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Nello Rosselli

Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano


Indice

Introduzione Perché è vivo Pisacane

    Giovinezza
    Fuga
    Azione
    Difesa di Roma
    Dopoguerra difficile
    Primo libro
    Piemonte socialista
    Raccoglimento
    Questione borbonica
    Testamento
     Fine
Note
Nota bibliografica
Indice dei nomi citati nel testo e nelle note


Introduzione

Perché è vivo Pisacane

La personalità di Pisacane nella nostra storia politica è di quelle che disorientano per la loro molteplicità. C'è da un verso il soldato colto e studioso che considera il risorgimento d'Italia quale un problema spiccatamente militare; c'è dall'altro lo scrittore che ne sottolinea le premesse e le inderogabili finalità di rivoluzione integrale. C'è il mazziniano puro di Sapri; il socialista e il nazionalista; l'aristocratico e il transfuga della sua classe sociale; l'uomo romantico e l'ammirator di Cattaneo.

Io lo vedo in certo modo come uno specchio d'Italia nel suo tempo. In lui, per quanto non uomo di primissima linea nel Risorgimento, anzi proprio perché non lo fu né mai pretese d'esserlo, si riflettono infatti le varie esigenze, aspirazioni, impostazioni ideali del popolo italiano a mezzo il secolo XIX. La sua vita inquieta le comprende e le esprime un po' tutte; egli ha l'istinto immediato e sicuro della necessità di volta in volta prevalente, sa la falla che preme di chiudere, il silenzio che preme di rompere, il gesto che preme di fare. Il lettore troverà in questo libro la chiave di molte sue contradizioni apparenti, e soprattutto la giustificazione di quel gesto disperato e paradossale che fu, da parte sua, la spedizione di Sapri.

Guerriero e cospiratore, Pisacane ci ammonisce che il riscatto di un popolo dalla tirannia, dalla servitú, dalla cronica fiacchezza politica, è anzitutto problema morale. Cospirazioni, sètte, rivolte, guerra, sta bene; ma hanno ad essere l'ultimo atto. Primo elemento della soluzione: indagare e chiarire perché mai questo popolo si lasciò rapire o rinnegò indipendenza e libertà. Secondo: crearsi e diffondere la coscienza della possibilità, e quindi della doverosità della risurrezione. Terzo: crearsi e diffondere una visione chiara degli ostacoli da superare, delle resistenze da vincere, degli errori da evitare, dei mezzi più atti a sollecitare la risurrezione, e poi del senso da darle, e del come fondarla graniticamente.

Intorno a questi problemi appunto Pisacane studiò con ostinata passione, e chi legga i suoi libri ha la sensazione d'un incessante frenetico inquieto perché? volto alla storia remota e recente d'Italia, ai suoi geni, alle sue miserie, alle sue condizioni geografiche, economiche, ai suoi ordinamenti passati, ai costumi del suo popolo, all'Europa circostante. Perché così grande e libera l'Italia, e poi non più che una inerte colonia di sfruttamento per le nazioni finitime? Perché così belligera e poi così imbelle e vigliacca? Perché tanta decadenza nei mezzi, nelle volontà, negli ingegni? Perché?

La risposta suona un inno di fede: l'Italia sta per rinascere a un alto destino; ma il problema del come è gravissimo. Dar vita a una grande nazione è assunto da giganti; bisogna suscitare nei futuri cittadini l'animo, il costume, la consapevolezza adatti ai compartecipi di tanta impresa. Studiare come viva lo Stato moderno, su quali forze si regga, quale ne sia l'ordinamento migliore, quali rapporti debbano correre tra la cittadinanza e il potere esecutivo, quali obiettivi concreti si debbano proporre alla nuova entità statale che si disegna. Tutto fuor che l'improvvisazione, insomma, in quest'Italia in gestazione, nella quale secondo i benpensanti sarebbe meglio non impostare il problema instituzionale per non rischiare di disgustar Torino, né quello di unità o federazione per non ispaventare Napoli o Roma o anche l'Europa, né quello sociale per non buttar la borghesia in braccio alla reazione, né quello militare per la ragione X, né quello della futura politica estera per la ragione Y. «Parole chiare all'Italia di domani»: questo sottotitolo vien voglia di dare alle pagine migliori di Pisacane, non perché le soluzioni da lui proposte meritino d'esser levate a cielo, ma per aver egli, pur non nato agli studi, se non a quelli specializzati tecnico-militari, inteso appunto la necessità di anticipare i problemi del futuro Stato, di impostarli e dibatterli come se fossero attuali, di appassionare gli italiani al mondo del suo nascimento: ciascuno doveva sentirsene insieme e figlio e padre, e come padre ambire, prima che la creatura avesse vita, di rappresentarsi la forma, l'espressione e il peso e il posto che un giorno essa occuperebbe nel mondo.

Ma furono in pochi a pensarla così: terribilmente pochi. Né qui si voglion ripetere sul Risorgimento italiano certe considerazioni che a furia di essere originali son doventate stantíe sulla sua intrinseca insufficienza, lo scarso suo fondamento di cultura, la magra partecipazione delle masse, e via discorrendo. Il Risorgimento fu il resultato di una doppia serie di sforzi: negativi gli uni (per liberarsi dalla dominazione straniera e dall'oppressione politica), positivi gli altri (per costruire un'entità politica nuova). Alla fase negativa può dirsi che prendesse parte in un modo o nell'altro, o per ragioni ideali o per ragioni d'interesse o per una combinazione di queste e di quelle, una frazione notevolissima degli italiani pensanti; alla fase positiva, effettivamente, una minoranza sparuta. Ancora alla vigilia del '59 quegli italiani pensanti, salvo eccezioni ch'io direi numerabili, sapevano bene quel che non volevano più, ignoravano cosa volessero di nuovo. Gli sforzi negativi avevan scalzato, comunque, le fondamenta dei regimi esistenti: ond'è che in un'Italia instabile sulle sue basi, seppur poco matura a un'autotrasformazione cosciente e vitale, bastò una scossa relativamente assai debole per travolgere il tutto e per imporre quella soluzione che, per quanto niente affatto conforme ai desideri della maggioranza, aveva sull'altre il vantaggio di presentarsi appoggiata a un organismo robusto qual era il Piemonte. La costituzione del regno unito fu un dono dall'alto, stupefacente e inatteso.

Da secoli era stato sempre così: la fragilità e la passività italiane giungevano a tale che essa era caduta docilmente preda, un dopo l'altro, di dominatori nostrali o stranieri dotati di un minimum di decisione e di forza.

Pisacane appartenne alla minoranza sparuta dei «positivi». E il suo massimo intento fu precisamente quello, riuscito vano, d'impedire che una volta di più l'Italia rinunciasse all'autodeterminazione e si afflosciasse sotto una nuova disciplina imposta. La quale, per essere italiana e a tutto beneficio degli italiani, non era per questo meno estranea ai più di loro e non implicava, da parte loro, minor rinunciatarismo morale. Non che Pisacane lo dicesse mai così chiaro; ma s'intende benissimo ch'egli avrebbe le mille volte preferito a una rapida realizzazione integrale dell'unità d'Italia per opera e sotto il controllo d'uno dei suoi Principi, il conseguimento d'un resultato provvisoriamente parziale per via di schietta rivoluzione.

Povero dottrinario! Andava interrogando la storia d'Italia per rendersi conto se sarebbe mai stato possibile richiedere agli italiani sollevati di far la loro guerra, la guerra di popolo, allo straniero e al dispotismo, e bastarono Plombières e una brillante, corta campagna di eserciti stanziali, calcolata per dilatare il Piemonte nella valle del Po e la influenza francese nella Penisola, a determinare la formazione fulminea d'un regno unito dell'Italia centrale e settentrionale. Andava farneticando della imprescindibile necessità preventiva di guadagnare alla causa del rinnovamento italiano il consenso attivo delle maggioranze, e il Mezzogiorno cadde di botto in mano di Garibaldi, tra la suprema indifferenza di novanta su cento dei siciliani, dei calabresi, dei napoletani!

Improvvisazione? Fortuna? Eppure l'Italia sotto il segno sabaudo è viva, è cresciuta, e s'afforza. D'accordo: ma quante volte e da quanti, dal '60 in poi, non s'è avuto ragione di deplorare che la gran massa degli italiani, anziché contribuire a formarla, l'abbian soltanto lasciata fare!

Se dunque la storia — la storia dei «fatti» — ha smentito Pisacane e quei pochi con lui, potrebbe darsi che avesse reso loro giustizia in un senso più riposto, in un piano ideale nel quale quei fatti non valgono che come meri accidenti esteriori, oltre ai quali, o dentro ai quali, si cela alcunché di assai più importante, e anzi che unicamente importa: la loro intima ragione e giustificazione morale, la virtú benefica o malefica che ne discende.

In verità l'improvviso e improvvisato trionfo della minoranza dirigente, il miracoloso adeguarsi della realtà ai piani da essa frettolosamente disposti dovettero stupire e confondere, in un primo tempo, i trionfatori medesimi. Ai quali però venne prestissimo fatto di ritrovare l'equilibrio; e si convinsero con estrema facilità, e in buona fede convinsero gli altri intorno a loro, e indussero diplomatici giornalisti e scrittori a convincere il pubblico italiano ed europeo, che il trionfo era pienamente meditato e previsto; che ogni elemento della situazione era stato tempestivamente soppesato, e il giuoco regolato a puntino, e che era da ascriversi all'abilità della loro politica se certe soluzioni si eran verificate con apparenza di fortunate combinazioni, e non piuttosto come logica soluzione, nella realtà dei fatti, di programmi da lungo tempo prestabiliti e maturi. Fecero anche di più: persuasero le élites delle varie regioni italiane esser le raggiunte novità giusto premio del tenace volere e risolutezza e patimenti da esse spiegati e sofferti. Fu così che, fatto centro naturalmente sul '48-49, si diffuse e accreditò la leggenda secondo la quale il popolo italiano, a dir poco dal '20 in poi, non avrebbe fatto che anticipare col desiderio e affrettare con le opere l'instaurazione di un regime nuovo, e per l'appunto di un regime sul tipo di quello che si era pur mo inaugurato. E Pisacane che era morto nel '57, scannato da quelli stessi che ora inalzavano a gara archi di trionfo a Garibaldi!

Pure, questa giustificazione postuma della così detta rivoluzione unitaria in un primo tempo giovò: perché ciascuno che appartenesse a quelle élites, tornandogli gradito di cogliere per sé una fogliolina del lauro ufficiale dispensato a così buon mercato, naturalmente accettò di buon grado tale versione e, figurandosi d'esser davvero un patriarca della nuova patria, prese parte con amore alla cosa pubblica, che sentí sua; perché quegli istituti che, come ormai tutti ammonivano, erano stati conquistati dagli italiani con lagrime e sangue, gli istituti della libertà, parvero sacro e intangibile patrimonio comune, da difendersi con l'unghie e coi denti, e la formazione di una prima coscienza unitaria della borghesia n'ebbe incremento. E il mondo si volse con una tal quale ammirativa tenerezza e benevolenza verso questo popolo che, dopo secoli di servitú e divisione, avea voluta, imposta e conquistata brano a brano la sua indipendenza, e verso i suoi uomini rappresentativi che avevano saputo guidarlo con tanta oculatezza.

