvisati corrieri, o giunsero quando era già troppo tardi.
Il povero Fanelli, in quei giorni di passione, seguitava dunque a
ricevere, anziché le attese conferme di quelli che egli, in perfetta
buona fede, riteneva i suoi «ordini», tiritere accademiche sul modo
da tenersi per organizzare una rivoluzione o risciacquate per la sua
incapacità o, peggio ancora, recriminazioni per la «sua fretta»! In
più, pacatamente esposte, le ragioni buonissime per le quali questo
o quel nucleo non s'era, armi alla mano, buttato alla campagna.
Fanelli non impazzí, chi sa come, in quei giorni; ma la follia lo
ghermí, senza rimedio, pochi anni più tardi.343
A Napoli avrebbe dovuto aver luogo una grandiosa dimostrazione di
popolo, di pieno accordo coi costituzionali; ma questi con un
pretesto o con l'altro — non ci vedevano chiaro, volevano evitare a
ogni costo spargimenti di sangue, preferivano scendere in piazza non
appena dalla località dello sbarco giungessero notizie un po' più
incoraggianti — la rimandarono di giorno in giorno fino al 4 di
luglio; il 4 di luglio, tenuto concistoro, buttarono all'aria ogni
cosa.344 La polizia della capitale andava intanto ricercando e
scoprendo a suo agio casse d'armi malamente celate qua e là, e si
poneva indisturbata alla caccia dei complici di Pisacane. Il giorno
5 giunsero a Napoli pessime nuove di laggiú...
E sì che l'emozione prodotta in città dalle prime voci sullo sbarco
e sull'episodio di Ponza, giunte nella tarda serata del 28 di giugno
e subito diffuse nei caffè e nei teatri (particolarmente notato il
precipitoso ritorno degli ufficiali in caserma), era stata
grandissima: mancò, ecco tutto, chi sapesse, chi osasse trarne
profitto. Durante il 29 le autorità notarono non senza
preoccupazione «molti capannelli», e in questo o quel rione
un'agitazione inconsueta; non si era perfino accreditata la voce di
una imminente spedizione navale del regno sardo contro il
Borbone?345 Ancora il 30 di giugno l'inviato piemontese segnalava al
suo governo il «grande eccitamento degli animi» che seguitava a
regnare in città. Piú esplicito di lui l'agente consolare inglese:
«A giudicare dalle interviste che ho avuto con esponenti del partito
liberale — egli scriveva —, dai sentimenti che per quanto a me
consta animano in genere tutta la nazione, nonché dal dubbioso stato
d'animo prevalente nell'esercito, io ritengo che, essendo ormai
sprizzata la scintilla, tutto il paese andrà in fiamme; prevedo che
un attacco come questo, d'un'audacia senza precedenti, compiuto
contro una delle prigioni principali, di pieno giorno, vicino a
Gaeta, sotto gli occhi stessi del re, deciderà il popolo a ricorrere
alle armi pur di liberarsi da quest'oppressivo governo. È assai
probabile che fra non molto abbia a dichiararsi in città un serio
movimento popolare, il cosiddetto "Partito d'azione" è indaffarato a
promuoverlo». L'eccitata missiva si conchiudeva asserendo che fra
gli organizzatori della spedizione «erano alcuni dei più abili e
audaci ufficiali italiani, ex combattenti nelle rivoluzioni del 48»,
e dando al governo inglese le più ampie assicurazioni che Murat e il
murattismo non avevano assolutamente niente a che fare col movimento
in parola, seppure volto a detronizzare re Ferdinando. Bene
informato, il Console Barbar!
In tanta rovina di intese e di speranze, agli uomini del Comitato,
allo stesso Fanelli mancò il cuore di mostrare, se non altro,
personale coraggio, tentando a Napoli una di quelle azioni di
sorpresa che avrebbero potuto, riuscendo, costituire un diversivo e
alleggerire la pressione militare su Sapri; e comunque, anche
fallendo, impedire al governo napoletano di menar vanto in Europa
della esemplare quiete serbata dalla popolazione durante quel
periodo di crisi. Perfino Fabrizi, che si erse poi sempre a difensor
di Fanelli, da molti tenuto responsabile primo del disastro, avvertí
l'obbligo di rimproverarlo: «Debbo dirlo, un atto puranco disperato
di pochi, protesta d'onore e di dovere, rimprovero ed imputazione
all'intrigo dei codardi, non avrebbe dovuto da qualche lato mancare,
e forse chi sa che questo atto non salvasse il tutto, ma certo
avrebbe salvato l'onore, se non di un popolo di sette milioni,
almeno della sua attitudine allo avvenire. La mancanza d'ogni fatto,
l'abbandono al martirio, in mezzo al silenzio, dei più valorosi
figli dell'Italia, per Dio, è uno spettacolo terribile e
disperante».346
È vero che Fabrizi non si era mosso da Malta.
Alieno da intrighi, intanto, ignaro d'esitazioni, materialmente
lontano, moralmente remoto addirittura da tutti costoro, colui che
aveva virilmente promesso ed ora, senza curarsi di che facessero gli
altri, manteneva a qualunque costo gli impegni assunti — Pisacane —
pagava lo scotto, perduto fra le squallide giogaie d'intorno a
Sapri.
La mattina di lunedí 29, assai per tempo, la colonna di insorti si
pose in marcia verso l'interno della regione, seguendo la medesima
angusta vallata che tre anni più tardi, fra evviva e canti e presagi
di vittoria, avrebbe percorso Garibaldi con i suoi volontari.347
Eran le sei quando — coperte tre miglia e saliti oltre quattrocento
metri — si giunse al borgo di Torraca. A Torraca si celebrava, come
se nulla fosse, la festività di S. Pietro: gran processione, la
statua del santo solennemente trasportata per le vie del paese. Il
sopraggiungere della masnada non parve impaurire nessuno: anzi alle
grida sediziose molti fecero eco, e ci fu tra i paesani chi
prontamente esibí coccarde tricolori; qualcuno vociò: Viva Murat.
Corse del vino, qualche stretta di mano. Il cuore di Pisacane e dei
suoi s'aprí un poco alla speranza: non che Torraca proclamasse la
rivoluzione, ma li accoglieva almeno come cristiani!
Nel bel mezzo del paese qualcuno lesse alla folla il proclama
insurrezionale. Diceva: «Cittadini — È tempo di porre un termine
alla sfrenata tirannide di Ferdinando secondo. A voi basta volerlo.
L'odio contro di lui è universalmente inteso. L'esercito è con noi.
La capitale aspetta dalle provincie il segnale della ribellione per
troncare in un colpo solo la questione. Per noi il governo di
Ferdinando ha cessato d'esistere; ancora un passo ed avremo il
trionfo; facciamo massa e corriamo dove i fratelli ci aspettano. Su
dunque: chiunque è atto a portare le armi ci segua. Chi non è
abbastanza forte per seguirci, ci consegni l'arma. Noi abbiamo
lasciato famiglia ed agi di vita per gettarci in una intrapresa che
sarà il segnale della rivoluzione e voi ci guardate freddamente come
se la causa non fosse la vostra? Vergogna a chi potendo combattere
non si unisce a noi; infamia a quei vili che nascondono le armi
piuttosto che consegnarle. Su dunque, cittadini, cercate le armi nel
paese e seguiteci. La vittoria non sarà dubbia. Il vostro esempio
sarà seguito dai paesi vicini, il nostro numero crescerà ogni giorno
ed in breve tempo saremo un esercito. Viva l'Italia».
L'accenno alla freddezza e viltà degli abitanti rivela che il
proclama era stato probabilmente compilato, o corretto, la notte
stessa, dopo l'esperienza di Sapri.
Ma nessuno, a Torraca, terminata la lettura, si mosse, nessuno
mostrò di divider quell'odio per la sfrenata tirannide, da nessuno
vennero armi. Come ignorare che più in là, verso Sala Consilina, si
andava febbrilmente operando il concentramento delle forze
borboniche e che anche i componenti la locale guardia urbana vi si
eran diretti?348 Gli stessi «liberali» del paese (ché alcuni ve
n'erano, già noti alla polizia e attentamente sorvegliati) si
rivelarono nell'occasione severi tutori dell'ordine, barricandosi in
casa o prodigando tutt'al più ai rivoltosi il prudente consiglio di
abbandonare al più presto una posizione così poco sicura.
Il contegno di alcuni della masnada, d'altronde, non era fatto per
conciliar simpatie e incoraggiare adesioni; ché, col pretesto di
requisire armi, non pochi s'introdussero nelle case private,
impadronendosi di danaro e di oggetti. Se mai non fossero giunte
ancora a Torraca le informazioni ufficiali sulla provenienza e lo
stato civile della maggior parte dei seguaci di Pisacane,
provvedevan costoro ad anticiparle! Né i capi, per quanto facessero,
riparavano ad impedir ruberie e vandalismi o, una volta commessi, a
indennizzare i queruli danneggiati.
Ripresa, senza entusiasmo, la marcia, gl'insorti imboccarono
l'impervio sentiero che da Torraca, pei monti della Serra, mena al
Fortino di Cervara (a 780 m. sul mare), punto di confine tra la
Campania e la Basilicata. Il Fortino si trova sulla grande rotabile
delle Calabrie, a mezza strada fra Lagonegro e Casalnuovo.
Oltrepassato Casalnuovo e raggiunto il Vallo di Diano, ci si poteva
gettare, a seconda dei casi, o verso l'interno, nel cuore della
Basilicata, o verso il mare, in Cilento, oppure, continuando per la
via consolare, direttamente su Eboli e Salerno.
«I faziosi — così deposero al giudice due evasi da Ponza, Venturini
e Catapano — credevano di essere attesi nelle vicinanze di Sala da
2000 correligionari ed altri 500 in Padula (borgata importante fra
Casalnuovo e Sala), dopodiché sarebbero piegati in Potenza da dove
dietro la venuta dei Calabresi si sarebbero volti per la Capitale».
C'era esagerazione nel numero, ma la deposizione era sostanzialmente
esatta. Padula (lo avevano poco prima confermato alcuni di quei
saggissimi liberali in Torraca) era un centro importante di
cospirazioni settarie; resultava a Pisacane che vi si potesse
contare, a dir poco, su «duecento militari, dei quali un terzo
incirca munito di schioppi»; a Sala cento individui si sarebbero
tenuti pronti ad agire; molti altri simpatizzanti si sarebbero
racimolati nelle frazioni intermedie. Possibile che tutto questo,
tutto, tutto, tutto fosse millanteria di loquaci capi popolo di
provincia?
Ma gli organizzatori della spedizione non avevano tenuto conto di
una circostanza di capitale importanza: e cioè che in quel periodo
dell'anno, in quella regione, gran parte della popolazione maschile
soleva emigrar nelle Puglie per la mietitura del grano.
La tappa Torraca-Fortino (12 miglia) occupò quasi l'intera giornata.
I trecento, stanchissimi, tormentati dall'arsura, avanzavano con
faticosa lentezza. «In quel tragitto — confidò poi uno di loro -
patimmo tanta sete che credo fosse uguale a quella che soffersero i
Crociati!»349 Sul far della sera, al Fortino, fu dato l'alt: gli
uomini si accasciarono, affranti; i capi si radunarono nella
miserabile osteria del luogo. Mancavano perfino i viveri: si dovette
comprare della farina guasta e infornar quella, malamente impastata,
per essere in grado, il giorno dopo, di proseguire la marcia.
Passarono di là due militari in congedo, che tornavano al paese
d'origine: ecco l'occasione di saggiare lo stato d'animo delle
truppe borboniche. La prova, se vogliam credere alla deposizione
giurata dei due malcapitati, non fu incoraggiante; ché, invitati ad
unirsi alla banda, essi tentarono di svignarsela. Ma non ci fu
verso: «Carogne f..., avete finora servito il re, ora dovete servire
a noi», avrebbe detto loro «uno di quei malviventi in tono di
sdegno»; altri li avrebbero percossi. Meno male che un «galantuomo»,
che tutti chiamavano il «comandante», li trattò umanamente offrendo
loro, nell'osteria, qualche ristoro.350
I capi tenevan consiglio. La fascia paurosa di silenzio seguitava ad
avvolgerli: nessuna notizia degli amici, nessuna dei nemici; la
gente loro manifestamente spossata, non in grado di certo di
sostenere un conflitto un po' serio. Conveniva, così stando le cose,
discendere, secondo il piano fissato, per la rotabile a Padula,
presidiata dalle forze borboniche? O non piuttosto, allontanandosi
immediatamente dalla vicinanza dei grossi centri abitati, guadagnare
posizioni montuose in Basilicata e magari in Calabria, ove attendere
in relativa sicurezza che pervenissero rinforzi? Nicotera e Falcone
propendevano per questo diversivo; ma Pisacane, che ancora e
nonostante tutto fidava negli appoggi rivoluzionari di Padula e
Sala, fermamente si oppose. L'idea di una fulminea marcia da sud a
nord, verso la capitale, lo ipnotizzava tuttavia, né lo atterriva
minimamente la possibilità di un prossimo scontro con truppe
borboniche anche superiori di numero: valeva così poco, l'esercito
napoletano! La regione di Padula-Sala, d'altronde, per l'accurato
studio topografico e logistico che n'avea fatto, gli era ormai
familiare: mutare itinerario non sarebbe stato come affrontare
l'ignoto?
Parve per un momento che trionfasse tra gli opposti pareri una tesi
intermedia: giunse infatti al Fortino nel cuor della notte (chi sa
come benedetto e festeggiato: era il primo segno di vita che, dallo
sbarco in poi, fosse venuto a rincuorare la banda!) un emissario
degli amici di Lagonegro. Questi mandavano a dire che il paese era
sgombro di truppe, che gli «affiliati» eran molti e che i trecento
v'erano attesi al più presto. Ma Pisacane, dopo qualche esitazione,
tornò al suo parere più convinto di prima. Se a Lagonegro il partito
era in piedi, perché dubitar che lo fosse, e ben altrimenti
efficiente, a Padula e a Sala? Un successo a Lagonegro non avrebbe
portato a nulla; un successo nel Vallo di Diano apriva invece la via
di Salerno! Gli amici di Lagonegro, dunque, facessero massa e
convergessero immediatamente, anche loro, su Padula: non bisognava
lasciare il tempo alle truppe borboniche di concentrarsi in troppo
gran numero.
Il dubbio, ahimè, non lo sfiorò neppure che i prodi rivoluzionari di
Lagonegro, professantisi disposti a tutto pur di scuotere il giogo
borbonico entro la cerchia del borgo natío, potessero essere
campanilisti al punto da rifiutarsi di far dieci miglia per
conquistare la libertà di Padula...
Che Pisacane fosse stato bene ispirato parve a tutti evidente
quando, poco innanzi il mezzogiorno del 30, la banda fece il suo
ingresso a Casalnuovo, a mezza strada fra il Fortino e Padula. Il
paese era infatti in pieno tumulto; i gendarmi s'eran ritirati su
Sala, la loro caserma era stata presa d'assalto, e una quantità di
persone aspettavano adesso, festanti, i trecento. Scrosciaron gli
applausi alla lettura dei proclami sediziosi, stemmi e insegne
borboniche volarono in pezzi, vennero abbattuti i pali
telegrafici, saltarono fuori armi in buon numero. I capi della
spedizione ebbero un momento di vero ottimismo: eran dunque maturi
alla rivoluzione, quei buoni casalnuovesi!
Il guaio si fu che quando la banda di lí a poco lasciò il paese, non
uno di quei cittadini sì prodighi in evviva fu capace d'imbracciare
il fucile e porsi al suo séguito. Un voltafaccia improvviso. Come
spiegarlo? Pisacane, il quale partiva dalla supposizione che quella
gente avesse l'odio antiborbonico nel sangue, non si trovava nelle
condizioni migliori per scioglier l'enigma. Si cacciò in capo che
qualche furtarello, qualche grassazione meschina commessa anche lí
da rivoltosi isolati avessero alienato alla banda la simpatia di
Casalnuovo; e risolvette di dare un esempio terribile, che valesse a
tagliare alle radici quel male. Il disgraziato che pagò per tutti fu
Eusebio Bucci, che aveva derubato di pochi centesimi una povera
donna: tradotto innanzi al «Consiglio di guerra», venne, con poche o
punte formalità, condannato alla fucilazione.351 La sentenza
spietata si eseguí senza indugio, a un miglio da Casalnuovo. Povero
ladro Bucci, la parte di combattente non era tagliata per te: oh
quanto meglio se nessun Pisacane t'avesse dischiuso, a Ponza, le
porte del carcere!
Poi fu ripreso il cammino. Padula, il centro più ragguardevole fino
allora toccato, venne raggiunto in serata.
Sapri, Torraca, Casalnuovo avevan crudelmente deluso le aspettazioni
di Pisacane; ma eran piccoli borghi rurali, senza importanza. Il
disinganno patito a Padula (nessun amico che si facesse vivo, salvo
qualche liberale del tipo Gallotti, nessuna notizia delle attese
bande sussidiarie, silenzio assoluto da Lagonegro) segnò invece di
colpo il fallimento della spedizione, ormai difficilmente evitabile.
Improvvisamente, nel terzo giorno da che v'eran sbarcati, i trecento
sentirono infatti di essere in terra nemica, all'assoluta mercè del
nemico. Perfino il fatto che la cittadina, naturalmente sgombra di
truppe, non offrisse resistenza alcuna all'occupazione (marcata
dalle solite requisizioni e sequestri, e dalla liberazione dei
detenuti dal carcere), parve sottolineare la gravità della
situazione, accrescendo l'angoscia di tutti. Altro che marcia
trionfale! Intorno a Padula si andava serrando il cerchio di ferro
delle forze borboniche: a Sapri, quella mattina medesima, eran
sbarcate le truppe provenienti da Gaeta; a Sala, dove si
concentravano i distaccamenti di gendarmeria e di guardia urbana del
circondario, le compagnie di cacciatori, partite da Salerno, erano
attese da un momento all'altro.
Nel cortile di casa Romano (designata in anticipo per quartier
generale delle forze rivoluzionarie) gl'insorti inquietamente
bivaccarono; finché, nelle prime ore del mattino seguente (era il
primo di luglio), non venne segnalato l'avanzarsi di nuclei
borbonici dalla parte di Sala. Terrore? Fuggi fuggi? Disordine? No:
la stessa prossimità del pericolo, il suo concretarsi in alcunché di
preciso e visibile, parvero anzi sollevare i trecento, che già,
secondo il piano scartato due giorni innanzi, stavano per iniziare
la marcia di ripiegamento sulla Basilicata. Era la fine di un
incubo.
Gli ordini di Pisacane vennero puntualmente eseguiti: evacuato alla
svelta il paese, gli uomini vennero piazzati in posizione elevata,
disposti a battaglia. Nonostante tutto, il generale era tornato
sereno e quasi ottimista: non che s'illudesse minimamente ormai
sulla sorte del conflitto, se conflitto si fosse davvero impegnato;
ma gli s'era risvegliata l'estrema speranza che, nel momento di
scaricare le armi contro i loro fratelli, quei soldati (commilitoni
di Agesilao Milano!) e soprattutto quelle guardie urbane, rivelando
d'un tratto l'animo loro d'uomini liberi, o avrebbero rifiutato di
battersi o addirittura fatto causa comune con loro. Gli ufficiali
che guidan quelle truppe, egli andava dicendo, son miei antichi
colleghi, so ben io come la pensano, mio fratello è tra loro, come
dunque potete temere che intendano sterminarci? E a chi, nel
recargli del cibo per la giornata, esprimeva il dubbio che dovessero
poi mancargli il tempo e la voglia per consumarlo, egli, alludendo
ai borbonici, ribatteva con un sorriso che voleva essere
tranquillizzante: «Bene, mangeremo assieme».
Divisi in due colonne, guardie urbane e gendarmi avanzavano con
evidente cautela. S'arrestarono a rispettosa distanza, aprirono il
fuoco: un fuoco blando, incerto, inoffensivo; a sentire gli spari si
sarebbe detto una caccia. Durò così per due ore. Pisacane avrebbe
potuto benissimo, profittando della superiorità numerica, ordinare
l'attacco a fondo o proseguire nella ritirata già predisposta; ma
era sicuro che gli urbani non aspettassero se non il momento
opportuno per abbracciare la causa della rivolta. Temporeggiò. D'un
tratto, invece, sopraggiunsero le soldatesche del colonnello Ghio,
il fronte borbonico s'avvicinò, la fucileria si fece intensa; molti
rivoltosi caddero feriti od uccisi, il pericolo d'un accerchiamento
completo si fece imminente. Le guardie urbane gareggiavano
d'accanimento coi regolari. Pisacane si perse d'animo: quanto più
ostinatamente s'era ribellato fino allora a quel crescendo di
disinganni che avevano accompagnato la marcia su Sapri, tanto più
tragicamente essi lo percotevano adesso, culminando, sintetizzandosi
quasi, in quelle raffiche micidiali. Smarrí l'usata energia.
Presentiva la fine: di sé, dei suoi, d'una Idea.
La resistenza fu rabbiosa, in qualche punto anche eroica; ma bisognò
ben presto desistere: troppo schiacciante era la superiorità del
nemico. E allora, la resa? Ma la resa significava indubbiamente
fucilazione pei capi, ergastolo per tutti gli altri. Ritirata,
dunque: abbandonare quella maledetta regione per rifugiarsi in
qualche località meno esposta, tagliata fuori dalle grandi vie di
comunicazione. Data la posizione delle truppe borboniche, l'unico
scampo possibile era ormai quello in direzione nord-ovest, verso il
Cilento, cioè: il Cilento, terra classica delle rivolte. Ma sotto il
grandinar delle palle la ritirata divenne fuga, scompiglio, si salvi
chi può. Gli sciagurati seguaci di Pisacane, fuorché un centinaio
che gli si strinsero disperatamente d'intorno, gettaron le armi,
follemente correndo chi incontro al nemico, chi verso l'aperta
campagna, chi a rintanarsi tra le case di Padula. Battaglia? No,
caccia, massacro: feriti sgozzati, prigionieri inermi passati per
l'armi, i fuggitivi rincorsi e atterrati. Trentacinque, che in cerca
di scampo traversavano precipitosamente il paese, infilarono,
inseguiti, un vicolo cieco: impossibile uscirne, si addossarono
allora, terrorizzati e inebetiti, al muro terminale, e i fucili
borbonici, puntati e scaricati al sicuro, nel cumulo, li abbatterono
urlanti come cani randagi, un dopo l'altro, gli uni su gli altri.
Pisacane, Nicotera, Falcone, quel centinaio dei migliori con loro,
capaci ancora d'orizzontarsi, si gettavano intanto, distanziando con
la rapida corsa il nemico, per una viottola che, traversato il Vallo
di Diano, menava a Buonabitacolo, verso il Cilento. Formavano un
piccolo corpo, ancora relativamente omogeneo, ma privo o quasi di
munizioni, senza conoscenza dei luoghi, spossato. Se le truppe
borboniche li avessero inseguiti, era finita per loro. Ma il
colonnello Ghio — il quale, secondo fu ripetuto allora da molti,
aveva sostituito all'ultimo momento, nel comando di quelle truppe,
lo stesso fratello di Pisacane, da re Ferdinando generosamente
esentato352 — aveva anche troppo da fare, quel giorno, a redigere un
bollettino della vittoria da trasmettersi a Napoli, che fosse degno
del memorabile evento. Era un pezzo che all'esercito borbonico non
toccava la gloria d'una battaglia vinta, e così a buon mercato, tre
morti e sei feriti in tutto... Né volle mancare altresì di
presenziare, in veste di trionfatore, alle solenni festività
religiose ordinate per quella sera medesima dall'arciprete di
Padula, per render grazie al Signore.
(Il giusto destino castigò tre anni dopo quel Napoleone: il quale,
promosso generale, doveva arrendersi, in Calabria, alle bande
garibaldine, con diecimila uomini, senza neanche combattere!)353
«Non è facile provocare l'insurrezione di un popolo che, per quanto
saturo d'odio, ha l'inveterata abitudine di sfogarlo soltanto a
parole; l'impresa, verosimilmente, non condurrà che al sacrifizio
della vita di questi uomini coraggiosi e disperati, i quali l'hanno
arrischiata nel pazzo tentativo di conquistare al loro paese la
libertà e la pace. In questo stesso momento, sulle colline di
Calabria o nei boschi del Salernitano, centinaia di uomini dai piedi
sanguinanti, affamati, sofferenti, errano col moschetto e il
pugnale, affrontando ogni ostacolo e ogni pericolo, spinti dalla
disperazione loro e dalla miseria insopportabile della loro patria.
La vita per essi non ha alcun valore. Esuli rovinati, tornano a casa
per farsi fucilare...»
Così, con fantasia commossa e pietosa, intuendo a tanta distanza la
tragicità della loro situazione e la vigliaccheria dei loro
compatrioti, un giornalista inglese scriveva di Pisacane e dei
compagni suoi, due giorni dopo la loro fuga da Padula. Né mai
descrizione romanzesca ammannita al pubblico inglese, sempre ghiotto
di thrills, corrispose più esattamente di questa a una spaventosa
realtà.
Buonabitacolo: non suonava promessa quel nome? Sembrava infatti
abbastanza probabile, dato il concentramento di Padula, che si
sarebbe potuto sorprendere il paese sguernito di forza; a Pisacane
risultava inoltre, dai pochi appunti fornitigli a Napoli, che la
lista dei «sospetti in linea politica» vi fosse particolarmente
abbondante. Chi sa, pensava, mentre coi suoi disgraziati compagni
arrancava a quella volta, chi sa che a Buonabitacolo non s'abbia
finalmente a trovar qualche aiuto; ma certo potremo riposarvi, e
avremo cibo, e qualcuno di là saprà guidarci in salvo. Ma alle
soglie di Buonabitacolo, minacciosamente vietanti l'ingresso e la
sosta, vegliava un manipolo di guardie urbane. Rapide le
comunicazioni nel regno di Napoli! Attaccarle? Sarebbe stata follia:
quei cento superstiti del disastro di Padula stentavano a reggersi
in piedi. Proseguire, dunque, in quella marcia estenuante che durava
da ore e ore? Ma dove vettovagliarsi e come rintracciare la via,
mentre già calava la notte? Ebbero il torto di non diffidare d'un
pastorello, incontrato un po' troppo per caso, che spontaneamente si
offerse di condurli per vie traverse al paese di Sanza, poche ore di
strada. Errarono a lungo, dietro a lui, in una zona montuosa
tormentatissima, senza riuscire a raggiunger la meta; anzi la guida
confessò a un certo punto d'aver smarrita la strada. Non si resero
conto che poche ore potevan decidere dalla loro salvezza: non
inghiottivano cibo e soffrivan la sete dall'alba di quella giornata
terribile! S'adagiarono in terra. Gli orrori veduti, l'incertezza
del loro domani, la spossatezza medesima tolsero loro anche il
conforto e il ristoro del sonno.
Erano in piedi, di nuovo, sul fare del giorno seguente. Sanza non
era lontana: in poche ore guadagnarono una piccola altura
sovrastante il paese. Erano affamati e sfiniti, ombre di uomini; non
volevano né saccheggiare né uccidere, non si sognavano neanche più
di «fare la rivoluzione». Domandavan di vivere, ecco, d'essere
aiutati a fuggire: come non li avrebbero quei terrazzani soccorsi,
che soccorrevano per tradizione perfino i briganti, e dato loro del
pane e dell'acqua e insegnata una via di salvezza?
Ma ecco dall'abitato farsi innanzi una piccola squadra d'urbani,
undici uomini in tutti. Coraggiosi, quei difensori del regime
borbonico! Appena riconosciuta la banda, spianarono i fucili,
tirarono senza esitare. Sessanta dei rivoltosi si ritirarono
immediatamente e, girando il colle, fecero per avvicinarsi al paese;
qualche minuto più tardi sventolavano, in segno di resa, delle
pezzuole bianche. Gli altri — il gruppo dei provenienti da Genova —
restavano fermi sotto la gragnuola di colpi. Concitato colloquio tra
i capi; poi Nicotera si staccò, rincorse i fuggenti. Perché mai
capitolare, in cento che erano? Delusione su delusione, era vero; ma
non si poteva, alla peggio, lasciando Sanza, proseguire il cammino?
O almeno mantenersi in gruppo, per trattare una resa onorevole?
Ma s'intese in quel mentre il perché dell'audacia spiegata dagli
undici urbani: nel paese le campane suonavano a stormo; il parroco,
d'accordo col comandante le guardie urbane, radunava a precipizio la
gente. Una torma di briganti — egli si pose a gridare, e le
concitate parole trovavano conferma ed acquistavan forza nel
crepitio delle fucilate — calava su Sanza per spogliarvi le case,
oltraggiare le donne, attaccare il colera. Buona caccia per chi li
atterrasse, quei galeotti fuggiti dal bagno, ricolme le tasche di
danaro rubato; il re, per sovraprezzo, pagherebbe ogni testa a peso
d'oro. E brandiva la croce, eccitando abilmente ora la cupidigia,
ora il timore, ora lo zelo religioso dei suoi parrocchiani
ignoranti. Povera gente di Sanza, perché non avrebbero dovuto
credergli? Ammazza ammazza, sono i briganti che vogliono il sangue
del popolo! I lupi rapaci! Gli assassini, gli untori! Contadini,
artigiani, boscaioli, parve che con improvviso furore si
risvegliassero in loro istinti e tendenze selvaggi, sopiti da
secoli. Corsero alle case, s'armarono d'ogni arnese che capitò
sottomano, che fosse massiccio o tagliente, roncole, falci,
randelli, spiedi; e seguíti dal prete, aizzati dalle donne, si
buttarono su per l'erta, a sterminare i briganti.
Pisacane, che avrebbe resistito fino all'ultimo sangue a uomini
pagati per difendere i Borboni, che aveva poco prima sussultato di
sdegno quando i più tra i suoi s'eran vilmente arresi, ora ordinò —
e fu l'ultimo ordine suo, né alcuno osò trasgredirlo — che non si
reagisse.
Era il «popolo» che si precipitava su di loro, urlando, avido di
strage; il popolo schiavo e sfruttato ch'egli aveva voluto redimere,
e perciò s'era mosso da lungi e aveva affrontato le pene di quel
tremendo calvario. Ma certo, quando avesse veduto «i briganti»
immobili e inermi, si sarebbe fermato e avrebbe gettato gli
strumenti del lavoro, con sacrilegio infame impugnati per dar la
caccia all'uomo. Ed egli, Pisacane, avrebbe parlato e detto loro chi
fosse e come mai venuto, lui colonnello e nobile, a combattere un re
che era il loro comune tiranno; avrebbe saputo esaltarli nella
speranza di un regime migliore, tutto del popolo, tutto pel popolo.
Fors'anche li avrebbe infiammati con la lettura del suo proclama,
quello di Torraca, di Casalnuovo: «Cittadini — È tempo di porre un
termine alla sfrenata tirannide di Ferdinando II... Su dunque,
chiunque è atto a portare le armi»...
Le avevano impugnate, finalmente, le armi: né solo gli uomini, ma
perfino le femmine, e gl'indemoniati ragazzi; e tutti insieme si
rovesciavano, con incontenibile slancio satanico, su di lui, sui
pochi compagni.
Oh, quelle parole accese ch'egli stesso, forse, dodici mesi prima,
aveva scritto per la Libera Parola; «se nel paese classico di Fra
Diavolo, di Rinaldini, del Passatore e dei Lazzarini... non sorge
nell'anima di alcuni strenui giovani il generoso pensiero di farsi i
Fra Diavoli e i Lazzarini della libertà, di tentare e soffrire per
l'indipendenza d'Italia quanto Gasparone, De Cesaris e migliaia dei
loro simili hanno tentato e tentano tutt'oggi per un pugno d'oro...
oh allora, ogni parola è inutile...»
Atroce presentimento: ora gli toccava in sorte anche la fine
ignominiosa del brigante.
Lo colpiron di fucile, al fianco sinistro; Pisacane piegò a terra.
«... Siete assassini, si dice che mormorasse, mi derubate, ed ora mi
uccidete: conducetemi alla giustizia»...354 Non un barlume di
estrema speranza, non la fierezza d'un dovere compiuto, e neanche il
conforto della cristiana rassegnazione potevano rianimarlo o
rendergli sereno il passo estremo. Non era questa la sognata
ebbrezza della morte in battaglia. Misconosciuto, tradito dai suoi
conterranei, confuso in una turba vile di galeotti, forse anche
raddoppiava il suo affanno la coscienza della tremenda
responsabilità che gl'incombeva proprio di fronte a questi
umilissimi tra i suoi seguaci. Disperatamente deluso, solo
nell'anima, tra gli urli selvaggi di quelle furie e il bestemmiar
delle vittime, per cui neppure nel dolce pensiero della sua Silvia
lontana e ignara gli era dato quietamente chiuder gli occhi alla
luce, volle almeno morir di sua mano. Gli eran quasi sul capo,
ormai, roncole, falci, spiedi, pronti ad abbatterlo come belva
famelica, calata dai monti a devastare gli ovili: impugnò fermo la
sua pistola, e con un colpo si sottrasse allo scempio.
Falcone, il più giovane, che gli era accanto e che a malincuore
aveva obbedito al suo ordine di non resistenza, vistolo cadere, si
uccise a sua volta; Foschini, sembra, si cacciò nel cuore il
pugnale. Altri sei del gruppo di Genova vennero massacrati intorno a
loro; Nicotera, accorso, gravemente colpito, venne lasciato per
morto. Dei dispersi, chi trucidato, chi, ferito o malconcio,
catturato; e i morti, per l'insanire dei colpi, cento volte morti.
Non un solo ferito fra i popolani di Sanza; la cui rabbia di sangue,
se non l'avesse impedito un capitano Musitano sopraggiunto al
comando di poche truppe borboniche, non avrebbe risparmiato neppur
gli arrestati! Non si voleva finire lo stesso Nicotera perché
rifiutatosi di gridar «viva u' re»?
Ultimata la strage, i poveri corpi non furon neanche sepolti, ma, in
omaggio al preteso interesse della salute pubblica (cui non nocque
per altro la spogliazione accurata!) vennero immediatamente bruciati
in un immenso rogo.355 Solo inumato, si disse, Pisacane, per volontà
pietosa di quel Musitano, memore d'esser stato alla Nunziatella,
vent'anni prima, suo compagno di studi.
Terminava così la spedizione di Sapri.
Dichiarazione dei capi urbani di tutto il distretto, all'indomani
della vittoria: «I popoli affidati alle cure dell'adorato Ferdinando
II, non vogliono che lui assoluto al governo del Regno, perché da
lui ottengono il bene con la salvezza dell'onore e della proprietà».
(È vero che tre anni dopo accoglievano con immenso entusiasmo il
«liberatore» dell'efferrata tirannia, Garibaldi...)
Rapporto sullo «scontro» di Sanza del giudice regio: «Il clero
prestossi anch'esso piamente, mostrando al pubblico nel momento in
cui ferveva la pugna le sacre immagini dei protettori S. Sabino e S.
Antonio di Padova». (È vero che il clero di quella regione, da tempo
minacciato di inchiesta e sanzioni per notoria, scandalosa condotta
privata, cercava ogni occasione per riacquistare le grazie della
suprema autorità...)
Seguí, s'intende, un'abbondante distribuzione di ricompense,
promozioni e onorificenze. Ma non tutti rimasero contenti; tra gli
altri il molto reverendo don Domenico Castelli, arciprete di Sanza,
il quale si rammaricò col direttore di polizia che, mentre la
«gloria» del massacro risaliva unicamente a lui e ai suoi
parrocchiani, altri se la fosse attribuita e ne avesse ritratto
vantaggi: sì che nessuno aveva pensato a rimeritare i suoi «poveri
figliani, che eransi esposti al pericolo della vita... mentre ebbero
molti colpi di archibugi; e per miracolo della Vergine di Loreto
loro tutelatrice e protettrice non furono colpiti... Ed essi loro
dopo tanti sforzi e pericoli, posti in non cale, sono rimasti
dispiacentissimi, e molti avveliti!»356
Mentre la diplomazia e la stampa napoletana menavano gran vanto del
tentativo abortito, inferendone la provata solidità del regime;357
mentre la polizia borbonica incrudeliva contro i sospetti complici
della spedizione, e a Salerno s'istruiva il mastodontico processo
contro i superstiti; mentre Fanelli (miracolosamente sfuggito alle
ricerche) e i «rivoluzionari» di provincia si palleggiavano accuse e
recriminazioni; mentre i «costituzionali» napoletani declinavano
pubblicamente ogni loro
responsabilità nella sciagurata impresa; negli ergastoli, nelle
isole di relegazione, dove tante fiorenti
energie si consumavano invano, calava ancora una volta, più tetra,
l'ombra della delusione. Sarebbero dunque tutti morti là dentro
senza veder la fine di quell'iniquo regime e riacquistare la libertà
perduta? Disperato Pisani perché il Cagliari non avesse fatto scalo
a Ventotene, «siamo proprio — scriveva agli amici di Napoli — in un
orgasmo che ci divora»; fremente Magnone, detenuto a Salerno: «Io mi
sento ardere le vene e le ossa dalla febbre d'azione. Ma non v'è
speranza che mi togliessero da questa bolgia... Pensate escogitare
come farci uscire di qui...» Indignato invece Settembrini: «Sono
addoloratissimo — così alla moglie — e maledico quegli scellerati
che sotto specie di libertà, standosi da lontano, mandano giovani
generosi a morire, anzi ad esser macellati... Povero paese, lacerato
in mille guise dagli sciocchi e dai tristi... Quanto sangue, quanti
mali, quante lagrime per queste imprese sconsigliate»; e dopo
qualche giorno: «Ho un peso sull'anima, che m'opprime: e l'ergastolo
mi sembra più tormentoso, e chiuso, e stretto, e pesante». Severo,
come lui, Silvio Spaventa nel biasimare «il colpo che ci fa perdere
il frutto di dieci anni di persecuzioni sofferte e il vantaggio
d'una situazione che si rendeva ogni giorno più difficile pel
governo. Pazienza!»358
E a Genova? Pervenutovi il sospirato dispaccio convenzionale da
Napoli annunziante lo sbarco di Pisacane a Sapri (dispaccio spedito
da un dipendente del consolato inglese!)359, il 29 di giugno era
scoppiato, come è noto, per poi miseramente fallire, il tentativo
insurrezionale; lo stesso giorno a Livorno: né qui s'addice di
ricalcare narrazioni esaurienti, per ritracciare e dell'uno e
dell'altro la precipitosa parabola. Mazzini sfuggito alle rabbiose
ricerche condotte in tutt'Italia;360 arresti a migliaia in Piemonte
e in Toscana, espulsioni numerosissime, processi. Ecco — oltre ai
morti e ai feriti di Livorno — il triste bilancio della doppia
avventura.
La notizia del disastro di Sanza giunse a Genova con grande
ritardo.361 Fino all'ultimo si era sperato nel successo e quasi
tutti i giornali — compresi quelli che avevano stigmatizzato con
roventi espressioni i tentativi di Genova e Livorno — avevano
diffuso in proposito notizie ottimistiche, commentandole in tono di
ostentata simpatia: intere provincie in rivolta nelle Due Sicilie,
le truppe borboniche unitesi agli insorti, clamorose dimostrazioni a
Napoli. L'8 di luglio, quando pure già tutti conoscevano la verità
tristissima, l'Italia del Popolo insinuava che le notizie del
disastro fossero state diffuse da Napoli «per ispaventare gli animi
nostri e fare esaltare quelli dei realisti».
La disgraziata Enrichetta aveva trascorso quei giorni in una
inesprimibile angoscia; solo di tanto in tanto l'impenitente
ottimismo di Jessie White era riuscito a sommergere sotto ondate
esaltatrici di speranza e di fierezza i suoi tristi presagi. In
giornata del 29 le avevano comunicato il telegramma da Napoli; poi
era stato l'eccitamento effimero del moto genovese, lo stordimento
per la sua rapida fine, l'ansia per gli arresti e le fughe. Il 2 di
luglio l'amico De Lieto aveva potuto comunicarle i primi particolari
sul «felice» sbarco della spedizione a Sapri. Seguirono altri due
giorni senza alcuna notizia se non le poche, contradittorie,
stampate dai giornali; brutto segno, comunque, la loro stessa
incertezza. E quel vuoto pauroso che le si faceva d'intorno, amici
in prigione, altri celati, altri timorosi di recarsi da lei! Il 4 di
luglio, mentre la White veniva senz'altro arrestata,362 la polizia
si presentava a perquisire la casa di Enrichetta sotto pretesto che
essa «si faceva centro dei complici del tentativo di sommossa
avvenuta in questa città la notte dal 29 al 30 p. p. Giugno per
diramare le notizie dell'andamento delle cose ai diversi
complicati». Al primo scorgere gli sbirri, Enrichetta tentava invano
di far sparire, gettandole dalla finestra, due lettere, una delle
quali compromettente per l'amica inglese. La polizia le sequestrò
insieme ad altre due lettere di Cosenz, a varie ricevute sospette e
a una nota cifrata. La povera donna, pur intuendo quel che la
perquisizione significava per lei, ebbe la forza di rispondere con
disinvolta accortezza alle domande rivoltele. Passarono altri sei
giorni d'inferno: l'11 luglio venne il colpo di grazia. In quel
giorno — riferí poi la torinese Gazzetta del Popolo (16 luglio) —
«si recavano in casa della Signora Di Lorenzo il Giudice del
sestiere Vincenzo; il Vice console di Napoli ed il loro codazzo. Il
giudice appena entrato disse per tutto saluto alla sconsolata
compagna di Pisacane, che essendo morto Carlo Pisacane egli doveva
mettere i suggelli alla sua roba nell'interesse dei suoi eredi: ed
il vice console profittando dello sbalordimento, del dolore della
Signora, si recò nella camera da letto, ne frugò ogni cosa, ne
trasse delle lettere...