Ma un grave danno avvenire si celava fra quel profluvio di beni. La grandissima maggioranza degli italiani non si rese conto infatti della parte cospicua che nel miracolo del '59-60 doveva attribuirsi a un insieme di circostanze fortuite estremamente favorevoli. L'impacciata neutralità delle grandi potenze di fronte alla crescente audacia del governo piemontese, ad esempio, parve ai più naturalissima cosa, che avrebbe anche potuto ripetersi nel séguito; e poiché non si tenne il debito conto della fragilità degli ostacoli che le forze sarde, o comunque facenti capo a Torino, avean dovuto travolgere, accadde che le intrinseche possibilità del Piemonte, nerbo dal '61 in poi di quelle italiane, venissero pericolosamente sopravalutate. Gli italiani avrebbero dovuto ringraziare il cielo (e il Piemonte) dei resultati raggiunti e senza requie attendere a consolidarli: si posero in capo invece che il '61 fosse soltanto una prima tappa su una strada assai lunga che ormai si profilava dinanzi a loro (e questo era vero); strada che andava percorsa da capo a fondo con quel passo alla bersagliera che si era così bene tenuto negli ultimi due anni (e questo era perniciosissimo errore). S'immaginarono inoltre esser la lunga laboriosa preparazione di un qualunque avanzamento politico o sociale prerogativa non invidiabile di altri popoli e climi: agli italiani convenire invece mosse geniali, improvvisate, tempiste, i colpi di scena, il procedere a sbalzi.

E poiché dopo il '60 ma più ancora dopo il '70 i tempi volsero alquanto difficili, e mamma Europa si fece arcigna verso questa figlioletta cresciuta d'un tratto, pretendendo usasse modi e atteggiamenti confacenti ormai alla sua nuova statura e smettesse certe bizzarrie dell'infanzia, gli italiani che si erano avvezzati da un poco a veder cogliere a loro pro e senza troppa fatica tutte le buone occasioni che passassero a portata di mano, non perdonarono ai loro nuovi governanti di non saper continuare una tradizione sì comoda e, paragonandoli ai loro predecessori in ufficio, li videro nani appetto a giganti, tortore in nido di aquile. In questo modo s'insinuò fra di noi il germe del malcontento cronico. Si formò l'abito di censurare sistematicamente il governo (come se il «governo» nei paesi liberi non fosse espressione dei governati), di agitare dinanzi ad esso modelli fantastici, di vilipenderlo perché incapace di regalarci, un anno sì e un anno no, una nuova provincia o, mettiamo, una ricca colonia. Gli istituti liberali, che sapevano ancor di vernice, parvero anch'essi ben presto decrepiti, scambiandosi gli scricchiolii dell'assestamento per quelli del fracidume; sì che, scomparsa la prima generazione che ricordava nel vivo i danni e le malefatte dell'assolutismo e che pur blaterando contro il cattivo rendimento del regime nuovo, lo avrebbe poi difeso contro ogni seria minaccia, qual meraviglia che nelle generazioni successive, eredi fortunatissime di beni tanto cospicui, crescesse a dismisura il numero degli scontenti? E che questi rinforzassero giornalmente la dose nell'aspro giudizio contro l'ignavia dei governi e il danno del regime libero, e attendessero messianicamente il ritorno alla brillante tradizione della magia politica, a quel beato tempo, cioè, nel quale bastava scuotere appena appena le fronde per riempirsi le tasche di ghiande cadute? Ma se in un caso, raro nella storia, quelle ghiande eran cadute d'oro, nel séguito, ahimè, non furon che ghiande.

Fecondo d'incommensurabili beni, il nostro Risorgimento politico, svoltosi per modi e per vie e con un ritmo che Pisacane deprecò sempre, ha dunque messo in circolazione anche dei virulenti bacilli di lenta incubazione, ma d'inesorabile effetto.

Giustizia vorrebbe dunque che andassimo più grati che non si soglia a quei pochi che, intesa in tempo la serietà del problema italiano, avvertirono la necessità che l'Italia s'avesse a fare col concorso se non proprio della maggioranza numerica dei suoi cittadini, delle più vaste categorie d'interessi; che si operasse in modo cioè da favorire la conversione — inevitabilmente lenta — di codesti interessi verso la soluzione auspicata, e si attendesse, per passare all'azione, la conversione compiuta.

Sotto il qual punto di vista è lamentevole dunque che Pisacane chiudesse la sua vita dando un calcio solenne — anche lui! — a tali principii e metodi: ché di cittadini del suo stampo l'Italia, e nella crisi del '59-60 e nell'arduo periodo seguito all'unificazione, aveva invero bisogno grandissimo. Il profeta suicida inconsciamente oscurava agli italiani il senso prezioso delle sue intuizioni e delle sue profezie.

***


A Maria



Capitolo primo

Giovinezza

Al tempo dei Borboni, sulla facciata di un vasto edificio nel centro di Napoli si leggeva la seguente iscrizione: «Questa Accademia — perché nell'arte della guerra — e negli ornati costumi la militare gioventú — ottimamente ammaestrata — crescesse a gloria e sicurezza dello Stato — Ferdinando IV — con regal munificenza fondò — l'anno del suo regno XXIX». Era l'aristocratico collegio della Nunziatella, celebre in Europa, nel quale venivano educati alle armi i rampolli della nobiltà e dell'alta ufficialità napoletana.

Nell'anno 1831 un giovinetto di tredici anni, non destinato precisamente ad aumentare la «gloria e sicurezza dello Stato» — Carlo Pisacane, figlio cadetto dei duchi di S. Giovanni1 — entrava quale allievo nella Nunziatella. Suoi compagni di studio, se non proprio del medesimo corso, furono Cosenz, i due Mezzacapo, Boldoni, Pianell, Orsini, Girolamo Ulloa, Carrano, Longo, De Sauget: tutti finiti, dopo tempestose carriere, generali dell'esercito italiano, e molti senatori del Regno, e tre nientedimeno che Collari dell'Annunziata.

Orfano di padre a sei anni, della madre poco tenero, Pisacane non aveva avuto di certo l'infanzia felice. Dei fratelli, il maggiore, Filippo, lo aveva preceduto nella carriera militare, e fu poi sempre un borbonico arrabbiato; Luisa ci sarebbe del tutto ignota se una lettera superstite non ce la mostrasse, dopo il '50, sposa e madre e in qualche intimità con Carlo.

La vera famiglia di Pisacane fu dunque la Nunziatella. Otto anni vi duravan gli studi, principalissimi quelli delle scienze esatte e della dottrina e pratica militare; ma bene vi s'insegnavano anche le lettere, italiane latine e francesi, e con grandissimo zelo vi si curavano gli esercizi fisici, ballo, nuoto, scherma, equitazione. Il tutto coronato, s'intende, dalle quotidiane pratiche religiose, minute, meschine, inderogabili.

Di prim'ordine era il corpo insegnante, accuratamente e intelligentemente scelto, quasi sempre dal Sovrano in persona; tanto che, pur di assicurare alla Nunziatella docenti di riconosciuto valore, in qualche caso si giunse perfino a indulgere sulla poca ortodossia delle loro idee politiche e religiose: prova un Mariano D'Ayala, professor di balistica, che allargava i limiti di codesta materia fino a comprendervi la libertà politica, un Francesco De Sanctis di lettere (ma di De Sanctis, e lo attestano fin troppo i suoi scritti, Pisacane non giunse ad essere allievo). Nel '48 il corpo insegnante si contenne in tal modo che bisognò, l'anno di poi, radicalmente epurarlo!

Un convitto severo e di etichetta borbonica, dunque; ma non eccessivamente pedante, non di quegli istituti che usavano un tempo, dei quali diresti che l'intento precipuo fosse quello di soffocare la vivacità dei ragazzi e scoraggiarne le inclinazioni individuali. I rapporti tra professori e discepoli correvan cordiali, i ragazzi restavan ragazzi: al punto che Pisacane, pur notato per il suo talento nelle matematiche, poté lasciare ricordo di sé nella Nunziatella per il suo «ardire e fierezza» e per la strabiliante abilità negli sports, non ultimo quello di farsi ragione da sé, quando occorresse, menando magistralmente le mani. Si tolleravano perfino le discussioni politiche. S'intende, non di politica interna: ma se anche si parlava di Carlisti e Cristini e della eterna guerriglia tra loro, l'infiammarsi per questi ultimi, campioni di liberalismo, quando si sapeva che il re di Napoli proteggeva ufficialmente l'assolutista don Carlos non era indizio di un certo frondismo? Di Pisacane si narra che, appassionato Cristino, a un certo punto, stanco di difendere il suo partito soltanto a parole, volesse addirittura piantar la Nunziatella per «correre ai campi della maggior libertà». Ma poi, volente o nolente, mutò pensiero.

Da questo collegio uscivano dunque i migliori ufficiali dell'esercito napoletano, quelli destinati a raggiungere i gradi più alti della gerarchia militare. Nessuno di loro dimenticava mai più quegli otto anni di piacevole clausura; dicevano con sussiego «vengo dalla Nunziatella» e le amicizie formatesi là dentro duravano salde, per variar di vicende.

Fra gli allievi migliori si sceglievano i paggi di corte, ufficio puramente onorifico: anche Pisacane fu paggio per quattro anni di seguito2. Venne dunque a contatto con Ferdinando II. Certo non prevedeva che vent'anni più tardi avrebbe levato al cielo il mancato regicida Agesilao Milano. Ma che pensava, allora, del suo re? Non ne sappiamo niente, a poco servendoci l'osservazione del suo primo biografo essere «questo non lieve indizio di sua nobile indole, che, in quell'età giovanissima così facile agli allettamenti ed agli inganni, si serbasse incorrotto e non bevesse il veleno dei consorzi cortigianeschi». Ma la strana parabola della popolarità ferdinandea nella classe colta napoletana di certo non poté non colpirlo.