Ora la sfortunata compagna di Pisacane, ridotta ad uno oscuro
salotto d'entrata, avendo tutte le altre camere suggellate, fu
costretta a disertare da casa sua cercando un ricovero
altrove...»363
Sequestrate tutte le carte del suo diletto Carlo (minute di scritti
politici, lettere di Cattaneo e, cocente per lei, la «confessione»
che ella gli aveva mandata a Lugano, nell'ottobre '50), portati via
tutti i libri, cacciata essa stessa fuori di casa, priva del
conforto degli amici migliori, senza risorse economiche, con la
piccola Silvia malaticcia, e, in un ambiente così stretto e severo
come il Piemonte d'allora, senza neanche la suprema fierezza di
venir rispettata qual vedova di Pisacane, Enrichetta si trovò,
indifesa, alla mercè della polizia e, peggio, della loquace stampa.
Ne compiangeva più che ogni altro la durissima sorte (cui era essa
stessa — per allora! — miracolosamente scampata) Rosetta, l'amica di
Pilo, lamentando che sui giornali si fosse «scritta e pubblicata la
loro storia amorosa; e anzi quella povera donna venisse anche
disprezzata da molti, e chiamata donna venduta e di mondo».364 E
nonostante tutto Enrichetta non poteva, non voleva, non sapeva
credere a quel che era accaduto: si difendeva contro l'atroce
dolore, respingendolo, negandolo. «La povera Enrichetta... ancora
non crede tutto quel che le dicono. Come sarà terribile il giorno in
cui se ne persuaderà», scriveva Mazzini ancora il 14 luglio. Ed essa
stessa, il 13 d'agosto, a Rosolino Pilo, rivelandogli tutta la sua
tragedia interiore: «Sono 48 giorni dacché il mio Carlo m'abbandonò,
si dice ch'ei sia morto da 41 giorni, ed io nol posso ancora
credere... Ho perduto l'uomo impareggiabile! Ed è molto crudele che
la sua morte non ha giovato menomamente al nostro paese!... Ei non
prevedeva; ma io sì, e glielo dissi l'ultimo giorno, ma il povero
Carlo era afferrato, non poteva più ragionare... Saprete tutte le
sevizie che mi sono state usate... Oh come era illuso il povero
Carlo su tutto!... Le voci, che corrono qui ora, sono che Carlo
vive; ma io nol credo... Alle volte mi balena il pensiero che forse
ei voglia provarmi e vedere se era vera la sua convinzione che anche
la sua morte mi avrebbe giovato...»
Tornata nella sua casa, questa divenne — col progressivo
normalizzarsi della situazione genovese — luogo di riunione degli
amici di Pisacane, e in genere dei mazziniani e dei fuorusciti
napoletani. Enrichetta, nel perpetuo va e vieni degli amici, che in
quelle stanze si recavano (notava la polizia) «come se vi fosse la
tomba di Pisacane», riusciva a stordirsi se non a trovar
distrazione. Ma non piacque la cosa alle autorità piemontesi; ed
ecco lo sfratto da Genova! La poveretta vi si oppose fin che poté,
accampando tutti i pretesti possibili, e principalmente la delicata
salute di Silvia; ma dopo che nel gennaio '58, nel corso di una
nuova perquisizione, le si rinvenne una lettera firmata Mazzini, il
provvedimento non fu più revocabile.365 Nell'aprile '58 dové dunque
trasferirsi a Torino, sempre sorvegliatissima:366 quanto più sola,
nella capitale, e quanto più morto, ivi, e dimenticato dovea
sembrarle il suo Carlo! La polizia attestava come essa vivesse
ritiratissima, poco frequentata dagli emigrati, «anzi poco curata, e
generalmente disprezzata pe' suoi antecedenti poco morali sebbene
l'amica da lunghi anni di colui che viene portato alle stelle dai
Mazziniani».
Non le concessero di ritornare a Genova che sulla fine del '58.367
«Pensa solo all'educazione della figlia, scriveva quell'Intendente,
non vede che le famiglie Boldoni e Camozzi e qualche altro emigrato;
non pensa alla politica, vive di aiuti che riceve dalla famiglia del
marito e dei frutti di un suo capitaletto di 3000 lire».
Ma oltre alla missione di educar Silvia (che nel '60 Nicotera,
liberato dalla galera, adottò come figlia ed ebbe poi sempre
carissima, fin quando, ancor giovane, essa morí, nel 1890)368, altri
due grandi scopi aveva allora la grama vita di Enrichetta: la
pubblicazione dell'ultima opera di Pisacane, lasciata da lui mal
compiuta e scorretta,369 e il soccorso materiale e morale ai
superstiti di Sanza, invidianti, nei durissimi ergastoli, Pisacane
caduto.370
Cavour, sinceramente indignato contro le delittuose iniziative di
quell'«infame cospiratore, vero capo di assassini e demonio» che
rispondeva al nome di Mazzini (tanto da augurarsi di vederlo un bel
giorno «appiccato sulla piazza dell'Acquasola»), esprimeva al
governo napoletano la sua solidarietà; e intanto anche la falange
dei patrioti costituzionaleggianti e un'ampia frazione degli stessi
repubblicani si levavano a rumore, scagliando furiose invettive
contro il grande fuggiasco: fu un plebiscito d'odio che avrebbe
sommerso per sempre, fuori di Mazzini, chiunque.371 Né solo le
vecchie accuse d'incapacità e di codardia gli piovvero addosso: ché
si giunse perfino a stampare aver egli saputo provveder con
vantaggio a' suoi meschini privati interessi mentre il Cagliari
navigava alla volta di Sapri!372 Mazzini, per fortuna di tutti, non
esclusi coloro che più rumorosamente maledicevano a lui, teneva
duro; amareggiato, deluso, ferito nell'anima, stringeva le mascelle
e tirava innanzi; pareva non avvertisse neanche il coro delle
imprecazioni! «Come potete ideare — scriveva a un'amica, in
settembre —, ad ogni ritorno, ad ogni anno, s'aggrava più sempre su
me quel tedio della vita che non ha nome ed al quale porrei in
qualche modo una conclusione, se qualche affetto non mi confortasse
a durare». Ma poi, stupenda ripresa: «Le cose d'Italia sono
com'erano; i tentativi falliti sono conseguenza di casi che possono
riprodursi, ma che non cangiano la natura delle condizioni generali.
Si può fare. Vi sono elementi più che sufficienti. Una vittoria li
porrebbe tutti in moto. Con questa convinzione, è dovere il tentare
sempre; e se riesco a raccogliere mezzi sufficienti ritenterò».
Cecità? O, come si volle da alcuni, insensibilità di fronte al
disastro? Non gli pesava dunque il corpo straziato di Pisacane? Anzi
lo risuscitava, l'amico perduto, facendo del suo nome un'idea, lui
solo! Gli si gridava il crucifige, ed egli, (in ottobre) in una
circolare del partito d'azione, osava scriver così: «Il sacrificio
eroico d'uno dei migliori nostri, Carlo Pisacane, ha suscitato
simpatie universali. A noi, fratelli suoi nell'Associazione, impone
un nuovo dovere di costanza e di attività. Noi non siamo uomini se
non ci adoperiamo a compirlo».373
Chi dava tanta prodigiosa forza a quell'uomo precocemente
invecchiato, malato e incanutito? Morale eroica! A Rosolino Pilo —
altra sua «vittima predestinata» — scriveva: il colpo è gravissimo,
«ragione di più perché noi rimaniamo fermi sulla nostra via di
predicazione e d'azione». La disfatta, le ingiurie lo trasumanano,
moltiplicano all'infinito la sua attività, dànno un commosso fremito
d'ali alla sua prosa. Processo di Genova? «Badate — fulmina i
magistrati — che a giudici Italiani i quali nel 1858 pronunziassero:
gl'Italiani che volevano morire o vincere con Pisacane per la
libertà della Patria meritano il patibolo o la galera, né Dio né gli
uomini perdoneranno». Sottoscrizione per far la dote a Silvia?374
Opera santa, Italiani, «ma ricordatevi, che se santo è l'aiuto agli
orfani dei martiri del paese, più santo è l'impedire che martiri
siano, e ricordatevi che, se mezzi maggiori concedevano a Pisacane
l'inoltrarsi securo fin dove popolazioni numerosamente accentrate e
meno ignoranti potevano secondarlo, fors'a quest'ora egli sollevava
da Napoli tutte le popolazioni che s'agitano tormentate fra le Alpi
e il Faro». E via e via, in un crescendo allucinante che ai
contemporanei dové sembrare monomaniaco. C'è un momento nella vita
delle nazioni schiave «nel quale ogni tentativo, fallito o no, giova
visibilmente alla causa del popolo che combatte. L'Italia ha
raggiunto questo periodo». Fino a quei commossi Ricordi su Pisacane,
culminanti nella espressa certezza che se l'amico «avesse potuto,
cadendo, mandarci un ultimo grido, questo grido ci avrebbe detto:
rifate, tentate, tentate sempre fino al giorno in cui vincerete».
Perché Pisacane morto era per lui, ormai, quel che Jacopo Ruffini, i
Bandiera, Tito Speri, morti, erano stati: una pausa di
sbigottimento, di dubbio, di rimorso; poi un nuovo balzo in avanti,
quasi disperato, più risoluto che mai. Era la grande sua idea che
cacciava sempre più fonde le radici nel tessuto vivo della nazione
italiana. Alla testa d'una colonna di martiri, egli, cui pur pareva
che incombesse da un dí all'altro la fine, respinta solo da una
volontà indomita, poteva ormai parlare parole solenni: non
s'incarnavano in lui, con i diritti e le aspirazioni dei vivi, i
diritti e le aspirazioni dei compagni caduti?
Quanti, nei necrologi stampati per Pisacane o in intimi sfoghi,
avevano deprecato il suo vano sacrificio!375 Perfino Enrichetta: «è
molto crudele che la sua morte non ha giovato menomamente al nostro
paese». Mazzini solo misurava e capiva.
Il viandante ansioso di varcare il torrente getta pietre una
sull'altra, nel profondo dell'acqua, poi posa sicuro il suo piede
sulle ultime, che affiorano, perché sa che quelle scomparse nel
gorgo sosterranno il suo peso.
Pisacane, anche lui, pareva sparito nel nulla. Ma sulla sua vita,
sulla sua morte poteva posare, e posa, uno dei piloni granitici
dell'edificio italiano.
Note
Non volendo ingombrare il volume con note non strettamente
necessarie, ho eliminato le innumerevoli citazioni della più
corrente bibliografia pisacaniana, limitandomi solo a riportar nelle
note quei dati che, pur rivestendo una qualche importanza, non hanno
potuto trovar luogo nel testo, e in generale le citazioni da fonti
meno frequentemente usate; oltre che, s'intende, le notizie tratte
da fonti fin qui inedite.
Le citazioni delle opere di Pisacane, quando non vi siano
indicazioni in contrario, s'intendono sempre tratte dalla ed.
originale dei Saggi e da quella MAINO della Guerra combattuta. Le
citazioni di lettere di Mazzini dalla Edizione Nazionale dei suoi
scritti (S.E.I.), ove l'Epistolario, è noto, si trova ordinato
cronologicamente. Di quasi tutte le opere citate nelle note è data
l'indicazione precisa nell'appendice bibliografica.
Capitolo I.
1 Lo stemma dei Pisacane (di Trani e di Napoli) viene così descritto
dal MANNUCCI, Nobiliario e blasonario, fasc. XXII, 374: «D'azzurro
alla sbarra d'oro accompagnata in capo da tre stelle di sei raggi
dello stesso ordinate in banda, ed in punta da un cane d'argento con
la testa rivoltata».
2 Strano ravvicinamento: due altri famosi «ribelli» del sec. XIX,
Kropotkine e Bakunin, servirono in giovinezza quali paggi a Corte!
3 D'AYALA, Vite degli italiani, 329, racconta che anche più tardi,
mentre si trovava a Napoli quale ufficiale, P. si era attrezzato in
casa «una specie di ginnasio per le continue esercitazioni
ginnastiche».
4 Nel Museo del Risorgimento di Genova trovasi uno stato nominativo
dei pionieri addetti ai lavori di quella strada ferrata, datato
settembre 1841 e recante la firma dell'Alfiere P. (Museo del Ris. di
Genova. Catalogo, I, 364, n. 1194).
Di P. non ci resta che una sola fotografia, quella pubblicata in
capo al presente volume. Fu stampata la prima volta, credo, nel
volume postumo della WHITE MARIO, Birth of modern Italy, London,
1909, di contro alla p. 270. La stessa imagine, ridotta a mezzo
busto, venne riprodotta nelle op. cit. di BILOTTI, CARPI ecc. ed è
ancor oggi la più nota. Tre disegni assai fedeli, dei quali il I°
dal vero, ci trasmettono altre imagini di P.: I) lo sfumino eseguito
da LO RUSSO, pubblicato a fronte del vol. LVIII degli S.E.I. di
Mazzini; II) il disegno del RIVA che è riprodotto nel II vol. dei
Saggi (e poi nella ed. Sandron di Come ordinare la nazione armata,
in DE LUCA, I liberatori ecc.); III) un altro disegno di LO RUSSO,
eseguito dopo la morte di P., che si vede riprodotto in COMANDINI,
L'Italia nei Cento anni
del sec. XIX, III, 719 (se ne parla nel vol. LVIII degli S.E.I. di
Mazzini). Da questi 4 originali — ai quali si può forse aggiungere
il ritratto di P., Capo di S. M. della repubblica romana, conservato
nel Museo del Risorgimento di Milano, che io non ho veduto — son
derivate tutte le riproduzioni o pseudoriproduzioni successive (cfr.
ad esempio le cit. op. di VENOSTA e BESANA, l'Almanacco nazionale
per il 1858 del MACCHI, la Vita di Mazzini della MARIO, ed.
illustrata, il giornale La rivendicazione, Forlí, n. cit. ecc.).
5 Il passaporto utilizzato da P. per la sua fuga fu quello di un tal
Francesco Guglielmi, cui P. avea promesso di assumere al suo
servizio nell'occasione di un viaggio all'estero (ROMANO).
6 Sull'impressione destata a Napoli da questa «romanzesca fuga», v.
MAZZIOTTI, La reazione borbonica, 114. Il carteggio scambiato fra i
due amanti (che si scrivevano quasi sempre in francese) passò poi in
eredità a Silvia, figlia loro, e venne ultimamente distrutto da una
troppo pia sorella di Nicotera, in casa del quale, è noto, Silvia
visse e morí (ROMANO).
7 Sullo strazio di Enrichetta, che non sapeva rinunziare né al suo
Carlo né ai suoi figli (uno dei quali in tenerissima età), cfr.
altri passi della lettera di addio di P., in ROMANO.
8 Sul vero movente dell'aggressione subíta da P. si veda il cit.
Rapporto del Questore di Torino (pubblicato da LUZIO, Carlo Alberto
e Mazzini); ma anche D'AYALA, 329, lascia intravedere la scottante
realtà. La notizia della fuga dei due venne recata al disgraziato
Lazzaro dal più intimo amico di P., Enrico Cosenz: il quale gli
consegnò, la sera stessa dell'8 febbraio, due lettere di Enrichetta
e Carlo. La lettera di Carlo fu giudicata dalla polizia napoletana
documento di profonda immoralità.
9 Cfr. nei Saggi, III, 177, un passo ugualmente sdegnoso sul
matrimonio di convenienza.
«Bella ed avvenente» fu descritta Enrichetta, dal Lazzari, nella sua
denunzia alla polizia napoletana
(ROMANO).
Capitolo II.
10 Nel Record Office di Londra (H. O. 5 | 32; 3 | 43; 2 | 162) si
conserva il certificato di sbarco a Folkestone, 4 marzo 1847, di
Enrico Dumont e Signora, provenienti da Boulogne col vapore Queen Of
The Belgians. Dumont è qualificato «gentleman», di nazionalità
italiana, fornito di passaporto rilasciato da un governo italiano.
11 P. non recava con sé che poche economie; Enrichetta circa 2000
ducati, parte in contanti e parte in gioie. Non risulta che la
famiglia, da principio almeno, aderisse al discreto invito contenuto
nella lettera di addio di P.: «Accettiamo soccorsi, ma non ne
domandiamo». 137
12 A. CONSIGLIO pubblica adesso (Italia letteraria, 26 giugno 1932)
una lettera di P. a Giuseppe Ricciardi, da Parigi, 31 maggio 1847.
Al R., che lo aveva scongiurato di lasciar ritornare la sua donna a
Napoli, P. rispondeva presso a poco negli stessi termini usati nella
lettera di addio ai familiari, aggiungendo per altro che Enrichetta
sarebbe forse tornata ai suoi bambini solo nel caso, giudicato
improbabile, che il Lazzari avesse consentito a una separazione
legale.
Da questa lettera si apprende che il Lazzari era cugino di P.; e che
tra le conoscenze parigine di P. è da annoverarsi l'esule bolognese
F. Canuti.
13 Il biglietto di Rossetti a Pepe (datato 13 aprile 1847) in
CARRANO, Vita di Pepe, 317-318. Rossetti, a dir vero, presentava
Dumont, non P.; ma P. stesso dava più tardi la chiave dell'enigma in
una lettera, sin qui inedita, al Cosenz, che in questo vol. si
pubblica. Altra conoscenza quasi sicura di P. a Parigi: C. A.
Vecchi, di poi serbatosi sempre suo amico, che era allora una delle
personalità più cospicue dell'emigrazione italiana a Parigi.
14 VENOSTA, op. cit., 28, assicura che l'episodio Bandiera commosse
profondamente P. Sembra inoltre probabile che, se non altro, P. nel
1845 si fosse interessato del VII Congresso degli Scienziati,
tenutosi a Napoli, cui, in rappresentanza dell'esercito borbonico,
aveva partecipato il suo amico e collega Mezzacapo (PESCI, 7). Ma
non è forse significativo che, nelle denunzie e nei rapporti
fioccati a carico di P., non si facesse mai il minimo cenno di lui
come di un oppositore politico?
15 Anche tra gli emigrati italiani a Parigi molti inclinavano già a
idee socialiste: valga per tutti il Vecchi, il quale collaborava
alla Démocratie Pacifique del Considérant (VECCHI V. A., Al servizio
del mare italiano, Torino, 1928). 16 Cattaneo, conscio della
necessità per la gioventú militare italiana di impratichirsi sui
campi di battaglia, deplorava nella sua Insurrezione, 133, che re
Carlo Alberto, cedendo a «timori di polizia» si fosse rifiutato
sempre di mandare in Algeria ufficiali del suo esercito. 17 Le
notizie fantastiche sull'attività di P. in Algeria ne Il Diritto,
Torino, 21 luglio 1857, ne L'Armonia, ivi, 17 luglio 1857 e nel cit.
Rapporto del Questore di Torino. 18 L'altro compagno di viaggio di
P. era il triestino Angelo Tedesco, che combatté poi tutta la guerra
del '48 a fianco di P., suo pari grado.
Capitolo III.
19 P. era giunto a Milano indossando la sgargiante uniforme degli
ufficiali della Legione straniera.
20 A proposito della sproporzione tra ufficiali e truppa, che si
ebbe a deplorare in Lombardia nel '48 (come a Roma nel '49), v.
Saggi, IV, 154. E, sulle cause, ivi, III, 130.
21 Sulla pretesa vanteria di P. «capitano nel Reggimento della
morte» si veda, ad es., Cattaneo, nella pref. al Momentaneo
ordinamento delle milizie lombarde di P. — Sulla organizzazione del
Reggimento v. GHISI, Il tricolore italiano, Milano, 1931, 194.
22 Nel suo scritto sul Momentaneo ordinamento P. proponeva altresì
un sistema atto a diminuire il fabbisogno di ufficiali, e reclamava
l'unità di comando nelle milizie volontarie.
23 La dichiarazione di De Turris e compagni sui giornali milanesi
del tempo.
24 Nel suo articolo La guerra italiana, pubblicato l'anno di poi,
P., con sintomatico seppur forse involontario spostamento di date,
attribuí alla metà di aprile del 1848 la presentazione di questo suo
piano, e deplorò che i responsabili del governo lombardo non si
fossero neanche degnati di esaminarlo.
Ricavo la notizia di questi eventuali ordini di ritirata, impartiti
da Durando, dalla Gazzetta di Milano, 3 luglio 1848.
25 Sul vero motivo dell'invio di rinforzi a P. cfr. i giornali
milanesi del tempo, cit.
26 L'esatta data del ferimento si ricava, oltreché dai giornali
cit., da una lettera di P. al Durando, 2 febbraio 1849, pubbl. da
FALCO. Nella lettera di P. al fratello Filippo, 24 settembre 1849,
si legge invece la data erronea 27 giugno.
27 Sembra assolutamente fantastica l'informazione contenuta nel
Rapporto del Questore di Torino, secondo la quale P. sarebbe stato
«a Brescia nell'assedio dei Tedeschi e poté fuggire nascondendosi in
una casa di paesani».
28 Nella già cit. lettera a Durando, P. ricorda la «lunga cura» cui
dovette sottoporsi per risanare il braccio ferito.
29 Una vivace descrizione dell'ambiente luganese nel '48 si legge in
CADOLINI, Memorie.
30 La lettera di Mazzini è diretta al Binda. Il 4 dicembre
successivo Mazzini rincara la dose scrivendo al Lamberti. «... A me,
caro L., la stupidità dei nostri italiani comincia a riescire
incredibile. Hai veduto mai cumulo di circostanze così
provvidenziali?... e noi duri, fermi a dire al mondo: siamo un
popolo nato fatto pel basto».
31 La data del trasferimento di P. da Lugano a Torino, e di qui a
Vercelli, è incerta; i più fra i biografi si limitano a dire che si
recò in Piemonte quando ivi risorsero le speranze di guerra (dunque
non prima del dicembre). NEGRI, 878, attribuisce invece il viaggio
ai primi del '49. Ma si osservi che da tutte le fonti concordi
resulta che P. raggiunse il 22° fanteria a Vercelli; orbene questo
reggimento fu trasferito a Novi, da Vercelli, sui primissimi di
gennaio. Siccome P. fu, prima che a Vercelli, a Torino, la sua
partenza da Lugano non poté certo aver luogo dopo il dicembre.
32 Un giudizio severo di P. sullo Czarnowski si legge nella Guerra
combattuta, 201 33 Proprio negli stessi giorni nei quali P.
«sterzava», e precisamente il 24 febbraio, anche C. A. Vecchi,
capitano nel 23° di linea (Div. lombarda) chiedeva da Roma al
Ministero piemontese la sua dimissione, confessando a suo 138 padre:
«Mi vergogno... di appartenere ai quadri di una armata diretta
dall'abataccio Gioberti». È vero che il V. era cittadino degli Stati
romani. In un Rapporto al Ministro dell'Interno, in Torino, datato
il 29 aprile 1853, sul conto del V. si leggeva che «Improvvisamente
comparve capitano nel 23° reggimento di fanteria, ove poco tempo
dopo, con un suo compagno (P. forse?), dimandava, ed otteneva la sua
dimissione, esprimendo l'avversione sua a servire i Re, ed
esternando massime ultra Repubblicane». (Archivio di Stato, Torino.
Emigrati, al nome Vecchi).
34 Per questo piano di P. si veda la Guerra combattuta, 189 sg.
Capitolo IV
35 La data di arrivo di P. a Roma si ricava dal Mon. Romano, 12
marzo 1849, nella rubrica Arrivi: «P. Carlo, napoletano, capitano,
da Livorno».
36 Sulla nomina dei membri della Commissione di guerra v. VECCHI C.
A., lettera al padre 17 marzo 1849. V. dice P. «amico mio e del
Mazzini, nostro da più anni». Nella votazione che seguí
all'Assemblea, sui nomi dei Commissari proposti, P. ottenne,
numericamente, il secondo posto, con 113 suffragi su 125 votanti.
Primo riuscí il Giusti (Mon. Romano, 18 marzo 1849).
37 Nei Saggi, I, 100, P. illustra l'audace piano.
38 Il nome di Mezzacapo quale condottiero dell'esercito romano sul
Po venne per altro suggerito, a quanto pare, da P. Stesso (MAZZINI,
Ricordi su P.).
39 Tra le forze che affluiscono a Roma in aprile si nota una
compagnia di quel 22° fanteria, Divisione Lombarda, cui P. ha
appartenuto.
40 Di P. membro della Commissione di guerra scriveva Mazzini nei
Ricordi: «Se le di lui cure attive non avessero apprestato materiali
alla difesa, i generosi propositi di Roma sarebbero forse stati
strozzati in sul nascere». E in un altro punto: «L'unità
dell'esercito, l'abolizione in esso di ogni privilegio e
disuguaglianza, il miglioramento degli elementi direttivi, il
concentramento... furono opera in gran parte di P.».
Critiche acerbe alla Comm. di guerra sollevò Garibaldi, e dietro a
lui i suoi biografi e apologisti. S'intende che Garibaldi fremesse
di dover sottostare agli ordini di una Commissione; ma un esame
rigoroso dell'attività svolta e delle direttive emanate dalla Comm.
medesima non sembra giustificare tali critiche. Il più grave appunto
mosso da G. alla Comm. fu quello di non avergli permesso di
eseguire, sui primi di aprile, una puntata offensiva in Abruzzo; ma,
considerate le poche forze che erano allora a disposizione di G.,
pare a me che la Comm. agisse in quell'incontro assai saviamente!
— Altre critiche alla Comm. di guerra sollevò tra gli altri il
GABUSSI, 190.
41 La prima sezione dello Stato Maggiore era la più importante, in
quanto incaricata della «riconcentrazione di tutti i rapporti delle
diverse sezioni ed emanazione degli ordini» (Mon. rom., 27 aprile
1849). Nella sua nuova qualità, P. aveva tra gli altri, alle sue
dipendenze, Mameli, Bixio e Vecchi.
42 Il merito di P. nel successo del 30 di aprile vien sottolineato
dagli anonimi autori del Cenno premesso ai postumi Saggi di P.; e si
sa che sotto il velo dell'anonimo si nascondevano nomi di militari
esperti e informatissimi come Cosenz, Carrano e Mezzacapo.
43 Il Comitato di Signore iniziò la sua attività il 26 di aprile
indirizzando un Manifesto alle donne romane, che recava tra le altre
la firma di «Marietta Pisacane Al Corso rimpetto al palazzo Chigi n.
192» (Mon. Rom., 27 aprile 1849).
44 Dò qui per disteso la Relazione di Enrichetta, considerando che
di lei non altro scritto ci resta, all'infuori di poche lettere, una
delle quali non eccessivamente lusinghiera per lei. «Se lode
meritaronsi i prodi che a fianco del primo Reggimento di Fanteria di
Linea, loro vita esposero nella memorabile giornata dei 30 Aprile
contro lo sleale straniero, non minore devesi a quei Cittadini di
quest'alma Città che tanto cooperarono col loro zelo e colle loro
premure per il sollievo de' propri fratelli combattenti: e valgano
fra i molti fatti questi di cui fu spettatrice l'ambulanza del primo
Reggimento suddetto. Erano già i prodi militi attaccati in più
punti, fra i quali a Porta S. Pancrazio, ove vivo il fuoco si faceva
sentire nelle ore più calde del giorno. Molti e molti trasteverini
si presentarono alla retroguardia ed agli avamposti, dimostrando il
più vivo desiderio di dividere i pericoli con noi, ed esternando un
marcato dolore che non vi fossero più armi da poter loro distribuire
onde, inermi quali erano, si posero fra le nostre file per essere
pronti a trasportare quei prodi che rimanevano morti o feriti sul
campo dell'onore. Accorgendosi poi che momentaneamente mancava alla
truppa vino per dissetarsi, ne prevennero il bisogno coll'apprestare
istantaneamente vino e pane; cosa che alleviò moltissimo i nostri
defaticati soldati, che ne esprimono la più viva gratitudine. Le
donne incoraggiavano i fratelli e i mariti ad essere pronti a
prestarsi per noi; ed esse stesse gareggiavano con loro per
coadiuvarci in qualche cosa. L'ambulanza suddetta trovavasi allo
scoperto sulla Piazza delle Fornaci in prossimità della porta
anzidetta, quando venivano portati varj feriti, ed il tempo sembrava
minacciare pioggia. Una tale situazione commosse le donne del vicino
Conservatorio Pio, che spontanee apersero il loro parlatorio ed
andito, con tre o quattro ambienti forniti di letti e materassi e di
ogni occorribile; ed avresti detto che il tutto fosse stato
preparato da lungo tempo tanta ne fu la sollecitudine nel far
ritrovare tutto ciò che abbisognava. Quivi non pochi feriti vennero
con ogni comodità curati, e quelle donne divisero l'assistenza coi
curanti, dimostrando in ogni atto quanto caritatevole e sensibile
fosse il cuore di quella comunità. Lode adeguata e lode eterna ai
valorosi figli del Gianicolo: lode a quelle donne cristiane che
sentono il primo de' doveri del Divin Maestro, la carità cioè ed il
soccorso a chi soffre. Serva tutto ciò di sprone a qualcuno, se
ancora fosse restío alla già incoata salute della Eterna Città». 139
45 Delle cure da Enrichetta prestate in Roma al ferito Teodoro
Pateras tenne memoria essa stessa nell'Album del Pateras, due anni
appresso. (FALCO).
46 L'ufficiosa Relazione della campagna militare nello Stato romano
fatta dal Corpo napoletano l'anno 1849, stesa dal D'AMBROSIO
(Napoli, 1851) riduce a dir vero le forze napoletane a poco più di
8000 uomini.
47 Sull'attività di P. quale presidente del Consiglio di guerra si
v. il Mon. Rom., dal 5 al 22 maggio 1849. Il Cons. di guerra durante
questo periodo pronunciò, tra le altre, due condanne a morte, che il
Triunvirato poi si affrettò a commutare. Il 22 maggio P. e gli altri
membri del Consiglio vennero sostituiti perché «assenti e presso il
corpo di operazione».
Su P. presidente della Commissione per le requisizioni v. ancora il
Mon. Rom., 7 maggio 1849. P. vi pubblicava un suo ordine del giorno
del 6 maggio, che così esordiva: «Infiniti ed inconcepibili abusi e
bassezze, commessi da taluni nelle requisizioni degli oggetti pel
servizio della Repubblica, ci obbligano a provvedere energicamente
per scoprire il triste che vestito di arbitraria missione, che
dovrebb'essere santa come il suo scopo, approfitta della urgente
bisogna di questi solenni momenti per adempire a delle particolari
mire di cupidigia, e manomettere, così rendendo grave e dannoso il
savio provvedimento del vigilante, dell'operoso, del giusto». Gravi
pene eran comminate a questi prevaricatori.
48 Sui rapporti fra P. e Roselli da un verso, Mazzini dall'altro,
scriverà P. nell'articolo del 1853 su La Voce della libertà: «Non mi
diressi mai al generale Rosselli, ma sempre al triumviro Mazzini, e
perché questi mostrava accettare con piacere le mie idee, e perché
allora sentiva per esso sincera ed affettuosa amicizia, e perché il
triumvirato suppliva in parte, con la sua autorità, al difetto di
disciplina dell'esercito». Il Trusiani, rispondendo a questo
articolo, insinuò che P. lo avesse scritto unicamente per soddisfare
alla sua smoderata ambizione; della quale gli pareva prova lampante
l'asserzione di alcuni amici suoi «che quando furon promossi
generali i colonnelli Mezzacapo, Haugh e Milbitz, il P. cessò di
colpo dall'andare al quartiere generale, a rischio s'incagliassero
gli affari, e mandò al generale supremo un foglio di rinunzia alla
carica di capo di Stato Maggiore». Superfluo aggiungere come tale
asserzione, che neanche il Roselli, interpellato, si sentí di
confermare, resulti pienamente infondata.
49 Intorno ai motivi della ritirata napoletana, ragionevolmente
osservava P. al fratello, il 18 settembre, che se i borbonici si
eran ritirati per volontà loro, ciò «è credibile, ma ti assicuro che
è un genere affatto nuovo di tattica che forse sarà tutto vostro...
Si cambia politica col nemico a fronte? Eravate venuti per
attaccarci nello Stato, perché ritirarvi al nostro avvicinarsi?»
50 Sull'azione personale svolta da P. sotto Velletri v. la sua
lettera 18 sett. 1849, cit., al fratello.
51 È di Mazzini l'osservazione che la mossa di Garibaldi impedí
l'esecuzione della contromarcia su Cisterna. Ma si osservi che
Garibaldi agí la mattina del 19, quando il grosso delle forze romane
non si trovava davvero in procinto di iniziare la marcia. Ci
assicura inoltre il D'AMBROSIO, che il comando napoletano aveva
previsto il movimento romano ed era pronto a contrastarlo
energicamente.
52 Scrive ancora lo Hofstetter che i componenti lo Stato Maggiore
romano «suggerivano o sconsigliavano, senza precedenti accordi tra
loro, secondo che l'aura del momento veniva in ciascuno d'essi
soffiando» (90). All'Hofstetter e al suo libro dedicò P. poche
sdegnose parole nel suo articolo su La Voce della libertà. H. «non
fu che un partigiano, e come tale scrisse; ed i libri scritti con
ispirito di partito non si confutano»; onestamente aggiungeva però
che «quel libro può essere utile a qualche cosa, a porgere qualche
dettaglio del servizio del fronte attaccato, sceverandolo sempre da
ciò che riguarda personalmente l'autore».
53 TORRE, II, 129, accentua le responsabilità di P. riguardo al
cattivo funzionamento dei servizi.
54 Sui rapporti fra P. e Garibaldi durante la repubblica romana; V.
LOEVINSON, passim. Significativa fra tutte la lettera di P. a
Garibaldi, probabilmente del 9 aprile (ivi, III, 212-213): «La sua
soverchia suscettibilità — cominciava P. — Le ha fatto credere
un'offesa quello che la Commissione di guerra ha esposto»; e
concludeva: «Sono troppo noti i suoi sentimenti patriottici. Ella è
troppo apprezzata dal governo della repubblica per dubitare
dell'interesse che si attacca alla sua persona ed al suo corpo. Le
raccomandazioni per la disciplina sono conseguenza del desiderio che
si ha di rendere (il corpo) di partigiani amato in ogni paese,
giacché su tale corpo da Lei capitanato è fondata la parte
principale del piano di difesa». Sulla sua esperienza di Capo di S.
M. scriverà più tardi P.: «In Roma mi trovai ad un posto contrario
al mio carattere, alle mie naturali inclinazioni; ho abborrito
sempre le cancellerie; avrei le mille volte preferito il comando di
un battaglione. Subii la mia posizione, e mi tenni strettamente fra
i limiti delle mie attribuzioni; fui quale doveva essere, con
espressione oltremontana, l'homme du général en chef. Amatore di
disciplina, l'osservai per primo. Nei dettagli del servizio
emetteva, come era mio dovere, la mia opinione, poi mi uniformava
alla parte di esecutore d'ordini» (artic. su La Voce della libertà).
55 La carica della cavalleria borbonica contro l'avanguardia romana
era stata così impetuosa che lo stesso Garibaldi, è noto, corse
serio pericolo della vita. Nella lettera al fratello, 18 sett. 1849,
P. contesta che Garibaldi, sul cui valore di generale egli pure non
si fa grandi illusioni, sia mai stato fugato dal corpo napoletano.
140
56 Sulla carriera di Filippo Pisacane, cfr. BUTTÀ, Un viaggio da
Boccadifalco a Gaeta, II, 113 e DORIA, Un re in esilio, Bari, 1930,
6, 74. Filippo partecipò alla campagna del '60 e seguí poi re
Francesco a Roma, ottenendone nel '61 un sussidio; più tardi, sempre
in Roma, lo si trova citato quale padrino in un duello tra
ufficiali.
57 Che non fosse troppo opportuna, dal punto di vista del rendimento
effettivo, la tattica garibaldina dei frequenti piccoli scontri
durante l'assedio, riconosce lo stesso Vecchi, pur fedelissimo del
generale (La Italia, 463). Gabussi reca particolari intorno all'urto
fra P. e Garibaldi verificatesi in occasione della progettata azione
del 10 di giugno (437).
Il 27 di giugno il Mon. Rom. stampa una breve relazione sui fatti
del 26 e 27 a firma di P. Lo stesso giorno P. venne incaricato di
sostituire Manara, indisposto, quale Capo di S. M. di Garibaldi. Ciò
resulta da lettera in pari data di Mazzini a Manara appunto. E
poiché Mazzini raccomandava: «Spero del resto che voi e P.
v'intenderete benissimo. P. è giovine di core e di mente; ed ama il
paese innanzi tutto. Siete dunque fatti l'uno per l'altro», Manara
gli rispondeva: «Ho parlato con P.; siamo perfettamente d'accordo.
Animati ambedue dal medesimo spirito, è impossibile che tra noi
possano essere false gelosie. Statene certo».
58 La squisita cortesia formale conservata da parte francese e
romana nei rapporti ufficiali, pur nei giorni più accaniti di lotta,
suona quasi ridicola. Il 1° giugno Oudinot, si è detto, comunica il
differimento dello «attacco della piazza sino a lunedí mattina per
lo meno». Il 13 giugno i triumviri chiudono una loro comunicazione a
Oudinot con «l'assicurazione della nostra distinta considerazione».
Rosselli da parte sua abbonda ancora di più: «Non sono che i bravi
quelli che sono degni di stare a petto de' soldati francesi... Vi
desidero salute e auguro fratellanza...», scrive al suo avversario
quel giorno stesso!
59 Della detenzione di P. non si seppe mai la causa vera, scrivono
gli autori del Cenno premesso all'ed. originale dei Saggi, che pure
erano intimi di P. Nell'articolo su La Voce della libertà P. afferma
che, entrati i francesi a Roma, giuocoforza gli fu rassegnarsi
«all'umiliante condizione di ragionare col nemico; più di una volta
fui obbligato di portarmi al suo quartier generale, e ne trassi
poche simpatie. Sciolto l'esercito, rientrato nella vita privata,
venni arrestato e condotto in Castel S. Angelo».
60 Il biglietto di Mazzini (a Emilia Hawkes, 10 luglio 1849) così si
esprimeva: «P. è un amico, uno dei nostri. È stato capo di S. M. nel
nostro esercito romano, e si è comportato coraggiosamente e
patriotticamente. A me piace moltissimo, e sono certo piacerà a voi.
Volete presentarlo a tutta la vostra famiglia, e a tutti gli amici
che possono riuscirgli utili? Egli deve naturalmente cercarsi
un'occupazione, ed è degno di trovarla sia come ingegnere, sia
altrimenti. So che questo è assai difficile; vale tuttavia la pena
di tentarlo».
Capitolo V
61 Soltanto a Ginevra — scriveva la torinese Concordia, 24 agosto
1849 — trovansi «circa la metà dei deputati dell'Assemblea romana e
del governo repubblicano di Roma».
62 Sull'amicizia tra Varè e P., v. Varè a Dall'Ongaro, 6 nov. 1850,
in DE GUBERNATIS, op. cit., 294. Ma poi Varè e P. si guastarono,
sembra, in seguito a dissensi politici: quelli stessi che
travagliavano allora l'intero movimento repubblicano. «Chi sa se
questo libro ci unirà di nuovo?» chiedeva P. a Dall'Ongaro,
accennando al V. appunto, il 4 giugno 1851, nella imminenza della
pubblicazione della sua Guerra combattuta. Anche Varè s'interessava
di problemi sociali, seppure da un punto di vista assai diverso da
quello di P. In un articolo stampato sulla mazziniana Italia del
Popolo (dic. 1849), egli si compiaceva del fatto che in Italia la
questione sociale si presentasse assai meno urgente e assillante che
altrove, e ne additava la causa nel dispotismo, livellatore delle
classi, e nella scarsa sproporzione fra le fortune individuali.
63 Del soggiorno ginevrino di P. parla Quadrio in una lettera a
Dall'Ongaro, pubbl. da DE GUBERNATIS (284), con la data
evidentemente erronea 10 febbraio 1849: essa non può essere invece
che dell'agosto di quell'anno. E da Ginevra fu senza dubbio scritta
la lettera 18 sett. 1849 di P. al fratello, che il Negri ha
pubblicato con la data fantastica di Genova. Anche Mazzini scriveva
allo Stansfeld il 20 agosto 1849, da Ginevra, per pregarlo di
procurargli certa lettera di credito «su Ginevra all'ordine di P.
che è qui».