Nel 1830, morendo, Francesco I aveva lasciato al figlio quel che poteva dirsi la «casa in ordine»: popolazione tranquilla (o apparentemente tale), regime assolutista e reazionario al cento per cento, finanza relativamente sana, tutela di Vienna, tradizione politica del piede di casa. Ma Ferdinando II era salito al trono in un momento difficile: proprio quattro mesi dopo quella rivoluzione di luglio che aveva destato immenso fremito di agitazione e di speranze nei popoli d'Europa e dato un colpo di maglio ai trattati del '15. Còmpito grave, dopo il '30, regnare: gravissimo a Napoli, ché l'equilibrio del regime borbonico poggiava tutto sugli strati più bassi della popolazione (sempre vivo e istruttivo il ricordo del '99!), nemici per istinto d'ogni novità politica, e nella loro infinita miseria non d'altro sognanti che di possedere la terra; tradizionale per contro il distacco dalla borghesia, dai professionisti cioè e dai ceti nuovi possidenti e intraprendenti, dei quali nel resto d'Europa s'andava sempre più delineando la prevalenza politica. Equilibrio anacronistico, insomma: non che da questi ceti, intorno al '30 — salvo eccezioni singole e controllate ed affrontate subito, di liberali convinti e risoluti e «italiani» — partisse un'opposizione sistematica al regime borbonico o l'aspirazione a un superamento del patriottismo regionale napoletano; ma c'erano vene spiccate di malcontento, c'era una irritazione generica, che s'attribuiva di solito all'amministrazione scorretta, alle meschinità della censura, all'austrofilismo umiliante in politica estera, a mille altri motivetti del genere. In realtà quello di cui i ceti medi soffrivano era l'indifferenza del regime borbonico per le loro iniziative, era il fatto che alla loro nuova potenza economica non corrispondesse alcuna influenza politica. La nobiltà, divisa, non aveva esistenza come classe politica; la burocrazia era, come sempre, affezionata alla greppia; l'artigianato urbano irrequieto e instabile, infido per tutti, massa di manovra. Fuori del regno, una grossa molestia, i fuorusciti politici: sparlavano del regime, complottavano, osservavano la vita d'Europa, scrivevano molto, sembravano concludere poco; pericolosa per altro questa sprovincializzazione di una élite di oppositori!

Vien su Ferdinando, si mette al lavoro: il bilancio dei primi mesi segna un grandioso successo. Eppure non ha fatto gran che: un'amnistia politica, qualche licenziamento di alti funzionari, qualche riassunzione in ufficio di personalità compromesse del periodo francese, un ritocco intelligente al sistema tributario; ha temperato la strapotenza della censura, ha dichiarato di voler dare fiato e sviluppo ai commerci, all'industria. Ma la tendenza colpisce: un ponte gettato tra monarchia e borghesia? Significative poi le prime mosse in politica estera: cordialità con Luigi Filippo, l'Austria trattata da potenza amica, non più da tutrice; dichiarazioni d'indipendenza a tutti i gabinetti d'Europa; aumento di spese militari.

A Napoli, si sa, gli entusiasmi son facili, le fantasie si sbriglian con poco. Amnistia? Ma Ferdinando è un liberale in trono! Revisione di conti a certi satrapi onnipotenti? Ma il re vuol dunque la Costituzione! Esercito forte? La guerra d'Italia! Perfino Metternich s'allarma, e Carlo Alberto, incoronato appena, s'ingelosisce. I liberali di tutta Italia tentano approcci col re riformatore.

Effervescenza effimera: passan due anni, tre anni, e il quadro è radicalmente mutato. La borghesia alta, piccola e media, delusa, è più assente che mai dal regime, molti ripetono «si stava meglio quando si stava peggio». Tranquillità di Metternich, impopolarità del Borbone anche fuori del Regno. Che mai è accaduto? Una cosa assai logica: si è dissipato un equivoco. Ferdinando è infatti antiliberale, assolutista, paternalistico come tutti della sua Casa; nessuna seria intenzione in lui di mutare registro. Egli ha inteso la necessità di restaurare l'edificio statale semplicemente perché vuol conservarlo in sostanza immutato. Di qui quei tali provvedimenti che hanno destato un così fervoroso consenso; ma nessuna concessione, Dio guardi, allo spirito del tempo. Un tentativo di assolutismo illuminato, insomma, eseguito da un monarca foderato delle migliori intenzioni, ma di ben povere qualità personali, e che non può neanche appoggiarsi, come il suo concorrente Carlo Alberto in Piemonte, su una classe politica colta e modernamente educata: tutt'al più su poche singole individualità. Al suo tentativo ha più di tutto nociuto, d'altronde, proprio quello sproporzionato entusiasmo che ne ha salutati gl'inizi: e infatti, mentre il monarca si è indotto a una maggiore prudenza, l'inutile attesa degli ulteriori sviluppi della sua politica ha diffuso tra i sudditi il più largo scontento.

Quando poi si vide Ferdinando assai fermo e rigoroso contro i liberali ringalluzziti, gli uomini migliori del napoletano, immaginandosi d'essere stati ingannati (e lo erano stati infatti, ma dalla loro stessa immaginazione, dai loro stessi desideri), principiarono a vituperare il re anche al di là dell'equo e a diffamarlo sistematicamente in Europa. Nel risucchio di quell'ondata di favore che aveva accolto nel '30 questo sperato Luigi Filippo napoletano, passò così inapprezzato e restò sterile anche quel po' di buono che, fra tanti malanni, egli si era proposto di fare e che fece.

Partecipasse o no Pisacane alla infatuazione, prima, alla denigrazione, poi, di re Ferdinando, una benemerenza gli riconobbe di certo: quella d'aver notevolmente migliorato l'esercito e nell'addestramento e nell'ordinamento, e accresciuto gli effettivi, d'averlo salvato cioè da quella tremenda crisi che lo aveva còlto all'indomani del '20, prolungandosi — fino al '28! — l'umiliantissima occupazione austriaca. Non era cosa da mandare in visibilio Pisacane ragazzo sportivo3 quel che si diceva del re che, durante una rivista, avendo ordinato all'improvviso a tutti gli ufficiali di montare a cavallo e i più, disavvezzi, essendosi mostrati ridicolmente incapaci, il giorno appresso ne avesse invitati parecchi a lasciar le spalline?

Ben presto, però, Pisacane — terminati i due anni del corso d'artiglieria e genio, che si svolgeva a Capua, e assegnato come soldato semplice a un reggimento di fanteria di guarnigione a Nocera — doveva sperimentare quanto, nonostante gli sforzi di Ferdinando, l'esercito napoletano restasse ancora lontano in tutto e per tutto da quel modello di perfezione che gli si era insegnato a venerare in collegio. Spirito militare inesistente affatto, la disciplina di una severità massacrante, il bigottismo fatto obbligatorio: soldati e ufficiali costretti alla rigida osservanza dei precetti, a incolonnarsi nelle processioni, a regger ceri. E spesso, troppo spesso le milizie usate a reprimer disordini, in servizio di pubblica sicurezza. Deficienze, queste e altre molte (non lieve quella degli stipendi di fame agli ufficiali), proprie dell'esercito napoletano; ma poi quelle caratteristiche di tutti gli eserciti stanziali, e a Pisacane fin d'allora insopportabili: avanzamenti per anzianità, raramente per merito, soldati che adempiono al servizio con l'animo dei detenuti che scontan la pena, distacco insanabile tra esercito e popolo, e via e via.

L'esperienza, ciò nonostante, fu per Pisacane quanto mai formativa sotto altri aspetti. Era questa, infatti, la prima volta che entrava nella vita vera, che si mescolava, lui nobile ed ex paggio
di Corte, al popolo; al popolo che lavora e che soffre, a quel popolo di cui negli androni della Nunziatella si doveva sapere ben poco!

Dal porto sicuro era lo sbocco nella infinita distesa del mare.

Pisacane si presentava allora come un giovanotto robusto, di non grande statura, rotto alle fatiche, curioso del mondo, vivacissimo, dinamico e attraente. Che fosse biondo e dagli occhi azzurri, si sa anche troppo, per testimonianza della sentimentale Spigolatrice di Sapri. Dolcissimi occhi, dice la Mario, e «un non so che di mesto e di rassegnato» errante sulla «spaziosa fronte». «Era ancora imberbe — racconta il Dall'Ongaro, riferendosi a otto anni più tardi — di una bionda e delicata bellezza... Ma sotto quel molle involucro, batteva un cuore di ferro, e l'eleganza aristocratica dei modi faceva contrasto con l'audacia dell'intelletto...» E Mazzini, rievocandolo con appassionato rimpianto: «La fronte e gli occhi... parlavano a prima giunta per lui; la fronte rivelava l'ingegno, gli occhi scintillavano di energia, temperata di dolcezza e d'affetto. Traspariva dalla espressione del volto, dai moti rapidi, non risentiti, dal gesto né avventato né incerto, dall'insieme della persona, l'indole franca, leale, secura. Il sorriso frequente, singolarmente sereno, tradiva una onesta coscienza di sé e l'animo consapevole di una fede da non violarsi né in vita né in morte». Non poteva, Mazzini, ridarcelo più vivo di così né più somigliante, chi guardi ai pochi ritratti che ci son rimasti di lui, davvero parlanti e rivelatori dell'anima; con quello sguardo accigliato, quasi un cipiglio, e le mascelle serrate, imperiose, in evidente commovente contrasto con la delicatezza del volto e la ingenua luminosità degli occhi.

Passati i sei mesi a Nocera, ecco la nomina ad alfiere nel corpo del genio militare, l'assegnazione a Napoli. A Napoli lo adibiscono, sotto il comando d'un capitano Fonseca, alla costruzione della strada ferrata per Capua, tra le prime in Italia4. Nel '41, nuovo trasferimento, dai biografi attribuito a incompatibilità di carattere col suo superiore; nonostante l'ottima prova tecnica che Pisacane ha fornito, questo trasferimento ha infatti un certo carattere di punizione, e lo conduce in Abruzzo. Quindici mesi d'Abruzzo: anche là, probabilmente, a far strade. Nel '43, primo tenente ormai, ritorna a Napoli, questa volta alle dipendenze d'un capitano Gonzales, insieme col quale progetta la strada nuova «su per la collina del Vomero e Antignano, oggi Corso Vittorio Emanuele». E per quattr'anni non si muove di lí; riceverà poi la nomina a membro del Consiglio d'Amministrazione del Real Corpo del Genio.

Siamo nel 1846: al giovane intelligente ufficiale chi non avrebbe predetto, con la sua capacità, col suo nome, una brillante carriera? Eppure, nel giro di pochissimi mesi, tutto è perduto senza rimedio; l'esperienza militare appena iniziata si conclude bruscamente.

La notte dal 12 al 13 ottobre il tenente Pisacane vien raccolto dinanzi alla sua porta di casa, svenuto e sanguinante per gravi ferite di pugnale nel ventre ed al petto. Mentre i medici accorsi dànno ben poche speranze, la polizia inizia le indagini: nessun testimonio del fatto; ma Pisacane, che ha una stupefacente ripresa, dichiara, e fa dichiarare dai suoi, che un ladro di strada, sotto minaccia della vita, ha tentato di derubarlo: egli si è ribellato e nella mischia seguita ha riportato quelle ferite.

La convalescenza si prolunga, lentissima, fin verso la fine dell'anno. Poco dopo la polizia ha nuovamente occasione di occuparsi di Pisacane: l'8 febbraio '47, infatti, sotto mentito nome celato come un malandrino inseguito, egli s'imbarca sul postale francese diretto a Livorno5. Con lui, che ha così dato definitivamente l'addio alle spalline borboniche, è una signora: Enrichetta Di Lorenzo, moglie di Dionisio Lazzari, madre di tre bambini.

Fra i due fattacci, che suscitano a Napoli parecchio scalpore6, è, checché si dica in contrario, una connessione evidente. Volgare dramma d'amore? Pagina oscura nella vita di Pisacane? O prima dolorosa ma alta affermazione di una personalità d'eccezione? Il lettore vedrà.