64 Come si sa, l'Archivio triennale era integrato dalla importante
collezione Documenti della guerra santa d'Italia.
65 Nei Saggi (III, 39) P. chiarisce che «il popolo non trascorre mai
alla violenza perché animato da un concetto, ma perché stimolato dai
dolori». — Della guerra insurrezionale in Italia, dei suoi metodi,
delle sue finalità, del suo ordinamento si occupavano in quegli
anni, oltre P., molti scrittori. Cfr. fra gli altri GENTILINI, Guida
alla guerra d'insurrezione. Capolago, 1848; LA MASA, Della guerra
insurrezionale in Italia, Torino, 1856; le opere di G. PEPE ecc.
66 Anche Maurizio Quadrio, ad esempio, credeva che a Napoli, oltre
che, s'intende, in Francia, fosse «il nodo della rivoluzione
europea» (a Grillenzoni, 28 aprile 185o: In Epistolario di M. Q.,
II, 19).
67 Al Fabrizi scriveva Mazzini il 24 settembre 1849: «Vedo in questo
momento la tua lettera a P... Convengo in teoria quanto al Sud; ma
diffido della possibilità; bisogna nondimeno occuparsene».
68 Il passo di Montanelli si legge nelle sue Memorie sull'Italia, I,
XI. 69 Intorno alla polemica Pisacane-Mieroslawski v. R. VILLARI,
Cospirazione e rivolta, 113. 141
70 Lasciando Montallegro, P. vi depositò un suo baule del quale più
tardi ebbe ad occuparsi Mazzini (S.E.I., XLIV, 221).
71 Una prova della giusta considerazione nella quale era allora
tenuto P. quale uomo di guerra si trova nell'Almanacco di Giano
1849-1850, stampato in Isvizzera nel 1850, il quale accenna (199) a
lui e a pochi altri come allo «stato maggiore» del «futuro esercito
insurrezionale italiano».
72 Sui dissensi interni che travagliavano il movimento repubblicano,
cfr. MONTI, Un dramma fra gli esuli, Milano, 1921, 117 sg.; MAZZINI,
S.E.I., XLIV, XLV, passim (Mazzini contro Ferrari; Ricciardi,
Cattaneo, Cernuschi contro Mazzini, ecc.). Dall'Ongaro tentava
invano di far da paciere (SAFFI, Cenni biografici e storici a
proemio del vol. IX degli Scritti di Mazzini ed. Daelli,
XXVI-XXVII), a ciò incoraggiato da Tomaseo (DE GUBERNATIS, 183) e da
Gustavo Modena (Politica e arte, 56). Ricciardi, che viveva in
Francia, definiva i mazziniani «miserabile setta, fecciume e
vergogna d'Italia» (a Dall'Ongaro, 16 febbraio '51; in DE
GUBERNATIS, 297). Sulle diatribe fra gli emigrati repubblicani in
Francia, v. IACINI, Un conservatore rurale della nuova Italia, I,
36.
73 I quattro ultimi articoli pubblicati da P. ne l'Italia del Popolo
furono, nell'ordine, Qualche osservazione sulla relazione scritta
dal generale Bava della campagna di Lombardia nel 1848; Poche parole
sulla campagna di Bade del 1849; La neutralità della Svizzera;
Pensieri sugli eserciti permanenti. Le idee espresse nel 1° articolo
vennero poi travasate da P. nella sua Guerra combattuta e perciò non
se ne tien parola (per quanto l'articolo venisse giudicato di tale
importanza, che Mazzini lo volle ristampare in un volumetto a parte,
a forte tiratura, quale appendice del suo scritto sulla Guerra regia
in Lombardia; Mazzini a Fabrizi, 29 marzo 1850). Il 2°, in sé poco
importante, richiamava l'attenzione per la sua conclusione: avere
cioè il partito delle autonomie nazionali, ovunque in Europa, nel
biennio, dato prova di spiccata incapacità militare; la gioventú
italiana, dunque, si addestrasse senza posa alle armi, in vista
dell'inevitabile ripresa avvenire. Nel 3° articolo è interessante la
critica all'impegno di neutralità perpetua assunto dalla Svizzera,
assurdo finché in Europa continua a prevalere il nemico d'ogni
democrazia, l'assolutismo monarchico. Oh, «se nella guerra del 1848
in Lombardia la Svizzera con tutte le sue forze fosse intervenuta,
ora l'Italia sarebbe una e forte, l'Austria distrutta, e la Francia
non sarebbe caduta sì basso». Del 4° articolo è fatto cenno nel
testo. L'Italia del Popolo sospese le pubblicazioni nella primavera
1850; le riprese poi nel novembre, ma per cessarle definitivamente
nel febbraio seguente. Già il 27 novembre 1849 Mazzini scriveva alla
Hawkes, a Londra: «Suppongo che abbiate veduto P.: ditegli che lo
ringrazio per la sua lettera». Altri accenni al soggiorno di P. a
Londra si trovano nell'Epistolario di Mazzini, 26 dic. 1849, 24
gennaio, 20 febbraio, 12 aprile 1850. Ricerche compiute nel Record
Office di Londra condurrebbero in verità a anticipare la data del
viaggio di P. Secondo i documenti ivi conservati, resulterebbe
infatti che il 14 novembre 1849 sbarcava a Londra, da Boulogne, un
signore napoletano, di 32 anni (P. era appunto nel suo 32° anno di
età), il cui nome, assai malamente trascritto dal commissario di
bordo, potrebbe anche leggersi Pisacane. Per strana combinazione non
esiste, fra i certificati di sbarco raccolti nel Rec. Off., quello
riguardante il predetto signore, sì che non è possibile controllare
la incerta lettura del nome. Da osservarsi però che in tutto il mese
di novembre non sbarcò in nessun porto d'Inghilterra alcun altro
napoletano. È probabile dunque si trattasse proprio di P., il quale,
in tal caso, sarebbe partito dalla Svizzera sui primissimi del mese.
La lettera di Dall'Ongaro a Tomaseo, cit., recherebbe dunque una
data errata. — Quanto a Medici, risulta dai documenti del Rec. Off.
ch'egli sbarcò a Dover il 23 novembre 1849 (H. O., 2, 1849).
74 In pro degli esuli e per batter cassa per quel Comitato aveva
scritto un bellissimo, commovente indirizzo lo stesso Dickens,
nell'agosto 1849 (Italia del Popolo, sett. 1849). 75 Fu Enrichetta a
Londra? Non si può affermarlo con sicurezza; per quanto due accenni
contenuti in una lettera di lei a Carlo dell'ottobre '50 e un
biglietto di Mazzini alla Hawkes, 14 aprile 1850, rendan
l'affermativa piuttosto probabile. Che la partenza di P. da Londra
fosse già avvenuta nel giugno si rileva da una lettera di Mazzini a
Saffi, da Londra appunto, giugno 1850.
76 Blanc, Ledru-Rollin, Leroux eran, si sa, amicissimi di Mazzini;
fu verosimilmente pel tramite di lui che P. poté avvicinarli.
77 Sul passaporto di P. v. lettera di Mazzini alla Biggs, agosto
1850. A una missione affidata da Mazzini a P. non credo. Scriveva
infatti Mazzini al Grillenzoni (il quale abitava, si sa, a Lugano)
il 7 ottobre '50: «Pel lavoro politico di dettaglio... ci vogliono
giovani o uomini invecchiati in siffatte pratiche. Tu, Clerici,
Dall'Ongaro, Pisacane, del quale nessuno mi parla e ch'è buonissimo,
etc., siete quei che dovreste riunirvi, intendervi, operare
concordi, formare insomma un Comitato d'azione». Il 14 dello stesso
mese lamentava ancora che nessuno gli facesse «cenno di P.».
78 La cronologia di questi spostamenti di P. da Ginevra a Losanna, a
Lugano, a Londra, e poi nuovamente a Lugano, e finalmente a Genova,
è stata assai imbrogliata dai biografi. Mi sembra di averla
ristabilita ormai con sufficiente esattezza, basandomi, oltre che
sulle lettere di Mazzini, sullo scritto, cit., del MACCHI e sui doc.
del Record Office.
79 Si legga, nei Pensieri sugli eserciti permanenti, l'invito
rivolto da P. ai soldati piemontesi e napoletani perché, incrociando
le braccia, mettano una buona volta alla prova la supposta
popolarità goduta dai loro sovrani. 142
80 Asserendo di avere allora passato «molti mesi» con P., il Macchi
cade in una leggera inesattezza. Ché il M. non giunse in Isvizzera
(da Genova, donde era stato espulso) se non verso la metà di
settembre (MAZZINI, S.E.I., XLIV, 53).
81 Mazzini, intimo di P., non avrebbe certo potuto scrivere (nei
cit. Ricordi) che l'amore di P. per Enrichetta era stato «ricambiato
apertamente e con rara fedeltà... sino agli ultimi giorni» se a
Enrichetta si fosse potuto imputare un fallo, sia pur passeggero.
82 «Pisacane è a Genova», attesta ancora Mazzini (a Saffi) il 12
novembre 1850. Capitolo VI
83 Il numero degli emigrati stabiliti a Genova e provincia è
precisato in una comunicazione dell'Intendente di Genova al Ministro
dell'Interno, 14 dic. 1857 (Archivio di Stato, Torino, Materie
politiche interne in genere, mazzo 18). Oltre a questi 1500
politici, ve n'eran circa 250 che avevan lasciato il loro paese
d'origine per reati comuni. Sulla emigrazione politica a Genova v.,
oltre i voll. cit. in append., RIDELLA, C. Cabella, Genova, 1923,
249 sg.
84 850 eran gli emigrati napoletani e siciliani stabiliti in
Piemonte, dei quali circa 300 nella sola Genova (D'AYALA, Memorie,
231).
85 Gran parte del merito della politica liberale seguita dal
Piemonte nei confronti degli emigrati risale certo al Cavour (si
veda a conferma TORELLI, Ricordi politici, 245 sg.). Di Dabormida,
Ministro degli Esteri nel '53, si ricorda questa bella risposta data
al Ministro sardo a Firenze, che si era fatto eco delle lagnanze
toscane per l'ospitalità concessa a fuorusciti toscani (26 ott.
1853): Se «il Governo del Re... richiede dagli esuli, ai quali...
concede l'ospitalità, che non trascendano ad atti di natura a
turbare la interna tranquillità del Regno, né quella degli Stati
vicini, esso non può penetrare nelle loro coscienze e chiamare loro
conto dei loro sentimenti: e gli è impossibile soffocare negli animi
degli emigrati il desiderio della patria e quindi le aspirazioni
verso mutamenti che loro ne aprano le porte» (ROSI, Il Risorgimento
italiano e l'azione di un patriota, Torino, 1906, 125).
86 L'atto di costituzione dell'Associazione nazionale era stato
firmato anche da P. (Mazzini alla Hawkes, 12 aprile 1850).
87 Il Medici era allora, si sa, tra i più devoti amici di Mazzini;
poi le cose mutarono alquanto. Alle relazioni con elementi militari
della guarnigione di Genova Mazzini teneva moltissimo. Si vedan sue
lettere ad Accini, 12 e 15 aprile 1850, a Remorino, 23 aprile 1850.
88 Sulla maturità rivoluzionaria della Sicilia in questo periodo, o
piuttosto sull'inguaribile disgusto dei Siciliani pel giogo
napoletano, che avrebbero scosso in cambio di qualunque altra
dominazione, cfr. il carteggio di Mazzini e Crispi, dicembre 1850,
in S.E.I., XLV, 100. Per le offerte di Mazzini a Garibaldi perché
capitanasse un moto in Sicilia, ivi, XLVII, 88 (ott. 1851).
89 La grande maggioranza dei giornali liberali piemontesi parlarono
favorevolmente del prestito mazziniano. L'effetto morale raggiunto
dal successo del prestito fu immenso, anche fuori d'Italia. In un
rapporto di polizia diretto allo Home Office, Londra, 14 agosto
1852, trovo precisato che ad esso sarebbero state sottoscritte oltre
20.000 lire sterline! (Rec. Office, H. O., O. S., 4302).
90 Gli emigrati si riunivano allora preferibilmente in associazioni
regionali. Contro di esse tuonava Mazzini (a Remorino, 2 nov. 1850),
parendogli che esse offendessero il principio dell'unità italiana
che bisognava «cominciare a preparare in ogni luogo». Tutti questi
amici di P. s'ingegnavano, per campare la vita, nei modi più
svariati. Boldoni dava lezioni di matematica, Cenni faceva il
legatore di libri, Sacchi l'assistente ai lavori, Gorini stava a
bottega (CADOLINI). A Genova si stabilí più tardi anche il
Guerrazzi; ma tra lui e P. non corsero evidentemente cordiali
rapporti. Il G. bollò di debolezza P. nel suo Assedio di Roma
(920-21, 1029, 1032); P. definí il G. (nella sua Guerra comb., 169)
«uomo dubbio ed ambizioso». Passò a Genova parecchio tempo anche il
Cironi, che senza dubbio fu in rapporti diretti con P.; e forse se
ne trova notizia nel Diario ms. che il Cironi tenne in questi anni e
che a me non è stato possibile di consultare (il Diario, depositato
nella Nazionale di Firenze, è da più anni infatti a disposizione
della Commissione Editrice degli Scritti di Mazzini, in Roma). —
Quanto al Bertani, P. lo aveva molto probabilmente conosciuto a
Roma, durante l'assedio; e lo aveva riveduto in Isvizzera, ché il B.
era intimo di Cattaneo. — Macchi, che era stato espulso una prima
volta dal Piemonte, tornò a Genova nel giugno 1851.
91 A una prima visita di P. a lei allude probabilmente la madre di
Mazzini in un biglietto a Macchi, 27 nov. 1850. Scriveva Mazzini
alla Hawkes il 21 dic. '50: «La Signora P.(isacane) sta spesso con
loro (le figlie di Matilde)? ed egli (P.) è ancora costí?
ricordatemi ad ambedue». Abbastanza enigmatico l'accenno di Mazzini
in altra sua alla H., 4 febbr. '51: «Idealizzare è la missione
dell'arte; ma se v'è riuscito di idealizzare la Signora Pis(acane),
avete raggiunto l'acme». La Hawkes, com'è noto, era una valente
pittrice; ritengo perciò che l'uscita di Mazzini possa riferirsi a
un ritratto di Enrichetta da lei tentato. Enrichetta era dunque così
poco attraente? — Altro accenno di Mazzini a P. si trova in una
terza sua lettera alla H., 8 febbr. 1851, e in una lettera alla
madre, 25 aprile 1851. Nel febbr. di quell'anno Mazzini, scrivendo a
Remorino, gli suggeriva di ricorrere a P. per collaborazione
militare sull'organo repubblicano. I suoi articoli — gli diceva —
«saranno sempre buonissimi; ma solamente hanno bisogno d'un po'
d'esame in fatto di stile...» — Si noti che P. non figura tra i
pochi intimi che si recano in casa Mazzini durante l'agonia della
madre, nell'agosto '52. 143
92 La Maga, che successe alla Strega, iniziò le pubblicazioni il 1°
luglio 1851; La Libertà e Associazione nel maggio '52; Il Lavoro
nell'agosto; L'Italia Libera successe all'Italia, che avea diretto
il Macchi, il 1° maggio '50, e durò fino al 21 maggio '51. L'Amico
del Povero si stampò nel '51, poi continuato, ma per poco, dalla
Associazione (che s'iniziò nell'ottobre '51). Questi giornali di
estrema sinistra eran sottoposti a continui processi per reati di
stampa. Li difese più volte, e quasi sempre con successo, il Cabella
(RIDELLA, 230).
93 La lettera di P. a Cattaneo (una delle sue più significative)
continuava, rispondendo alle osservazioni di C.: ... «Riguardo poi
alla cosa, che non eravi opinione Repubblicana, io credo di averlo
detto nel mio manoscritto; essendo mia intima convinzione; anzi
credo anche di averlo scritto, che la Repubblica in Venezia non fu
proclamata per un'opinione dell'epoca, ma per una tradizione... Non
solamente io credo che non siavi partito Repubblicano nel vero
senso, ma anche l'opinione è formata in pochissimi. Intanto, dalle
notizie che si hanno da per tutto, pare che le masse siano pronte,
anzi impazienti di operare, ma senza concetto. La sola differenza
fra un movimento di oggi, con quello del '48 sarebbe che la fiducia
nei Principi è spenta; e la parola Repubblica è diventata popolare;
ma se il Piemonte ha il tempo di uscire in campo, temo che la
libertà d'Italia sarà sepolta. Vi sono qui vari entusiasti per
Mazzini, ma sono entusiasti della libertà né sapendo come
manifestare questa loro opinione, tengono il suo nome quasi come
simbolo dei loro desideri. Fra gli uomini pensanti Mazzini è caduto
affatto, e particolarmente quando si legge qualche lunga
declamazione, ove egli parla da ispirato o da profeta».
94 Su la Guerra comb., invocando un editore, così scriveva P. a
Cattaneo: «attesa la mia posizione finanziaria, sarei contentissimo
trarre profitto da queste mie fatiche. Essendo il primo libro del
nostro colore, il quale abbia raccolto tutti gli avvenimenti
militari della passata Insurrezione, mi lusingo dello smaltimento, e
credo un editore non potrebbe correre alcun rischio assicurandomi un
tanto per cento sul guadagno netto». Aggiungeva però che, nella
peggiore delle ipotesi, si sarebbe contentato di «una ventina di
copie per gli amici».
95 Era stato Cattaneo a suggerire che la Guerra comb., anche se
stampata altrove, recasse la data di Lugano (a Macchi, 20 marzo
'51). — Sulle cure prestate da Cattaneo al manoscritto della Guerra
comb., cfr. Macchi a Cattaneo, 1° agosto 1857. — P. si scusava con
Cattaneo di importunarlo per la stampa della sua opera, adducendogli
che «circondato da codini io non posso che far capo da voi» (23
gennaio '51). — Scrivendo al Daelli il 5 marzo '51 per sollecitare
una risposta in merito alla stampa della Guerra comb., Cattaneo così
premeva: «Pare impossibile che trovi accoglienza migliore il
Gualterio e persino il Negri!» — I dettagli della stampa della
Guerra comb. in lettera di P. a Dall'Ongaro, 4 giugno '51, cit.
96 È Mazzini stesso che, nei cit. Ricordi, narra dei consigli da lui
dati a P. dopo la lettura del ms. della Guerra comb.; e aggiunge:
«Non assentí; l'amore al Vero era in lui più potente d'ogni altra
considerazione; la discussione fra noi fu animata abbastanza, perché
ne seguisse un lungo silenzio».
97 La lettera di Bixio in NERI, Un episodio della vita di B.,
Genova, 1912, 102-103; 106-108. Bixio proseguiva: «Chi ama il
proprio paese deve pensarci due volte prima di contribuire ad
inalzare certe reputazioni, che la storia non conoscerà che per i
mali che ne seguirono». Al B. accenna altresì P. in una lettera a
Dall'Ongaro, 4 giugno 1851, cit. — Bixio teneva a chiarire che da
parte romana, il 29 aprile 1849, non si era operato contro i
francesi alcun guet-apens; la lotta era stata aperta e leale. —
Altre lettere di B. a Remorino con accenni alla Guerra comb. in
NERI, op. cit.
98 Scrisse Mazzini: «Gli amici procurino di far sì che non succedano
altri duelli quando egli (P.) sarà risanato». — Col Remorino P. era
stato fino allora nei migliori termini.
99 La dichiarazione dei calabresi e siciliani protestava contro la
versione accettata da P. degli avvenimenti del giugno '48 in
Calabria (cfr. Guerra comb., 104); e narrava che il primo dei
firmatari (il Fardella) aveva già avuto un inutile colloquio con P.
per persuaderlo del suo preteso errore; l'ostinazione di P.
obbligava i firmatari — che pur professavano la massima stima per
lui — a dichiarare solennemente «che apporre la nota di defezione ai
Siciliani è segnare una vile calunnia... Che se dopo questa...
aperta confessione taluno avrà il mal vezzo di... ridire
l'immeritata accusa, sappia che d'oggi stesso essi lo dichiarano
basso e spregevole calunniatore». Il 7 sett. l'Italia e popolo
pubblicava varie adesioni alla dichiarazione dei siciliani. — La
tempesta d'altronde si placò presto; ché con molti dei firmatari
della protesta P. si strinse più tardi in amichevole e operosa
solidarietà.
100 L'accenno di Macchi si riferisce alle accoglienze ancora
peggiori toccate alla Federazione repubblicana di G. Ferrari. Della
Guerra comb. l'Italia e pop. stampò, nei n. dal 27 sett. al 3 ott.
1851, una recensione favorevolissima. A P. veniva riconosciuto il
merito di aver per primo tentato una storia d'insieme del biennio;
generiche lodi venivano tributate altresì alle sue «politiche e
filosofiche considerazioni». — Ignoro se del libro si occupasse
criticamente il Ferrari, il quale esprimeva tale intenzione a
Cattaneo (lettera ottobre 1851), ma nel contempo lamentava di non
aver giornali a sua disposizione (MONTI, 101).
101 Anche David Levi, rievocando molti anni più tardi su La Nuova
Antologia (s. IV, vol. 69, 433) Le prime fasi del socialismo in
Italia, scriveva: «Si sentiva il bisogno di infervorate le masse
alla causa nazionale...; non bastava a tale intento il principio
politico, conveniva creare un interesse che corrispondesse ai loro
bisogni materiali..., unire alla politica la questione sociale».
Capitolo VII
144
102 Sulla diffusione delle idee socialiste in Italia nel '47-49 si
vedano, oltre le op. cit. in appendice, SALVEMINI, Mazzini, Roma,
1920, MONTI, L'idea federalistica nel Risorg. Italiano, Bari, 1922,
BACHI, Una pag. di storia del lavoro in Liguria, estr. dal vol.
commemor. in onore di G. Prato, Torino, s. d., GORI, Gli albori del
socialismo, Firenze, 1909, TIVARONI, Storia critica del
Risorgimento, vol. VI, LEVI D., Ausonia, vita d'azione, Torino,
1882.
103 Accenni a socialismo, del resto, si hanno in Italia anche negli
anni precedenti al '47. Importanti e sintomatiche anche se di dubbia
autenticità, ad es., le Istruzioni inviate nell'ottobre del 1846 dai
«capi socialisti Italiani» residenti in Francia ai loro emissari
nella Penisola; cfr. MARTINETTI, Des affaires de l'Italie et de
l'avenir probable de l'Europe. Paris, 1849. Sulla diffusione del
socialismo, le paure borghesi ecc., in quel periodo, si veda la
felice prefazione di BARBAGALLO alla cit. Op. di ANDRIANI. Prima del
'48, attesta il LEVI (Ausonia, 51), «era delitto... parlare di
associazioni d'operai, di società cooperative, di previdenza
sociale. Era massima consacrata dal Governo e dalla Chiesa, essere
la povertà necessaria per suscitare le opere di carità, essere
inoltre la miseria del popolo, l'ignoranza delle plebi... sagacia di
governo e mezzo politico per dominarle». E del resto, anche dopo il
'49, non pretendeva un tal BROGGIA in un suo Trattato de' tributi di
dimostrare la convenienza sociale della miseria delle classi
agricole? Quanto al significato che alla espressione «socialismo»
molti davano allora, cfr. il discorso del Ministro dell'Interno
piemontese, alla Camera, 14 maggio 1850, in risposta al Brofferio,
che aveva proposta la vendita delle proprietà ecclesiastiche.
«Queste misure, lo dichiaro, non le accetterò mai, perché non ho
fede nelle massime socialiste, e credo socialismo lo spogliare
altrui delle sue proprietà». Sull'incerto, equivoco significato di
socialismo scriveva assennatamente La Concordia, Torino, 22 marzo
1850; cfr. anche TORRE, op. cit., II, 240-242. — In verità, come
bene mise in rilievo LABRIOLA nel suo Socialismo contemporaneo, 121
— «la parola comunista è servita a qualificare il socialismo dei
proletari sin verso il 1870»; per socialisti s'intendevano il più
delle volte i democratici filo-operai, ma estranei al movimento
operaio, i quali «cercavano aiuti presso le classi colte».
104 Che l'Austria, o piuttosto suoi zelanti agenti bandissero nel
'46-47 dottrine socialistoidi in Italia (e segnatamente in Toscana e
in Piemonte) è ormai sicuramente provato. La corrispondenza dei
diplomatici inglesi, ad es., ne è piena. Cfr. anche BIANCHI, Vicende
del mazzinianismo, Savona, 1854, 380-382; CAPPONI, Epistolario, II,
278-285; LINAKER, in La Toscana alla fine del Granducato, Firenze,
1909, 201-203.
105 La lettera di Marx in La Critica sociale, Milano, 1897, 239. 106
I contadini invasero, per dividerselo, il bosco di Lagopesole
(Rionero); a Teramo i proprietari si strinsero in una sorta di
sindacato anticomunista. A Olevano (Salerno) si predicava
apertamente la divisione dei beni. Una tal quale propaganda
socialista fecero perfino, a Civitavecchia, le truppe d'occupazione
francese nel '49! (Mazzini alla Sand, 8 agosto 1849).
107 Capponi e Giusti si attendevano a sorprese comuniste m Livorno.
— Sul socialismo in Toscana v. anche GENNARELLI, Atti e documenti,
ecc., Firenze, 1863, p. III-IX.
108 CANTÚ (Cronistoria, II, 2) alludendo al '48 scriveva: «Erano
cominciate le lunghe processioni al grido pane e lavoro, scioperi,
macchine rotte, cotoni bruciati». 109 Lo stesso Operaio, di Milano,
19 giugno 1848, in certi suoi Consigli agli operai, scriveva: «È
dunque ormai tempo di togliere questo avanzo delle tiranniche leggi
del medioevo, che prescrive al popolo di passare un'intiera giornata
lavorando per guadagnarsi un tozzo di pane; al ricco di dormire i
suoi sonni... Uguaglianza! Tu, o ricco, vuoi del pane? lavora!»
110 Sul contegno dei contadini lombardi nel '48-49 cfr. su L'Italia
del Popolo, di Lugano, un notevole articolo (dic. '49 genn. '50)
«... Come si avrebbe coraggio di fare rimprovero ad essi se... non
riconobbero come propria la guerra? Mal sapendo apprezzare il valore
della nazionale indipendenza (i contadini) non rilevarono... gran
differenza nel regime amministrativo, che è quanto più davvicino li
tocca, fra il governo insurrezionale ed il governo straniero. Quindi
avveniva che nelle campagne il Provvisorio lombardo era qualificato
come il governo dei ricchi. E non senza ragione». L'articolista
osservava che, mentre era di moda attribuire «tutti i rovesci
politici e tutti i mali economici dei tempi nostri» al socialismo,
sarebbe stato più giusto farne carico alla inveterata, iniqua
sperequazione sociale. — Nel '51 (5 agosto) scriveva la Gazzetta
d'Augusta: «Pare d'altronde che la nobiltà (lombarda) abbia
finalmente compreso che la conseguenza di una rivolta ad altro non
potrebbe condurre che al socialismo e al comunismo, che sotto il
manto della indipendenza d'Italia potrebbe accagionare il più gran
male al paese». Due anni dopo, il moto milanese del 6 febbraio venne
da molti giudicato, specie all'estero, come una prova generale della
rivoluzione sociale. «I nobili italiani — scriveva re Leopoldo del
Belgio alla nipote regina d'Inghilterra — si sono mostrati dei
grandi pazzi, operando come hanno fatto ed aprendo così la strada
alla rivoluzione sociale».
111 Il primo sciopero genovese — secondo il BACHI, 3 — si sarebbe
verificato nel dicembre '42 fra gli operai di una fabbrica di
tessuti. — Di un minacciato sciopero dei setaioli torinesi parla il
Ministro inglese a Torino in un dispaccio al suo governo, 13 gennaio
1834 (Record Office, F. O. 67 | 191). — I tipografi di Genova
invocavano da un mese quegli stessi miglioramenti di tariffa che già
eran stati concessi ai loro colleghi di Torino. Non appena (dopo 3
giorni) ai giornali fu possibile riprendere le pubblicazioni
forzatamente interrotte, i tipografi scioperanti vennero
naturalmente additati quali «perturbatori della pubblica quiete».
Risposero gli operai con una pioggia di volantini stampati 145 alla
macchia: «Molti principali Genovesi — si leggeva in uno di essi —
hanno già fatto discrete e giuste concessioni; ma molti sono duri
nel persistere... infelici costoro dovranno cedere loro malgrado ai
giusti reclami dei loro maltrattati operai». Cedettero invece, senza
nulla ottenere, i tipografi. (Questo ed altri volantini genovesi
dello stesso periodo si trovano conservati in una importante
raccolta, chi sa come pervenuta al British Museum di Londra:
Miscellanee politiche genovesi. In un altro di essi, Due parole ai
ricchi, invocante soccorsi per le famiglie dei feriti in guerra, si
legge il passo seguente: «... ma che mi faccio io a dipingervi
l'orridezza della classe miserabile, mentre voi, più duri ancora, mi
vantate innanzi, e i soccorsi dei magistrati di misericordia, e i
piccoli pegni restituiti, e i pani della città...? E che son questi
soccorsi, pur sempre lodevolissimi, in paragone dei bisogni della
società? E a che li mettete voi innanzi se non a vostra vergogna?...
In questi momenti di tanto dubbia agitazione... non potremo noi, non
potranno i posteri accusarvi dei disordini, dei partiti, dalla
miseria quasi necessariamente prodotti?») — È il Promis che
manifesta timori per l'avvenire di Torino industriale (GORI, 400). —
Udí l'oratore popolare in Genova (tal Pellegrini) il TORELLI
(Ricordi politici, 193), il quale ne trasse ispirazione per le sue
lettere, più oltre cit., di Ciro D'Arco.
112 Al Papa rispose subito, con un ispirato travolgente appello ai
sacerdoti italiani, Mazzini nella sua Italia del Popolo. Insistendo
sulle profonde antinomie fra socialismo e comunismo, insieme confusi
nello scritto vaticano, M. condanna il secondo «siccome concetto
anti-progressivo, ostile alla libertà umana, e praticamente
impossibile», ergendosi invece a difensore aperto del socialismo.
113 Nel mio vol. Mazzini e Bakounine trovasi un frettoloso cenno sul
movimento operaio svoltosi in Piemonte fra il '49 e il '60. I dati
qui riportati, frutto di successive ricerche, vanno considerati
quali sviluppo e integrazione di quel primo cenno. — Il periodo più
intenso per la fondazione delle Società operaie fu quello fra il
1850 e il '53 con 85 Società nuove (cifra accertata dalle
statistiche ufficiali, peccanti piuttosto per difetto che per
eccesso). La prima Società di resistenza sorse a Torino nel '48.
114 Già nel '51 si era avuto un convegno di 600 operai, membri di
varie Società, ad Alba. E nell'ottobre di quello stesso anno si
riunirono a Torino i delegati di 33 Società per discutere in merito
alla convenienza o meno di una federazione delle varie Società. Nel
maggio seguente altra riunione dei delegati di 39 Società, nella
quale vengono presi accordi per i futuri Congressi generali. Cfr. Le
Società operaie di Torino e di Piemonte, Roma, 1883, 12 sg. — In un
fascicolo della Democrazia italiana, 1851, Genova, 1852, P(iero)
C(ironi) si occupava delle Società operaie piemontesi, asserendo che
se esse avessero seguitato a moltiplicarsi come avevano fatto fino
allora, avrebbero finito col rendere «il popolo arbitro delle
condizioni sociali». E aggiungeva: «I governi osteggiano ed
avversano le associazioni, le quali se non possono affatto troncare,
cercano corrompere traendole per mezzo dei capi nella loro
dipendenza. I sacerdoti le fulminano di ecclesiastiche censure dai
pergami... I giornali reazionari le combattono... Però a ragione le
associazioni mostraronsi qui gelose di serbare la propria
indipendenza, rifiutando quel tentativo di loro accentramento che si
partí da Torino, il quale tendeva nientemeno che a togliere ogni
libertà d'azione a tutte le associazioni operaie dello Stato, con
sostituire un nuovo sistema di centralizzazione». — Nel 1855 un
Congresso medico, riunito a Cuneo, discusse la questione della
durata del lavoro negli opifici.
115 Da un dispaccio del Ministro inglese a Torino al proprio governo
(3 agosto 1841) si rileva ad es. che il salario di un setaiolo, in
città, è di L. 1,20 al giorno (di una donna, 0,60; di un ragazzo,
0,25); di un cotoniere L. 1,00. A Biella esser salario massimo di un
operaio L. 1,50; a Genova, L. 2,00. (Record Office, F. O., 67 |
116). GEISSER, PUGLIESE, PRATO, nelle note loro opere di storia
economica, offrono qualche dato sulla estrema bassezza dei salari
industriali in Piemonte intorno al 1850.
116 Anche gli operai sarti, nonostante avessero costituito una cassa
di resistenza e deliberato l'astensione dal lavoro fino a completo
accoglimento delle loro richieste, finirono col cedere senza aver
nulla ottenuto, vinti dallo spettro della disoccupazione.
117 Nel progetto di risposta del Senato piemontese al discorso della
Corona, 7 agosto 1849, si leggeva che ogni sforzo andava fatto per
premunire il popolo «contro quelle dottrine sovvertitrici, che
audacemente bandite hanno troppo facile accesso negli animi non
corroborati dagli insegnamenti della morale e dal conforto della
religione». Indirizzo di ringraziamento di «alcuni proletari» al
dep. Radice, che si è scagliato, alla Camera, contro le imposte che
colpiscono le classi meno abbienti: «Che altro è questa maledetta
invenzione dei tributi... se non un diabolico lambicco, entro cui si
distilla, voi dite, il sudore, noi aggiungiamo il sangue, le midolle
del povero popolo?» (Lo Smascheratore, Torino, 31 ott. 1849).
Osservava Brofferio alla Camera subalpina il 14 maggio 1850,
criticando la eccessiva severità della censura sui libri di
provenienza estera: «si teme l'introduzione di libri socialisti, ma
tutti i giornali liberali parlano del socialismo; perché non li
proibite?»
118 Anche Lo Smascheratore, 31 dic. 1849, lamentava che «il
socialismo e il comunismo più isfacciato e sanguinario predicasi in
tanti giornali di provincia».
119 «Signori, di questo socialismo ve ne fate un grande
spauracchio», ammoniva lo stesso Sineo, alla Camera, il 16 maggio
1850. 120 Del Canto allo Sciesa trascrivo qui i versi più
significativi: «Operaio all'officina — Perché sudi insino a sera? —
La campana alla mattina — Che ti chiama all'officina — Perché dice
in suo linguaggio — Tu sei figlio del servaggio?... — La tua lima,
il tuo martello — Il telaio e lo scalpello — Operaio fan potenti — I
padroni ed opulenti — 146 E il salario a te non basta... — Ma se un
dí quella campana — Manda un suon diverso affatto... — Quello è il
giorno del riscatto... — Libertà lavoro e pane — Vorran dire le
campane». Sulle istruzioni antisocialiste da Mazzini impartite alla
Italia e Popolo, v. S.E.I., XLVII, 108, 127. — Un articolo sulla
necessità della rivoluzione sociale oltreché politica stampava lo
stesso giornale l'11 sett. 1851. Altri articoli sul socialismo v.
nei n.i 12 sett., 3 ott. 1851; 31 dic. 1854; 27 nov. 1856.
121 «Socialisti», fautori della «bandiera rossa» venivan definiti
Montanelli e i suoi seguaci nei Misteri repubblicani; e Jacini
diceva di loro, nel '51, che «promettono un eden di delizie, fra cui
primeggiano le confische e la ghigliottina ai moderati, ai ricchi,
agli aristocratici» (Un conservatore rurale, I, 36).
122 In un trattatello reazionario Della vera e falsa libertà,
stampato a Torino nel 1850, trovo un sarcastico Dizionario della
demagogia, contenente definizioni di questo genere: «Diritti del
popolo. Facoltà di fabbricarsi nuove catene di schiavitú per mezzo
di rivoluzione». «Sovranità del popolo. Diritto di eleggersi qualche
centinaio di tirannelli, e di pagarli a caro prezzo». — Ne La nemesi
subalpina ossia dieci anni di liberalismo in Piemonte. Canzoniere
politico. Torino, 1858, l'anonimo autore (un reazionario di tre
cotte) tocca sovente il tasto socialista, s'intende bene con quali
intenti.
123 Il Turcotti — si noti — insegnava diritto costituzionale nella
Scuola della Società degli operai di Torino (Le soc. Op., 22).
124 MAZZIOTTI, 318, ricorda una conferenza tenuta a Genova dal
Conforti nel 1851 intorno al migliore ordinamento del lavoro.
125 GIOBERTI nel Rinnovamento assomma a tre principalissimi i
bisogni dell'epoca: predominio del pensiero, autonomia della
nazione, riscatto delle plebi.
126 Importante il Programma della Associazione degli operai
pubblicato da Macchi a Torino nel nov. 1848. Il Macchi, veramente,
avrebbe preferito che le discussioni sul problema sociale venissero
rimesse a quando si fosse già risolta la questione politica; ma —
scriveva al Cattaneo, 14 gennaio '50 — «poiché non dipende da noi il
sospendere la questione socialista... sento come un debito di
coscienza di farvi qualche attenzione» (SAFFIOTTI, op. cit.,
734-735). Nel nov.-dic. 1856 Macchi sostenne una vivacissima
polemica con L'Italia e Popolo intorno al socialismo e alla
questione sociale. Si veda, oltre al cit. giornale, MACCHI, La
conciliazione dei partiti, Genova, 1857, appendice. De Boni era
filosocialista come tutti i razionalisti, ma nettamente
anticomunista: «Il comunismo in Italia — scriveva nel 1850 — non
esiste che nella fantasia dei retrogradi e nelle calunnie della
polizia» (GORI, 352). MANCINI, nella sua Introduzione allo studio
del diritto pubblico marittimo, Torino, 1853, segnala l'immensa
importanza della questione sociale. «Le masse — egli osserva — dove
più, dove meno han mostrato di non saper che farsi di una libertà
formale vôta ed infeconda dei prodigiosi benefizi da esse sperati, e
tante volte invano promessi». Socialista, ma anticomunista era il
Vecchi (La Italia, 46). Nel 1853 egli aveva caldeggiato il progetto
di stabilire a Rodi una colonia italiana su basi ugualitarie (VECCHI
V. A., op. cit., 35). Gustavo Modena attraversò, pare, un periodo di
vero entusiasmo pel socialismo. Ne lo rimproverava Mazzini (alla
Hawkes, 16 febbr. 1855).
127 N. BIANCHI (Vicende del mazzinianismo, 281) si studia di mettere
in guardia la società contro i pericoli derivanti dalla distruzione
del sentimento religioso nelle masse. «Si badi, egli ammonisce, che
il popolo potrebbe compiere una di quelle violente perturbazioni, in
cui la guerra si fa a coltello contro i pasciuti e i vestiti, e le
turbe accostano la libertà come una meretrice». In quel caso le
classi agiate sarebbero costrette a fare un fronte unico di
resistenza «a necessario vantaggio del dispotismo». Nel 1858 Cavour
confessava che se non fosse stato tutto preso dalla questione
nazionale, si sarebbe volto a quella delle relazioni fra capitale e
lavoro e delle condizioni della classe lavoratrice (CROCE, Storia
d'Europa, Bari, 1932, 208).
MINGHETTI (Miei ricordi, Torino, 1888-1890, III, 130) riporta una
sua lettera del '56 contenente il seguente passaggio: «La questione
sociale per noi sovrasta anche alla questione politica». 128 Del
Curzio, nativo di Acquaviva in Puglia, accerta LUCARELLI, 109, che
era amico di P., di Cattaneo, Nicotera ecc., e che «cercava di
trarre nell'orbita della rivoluzione non solo il ceto abbiente, ma
anche le classi operaie». Gojorani era pesciatino; mazziniano (poi
socialista), venne espulso dal Piemonte nel 1854. CECCHI (pref. alle
sue Op. scelte) scrive che nel '57, dalla Svizzera, G. si
precipitava a Genova «per unirsi alla spedizione P.», ma giunse
troppo tardi. Cfr. in proposito la lettera di Mazzini a Pigozzi, del
luglio 1856: «Vorrei che Gojorani e Rocchi si tenessero presti a
recarsi in Genova sopra un avviso che venisse loro da me». Ritengo
per altro che Mazzini intendesse utilizzare il G. per il moto in
Toscana. Di lui cfr. specialmente Il legato di un proscritto, 1854;
Una visita, 1856; La terra promessa, 1857. Anche il Mercantini,
stabilito a Genova dal 1854, toccava argomenti sociali nelle sue
poesie. Si veda ad es. la sua Canzone del mendico, 1842.