Della vicenda sentimentale, della sola vicenda sentimentale nella vita di Pisacane, si sapeva fin qualche mese addietro — ben poco: si sapeva cioè che un suo amore purissimo, d'infanzia e d'adolescenza, era stato irreparabilmente troncato dal matrimonio imposto alla ragazza, Enrichetta, non ancora ventenne, con un uomo danaroso né stimato né amato; che, dopo aver lealmente ma inutilmente lottato per soffocare una passione che il trascorrer degli anni rendeva sempre più travolgente, Pisacane si era visto finalmente riamato, con pari intensità dolorosa, da lei. Nient'altro di sicuro, oltre all'epilogo tempestosissimo, ché gli amici e biografi di Pisacane pareva si fossero accordati per serbare intorno alla oscura vicenda una discrezione assoluta; esplicitamente lo ammetteva Mazzini quando, nei suoi bellissimi Ricordi su Pisacane, scriveva: «È storia d'amore questa che rivelerebbe, s'io la raccontassi, come all'indomita energia, di ch'ei fece prova, s'accoppiassero in Pisacane una potenza singolare d'affetto e un sentire delicato, raro a trovarsi, e che onorerebbe a un tempo l'anima sua. Ma non mi sento il diritto di sollevar quel velo che parmi debba quasi sempre lasciarsi sospeso tra i più e il santuario della vita individuale».

È provvidenziale, è giusto che quel velo — dopo decenni e decenni — sia stato or ora sollevato dal protagonista medesimo mercè il ritrovamento della sua lettera d'addio ai familiari (Napoli, 28 gennaio '47) che appunto ne contiene la schietta esauriente immediata confessione. «Io amo Enrichetta — egli orgogliosamente scriveva — dal giorno 8 settembre 1830; da quel giorno che la vidi per la prima volta il mio cuore, tenero allora, ricevé una impressione... quella prima fattami nella mia fanciullezza crebbe col cuore insieme, e fu un'impronta sull'acciaio, incancellabile. Enrichetta incominciò a supporre che io l'amassi nel 1841... Feci palese il mio amore nel giorno del suo nome, 15 luglio 1844, ma, credete, non con la speranza di essere amato, anzi con la certezza di non doverlo essere giammai; questa certezza e l'idea della sua infelicità amandomi, attesa la sua posizione, mi fece fare i più terribili sforzi per cancellare dal mio cuore quell'ardente passione: tentai le mille volte partire per l'estero... ma tutte le strade mi furono chiuse. Io continuai ad avvicinare Enrichetta: tra noi non vi era che una corrispondenza muta, io l'adoravo come l'adoro, con la devozione [con cui] si può adorare una divinità, io temeva di offenderla solamente con un guardo, al suo cospetto tutte le mie facoltà erano sopite, avrei solamente desiderato la grazia di potermi inginocchiare ai suoi piedi e contemplarla... Finalmente Enrichetta mi ha detto je t'aime il 1° giugno 1845. Da quest'epoca abbiamo sostenuto la lotta la più eroica che si possa immaginare... La mia nobile, la mia generosa Enrichetta fu da me rispettata come un nume. Non religione, non tema ci spingevano a questo eroismo, ma solamente (la considerazione essere)... infame la donna che appartiene a due uomini nell'epoca istessa... Ma questo stato era troppo violento, non poteva durare: le nostre forze erano all'estremo... I nostri caratteri sono tali da non potersi piegare ad una tresca comune: allora io decisi di allontanarmi... Ma al momento di separarci i nostri cuori vacillarono. Io sarei partito deciso di cercare tutti i mezzi onde incontrare la morte — se il dolore dell'allontanamento non mi avesse spinto al suicidio — Enrichetta ne sarebbe morta al certo: allora decidemmo di partire insieme»7.

Questa, nei suoi particolari essenziali, la romantica storia, tutta animata, nel racconto, dal palese contrasto tra la ingenua fierezza verbale del rievocatore — quanti «io decisi» e «io penso» e «io voglio»! — e la riconosciuta inesorabilità del fato, che lo ha avvinto e travolto come una povera cosa senza forza e volere.

Alla passione d'amore, infatti, è arduo comandare. Ma la essenziale attenuante da Pisacane implicitamente invocata — seppure possono dirsi attenuanti le secche motivazioni elencate in questo scritto orgoglioso, assai più che a difesa arieggiante a requisitoria — è la inguaribile infelicità di Enrichetta, legata per la vita a un uomo tanto mite nell'apparenza quanto basso e brutale nell'intimità, a un uomo che iniziandola all'amore glien'ha insieme ispirato il disgusto e che, mediocre e incapace qual è, la tiene «come nulla».

Strano e significativo però, che in una lettera come questa tanto particolareggiata quanto a circostanze di tempo, vero diagramma degli alti e bassi del suo sentimento, Pisacane non accennasse neanche alla lontana al suo ferimento, che pure aveva preceduto di poco la risoluzione presa di fuggire da Napoli. In tanta spregiudicata franchezza, dunque, una reticenza, tutt'altro che casuale e involontaria, e ad ogni modo tale, mi sembra, da autorizzare le insinuazioni affacciate in postumi rapporti di polizia, secondo le quali o Enrichetta si sarebbe compromessa allora irrimediabilmente agli occhi del marito e del mondo, recandosi ogni giorno ad assister l'amico; o addirittura quel ferimento, da Pisacane cavallerescamente attribuito a un delinquente volgare, sarebbe stato in realtà perpetrato, se non dal Lazzari stesso, da un emissario di lui8. Insinuazioni, e specialmente quest'ultima, non provate, è vero: sintomatico però che il Lazzari non si risolvesse mai, dopo l'8 febbraio, pur sollecitato dal moralissimo governo napoletano, a presentar querela contro i due fuggitivi, che era pur l'unico modo per riavere Enrichetta: temeva forse, in risposta alla querela, una più grave denunzia a suo carico?

Quale che sia la verità vera, certo è che la chiacchiera dell'aristocratico ufficiale aggredito sulla pubblica via dal mandatario di un borghesuccio geloso corse per Napoli: s'intende dunque quanto, in quei due mesi di martirio, Pisacane avesse dovuto soffrire, più che nel corpo, nell'anima: era la carriera compromessa, l'urto violento con le convenienze sociali e, se non ancora lo scandalo, una umiliazione cocente; eran le imaginabili pressioni di colleghi e parenti perché lasciasse «l'amica», il sospetto ingiurioso, diviso dai suoi di casa, che tra lui ed Enrichetta non corressero soltanto gli ostentati rapporti di intimità fraterna: assai più, insomma, di quanto bastasse per disgustarlo irrimediabilmente del suo ambiente, della vita fino allora condotta, di Napoli stessa, e per ispirargli un desiderio quasi folle di libertà, di evasione da quelle grette esigenze del vivere sociale.

A troncare il legame d'amore, ormai, Pisacane non poteva neanche pensare, tanto piena e trionfante vibrava la passione nel suo cuore: Enrichetta, l'unica donna della sua vita! A che valevano gli agi, il rango sociale, l'avvenire medesimo se dovevano separarsi per sempre?

Ma nel contempo egli prevedeva con assoluta calma le conseguenze probabili del suo agire.

«Noi non abbiamo veduto il nostro avvenire colore di rosa — tranquillamente assicurava i parenti —, anzi lo abbiamo figurato con i colori i più tristi»; ma la liberazione di Enrichetta dall'odiosa convivenza col Lazzari e, per entrambi, un mese, una settimana, e magari un giorno solo di unione felice non eran forse prospettive così luminose da valer la pena di ripagarle con una vita di stenti o, nel peggiore dei casi, con un buon colpo di pistola nel capo? «Chi può temere di più la miseria, un milionario, o noi, con le nostre pistole, con i nostri cuori, con la nostra decisione?»

Il suo temperamento rivelava così tutto l'esuberante calore di un meridionale, e in più la ferma inflessibile tenacia di un nordico: amava con impeto, con dedizione assoluta di sé, irremissibilmente; dieci anni più tardi era allo stesso diapason, e adorava Enrichetta né più né meno del primo giorno.

La stessa esuberanza, la stessa non effimera foga portava nel detestare con tutte le forze dell'anima l'ipocrisia sociale. Già lo aveva provato nella lettera ai suoi, bollando a fuoco coloro, che dopo aver «venduto» una giovane ignara e inesperta a un marito qualunque, condannandola così a bandire dalla sua vita l'amore, eran poi i primi a dichiararla infame se un giorno le nascesse nel cuore gelido un sentimento nuovo9. A che altro, del resto, avea ridotto il matrimonio l'iniqua società moderna se non a una forma aggravata di prostituzione, in quanto non ammetteva per la vittima possibilità di riscatto? Né Pisacane era di quelli che la pretendono a riformatori sociali per giustificare in un modo o nell'altro la loro condotta socialmente scorretta. No; la sua ribellione sincera, permanente e disinteressata, cui la personale esperienza conferiva adesso un tono particolarmente vibrato e commosso.

Dichiarata la guerra alla società, si sentiva felice e leggero e in pace con se stesso: una liberazione. Contro tutti? Tanto meglio: «Il ne faut faire jamais comme les autres», già allora superbamente proclamava. Con gli anni, poi, vinta la prima prova, avrebbe portato quel suo spregiudicato sguardo indagatore sulle più varie manifestazioni della vita collettiva, nulla accettando che non potesse, con la sua ragione, logicamente e sentimentalmente giustificare.

In che mai consistesse — se nella sua bellezza o piuttosto nelle sue qualità morali — il fascino di Enrichetta, non sappiamo. V'era nel suo temperamento, certo, l'essenza stessa della femminilità: ardori improvvisi, lucidità d'intuizione, crisi di prostrazione e indecisione, capacità insospettabile di intensi sforzi fisici e morali. Già altri ha supposto che Pisacane la tenesse un poco a modello scrivendo quel paragrafo dei Saggi che è dedicato alla donna: «La natura ha dato loro fibre più delicate e più sensibili delle nostre, e però le loro sensazioni vivissime, non possono essere che fugaci... Capaci di quelle azioni ove il decidersi e l'eseguire succedonsi rapidamente, sono poi incapaci di sopportare a lungo dolori e mirare al conseguimento di un fine con attenzione profonda e prolungata».

Gli avvenimenti successivi, comunque, ci mostreranno Enrichetta appassionata, attiva, coraggiosa, modesta e, ad eccezione di un doloroso smarrimento momentaneo, tenera sempre e orgogliosa del suo compagno; ben meritevole del commosso elogio che questi nel congedarsi dalla sua famiglia le avea dedicato: «... se nel corso di tanti anni non ho fatto azione di cui posso vergognarmi, lo debbo ad Enrichetta. Ad ogni mia azione, se vi era un lato poco nobile, io stesso mi diceva: come comparirò dinanzi ad Enrichetta? Arrossirò di vergogna dinanzi a lei, sì nobile, sì generosa, se la mia coscienza ha qualche cosa a rimproverarmi».

Unendosi a Pisacane, Enrichetta non aveva scelto di certo la via più facile e piana: ché egli non era uomo cui l'amore soddisfatto, e fosse pure un intensissimo amore, bastasse a riempire la vita. E forse, per quanto vi fosse preparata, ella soffrí dapprima di quel suo inquieto dinamismo, che lo induceva a ricercare la lotta, a farsi volontario di tutte le battaglie d'armi e d'idee, a sdegnare le abitudini e gli agi per consacrarsi al raggiungimento di ideali sempre più alti e vasti. Pisacane apparteneva infatti a quella élite di uomini che vengon biasimati dai più perché «sacrificano la famiglia»; e così fanno invero, ma non perché non l'amino profondamente, ché anzi la loro attività è in qualche modo condizionata alla felicità domestica; piuttosto perché considerano questa come una base necessaria, come un porto sicuro, donde salpare quotidianamente per una vita più ricca e più utile, sempre meno ispirata alla considerazione del personale tornaconto: non mai come un fine.

Ma con l'andar degli anni, col maturarsi della sua personalità di tra le prove difficili, Enrichetta giunse faticosamente a comprendere e a rispettare in lui questa capacità di superamento di un affetto che essa sola sapeva quanto vivo fosse nel suo cuore, e anzi ad amarlo anche di più, appunto perché, facendola soffrire, l'aiutava ad inalzarsi.

N'è testimone, ancora una volta, il Mazzini, cui la felicità dell'amico ispirava la dolente frase di sapore autobiografico «la maledizione del vae soli non si adempiva per lui»: «Dirò soltanto che quell'amore, mercè le nobili aspirazioni della donna, non infiacchí mai l'anima dell'amico, non si trovò mai a contrasto coll'adempimento dei suoi doveri, e gli accrebbe forza a lietamente compirli. Fu l'amore delle epoche di credenza, l'amore che ritempra l'animo a grandi cose...»

Capitolo secondo

Fuga

I due fuggiaschi discendono a Livorno, mentre il patrio governo, ed anzi il Re stesso, «con reale animo conturbato», li fa cercare, dal Console napoletano, a Marsiglia. Scoperta poi la residenza vera, gran confusione a Firenze: dove, tempestando l'Incaricato napoletano perché la polizia li stani e glieli consegni, il Ministro degli Esteri toscano in persona scrive d'urgenza a Livorno perché la coppia venga fermata, «e la donna posta in luogo di custodia»; il Console napoletano a Livorno s'impadronisce dei loro passaporti, da Napoli si spedisce nel porto toscano un ispettore di polizia, perché ne scovi le traccie. Tutto invano. Gli adulteri, procuratisi chi sa come due nuovi passaporti napoletani, intestati a Enrico e Carlotta coniugi Dumont, piantate le valigie (e un conto da pagare) alla locanda, scompaiono da Livorno. All'ispettore napoletano non resta che saldare il debito, sequestrare il bagaglio e far vela per Napoli; al Governatore di Livorno indagare, con calma toscana, sulla nuova destinazione dei fuggitivi, che alcuni suppongono siansi diretti a Malta: il 30 di marzo l'Auditore del governo assicura che son passati a Marsiglia, via Corsica; ed era esatto, ma con un buon mese di ritardo. Pisacane si era già trasferito, infatti, direttamente a Londra, giungendovi, da Boulogne-Folkestone, il 4 di marzo10.

Erano due sconosciuti, poveri per giunta11; speravano, viaggiando sotto mentito nome, di sottrarsi alla persecuzione borbonica. Il vasto mondo si apriva loro dinanzi. Pisacane era abbastanza ottimista: «Non sono un asino, non sono un vile, ed ho fortissimo il corpo»; possibile che non dovesse riuscire a guadagnarsi la vita? Lo attendevano invece, oltre ai primi morsi di una disastrosa miseria, nel sordido slum di Blackfriars Bridge, nuove prove della irritazione borbonica, ché quel Ministro degli Esteri, avvertito dalla Legazione di Londra, l'11 marzo, della sua presenza colà, fece fuoco e fiamme per ottenere l'estradizione e di lui e di lei; non vi riuscí, è vero, ma il governo inglese, che non scherzava coi frodatori della legge sugli aliens, saputo chi fosse Dumont, garbatamente lo invitò a ripassare la Manica. Gli toccò dunque, seguitando la dura via crucis, lasciar quella Londra dove, sotto il nome fittizio, qualche utile conoscenza avea già stretto nell'ambiente dei rifugiati italiani: l'unico ambiente di connazionali che a lui, considerato disertore dell'esercito, potesse aprirsi ormai. Preziosa tra l'altre la conoscenza con Gabriele Rossetti, padre di Dante Gabriele, poeta lui stesso, esule a Londra dal '24, pezzo grosso universitario e mondano.

Verso la metà d'aprile giunsero a Parigi, a questa Mecca degli intellettuali, dove sembrava e sembra tuttora impossibile che un giovane d'ingegno, disoccupato, non riesca a trovare un impiego di sua soddisfazione. Pisacane, nonostante ricerche affannose, non trovò nulla. Né ora aveva più al suo fianco una donna robusta: Enrichetta, infatti, che già gli prometteva un bambino, necessitava di riposo e di cure: indebolita fisicamente, essa rivelava un fragilissimo sistema nervoso, preda di crisi frequenti. E l'implacabile persecuzione del governo di Napoli anziché rallentare s'accaniva sempre di più! Il 28 d'aprile, celati in un alberghetto di terz'ordine, i due subivano, provocata dalla Legazione borbonica, una visita domiciliare che, per quanto infruttuosa, li conduceva, per contravvenzione al regolamento sui passaporti, a provvisoria carcerazione: la compiacente polizia francese li tratteneva poi vari giorni in prigione in attesa che giungessero da Napoli o la querela maritale o un regolare mandato d'arresto pel «furto», imputabile a lei, di pochi oggetti personali di proprietà del Lazzari! Pisacane, dal carcere, subito scrisse, ingenuamente, al duca di Serra-Capriola, ambasciatore napoletano a Parigi, per supplicarlo di «fare usare verso la Signora Lazzari i riguardi che la sua nascita, educazione civile e principalmente lo stato suo esigevano». Il piissimo duca, che sperava con un po' di prigione di far di Enrichetta una Maddalena pentita mandò, per tutta risposta, a tentar la conversione di lei, due di quelle signore pietose, «le quali, come angeli mandati dal cielo vanno a consolare i prigionieri, e cercare di portare nei loro cuori il pentimento che tanto spesso hanno la fortuna di destare nei più induriti al delitto». Si sbagliava di grosso: Enrichetta era, sì, debole e stanca e depressa, ma ormai nessuna forza umana poteva distaccarla da Pisacane. «Le povere signore — così il duca scandalizzato e deluso al suo Ministro degli Esteri — tornarono dal carcere dopo due ore di persuasione e combattimento, penetrate di orrore, avendo trovato nella Signora Lazzari una riunione delle più esaltate e cieche passioni, con una sfrontatezza e la più orrida immoralità, e l'ateismo il più positivo. Si dovette abbandonare qualsiasi idea di pentimento e ravvedimento...»

Alla polizia francese Enrichetta dichiarava semplicemente di non voler altro «che vivere col suo Carlo, non temendo né la miseria, né la morte».

L'8 di maggio, non essendo giunta da Napoli la querela del Lazzari, la coppia adultera, con grand'ira del duca, ricuperò la libertà perduta. Pisacane, anzi, si presentò al Serra-Capriola in persona, chiedendo gli rilasciasse passaporti per la Svizzera o per l'America. Il colloquio fu tempestoso:

«Io gli risposi — precisa il duca — che mi meravigliava del suo ardire, mentre egli doveva ben sapere che avanti a me egli non era che un disertore; che, se le leggi francesi non mi davano il potere di farlo ritornare nel suo paese per subire la pena meritata, le leggi d'onore pei militari in questo stesso paese portavano al disprezzo sopra chi abbandonava la sua Bandiera. Che però se egli era pentito del doppio suo delitto, avendo portata la disgrazia e la vergogna di una onesta famiglia, e si separava dalla Signora Lazzari, io nel prender questa sotto la mia protezione, avrei implorato a di lui favore l'indulgenza delle leggi e la Clemenza Sovrana. Il sig. Pisacane sembrò non capisse le mie parole e mi disse che egli e la signora avevano agito con tutta riflessione. Non mi restò che farlo uscire dalla mia presenza»12.

Terminavano così per Pisacane, tre mesi dopo la sua partenza da Napoli, i più grossi fastidi di natura giudiziaria. S'intensificavano invece le preoccupazioni economiche, e l'avvenire si faceva sempre più buio per questo spostato provinciale trentenne, sbalzato all'improvviso, con poche conoscenze, in un mondo affatto nuovo. Fu un periodo dolorosissimo, nella sterminata metropoli, eppure, si può supporlo anche se i documenti tacciono, decisivo quanto al suo orientamento spirituale.

Gran bella cosa viaggiare all'estero, quando il rango sociale, le relazioni o il censo apron tutte le porte; gran conforto, per gli esuli politici, per miserabili che siano, vedersi cordialmente accolti nelle fervide comunità di fuorusciti italiani che pullulano per ogni dove. Ma che vuol mai questo nobile decaduto, digiuno di politica, fuggiasco per banali motivi di cuore, senz'altra esperienza al suo attivo che quella, trilustre, d'aver servito il Borbone? S'imaginano le diffidenze, i sospetti e le chiacchiere. Di gran giovamento riuscí comunque per Pisacane, che s'apprestava a un nuovo e questa volta definitivo e impegnativo tuffo nell'ambiente della emigrazione politica, un lusinghiero biglietto di presentazione fornitogli dal Rossetti pel generale Pepe, che era tra i maggiorenti della colonia italiana a Parigi13. In casa di Pepe capitava non solamente il fior fiore dell'elemento emigrato; ma tra le personalità francesi un Lamennais, un Arago, un Béranger, una Sand, un Constant, un Lamartine. Certo questi contatti, in un ambiente che presentiva, nel suo fervore, l'imminenza d'una tempesta europea, e seguiva con ansia, quando non contribuiva a provocarla, la crescente agitazione degli spiriti in Francia e in Italia, non furono senza esercitare una immensa influenza su Pisacane; il quale nel contempo impiegava le troppe ore d'ozio nella intensa lettura di libri e di giornali, come se gli tardasse, in quell'anno così tipico di vigilia, di farsi d'urgenza una coscienza politica.