129 Ai tempi di P., scrive ORANO, I patriarchi del socialismo, 135,
«gli scritti di Proudhon, di Leroux, di Blanc avevano, a malgrado
della censura feroce, una diffusione sufficiente ad una cultura
discreta del... pensiero socialista ». Cfr. nell'Appendice
bibliografica l'elenco delle opere cui in questo capitolo si è
accennato. Il lettore avrà notato che esse son tutte ed
esclusivamente stampate in Piemonte. Una bibliografia del genere
estesa all'Italia tutta richiederebbe moltissimo spazio. 147
130 Non era dunque troppo esatto il Ferrari quando (a Cattaneo,
sett. 1850, in MONTI, 90) scriveva: «in Italia il socialismo è
sconosciuto, calunniato, sfigurato». Piú nel vero P. (Saggi, III,
53): «non tutti sono socialisti, ma tutti; comeché professando
dottrine opposte al socialismo, si compiacciono dirsi tali... il
socialismo riguardasi ancora dottrina e tutti cercano farne pompa
senza comprenderlo o approvarlo».
Capitolo VIII
131 Cosenz era assai stimolato da Mazzini che, in una lettera alla
Hawkes, 2 dic. 1850, lo aveva definito «un repubblicano perfetto ed
alieno da quello spirito intrigante ed ambizioso di quasi tutti i
militari».
132 Sulla inopportunità che il movimento rivoluzionario repubblicano
avesse ad esser diretto da fuorusciti scrisse ripetutamente anche il
Medici (CADOLINI, Memorie, 240). ORSINI più tardi ripeté nelle sue
Memorie le stesse osservazioni (p. 135-136 dell'ed. Franchi). Cfr.
anche Mordini (ROSI, 117).
133 Nei Ricordi su P., Mazzini, dimenticando questi dissensi,
attribuirà a P. pensieri e vedute non suoi; e per es. affermerà che
P. «ripeteva spesso... con me che, o le nostre moltitudini non erano
preparate alla lotta suprema, e bisognava educarle con forti fatti,
o lo erano, e bisognava guidarle. A questo dilemma non abbiamo mai,
né egli né io, trovato risposta chiara da quei che dissentono». Dove
Mazzini scordava che proprio su questo punto, per più anni, P. aveva
seguitato a dargli una risposta chiarissima.
134 L'ORSINI nelle sue Memorie, cit., 121, scrive che i mazziniani
di Londra chiamavan partito militare gli ufficiali repubblicani di
Genova; «ossia quel partito, che sino a che non abbia centomila
soldati organizzati e disciplinati, non vede speranza di riuscita
nella rivoluzione».
Le lettere di Mazzini cit. nel testo sono, nell'ordine: a Mordini, 3
sett. 1853; a N. Ferrari, 9 gennaio 1854; alla Hawkes, 31 luglio
1854; a Fabrizi, 4 ott. 1854; e poi ancora a Mordini, lettera cit.;
a Medici, 16 luglio 1853. Si veda anche la lettera a Fabrizi 14 dic.
1853, contenente la supplica, tutta mazziniana: «ricospira per un
mese...»
135 Sulle trame di P. per promuovere un movimento nelle Due Sicilie
nel '52, cfr. ROSI, Mazzini e le critiche, ecc., cit., 976. P.
scriveva in proposito al Mordini in Nizza il 3 di luglio,
chiedendogli l'indirizzo di tre ufficiali napoletani suoi conoscenti
(Balzani, Bosco e Sanzio) nonché l'assicurazione che eventuali
lettere a loro dirette «saranno consegnate nelle loro proprie mani».
Il Ministro degli Esteri napoletano (che stipendiava un nugolo di
spie in Piemonte e in Genova particolarmente) sapeva benissimo che
il piano di insurrezione nelle Due Sicilie era stato tracciato da
«due ufficiali napoletani disertori: Luigi Mezzacapo e C. P.»
(GAVOTTI, 56). Altre notizie sullo spionaggio napoletano fra gli
emigrati a Genova nel cit. art. di POGGI.
136 Di netta condanna fu il giudizio di P. sugli avvenimenti del 6
febbraio: «Tristi avvenimenti» egli li definiva nei Saggi, I, 102. I
rapporti con Mazzini peggiorarono decisamente dopo di allora, mentre
pochi giorni innanzi (il 25 gennaio) Mazzini invitava ancora il suo
Cironi, che si trovava a Genova, a valersi del «consiglio d'un
militare di fiducia, che può essere P.» per le istruzioni
insurrezionistiche da spedirsi in Toscana. Nel '54, invece, Mazzini
non fece che lamentare l'atteggiamento dei militari di Genova, nei
quali, scrivendo al Sirtori (6 aprile), riconosceva «dopo noi,
l'unica potenza».
137 La lettera di P. sulla «fazione» mazziniana in PESCI, 46 (era
diretta a C. Mezzacapo). Esagerato senso d'indipendenza di P. o
intransigenza effettiva di Mazzini? P., ancora nel '52, accennando
al «Maestro», aveva scritto: ... «noi (italiani) siamo sempre
cattolici e papisti, anzi gesuiti; la discussione, la critica sono
per gli italiani bestemmia, i nostri apostoli gridano: silenzio ed
obbedienza, come i capi d'una compagnia religiosa». 138 Anche P. era
infastidito della predicazione religiosa di Mazzini. «Perché
parlarne? perché sempre cadere nel mistico?», domandava a
Dall'Ongaro. Nel III dei Saggi dedicò un ampio esame critico alle
idee religiose di Mazzini. P., si sa, era un ateo perfetto.
139 Altrove Mazzini fu più esplicito (La situazione, 1857, in
Scritti, ed. Daelli, vol. IX, 290-291): «Voi sapete che su questioni
sociali, ed altre, correva dissenso tra P. e me; ma quando pensavamo
d'Italia,... l'anime nostre s'immedesimavano in un solo palpito
d'opere concordi e d'azione».
140 Le idee sociali di Mazzini eran già perfettamente e
definitivamente chiarite nel 1840. Fino da allora egli propugnava
per l'Italia una rivoluzione che fosse insieme politica e sociale,
affermando che dai moti puramente politici il popolo faceva bene a
tenersi lontano, perché non ne ricavava se non delusioni. – Già il
21 novembre 1855, scrivendo a Remorino dell'Italia e Popolo, Mazzini
gli raccomandava di non accomunar mai, negli elogi, repubblicani e
socialisti sistematici; e precisava: «noi... apparteniamo al
socialismo tendenza,... mentr'essi vogliono impiantare e organizzare
l'associazione per decreto, noi la vogliamo aiutar volontaria».
141 Tra gli scritti antisocialisti di Mazzini di questo periodo si
veda anche il Discorso agli amici d'Italia, febbraio '52.
142 Scriveva Macchi a Cattaneo, 13 maggio '52: «Anche ai più fervidi
apostoli di Mazzini spiacquero oltremodo le superbe accuse da lui
mosse ultimamente ai socialisti francesi». — Mordini scriveva da
Nizza, nell'aprile, che da quegli attacchi si sentivan colpiti anche
i democratici italiani per la maggioranza dei quali «rivoluzione e
socialismo erano diventati una sola identica cosa» (ROSI). La prima
risposta pubblica a Mazzini fu quella del Consiglio democratico
francese-spagnuolo-italiano, rivendicante la nobiltà del socialismo
federalista. Tra i redattori della risposta figura il Montanelli;
notevole che essa venisse 148 elogiata dal giornale Il Progresso, di
Torino (S.E.I. di MAZZINI, XLVI, p. XCVII sg.). La risposta di
Blanc, Cabet ecc. ai Doveri della democrazia può leggersi in
(S.E.I., XLVI, p. XLVIII sg.). HERZEN, nelle sue Memorie (III, 112)
scrive che Mazzini il quale «era stato socialista nei giorni
precedenti al socialismo, divenne il suo nemico non appena questo da
generica tendenza si tramutò in una nuova forza rivoluzionaria »,
perché non gli sapeva perdonare di essere stato formulato fuori del
suo Circolo e della sua influenza! Bertani, nel '53, pensava di
costituire un nuovo partito repubblicano assolutamente
indispensabile da Mazzini! (S.E.I., XLIX, 259).
143 Il passo di Mazzini su P. in lettera a Fabrizi, 4 ottobre 1854.
144 Sull'attività antimazziniana di Ferrari, v. MONTI, Un dramma,
102, 121. — Contro gli eccessi antimazziniani di Ferrari nobilmente
protestava il Macchi (a Cattaneo, 27 maggio 1852). 145 Le
osservazioni di P. sul libro di Ferrari in un'appendice della Guerra
comb. Su questo punto P. non faceva del resto che ricalcare le orme
di Mazzini, che al Ferrari aveva eloquentemente rimproverato più
volte tal concezione. 146 Il 24 gennaio '51 — sull'album di Pateras,
cit. — P. scriveva: «La nostra cara patria spezzerà le sue catene
quando al culto dell'individuo succederà il culto delle idee. Quando
ogni Cesare troverà il suo Bruto».
147 Sull'Accademia di filosofia cfr. COLLETTI, 173; MAZZIOTTI, 318.
Gran camminatore, P. amava anche le passeggiate in aperta campagna.
A Dall'Ongaro, 30 ott. '51, scriveva ad es. di essersi «esercitato a
girare tutte le posizioni ove Massena diede tanti combattimenti».
148 Sul Franchi e la sua Filosofia, COLLETTI, 104.
149 Sulle associazioni fra emigrati politici in Piemonte in questo
periodo cfr. l'articolo del POGGI, l'op. cit. di LOERO, e inoltre
MAZZINI, S.E.I., XLII, 210, 237. — È LOERO, 35, che afferma non aver
potuto P. appartenere alla Solidarietà per ragioni economiche. —
Sulla Solidarietà v. ROMANO-CATANIA, 99; MAZZIOTTI, 321.
150 Herzen venne espulso da Nizza nel giugno del '51. 151 La precisa
data di nascita di Silvia è incerta, per quanto generalmente
attribuita ai primi del '53. La MARIO (Bertani, I, 245), parla
invece del 9 novembre 1852.
152 Sulla cattedra di Lugano v. Cattaneo a P., 4 agosto '52 (NERI,
Una lettera di C. a P., in Il Ris. ital., 1909, 306-307). Si
trattava della cattedra di matematica e meccanica; ma i concorrenti
eran numerosissimi.
153 Il carteggio fra P. e Bertani relativo alla malattia di Silvia
in MARIO, Bertani, I, 200.
154 Fu probabilmente in questo periodo che P. ebbe a raccomandarsi a
Carlo Mezzacapo perché procurasse la liberazione dell'amico Vincenzo
Carbonelli, arrestato quale sospetto agente mazziniano. (PESCI, 50).
— L'America e del sud e del nord s'aveva un po' in conto di
penitenziario dalle potenze europee in quel tempo! L'Austria, il
Borbone e il Papa, per non dir d'altri, vi spedivano, o promettevano
di farlo, i loro troppo numerosi ergastolani politici; il Piemonte
gli emigrati più incomodi!
155 Scriveva il ROSELLI, 133: «l'accusa poi datami a torto, di falli
seguiti per la mia debolezza, poteva forse giovare ad ogni altro, ma
giammai al mio capo di Stato maggiore; perché accusando me di
debolezza, veniva insieme ad accusar se stesso di errore; onde per
trarre qualche opinione più favorevole a sé dal pubblico, miglior
consiglio sarebbe stato piuttosto dirmi invece uomo ostinato e
caparbio, e che non aderii ai suoi salutari avvisi...» Con
particolare cura ribatteva poi il R. l'accusa pisacaniana d'aver
egli inopportunamente affidato il comando della sortita del 10 di
giugno 1849 a Garibaldi e d'aver rifiutato la proposta (fatta da P.
il 3 di luglio) di chiudersi con le truppe nella città Leonina per
sostenere un secondo assedio.
156 Nella sua risposta al Roselli, cit., P. affermava che la Guerra
comb., in complesso, aveva giovato anziché nuocere al generale.
«Stimando il generale, credendolo amantissimo di libertà, tollerante
perciò dell'altrui opinione, amante di critica, era sicuro che
avesse con piacere visto il mio lavoro; e tant'era profonda la mia
convinzione a questo proposito che m'affrettai ad inviargli un
esemplare della mia opera. Ma... il generale è offeso ch'io l'abbia
detto debole, e la sua debolezza causa d'errori. Sperava egli forse
da me la sua apologia?» E concludeva: «Lasciamo agli animi servili
lo stizzirsi, come donnicciuole, ad una semplice osservazione, ed
accettiamo con animo pacato la discussione. Grandeggiano, è vero,
nei brevi rivolgimenti, uomini non degni, altri onestissimi vengono
calunniati; ma il tempo fa giustizia di tutti... Consoliamoci ad
ogni critico che sorge; le pleiadi di questi scrittori precedono
sempre il risorgimento delle nazioni. Né potrà mai un popolo
conquistare la libertà, se prima non conosca gli errori che lo
condussero alla disfatta».
157 Dell'articolo cit. del TRUSIANI non merita conto dire gran che:
era una smaccata apologia di Roselli e un'acidissima stroncatura di
P., ricolma di insinuazioni e mezze calunnie, espresse, per
prudenza, in forma dubitativa. A proposito degli avvenimenti romani
della notte fra il 2 e il 3 di luglio, ad es., scriveva il T.:
«Sarebbe lecito credere quello che asserivano alcuni, cioè che il
colonnello in quella notte se ne fosse ito a dormire a casa? Noi,
rispettando il patriottismo di lui, nol crediamo; tuttavia potrebbe
egli querelarsi di noi se lo credessimo?» Altrove il T. affermava
che era stato destino del Roselli di venir sempre calunniato da
parte di «uffizialetti imbecilli e soldati codardi». Pisacane, nella
polemica, si dimostrò invece invariabilmente misurato e corretto.
158 Sulla polemica Roselli-Garibaldi si conservano numerosi
documenti nell'Archivio garibaldino del Museo del Risorgimento in
Milano, cart. 814; tra gli altri una lettera di Roselli al Vecchi,
23 settembre 1854, e una Narrazione intorno ad un invito di sfida
ecc. di mano dello stesso Roselli.
159 Sul colèra del '54 cfr. CADOLINI, Memorie, 210. A Genova, su
5.000 casi circa, si verificarono 2.600 decessi! In quell'anno
appunto, infuriando il colèra, accadde che a Genova, nell'albergo
della Vittoria, il Vecchi e sua 149 moglie invitassero a cena una
sera Pisacane e la sua compagna con alcuni altri amici fra i quali
il gen. Masi e il magg. Fontana. Una subitanea indisposizione della
Signora Vecchi obbligò per altro i convitati ad andarsene; la povera
Signora morí poche ore più tardi, vittima di un fulmineo attacco di
colèra. Il figlio del Vecchi, l'illustre scrittore JACK LA BOLINA,
decano dei letterati italiani — allora un fanciullo — ricorda
benissimo la triste scena, che ha narrato in Al servizio del mare
italiano, 41. La figura di P. — biondo, stempiato, occhi celesti,
tipo tutt'altro che napoletano — gli è rimasta tenacemente impressa
nella memoria.
160 L'incitamento di Cattaneo a P. perché partecipasse alla guerra
venne rievocato da Cattaneo stesso in una lettera a Bertani, 24
febbraio 1859, nella quale concludeva che «forse in suo cuore (P.)
avrà sprezzato il mio consiglio, perché troppo fuori della linea
retta...»
161 Esempio tipico della incomprensione dei democratici per le
conseguenze dirette e indirette dell'intervento sardo in Crimea le
sdegnose parole del Macchi nel suo vol. La Pace (Genova, 1856, 42):
«E per sì poca cosa (qualche memoria presentata ai ministri alleati
e qualche lor buona parola al Piemonte) la stampa d'Europa si
commosse in modo, che molti furono indotti a credere il Piemonte
disposto a rompere quando che sia le ostilità contro l'Austria con
una terza ripresa... I nostri figli avranno a durare non lieve
fatica per convincersi che ai nostri giorni si trovava ancora tale e
tanta dabbenaggine nei politicanti di questo vecchio continente».
Medici scriveva a Fabrizi, 18 dic. 1855 che «Quanto alla guerra
d'Oriente il meglio per noi è che vincano oggi i russi, domani gli
alleati, e così via finché non ne rimanga uno...»
162 Il 15 nov. '54, Mazzini esultante informava Fabrizi di aver
ricevuto «un bigliettino da Cosenz, che dichiara l'opportunità per
fare venuta, e dice essersi scritto in questo senso dai suoi amici».
Sulla fine del '54 la febbre di agire per via insurrezionale
s'impadronisce di tutti i patrioti, epidemicamente. Garibaldi
scriveva al Vecchi, il 6 dicembre (lettera in mio possesso):
«Andiamo! Mettete d'accordo, tutta sta Italiana famiglia — a
qualunque costo — e veder se facciamo una menata di mani, anche noi,
passato il Verno; oggi o domani non serviremo più che a magramente
ingrassarla questa terra». E Sirtori a Mazzini: «... Siamo d'accordo
che è urgente di preparare le armi ecc. — Siamo d'accordo che s'ha
da prevenire la guerra regia e imperiale coll'insurrezione
nazionale... Riservando la mia azione politica, obbligo la mia
azione militare a chiunque faccia, purché non sia una follia».
(SAFFI, Cenni ecc. a proemio del vol. IX degli Scritti di Mazzini
ed. Daelli, 120-121). Anche il colonnello Pasi si riavvicinò in
questo periodo a Mazzini.
163 È una lettera di N. Ferrari a Cironi che attesta esser di P.
l'articolo Viva il trattato (MAZZINI, S.E.I., LIV, 52). — Mazzini
alla Hawkes, 28 febbraio '55: «Sono lieto che P. e Cosenz
scrivano...»
164 Secondo D'AYALA, VENOSTA e gli anonimi autori dei Cenni premessi
ai Saggi si trattava della ferrovia da Mondoví a Ceva («Ed ancora i
Monregalesi conservano di lui dolce memoria» — Cenni). Secondo
Macchi, del tronco da Bra a Mondoví. Falco ha fatto in proposito
infruttuose indagini.
165 Dal Disegno dell'opera: «Questi miei studi, che per quasi cinque
anni mi hanno rimosso dall'ozio». Nel Testamento politico, invece,
P. afferma che i Saggi son «frutto di circa sei anni di studio».
166 P. si adoperò in ogni modo per trovare un editore ai Saggi, ma
invano: evidentemente l'esperienza della Guerra combattuta non era
fatta per incoraggiare... PESCI, 50, menziona sue lettere a
Mezzacapo per sollecitarne la pubblicazione nelle appendici del
giornale Il Diritto. Si vedrà in appresso come l'Italia e Popolo ne
pubblicasse alcuni estratti, di argomento militare.
167 Gli amici che si occuparono della pubblicazione dei Saggi furon
Cosenz, Carrano, e Mezzacapo. I due primi voll. vennero stampati a
Genova; indi la pubblicazione venne interrotta per venir ripresa
solo nel 1860, a Milano, a cura dell'avv. Enrico Rosmini «amicissimo
del martire e della famiglia», secondo c'informa il VENOSTA, C. P. e
G. Nicotera. (cfr. anche MAZZINI, S.E.I., LX, 137, n.). Alberto
Tucci — uno dei primi seguaci napoletani di Bakunin — narrò al
Nettlau che Nicotera avrebbe «soppresso certi manoscritti socialisti
di P.» (NETTLAU, Bakunin e l'Internazionale in Italia. Ginevra,
1928, 56-57). La cosa non sembra molto probabile: ché Nicotera non
uscí di galera se non nel 1860, quando già il socialismo di P. era
stato consacrato dalla pubblicazione integrale dei Saggi. Piú
probabile invece che eventuali mss. inediti di P., posseduti da
Silvia, venissero distrutti dalla sorella di Nicotera, dopo la morte
del fratello e di Silvia; s'è già detto infatti come costei, mossa
da scrupoli religiosi, desse alle fiamme l'epistolario d'amore
Carlo-Enrichetta. Alla pretesa distruzione di opere di P. accenna
anche G. PISELLI ne La Rivendicazione, di Forlí, 12 luglio 1890,
prendendone lo spunto per un parallelo abbastanza ardito fra P. e
Dante! Quel che par certo si è che dei 4 voll. dei Saggi non
circolarono che ben poche copie; le altre, si dice, finirono al
macero in obbedienza agli scrupoli di timide coscienze
antisocialiste (La Rivendicazione, 27 agosto 1887). Corse anche,
avvalorata da Mazzini, la voce che gli editori dei Saggi si fossero
permessi di sopprimere, nel ms., notevoli passaggi giudicati troppo
audaci. Ma Mario Menghini, che ha in mano il ms. originale con tutte
le correzioni e le soppressioni introdotte dagli editori, mi
assicura che queste non riguardano che mende stilistiche o
ripetizioni di nessun conto. Il II Saggio, che è tutto di storia
militare, si apre con una pungente stroncatura del pacifismo. Non
che P. rifiuti di credere a un avvenire in cui la guerra verrà
considerata un'assurda pazzia, ma a lui par certo che la conquista
della pace definitiva non potrà esser portata che da una gran
guerra, lunga e terribile. D'altronde, egli osserva, la guerra è
forse ancora necessaria per rendere il mondo più giusto. «Finché in
Europa la decima parte degli abitanti vive... nell'opulenza, mentre
nove decimi vivono producendo nella miseria, parlare di pace
perpetua... è inutile ipocrisia». 150 CROCE, nella sua fondamentale
Storia della Storiografia, II, II, non riserva ai Saggi di P. che
una semplice menzione. Io non son portato davvero a esagerare i
meriti di P. storiografo, ma non posso non augurarmi che il C.,
successivamente, voglia dedicare al P. un esame più approfondito.
168 L'idea della nazione armata trovò allora, oltre P., parecchi
calorosi sostenitori. Tra gli altri il gen. ALLEMANDI (Il soldato
cittadino, 1850; e Del sistema militare svizzero applicabile al
popolo italiano, 1850) e il D'AYALA (Degli eserciti nazionali,
1850). — Sul valore di P. quale storico e teorico militare si veda
quel che dice un competente, il VAIRO, art. cit. Secondo il quale P.
fu «un avvenirista ardito e dotto, e tale da porlo all'avanguardia
di tutti i moderni sostenitori delle milizie cittadine». Il Saggio
IV «come concezione, indirizzo e metodo, appare assai più fresco di
tanti scritti dovuti ad autori a noi contemporanei». «Il giorno in
cui vorremo dare alle nostre istituzioni militari forma e sapore
nazionale, forse potremo trarre qualche cosa di assai utile da
questo libro».
169 Da buon socialista, P. non ha che parole di sdegno e di
irrisione per il liberismo dottrina economica, e il liberalismo
dottrina politica. La libertà fu comunque la vera e unica religione
di P.; intorno ad essa, il suo concetto, i suoi limiti, la sua
conquista ecc. egli scrisse pagine davvero non periture: quelle
pagine appunto che conferiscono ancora oggi alla sua opera tanta
freschezza e tanta attualità. «Rinunziare alla propria libertà per
accrescere quella della patria, è lo stesso che mutilarla, per
renderla intera; è un assurdo», scrive nel III Saggio, 155. E
altrove (I, 35): «Non è già nel modo di concedere il suffragio e
nella universalità di esso che consiste la libertà; ma bensì nelle
istituzioni volte a limitare l'autorità». E ancora: «Agli Italiani è
mestieri di educarsi a libertà... la libertà non può apprendersi...
Per educarsi a libertà bisogna vivere, per quanto possiamo,
liberamente; in tal guisa ognuno, educando se medesimo, educa tutti,
e tutti compiono l'educazione di ognuno» (III, 155). E finalmente
(III, 140): «Non parliamo di coloro che sotto il despotismo
pretendono che il popolo si educhi a libertà per poi esserne degno;
tanto vale dire ad un uomo legato: prima di scioglierti è d'uopo che
impari a correre». «Il secolo XIX — scrive P. (III, 101) — sarà
famoso nei fasti dell'umanità... perché in tal epoca il socialismo,
d'aspirazione fattosi sentimento, ebbe partito, ed avrà attuazione».
170 Pur negando la necessità teorica e pratica di un governo
centrale, P. ammetteva che nella società riformata socialisticamente
si sarebbe dovuto organizzare una specie di consiglio nazionale,
revocabile e sindacabile, cui devolvere la trattazione degli affari
comuni. Il socialismo autoritario di P., si è detto, è in piena
contraddizione col di lui innato, prepotente individualismo
libertario. Si veda ad es. con quanta foga P. si scagli contro
l'opinione volgare secondo cui sarebbe da ritenersi disgrazia che
«l'energia arricchisca l'Italia di tanti diversi concetti per quanti
uomini pensanti essa conta» (III, 116).
171 «Sono umanitario — scrive P. (III, 186) —; ma innanzi tutto
italiano, e come in una nazione non può costituirsi il nuovo patto
fra i cittadini, se ognuno di essi non acquisti piena ed intera la
sua individualità, così non vi sarà fratellanza, o meglio
associazione di popoli, se prima ogni popolo non ottenga la sua
completa autonomia; e come è impossibile sorgere a libertà prima che
ognuno senta ed operi liberamente, del pari il primo passo che
dobbiamo fare noi Italiani... è quello di sentirci e di costituirci
esclusivamente Italiani». Scriveva molti anni or sono PAOLO ORANO (I
patriarchi, cit., 136): «Importa poco a noi... che le
sgrammaticature socialiste di P. non abbiano trovato il loro
posto... nei manuali ufficiali del bel regno. Dinanzi al socialismo
contemporaneo, dinanzi a noi, per quelle sgrammaticature — e non per
il tragico gesto di Sapri — il buon senso italiano è salvo e P. non
muore».
172 Il mio esame dei Saggi essendo forzatamente sommario, non tutto
quel che converrebbe in essi sottolineare ho potuto mettere nel
debito rilievo. Assai importanti sono, per citare un es., certi
passi nei quali P. si dichiara in favore del federalismo più
avanzato (I, 101). P. socialista ebbe ben poca influenza sul
successivo sviluppo del movimento in Italia, se non altro perché i
suoi scritti restaron sconosciuti, o quasi, per più e più anni dopo
la sua morte. Ma si deve ciò non per tanto rilevare che Fanelli, suo
principale collaboratore nella impresa di Sapri, si dimostrò poi
socialista convinto e attivissimo, ed è lecito supporre che fosse il
P. o a convertirlo o a radicarlo in quella sua fede. Bakunin, giunto
in Italia nel 1864 con le idee non ancora ben ferme in merito alla
questione sociale, attinse, pare, assai largamente dalle opere di P.
segnalategli appunto dal Fanelli (DOMANICO, op. cit., XXIV). Le
analogie fra il pensiero del rivoluzionario russo e quello del suo
predecessore napoletano son certo assai cospicue. Anche Carlo
Cafiero, il notissimo agitatore pugliese, studiò profondamente i
Saggi pisacaniani «Eureka! ho trovato gli scritti di Pisacane»,
avrebbe egli esclamato quando, ultimato il suo compendio del
Capitale di MARX, poté constatare che alcune delle idee di Marx eran
state anticipate dal dimenticato martire di Sapri (FABBRI, op. cit.,
14); tanto che se la pazzia non l'avesse colto, ci viene assicurato
che C. avrebbe dedicato uno studio completo alle «idee
rivoluzionarie, razionaliste, socialiste e libertarie di C. P.».
173 Critico severo del révirement pisacaniano, seppur sempre amico
devoto, si mostrò il Macchi, ad es. (op. cit., 34-39). Quanto ai
moventi della determinazione di P. di capitanare l'audacissima
impresa, il M. misteriosamente insinuava: «Tempo non è ancora di
rimuovere dinanzi al Pubblico il velo dell'infausto mistero».
174 Assai pessimista sulle conseguenze sociali e politiche della
propaganda cattolica, P. — è chiaro — rimprovera nei suoi Saggi agli
italiani d'essersene lasciati «rammollire» e fiaccare, troppo proni
a codesto ideale di rinunzia e 151 di rassegnazione. Tanto che in un
passo quasi nascosto del IV Saggio egli si lascia sfuggire la
disperata definizione degli italiani: «un popolo avvezzo a servitú,
che tende sempre a crearsi nuovi padroni» (153).
Capitolo IX
175 Scriveva l'Ambasciatore napoletano a Londra al suo Ministro
degli Esteri, 10 febbraio 1852: «Mazzini nel chiarirsi ostile a tali
progetti (quelli murattiani), li fomenta sotto mano... Quello
ch'egli se ne ripromette è aprir la via a disordini, a convulsioni
nel nostro Reame, qualunque si fossero, per trarne profitto ai suoi
chimerici sogni»... (GAVOTTI, 48). Da molti rivoluzionari si
rimproverava a Mazzini il disinteresse per la questione napoletana.
Mazzini protestava contro l'ingiusta accusa, pur ammettendo che, dal
'49 in poi, «Napoli — e fu grave danno — si raggruppò in sé, si
riconcentrò, temo, soverchiamente nei suoi dolori, e fu troppo poca
la comunione che tenne con noi tutti quanti siamo figli delle altre
province» (a Fabrizi, 15 agosto 1854).
176 Sugli appoggi ottenuti da L. Murat dalla Massoneria, cfr. LUZIO,
La Massoneria nel Ris. Ital., Bologna, 1925, I, 253, 255. Già nel
gennaio '50 Mazzini dava la sveglia contro il pericolo murattista (a
Fabrizi). — Il 12 febbraio dello stesso anno Il Risorgimento
pubblicava una protesta di emigrati napoletani stabiliti in Piemonte
contro una insinuazione, stampata dal National, su pretese loro
pratiche in pro di Murat.
177 Sulle gite di Pepe a Genova, cfr. GAVOTTI, 66; CHIALA, Lettere
di Cavour, II, 480. — Quanto a Cosenz, egli era così contrario a
Murat che — scriveva il Console napoletano in Genova al Ministro
degli Esteri in Napoli — tanto lui che il Musto avean dichiarato che
«in caso d'invasione del regno da parte della Francia... avrebbero
rimesso sul loro petto il giglio dei Borboni e si sarebbero battuti
contro i Francesi». GAVOTTI, 61.
178 Nel settembre '55 usciva a Parigi La question italienne, Murat
et les Bourbons, di SALICETI; l'emigrato napoletano F. TRINCHERA
stampava a Torino nello stesso anno La quistione napoletana.
Ferdinando Borbone e Luciano Murat (entrambi murattisti). Rispondeva
DE SANCTIS nel Diritto, n. 237, e l'anno di poi LA FARINA, con Murat
e l'unione italiana. Replicavano i murattisti con L'unità italiana e
L. Murat re di Napoli (Torino, 1856). Sul Times scriveva Murat il 24
settembre 1855: «Dichiari il Piemonte di inalberare la bandiera
della indipendenza e libertà d'Italia ed io mi obbligo non solo a
non preparare ostacoli, ma anche a dargli tutto il mio aiuto»...
Vennero tentati, dai murattisti, perfino gli ergastolani politici di
S. Stefano, di Montesarchio ecc. Ma le risposte che n'ebbero
dovettero far arrossire gl'incauti proponenti almeno quanto
c'inorgogliscono, oggi. Ed eran risposte che volevan dire: alla
libertà per mano vostra preferiamo ancora la galera! (MAZZIOTTI,
350; SETTEMBRINI, Epistolario; PANIZZI, Lettere). Del MONTANELLI si
veda Il partito nazionale italiano, Torino, 1856. — Anche SIRTORI
(La questione napoletana. Metodo di soluzione), con l'isolare il
problema napoletano da quello generale italiano, spianava in pratica
il terreno a Murat. Cavour, è un fatto, dava a credere di non veder
quelle trame troppo di mal occhio. Il 10 aprile 1856, infatti,
nell'informare Rattazzi di un colloquio che avrebbe prossimamente
avuto con Clarendon, Ministro degli Esteri inglese, gli diceva
testualmente: «Credo potergli parlare di gettare in aria il Bomba.
Che direbbe di mandare a Napoli il Principe di Carignano? O se a
Napoli volessero Murat di mandarlo a Palermo?» Il 16 settembre '55
La Farina assicurava il Torrearsa, e il 31 ottobre il Ricciardi, che
si era alla vigilia di una restaurazione murattista. «Ritenete
queste mie parole non come notizie di giornali e come supposizioni,
ma come un fatto positivo, stava quasi per dire un fatto compiuto».
(La Farina, si sa, aveva le sue entrate in Piazza Castello).
Pallavicino, a séguito di colloqui avuti coi ministri sardi,
confermava (7 agosto '56): «Il governo piemontese non favorisce i...
murattisti, ma non li avversa». Gli è che Cavour non si credeva né
in diritto, né in grado di opporsi a una rivoluzione napoletana in
favore di Murat. La sua politica fu quella di non avversare le
ambizioni francesi, ma piuttosto di suscitare contro di esse le
gelosie inglesi. A Corti, Incaricato a Londra, 5 settembre '56:
informi Clarendon che il partito murattista guadagna giornalmente
terreno e «qu'il agit désormais à découvert, ce qui ferait supposer
un appui formel de la part de la France. En présence de tels faits,
nous nous trouvons placés dans une situation extrémement pénible. Il
est évident que nous ne pouvons nous disposer à combattre Murat...
surtout si nous ignorons l'opinion... du cabinet Britannique sur
cette question». Allo stesso, 17 settembre: «vous aurez soin... de
vous montrer très préoccupé des efforts de ce parti. Vous tâcherez
de... faire comprendre que l'inertie de l'Angleterre fait sa force;
et que son succès est à peu près certain si le cabinet britannique,
après avoir ténu un langage hautain et provocateur envers Bomba,
s'absténait d'exercer une pression efficace à son égard» (CHIALA,
II, 390, 395). Cavour batteva, così facendo, la via giusta. Anche
Ruggero Settimo, per minare la propaganda murattista, scriveva a
Palmerston (AVARNA, Ruggero Settimo, Bari, 1928, 225).
179 Il giorno appresso altri dieci emigrati aggiungevano le loro
firme alla protesta antimurattista (tra gli altri, cospicui, i nomi
di De Sanctis, Nicotera, La Cecilia, Plutino).
180 Le finalità del Centro politico obbedivano a quell'imperativo
d'azione che allora era universalmente sentito. Anche Silvio
Spaventa, tutt'altro che un esaltato, scriveva allora: «il punto che
più importa è di operare» (CROCE, 217). E, non molti mesi dopo, il
Guerrazzi, pur nemico acerrimo dei mazziniani «La Italia ha bisogno
di ferocissimi che sappiano morire ed uccidere; se questi non
sorgono..., allora bisogna che aspetti salute da una invasione di
barbari che le rinnovino il sangue» (Lettere, Livorno, 1880, II,
321; 6 giugno '57). 152
181 È Musolino stesso, che in una lettera a Ricciardi, 11 luglio
'57, parla della sua gita a Londra.
182 L'asserzione di La Farina in lettera a Settimo, 13 maggio '56
(AVARNA, 220).
183 Sul Centro politico cfr. Pallavicino a Manin, 26 giugno '56
(MAINERI, Manin e Pallavicino. Milano, 1877).
184 «So che si vorrebbe fare insorgere Napoli senza la parola
d'ordine: Vitt. Eman. re d'Italia — scriveva ancora Pallavicino a
Manin, il 17 giugno '56 —; queste pratiche sono evidentemente un
maneggio mazziniano; ho quindi ricusato di prendervi parte».
185 Altri membri del Comitato di Napoli (Capitale e provincie); V.
Padula, i fratelli Magnone, G. Matina, G. B. Matera, i fratelli
Albini, F. e G. Salomone, G. Lazzaro, P. Lacava, S. Verratti, G.
Libertini, L. Fittipaldi ecc. (BILOTTI, 66).
186 Mignogna si era rifugiato a Genova; quivi raddoppiando,
naturalmente, di attività. Si dimostrò collaboratore prezioso di P.
nella preparazione dell'impresa di Sapri.
187 Dopo aver combattuto in Lombardia nel '48, Fanelli si era unito
alla compagnia Medici con la quale aveva raggiunto, l'anno di poi,
Roma. Quivi combatté al Vascello e venne promosso ufficiale. Caduta
la repubblica, emigrò dapprima in Corsica, indi a Malta; e
finalmente fece ritorno a Napoli. Su di lui v. anche
PUPINO-CARBONELLI, 126.
188 Sulla progettata spedizione per liberare gli ergastolani cfr.
CAPASSO, I tentativi per far evadere L. Settembrini dall'ergastolo
di S. Stefano, in Il Risorgimento italiano, 1908, 22-65; e MARIO,
Birth, 255-56. — Settembrini si trovava a S. Stefano dal 1850; così
l'Agresti. Silvio Spaventa, invece, dal 1852.
189 Il progetto Panizzi non divenne realizzabile che nel '55, in
seguito a fortunati spostamenti di cella dei detenuti politici (cfr.
anche CROCE, Dal 48 al 61, Bari, Laterza, 1911, 200 sg.). Il 14
giugno 1855 Pilo informava Fabrizi aver Pisacane aderito con
entusiasmo all'«affare che Garibaldi dovrebbe capitanare» (v. anche
MARIO, Bertani, I, 222).
190 La polizia borbonica si era avveduta per tempo di questa
attività extra diplomatica del ministro Temple; anzi re Ferdinando
in persona aveva ordinato si «mettessero guardie presso l'abitazione
del T. per notare quei che con la legazione inglese avessero
rapporti» (NISCO, 336). Per altre fonti ci sono note le simpatie del
T. per la causa liberale e i suoi generosi contatti con le famiglie
dei condannati politici. Quanto al suo tollerare che la
corrispondenza settaria da e per Napoli godesse della franchigia e
della immunità diplomatica, ogni dubbio si elimina esaminando i
documenti delle indagini ordinate al proposito dal Clarendon, nel
'57 (Record Office, Londra, F. O., 70 | 288, 290; e C. O., 158 |
184- 186). Il Console inglese a Napoli, Barbar, a Clarendon, 25 ott.
1857 (dispaccio in cifra): «Il sig. Fagan — ex attaché alla
legazione inglese di Napoli — asserisce... che sir W. Temple permise
a varie famiglie di Napoli di mandar lettere ai loro congiunti
rifugiati a Malta, e di riceverne, attraverso la missione inglese».
Lo stesso a sir Hammond, 10 ott. 1857: il commissionario della
legazione ammette che da circa sei anni sir Tempie riceveva al suo
nome corrispondenza da e per Genova e Malta, da e per quel tale
Dragone ex membro del Comitato segreto di Napoli! Morto il Temple, e
poi interrottesi le relazioni diplomatiche fra le due Sicilie e
l'Inghilterra, s'incaricò di trasmettere la corrispondenza settaria
il consolato inglese di Napoli. Scriveva infatti il Governatore di
Malta al Ministro delle Colonie, 26 giugno 1858 (confidenziale): Son
venuto a sapere che «for some time» il segretario capo del
governatorato ha accettato dai rifugiati politici napoletani le loro
lettere, le quali, suggellate come corrispondenza ufficiale e chiuse
nel «Government bag» venivan trasmesse al consolato a Napoli. Ho
ordinato la cessazione immediata di tale pratica. — Il Ministro
delle Colonie ritenne suo obbligo in tale emergenza di chieder
spiegazioni all'ex segretario del Governatorato maltese; questi si
giustificava (in data 4 luglio 1858) ammettendo che il privilegio
della corrispondenza in tal modo sottratta alla censura napoletana
era stato concesso soltanto a tre o quattro persone ben note da
molti anni al Governatorato; e s'intende che le lettere loro eran
«di natura strettamente privata». Al Ministro non restò che
esprimere la speranza «che questa pratica si smettesse in avvenire»,
essendo inammissibile «che il governo inglese si facesse lo agente
di una corrispondenza clandestina a danno di Stati amici» (6 luglio
1858).
191 Che la prima idea della spedizione fosse partita da Napoli
attestano innumerevoli fonti e conferma Mazzini (La situazione, nel
vol. IX dei suoi Scritti, ed. Daelli, 292) «a rimprovero di chi
doveva far altro, e non fece». Evidentemente da Napoli si era
informato Mazzini (il quale trasmetteva la notizia al Mordini, 17
agosto 1856) che in quella capitale «con centomila franchi si compra
l'azione di un nucleo militare, intorno al quale si raggrupperebbero
i nostri elementi».
192 Di questi «confinati», si parlava spesso nella stampa liberale
europea nei termini della più grande commiserazione. Si veda ad es.
la notizia stampata dalla Concordia, di Torino, il 17 ott. 1850,
delle battiture inflitte a quelli di Ponza, rei d'aver gridato un
evviva alla Costituzione: «È noto che questi sono coloro i quali
valorosamente combatterono in Venezia, e che gli Austriaci
consegnarono nelle mani del Borbone. Uno di questi infelici spirò
non ha guari in conseguenza delle sofferte battiture». — A uno
stampato clandestino da essi dedicato ai deportati nelle isole e
diffuso nel Mezzogiorno (1857) accennano ripetutamente nella loro
corrispondenza P. e Pilo. Nei primi mesi del '57 vennero relegati a
Ponza anche i supposti complici di Agesilao Milano (CADOLINI, 272).
193 Leggendo i Ricordi di Mazzini su P. («Esaminata la proposta, P.
l'approvò, e me ne scrisse, sollecitandomi, s'io pure approvassi, a
recarmi ov'esso era. Esaminai, approvai..., mi affrettai a recarmi a
Genova... La spedizione in Ponza doveva aver luogo il 10
giugno...»), si potrebbe dedurre che Mazzini fosse stato informato
del progetto solo nel 1857 (ché qui egli allude evidentemente alla
sua seconda gita a Genova, compiuta appunto in quell'anno). Ma
nessun 153 dubbio è possibile: l'intero epistolario di Mazzini nella
seconda metà del '56 smentisce appieno l'ipotesi. Bisogna tener
presente che i Ricordi furon vergati da Mazzini nel '58, quando egli
aveva ancora delle buone ragioni per non parlare del suo viaggio in
Italia del '56. Il soggiorno di Mazzini a Genova si prolungò da
giugno a novembre 1856. Come sfuggí alle ricerche della polizia?
Questa sapeva benissimo dove il temuto cospiratore si trovasse (Pilo
a Fabrizi, 29 luglio: «Il Governo ha saputo l'esistenza di Pippo in
questa, e lo ha ricercato, ma non è riuscito né riuscirà a sapere
dove si trova domiciliato»; Mazzini allo stesso, 16 settembre: «Il
Governo sa benissimo ch'io son nello Stato. E non me ne importa»).
Sta bene che Mazzini rimaneva solo e celato tutto il giorno,
ricevendo gli amici o recandosi a colloqui soltanto di notte; sta
bene che egli mutava frequentemente d'alloggio. Ma bisogna per forza
ammettere che le ricerche della polizia non fossero troppo zelanti
(non vide egli perfino la sua sorella?)! Nel settembre '56 Emilia
Hawkes fu a Genova per qualche giorno; vide naturalmente Mazzini,
vide molto i Pisacane con i quali rinsaldò l'antica amicizia
(MAZZINI, S.E.I., LVII, 79, 103).
194 Lo stato d'animo di Garibaldi verso Mazzini in quel periodo ci è
chiarito dall'atteggiamento dei suoi più fidi. Medici a Garibaldi,
26 sett.: «Come vedi siamo alla vigilia di vedere altra pazzia
mazziniana, la quale, riesca o no, finirà come le altre in modo
ridicolo... Quell'uomo rovina ogni cosa». Iddio ci liberi da quelle
«piattole» dei mazziniani, esclamava Pallavicino il 4 ottobre.
Garibaldi medesimo, c'informa Foresti, s'andava augurando allora
d'avere almeno una volta «sotto le unghie per Dio» quel guastafeste
del Mazzini! — Quanto a Bertani, Saffi assicura (Cenni ecc. a
proemio degli Scritti di Mazzini, ed. Daelli, IX, 130) che egli
«insistette indarno per tentare la prova con mezzi maggiori,
guardando alla liberazione de' prigionieri e del paese ad un tempo:
ma non se ne fece altro»; e anche la MARIO (Bertani, I, 222) dice
che nell'agosto '56 il B. avrebbe informato il Panizzi «di altri
progetti a cui egli teneva mano, sollecitandolo ad ottenergli dagli
amici inglesi il permesso di unire il danaro loro a quanto si poteva
raccogliere in Italia per tentare la liberazione di tutti i
prigionieri, poi tentare la rivoluzione nel Regno».
195 In un primo tempo (Pisacane a Fanelli, 16 febbr. 1857) Mazzini
insisteva perché la spedizione venisse preceduta dalle insurrezioni
di Genova e Livorno «per poi correre con una parte dei mezzi al
Sud». Ma P. e Fanelli riuscirono a persuaderlo dell'opportunità di
rovesciare il piano, per non subordinare la spedizione al dubbio
successo delle sommosse e comprometterne l'esito con la «sveglia»
che queste avrebbero dato al governo napoletano (DE MONTE, XXXV).
Come è noto, Mazzini si giovò (o sperava giovarsi) per
l'insurrezione di Genova del vivissimo malcontento ivi regnante in
seguito al trasferimento dell'arsenale alla Spezia e all'aumento del
dazio sui generi di prima necessità. «V'era per me un problema
militare e un problema politico da sciogliere — spiegò più tardi
Mazzini —; il primo dovea sciogliersi in Napoli, il secondo in
Piemonte. Bisognava e bisognerà sempre avere una base
all'insurrezione nazionale; e bisognava e bisognerà sempre impedire
alla monarchia di Piemonte di prendere la direzione del moto e
tradirlo. Quindi il moto di Genova» (a Medici e Bertani, 27 nov.
'57).
196 Una lettera di Mazzini a Mordini, 1° agosto '56 («Dí a Pisacane
che va aumentando il materiale in modo da imprendere non solamente
sorprese, ma attacchi») sembra alludere a un viaggio di P. a Nizza
in quel tempo: ché Mordini risulta, dall'indirizzo della lettera,
residente appunto a Nizza in quei giorni. La cosa è possibile, per
quanto strano sia che non ci consti anche da altre fonti; o forse
l'indirizzo (scritto da Mazzini? o aggiunto, per chiarezza, dagli
editori della lettera?) è sbagliato. Ma quel che escludo senz'altro
è che P., nell'agosto, si recasse a Malta per conferir col Fabrizi,
come sostiene il Menghini semplicemente perché, in una sua a
Fabrizi, del 19 agosto, Mazzini allude a un C. che si reca appunto
nell'isola. Menghini non ha dubbi nel risolvere C. in Carlo e Carlo
in Pisacane; io ne ho moltissimi. Di più: foss'anche Pisacane
costui, non potrebbe darsi che una gita progettata fosse poi andata
a monte (come andò, l'anno di poi, quella di Londra)? Un viaggio a
Malta non era una bazzecola allora, ed è impossibile ammettere che
P. l'abbia compiuto senza lasciarne ricordo che in questo frettoloso
accenno di Mazzini. Durante il suo soggiorno a Genova Mazzini lanciò
la famosa sottoscrizione per i 10.000 fucili. Nella decima lista di
sottoscrittori — pubblicata dall'Italia e Popolo, 21 nov. 1856 —
figuran tra gli altri i nomi di P., Cosenz, Bertani ecc. Un primo
malinteso fra Mazzini e Cosenz (primo d'una lunga serie) s'ebbe fin
dal settembre '56 (MAZZINI, S.E.I., LVII, 107).
197 La Legione anglo-italiana era, si sa, un corpo di volontari che
l'Inghilterra aveva reclutato in Piemonte nella seconda metà del '55
per la guerra d'Oriente. Fra gli emigrati più poveri, molti eran
stati quelli che vi s'erano arruolati; ma i più, e i migliori (P.
fra quelli), contrari a che forze italiane si allontanassero da un
possibile teatro di guerra nostrano, non solo avean rifiutato di
assumervi grado e stipendio, ma s'eran dati a contrastarne il
reclutamento. Senonché era sorta nel frattempo in taluni l'idea di
profittare della traversata che la legione avrebbe dovuto compiere
da Genova a Malta per forzar l'equipaggio a sbarcarla in qualche
punto della costa italiana, a dar fuoco alle polveri. Ma la partenza
venne ritardata fino al marzo '56 (a guerra finita!) ed eseguita a
scaglioni. Nel giugno, disciolta la legione in Malta, 700 uomini
vennero diretti in Inghilterra: fu per l'appunto durante la
traversata che il luogotenente Angherà, siciliano, vanamente e a suo
danno incitò i compagni ad eseguire il progetto, sbarcando in
Sicilia. (RAULICH, Giudizi di un esule, 462). Pisacane era stato
informato del progetto dal Musolino, il quale accerta che P., mutata
opinione, «non solo si fece ad incoraggiare il reclutamento
anglo-italiano, ma dié opera a guadagnare ufiziali» (a Ricciardi, 11
luglio 1857). Nel che è assai probabilmente qualche esagerazione:
non s'intenderebbe infatti perché mai P. non avrebbe cominciato,
more solito, col dar l'esempio agli altri, arruolandosi per primo
nella Legione. 154 L'Angherà, scampato al carcere della Vicaria di
Napoli, era riparato (nel '50) a Genova, indi a Torino e Malta. P.
lo conosceva di certo; nella Libera Parola, n. 6, sett. '56, il suo
gesto sfortunato veniva ampiamente elogiato. Su di esso e sulle
insistenze di Mazzini perché lo sbarco dei legionari si eseguisse in
Toscana, v. Mazzini a Fabrizi, 12 agosto '56.
198 Le insistenze di P. verso Bertani si spiegan non solo con la
vivissima stima che egli nutriva per lui; ma anche col fatto che in
mano a B. erano i fondi destinati alla liberazione degli
ergastolani... Panizzi scrisse decisamente al B. essere escluso di
poterli utilizzare per altre e diverse imprese (MARIO, Bertani, I,
223).
199 La lettera a Bertani (di mano di P., ma firmata anche da Pilo)
in MARIO, Bertani, I, 225-226. In essa era detto: «Il battello c'è».
Si alludeva probabilmente al Ligure, piccolo piroscafo, che i
fratelli Orlando avevano messo in un primo tempo a disposizione
dell'impresa, da essi più tardi sconsigliata. Il Ligure era affidato
al Kirckiner «il quale, intimo di P., alloggiava con lui» (ITALICO,
106. Sul K. cfr. anche PAOLUCCI, 212). Bertani, pur contrario alla
spedizione e soprattutto al proposto moto di Genova, non escludeva
che Garibaldi, se interpellato all'ultimo, alla vigilia della
esecuzione, avrebbe finito coll'accettare di farne parte (MARIO,
Bertani, I, 42).
200 Sulla popolarità di Garibaldi scriveva Mazzini (fonte non
sospetta...): «Il nome di G. è onnipotente tra i Napoletani, dopo
l'affare romano di Velletri. Voglio mandarlo in Sicilia, dove sono
maturi per l'insurrezione e lo invocano come condottiero» (a Taylor,
16 febbr. 1854).
201 Musolino (a Ricciardi, 11 luglio 1857) accerta che nel '56 P.
«conveniva completamente su queste mie vedute » (sulla necessità
cioè di non dar corso alla spedizione se non nel caso che si fossero
raccolti mezzi imponenti).
202 Anche Cadolini collaborava alla Libera Parola; ed è lui che
attesta (Mem., 213) che P. fu il direttore del giornaletto. — Copie
della Libera Parola (divenute rarissime) si trovano oggi negli
archivi Cadolini e Mordini, nonché nella Biblioteca Nazionale di
Firenze (legate insieme all'Italia e Popolo). — Sulla diffusione
della L. P. in Lombardia, molti documenti si trovano appunto
nell'Archivio Cadolini (Museo del Risorgimento, Milano): agente per
la diffusione era Ernesto Cairoli; per la diffusione nell'Italia
meridionale e centrale, oltre alle notizie contenute
nell'Epistolario di Mazzini, in DE MONTE, in PALAMENGHI CRISPI,
varie notizie si trovano in una lettera di Pilo a Fabrizi, 17 febbr.
'57, che si conserva nell'Archivio garibaldino del Museo del
Risorgimento in Milano, cartella 792. — Stampata dapprima in una
tipografia regolare, la L. P. dovette poi tirarsi alla meglio in un
locale offerto dagli Orlando nella loro officina. — La crisi finale
della L. P. coincise con quella dell'Italia e Popolo che, per
contrasti col tipografo Moretti, dové cessare le pubblicazioni, per
riprenderle poi, indipendente, con il titolo leggermente modificato
di Italia del Popolo. — Della L. P. uscirono in tutto, pare, 12
numeri (9 maggio '57, P. a Cadolini: «La L. P. è morta poi
resuscitata, e poi credo, sotterrata per sempre»).
203 Le citazioni della L. P. riprodotte nel testo son ricavate in
ispecie dai primi 6 numeri. Di articoli contro Murat ne comparvero
parecchi nella L. P.; quello Murat e i Borboni era di P. (come
l'altro su A. Milano). Fin dal 1° numero si leggeva in proposito:
«Alla rivoluzione dunque intenda tutta la operosità dei patriotti
delle Due Sicile. Solo in caso di invasione straniera soprasiedano;
concorrano anzi a respingerla. Conseguita la vittoria ripiglino
l'impresa contro la tirannide domestica».
204 Pisacane, Mazzini, Fanelli, Fabrizi seguivano con intenso
interesse lo svolgersi della politica generale europea, attenti
soprattutto alla Francia e all'Inghilterra. Il loro carteggio
formicola di notizie, di induzioni, di profezie più o meno azzeccate
sull'azione di Palmerston, di Clarendon, di Napoleone III ecc.
Cercavano di regolare i loro movimenti in conformità: il minimo
accenno a crisi europea li riempiva di speranze. Sulla fine del '56,
ad es., si ebbe un ennesimo riacutizzarsi della questione svizzera
(tensione fra l'Austria e la Svizzera). P., il 1° gennaio '57,
scrisse all'amico Cosenz che, caso mai si arrivasse a guerra
austro-svizzera, egli si sentiva di andare a combattere contro
l'Austria con una legione italiana, a meno che «tutti facessero
proponimento di farsi ammazzare individualmente, anche senza
legione, per la povera Italia» (FALCO, 265).
205 A proposito degli armamenti di Murat, correva voce allora che
egli avrebbe potuto disporre della disciolta legione
polacco-ungherese e che avrebbe organizzato altresì una legione
franco-italiana. — Per combatter Murat i mazziniani ricorrevano a
tutti i mezzi (P. a Fabrizi, 11 marzo '57: «Cercheremo di stampare
un proclama murattista, facendo la caricatura di quello che ci han
spedito»).
206 Sono arcinote le simpatie che, dal 1811 in poi, la Sicilia
antiborbonica nutrí per l'Inghilterra; ed è anche noto che, in fondo
a ogni insurrezione antiborbonica in Sicilia, il governo napoletano
credé poter ravvisare la segreta influenza della politica inglese.
Il moto del Bentivegna non andò esente da tale sospetto, tanto più
che, essendo interrotti i rapporti diplomatici con l'Inghilterra, le
crociere navali inglesi intorno alla Sicilia, compiute all'incirca
in quel tempo, non parevano a Napoli potersi spiegare senza
reconditi motivi. Interessante a questo proposito una lettera di G.
Bonomo, marchese di Castania, a lord Clarendon, da Londra, 27
febbraio 1857. Il B. sollecitava un passaporto per Genova, ma si
diffondeva a ragionare delle «calde simpatie ormai sempre sentite
dai Siciliani per la nazione Inglese», assicurando che proprio esse
avevan dato luogo «in novembre 1856 a diverse vicende in taluni
punti della Sicilia, ed in particolar modo vicino a Palermo»,
vicende cui egli stesso aveva preso parte. (Record Office, F. O., 70
| 292). — Il governo napoletano, per parte sua, favorí in quel
tempo, specialmente in Sicilia, la diffusione di un opuscolo
stampato a Genova che accusava di perfidia e di riposte mire la
politica inglese nel Mediterraneo. Ne davan notizia, concordemente,
il Console inglese a Palermo (Goodwin) a lord Clarendon, 3 gennaio
'57; e il comandante la corvetta Wanderer all'ammiCarlo Pisacane nel
Risorgimento italiano Nello Rosselli 155 ragliato in Malta, da
Malta, 9 marzo '57 (Ivi, 70 | 291, 292). Si trattava probabilmente
dell'opuscolo Situation politique de l'Angleterre et sa conduite
machiavélique à l'égard des puissances éuropéennes et en particulier
de la France (Gènes, 1856). Che i sospetti napoletani avessero,
allora, qualche fondamento dimostra assai chiaramente un passo del
dispaccio 13 gennaio '57 del suddetto Console Goodwin al Clarendon,
nel quale egli prendeva atto della «approvazione » trasmessagli dal
Clarendon «per non avere incoraggiato l'ultima rivolta in
quest'isola!» (Ivi, 70 | 291). Dalla medesima fonte apprendeva il
Clarendon che il governo napoletano più di una volta aveva segnalato
alle dipendenti autorità in Sicilia il presunto arrivo di
viaggiatori inglesi, incaricati di recar denaro e messaggi da parte
di Mazzini ai rivoluzionari isolani (Ivi, dispacci 24 gennaio, 4
febbraio 1857).
207 Della riunione di Genova dette notizia il VISALLI, De Lieto, 38
sg.
208 Al lavoro compiuto in comune in questo periodo si riferisce
probabilmente la letterina di P. al De Lieto, da Genova 7 febbraio
'57 (con la quale gli fissava un appuntamento), che si conserva a
Roma nel Museo d. Risorgimento. (Mss., Busta 175, n. 14).
209 La Libera Parola dedicò quasi un intero numero al resoconto del
processo Bentivegna (P. a Fabrizi, 3 marzo 1857).
210 La stampa napoletana esaltò, in occasione dell'attentato, il
sangue freddo dimostrato dal re; né sembra che avesse torto. Ma
d'altra opinione era il Console inglese a Napoli, che nei suoi
dispacci lo dipingeva come un codardo. «Si è tentato di fare del re
un eroe — scriveva egli l'11 gennaio al suo Ministro degli Esteri —.
Ma la verità è ben diversa. L'attentato del soldato Milano fu così
improvviso e fallí così immediatamente, che il re non ebbe il tempo
di spaventarsi; e come può chiamarsi un eroe, quando vediamo gente
innocua arrestata nei caffè, un gran ballo rinviato sine-die, i
teatri chiusi, l'illuminazione a gas sospesa», tutto ciò per ordine
suo? (Record Off., F. O., 70 | 289).
211 Le ultime parole di A. Milano in DE CESARE, III, 65.
212 Falcone era stato compagno di Milano in collegio; si rividero
poi a Napoli, dove ebbero frequenti riunioni politiche. Assai
drammatica fu la fuga di Falcone da Napoli a Malta (DE CESARE, I,
204-207, 212 sg.).
213 Sulla Libera Parola e poi su L'Italia e Popolo, 11 gennaio '57,
comparve un infiammato art. di esaltazione di Agesilao Milano
rivelante, s'è detto, la penna di P. Stupiva, il Gropello, della
freddezza dimostrata dal popolo napoletano di fronte al re dopo
l'attentato (DE CESARE, III, 57). Abbondarono in Piemonte le
pubblicazioni di carmi apologetici di Agesilao Milano (che la
polizia fece mostra, in pochi casi, di sequestrare), furon coniate
medaglie in suo onore, gran voga ebbero i suoi ritratti. L'Italia e
Popolo, 19 gennaio '57, proclamava essere egli «il miglior figlio
d'Italia». Una settimana prima, a Torino, gli emigrati siciliani
avevano solennemente celebrato, in chiesa, un rito funebre in
suffragio di Bentivegna.
214 Sicuramente doloso era stato, pel Console inglese a Napoli, lo
scoppio del Carlo III. «Questa — egli scriveva al Clarendon il 6
gennaio '57 — è una situazione spaventosa, milord, che cagiona a
tutti molta paura e ansietà»; e suggeriva che, a rinforzo del
Malacca già ancorato a Napoli, vi s'inviasse altra nave da guerra, a
protezione dei residenti inglesi. Il qual desiderio, avallato dal
comandante il Malacca, venne prontamente soddisfatto, coll'invio, da
Malta, dell'Osprey. (Record Office, F. O., 70 | 289, 292).
215 La lettera del cap. Farguliar (com. il Malacca) all'ammiraglio
Stopford era del 14 gennaio '57. 216 Fu in occasione del processo
Spinuzza che il Console inglese a Palermo mandò al suo governo gli
atroci particolari sulla procedura giudiziaria borbonica, accludendo
fra l'altro il disegno di quella «cuffia del silenzio» che,
assicurava, era stata adoperata in istruttoria per estorcere
confessioni. Donde grida di indignazione della stampa inglese,
furiose smentite napoletane, risolute conferme del Console (rimaste,
queste, naturalmente sepolte negli archivi inglesi, ché non si volle
dir mai da che parte giungessero a Londra tali notizie). Record
Office, F. O., 70 | 291, disp. 14 marzo, 8, 14 aprile, 5 maggio '57.
217 Rapporto del com. la corvetta Wanderer al suo ammiraglio (da
Malta, 16 maggio '57) intorno al giro della Sicilia pur mo compiuto,
con fermate nei vari porti per aver dai Consoli notizie sulla
situazione. A Catania «circolava la voce che gran numero di
rifugiati in armi stavano per sbarcare in qualche punto della costa
in quei dintorni. Il governo, di conseguenza, sorvegliava
accuratamente l'intera costiera sudoccidentale». E il Console
inglese a Palermo (a Clarendon, 24 gennaio): il governo ha messo in
guardia le autorità locali contro un temuto sbarco di fuorusciti da
Genova e da Malta «sotto la vantata protezione di una forza
straniera». (Record Off., F. O., 70 | 291. 292).
218 Il governo borbonico — era logica difesa — s'appigliava alla
dimostrata futilità degli isolati tentativi rivoluzionari per
magnificare, in una circolare diretta ai suoi rappresentanti
all'estero (27 dicembre), la fondamentale tranquillità dello Stato e
l'attaccamento della popolazione alla dinastia regnante.
219 L'opera del DE MONTE, non sempre esattissima e comunque
incompleta, va integrata con gli scritti cit. di PALAMENGHI CRISPI.
220 La corrispondenza settaria si svolgeva, oltreché con la
complicità dei consolati inglesi, con l'aiuto di camerieri di bordo
dei vapori Genova-Napoli. Il sistema più usato per celare le lettere
era quello di cacciarle tra la fodera e la sottofodera di certe
spazzole, delle quali ci si serviva anche per scambiare la
corrispondenza in provincia (Resoconto, cit., 74; Fanelli a P., 29
maggio '57). Né solo a trasmettere lettere si prestavano questi
camerieri, né essi appartenevano solo a linee italiane. Difendendosi
infatti dall'accusa, insinuata dalla polizia napoletana, che il
Malacca avesse introdotto a Napoli armi e munizioni, il suo
comandante scriveva all'ammiraglio Stopford, da Palermo, 5 marzo
'57: «Il facente 156 funzione di Console inglese a Napoli mi ha
informato... che il cameriere di un vapore mercantile inglese è
stato arrestato mentre recava su di sé, nascoste, delle rivoltelle
che la polizia ha sequestrate». (Record Office, F. O., 70 | 292).
221 Mazzini a Fanelli, 21 nov. '56, a proposito della eventuale
costituzione, a rivoluzione avvenuta, di un governo insurrezionale;
«Non tocca a me proporvi nomi; soltanto vi dico che tra i vostri a
me noti da lungo Carlo Pisacane congiunge forse meglio d'ogni altro
al coraggio, al patriottismo, all'onestà il concetto strategico
della guerra nazionale. Se mai gli eventi mi portassero a
rappresentare nel governo d'insurrezione un'altra provincia italiana
che insorgerà, avrei in lui tutta fiducia».
222 Il 30 dic. '56 P. scrive a Fabrizi: «Ora, secondo me... è d'uopo
tentare anche a costo di essere schiacciati». La calma conservata da
P. in questo periodo è magnificamente documentata anche dalla lunga
e meticolosa recensione che, sull'Italia del Popolo del 7 marzo '57,
egli dedicava a uno scritto di VINCENZO ORSINI (Lettera di V. O.
all'anonimo autore delle Memorie storico-critiche della rivoluzione
avvenuta in Sicilia nel 1848). Come poteva, fra tanti e così gravi
pensieri, addentrarsi nell'esame critico delle operazioni condotte
dal governo e dall'esercito siciliani, nove anni innanzi? P. lodava
assaissimo l'amico Orsini (antico compagno della Nunziatella) per
quanto aveva compiuto in quel tempo, ritorcendo contro il La Farina
le accuse di debolezza e peggio da questi rivoltegli (lo lodava
altresì perché, «dopo aver sofferto, durante la rivoluzione, molte
amare delusioni, e dopo dieci anni di esilio, egli professa i
medesimi principii che allora professava, pregio grandissimo fra il
continuo altalenare delle opinioni, oggi divenuto costume»).
Tecnicamente e politicamente, l'articolo di P. era la logica
continuazione e dell'altro pubblicato sette anni innanzi su L'Italia
del Popolo, a Lugano, e della Guerra combattuta, laddove si occupava
della Sicilia. Ma quel che importava a P. (e forse la sola ragione
del suo scritto) si era la possibilità che tal recensione gli
offriva di battere a palle infuocate ancora una volta contro la tesi
lafariniana: la tesi secondo la quale la Sicilia non avrebbe avuto
salute che in una rivoluzione compiuta nel nome del re di Sardegna:
«È inutile dimostrare — egli scriveva — che il governo sardo non
vuole né può abbandonare la colleganza dei potentati d'Europa e
farsi il sostegno di una provincia in rivolta contro la legittimità
ed il diritto divino, che sono i principî su cui esso governo è
basato; questa verità è confermata dalla storia... Il governo sardo,
se avvi sollevazione nelle provincie italiane sue limitrofe
interverrà senza dubbio, ma interverrà per soffocare la rivoluzione,
o padroneggiandola come fece in Lombardia nel '48, o combattendola a
forza aperta, come tentò di fare in Toscana, e come fece a Genova, e
come fa sempre ogni qual volta un tentativo minaccia di turbare la
quiete in Italia, sperando così che le altre potenze lascino
ingrandire i suoi possedimenti, in grazia dei servizi prestati alla
causa dell'ordine. — L'11 aprile '57, nuovo scritto di P.
sull'Italia del Popolo, per prender atto di qualche rettifica che
Ignazio Calona aveva creduto di addurre alla narrazione militare di
Orsini, e quindi anche alla sua recensione (sul Calona, v. il
Dizionario del Risorgimento, cit.). Con questi due scritti si
concludeva l'attività giornalistica di P.
223 Una conferma tipica del disgraziato carattere di Fanelli si ebbe
assai più tardi, quando — legatosi egli nel '65 col rivoluzionario
russo Bakunin — venne da questi incaricato di un importante giro di
propaganda socialista in Ispagna. Le sue lettere di là sembrano
calcate su quelle napoletane: perpetuamente dominato da una volontà
più forte della sua, e nel contempo ribelle contro di essa, F. trovò
dapprima il suo tormento in P., di poi nel Bakunin. Vittima sempre!
(Sul viaggio in Ispagna, 1868, v. NETTLAU, 151).
224 Giusto è per altro osservare che alla radice di molti
ondeggiamenti di Fanelli stavano le informazioni contraddittorie che
gli pervenivano dalla provincia. Le lettere pubblicate da DE MONTE
son più che bastevoli a dimostrare che se Fanelli non era al suo
posto, ancor meno di lui lo erano i suoi immediati collaboratori.
Come conciliare ad es. le infiammate dichiarazioni di un Nicola
Albini, 6 marzo '57 («Siate certi che all'apparire degli ufficiali
insorgeranno pure le gatte»), o di suo fratello Giacinto, 7 marzo
(«... Si è pronti, prontissimi a insorgere... il fuoco è celato e
divamperà in modo sorprendente... »), col contegno tenuto poi alla
prova dei fatti dai nuclei rivoluzionari da essi controllati?
225 Nel febbraio il disegno preferito era quello di far partire 20
uomini armati su di un vapore salpante da Londra; nelle acque di
Pianosa esso avrebbe dovuto incontrarsi con una goletta proveniente
da Genova, con a bordo altri 15 uomini e carico d'armi; indi
proseguire per Ponza.
226 «Per la cooperazione io conto più sulla disposizione morale che
sugli accordi — aveva già scritto P. a Fanelli, il 16 marzo. — Tutto
ciò che mi verrà da voi sarà utilissimo, preziosissimo, ma il puro
necessario v'è». — Si tenga presente che P. partiva sempre dalla
premessa che il movimento nel napoletano non avrebbe dovuto essere
che un episodio, sia pure essenziale, di un sistema insurrezionale
pan-italiano. Genova e Livorno, si sa; ma anche si ricevevan grandi
promesse dalla Sicilia e dalla Toscana (Lunigiana segnatamente).
227 P. ordinava a Fanelli di trovarsi a Sapri; ma Fabrizi lo
consigliò invece di trattenersi fino all'ultimo a Napoli: chi altri
che lui avrebbe potuto infiammare la popolazione napoletana quando
fosse giunta notizia dell'avvenuto sbarco? (a F., 15 aprile).
228 Lo stesso 2 d'aprile Fanelli si sfoga in termini ancora più
pietosi col Fabrizi.
229 Ancora nel gennaio '57 Mazzini nutriva dei dubbi sulla
possibilità e l'utilità di agire nel sud: fu P. a travolgerli
(Mazzini a P., 26 gennaio: «Amico, intendetemi bene: darei il sangue
perché si facesse nel Sud, ma non voglio sprecare gli ultimi
elementi che posso mettere in moto sull'incerto»).
230 Mazzini rincarava la dose con Fanelli sei giorni appresso («Le
minorità non fanno rivoluzioni; le provocano: la minorità che
provocò le giornate di marzo in Milano, se avesse esatto, prima
della scintilla produttrice, cifra uguale all'impresa, non avrebbe
tentato mai»). 157
231 Offeso da tanti rimproveri, rispondeva il 20 maggio F.,
fieramente vantando gli elogi in altri tempi prodigatigli da Mazzini
come a uomo non certo indegno di assumere responsabilità.
232 Di P., nella lettera 24 maggio, Mazzini tracciava questo
magnifico elogio: «Migliore uomo non potreste avere ad ispiratore:
principio radicatissimo, assenza d'ambizione di potere, pericolosa
nell'avvenire, concetto strategico della Guerra d'Insurrezione,
energia nell'esecuzione. Troverete tutto in lui. Non posso
abbastanza raccomandarlo a voi e ai vostri».
233 Sullo stato d'animo dei «costituzionali» napoletani, coi quali
Fanelli allora si poneva in contatto, getta un fascio di luce il
dispaccio del Console inglese a Napoli a lord Clarendon, 23 aprile
'57, nel quale è il resoconto di un colloquio da lui avuto con uno
dei loro capi. Questi ha dichiarato che la popolazione aspira a un
governo costituzionale; che i fautori di Murat sono pochi, ma che se
questi riuscisse a sbalzare il Borbone, il partito costituzionale lo
appoggerebbe, pur di cambiare in meglio. I capi del movimento
costituzionale «guardavano da tempo all'Inghilterra, nella speranza
che qualche circostanza facesse trasparire le vedute del governo
inglese rispetto al regime che esso preferirebbe veder stabilito a
Napoli, e il partito desiderava quanto mai di regolare i propri
movimenti in modo da incontrare i disegni del governo inglese, al
quale naturalmente guardava come a governo costituzionale». Alle
quali dichiarazioni il Console ha evasivamente risposto,
trincerandosi dietro il carattere puramente commerciale (?!) della
sua missione e concludendo nel senso che «non poteva offrire la sua
opinione né incoraggiare o dissuadere il partito costituzionale
dall'aderire a qualsiasi movimento di tendenza rivoluzionaria» (Rec.
Off., F. O., 70 | 289). Il Clarendon, 30 aprile, sanzionava la
condotta del suo saggio dipendente (Ivi, 70 | 288). — Ma se i
rivoluzionari napoletani di tutte le sfumature cercavano contatti
col governo inglese, non da meno si mostrava il governo napoletano,
naturalmente in via non ufficiale. Il Bianchini, Direttore generale
di polizia, venuto un giorno a discorrer di politica col Barbar, lo
assicurava infatti che, quanto a lui, non risparmiava sforzi per
indurre il re a volgersi verso l'Inghilterra, l'unico paese della
cui amicizia ci si poteva fidare. L'Inghilterra si era lasciata
trascinare da quel «parvenu» di Napoleone III alla contesa con
Napoli, ma ormai cominciava ad accorgersi che la Francia perseguiva
esclusivamente i suoi propri interessi. L'Inghilterra non voleva
affatto la caduta dei Borbone, ma solo la supremazia nel
Mediterraneo; era dunque sperabile che accettasse le aperture che il
governo napoletano aveva di recente fatte a Londra. Il Barbar si
limitò ad ascoltare e a prendere atto delle assicurazioni essere
falso che Napoli fosse caduta sotto la tutela austriaca. (Ivi, 70 |
289).
234 Sulle intese per la falsa richiesta di lavoratori da Tunisi e
per il nolo della goletta, v. P. a Fabrizi, 22 aprile '57.
Nell'aprile '57, P. avrebbe dovuto fare una gita a Londra per
perfezionare le intese; ma poi la cosa andò a monte (Mazzini alla
Biggs, 19 aprile '57; DE MONTE, LIII).
235 Della decisione di eseguire lo sbarco a Sapri venne subito e
misteriosamente a conoscenza la polizia napoletana. Deposizione
Ajossa al processo della Gazzetta d'Italia (Firenze, 1876): «... nei
primi giorni dell'aprile 1857, epoca in cui occupavo il posto
d'Intendente della Provincia di Salerno, venne a trovarmi un
individuo del quale non posso declinare il nome, manifestandomi che
dal Comitato rivoluzionario di Napoli... si era progettato uno
sbarco a Sapri». (Resoconto, 274).
236 L'autografo di questa lettera di P. è stata pubblicata, senza
indicazioni di data o di destinatario, sul Risorgimento Italiano,
1914, 123-124. Ma che si tratti proprio della lettera a Pisani della
fine di aprile '57 appare chiaro a chi la confronti col carteggio
P.-Fanelli e colle circostanze a noi note riguardanti il fratello
del Pisani relegato, Enrico, che prese poi parte alla prima
spedizione mancata dell'8 giugno.
237 La prima lettera spedita dall'Agresti — che conteneva
indicazioni topografiche su S. Stefano — venne poi rinvenuta sul
cadavere di P. (Resoconto, 453).
238 Le informazioni date dall'Agresti il 20 maggio, e chi sa perché
tenute in non cale, eran precisissime: «In Ponza vi sono pochissimi
relegati politici... in Ventotene vi sono circa una cinquantina...
In S. Stefano siamo tra condannati a' ferri ed all'ergastolo trenta,
e circa 800 condannati comuni» (lettera pubblicata sul Ris. Ital.,
1914, 779).
239 Che l'Agresti fosse stato persuaso dallo Spaventa a sconsigliare
P. dall'impresa su S. Stefano asserisce NISCO, 367. Anche
Settembrini dichiarò nettamente che non si sarebbe mosso
dall'ergastolo in compagnia dei condannati comuni. (TORRACA,
Settembrini. Notizie. Napoli, 1877, 45).
240 Cfr. in MAINERI, 397-403, le lettere di Cosenz a Pallavicino
(1856) per ottenere contributi finanziari. Nel dicembre Pallavicino,
pregato anche da Mordini e Varè, elargí 7000 lire per l'acquisto di
fucili (Ivi, 249). Ma ad ulteriori pressioni — e alludendo a quanto,
per incoraggiarlo, gli aveva scritto Cosenz, che l'Inghilterra cioè
non vedesse di mal occhio l'impresa, — Pallavicino rispondeva: «Ma
se l'Inghilterra è realmente disposta ad assistervi, come avviene
che abbiate difetto del danaro occorrente ad iniziare l'impresa?...
Io non ci vedo chiaro». Alla ricerca di fondi si dette anche, prima
in Inghilterra e poi in Piemonte, la WHITE (In memoria di Nicotera,
4).
241 Le sdegnose espressioni di Mazzini sulla questione finanziaria
in lettera a Mordini, 29 febbraio '57.
242 P. teneva talmente al segreto che, il 22 aprile, scriveva a
Fabrizi: «Io poi protesto, che se a forza di voler preparare, si
darà la sveglia al (Governo) e si comincerà a parlare della
faccenda, siccome sono responsabile non di me stesso, ma di molti,
che vengono per fiducia in me, avrò il coraggio di rifiutarmi».
243 Fino dall'8 agosto '56 l'Intendente di Genova scriveva al
Ministro dell'Interno: «... Altri poi dicono con tutta certezza
imminente un moto, ma questo verrebbe iniziato a Firenze, Livorno e
Napoli, e si estenderebbe in tutta la Toscana e nei Ducati»
(Archivio di Stato, Torino, Materie politiche interne in genere,
mazzo 18). — Il 4 dicembre 158 Villamarina (Ambasciatore a Parigi)
assicurava Cavour essere l'Imperatore informato di un imminente
scoppio insurrezionale in Italia e particolarmente nel territorio
sardo. — Il Console inglese a Palermo citava in un dispaccio a
Clarendon 24 gennaio '57 il testo delle circolari spedite da Napoli
alle autorità siciliane per porle in guardia contro sbarchi di
fuorusciti (Rec. Off., F. O., 70 | 291). La citazione del Times in
lettera di P. a Fanelli, 16 febbraio. — Il 4 febbraio il cit.
Console a Palermo informava che «la polizia marittima ha ricevuto
l'ordine di ricercare un tal Giorgio Glassford accusato di essere un
emissario di Mazzini, mandato con denaro in Italia e in Sicilia a
fini rivoluzionari. Questo personaggio non è apparso finora in
nessun luogo dell'isola». (Rec. Off., F. O., 70 | 291).
244 Sulle informazioni del governo toscano, cfr. Monitore Toscano,
Firenze, 11 maggio 1857.
245 La lettera di Fanelli 30 aprile era diretta a Mazzini; le stesse
cose F. scriveva il 14 maggio a P.
246 Le informazioni dell'Intendente di Genova nell'Archivio di
Torino, 1. c., mazzo 17. Era stato il Ministro Rattazzi che il 18 di
maggio aveva messo in guardia l'Intendente contro possibili trame
dei mazziniani. (CHIALA, II, CCXXV). Questi comunque assicurava che
le spedizioni di armi «se si dovesse prestare fede alle
dichiarazioni fatte in dogana, tutte sarebbero seguite per Tunisi».
247 Il 13 giugno l'Intendente di Salerno assicurava le superiori
autorità d'aver già dato tutte le disposizioni opportune (Archivio
di Stato, Napoli, Ministero di polizia, fascio 551).
248 Nel suo dispaccio 10 giugno, l'Intendente di Genova precisava
che sul Cagliari in partenza per Tunisi sarebbero stati imbarcati 75
fucili, 250 canne da fucile, 128 platine. Nello stesso dispaccio
affermava non sussistergli che fossero state spedite delle casse
sospette a Capraia. Questa informazione era stata richiesta
dall'Incaricato d'affari toscano a Torino, cui il Ministro Lenzoni
aveva scritto «che un tal Cuneo, di Genova, si è impegnato a
depositare casse di carabine in Capraia, a disposizione del Comitato
rivoluzionario di Genova. Queste casse sarebbero dichiarate come
contenenti lastre di piombo» (Archivio di Stato, Torino, 1. c.,
mazzo 17).
249 Sul contegno ambiguo del governo piemontese di fronte ai
rivoluzionari disposti ad agire nel resto d'Italia, cfr. lettera di
Mazzini a Pallavicino, 2 agosto '56. Il governo lasciava o
prometteva di lasciar mano libera soprattutto in Toscana, ché se vi
fossero scoppiati movimenti insurrezionali si sarebbe potuto
invocare il principio del non intervento. Altre notizie sul
«contatto indiretto» fra Mazzini e il Ministero sardo in quel tempo,
in lettera a Taylor, 8 agosto. Sulla politica che «a molti fa
l'effetto di essere a doppio fondo» del gabinetto torinese, cfr.
D'Azeglío a Sforza Cesarini, 2 gennaio '58 (CHIALA, II, CCXLV). Sul
contegno di Rattazzi, Ministro dell'Interno, nella crisi del
giugno-luglio 1857 e sulle accuse che da molte parti gli piovvero
d'aver chiuso consapevolmente gli occhi sulle trame mazziniane,
salvo a reprimerle poi quando irrimediabilmente fallite, cfr., oltre
alle sue biografie e ai suoi discorsi parlamentari, CHIALA, II,
CCXXV, CCXXXII.
Capitolo X.
250 Del clandestino traffico d'armi, che continuava, così dava
notizia, il 2 giugno, l'Inviato inglese a Torino (Hudson) a lord
Clarendon: «È giunto a mia cognizione che casse di moschetti si
stanno trasportando da Marsiglia a Torino via Genova, e che vi è
ragione di credere che queste casse, le quali a Genova vengono
trasbordate ostensibilmente per Tunisi, siano in realtà spedite a
qualche Stato dell'Italia meridionale. I moschetti, mi si assicura,
non sono di buona qualità né si trovano in condizioni troppo buone»
(Rec. Off., F.O., 67 | 226).
251 Le notizie sui «semi di Calabria» in lettera al mazziniano
Bellazzi, che si conserva (inedita, credo) nella cartella Pisacane
del Museo del Risorg. in Milano (n. 12707 | 25). La chiave della
formola convenzionale nel carteggio P.-Fanelli, passim.
252 È FALCO, 268, che precisa, in base a documenti di polizia,
l'indirizzo di P.; Danèri invece (PAOLUCCI, 1. c.) asserisce che P.
abitava allora in via Edera.
253 Il racconto del Giannelli (che era reduce allora dalla
relegazione scontata nel castello d'Ivrea) nel suo vol. Cenni
autobiografici. Milano, 1925.