E infatti, mentre sui primi del '47 Pisacane è ancora un napoletano qualunque, alieno dalle cose politiche e tutt'al più, come ufficiale, voglioso di complicazioni europee per avere finalmente occasione di smettere la monotona vita di guarnigione, e di provare, coi rischi, l'ebbrezza di una guerra, sui primi del '48 egli è già un fervido patriota «italiano», con idee sue, fisime sue, programmi suoi. La sua esperienza nel '47 dové dunque essere piena e ricca e rettilinea: molti i discorsi uditi, sì, e le cose vedute e lette sui libri; ma molta, e seria, e profonda, altresì, la riflessione sua, diretta e originale, seppure i suoi interessi e la sua coltura lo portassero, com'era naturale del resto, a considerar le cose europee segnatamente come un problema di equilibrio di forze, sotto l'aspetto militare cioè. Col che non s'esclude che spunti d'idee politiche, impulsi di opposizione, fremiti di simpatia per le vittime della tirannia non lo avessero agitato di quando in quando anche negli anni precedenti14; né che, militare di professione, non avesse potuto prospettarsi il problema tecnico della indipendenza d'Italia; ma certo non era mai salito, ancora, dall'episodio alla visione generale, né dalle singoli questioni militari o politiche alla grande questione che appassionava in quel tempo le élites delle classi colte italiane; adorava, sì, in tutti i suoi aspetti la libertà, ma queste avvertite, anzi impellenti esigenze di libertà non gli avevano dato per anco figura e impostazione di liberale: tutt'al più, di ribelle.

Si va a tentoni. Ma è verosimile che anche a Pisacane l'idea dell'unità italiana — poi fermissima in lui, se pur la concepisse ravvivata da ampie autonomie regionali — sia balenata là fuori, come a tanti altri, una volta messi in grado di considerarla nel suo assieme, questa Italia, da lontano, fuori dalle meschinità provinciali, e anche da quelle storicamente giustificate gelosie fra Stato e Stato; una volta cioè resi capaci di anticipare nella vivente realtà di un piccolo mondo di esuli la sognata possibilità di una fusione avvenire. Grandi virtú prospettiche, di televisione, diremmo, create, storicamente, dall'emigrazione politica, e per le quali soltanto, chi pensi agli ultimi secoli della storia italiana, varrebbe la pena di andar grati ai regimi tirannici! Che sarebbe stata l'Italia senza la periodica forzata emigrazione nel mondo di cospicue minoranze intellettuali che, in tempi d'oscuramento della libertà, quindi della coltura, in patria, assicurarono — fuori — la continuità ideale del nostro sviluppo civile?

Francia ed Inghilterra, poi, precedevan l'Italia di almeno cinquant'anni, allora, se non altro per quel che riguarda lo sviluppo effettivo e dottrinale della civiltà moderna. Un italiano che vivesse sia pure poche settimane in quei paesi, con occhio attento a quel che gli accadeva d'intorno, si trovava in condizione d'anticipare la visione di problemi ancora immaturi, o addirittura neppure impostati, per allora, in patria. Soprattutto poteva afferrarvi d'un subito, o sfogliando un giornale, o visitando un quartiere industriale, o frequentando le sedute delle Camere, l'idea della complessità d'ogni fenomeno sociale e della relatività d'ogni questione politica. Si pensi alla vita industriale inglese, ai paurosi problemi che i grandi concentramenti operai facevano affacciare: si pensi a Parigi, al rigoglio di studi sociali comparsi fra il '30 e il '48, come inevitabile effetto della precipitosa trasformazione subita in quegli anni dalla organizzazione del lavoro. Fourier e Saint Simon, Blanqui e Proudhon, Blanc e Cabet: critiche sempre più aspre e scientifiche alla civiltà borghese, prime linee d'una sempre meno romantica ricostruzione futura, appassionate difese, e requisitorie, e polemiche. Né restavano, queste ultime, sepolte nei libri, ma — diffuse e semplificate da innumerevoli quotidiani e periodici — le assorbiva avidamente, bene o male comprese non importa, il mondo operaio, traverso il filtro di un piccolo esercito di organizzatori e politicanti, abili nel cavarne motivi e formole di propaganda e d'azione.

I borghesi intellettuali che a Parigi nel '47 meditavano e preparavano una seconda e definitiva rivoluzione di luglio avevano programmi assai radicali in politica, ma esigevano intatto, nelle sue grandi linee, l'assetto sociale; riformatori sociali e operai più evoluti scavalcavano invece a piè pari la questione politica, ché a loro importava rifare le basi, non la facciata dell'edificio. Non d'altro si parlava in certi quartieri e in certi circoli, non d'altro si ragionava su certi giornali15. Dunque unità e indipendenza e bilanci in pareggio non erano tutto per una nazione? Non in queste formole era l'ubi consistam del progresso civile?

Sí che Pisacane, nell'atto stesso in cui poneva attenzione al problema politico e considerava sotto questo aspetto l'avvenire d'Italia, era portato a oltrepassarlo o meglio ad afferrarne, con la palese relatività, il processo dialettico di superamento.

Caratteristica tutta sua, questa, che gli derivò proprio dall'avere così tardi, e in così particolare ambiente e condizioni, inteso e affrontato la questione italiana.

Cervello solido, sistematico, ordinato, a Pisacane non ne derivò scetticismo, ma il disagio di una visione complessa e torbida, faticosamente elaborata e chiarita di poi: contradittorie impressioni, idee suggestive ma incomplete o imprecise insieme ad istantanee vivaci e indimenticabili di un mondo progredito in via di ulteriore sviluppo; soprattutto un'improrogabile esigenza: uscire definitivamente dalla piccola cerchia della vita individuale, affrontare i grandi problemi della convivenza sociale, studiarli particolarmente in riflesso all'Italia, alla quale urgeva dare il senso di quanto, in ogni campo, e non solamente nell'assetto politico, essa fosse in arretrato di fronte all'Europa. Difficile compito, per altro, risvegliar gli italiani, se un Pisacane avea potuto, fin quasi a trent'anni, compiacersi di un genere di vita, di problemi, di orizzonti non solo napoletani, ma propri in Napoli a un esiguo ceto sociale!

Interessantissima, dunque, questa vita a Parigi; piacevole il prolungarla, non fosse stato il bisogno, che urgeva, di sistemarsi in qualche modo e la sperimentata impossibilità di trovar lavoro nella capitale. Pisacane finí con l'aggrapparsi all'estrema risorsa che in Francia sorride — e sorrideva già allora, dal '31 in poi — a tutti i vinti della vita, gli spiantati, i senza patria che affollan le vie di Parigi: la Legione Straniera. Della Legione, istituita per la guerra algerina e più ancora per purgare il paese dei troppi rifugiati che lo infestavano, aveva un tempo fatto parte — e parte cospicua — un battaglione italiano, disciolto il quale nel 1840, non era per questo diminuita l'affluenza degli italiani; ché anzi, in quegli anni di pace, molti malinconici sognatori di gloria v'erano affluiti dalle varie provincie della penisola. In un certo momento (forse nel '46) lo stesso Pisacane, deciso a tentare, per la sua passione amorosa poi rivelatasi inguaribile, la cura della lontananza, avea richiesto al suo re il permesso di andare a morire laggiú. Ma gli era stato negato16.

Libero adesso, riprese il progetto; e per accelerare le pratiche ottenne che il Ministro francese della Marina — il duca di Montebello, che Pisacane avea conosciuto a Napoli, quando v'era stato ambasciatore — lo presentasse e raccomandasse: finalmente, ecco per lui un brevetto di sottotenente. La partenza fu ritardata pel parto di lei? Oppure la creatura non giunse a termine? Chi sa; certo che Enrichetta, sola sola e doppiamente triste, si fermò a Marsiglia, presso persone amiche: di là egli s'era imbarcato il 5 dicembre per l'Africa. Primo distacco, dopo così pochi mesi di tempestosa unione: a quando — se mai — il ritorno? Ché in Algeria la ormai disperata resistenza di Abd-elKader contro l'occupazione francese si manifestava in periodici ritorni offensivi, scaramucce cruente e imboscate. Sei ufficiali italiani eran caduti, dal '31 in poi, combattendo nella Legione Straniera!

Una guerra di conquista coloniale, non provocata, viola sempre i diritti dell'umanità: impossibile giustificarla se non ricorrendo al «sacro egoismo» di una nazione espansionistica. Ma quale idealità può mai infiammare alla guerra i soldati di una Legione Straniera? Nessuna, se non, per molti sciagurati, il bisogno di rifarsi un nome o, per uomini della tempra di Pisacane, l'aspirazione a provare in un campo qualunque le proprie attitudini militari.

Sfortuna, anche in questo: proprio il 13 dicembre di quell'anno Abd-el-Kader, ridotto all'estremo, si arrende al generale Lamoricière. L'Algeria è provincia francese, e alle truppe d'occupazione non competono ormai che servizi, duri fin che si voglia, ma poco brillanti e gloriosi, di sorveglianza, di penetrazione più o meno pacifica, di rastrellamento delle superstiti tribú ribelli.

Inquadrato nella Legione, rassegnato al pacifico compito, distaccato, pare, in Orano (anche lí, quanti fuorusciti italiani, e quanto si dovea parlare d'Italia!) a Pisacane non mancò modo di distinguersi, e di porre in valore la sua solidissima preparazione tecnica. Piú tardi si lavorò di fantasia su questo suo soggiorno algerino, attribuendosi a Pisacane — per poco più di tre mesi di permanenza — nientemeno che un paio di duelli e un primo peccato letterario (una raccolta di lettere, si disse, sul tipo dello Iacopo Ortis)! Fole17, ché di questi pretesi scritti non s'è mai saputo più niente: quanto ai duelli, par difficile pensare che a un ufficiale attaccabrighe e violento si siano da parte dei suoi superiori propinate tante dimostrazioni di simpatia e di stima quante ne ricevette Pisacane allorché, già nel marzo '48, presentò le dimissioni per ritornare in Europa.

Le strepitose novità italiane ed europee gli avevano messo la febbre in corpo. Si combatte in Italia, per la sua indipendenza, una guerra sul serio contro un nemico potente; come potrebbe un italiano, cui scorra sangue nelle vene, continuare a combattere la guerricciola d'Africa? Sí che per quanto il suo colonnello qualifichi la sua partenza come una vera perdita pel reggimento e il generale gli suggerisca di sospendere le dimissioni, recandosi prima in Italia per giudicar sul posto come procedano le cose, Pisacane — che odia le mezze decisioni — insiste nel suo proposito, e parte precipitosamente seguito da altri legionari italiani. Non ha perduto i suoi tre mesi africani: perfino il Ministro della Guerra, Arago, che egli ha probabilmente conosciuto a Parigi da Pepe, scriverà più tardi cose assai lusinghiere sul conto suo.

Questo scoppio liberale del '48 sorprese un po' tutti; ma dové sorprendere come una folgore Pisacane che la sua Italia conosceva sì poco: gennaio, rivoluzione in Sicilia, gran dimostrazione a Napoli, Ferdinando concede (di che cuore!) la Costituzione; marzo, Costituzione in Piemonte, Costituzione a Roma. Il tutto preceduto, accompagnato, seguíto dai grandi incendi di Parigi e di Vienna. Metternich che se ne va, Luigi Filippo che se ne va. Trionfo inconcepibile del liberalismo europeo. In Italia, poi, la folla delle capitali impazza perché, con quattro dimostrazioni, ha ottenuto una serie di riforme e di garanzie che non ha mai desiderato e non sa neanche cosa voglian dire, e i pochi iniziatori esultano (e dovrebbero stupire e diffidare) perché il popolo, con «divino» intuito, ha sposato d'un tratto la causa delle libertà politiche. Portar corona in capo, sui primi del '48, è diventata, in men che non si dica, la più difficile e meno invidiabile delle posizioni sociali: in Italia, sentendosi mancare il terreno sotto i piedi, i Principi si buttano in gara di demagogia, fanno a chi più concede, e a chi più presto.