254 Hudson a Clarendon, Torino, 19 maggio 1857: Cavour lo ha
informato «che una miss White la quale si è recentemente acquistata
notorietà in Inghilterra per la sua calorosa propaganda delle
dottrine repubblicane applicate all'Italia, è giunta a Genova,
munita di calde raccomandazioni di Saffi, Mazzini e altri di quel
partito; e che le teste calde, aderenti all'Italia del Popolo, hanno
organizzato in suo onore una dimostrazione, durante la quale sono
state emesse grida sediziose. Mettendomi al corrente di tali
circostanze, il conte Cavour ha aggiunto che il Governo non vuole
attribuire soverchia importanza al comportamento di questi
sconsigliati; ma io ritengo mio dovere di richiamare l'attenzione di
V. S. su quanto sta accadendo, per il caso che ciò provochi commenti
in Austria o altrove, e altresì perché non è improbabile che la
condotta di miss White finisca con l'obbligare il Governo Sardo a
richiedere la sua partenza dal Regno» (Rec. Off., F. O., 67 | 226).
255 Hudson a Clarendon, 10 luglio 1857: Sulla fine di giugno Mazzini
«andò a visitare miss White... che viveva in una pensione; in questa
pensione si discuteva così apertamente e così rumorosamente di
progetti rivoluzionari che un piemontese, alloggiato in una camera
adiacente a quella di miss White, udendo di che si trattava, nonché
grida di viva la repubblica, picchiò all'uscio e gridò viva il re»
(Rec. Off., F. O., 70 | 293). Altro episodio venne narrato dal
Times, 9 luglio 1857: giunta la W. a Genova, una Società operaia
volle eseguire in suo onore, una notte di pioggia, una serenata
sotto le sue finestre. Per il che, esprimendo la W. la sua
gratitudine e complimenti per la perseveranza degli esecutori, 159
«finí col dire che avrebbero fatto assai meglio, secondo lei, ad
andarsene a casa per prepararsi a combattere per la loro libertà».
256 La lettera di Garibaldi venne dalla Mario (Vita di Garibaldi, I,
149) erroneamente attribuita al febbraio '56. L'errore venne
corretto nel vol. postumo Birth of modern Italy, 139-40.
257 La White si era presentata ai P. munita d'una lettera di
presentazione di Emilia Hawkes, in data 13 maggio (in parte
pubblicata, ma con datazione inesatta, da FALCO, 268). La lettera
prova i rapporti fraternamente amichevoli che correvano fra
Enrichetta ed Emilia. Ferme dichiarazioni filo-piemontesi aveva
fatto Garibaldi, nel marzo, a P. in persona (Mazzini alla White,
marzo 1857). P. e Nicotera si erano conosciuti a Roma, nel '49
(MARIO, In memoria, 3). Sul convegno di Torino, cfr Resoconto, 347,
357; CASANOVA, Sulla preparazione, cit., 511-513.
258 Sullo scorcio del '56, Nicotera — su mandato generico di Cavour
— si era preparato a compiere un viaggio di... esplorazione in
Sicilia, poi andato a monte in séguito al fallimento del moto
Bentivegna. — Da una lettera della White alla Biggs, stampata da
FALCO, 283, nasce ora il sospetto che anche l'adesione di Nicotera
al piano di P. fosse stata in qualche modo consigliata o autorizzata
da Cavour. Scriveva infatti la W. (sdegnata pel contegno del governo
sardo dopo la catastrofe di Sapri): «Chi potrebbe mai imaginarsi che
quelle stesse Autorità, che diedero un compagno all'eroe che partí
per morire per l'Italia, ordinino...» ecc. È desiderabile che
ulteriori ricerche fra le carte di Cavour, o meglio di La Farina,
chiariscano la questione, finora assai oscura, e di superlativo
interesse.
259 La lettera di Nicotera a Garibaldi, del 1864, pubblicata da
CASANOVA, dà notizie precise sull'incontro P: Garibaldi, a Genova,
nel giugno '57. Nicotera aggiungeva che P. era tornato così
entusiasta dalla sua gita a Napoli (v. nel testo, a pag. 272 sg.) da
vincere «tutte le opposizioni che voi (Garibaldi) facevate per far
precedere il tentativo di Genova alla spedizione». Garibaldi fautore
dell'insurrezione genovese? Ecco qualcosa di assolutamente nuovo,
smentito da tutte le altre fonti.
260 Cfr. le correzioni di Mazzini al proclama pisacaniano in
PALAMENGHI CRISPI. 261 L'accenno a Dio e Popolo suonava così: la
rivoluzione si farà «non per passare da un padrone a un altro, ma
per non avere padroni fuorché Dio in cielo e il Popolo sulla terra».
262 Sul convegno di Genova, BILOTTI, 127 sg.; PUPINO-CARBONELLI,
135. Nell'inviare per l'appunto il Falcone a Genova con la missione
di ispirare prudenza a P. e Mazzini, Fabrizi rivelava invero ben
povere doti di penetrazione psicologica! Ché più ardente e generoso
giovane non era facile trovare. Del resto le ultime parole che, nel
salpare da Malta, Falcone gli aveva rivolte, avevano procurato al
Fabrizi (lo raccontò lui stesso) un triste presentimento: non gli
aveva infatti detto il Falcone che avrebbe sì ottemperato
all'incarico, ma «avendo luogo l'impresa in qualsiasi momento, vi si
sarebbe gettato con tutta gioia»?
263 Sulle opinioni di Saffi, v. i suoi Cenni ecc. a proemio del vol.
IX degli Scritti di Mazzini, ed. Daelli, CXXXV-VI; su quelle di
Crispi, le sue Lettere dall'esilio; su quelle di Musolino, la cit.
sua lettera a Ricciardi, 11 luglio '57; su quelle di Bertani, MARIO,
I, 242.
264 P. insisté moltissimo anche sul pericolo murattista che, a suo
avviso, prendeva corpo ogni giorno di più (cfr. la deposizione
Fabrizi al processo di Firenze, in Resoconto).
265 Si scelse la data del 10 di giugno posto che i vapori per
Cagliari-Tunisi partivano da Genova il 10 e il 25 di tutti i mesi.
266 I particolari sulla navigazione della goletta da lettera di P.
ad Agresti, 16 giugno '57 e da un memoriale di Pilo pubblicato da
PAOLUCCI. Danèri invece narrò le cose altrimenti; ma egli non era
fra i compagni di Pilo, e d'altronde le sue asserzioni vanno sempre
accolte con ampio beneficio d'inventario (specie laddove si
riferiscono all'opera da lui personalmente prestata).
267 Sul contegno di Cosenz, cfr. la severissima lettera di Mazzini
alla Hawkes, 30 nov. '57; e anche Pilo a Fabrizi, 16 giugno '57, e
P. a Fanelli, 9 giugno. FALCO (270-71) argomenta che a Cosenz fu
facile ritirarsi dall'impresa perché non lo si era mai tenuto troppo
al corrente. Orbene, se è vero che il 1° aprile P. aveva scritto a
Fanelli che C. «non vuol saper nulla, dice che le cose prese a lungo
non riescono, vuol saperlo solo al momento del fatto», è anche vero
che, il giorno precedente, lo aveva esplicitamente assicurato che C.
avrebbe partecipato alla spedizione (così anche a Fabrizi, 21
aprile; e Fanelli a Fabrizi, 28 maggio). La lettera P. a Cosenz, 17
maggio, che qui si pubblica, elimina d'altronde ogni incertezza in
proposito. C. era più che informato e si era solennemente impegnato
a partire. Strano, comunque, che con la prospettiva imminente di
doversi recare a dirigere l'insurrezione napoletana, C. non si fosse
curato di stabilire rapporti diretti con gli uomini del Comitato di
Napoli!
268 SAFFI, l. c., CXXXVII sg., riporta le parole da P. rivolte, l'8
di giugno, ai suoi seguaci, ricavandole da una memoria inedita di
Giovanni Gagliani, milanese, un di costoro.
269 Sul temperamento nervoso di Pilo (malato anche di convulsioni)
v. ROMANO-CATANIA, Del Risorgimento d'Italia, Roma, 1913, 92; MARIO,
In memoria, 9.
270 La lettera di Mazzini 10 giugno '57, che non vedo riprodotta
nella Edizione nazionale, in Resoconto, 568- 69. Era indirizzata a
C. F. (Campanella?), e venne sequestrata alla posta di Parigi.
271 Le parole di Enrichetta in PAOLUCCI, 216-17, il quale sfrutta
appunti di Pilo.
272 Il passaporto usato da P. era quello stesso che si era preparato
per Cosenz, intestato a Francesco Danèri. 160 Qualche informazione
sul viaggio di P. giunse, è vero, alla polizia napoletana; ma troppo
imprecisa. Scriveva infatti il Carafa (Incaricato del portafoglio
degli esteri) al Direttore di polizia, il 15 giugno: «Mi si
assicura... esser partito per Cagliari il noto Carlo Pisacani»
(sic). (Archivio di Stato, Napoli, Min. di Polizia, f. 551). La
polizia non si curò di indagare. Sí che non solo ignorò allora la
presenza di P. in Napoli, ma ostinatamente continuò a smentire che
egli vi si fosse recato, anche quando, all'indomani di Sapri, venne
richiesta di spiegazioni in proposito dall'autorità giudiziaria. In
un suo rapporto 11 dicembre '57 il Procur. gener. Pacifico scriveva
infatti: «Quantunque la Polizia di Napoli sostenga che il P. non sia
stato in Napoli poco prima di effettuare l'insensata spedizione,
pure non è del pari ciò chiaro per l'istruzione» (Resoconto, 663). —
Il Carafa, oltre alla notizia sulla partenza di P. aveva comunicato
alla Polizia altre informazioni sull'imbarco di armi compiuto dal
Cagliari, con dichiarazione per Tunisi, osservando che «trovandosi
tra le armi un numero non indifferente di tromboni, arma inusitata
fra gli arabi, conviene dedurne, che abbia un tal fatto uno scopo
rivoluzionario» (l. c., lettere 15 e 20 giugno 1857).
273 Che P. ricorresse, per sottrarsi alle grinfie della polizia, a
qualche travestimento, è abbastanza probabile; ma certo non si
tagliò la barba né si travesti da prete come pretesero Catapano e
Venturini, due imputati al processo di Salerno, che svesciarono al
giudice quel che sapevano e anche quel che non sapevano (Archivio di
Stato, Napoli, Min. di Polizia, f. 551: Rapporto telegrafico
dell'Intendente di Salerno al Dir. di polizia, 4 luglio 1857), e poi
Danèri (RONDINI, 166) e COMANDINI, L'Italia nei Cento anni ecc., ad
diem. Ché con la sua barba solita partí da Genova pochi giorni
appresso, e a Napoli giunse qualificandosi «Francesco Danèri,
genovese, causidico» come si rileva dal Giornale del Regno delle Due
Sicilie, Napoli, 20 giugno 1857 (arrivi di venerdí 12 giugno).
274 Niente di grave accadde nel regno di Napoli il 13 giugno per la
ragione assai semplice che gli elementi rivoluzionari della
provincia erano ben decisi a non muoversi se non dopo aver ricevuto
notizia di movimenti già scoppiati e affermatisi altrove. Ciascuno
si proponeva di seguire l'iniziativa altrui, nessuno di assumerla!
Tipico, a questo proposito, quel che scriveva Magnone a Fanelli, 6
giugno: «Salerno non vuol muoversi se non vede prima rivoluzionato
il regno intero e disfatto interamente il tiranno». E da questo
punto di vista tutte le città e i paesi del regno si chiamavan
Salerno!
275 Sui contatti tra Fanelli e i «trattenitori» (gli elementi più
moderati) cfr. la sua lettera a Fabrizi, 12 giugno '57.
276 Era la casa di Dragone, tutta fori e nascondigli, che custodiva
l'archivio del Comitato.
277 Secondo il Times, 8 luglio '57, P., nella sua visita a Napoli,
si sarebbe procurata perfino «l'opportunità di esaminare
l'arsenale».
278 La data di partenza di P. da Napoli (fin qui precisata nel 17 o
nel 18 di giugno) si ricava dal cit. Giornale del Regno delle Due
Sicilie, 25 giugno 1857. Le autorità sarde non vennero a conoscenza
del viaggio di P. che dopo il disastro. Hudson, informato da Cavour,
scriveva a Clarendon il 10 di luglio che «il colonnello Pizza Cane
(sic)... aveva visitato due volte, recentemente, gli Stati
Napoletani» (Rec. Off., F. O., 70 | 293). La versione, infondata,
della duplice visita venne più tardi ripetuta da FOSCHINI, op. cit.,
38.
279 Non mi si giudichi pedante se, a tranquillizzare il lettore più
scrupoloso, assicuro di aver ricavato la notizia del tempo bello
regnante a Napoli il 16 giugno dal Bollettino meteorologico,
stampato sul Giornale del Regno delle Due Sicilie, 25 giugno 1857!
280 Scriveva Fanelli a P., 26 marzo '57: «La mia posizione di
latitante non mi permette tutto quello che vorrei. Non so se potrò
giungere sino a vostro fratello, ma cercherò».
281 Alle nuove possibilità presentatesi ai rivoluzionari di Genova
la sera del 9 di giugno accenna Pilo (a Fabrizi, 16 giugno '57).
282 Il governo piemontese era stato ripetutamente ammonito da quello
francese di stare in guardia contro un'imminente insurrezione che
sarebbe scoppiata a Genova; da Torino si era risposto che si era
pronti a tutto e che la polizia di Genova vegliava. Ma se vien
voglia di dire che questa chiuse un occhio sui preparativi
dell'insurrezione locale, forza è concludere che li chiuse tutti e
due sui preparativi della spedizione. Proprio il 10 giugno '57, ad
es., l'Intendente di Genova tranquillizzava il Ministro dell'Interno
così: «lo scrivente si pregia di partecipare... non apparire alcun
indizio che vogliasi qui tentare qualche movimento insurrezionale,
né, da indagini fatte, risulta che Mazzini sia nascosto in Genova».
(Archivio di Stato, Torino, Materie politiche interne in genere, m.
17). E il governo francese seguitava a sequestrare lettere di
Mazzini da Genova! (Resoconto, 460). Non del tutto immeritata giunse
a Cavour, dunque, all'indomani di Sapri, l'aspra nota napoletana,
rinfacciante all'indignato conte gli avvenimenti «che avrebbero
certamente potuto evitarsi con tenersi conto dei noti preparativi
che li hanno preceduti, come conviene ai governi che vogliono
mantenersi all'altezza della loro propria dignità e posizione».
Cavour, si sa, respinse la nota.
283 È impressionante osservare quante persone più o meno amiche di
P. attestino di averlo dissuaso dall'impresa, della quale, dunque,
avevan contezza. D'AYALA (Mem., 235) «adoperò tutti gli argomenti
che seppe per sconsigliarla »; Macchi lo stesso; Bertani, si sa (è
vero che poi, avvenuto il disastro, riconobbe nell'animoso P. «il
prode dei prodi»: cfr. I Cacciatori delle Alpi nel 1859, in Il
Politecnico, 1860, 291); Musolino, Cadolini, Calvino, idem;
Sprovieri scriveva a Fabrizi il 4 agosto '57: «De Dominicis,
Mazziotti, Carducci ed altri, fin dal primo momento che seppimo
essersi scelto Sapri per luogo di sbarco, dubitammo dell'esito
dell'impresa e ognuno può attestarvi che prima dell'esito 161 noi
facemmo questi discorsi» (MAZZIOTTI, 361, 362). Perfino Guerrazzi
era informato dei disegni sulla Toscana e su Napoli (lettera 8
giugno '57 al Mangini).
284 Le parole della MARIO nel suo In Memoria di Nicotera, 6-7. —
Tornato da Napoli — scriveva a Bertani e ad altri il Mazzini il 27
nov. '57 — P. «mi scongiurò di rifare pel 25». — La versione di
Nicotera nella cit. lettera a Garibaldi del 1864; un po'
diversamente egli si era espresso nei suoi interrogatori di Salerno,
è vero, ma unicamente per motivi di difesa.
285 Sullo stato d'animo di P. di ritorno da Napoli, v. anche SAFFI,
l. c.; S. attinse a una relazione di G. Profumo, testimone oculare.
286 In una lettera del 20 luglio '73, Musolino asserí, quanto alla
spedizione di Sapri, «che non solamente Mazzini la sconsigliò
aspramente, ma che fu P. che volle eseguirla ad ogni costo, ed in
questa occasione la ruppe con Mazzini » (RAULICH, 458).
Esagerazione, né più né meno che l'altra diceria riportata, già l'8
luglio '57, dalla torinese Gazzetta del Popolo, secondo la quale il
colonnello P. era niente affatto d'accordo con Mazzini a proposito
del tentativo su Genova... P. glie ne lasciò l'intiera
responsabilità, senza romperla con lui perché aveva bisogno di
ottenere alcuni uomini, fucili e danari per il suo tentativo su
Napoli».
287 Il racconto di Danèri, infarcito d'inesattezze, in RONDINI.
288 P. non disponeva che di pochissimi appunti e schizzi pseudo
topografici, poi repertati sul suo cadavere: tra di essi una «pianta
delle Isole di Napoli», e «un pezzo di carta che contiene notizie
riguardanti il porto di Ponza» (Resoconto, 722). In più, un
Prospetto delle operazioni a farsi nello sbarco di Sapri (LACAVA,
213-14).
289 La pubblicazione del Testamento di P. — comparso la prima volta
nel Journal des Débats, luglio '57, e poi in traduzione nei giornali
piemontesi e in quelli inglesi — sollevò grande scalpore. I più,
anche tra gli amici di P., ne deplorarono il tono; e la White, alla
quale ne venne attribuita la prima pubblicazione, buscò generali
rimproveri (BERTANI, I, 245). Cavour, che negli avvenimenti del '57
vide l'occasione opportuna per screditare definitivamente il
mazzinianismo in Italia, accolse invece il Testamento quasi con
gioia (Nuove lettere, ed. Mayor, 550); e il Boldoni insinuava
addirittura che il governo piemontese avesse procurata la maggior
possibile diffusione del Testamento; certo, aggiungeva, esso ha
prodotto «cattiva impressione sul pubblico» (MARIO, Bertani, I,
246). «Un'assai sinistra impressione », precisava Macchi, a
Cattaneo, 1° agosto '57. La clericale Armonia non si lasciò
naturalmente sfuggir l'occasione per stillare un Avviso ai
proprietari (già cit.), nel quale, more solito, i radicali principii
pisacaniani venivano estesi a tutto il movimento liberale italiano,
con imaginabili deduzioni... Il Morning Post — pubblicandolo in
parte il 24 di luglio — così lo commentava: «L'insieme di questo
documento è caratterizzato da uno sforzo di esaltata logica, che
dimostra come il pover'uomo fosse travagliato da un eccitato stato
mentale, e insieme comprova l'odio profondo nutrito da tutti i
cospiratori e i radicali verso il governo piemontese». Il Times, 28
luglio, offriva ai suoi lettori il Testamento qual «prova di che sia
capace un rivoluzionario integrale... Per noi inglesi è quanto mai
sorprendente vedere energia, coraggio indomabile, e ferma tenacia di
propositi basata su sogni nei quali a fatica imaginiamo che alcuno
possa credere sul serio». Al Times pareva incredibile addirittura
come gli «ultra» di tutta Europa potessero considerare male
abominevole tutto ciò che valeva a render la gran massa rassegnata
al proprio stato e aliena dalle rivoluzioni, inconcepibile che per
siffatte teoriche si potesse trovare alcuno disposto a giocare la
vita. — Del resto, ancor prima che il Testamento vedesse la luce,
venne da taluni insinuato che quella catena di moti insurrezionali
avesse carattere e finalità socialisti. Il Cittadino, Asti, 7
luglio, scriveva ad es. aver Mazzini lavorato «coll'aiuto della
Marianna... si voleva la distruzione, ed il saccheggio per odio alle
famiglie agiate»; e il Cattolico, Genova, ascriveva il moto genovese
alla «rapacità socialista».
290 La lettera di Falcone (a Vincenzo Sprovieri, 24 giugno) in
BILOTTI, 422.
291 I due Poggi lasciavan la madre, coraggiosa donna, che assisté
poi al processo di Salerno e rese preziosi servizi ai vari
coimputati (Resoconto, 176).
292 Degli umili seguaci di P., v. notizie e nomi in BILOTTI;
Resoconto, passim; SAFFI, l. c., CXXXVIII; MORANDO, Mazziniani e
garibaldini, Genova, 1931; GIANGIACOMI, Anconitani precursori dei
Mille, Ancona, 1910.
293 Per robustezza di stile, per virile concitazione, per le doti
tutte di questo magnifico scritto, inclinerei ad attribuire a
Mazzini la paternità della dichiarazione Ai fratelli d'Italia.
294 Di Lerici eran molti dei marinai seguaci di P. Significativo
perciò quel che il 6 novembre '57 scriveva il Comandante dei
Carabinieri reali, da Torino, al Ministro dell'Interno, essersi
trovato, cioè, il giorno d'Ognissanti, affisso sulle cantonate di
Lerici il seguente stampato: «Non di lagrime — Ma di virili
propositi — Oggi la memoria dei prodi — Che per la Italia morirono —
Reverenti onoriamo — A. Milano, B. Bentivegna, C. Pisacane —
Fortissimi — Aspettano vendetta — Per la patria e per sé — Per le
ossa dei martiri — Seminate sulla terra — Che nostra lo straniero —
Ci toglie giuriamo — Trucidare i tiranni» (Archivio di Stato,
Torino, Materie pol. interne in genere, m. 17). Alcuni fra i
componenti della spedizione da Genova, superstiti di Sanza, usciti
nel '60 dalla galera, combatteron poi con Garibaldi: e tre restaron
feriti, due vennero uccisi! (MARIO, Camicia rossa, 15 sg.).
295 Il fratello di Rosolino: Ignazio Pilo.
296 Le lettere di Rosetta in LABATE, op. cit.
297 Il 2 febbraio '61, ad es., la Nicotera, in veste di promotrice
della sottoscrizione per Roma e Venezia, scriveva, con altre
Signore, a Garibaldi, una lettera che si conserva a Milano, Museo
del Ris., Archivio garibaldino, c. 554. 162
298 Lo stesso 24 di giugno — alla presenza di Lorenzo Montemayor,
Pasquale Mileti e Federico Salomone — P. faceva dono di tutti i suoi
libri a Enrichetta «perché dovendo partire per la Sardegna faceva
cento di non più ritornare in Genova» (FALCO, 279).
299 Dell'intenzione di Enrichetta di occuparsi delle ambulanze si ha
notizia da una Memoria del Colonnello dei Carabinieri, Arnulfi, al
Giud. Istruttore di Genova, 6 luglio 1857 (Genova, Museo del
Risorgimento).
300 Secondo il Danèri l'estremo saluto di P. a Enrichetta avrebbe
contenuto anche un accenno alla scena piuttosto violenta dell'ultima
notte (quella dal 24 al 25 di giugno), durante la quale essa avrebbe
investito P. dicendogli che aveva sì il diritto di ammazzarsi, ma
non quello di sacrificar tanti giovani. Che tale fosse il pensiero
di Enrichetta, sappiamo di già; che fra i due nascesse in proposito
una scena violenta, escludiamo. Preferiamo credere alle altre fonti
concordi, che ci dipingono Enrichetta degna fino all'ultimo istante
dell'ardimentoso sacrificio del suo compagno, piuttosto che a questo
loquace miles gloriosus, non d'altro sollecito, nel suo racconto,
che di attenuare a suo pro il merito dei suoi compagni di
spedizione, o di spargere pettegolezzi sul conto loro.
Capitolo XI.
301 Sull'ora della partenza del Cagliari, qualche discordanza. Ma
dovette aver luogo poco innanzi alle sette pom., come si rileva
dalle deposizioni dell'equipaggio, rese a Genova nel '58, e dal
Ministro sardo di Grazia e Giustizia trasmesse all'Hudson (Rec.
Off., F. O., 167 | 100).
302 Dalla Gazzetta del Popolo, Torino, 2 luglio '57: «poco prima
della partenza si presentarono trenta passeggeri, non dello Stato, e
che parevano formare una sola compagnia»; ma la Gazzetta dà questa
notizia quando si è già diffusa la voce dello sbarco a Sapri. La
lista dei passeggeri del Cagliari, 25 giugno, nell'Archivio di
Stato, Torino, Mat. pol. int. in gen., m. 17).
303 Il testo del biglietto della White in Resoconto, 236. Nicotera,
nell'interrogatorio 8 agosto '57, dichiarò che la W. lo aveva
scritto «perché si era fatto credere che (il macchinista)... lungi
dal condiscendere, avrebbe fatto saltare in aria il vapore» (Ivi,
589).
304 Il biglietto di Mazzini è stato pubblicato dalla WHITE MARIO (In
memoria, ecc., 9). Ma la ristampa, pubblicata adesso di su
l'autografo nell'Ed. Naz. degli Scritti di Mazzini, offre — se ce ne
fosse bisogno — nuova conferma della disinvoltura con cui essa dava
alla luce i preziosi documenti storici da lei posseduti.
305 Rosetta a Pilo, 25 giugno '57: «La notte scorsa... sentii che
faceva un vento fortissimo». Secondo VENOSTA, invece, il mancato
incontro sarebbe stato motivato da una fitta nebbia (81).
306 Gazzetta del Popolo, 8 luglio '57: «A Portofino, punto dove si
fanno molti contrabbandi, i doganieri hanno sequestrato diverse
casse di fucili».
307 Pilo non si rimise più da quel colpo: ne fanno fede le sue
lettere, documento, da allora in poi, di un'anima travagliata da una
incontenibile angoscia. La sensazione d'aver suo malgrado
danneggiato la causa di P. e contribuito alla sua perdita,
gl'infusero una disperata volontà di agire e di sacrificarsi per lo
stesso ideale: non eran passati tre anni che, precedendo i Mille,
egli cadeva eroicamente in Sicilia.
308 Anche sull'ora dell'ammutinamento sul Cagliari, qualche
discordanza: ma ebbe luogo poco innanzi alle nove pom., come si
rileva dalle deposizioni, cit., dell'equipaggio del Cagliari (Rec.
Off., 1. c.).
309 Badino, fuochista del Cagliari, depose (l. c.) che i rivoltosi
eran vestiti «con berretto rosso e camicia rossa»; lo confermarono
Travi e Boffa, camerieri di bordo. Questa circostanza, unita
all'altra, fantastica, ma ampiamente diffusa nella stampa del tempo,
che il Cagliari cioè battesse bandiera rossa, impressionò
sinistramente gli stessi ambienti liberali in Italia e fuori
d'Italia. Bandiera rossa è simbolo «di socialismo», notava severo il
Morning post, 7 luglio, «e queste non sono le misure gentili che ci
vogliono per attirare a confederazione il popolo italiano». I
governi italiani possono essere reazionari e corrotti, «ma quando si
pensa a rovesciarli a mezzo di pirateria e proclamando comunismo e
repubblica rossa..., gl'italiani, per quanto mal governati,
preferiranno tenersi i guai attuali piuttosto che precipitare verso
altri ignoti». E l'8 luglio (alla bandiera rossa accostando il
Testamento di P.): «tale è il terrore del socialismo e dell'anarchia
che perfino negli Stati continentali del re Siciliano, la gente è
piuttosto disposta a sopportare la tirannia di un solo che quella di
molti. Sono ben pochi, o non esistono affatto, i partigiani... del
comunismo tanto a Napoli che in Sicilia».
310 I marinai del Cagliari deposero tutti di essere stati minacciati
colla pistola alla mano, di essere stati tenuti, nel resto del
viaggio, quali prigionieri, di esser stati costretti a far tutto
quello che i rivoltosi ordinavano, compreso il gridare «viva la
repubblica, viva l'Italia». Uno di essi, durante l'ammutinamento,
prese tanta paura che avrebbe voluto gettarsi in mare! (Rec. Off.,
l. c.). Falcone (pratico d'inglese) s'incaricò di consegnare il
famoso biglietto ai macchinisti inglesi. Deposizione Badino: il capo
macchinista venne minacciato «che se le macchine si fossero guastate
gli andava la vita»; ond'è che egli lo vide «rallentare alquanto la
forza alle macchine per tema che prendendo qualche disastro, non si
credesse fatto a bella posta, ed effettuassero le loro promesse quei
rivoltosi». Un altro fuochista fece osservare che la macchina era
vecchia e si era già più volte guastata...
311 Carlo Noce, da Genova, di anni 34, era il cuoco di bordo. La sua
dep. nel Rec. Off., 1. c.
312 Qualche differenza fra RONDINI e BILOTTI nel precisare il numero
e i nomi dei firmatari della Dichiarazione. Alcuni di costoro
deposero poi di aver firmato senza leggere... (Resoconto, 522). 163
Secondo la deposizione del fuochista Rebora, avendo P. riunito
l'equipaggio del Cagliari «che mostravasi poco affezionato a quel
loro nuovo governo», e intimato «che si farebbero saltare le
cervella a chi si fosse mostrato renitente », il nostromo richiese,
e ottenne, altro attestato scritto, a giustificazione
dell'equipaggio.
313 Altra deposizione di uno dei marinai: «Ordinarono che si
bordeggiasse sul Monte di Portofino (sic) senza far cammino dicendo
che aspettavano una barca... e vi si stette sino allo spuntar del
giorno, e poi si diressero a capo Corso dell'isola di Corsica..., ma
neanche là si trovò».
314 Secondo Danèri (RONDINI, 8) sarebbe stato Mazzini, prima della
partenza della spedizione, a consigliare che, in caso di mancato
incontro con le barche di Pilo, si perdessero «due giorni in alto
mare per aspettare la notte del 29 e sbarcare a Lerici i 25 uomini
quasi tutti di quel paese, provocare una insurrezione, riunire il
maggior numero e marciare su Genova...»
315 Che il carbone mancasse dimostra il fatto che a Ponza s'imbarcò
molta legna da ardere (MARIO, In memoria, 17). Nelle cit. depos.
Saponi e Rebora si legge anzi che «prima di arrivare al capo Corso
trovarono una barca napoletana..., speravano che fosse carica di
carbone per approvisionarsene perché ne eravamo un poco mancanti...,
ma quel legno era carico invece di granturco»; non sembra però
notizia attendibile.
316 Che il Cagliari fosse adibito a trasporto di armi, abbiam visto,
lo sapevano tutti, fuorché P. e Mazzini. Il 5 luglio, ad es., il
Console inglese a Cagliari informava il suo Ministro degli Esteri
che, nel suo precedente passaggio da quel porto (17 giugno), il
Cagliari recava a bordo un ingente carico di armi (Rec. Off., F. O.,
70 | 293).
317 La squadra inglese si ancorò a Livorno la mattina del 27 di
giugno. Secondo la cit. dep. Saponi, il Cagliari l'avrebbe
incontrata «verso la Bastia». Il 4 agosto '57 la Gazzetta del Popolo
scriveva: «Ognuno ricorda che allo scoppio del tentativo, la flotta
inglese... trovavasi nelle acque di Toscana. La stampa retrograda
suppose dunque tosto che nella congiura vi fosse la zampa
dell'Inghilterra... In questa versione l'incapacità di Mazzini di
raccozzare meglio che tre dozzine di congiurati sarebbe il vero
motivo del malumore della stampa inglese contro i mazziniani». La
Gazzetta definiva stravagante tale versione. Il 15 luglio il Morning
Post stupiva che la stampa clericale piemontese «ardisse accusare il
governa reale (inglese) di complicità con la sanguinaria setta
mazziniana, e... mescolare i nomi di lord Lyons, della diplomazia
inglese, della squadra inglese del Mediterraneo ecc. allo scopo di
dimostrare con ciò che l'Inghilterra... ha incoraggiato e favorito
gli assassini di Livorno e i mancati saccheggiatori di Genova». Il
Console inglese a Napoli dava a lord Clarendon il 30 di giugno una
notizia, se vera, assai grave, ma che non ebbe conferma; e cioè che
il Cagliari avrebbe navigato, fino a Ponza, battendo bandiera
inglese (Rec. Off., F. O., 70 |
293).
318 MAZZIOTTI, 178, 182 dà vari nomi di relegati politici (civili e
militari) trovati da P. a Ponza.
319 La coraggiosa signora era Rosa Mascherò, genovese, per tutto il
viaggio dimostratasi simpatizzante coi rivoltosi. (VENOSTA, 87. Per
il viaggio del Cagliari, il V. ha potuto disporre della relazione di
un testimone oculare).
320 Il comandante la guarnigione di Ponza denunziò poi «la condotta
indegna del sergente Camarda (che comandava allora la Gran Guardia)
... che si diede ai rivoltosi». Nello stesso rapporto (da Ponza, 4
luglio) si legge che «era il tenente Balsamo non sano di mente, si
mostrò attaccato ai propri doveri, ma morí qual visse». Povero
Balsamo! Ed era stato l'unico ufficiale che avesse opposto
resistenza ai rivoltosi! La rel. D'Ambrosio nell'Archivio di Stato,
Napoli, Ministero di Polizia, f. 550.
321 Sulla resa del castello corsero versioni discordi. VENOSTA, e
poi altri, la attribuirono a un ordine del comandante, fatto
prigioniero e trasportato a bordo del Cagliari.
322 Il lamentevole caso degli agenti della pubblica forza in un
Rapporto del caposquadra di polizia al giudice del Circondario, 12
luglio '57 (Archivio di Stato, Napoli, Min. di Pol., f. 550).
323 La nota ufficiale dei fuggiti da Ponza nell'Archivio di Stato,
Napoli, l. c.
324 Fu Carmine Alifano, interrogato dall'Intendente di Avellino il
17 di luglio, che inventò la storiella dei relegati costretti a
seguire P. sul Cagliari (Archivio di Stato, Napoli, l. c.).
325 La deposizione Signorelli (resa a Catanzaro, 7 luglio)
nell'Archivio di Stato, Napoli, l. c.
326 A giudicare da una lettera di Pisani a Fanelli, da Ventotene, 29
giugno, sembrerebbe che il Cagliari avesse fatto tappa, per una
mezz'ora, inosservato dai relegati, a Ventotene (DE MONTE); ma era
chiacchiera di relegati eccitati e male informati.
327 Anche sull'ora della partenza del Cagliari da Ponza, versioni
discordi. «Verso la mezzanotte», dice il Giornale del Regno delle
Due Sicilie, 30 giugno; alle tre e mezzo scrive Bilotti, a p. 167;
sulle ore della sera, scriveva Agresti a Fanelli, 30 giugno.
328 Una seconda barca venne o dal Vitiello o da altri spedita, la
notte stessa, a Ventotene (lettera cit. di Agresti, 30 giugno). È il
LACAVA che ha stabilito la responsabilità del parroco Vitiello,
scagionando così da una insinuazione del Venosta il relegato
politico De Leo, colpevole tutt'al più di leggerezza, per aver
comunicato al Vitiello notizie riservate da lui apprese appunto pel
suo carattere di relegato.
329 Le chiacchiere più assurde si accreditarono allora sul modo
tenuto dagli iniziatori della spedizione per concertarsi coi
relegati. Uno di essi (relegato comune, naturalmente) assicurò,
nell'interrogatorio subíto il 4 di luglio a Mormanno, che Nicotera
«otto giorni prima era stato nell'Isola vestito da prete, e fingeva
adoperarsi alla confessione e si racconta che in tal modo concertò
qualche cosa!» (Arch. di Stato, Napoli, l. c.). — Piú credibile
informazione è quella 164 fornitaci dalla WHITAKER (op. cit., 258)
secondo cui un Giuseppe Caputo, commilitone di Agesilao Milano,
sarebbe stato confinato a Ponza sui primi del '57. Nel corso della
sua traduzione nell'isola «egli fu tenuto alcuni giorni in prigione
a Napoli e... entrò in comunicazione con la società segreta,
stabilendo coi suoi organizzatori che avrebbe preparato una
insurrezione a Ponza». Al Caputo, che poi partí da Ponza col
Cagliari e fu ferito e arrestato e a suo tempo rispedito nell'isola,
attribuisce effettivamente la W. il merito della sollevazione dei
relegati. Del Caputo v. la deposizione al processo di Firenze, in
Resoconto, 84.
330 Era, questo D'Ambrosio, quello stesso ufficiale che nel '51
aveva steso la già cit. e ridevole Relazione della campagna militare
su Roma?
331 Se le autorità borboniche seppero il vero sull'episodio di
Ponza, non così, more solito, lo seppe il pubblico grosso; al quale
si dette a bere (Giorn. del Regno d. Due Sicilie, 30 giugno) che i
«veterani» avevano opposto disperata difesa, tanto che «taluni
ribaldi... pagarono il fio del loro misfare, restandone degli uccisi
(?) e de' feriti».
332 Ma non tutti quei militari in punizione eran farina da far
ostie! Un Rocco La Cava, ad es., nominato caposquadra nella prima
compagnia, non solamente si offrí, appena arrestato, di fare
amplissime rivelazioni, ma altresì di riferire all'autorità
inquirente, «quando gli si usassero considerazioni», le eventuali
confidenze dei suoi compagni di causa! Lo spingeva a ciò fare il
desiderio di «dare al reale governo un attestato che un inganno mi
trasse dall'isola» (Resoconto, 462).
333 Gli incitamenti di P. ai suoi seguaci nella dep. cit. di
Signorelli Rocco.
334 È Danèri che ci informa della proposta di Falcone e Nicotera.
335 Nonostante il carcere sofferto senza colpa, i marinai del
Cagliari serbarono cordiali rapporti coi superstiti della
spedizione, tanto che, giunta la loro liberazione (il 12 giugno
'58), indirizzarono a Nicotera una lettera di simpatia, augurando
«giorni migliori sì a voi che alla patria comune» (MARIO, In mem.,
20). Vero però che, reduci a Genova, non si mostrarono eroi nelle
loro deposizioni al patrio governo!
336 Del Mercurio (Marcori secondo altri) v. la deposizione nel
processo di Firenze del 1876 (Resoconto, 73).
337 Oltre ai feriti, sembra che a Sapri si rifiutasse di sbarcare,
«facendo da pazzo», un altro componente del primo gruppo partito da
Genova (Depos. Boffa, nel Rec. Off., l. c.).
338 Le parole incitatrici di P. vennero riferite da Michele
Esposito, uno dei relegati a Ponza, arrestato a Montemurro (Arch. di
Stato, Napoli, l. c.).
339 BILOTTI, generalmente equanime e bene informato, scrive (189)
che i Gallotti eran così avversi alla dinastia borbonica che...
ignoravan perfino il nome della madre di re Francesco, cui, nel '59,
rivolsero una supplica... Ma la prova non è troppo suadente.
Sussiste che, in una delle tante suppliche umiliate al trono, essi
giunsero al punto di dichiarare che «si aspettavano una Croce
d'onore, per esser fuggiti al sentire lo sbarco, avvisare la forza
di Lagonegro che fosse marciato contro...» (Arch. di Stato, Napoli,
Min. di Pol., f. 551). E BILOTTI scrive (199) che, al Fortino di
Cervara, P. «da nessuno ebbe visite, fuorché da due dei figli del
barone G. Gallotti... i quali poco dopo si distaccarono, forse con
la promessa di affrettare l'arrivo di uomini e di vettovaglie»!
Povero Pisacane!
340 «Questi — scriveva il corrispondente da Napoli del Morning Post,
alludendo alle ruberie e peggio commesse da elementi sbandati della
masnada pisacaniana — questi, suppongo, sono i segni fraterni dei
socialisti» (13 luglio).
341 La cattura e il conseguente sequestro del Cagliari dettero
luogo, è noto, a una celeberrima questione di diritto
internazionale, dibattutasi a lungo fra Torino e Napoli, la quale
destò il più vivo interessamento dei vari gabinetti europei, e
segnatamente di quello inglese. L'Inghilterra, infatti, pretese
riparazioni da Napoli per la illegale detenzione dei macchinisti
inglesi del Cagliari. La questione, che dette la stura a
numerosissime pubblicazioni politiche e giuridiche, ufficiali e non
ufficiali, si chiuse poi con la sconfitta della tesi napoletana. —
Quanto al Cagliari, nell'ottobre 1860 Garibaldi dittatore assegnava
alla Soc. Rubattino, che n'era l'armatrice, un'indennità di 450.000
franchi.
342 La rapida azione svolta dalle autorità borboniche per
schiacciare la tentata insurrezione, conferma che a Napoli una
impresa del genere era attesa da tempo. Da ogni parte d'Italia (e
segnatamente da Genova) affluivano in quei giorni nella capitale
borbonica notizie atte a facilitare e rendere più efficiente la
repressione (si ricevevano perfino notizie da Londra su spedizioni
di armi per l'Italia in partenza dalle fabbriche inglesi... Arch. di
Stato, Napoli, Min. di Pol., f. 550). I dispacci del Console inglese
a Palermo (4, 11 luglio) dimostrano che il governo borbonico aveva
da tempo preso le sue precauzioni (Rec. Off., F. O., 70 | 291).
Quanto allo spionaggio esercitato a Genova, v. i Rapporti d'un
confidente a Cavour, giugno-luglio 1857, pubbl. da LUZIO (420-430);
e le notizie raccolte da MORANDO, op. cit., secondo cui Pisacane
avrebbe precipitato l'azione proprio perché accortosi del tradimento
d'un dei suoi fidi (forse lo stesso estensore dei cit. Rapporti?) Il
traditore sarebbe poi stato aggredito e ucciso, due anni dopo, a
Lugano, da G. B. Capurro, uno dei compromessi nei fatti di Genova.
343 Fanelli morí nel 1877 in una casa di salute, «tormentato da
gravi disturbi nervosi, ma non pazzo» (TEOFILATO, op. cit.).
Soffriva di «una specie di sovraeccitazione nervosa che lo rendeva
melanconico, sospettoso» (Fabrizi al processo di Firenze, in
Resoconto, 115).
344 Fanelli ad Albini, 4 luglio '57: «Noi questa sera faremo la
parte nostra cominciando con una imponente dimostrazione che
porteremo all'azione». Ma la dimostrazione (Console Barbar a
Clarendon, 9 luglio) «non venne effettuata in seguito al fallimento
del tentativo in Calabria e per avere uno del partito informato la
polizia in proposito» (Rec. Off., F. O., 70 | 289). Su quei giorni
di passione per Fanelli e sul comportamento dei moderati, cfr.
specialmente l'op. cit. di FABRIZI. 165
345 Era l'Italia del Popolo, Genova, 7 luglio, che in una
corrispondenza da Napoli riferiva la voce ivi diffusasi di una
spedizione navale sarda. In un rapporto del Prefetto di Polizia al
suo Direttore, Napoli, 11 luglio '57, si legge che vicino a
Capodimonte vennero trovate armi bianche e bandiere tricolori. «In
conclusione però si può francamente ritenere che gli agitatori, i
quali avean concepito la stolta mossa rivoluzionaria la sera dei
quattro, scorati dall'imponenza della forza, la quale con tutta
diligenza piazzata nei luoghi minacciati, li costrinse (sic) a
gittar le armi nel pozzo, e le bandiere in una campagna poco
lontana» (Arch. di Stato, Napoli, Min. di Pol., f. 551).
346 Son note le polemiche vivacissime cui il contegno di Fanelli
dette luogo quando, nel 1860, i superstiti di Sapri vennero liberati
dalla galera. Addirittura feroce si mostrò con lui Nicotera, che per
altro non era andato immune da censure severe per la grande
loquacità dimostrata durante l'istruttoria salernitana. Seguirono
incidenti personali anche violenti nel '60 e nel '64, giurí d'onore,
interventi conciliativi di Garibaldi, Mazzini, Fabrizi,
pubblicazioni di documenti sulla spedizione di Sapri (FABRIZI, DE
MONTE, VENOSTA), riavvicinamenti subitanei (come quello fra Nicotera
e Fanelli, appunto, in occasione della campagna elettorale del '65 a
Napoli). Fanelli era sinceramente convinto di avere fatto tutto il
possibile e più del possibile per assicurare il successo
dell'impresa pisacaniana; e aveva ragione, tenuto conto delle sue
limitate capacità, e avevan torto coloro che gli davan del
traditore. La parola più equa, nel dilagar di tanta polemica, fu
quella pronunciata da Mazzini, che attribuí l'inazione di Napoli,
oltreché alla riluttanza dei moderati, al «difetto d'iniziativa»
congenito al carattere di Fanelli, «difetto che un discorso di
mezz'ora con lui basta a rivelare»; e concludeva, invitando il F. a
cessar le diatribe, consacrando invece la «vita a qualche fatto
generoso ed energico». Consiglio che il F., già dei Mille, seguí;
tanto è vero che nel '66, nonostante la contrarietà e lo sdegno di
Bakunin, che non sapeva perdonare certi sentimentalismi nazionali,
volle prender parte alla guerra. Nel '57 «era arrivato troppo
tardi», ora non voleva mancare al posto del sacrificio e del dovere
(NETTLAU, 74). — Quanto al giudizio di Nicotera su Fanelli, giusto è
ricordare che esso si era formato unicamente in base agli elementi
fornitigli da terze persone con le quali aveva potuto corrispondere
dalla galera. Gravissima ad es. la lettera scrittagli il 10 agosto
'58 dal Pilo («Oh! che vigliaccheria, che nullità ho constatato nel
Wilson — nome di guerra di Fanelli — e nei suoi compagni. Per Dio!
non credevo mai che la somma delle cose stesse nelle mani di un uomo
tanto meschino di cuore, d'ingegno e d'ardire»...) Fabrizi, nel
mandare a Garibaldi la sua Relazione, lo assicurava invece (8
febbraio 1864) esser Fanelli «giovane della più alta stima... pronto
a tutto, sensato, attivo» (Museo del Ris., Milano, Arch.
garibaldino, c. 829).
347 Sullo sbarco di Garibaldi a Sapri nel 1860 e le impressioni
provate da lui e dai suoi seguaci ripensando a Pisacane, cfr. MARIO,
Bertani, II, 185-186. Eran con Garibaldi anche Cosenz e Bertani!
348 Il Giornale del Regno d. Due Sicilie, 3 luglio, sottolineava la
valorosa condotta degli Urbani, tanto più apprezzabile, osservava,
che essi «trovavansi quasi tutti in quella stagione alle messi»;
eppure, «trascurati i propri interessi, corsero ad amarsi ed a
combattere».
349 La dep. Venturini ecc. nell'Arch. di Stato, Napoli, l. c. I
particolari sulla sete sofferta dai componenti la banda in VENOSTA,
90.
350 Uno dei due soldati era Domenico Ciampi, da Tufo; sue le parole
riportate (all'Intendente di Avellino, 11 luglio; Archivio di Stato,
Napoli, Min. di Pol., f. 550).
351 Contrario alla pena di morte nel codice civile, P. l'aveva
sempre trovata indispensabile invece in quello militare (Saggi, IV).
352 Debbo la notizia dell'aver re Ferdinando sostituito F. Pisacane
col Ghio, a Jack La Bolina, che la tiene da fonte ritenuta
attendibile.
353 Nel 1860, a Napoli, Bertani fece arrestare il Ghio, che figurava
comandante la piazza; ma il governo dittatoriale lo rilasciò,
troncando il processo che contro di lui era stato iniziato
(FALDELLA, op. cit., 255).
354 Le ultime parole pronunciate da P. in VENOSTA, 99. Altre
versioni sulla morte di P. in RONDINI, NISCO, ZINI (Storia
d'Italia), FOSCHINI. Quella seguíta nel testo è ormai generalmente
ammessa ed è quella suffragata da più numerose testimonianze. A
tergo di una cartella stampata di una Lotteria a beneficio di G.
Nicotera (lotteria probabilmente organizzata a Milano nel 1859) si
legge esser stato P. «ucciso, tagliato a pezzi e gettato in mare»
(il mare a Sanza?!) Il biglietto, del valore di «franchi 2», è in
mio possesso.
355 La giustificazione del rogo e della conseguente impossibilità di
procedere al riconoscimento dei cadaveri, in una missiva
dell'Intendente del Principato citeriore al Direttore di Polizia, da
Salerno, 25 luglio 1857 (Arch. di Stato, Napoli, l. c., f. 551).
356 L'esposto di don Castelli (30 ott. '57) venne pubblicato da D.
MAZZONI in Il Risorg. ital., 1920, 400.
357 Sulla Gazzetta d'Augusta, 24 agosto '57, compariva ad es. un
articolo tendente a dimostrare, in base agli ultimi avvenimenti,
«ciò che la diplomazia non ha voluto comprendere..., vale a dire che
il Regno di Napoli non ancora offre un terreno atto a rivoluzioni.
Vero è che si trovano anche lí dei malcontenti, come ve ne sono in
Germania, in Francia e in Inghilterra. Ma le masse del popolo e
quelli che posseggono beni sono tranquilli e buoni, e affezionati al
Re, e ancorché sperassero in qualche miglioramento, sono ben lungi
dall'attenderlo da insurrezioni». Ahimè, è che questo articolo era
stato redatto a... Caserta, da un tal La Grange, il quale, il 7
sett. successivo, si affrettava a compiegarne la traduzione al
Direttore di Polizia... (Arch. di Stato, Napoli, Min. di Pol., f.
551). Sulla fuga di Fanelli preziose notizie si ricavano dal
carteggio di uno che la sapeva lunga in proposito, il Console
inglese a Napoli! Scriveva infatti egli al suo collega a Smirne, 20
luglio '57, che tre napoletani (Fanelli e la coppia 166 Dragone) «ai
quali m'interesso, essendo riusciti con grande difficoltà a
sottrarsi alle grinfie della polizia, che li perseguita per le loro
opinioni liberali», avevan preso imbarco, alcuni giorni innanzi, su
uno shooner inglese, il Rival, diretto appunto a Smirne. Procurasse
il collega di facilitare loro lo sbarco, tenendo conto che essi eran
sforniti di passaporto. Il 26 agosto seguente il Console a Smirne
informava a sua volta il Governatore di Malta essere i tre
felicemente pervenuti a Smirne; adesso il Fanelli intendeva
proseguire, via Malta, per l'Inghilterra, con l'intenzione di
proseguire là i suoi studi di... architettura. Lo scrivente aveva
perciò ritenuto opportuno di munirlo di un passaporto provvisorio
(connotati: anni 30, statura alta, capelli neri, occhi idem, naso
regolare, bocca idem, di professione scritturale), qualificandolo
«impiegato di questo Consolato». Rispondeva il f. f. di segretario
del Governatorato di Malta, da La Valletta, 24 settembre: Fanelli ha
ottenuto il permesso di sbarco «con la precisa intesa che avrebbe
lasciato Malta di sua iniziativa entro sei settimane»; sembra che
adesso abbia mutato intenzione, ma sarà imbarcato d'autorità. Il
Console a Smirne è vivamente pregato di non rilasciare mai più
passaporti per Malta a persone che non hanno diritto di prendervi
residenza. Il 30 nov. il Governatore di Malta in persona informava
il Ministro delle Colonie che Fanelli si era ostinato a non voler
partire. «Io ho cercato, da che son qui, di arginare la tendenza a
far di Malta un luogo di convegno per gente che cospira contro il
proprio governo, e Fanelli è considerato qui come un agente di
Mazzini. Per questo motivo... l'ho fatto proseguire per
l'Inghilterra a mie spese». Acclusa la ricevuta di 12 sterline!
(Rec. Off., C. O., 158 | 182). Il Morning Post del 20 di luglio
pubblicava una Dichiarazione dei Napoletani, in data di Napoli 4
luglio, in cui si leggeva che essi non altro volevano che la
costituzione, e non avevano niente a che fare col «pazzo attentato»
che ha «riempito i Napoletani di stupore e di sospetti di nuove
manovre poliziesche». Degli sbarcati, si precisava, «due soli eran
regnicoli» (tre, per la verità).
358 Le parole di Spaventa in lettera al fratello, 16 agosto '57
(CROCE, 235).
359 Il testo del telegramma, indirizzato a un tale Massoni a Genova,
era il seguente: «Le vostre tratte furono pagate a giorni si pagherà
il saldo». Risultò alla polizia napoletana che speditore del
telegramma figurava certo Giovanni Bazigher; orbene il suo nome, o
un nome esotico molto simile al suo, si era trovato segnato sul
taccuino rinvenuto sul cadavere di P.; e un Bazigher era impiegato
quale usciere al Consolato inglese di Napoli! Edotto della strana
concomitanza dal conte Bernstoff, che a Londra — in assenza di un
rappresentante napoletano — curava gli interessi del governo delle
Due Sicilie, il Ministro degli Esteri inglese richiese schiarimenti
al suo agente in Napoli (29 luglio). Questi rispondeva (8 agosto)
essere il B., effettivamente usciere della Legazione inglese da 33
anni, e ora in servizio presso il Consolato; avere il B. ammesso,
durante un interrogatorio severo, di aver spedito un telegramma per
conto di un tale Alfonso Praito, suo conoscente, ma di essere
interamente all'oscuro del suo contenuto; aver egli ciò fatto perché
il P. era sconosciuto all'ufficio telegrafico e non poteva perciò
spedire dispacci. Aggiungeva il Console che, in merito alla
circostanza del taccuino di P., bastava a toglierle qualunque
importanza la considerazione che il B. era analfabeta, e cioè nella
impossibilità di tener rapporti con P. Il B. d'altronde giurava di
non averlo mai neanche sentito nominare. — Ribadí Clarendon (24
agosto): Praito esisteva davvero o era un nome fittizio, come
pretendeva il governo napoletano? Barbar rispondeva esser sua
impressione che il Bazigher fosse stato messo in mezzo da qualche
conoscente indelicato. Ma Clarendon non ammetteva scappatoie: voleva
conoscere intera la verità (23 settembre). Finalmente il Barbar,
incalzato anche dal governo napoletano (nota Carafa 25 sett.),
rispondeva al Clarendon così (10 ott.): «Ho di nuovo interrogato il
Bazigher, e questi dichiara di aver conosciuto Praito circa 6 anni
addietro, in relazione a certe lettere che venivan spedite da Malta
e Genova all'indirizzo di Praito, sotto coperta pel fu sir William
Temple; nello stesso modo lettere di Praito venivan trasmesse ai
suoi corrispondenti in quei luoghi pel tramite della Missione. P. si
diceva un commerciante e fu per questo che B. consentí a favorirlo
recando un suo dispaccio all'ufficio telegrafico...»; ma adesso il
P. risultava scomparso da Napoli. «Con molta difficoltà... son
riuscito a sapere — continuava Barbar — da persone connesse col
partito liberale che... il nome di Praito è fittizio, essendo il suo
vero nome Luigi Dragone, e che egli ha parenti in città che
verrebbero completamente rovinati se il suo nome venisse a
conoscenza del governo napoletano». Barbar si guardava bene però
dall'avvertire Clarendon che il Dragone era riuscito a fuggire da
Napoli unicamente per merito suo! Fu giuocoforza a Clarendon tener
per sé le gravi rivelazioni di Barbar; ma mentre il governo
napoletano seguitava a dare infruttuosamente la caccia al presunto
Praito, pur intuendo che il Consolato inglese dovesse saperla assai
lunga, il Ministro inglese (giudicata «improper» la condotta di
Bazigher, cui certo, egli osservava, eran noti e il vero nome di
Praito e la natura del telegramma) ordinava una severa inchiesta
interna sulla questione della corrispondenza settaria spedita pel
tramite della missione inglese. Dei resultati di questa inchiesta ho
già tenuto parola nella nota a pag. 227. Ulteriori documenti
verranno dati altrove alla luce. (Per tutto ciò, cfr. Rec. Off., F.
0., 70 | 288, 289, 290; C. O., 158 | 184, 186). Molta corrispondenza
su questo episodio trovasi anche nell'Archivio Ministero Esteri,
Roma (Corr. politica Min. Esteri Due Sicilie, IX, 4, cart. X). Si
veda altresì quanto scrisse Danèri a proposito degli avvenimenti di
Genova del 9 di giugno: «Pisacane scrisse un biglietto all'usciere
del Consolato inglese in Napoli perché avvertisse Fanelli».
360 Son note le ricerche compiute a bordo della nave inglese
Corinthian per scovarvi Mazzini. Su questo episodio il Rec. Off. (F.
O., 67 | 227; 70 | 288, 289, 290) conserva numerosi documenti. Alla
luce dei quali e di quelli poco più su pubblicati sembrano invero
piuttosto fuor di posto i furori del Console Barbar per la visita a
bordo del Corinthian ordinata dalla polizia napoletana senza darne
avviso, come d'obbligo, a lui! Il Barbar suggeriva al suo governo
che si facessero rimostranze; ma il Ministro degli Esteri giudicò
saviamente che era meglio rinunciarvi... 167
361 Il 2 luglio — il giorno stesso di Sanza! — l'Italia del Popolo
dava le prime incerte notizie sull'avventuroso viaggio del Cagliari;
il 3, fra discordi informazioni, anche la prima voce dell'avvenuto
disastro; tre giorni appresso riportava le notizie correnti in
città, secondo le quali «le truppe spedite dalla capitale per
disperdere la colonna comandata dal col. Pisacane si sarebbero miste
alla stessa. Si aggiunge ancora che più provincie fossero in piena
rivolta». Il 7 di luglio, l'Italia del Popolo stampava addirittura
essere Napoli insorta, la caserma degli Svizzeri saltata, re
Ferdinando ucciso!
362 Comprensibile il tormento di Jessie White (che poi, nella non
breve prigionia, forní bella prova di fermezza, non disgiunta, è
vero, da esaltazione) per non poter «mantener la promessa che
feci... di non perdere di vista nessuno di loro». Sulle vicende
della White il Rec. Off. conserva numerosi documenti, dai quali
resulta che né il Console inglese a Genova né il Ministro a Torino
credettero opportuno di far passi in suo favore, ritenendo più che
dimostrata la sua condotta politicamente scorretta. Dalla lettera
Brown a Hudson, Genova, 4 luglio, resulta che, a detta
dell'Intendente, la White, arrestata, si sarebbe qualificata
addirittura «moglie di Mazzini». Offertale la liberazione, purché
abbandonasse immediatamente il territorio piemontese, la W.
superbamente dichiarò di voler dividere il fato dei suoi compagni di
causa. Il 14 nov. Hudson informava il suo governo che la W. era
stata posta in libertà, con 5 giorni di tempo per lasciar il
Piemonte; la scarcerazione veniva motivata col fatto che si era
trovata la W. più esaltata che colpevole. (Rec. Off., F.O., 67 |
227). FALCO, 280 sg., ha pubblicato interessanti documenti sulla
carcerazione della W. Una pepata lettera di lei a Garibaldi, dal
carcere, trovasi in LUZIO, 408.
363 L'arrendevolezza delle autorità sarde ai voleri napoletani parve
indizio di inqualificabile debolezza alla Gazzetta del Popolo. «Del
rimanente, essa osservava, con che diritto permettere anche al vice
console di leggere tutte le carte per cercare di servire il governo
napoletano... se queste contenevano il nome di qualche napoletano
dimorante in Napoli.. Oh! è un orrore!» La casa — faceva osservare
la Gazz. del Pop. — era intestata alla Di Lorenzo. E anzi P.
figurava di pagarle dozzina... Nel corso di un'altra perquisizione
subíta il 17 luglio, alla Di Lorenzo si sequestravano, tra le altre
cose, due brevi mss. di Pisacane: un foglio col titolo Principii sui
quali è d'uopo fondare le istituzioni militari d'Italia: e un ms. di
30 fogli intitolato Principii fondamentali del nuovo patto sociale e
costituzione provvisoria d'Italia.
364 Scriveva ancora Rosetta, il 13 luglio '57: «P. ha abbandonato
una donna, la quale aveva per lui abbandonato la sua famiglia; ha
lasciato una bambina, che sarà infelice senza padre...; ti pare che
abbia fatto bene? No, e tu facevi lo stesso, se il caso non te lo
impediva...» Anche nei Cenni premessi ai Saggi si legge (I, XVIII):
«Si serbò anzi per lunga pezza speranza che il P. potesse essere
scampato alla strage dei suoi».
365 Sui rapporti fra Mazzini ed Enrichetta dopo il fatale luglio
'57, cfr. Epistolario di MAZZINI (S.E.I.). Il 19 ott. Mazzini
riceveva da lei una lettera «scritta in tono di profonda angoscia»;
ai primi di novembre corse corrispondenza fra i due e fra Mazzini e
la White in merito alla miglior residenza per Enrichetta se davvero
sfrattata dal Piemonte: Inghilterra o Svizzera? Enrichetta scartava
a priori l'Inghilterra (Mazzini alla Hawkes, 3 nov.). Nello stesso
mese — mentre nasceva, per dissiparsi quasi immediatamente, un
pettegolezzo fra i tre a proposito di certe osservazioni mosse da
Mazzini sui rapporti sentimentali fra la W. e Alberto Mario, mal
riportate, sembra, da Enrichetta — Mazzini lanciava in Inghilterra
l'idea di coniare per sottoscrizione popolare una medaglia in onore
di P. La medaglia non venne poi eseguita, nonostante che venisse
raccolta una bella lista di sottoscrizioni, che Mazzini si proponeva
di mandare «come ricordo», «come una specie di consolazione» a
Enrichetta: alla «moglie di P.», cioè. Il 17 dic., scrivendo alla
Hawkes, Mazzini lamentava che di tre lettere da lui dirette ad
Enrichetta, questa ne avesse ricevuta una sola: «Si vede che a
Genova trattengono le mie lettere». Altro che trattenerle! Lo
sfratto di Enrichetta venne motivato unicamente in base alla sua
corrispondenza con Mazzini.
366 Nella lettera famosa Al Conte di Cavour, Mazzini stigmatizzava
con roventi espressioni lo sfratto della «vedova » di P. contro il
quale nessuna voce si era levata alla Camera. È vero che un nugolo
di deputati di sinistra avevano assediato di raccomandazioni e di
proteste l'Intendente di Genova (cfr. LUZIO), ma nessuno di essi
aveva creduto di deplorare pubblicamente l'odioso provvedimento. —
Dello sfratto dava notizia il Console napoletano a Genova al suo
Ministro degli Esteri, l'8 marzo '58, adducendo però d'ignorare dove
la «famigerata» donna si sarebbe recata. «Sembra però che è andata o
andrà in Inghilterra» (Arch. Min. Est., Roma, Corr. politica Min.
Esteri Due Sicilie, Busta IV, f. 26) Era la White che consigliava
Enrichetta a recarsi in Inghilterra; altrove «colla sua tempra,
senza amici, morrebbe di dolore (FALCO). Il 20 maggio '58 il
Ministro dell'Interno sardo comunicava al Questore di Torino che,
«sulla fiducia che la Sig.a Enrichetta Di Lorenzo non dia luogo ad
osservazioni sulla sua condotta, e relazioni», la si autorizzava a
prolungare il suo soggiorno nella capitale (Arch. di Stato, Torino,
Emigrati, nominativo Di Lorenzo).
367 Di Enrichetta e Silvia tornate a Genova non molte notizie ci
restano: senonché figurano entrambe alla prima prova dell'inno di
Garibaldi eseguita l'ultimo giorno del 1858 in casa Camozzi (LOERO,
39). Silvia venne per allora sistemata nel Collegio delle Peschiere,
diretto da Mercantini, il cantore della spedizione di Sapri.
368 Sull'adozione di Silvia da parte di Nicotera, notizie in
VENOSTA, FALDELLA, nella MARIO, In memoria, e Bertani. Nell'ottobre
'60 Silvia figura con Nicotera a Napoli: Garibaldi le aveva fatto
assegnare una pensione di 60 ducati al mese; ed essa (con letterina
15 ottobre, che si conserva, con altre, nel Museo del Ris. in
Milano, Arch. garibaldino, c. 585) ne lo ringraziava, aggiungendo:
«Mi dispiace d'essere così piccina perché non posso esprimervi
l'affetto e l'ammirazione che sento per voi che tanto bene avete
fatto al nostro paese. Spero che presto scaccerete da Roma e Venezia
gli stranieri, ed allora il mio papà Nicotera manterrà la promessa
che m'ha fatto di condurmi da voi che desidero immensamente vedere».
L'altra lettera a Garibaldi è del 3 gennaio '64, sempre da Napoli,
ed esprimeva auguri e sensi di caldo patriottismo; da essa resulta
che Enrichetta viveva accanto alla sua Silvia, accanto ai Nicotera.
Saluti di Enrichetta e di Silvia trasmetteva ancora, a Garibaldi,
Nicotera, il 23 dicembre di quell'anno (l. c., c. 554); invece, in
altra lettera del 10 ott. '66, quelli solo di Silvia. Era morta in
quel frattempo Enrichetta? O forse era tornata alla famiglia
maritale? Di una gentile intromissione di Silvia, memore delle
paterne idealità socialiste, presso il genitore adottivo, ormai
Ministro, in pro degli anarchici arrestati a Benevento nel 1877,
dette notizia il MONTICELLI (ORANO, 214-215).
369 Sui timori del governo piemontese per l'annunciata stampa dei
Saggi di Pisacane, cfr. LUZIO.
370 Sulle pietose cure da Enrichetta prestate fino al 1860 ai
superstiti di Sapri languenti nelle carceri borboniche, v. MARIO,
Bertani, I, 248. Enrichetta ringraziava Bertani (maggio 1860) per
una cospicua offerta «per i nostri prigionieri», scusandosi di aver
lasciato passare un giorno a causa di una indisposizione di Silvia.
A pro di Nicotera molto si adoperò anche Mazzini. La corrispondenza
con lui era facilitata dal guardiano dell'ergastolo e dal Console
sardo a Trapani (MARIO, In Mem., 27).
371 Si potrebbero riempir pagine e pagine col solo passare in
rassegna le diatribe antimazziniane seguite al luglio '57, più acri
e più diffuse che dopo lo stesso febbraio '53! Pochi intuirono
quanto grande Mazzini uscisse da quell'ennesima sconfitta; tra i
pochi, G. Modena. Senza i suoi tentativi «iti a vuoto» — egli
scriveva l'11 luglio '57 — «Cavour non poteva dir altro a Parigi,
come avvenire d'Italia, che essa produce bozzoli, fichi e maccheroni
deliziosi» (Pol. e arte, 204).
372 Era la Gazzetta del Popolo, 13 agosto '57, che riferiva l'odiosa
calunnia su Mazzini sollecito dei suoi interessi pecuniari durante
il compimento della spedizione di Sapri; tali rivelazioni si
concludevano, degnamente, così: «Il sig. Mazzini è un rivoluzionario
che grida agli altri avanti ma che quanto a lui pensa di salvare la
pancia per i fichi». L'Indipendente, Torino, 9 luglio, scriveva «che
nella storia non vi ha tiranno che abbia versato tanto sangue come
Mazzini; questo sciagurato è circondato da una immensa quantità di
capi mozzi di giovani da lui portati al patibolo». A rivendicare
l'onore di Mazzini pensava un giornale inglese, l'Illustrated London
News, 11 luglio '57, il quale asseriva che se le imprese del giugno
'57 avessero sortito buon esito, Mazzini e compagni sarebbero stati
salutati da tutti come gli eroi dell'epoca. «Tutto il mondo vede e
ammira l'altezza cui s'è inalzato l'Imperatore dei Francesi col
colpo di stato...; e tutti possono figurarsi l'abisso di miseria e
di degradazione cui quell'illustre personaggio sarebbe pervenuto se
la sua audacia non fosse stata ricompensata da un completo successo.
Così è col sig. Mazzini e con i cospiratori italiani — con questa
differenza che essi lottano per la libertà e non per il
soggiogamento della loro patria». Del coro d'invettive
antimazziniane si faceva eco il Ministro inglese Hudson, osservando,
in un dispaccio del 10 di luglio, che «Mazzini, come al solito,
procurava di tenersi lontano da ogni pericolo», che i suoi piani
rivelavano «la solita presunzione e ignoranza» di un uomo «malvagio,
orgoglioso e senza scrupoli» (Rec. Off., F. O., 70 | 295). Marx —
che nutriva per Mazzini il più franco disprezzo — si limitò a
registrare la sua ultima impresa con poche parole di compatimento:
«Il Putsch di Mazzini assolutamente nel vecchio stile ufficiale.
Avesse almeno lasciato fuori Genova!» (a Engels, 6 luglio —
Briefwechsel, Stuttgart, 1921, II, 168). Ben altrimenti sensibile di
fronte a quella prova di sfortunato coraggio un altro rivoluzionario
socialista, Alessandro Herzen; il quale, premesso che non intendeva
giustificare il piano di Pisacane, evidentemente intempestivo, così
scriveva: «Questi uomini ci sopraffanno con la grandezza della loro
tragica poesia, la loro terribile energia fa tacere qualunque
biasimo o critica. Non conosco esempi di più grande eroismo, né fra
i greci né fra i romani né fra i martiri del cristianesimo o della
riforma. ... La morte di P. e quella di Orsini furon come due
spaventosi schianti di fulmine in una notte soffocante» (Mem., III,
70).
373 Con P. «noi abbiamo perduto un uomo che valeva per sé una
Legione», scriveva Mazzini a Dragone, il 26 febbraio '58. La
circolare del Partito d'Azione in PALAMENGHI CRISPI, 542-44.
374 Furon Bertani, Medici, Cosenz e Boldoni che presero l'iniziativa
di raccogliere fondi per costituire una dote a Silvia Pisacane. Ma
la scarsità delle offerte — determinata in parte dallo scandalo che
la pubblicazione del Testamento e dei Saggi sollevò fra gli stessi
emigrati e in seno alla sinistra piemontese — consigliò
gl'iniziatori a rinunciare alla dote, provvedendo invece a stipulare
una assicurazione in pro della fanciulla, con contro-assicurazione
in favor della madre (MARIO, Bertani, I, 245-248, 270; PALAMENGHI
CRISPI, 439-441; MARIO, In mem., 27). La somma raccolta fu di 3134
franchi (Bertani a Plutino, 13 dic. 1859, OLIVIERI, 96-97). —
Mazzini scriveva a Lemmi, 30 novembre '57, che avrebbe contribuito
alla sottoscrizione, per quanto fosse meglio «provvedere a che
l'Italia dia, emancipata, la dotazione».
375 A criticare le operazioni di P. furono buoni tutti: Cadolini
(Mem., 215, 267), Carrano (L'Italia dal 1789 al 1870, IV, 260),
Macchi (SAFFIOTTI, 773), Musolino (a Ricciardi, 11 luglio '57),
Ruggero Settimo (AVARNA, 237) ecc. Il Ministro inglese a Torino
deplorava anche lui che P., «coraggioso personalmente e assai
competente nel suo ramo di scienza militare», avesse ceduto a
Mazzini, col quale non andava affatto d'accordo (Rec. Off., F. O.,
70 | 293). 169
Nota bibliografica
La nota bibliografica vuol essere completa per quanto riguarda gli
scritti di Pisacane a noi fin qui noti; pressoché
completa (con omissione cioè soltanto di pochi opuscoli o articoli
di scarsa o nessuna importanza) per quanto
riguarda gli scritti su Pisacane o su Sapri; per tutto il resto non
offre invece che una scelta delle sole pubblicazioni più
utili o più direttamente riferentisi a Pisacane.
Si omettono le citazioni della sterminata bibliografia mazziniana,
la cui conoscenza è naturalmente indispensabile
per la ricostruzione della vita di pensiero e d'azione di Pisacane.
Particolarmente importante è la consultazione
dell'epistolario mazziniano per gli anni dal 1849 al 1857: gli
accenni a Pisacane vi sono assai frequenti.
Non sono citate le opere d'informazione generale sul Risorgimento
italiano, ancorché dedichino pagine e pagine
a Pisacane e alla sua spedizione.
a) Scritti di P. e loro principali edizioni (in ordine cronologico).
b) Scritti su P. — Onoranze postume a P.
c) Scritti sulla spedizione di Sapri.
d) Scritti principali da consultarsi sui tempi e gli amici di P.
e) Scelta di opere pubblicate in Piemonte fra il 1849 e il 1855
intorno alla questione sociale.
a)
1. Sul momentaneo ordinamento dell'esercito Lombardo in aprile 1848
(pubblicato postumo da C. CATTANEO ne Il
Politecnico, Milano, II serie, 1860, pp. 270 sg.).
2. Piano di Guerra presentato al Comitato di Guerra di Brescia, da
Tremosine, 26 maggio 1848 (pubblicato postumo da
G. FALCO, op. cit., pp. 246-47).
3. Bollettino del Corpo di Operazione (pubblicato ne Il Monitore
Romano, Roma, 25 maggio 1849, a firma ROSSELLI
e PISACANE).
4. Cenni sui fatti del 26 e del 27 (pubblicati ne Il Monitore
Romano, Roma, 27 giugno 1849).
5. Ordini del Giorno, Relazioni, Sentenze, Ordinanze, ecc. vergate
da P. a Roma nel 1849, nella sua qualità di Membro
della Commissione di Guerra, di Presidente del Consiglio di Guerra,
di Sostituto del Ministro della Guerra, di
Capo di Stato Maggiore, ecc. (pubblicate ne Il Monitore Romano e nel
Bollettino delle Leggi e Regolamenti
della Repubblica Romana).
6. Rapido cenno sugli ultimi avvenimenti di Roma dalla salita della
breccia al dí 15 luglio 1849, per C. P. capo di S. M.
generale dell'esercito della Repubblica Romana, Losanna, Soc. Ed.
L'Unione, 1849, in 8°, pp. 4-32 (ristampato
nella Biblioteca democratica educativa, Roma, 1892, in 16°, pp. 32).
7. Lettre du Chef de l'état major de l'armée de la Republique
Romaine au general en chef de l'armée Française en
Italie, Lausanne, L'Union, 1849, in 8°, pp. 14 (traduzione italiana:
Torino, Fontana, 1849).
8. La Guerra Italiana (pubblicato ne L'Italia del Popolo, Losanna,
n. I, sett. 1849, pp. 29-42).
9. Rapido cenno sugli avvenimenti di Roma (breve estratto del n. VI;
pubbl. ne L'Italia del Popolo, Losanna, n. II, sett.
1849, pp. 107-13).
10. Sulla scienza della Guerra. Pensieri (pubbl. ne L'Italia del
Popolo, Losanna, n. II, sett. 1849, pp. 181-89; n. III, ott.
1849, pp. 277-301).
11. Poche parole sulla relazione della campagna nel 1849 in Sicilia,
pubblicata da S. J., aiutante di campo del gen.
Mieroslawski (pubbl. ne L'Italia del Popolo, Losanna, n. II, sett.
1849, pp. 207-12).
12. Relazione storica delle operazioni militari eseguite dalla
Repubblica Romana (pubbl. ne L'Italia del Popolo, Losanna,
n. V, dic. 1849, pp. 676-91; n. VI, dic. 1849, pp. 858-69).
13. Qualche osservazione sulla relazione scritta dal Gen. Bava della
campagna di Lombardia nel 1848 (pubbl. ne
L'Italia del Popolo, Losanna, n. VII, gennaio 1850, PP. 33-47).
14. Poche parole sulla campagna di Bade del 1849 (pubbl. ne L'Italia
del Popolo, Losanna, n. VIII, genn. 1850, pp.
179-86).
15. La neutralità della Svizzera (pubbl. ne L'Italia del Popolo,
Losanna, n. IX, febbr. 1850, pp, 318-23).
16. Pensieri sugli eserciti permanenti (pubbl. ne L'Italia del
Popolo, Losanna, marzo 1850, pp. 735-45).
17. Programma del libro di imminente pubblicazione La Guerra
Combattuta, a firma P. (pubbl. ne L'Italia e Popolo,
Genova, 6 luglio 1851).
170
18. Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49. Narrazione di C.
P., Genova, Pavesi, 1851 (tip. Moretti), in 16°,
pp. 372 (ristampato nella Biblioteca storica del Risorgimento, Roma,
1906, in 16°, pp. 340, a cura di L.
MAINO; tradotto in tedesco da A. CLOTZMANN. Chur, Hitz, 1852, pp.
28-370: presenta, rispetto all'originale,
leggere varianti, opera di P. stesso).
19. Dichiarazione a firma C. P. (pubbl. ne L'Italia e Popolo,
Genova, 22 agosto 1850 a proposito della Guerra combattuta).
20. Recensione di C. P. al volume di P. ROSELLI, Memorie relative
alla spedizione e combattimento di Velletri (pubbl.
ne La Voce della Libertà, Torino, sett. 1853, nn. 260, 261, 262).
21. Viva il Trattato (pubbl. ne L'Italia e Popolo, Genova, 21
febbraio 1855).
22. Altri articoli ispirati alla guerra d'oriente pubbl. sullo
stesso giornale, ma di non certa attribuzione. Si vedano i nn.
18 febbr.; 14, 15, 17 marzo; 27 marzo; 30 marzo; 4 aprile 1855.
23. I Muratisti (pubbl. ne L'Italia e Popolo, Genova, n. 199, 20
luglio 1855).
24. Il partito Muratiano e la questione Italiana (pubbl. ne L'Italia
e Popolo, Genova, 22 sett. 1855).
25. Articoli vari pubbl. ne La Libera Parola, Genova, agosto 1856,
aprile 1857 (l'articolo Murat e i Borboni, ivi compreso,
venne ristampato ne L'Italia e Popolo, Genova, n. 263, 1856; e poi,
con la firma di P., in Pensiero e Azione,
Londra, 1° gennaio 1859. Un altro, Italia e Murat, venne ristampato
ne Il Diritto, Torino, n. 225, 1856,
ed è comunemente attribuito a P. Sicuramente di P. è finalmente un
terzo articolo dedicato ad Agesilao Milano,
che L'Italia e Popolo, Genova, ristampò l'11 gennaio 1857).
26. Saggi Storici-Politici-Militari sull'Italia (pubbl. ne L'Italia
e Popolo, Genova, 25 ott., 4, 10, 26 nov. 1856: sono
alcuni paragrafi di argomento militare tratti dall'opera, inedita
allora, di cui al n. 32).
27. Recensione di C. P. a Una lettera di V. G. Orsini all'anonimo
autore delle memorie Storico-Critiche della Rivoluzione
avvenuta in Sicilia nel 1848 (pubbl. ne L'Italia del Popolo, Genova,
7 marzo 1857, n. 15).
28. Abbozzo di Proclama spedito al Comitato rivoluzionario di
Napoli, 1° giugno 1857 (pubbl. da DE MONTE, op.
cit., nella redazione originale; da PALAMENGHI CRISPI, op. cit., con
le correzioni addottevi da MAZZINI).
29. Saggi Storici-Politici-Militari sull'Italia, 4 voll., Genova,
Stab. Tip. Naz. Milano, Agnelli, 1858-1860, in 8°, pp.
XX-102, 168, 178, 187. (Non ha mai avuto ristampe integrali. Il 1°
saggio, Cenno storico d'Italia, è stato ripubbl.
dall'Ist. Ed. Ital., Milano, 1917, Breviari intellettuali, n. 83. Il
3°, Sulla Rivoluzione, è stato ripubbl. a
Bologna, Virano, 1894, pp. IX-269, come I vol. della Biblioteca
socialista, con avvertenza di MALAGODI,
OLIVETTI, GRAZIADEI, e pref. di COLAJANNI; in appendice il
Testamento Politico e qualche estratto degli
altri saggi. Successivamente lo stesso 3° saggio, in edizione molto
purgata, è stato ripubbl. da Sonzogno, Milano,
1905, Biblioteca universale, n. 339. Il 4° saggio, Ordinamento e
Costituzione delle Milizie Italiane, è stato
ripubbl. da Sandron, Palermo, 1901, con pref. di G. RENSI, col
titolo Come ordinare la Nazione armata, n. 4
della Biblioteca rara; e in parte dall'Ist. Ed. Ital., 1919,
Breviari intellettuali, n. 176, col titolo Pensieri sulla
strategia). Una edizione critica dei saggi è, sembra, in
preparazione a Roma.
30. Testamento Politico (pubbl. nel Journal des Débats, Parigi,
luglio 1857 e poi su parecchi giornali politici italiani e
stranieri. Venne successivamente ristampato più volte: in appendice
all'edizione originale dei Saggi, come opuscolo
a sé, su giornali e riviste. È certamente il più noto fra gli
scritti di P.).
31. Dichiarazione sul libro di bordo del Cagliari, 25 giugno 1857
(pubbl. sui giornali del luglio 1857 e poi più volte
ristampata).
32. Proclama letto a Torraca il 29 giugno 1857 (come sopra).
Lettere di Pisacane. Se ne trovano stampate nelle opere più oltre
cit. di DE MONTE, MARIO J., SAFFIOTTI,
CORRIDORE, NEGRI, PALAMENGHI-CRISPI, PESCI, ROMANO, FALCO,
LOEVINSON, OLIVIERI; in
ROSI, G. Mazzini e le critiche di un emigrato (Rivista d'Italia,
giugno 1905); nella Rivista di Roma, 23 gennaio
1902, pp. 51-53; nell'Epistolario di Cattaneo, Firenze, Barbera,
1901; in VALZANIA, Ai Ministri Nicotera
e Mancini. Memoria, Cesena, 1876; in CONSIGLIO, Un amore di G. P.
(Italia letteraria, Roma, 26 giugno
1932). Una lettera inedita, al Masi, da Roma, 6 maggio 1849, trovasi
nell'autografoteca Campori, a Modena
(ma di nessun interesse); molte, dello stesso periodo e d'interesse
puramente militare, trovansi nella Biblioteca
Naz. Vitt. Em. in Roma (Il Catalogo della mostra storica del
Risorgimento Italiano, ivi ordinata nel 1895, ne
numera cinque dell'aprile e giugno 1849, nonché una, a Dall'Ongaro,
da Genova, 28 sett. 1852). Nel testo, in
fronte a p. 216, ho pubbl. la fotografia di una lettera sin qui
inedita a Cosenz; e a p. 257 ho dato notizia di un'altra
lettera inedita custodita nel Museo del Risorgimento in Milano,
Cartella Pisacane. Ciò nonostante può
dirsi che l'epistolario di P. sia andato in grandissima parte
perduto; a meno che gelosi depositari non ci riservino
gradite sorprese.