Salvo in Sicilia, dove la rivolta antinapoletana ha cause profonde e locali e perciò sentite e sofferte dalla maggioranza della popolazione urbana, in tutto il resto d'Italia (ma sì, anche a Milano e a Venezia) il Quarantotto è movimento in gran parte riflesso, obbediente a una legge fisica secondo la quale un corpo arroventato e un corpo diaccio non possono aderire senza che il contatto modifichi la rispettiva temperatura. L'Europa è il corpo arroventato, l'Italia quello tiepido se non diaccio addirittura, e in Italia (checché si dica o speri in contrario) circola il sangue d'Europa. Senza le novità francesi ed austriache il '48 avrebbe rassodato fra noi la tendenza riformistica, ma nulla più; una rivoluzione non era davvero matura né a Napoli né a Roma né a Firenze né a Milano né a Venezia.

Il 18 marzo scoppia la rivolta antiaustriaca a Milano: improvviso rigurgito di irritazione compressa, di ricordi non mai sepolti di gloriosa autonomia, un'aspirazione generica a una libertà che ciascuno intende a suo modo. Nessuna seria preparazione (chi avrebbe preveduto la possibilità delle Cinque Giornate, due mesi prima?), ma l'abbagliante subitanea scoperta che l'Austria è uno Stato che minaccia rovina, che sotto l'orpello della sua Corte e dietro la siepe delle sue baionette c'è un popolo che aspira anch'esso a libertà; la febbre improvvisa ed effimera, insomma, che pervade la maggioranza dei ceti cittadini, dell'«ora o mai». Ora o mai, che cosa? Ora o mai ci si libera dal giogo austriaco e torniamo padroni in casa nostra. Tanto pesante dunque quel giogo, tanto terribile il governo austriaco? No, non peggiore certo di tutti gli altri italiani; ma governo straniero, umiliante e irritante, anche se amministra alla perfezione, e fa strade ponti e bonifiche. Rovesciarlo, avevan detto e predetto per anni e anni, gridando al deserto, gruppi di patriotti: ma ora tutti d'un subito avvertono che si è presentata, per disfarsi dell'Austria, l'occasione unica, imprevedibile, superiore ai desideri più arditi, che trova la sua base storica e sentimentale nel ricordo del periodo francese, quando Milano era orgogliosa capitale. E Milano s'avventa; il giorno prima, a Venezia, è stato liberato Manin. Il 23 marzo, non troppo decisa, s'accende la guerra sarda; tre giorni appresso sonante ingresso in Milano delle truppe Carlalbertine.

Tanto rapidamente marciavano le cose italiane in quella primavera del '48, che mentre Milano, orgoglio delle democrazie europee, subiva la doppia invasione di volontari provenienti da ogni parte del globo, e di dottrinari saccenti, gabellanti ciascuno la ricetta infallibile pel successo finale; nel resto d'Italia guizzavano nel cielo, e un dopo l'altro esplodevano, stupefacenti fuochi d'artificio. Erano il Papa, il Granduca, il Borbone che, gelosi di Carlo Alberto e premuti dall'irrequieta folla delle capitali, si rassegnavano, pur di salvare il trono, a dichiarar guerra all'Austria, salvo poi a intervenire sul Po con moto uniformemente ritardato. Fuochi d'artificio, sì; ma chi se ne accorgeva allora? Quegli scoppi e quel persistente bagliore ingannarono tutti. Come sembrava mutata l'Italia, come mutati i suoi Principi, come inalzato il suo popolo, negli ultimi mesi!

Tanto mutato, tutto, che a Pisacane, sbarcato a Marsiglia il 1° di aprile, parve legittimo attendersi che in un tal clima i suoi recenti trascorsi venissero considerati come appartenenti addirittura a una remota antichità, e perciò dimenticati e sanati: su ben altro che scandaletti donneschi avevan dovuto, a Napoli, passare a malincuore la spugna... L'ufficiale «disertore», l'adultero si presenta dunque al Console delle Due Sicilie, al quale chiede un salvacondotto per Napoli: gli sorride, è logico, di fare la guerra col grado suo, con i suoi concittadini, in un esercito comandato dal Pepe. Ma il buon funzionario (non c'è che la burocrazia che non muti, nel '48), pauroso di tanta responsabilità, gira la pratica al Ministero.

Aspettare? Pisacane ha poca pazienza; sente che quei giorni contan per anni; gli ripugna vivacchiare a Marsiglia, sia pure con Enrichetta accanto, mentre in Italia tuona la «bella guerra». Al diavolo dunque le autorità borboniche: parte di furia per Milano, e il salvacondotto, concesso, resterà poi a dormire negli uffici del Console.

Sono in quattro nel viaggio: lui, la sua compagna, un altro ufficiale della Legione straniera18, e un Giovanni Cattaneo, emigrato, cugino dell'altro Cattaneo pezzo grosso dell'insurrezione.

Capitolo terzo

Azione

Giunto a Milano il 14 aprile, Pisacane fa capo a Cattaneo: lo crede ancora il padrone della città, mentre è ormai nient'altro che un povero Catone inascoltato o quasi, lí lí per doventare un sospetto agli occhi dei reggitori.

Nel rigurgito di tanti volontari spavaldi e ignoranti, Cattaneo apprezza subito il valore d'un Pisacane, se non altro un militare di mestiere, con idee chiare in testa. Discutono sulla situazione. Pisacane si orienta subito: Radetzki è serrato in Verona dal principio del mese, l'esercito sardo sta perdendo il suo tempo sulla riva sinistra del Mincio. Le forze, su per giú, si equilibrano: Radetzki aspetta i famosi rinforzi; i piemontesi contano un poco sulle truppe di Napoli, di Roma, di Firenze, niente sui volontari. Nuvoloni all'orizzonte parecchi: il fervore popolare s'è smorzato assai, e i milanesi riposano ormai sugli allori, pensando che la guerra vera, in campo, tocca agli eserciti stanziali. Morire d'iniziative, perciò, e dedizione passiva al monarca, e le redini strappate di mano a quanti pretendono che la Lombardia prosegua la sua guerra d'insurrezione accanto al Piemonte; diffidenze incrociantesi, degli autonomisti e repubblicani, sulle vere intenzioni di Carlo Alberto; dei piemontesi e monarchici sul pericolo di sinistra, e ovunque il riflesso dei gelosi sospetti suscitati in tutta Italia dalla mossa sabauda; e già vive e accorate le recriminazioni reciproche sulle eccezionali occasioni perdute per farla finita con l'Austria.

Data la situazione, Pisacane dichiara che vuol proseguire immediatamente pel fronte; Cattaneo si offre di accompagnarlo dal generale Lechi, che comanda in capo il cosidetto esercito lombardo. I milanesi, lungo la via, si voltano «a mirare quel bel giovane in quell'insolita uniforme»19. Lechi è vecchiotto, burocratico, della vecchia scuola; propone a Pisacane di trattenersi a Milano per ordinare e «mettere a punto» un nuovo reggimento di volontari. Sfuriata di Pisacane: è venuto dall'Africa per fare la guerra, non «per trascinar neghittoso la spada per le vie di Milano». Già troppa gente affolla i caffè e le redazioni dei giornali, sputando critiche e progetti balordi20; già troppo si ciancia sull'avvenire della Lombardia (pelle dell'orso), quando le sorti delle armi pendono ancora terribilmente incerte.

Lo contentano subito; e poiché i gradi, si sa, costano poco, ecco a lui che è tenente, brevetto di capitano e assegnazione a un reggimento di nuova formazione, che lo stesso 14 aprile parte pel fronte: il «reggimento della morte». (Son fuori strada, dunque, quelli tra i biografi di Pisacane, che, trovando un documento da lui firmato in quei giorni qual capitano in quel corpo, hanno creduto di speculare sulla sua vanteria)21.

La partenza — e la nuova separazione da Enrichetta — non avvengono che il 17 d'aprile, ché Pisacane, aderendo a un invito di Cattaneo, ammiratore, sì, del suo slancio guerresco, ma più della sua competenza, si ferma due giorni in Milano per precisar brevemente, e consegnare a chi di dovere, le sue idee Sul momentaneo ordinamento dell'esercito lombardo in aprile 1848. Incitamenti a intensificare il reclutamento e l'addestramento dei volontari? Proposta di richiedere alla Francia — con la quale gli inviati lombardi stanno fiaccamente trattando le modalità di una spedizione di soccorso — la cessione del contingente italiano militante nella Legione Straniera?22  Fatica sprecata: «già i savii non accettavano più consigli», spiegherà poi l'amareggiato Cattaneo.

Ma ecco Desenzano sul Garda, centro di raccolta, con la vicina Salò, di volontari d'ogni paese e favella: disertori austriaci, gente di Lombardia o Veneto o Lazio o Calabria, svizzeri e financo polacchi. Quivi, aggregato a una colonna lombarda comandata da un maggiore Borra, il nuovo venuto è tutt'altro che «neghittoso»: una faccenda grave trasformar quella masnada in combattenti sul serio! Occorre poi mantenere i contatti con l'estrema ala destra dell'esercito sardo che presidia Peschiera. Marce ed esercitazioni quotidiane, perciò.

Lettera al fratello Filippo: Pisacane in complesso è contento; la sua colonna, gli scrive, per quanto non sia per anco organizzata a dovere e gli uomini sappiano a mala pena maneggiare il fucile, può considerarsi tra le migliori. Certo, si vorrebbe fare molto di più, ma bisogna pur rassegnarsi agli ordini emanati dallo Stato Maggior generale e attendere, per cominciare la guerra anche lassú, «il signor Carlo Alberto». E poi, senza eufemismi: «Gli affari della guerra in generale vanno bene, perché non possono andar male; ma Carlo Alberto è una b... senza pari; 90 000 combattenti arrestati sul Mincio senza ragione. Se gli austriaci avranno forze noi saremo completamente girati dal Tirolo».

Il guaio si è che tale opinione, tale sfiducia integrale nella capacità tecnica del Comando Sardo non sono prerogativa di Pisacane, sempre abbondante, si sa, nel criticare, ma hanno preso radice tra i volontari tutti. L'ultimo appunto, in special modo, era grave e fondato: gli austriaci, padroni di Riva sul Garda, padroni della Val di Ledro, padroni delle vie d'accesso alla Val Sabbia, avrebbero potuto infatti avanzare a ventaglio sulla pianura bresciana senza incontrare resistenza valida. Per fortuna, le forze di cui essi disponevano in quella zona erano appena sufficienti ad assicurare la loro propria difesa.

Ad ogni modo, quasi a calmare le apprensioni di Pisacane, ecco, sulla fine d'aprile, l'ordine che ingiunge al general Durando (Giacomo) di assumere il comando di tutto il complesso settore montano che costituisce l'estrema linea di confine tra la Lombardia e il Tirolo austriaco: da Limone sul Garda per l'altopiano di Tremosine a Ponte Caffaro; di qui al Tonale e allo Stelvio.