Un breve autografo di P. trovasi riprodotto ne Il Risorgimento
Italiano, 1914, p. 125; d'un altro ha dato
notizia il FALCO, op. cit. P. 258: trattasi di due righe scritte da
P. nell'Album di Pateras, il 24 gennaio 1851.
171
[Le Opere complete di Pisacane sono state curate da A. Romano per le
Edizioni «Avanti!», Milano 1957-64 (Saggi
Storici-Politici-Militari sull'Italia..., 4 voll., 1957; Guerra
combattuta in Italia..., 1961; Scritti vari, inediti o
rari, 3 voll., 1964). Le lettere di Pisacane sono state raccolte da
A. Romano nell'Epistolario, Milano-Genova
1937.
Per gli studi su Pisacane, si veda la Nota bibliografica di F. Della
Peruta in C. PISACANE, La rivoluzione, Einaudi,
Torino 1976].
b)
La letteratura su P. è estremamente misera.
BELLONI G. A., Bibliografia di C. P., in Rassegna storica del
Risorgimento, 1929, fasc. I, pp. 253-59.
CAVALLI A., P., in La rivoluzione liberale, Torino, 31 maggio 1925.
Cenni sulla vita di C. P., premessi al I vol. dei
Saggi, ed. originale, pp. v-xx.
CONVERTI N., Brevi cenni su P., in La questione sociale, Paterson,
1895-1896.
CORRIDORE F., Autografi di C. P., Torino, 1911.
C. S., Articolo su P. nel Giornale delle associazioni operaie,
Genova, 3 luglio 1864.
DA CIMBRO, C. P., in Pagine critiche, 1926, p. 171 sg.
DEL RE, C. P. e le sue opere postume, in Rivista contemporanea,
Torino, marzo 1859, pp. II-VIII.
FABBRI L., C. P. La vita, le opere, l'azione rivoluzionaria. Cenni
storici, Roma-Firenze, 1904, pp. 32.
FALCO G., Note e documenti intorno a P., in Rivista storica
italiana, Torino, luglio 1927, pp. 241-302.
GHISALBERTI A. M., Il capo di S. M. della Repubblica Romana del 49,
in Rassegna storica del Risorgimento, Roma,
1925, pp. 681-687.
Grido (il). Numero unico dedicato a P. nel I centenario della
nascita. Napoli, 22 agosto 1918.
MACCHI M., C. P., in Almanacco nazionale per il 1858, Torino, 1858,
pp. 26-41.
C. P., in La Ragione, Torino, 25 luglio 1857.
MALON B., C. P., in Revue socialiste, Paris, nov. 1888.
MAZZINI G., Ricordi su C. P., in Italia del Popolo, Genova, 2, 4, 5,
7 maggio 1858. Poi in opuscolo e nelle raccolte
dei suoi Scritti.
MERLINO F. S., C. P., Milano, 1878.
MONTICELLI C., Da C. P. alle bande di Benevento, ne L'Avanti!,
Milano, 2 luglio 1911.
N(EGRI) E., L'idea politico-sociale di C. P., in La rivendicazione,
Forlí, n. 45, 27 agosto 1887. (All'articolo segue una
lunga scelta di passi dei Saggi, brevemente commentati: si vedano i
nn. 46-52, 55, 57, 61-62 del sett. dic.; nel
n. 51, 8 ott., compare un ritratto di P.
NEGRI L., C. P. e la campagna del 1848-49, in Rassegna storica del
Risorgimento, Roma, 1924, pp. 874-85.
NERI A., Una lettera di Cattaneo a P., in Il Risorgimento italiano,
Torino, 1908, pp. 306-8.
NOI (COLAJANNI N.), Gli avvenimenti e gli uomini: C. P., in Rivista
popolare di politica lettere e scienze sociali,
Roma, 1904, 15 luglio, pp. 337-39. Con ritratto di P.
ORANO P., I patriarchi del socialismo. Pisacane. Roma, 1904, pp.
130-136 e 214-15.
PALAMENGHI-CRISPI T., All'eroe di Sapri precursore di Garibaldi.
Documenti inediti, in Il giornale d'Italia, Roma,
3 luglio 1904.
Fabrizi, P., Pilo, in Il Risorgimento italiano, 1914, pp. 323-409.
R. Pilo e C. P., ivi, p. 533.
PISACANE (C.). Numero unico. Napoli, 2 luglio 1884, pp. 4.
Pisacane in L'Avanti della domenica, 1907, n. 32.
in Humanitas, Napoli, 2 luglio 1887.
P. e i Mazziniani, in La questione sociale, Firenze, 29 dic. 1883.
PISELLI G., Articoli commemorativi di P., in La rivendicazione,
Forlí, 7 luglio 1888, 6 luglio 1889, 12 luglio 1890.
172
PUGLIONISI C., P., in La rivoluzione liberale, Torino, 31 maggio
1925.
RENSI G., I profeti dell'idea socialista: C. P., in La critica
sociale, Milano, 1-15 aprile 1901.
ROMANO A., Contributo alla biografia di C. P., in La civiltà
moderna, Firenze, 15 giugno 1931.
SAFFIOTTI U., Un periodo sconosciuto della vita di C. P., in La
nuova antologia, 16 marzo 1913, p. 227 sg.
SAVELLI A., P., Firenze, 1925, pp. 116.
SPADONI D., Una voce della tomba, in La Critica sociale, Milano, 16
apr. 1897.
TRUSIANI M., Considerazione sopra un articolo del colonnello P., in
La voce della libertà, Torino, 1853, n. 306;
1854, nn. 3, 8, 14, 21,
VAIRO F., C. P. e la nazione armata, in Nuova riv. di fanteria,
Roma, 15 maggio 1910, p. 429 sg.
VENOSTA F., C. P. e compagni martiri a Sanza, Milano, 1863 (in
appendice un articolo di P. PICCARDI, di critica ai
principî socialisti di P.).
C. P., A. Milano ed altre vittime napoletane. Notizie storiche,
Milano, 1864.
C. P. e C. Nicotera. Notizie storiche, Milano, 1876.
Vittime (le) del fanatismo. C. P., Firenze, Nerbini, s. d., pp. 12.
ZUCCARINI E., P. e il socialismo moderno, Napoli, 1887.
Articoli vari in morte di P. comparvero ne L'Indipendente, Torino,
13, 21 luglio 1857; nel Diritto, Torino, 21 luglio
1857; ne L'Italia del Popolo, luglio 1857 (cit. nel testo); ne
L'Armonia, Torino, 17 luglio 1857; in vari giornali
inglesi ecc.
Articoli biografici su P. si trovano nelle opere di CARPI, Il
Risorgimento italiano, Milano, 1884, vol. III; di BONOLA,
I patrioti italiani, Milano, 1871; di D'AYALA, Vite degli italiani
benemeriti della libertà e della patria, Firenze,
1868, vol. I, pp. 328-31.
Notevoli accenni a P. si trovano nelle seguenti opere:
ANGIOLINI A., Cinquant'anni di socialismo in Italia. Firenze, 1919,
pp. 23-43.
DE CESARE R., La fine di un regno, Città di Castello, 1900.
DEL CERRO E., Fra le quinte della storia. Torino, 1903, pp. 199-215.
DOMANICO, L'Internazionale, vol. I. Firenze, 1911, pp. XVIII-XXVIII.
FALDELLA G., Dai fratelli Bandiera alla dissidenza. Torino, 1883.
FERRARI A., I precursori del movimento socialista in Italia, in
Nuova rivista storica, 1926.
LUCARELLI A., La Puglia nel sec. XIX. Bari, 1927.
LUZIO A., Carlo Alberto e Mazzini. Torino, 1923, pp. 416-34.
MALON B., Histoire du socialisme, vol. IV. Paris, 1884.
MARIO J., Opere più volte cit.
MICHELS R., Storia critica del movimento socialista in Italia.
Firenze, 1927.
MORANDO F. E., Mazziniani e Garibaldini. Genova, 1931.
NETTLAU M., E. Malatesta. New York, 1922.
NITTI F. S., Gli eroi della rivoluzione, in La vita italiana nel
Risorgimento, serie IV, vol. I, p. 59 sg.
ORIANI A., La lotta politica in Italia. Bologna, 1925, vol. II, pp.
406-413.
Onoranze postume a Pisacane:
Monumenti ecc. A Salerno, nei giardini pubblici, venne nel 1864
inaugurato un monumento a P. [A questa cerimonia si
riferisce probabilmente La rivendicazione, Forlí, 6 luglio 1889,
quando afferma che nel 1875 fu inaugurato in
Salerno un monumento a P., oratore il Bovio e che il socialista
Covelli non venne lasciato parlare.] (V.
ASPRONI G., Il simulacro di C. P. inaugurato in Salerno addí 2
luglio 1864. Napoli, 1864. Nel Museo del Risorgimento
in Milano, cartella P., trovasi una scheda di sottoscrizione per
questo monumento, intestata Associazione
dei Comitati di provvedimento preside Garibaldi. Comitato centrale
Genova; s. d.). A Napoli, nel cimitero
di Poggioreale, venne eretto nel 1872, a cura di Nicotera, un altro
monumento a P. [Presso al quale nel
1890, veniva sepolta Silvia, ricordata in una bellissima epigrafe di
G. Bovio (v. BILOTTI, op. cit., p. 437). Il
173
monumento sorge in uno speciale recinto dedicato agli uomini
illustri. Quanti amici di P. sepolti lí presso!
Conforti, Mezzacapo, D'Ayala, Dall'Ongaro, Boldoni,Cosenz...] (v.
ORANO, op. cit., p. 133). In Sapri la spedizione
non venne ricordata che da una concisa epigrafe; similmente a Ponza.
Il 2 luglio 1903 venne posta, a
Sanza, la prima pietra di un cippo ai caduti (v. il giornale
Masuccio, di Salerno, 2 luglio 1903, numero unico
dedicato alle onoranze a Pisacane, con articoli di Morvillo, Natoli
ecc. Il 3 luglio 1904 il cippo venne solennemente
inaugurato, presenti un nipote di P. e i fratelli di Falcone.
Parlarono per l'occasione i deputati Camera e
De Marinis (v. La cronaca di Salerno, 6 luglio 1904; La rivista
popolare, 15 luglio 1904; Il giornale d'Italia, 3
luglio 1904). Nel 1906 venne deliberata l'apposizione di una lapide
commemorativa al Fortino di Cervara
(BILOTTI, 20). In Napoli Pisacane non è ricordato che dal nome di
una modesta strada (come in molte altre
città italiane). Nel 1911 venne inaugurata a Tatti (Massa marittima)
una targa di marmo a P. precursore di Garibaldi
e primo banditore del socialismo in Italia (e nella stessa occasione
ristampato in opuscolo il suo Testamento
politico. Grosseto, 1911). A Genova P. è ricordato da una lapide
murata sulla facciata di casa Benettini,
nella via a porta degli Archi.
Varie. Fin dall'ottobre 1857 Mazzini pensò a fare coniare una
medaglia in onore di P., raccogliendo contributi fissi di 50
cent. in Italia e all'estero; ma l'iniziativa, s'è detto, non ebbe
attuazione. Nel 1860 Garibaldi dittatore assegnò
una pensione vitalizia a Silvia, figlia di P. (v. MARIO J., In
memoria di Nicotera, 48 sg.; A. Bertani e i suoi
tempi, I, 245).
Una proposta di legge per «lo assegnamento di una pensione vitalizia
ai superstiti della spedizione P. nel 1857»
venne presentata alla Camera nel 1877 da Cairoli, Garibaldi,
Sprovieri, Fabrizi, Bertani ecc. La discussione ebbe luogo
il 29-30 gennaio, oratori principali il Cairoli (in favore), Sella
(contro). Il progetto venne preso in considerazione, ma
restò poi sempre allo stato di progetto (v. MARIO, In memoria, p.
117 e i giornali del tempo, ad es. Il Dovere, Roma, 1°
febbraio 1877. Il discorso Cairoli venne anche pubbl. a parte: Roma,
1877, pp. 10).
Gruppi socialisti ed anarchici intitolati a P. vennero fondati qua e
là in Italia dopo il 1880: ad es. a Forlí nel
1886, a Cervia e a Villa Savio nel 1888. Le date anniversarie di P.
vennero frequentemente commemorate dai socialisti,
la prima volta, credo, dalla Federazione socialista forlivese, il 2
luglio 1882.
Tre numeri unici di giornali vennero, per quanto mi consta, dedicati
a P.: il 2 luglio 1884, il 2 luglio 1903 e il
22 agosto 1918 (già cit.).
Nell'ottobre 1887 Antonio Fratti, mazziniano, tenne a Forlí una
conferenza in gran parte dedicata a P. (v. La rivendicazione,
Forlí, 15 ott. 1887) [Fratti rivendicò il sostanziale accordo di
pensiero tra Mazzini e P., ma venne vivacemente
rimbeccato dalla stampa socialista].
Il nome di P. echeggiò spesso alla Camera italiana: ad es. l'1
luglio 1861 (Crispi); il 29-30 gennaio 1877 (Cairoli,
Sella); il 17 giugno 1882 (Cavallotti); il 13 giugno 1891
(Imbriani); il 13 giugno 1894 (idem); il 10 aprile 1897
(Bissolati); l'11 aprile 1897 (Imbriani) [Bissolati esaltò «l'atto
dell'eroe di Sapri, che, socialista, si immolava per creare
l'Italia borghese, perché sapeva che lo sviluppo della borghesia e
la costituzione della nazionalità sono preparazione
necessaria della società comunista». Imbriani ribatté che «P.,
sbarcando a Sapri, non aveva che un pensiero: l'unità
italiana sotto la bandiera della repubblica».]
c)
ALBINI D., La S. di S. e la provincia di Basilicata. Roma, 1891, pp.
24.
AMABILE A., La genesi storica e il contrib. ideale della S. di S.
Nocera, 1899.
Ansie (le) del governo borbonico nel 1857. In Il Ris. ital., 1920,
p. 399 sg.
BILOTTI P. E., La S. di S. Da Genova a Sanza. Salerno, 1907.
C.(ASANOVA) E.(UGENIO), Sulla preparazione di S., in Rass. stor. del
Ris., 1924, p. 511 sg.
DE LEO A., Commemorazione della S. di S. Salerno, 1885.
DE MONTE L., Cronaca del Comitato segreto di Napoli su la S. di S.
Napoli, 1877.
FABRIZI N., La S. di S. e il Comitato di Napoli. Napoli, 1864.
FISCHETTI G., Cenno storico dell'invasione dei liberali in Sapri nel
1857. Napoli, 1877.
GIANGIACOMI P., Anconitani precursori e soldati dei Mille. Ancona,
1910.
LABATE V., R. Pilo e la S. di S., in Rivista d'Italia, gennaio 1908,
pp. 145-64.
LACAVA M., Nuova luce sulla S. di S., in Atti dell'Accad.
Pontaniana, vol. XXII.
MAZZIOTTI M., Documenti relativi alla S. di S., in Rass. stor. del
Ris., 1916, p. 765 sg.
MESSAGGI G., Della sommossa di Genova, dei fatti di Livorno e dello
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1857.
174
PAOLUCCI G., Rosolino Pilo. Memorie e documenti dal 1857 al 1860, in
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POGGI F., Sapri (sped. di), in Dizionario del Ris. nazionale,
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RONDINI D., La S. di S., in Il Ris. Ital., 1911, pp. 160-88.
SAFFI A., Cenni biografici e storici a proemio dal testo, in Scritti
ed inediti di G. MAZZINI, vol.. IX, pp. CXXXCLIV.
ZAGARIA R., La parte del Mazzini nella spedizione di Sapri, in Rass.
stor. del Risorg., aprile-giugno 1927.
(Si vedano in TABARRINI, Vita di Lenza; MINGHETTI, Miei ricordi;
PASOLINI, Memorie raccolte da suo figlio, le
impressioni destate su Pio IX, allora in viaggio nelle Legazioni,
dalle notizie della Spedizione di Sapri).
La spedizione di Sapri dette luogo a numerosi componimenti poetici,
quasi tutti assai scadenti, seppure calorosi e
ispirati. Vanno citati, in ordine di tempo: MERCANTINI L., La
spigolatrice di Sapri, stampata la prima volta
nel Movimento, Genova, 3 agosto 1857; RICCIARDI C., Novissima verba.
Carme ai caduti di Sapri, in La
Gazzetta del Popolo, Torino, 29 luglio 1857: VECCHI C. A., Canto
funebre, ivi, 17 agosto 1857; CURZIO F.,
L'eroe di Sapri (4 sonetti), 1858, ristampati in Poesie edite ed
inedite di F. C., Milano, 1883. LOMBARDI E.,
La spedizione di Sapri, letta la prima volta nel 1865 e poi stampata
nella Biblioteca universale del Sonzogno;
QUARTA A., La spedizione di Sapri. Versi, Roma, 1877; versi di TERZI
R., e di CAPASSO G. si leggono sul
giornale Masuccio, Salerno, 2 luglio 1903. Fra gli stranieri che
cantarono la spedizione si veggano
SWINBORNE, Song of Italy; HARRIET HAMILTON-KING, The disciples,
London, 1873 (v. il brutto poemetto
Nicotera). CARDUCCI dedica due versi a Pisacane in una delle sue odi
barbare (Scoglio di Quarto). È
noto che anche VICTOR HUGO tessé l'apologia di P., dicendolo più
grande di Garibaldi nello stesso modo che
Brown era da considerarsi più grande di Washington.
d)
Sugli amici di Pisacane:
CARRANO F., Ricordanze stor. del Ris. ital., 1822-1870. Torino,
1885.
CASONI F., G. Cadolini, in Rass. stor. del Ris., 1922, p. 45 sg.,
315 sg. (anche: CADOLINI, Memorie, Milano, 1911).
CATTANEO C., Opere ed epistolario, varie edizioni.
COLLETTI A., A. Franchi e i suoi tempi. Torino, 1925.
DE GUBERNATIS A., F. Dall'Ongaro e il suo epistolario scelto.
Firenze, 1875.
(FANELLI, intorno a): CHIARELLI G., Un patriota martinese: G. F., in
Il Mondo, Roma, 12 aprile 1925.
TEOFILATO C., G. F. dalla Giovine Italia alla Intern., in Vita e
pensiero, Roma, 1° agosto 1925, pp. 205-8.
MALATESTA E., G. F. Ricordi personali, in Vita e pensiero, Roma, 16
sett. 1925, pp. 252-54. LUCARELLI
A., La Puglia nel sec. XIX, cit., p. 223 sg.
FERRARELLI G., L. Mezzacapo e i suoi tempi. Roma, 1885.
FRANCHI A., A G. Mazzini. Torino, 1857.
GROPPA B., B. Falcone: discorso. Corigliano cal., 1911.
GUARDIONE F., Il generale E. Cosenz. Palermo, 1900.
HERZEN A., My past and thoughts. The memoirs of. London, 1924.
ITALICUS, L. Orlando e i suoi fratelli. Roma, 1898.
MACCHI M., La conciliazione dei partiti. Genova, 1856.
MARIO J., A. Bertani e i suoi tempi. Firenze, 1888.
In memoria di G. Nicotera. Firenze, 1894.
NERI A., Un episodio inedito della vita di N. Bixio. Genova, 1912.
OLIVIERI G., I Plutino nel Risorg. nazionale. Campobasso, 1907.
PESCI U., Il gen. C. Mezzacapo e il suo tempo. Bologna, 1908.
PUPINO CARBONELLI C., G. Mignogna nella storia dell'unità d'Italia.
Napoli, 1889.
ROMANO N., G. B. Falcone, Città di Castello, 1888.
175
SAFFIOTTI U., Lettere ined. di C. Cattaneo a M. Macchi, in Rass.
stor. del Ris., ott.-dic. 1925, pp. 721-800.
VISALLI V., C. De Lieto. Roma, 1919.
Sui tempi di Pisacane:
(Sulla vita militare nelle Due Sicilie borboniche) D'AYALA M.,
Memorie di M. D'Ayala e del suo tempo. Torino, 1886;
FERRARELLI G., Memorie militari del Mezzogiorno d'Italia. Bari,
1911.
(Sulle condizioni civili delle Due Sicilie borboniche) DE CESARE,
op. cit.; MAZZIOTTI M., La reazione borbonica
nel regno di Napoli. Milano, 1912.
(Sulla Legione straniera) MOREL, La Légion étrangère. Paris, 1912;
GRISOT et COULOMBON, Historique de la L.
E. de 1831 à 1887. Paris, 1888.
(Sulle campagne di guerra del 1848-49 le citazioni sarebbero
innumerevoli, perciò si omettono; le op. seguenti vengono
notate solo perché hanno riferimenti diretti a Pisacane) DE
HOFSTETTER G., Giornale delle cose di Roma
nel 1849. Torino, 1851; LOEVINSON E., G. Garibaldi e la sua legione
nello Stato romano 1848-49. Roma,
1902-907; ROSELLI P., Memorie relative alla spedizione e
combattimento di Velletri. Torino, 1853;
GABUSSI G., Memorie per servire alla storia della rivoluzione degli
Stati romani. Genova, 1850.
(Sulla emigrazione politica in Isvizzera e in Piemonte) CADOLINI G.,
Memorie del Ris. dal 1848 al 1862. Milano,
1911; LOERO A., Gli emigrati politici in Genova nell'epoca del Ris.,
Bologna, 1911; CASANOVA E., L'emigrazione
siciliana dal 1849 al 1851, in Rass. stor. del Ris., XI, 1924; POGGI
F., Emigrazione politica italiana
nel Regno di Sardegna, in Dizion. del Ris. Naz., cit., vol. I, pp.
964-972.
(Sulla emigrazione politica in Inghilterra) CALMAN A. R.,
Ledru-Rollin après 1848 et les proscrits français en Angleterre.
Paris, 1921; WHITAKER T., Sicily and England. London, 1907.
(Sul dissidentismo nel movimento repubblicano) La bibliografia è
molto vasta; si vedano, per una prima informazione,
LAVELLI E., PEREGO P., I misteri repubblicani e la ditta Brofferio,
Cattaneo, Cernuschi e Ferrari. Torino,
1851; ROSI M., Mazzini e la critica di un emigrato, in Riv.
d'Italia, 1905.
(Sul murattismo) L'opera più recente è GAVOTTI M. V., Il movimento
murattiano dal 1850 al 1860. Roma, 1927.
(Su La libera parola) CASONI F., La Libera parola. Sua diffus. e
influenza, in Rass. stor. del Ris., 1928, p. 362 sg.;
MICHEL E., Un giornale rivoluzionario: La Libera Parola, in Riv.
d'Italia, 30 giugno 1915, PP. 942-48;
ITALICUS, op. cit.; ROSI M., I Cairoli. Torino, 1908.
(Sui movimenti di Genova e di Livorno, 1857) MICHEL E., L'ultimo
moto mazziniano. Livorno, 1903; PARETOMAGLIANO
B., Lettere e ricordi di Mazzini. Torino, 1924; scritti vari di J.
MARIO, cit., e specialmente il seguente:
La spedizione di C. Pisacane e i fatti di Genova del 1857, in La
Riv. popolare a G. Mazzini nel 100°
anniversario della nascita; Processo di Genova, 1858, in La gazzetta
dei tribunali, febbraio 1858.
(Sul processo di Salerno, 1858) Atto di accusa proposto dal Proc.
del Re... contro G. Nicotera ed altri imputati... e
decisione emessa dal G. C. su di essa. Salerno, 1857; Atto di accusa
per i fatti di Ponza e di Sapri. Salerno,
1859.
(Sulle polemiche determinate dall'insuccesso della spedizione di
Sapri) Oltre alle opere già citate sulla spedizione:
Resoconto del processo di diffamazione promosso da S. E. il Min.
dell'Interno G. Nicotera contro S. Visconti,
gerente della Gazzetta d'Italia. Firenze, 1877; FOSCHINI L. D.,
Processo Nicotera Gazzetta d'Italia. Resoconto
stor. aneddotico. Milano, 1876; PALLESCHI F. G., G. Nicotera ed i
fatti di Sapri, Firenze, 1876; DE
BELLIS F., L'eroe di Sapri. Napoli, 1877; ed altri scritti sul
processo di Firenze di CARRARA F.,
CERLENIZZA L., CORSI T., MARI A.
(Sulla questione del Cagliari) Voluminose memorie ufficiali dei
governi napoletano ed inglese si trovano a stampa;
intorno ad esse si ebbe una vasta fioritura di opuscoli; molto
materiale trovasi ancora inedito negli Archivi di
Napoli, Torino e Londra. Si veda BIANCHI N., Storia della diplomazia
europea in Italia, VII, pp. 408-24.
e)
ACERBI C., Progetto di miglioramento morale e materiale, a uso delle
classi operaie. Casale, 1851.
BIANCHI-GIOVINI A., Prediche domenicali. Torino, 1856.
Biblioteca democratica settimanale. Genova, 1850-51.
BOCCARDO G., Trattato teorico pratico di economia politica. Torino,
1853.
CAPELLO G., Pensieri sul miglioramento morale e materiale della
classe degli operai. Torino, 1849.
176
CARPI L., Del credito agrario e fondiario. Torino, 1854.
C. G. A. R., Timori e speranze per la Chiesa dalle ultime vicende di
Roma. Genova, 1850.
CORVAJA G., La bancocrazia. Torino, 1853.
La lega industriale, ossia la panacea generale per guarire la
società di tutti i mali del monopolio. Torino, 1853.
Demagogia (la) italiana ed il papa-re. Torino, 1849.
F. T., Cenni sull'attuale politica europea, ossia il nuovo sistema
di. Genova, 1850.
GIUDICE L. M., Elementi di economia politica e industriale. Torino,
1855.
GIULIO C. I., Della tassa del pane. Torino, 1853.
MACCHI M., Dell'importanza sociale acquistata dalle moltitudini.
Valenza, 1856.
MASSINO-TURINA P. G., La beneficenza ordinata a sistema, ossia
ricerca delle cause della miseria e dei modi
pratici di fermarne il corso. Torino, 1850.
MENEGHINI A., Elementi di economia sociale ad uso del popolo.
Torino, 1851.
MONTANELLI G., Introduzione ad alcuni appunti storici sulla
rivoluzione d'Italia. Torino, 1851.
MORELLI G., Enosetnismo. 1855.
QUAGLIA L. Z., Sulle società di operai formatesi in Piemonte dopo lo
Statuto. Torino, 1854.
Repubblica (la) italiana del 49. Suo processo. Torino, 1850.
ROSMINI A., Comunismo e Socialismo. Ragionamento. Genova, 1849.
RUSCONI C., Prolegomeni di economia politica. Torino, 1852.
Saggio intorno al socialismo e alle dottrine e tendenze socialiste.
Torino, 1851.
SCIALOIA A., I principii della economia sociale. Torino, 1849.
Carestia e governo. Torino, 1853.
(TAPARELLI D'AZEGLIO P. L.) Sette libere parole di un italiano sulla
Italia. 2a ed., Torino, 1849.
TRINCHERA F., Corso di economia politica. Torino, 1854.
TURCOTTI A., Dei diritti dell'uomo su la produzione del lavoro
nell'interesse delle classi operaie. Varallo, 1853.
TUVERI G. B., Specifici contro il codinismo. Cagliari, 1849.
Del diritto dell'uomo alla distruzione dei cattivi governi.
Cagliari,1851.
Indice dei nomi citati nel testo e nelle note
Abd-El-Kader
Accini, Nicola
Acerbi, Giovanni
Agresti, Filippo
Ajossa, Luigi
Albini, Giacinto
Albini, Nicola
Alifano, Carmine
Allemandi, M. N.
Andriani, Giuseppe
Angherà, Francesco
Arago, D. F.
Ardoino, Nicola
Armellini, Carlo
Arnulfi, colonnello
Ashurst, sorelle
Avarna di Gualtieri, Carlo
Avezzana, Giuseppe
Bachi, Riccardo
Badino, fuochista del Cagliari
Bakunin, Michele
177
Balbo, Cesare
Balsamo, Cesare
Balzani, ufficiale napoletano
Bandiera, fratelli
Barbagallo, Corrado
Barbar, console inglese a Napoli
Barbieri, Luigi
Basile, Raffaello
Bava, Eusebio
Bazigher, Giovanni
Beccaria, Cesare
Belgiojoso, Cristina
Bellazzi, Federigo
Benettini, Carlotta
Bentivegna, Francesco
Béranger, P. G.
Bernstorff, conte
Bertani, Agostino
Besana, Davide
Bianchi, Nicomede
Bianchi-Giovini, Aurelio
Bianchini, Ludovico
Biggs, Carolina
Biggs, Elisabetta
Biggs, Matilde
Bilotti, P. E.
Binda, Antonio
Bixio, Nino
Blanc, Luigi
Blanqui, L. A.
Boccardo, Gerolamo
Boffa, cameriere del Cagliari
Boldoni, Paolo
Bonavino, Cristoforo, vedi Franchi, A.
Bonghi, Ruggero
Bonomo, G., marchese di Castania
Borella, Alessandro
Borra, maggiore
Bosco, ufficiale napoletano
Bottero, G. B.
Brambilla, capitano
Brofferio, Angelo
Broggia
Brown, console inglese a Genova
Bucci, Eusebio
Buttà, Giuseppe
Cabella, Cesare
Cabet, Stefano
Cadolini, fratelli
Cadolini, Giovanni
Cafiero, Carlo
Cairoli, Ernesto
Calona, Ignazio
Calvino, Salvatore
Camarda, sergente
Camozzi, fratelli
Campana, maggiore
Campanella, Federico
Cantú, Cesare
178
Canuti, Filippo
Capasso, G.
Capponi, Gino
Capurro, G. B.
Caputo, Giuseppe
Carafa, Luigi
Carbonelli, Vincenzo
Carducci, Costabile
Carducci, G. B.
Carignano, principe di
Carlo Alberto, re di Sardegna
Carpi, Leone
Carrano, Francesco
Casanova, Eugenio
Castelli, Agostino
Castelli, don Domenico
Castelli, Michelangelo
Catapano, evaso da Ponza
Cattaneo, Carlo
Cattaneo, Giovanni
Cavedoni, Cel.
Cavour, Camillo
Cecchi
Cenni, Guglielmo
Cernuschi, Enrico
Chiala, Luigi
Ciampi, Domenico
Cironi, Pietro
Clarendon, lord Giorgio
Clerici, Cesare
Colletti, Arturo
Comandini, Alfredo
Conforti, Raffaele
Considérant, Vittorio
Consiglio, Alberto
Constant, Beniamino
Correnti, Cesare
Cortez, Donaso
Corti, Luigi
Corvaia, Giuseppe
Cosenz, Enrico
Crispi, Francesco
Croce, Benedetto
Cuneo, G. B.
Curzio, Francesco
Czarnowski, Adalberto, generale,
Dabormida, Giuseppe
Daelli, L. G.
Dall'Ongaro, Francesco
D'Ambrosio, Gaetano
D'Ambrosio, maggiore
Daneri, Francesco
Daneri, Giuseppe
Dante Alighieri
D'Ayala, Mariano
D'Azeglio, Massimo
De Boni, Filippo
De Cesare, Raffaele
De Cesaris
179
De Dominicis
De Gubernatis, Angelo
De Leo, D.
De Lieto, Casimiro
De Luca, Pasquale
De Mata, Giuseppe
De Monte, Luigi
De Sanctis, Francesco
De Turris, maggiore
De Sauget
Dickens, Carlo
Di Lorenzo, Enrichetta
Domanico, Giovanni
Doria, Gino
Dragone, Luigi
Dumont, Carlotta
Dumont, Enrico
Dupont De L'Eure
Durando, Giacomo
Engels, Federico
Esposito, Michele
Fabbri, Luigi
Fabrizi, Nicola
Fagan, Giorgio
Falco, Giorgio
Falcone, G. B.
Faldella, Giovanni
Fanelli, Giuseppe
Fanti, Manfredo
Fardella, Vincenzo
Farguliar, comandante il Malacca
Ferdinando IV, re di Sicilia,
Ferdinando II, re delle Due Sicilie
Ferrari Giuseppe
Ferrari, Napoleone
Filangieri, Gaetano
Fittipaldi, Luigi
Fonseca, capitano
Fontana, maggiore
Foresti, Felice
Foschini, Federico
Foschini, L. D.
Fourier, Carlo
Fra Diavolo, vedi Pezza, Michele
Francesco I, re delle Due Sicilie
Francesco II, re delle Due Sicilie
Franchi, Ausonio
Gabussi, Giuseppe
Gagliani, Giovanni
Galletti, Giuseppe
Gallotti, famiglia
Gallotti, Giovanni
Galluppi, Pasquale
Garibaldi, Giuseppe
Gasparone
Gavotti, M. V.
Geisser, A.
180
Gennarelli, A.
Gentilini, Enrico
Ghio, colonnello
Ghisi
Giangiacomi, P.
Giannelli, Andrea
Gioberti, Vincenzo
Giudice, L. M.
Giulio Cesare
Giulio, C. I.
Giusti, Giuseppe
Giusti, membro della Commissione di Guerra a Roma
Gladstone, Guglielmo
Glassford, Giorgio
Gojorani, Ciro
Gonzales, capitano
Goodwin, console inglese a Palermo
Goti, Agostino
Gorini
Govean, Felice
Grillenzoni, Giovanni
Grimelli, Genn.
Gropello di, Giulio
Gualterio, F. A.
Guerrazzi, F. D.
Guglielmi, Francesco
Hammond, sir
Haug, colonnello
Hawkes, Emilia
Herzen, Alessandro
Hofstetter, Gustavo
Hudson, Giacomo
Iacini, Stefano
Italicus
Jack La Bolina, vedi Vecchi, V. A.
Jovene
Kirckiner
Körner, Gottfried
Kropotkine, Pietro
Labate, Valentino
Labriola, Arturo
Lacava, Michele
Lacava, Pietro
La Cava, Rocco
La Cecilia, Giovanni
La Farina, Giuseppe
La Grange
Lamartine, Alfonso
La Masa, Giuseppe
Lamberti, Giuseppe
Lamennais, Félicite
Lamoricière, Luigi
Lavelli, Enrico
Lazzari, Dionisio
Lazzarini
181
Lazzaro, Giuseppe
Lechi, Teodoro
Ledru-Rollin, A. A.
Lemmi, Adriano
Lenzoni
Leone, chirurgo
Leopoldo I, re del Belgio
Leroux, Pietro
Lesseps, Ferdinando
Levi, Davide
Liberatore, Luciano
Libertini, G.
Linaker, Arturo
Loero, Attilio
Loevinson, Ermanno
Longo, Giacomo
Lo Russo, T.
Lucarelli, A.
Luigi Filippo, re dei Francesi
Luzio, Alessandro
Lyons, ammiraglio
Macchi, Mauro
Maestri, Pietro
Magnonc, fratelli
Magnone, M.
Maineri, B. E.
Maino, Luigi
Mameli, Goffredo
Mamiani, Terenzio
Manara, Luciano
Mancini, P. S.
Mangini, Antonio
Manin, Daniele
Mannucci
Manzini, Angelo
Marco Bruto
Mario, Alberto
Mario White, Jessie, vedi White, Jessie.
Martinetti
Marx, Carlo
Mascherò, Rosa
Masi, Luigi
Massari, Giuseppe
Massino-Turina, P. G.
Massoni
Matera, G. B.
Matina, Giovanni
Matteucci, Carlo
Mayor, Edmondo
Mazzini, Giuseppe
Mazzini, Maria
Mazziotti
Mazziotti, Matteo
Mazzoldi, Luigi
Mazzoni, D.
Medici, Giacomo
Mellana, Filippo
Meneghini, Andrea
Menghini, Mario
182
Mercantini, Luigi
Mercurio, cameriere del Cagliari
Metternich, principe di
Mezzacapo, Carlo
Mieroslawski, generale
Mignogna, Nicola
Milano, Agesilao
Milbitz, generale
Mileti, Pasquale
Minghetti, Marco
Mini, Costantino
Modena, Gustavo
Montanelli, Giuseppe
Montebello, duca di
Montecchi, Mattia
Montemayor, Lorenzo
Monti, Antonio
Monticelli, Carlo
Morando, F. E.
Mordini, Antonio
Moretti, tipografo
Murat, famiglia
Murat, Gioacchino
Murat, Luciano
Musitano, capitano
Musolino, Benedetto
Musto
Napoleone I, imperatore
Napoleone III, imperatore
Natoli, Vincenzo
Negri
Negri, Luigi
Neri, Achille
Nettlau, Max
Nicotera, Giovanni
Nightingale, Florence
Nisco, Niccola
Nobili, Luigi
Noce, Carlo
Nugent, generale
Olivieri, generale
Olivieri, Giovanni
Orano, Paolo
Oriani, Alfredo
Orlando, fratelli
Orsini, Felice
Orsini, Vincenzo
Oudinot, generale
Pacifico, Francesco
Padula, Vincenzo
Pagano, Mario
Palamenghi-Crispi, T.
Pallavicino, Giorgio
Palmerston, lord
Panizzi, Antonio
Paolucci, G.
Pasi, colonnello
183
Passatore, il
Pateras, Teodoro
Pellegrini
Peluso, famiglia
Pepe, Guglielmo
Perego, Pietro
Pesci, Ugo
Pezza, Michele (Fra Diavolo)
Pianell, Giuseppe
Pigozzi, Francesco
Pilo, Ignazio
Pilo, Rosolino
Pio IX, papa
Pisacane, famiglia
Pisacane, Filippo
Pisacane, Luisa
Pisacane, Silvia
Pisani, relegato a Ventotene
Pisani, Enrico
Piselli, G.
Plutino, Agostino
Poerio, poi Nicotera, Gaetanina
Poerio, Raffaele
Poggi, F.
Poggi, fratelli
Praito, Alfonso, vedi Dragone
Prato, Giuseppe
Profumo, Giacomo
Promis, Carlo
Proudhon, P. J.
Pugliese, S.
Pupino-Carbonella, Giuseppe,
Quadrio, Maurizio
Quaglia, L. Z.
Radetzki, generale
Radice, dep. al Parlamento
Ramorino, generale
Rattazzi, Urbano
Raulich, Italo
Rebora, fuochista del Cagliari
Remorino, Girolamo
Restelli, Francesco
Revere, Giuseppe
Ricciardi, Giuseppe
Ricotti, Ercole
Ridella F.
Rinaldini
Riva
Rizzo, Antonio
Rocchi
Romagnosi, G. D.
Romano, Aldo
Romano, famiglia
Romano-Catania, Giuseppe
Rondini, Druso
Roselli, Pietro
Rosetta, compagna di Pilo
Rosi, Michele
184
Rosmini, Antonio
Rosmini, Enrico
Rossetti, D. G.
Rossetti, Gabriele
Rossi, Pellegrino
Rubattino, Società
Ruffini, Jacopo
Rusconi, Carlo
Sacchi, Achille
Saffi, Aurelio
Saggiotti, U.
Saint-Simon, C. E.
Salasco, generale
Saliceti, Aurelio
Salomone, Federico
Salomone, Giustino
Salvemini, Gaetano
Sand, Georges
Sanzio, ufficiale napoletano
Saponi, fuochista del Cagliari
Savi, B. F.
Schmit, G. P.
Scialoia, Antonio
Sciesa, Amatore
Serra-Capriola, duca di
Settembrini, Luigi
Settimo, Ruggero
Sforza Cesarini, Lorenzo
Signorelli, Rocco
Sineo, Riccardo
Sirtori, Giuseppe
Sitzia, Antioco
Solaro Della Margarita, Clemente
Sorel, Giorgio
Spaventa, Silvio
Speri, Tito
Spinuzza, Salvatore
Sprovieri, Vincenzo
Stansfeld, Giacomo
Sterbini, Pietro
Stopford, ammiraglio
Tapparelli D'Azeglio, P. L.
Taylor
Temple, Guglielmo
Teofilato
Thiers, Adolfo
Thurn, generale
Tivaroni, Carlo
Todesco, Angelo
Tommaseo, Nicolò
Torelli, Giuseppe
Torraca, Francesco
Torre, Francesco
Travi, cameriere del Cagliari
Trinchera, Francesco
Trusiani, Massimino
Tucci, Alberto
Turcotti, Aurelio
185
Tuveri, G. B.
Ulloa, Girolamo
Vairo, Francesco
Valerio, Lorenzo
Varé, Daniele
Vecchi
Vecchi, Vittoria
Vecchi, V. A.
Venosta, Felice
Venturini, evaso da Ponza,
Verratti, Silvio
Vico, G. B.
Villa, Tommaso
Villamarina, marchese di
Villari, Raffaele
Visalli, Vittorio
Vitiello, parroco di Ponza
Vittorio Emanuele II, re di Sardegna
Wallace, Guglielmo
Welden, generale
Whitaker, Tina, 338.
White, Jessie, poi Mario, Jessie,
Zini, Luigi,