Benissimo, dunque: solo che a guarnire un fronte di tanta estensione Durando non può disporre che di tre o quattromila uomini, pessimamente armati e allenati! Non c'è altro da fare che stenderli a guisa di cordone sanitario, piuttosto a vigilare che a difendere: in seconda linea, due o tre luoghi forti. È poco, ma è pur sempre un progresso rispetto a quel che hanno fatto, nel primo mese di guerra, in quello stesso settore, le bande semi-anarchiche dell'Allemandi.

Le colonne di volontari concentrate sulla sponda meridionale del Garda raggiungono una dopo l'altra le posizioni assegnate. Pisacane, che nella colonna Borra comanda adesso una compagnia cacciatori, parte il 28 per Tremosine. Una catena di monti separa quella zona dalla Val di Ledro austriaca; Pisacane, che non può per mancanza di forze occuparne le cime, ne guarda gli sbocchi, numerosi e quasi tutti ad alta quota. Non è la guerra combattuta, come aveva sognato; ma è vita dura lassú, freddo intenso, scarsi ricoveri, viottole impervie; e del nemico, appostato nell'altro versante, ben poche notizie, perciò timor di sorprese, frequenti ricognizioni sui monti soprastanti, apprestamenti difensivi nella vallata; gran difficoltà, poi, per organizzare i servizi. Pisacane è un capitano «pignolo», in moto tutto il giorno, esigente, coscienzioso, autoritario.

Certo che gli brucia sentir solo da lontano fragor di battaglie. Sei maggio, Santa Lucia, primo scacco un po' grave dei piemontesi; e il corpo di Nugent che da Gorizia, sui primi di maggio, s'è portato con rapidissima marcia a Belluno: Verona è a poche tappe! Pisacane si allarma. Le notizie, lassú, giungono con esasperante lentezza, ma si ha la vaga impressione che la guerra cominci a voltar male. Il 29 aprile è stata la doccia fredda dell'enciclica papale; ora, il 15 maggio, è la controrivoluzione a Napoli. Le truppe sarde principiano a scorarsi, i volontari, dimenticati sui monti, danno spettacolo d'indisciplina. Un episodio tipico? Il 28 d'aprile Pisacane, piuttosto scandalizzato, ha scritto al fratello che l'antico compagno d'armi De Turris, capitato in un reggimento scarso d'ufficiali, è stato in tre giorni promosso maggiore. Non passan due mesi che De Turris e con lui altri tre ufficiali danno alle stampe un comunicato recante le loro dimissioni «da quel reggimento... per il cattivo andamento e direzione di quel comandante, digiuno delle necessarie cognizioni di amministrazione interna e di strategia e tattica militare in campo». E tutto ciò in tempo di guerra!23

Il 22 di maggio un fatto d'arme importante si svolge in Val Sabbia, a non grande distanza dalle posizioni occupate da Pisacane: 3000 austriaci forzano di sorpresa il passaggio di Ponte Caffaro, respingendone i difensori fino su Anfo dove il Durando ha stabilito il suo quartier generale. Le conseguenze dello sfondamento potrebbero essere gravi e forse irrimediabili se i volontari italiani, con manovra ripetuta in successive azioni di guerra (ché fu quello, come del resto tutto il settore del Durando, teatro di ben tre guerre successive, '59, '66, '915-18), non s'impadronissero di rimbalzo della vetta del Monte Suello, di lassú sbarrando la via al corpo austriaco avanzante nel fondo valle. Ma se invece che in 3000 gli austriaci si fossero presentati col doppio o col triplo di forze chi mai li avrebbe più fermati nella disastrosa avanzata su Brescia? E se il tentativo si ripetesse? Le apprensioni che Pisacane ha partecipato al fratello alla fine di aprile risorgono adesso in lui con più forza di prima. Gli austriaci potrebbero risolvere rapidamente la guerra a loro vantaggio se tentassero un colpo grosso sul settore montano.

Modesto capitano, egli non ha voce nella direzione della guerra; pure vuol dire la sua, e chi può ne tenga il conto che crede. Il 26 di maggio stende un rapporto diretto al generale Durando e agli «Illustrissimi Signori del Comitato di Guerra di Brescia» (già, perché accanto al Ministero della Guerra, in Milano, accanto al Quartier generale Sardo, sul fronte, seguitavano a funzionare — e con quali pretese d'autonomia! — questi Comitati locali). Sguardo d'insieme sull'andamento delle operazioni: l'incognita è costituita dalla colonna Nugent. Che via prenderà? Nugent, così ragiona Pisacane, è troppo abile stratega per proseguire nella marcia in pianura, che lo costringerebbe ben presto ad affrontare una battaglia campale con l'intero esercito sardo, enormemente superiore di numero. A lui conviene evidentemente tentare l'aggiramento, spingendosi con rapide mosse per la Val Sugana su Trento; da Trento, per Vezzano e Tione, rovesciarsi, forte dell'esperienza del 22 di maggio, in Val Sabbia, debolmente presidiata, per aprirsi la strada di Brescia. Hanno pensato a questo i signori generali italiani? Hanno mai posto mente che l'eventuale piano Nugent si potrebbe prevenire e forse rovesciare? Ci son tre contro-piani possibili, secondo lui. Il più audace e fruttuoso sarebbe quello di radunare tutte le forze sin qui dislocate nel settore del Garda e a valle del lago di Ledro per gettarle, sfondata la linea nemica, su Trento e Rovereto, notoriamente sguernite di truppe e, a quanto si dice, disposte a rivoluzione antiaustriaca: la guerra si trasporterebbe così in territorio nemico e, in caso di successo, l'esercito di Radetzki, tagliato dalle comunicazioni, verrebbe a trovarsi stretto tra due fuochi. Troppo audace e rischiosa questa manovra? (Strano che non sembrasse senz'altro tale ad un esperto del suo valore: da Ponte Caffaro a Trento corrono infatti settantacinque chilometri!) E allora si assegni come obiettivo all'azione una sorpresa su Riva, posizione importante perché «osserva dappresso» e Rovereto e Trento, e perché assicura il dominio del Garda. Urge comunque rinunciare al sistema del «cordone sanitario» provatamente inutile e dispendiosissimo: se anche Riva è scartata, si scelga dunque per lo schieramento dei volontari una posizione più ragionevole di quelle assegnate sin qui: tra la Sarca e il Chiese, in territorio attualmente nemico, non mancano punti di passaggio obbligati dai quali si possa, tenendo riunita la forza, metterla in grado di opporsi a rilevanti effettivi austriaci.

Giustissimo; ma Pisacane ignorava evidentemente che al di là dei confini guardati dai volontari erano terre austriache, sì, ma costituenti parte integrale della Confederazione Germanica; varcarli poteva dunque far precipitare in una discesa offensiva il fermento anti italiano già manifestatosi fra i tirolesi, e, chi sa, portare a una dichiarazione di guerra da parte della Baviera; allorquando occorreva invece sottolineare all'Europa il carattere di pura rivolta antiaustriaca, in quanto l'Austria era potenza italiana, della guerra lombarda. Ignorava altresì talune circostanze sopravvenute in quei giorni che toglievano purtroppo ogni base ai suoi ragionamenti, i quali infatti caddero nel vuoto: e intanto quella, di estrema gravità, che la riunione di Nugent e Radetzki, tra Verona e Vicenza, aveva già avuto luogo senza che le truppe del «Signor Carlo Alberto» avessero saputo validamente opporvisi. Il che rendeva così seria la posizione dell'esercito sardo che sarebbe stato pazzesco addirittura sottrargli sia pure un solo fucile per tentar diversivi non essenziali in montagna; e il Durando, per parte sua, sprovvisto d'artiglieria, con quella poca gente, avesse pur sconfinato, quali obiettivi poteva proporsi?

Curtatone e Montanara, Goito e Peschiera; 10 di giugno, caduta di Vicenza, il Veneto — Venezia eccettuata — interamente perduto; Carlo Alberto che teme uno scontro decisivo e appresta l'inutilissimo assedio di Mantova; i lombardi che lo accusano di condurre la guerra con fiacchezza voluta, e anzi di cercar l'armistizio fin dal giorno in cui essi hanno avuto la dabbenaggine di votar la fusione col Piemonte; i repubblicani che a gola spiegata già imprecano al tradimento...

Pisacane deve dunque rassegnarsi a restare a Tremosine, in relativa inoperosità, a comandar della gente che a forza di non far nulla ha perduto ogni entusiasmo e centuplicato l'indisciplina; per giunta il general Durando gli comunica l'ordine «in caso di attacco dalla parte del nemico con forze superiori» di ritirarsi nientemeno che a Tuscolano, abbandonando così tutte le posizioni montane, e Limone e Tremosine e Gargnano medesime24. Ah questi generali che dirigon le cose senza mai visitare la zona d'operazioni, senza — o così sembra — consultare le carte, sdegnando i consigli degli ufficiali che si trovan sul posto! Non si rendono conto del pericolo che Brescia corre, col nemico che ammassa forze in valle di Ledro e allestisce cannoniere a Riva?

Ma Durando forse pensava che gli ufficiali al fronte vedono il loro settore, e basta; par loro che le sorti della guerra abbiano a decidersi unicamente lí.

D'un tratto — è la metà di giugno — perviene a Pisacane una compagnia di rinforzi con l'ordine di impadronirsi d'una importante posizione strategica, la vetta del Monte Nota (1384 metri d'altezza) che sta a cavaliere tra l'altipiano di Tremosine e la Valle di Ledro. Rinforzi? Gli si darebbe dunque ragione? Oh no: il comando voleva «disfarsi di certi indisciplinati»!25

L'azione riesce benissimo: austriaci non ce ne sono; si trovano a qualche ora di marcia dal Nota, a Molina, una borgata allo sbocco del lago di Ledro. Vederli, finalmente! Pisacane spinge i suoi uomini in ricognizione. «Era la prima volta che i soldati vedevano il fuoco», racconterà poi, «... l'affare riuscí brillante... io ero arrivato a venti passi dalle case, vi ordinavo pochi uomini per l'attacco alla baionetta... ma all'arrivo del rinforzo (austriaco) feci battere la ritirata».

Quel giorno stesso e i successivi il Monte Nota e i suoi accessi diventano oggetto di frequenti piccoli attacchi e contrattacchi. I giornali di Milano, lieti di poter contrapporre successi del corpo lombardo a insuccessi dell'esercito sardo, ne parlano assai. Il 16 giugno (si legge ad esempio sui fogli di cinque giorni appresso) gli austriaci attaccarono «colla forza di 300 uomini... le due compagnie stanziate sul M. Nota comandate dai capitani Pizzacane (sic) e Brambilla. I nostri, dopo fatta una scarica, caricarono alla baionetta il nemico, che tosto indietreggiò alle sue posizioni, lasciando tre morti e cinque feriti». Il 17, gran confusione: «il nemico — così almeno si legge sulla Gazzetta di Milano del 3 di luglio — tentò uno sbarco a Limone. Il Municipio fece tosto avvertito il cap. Pisacane il quale colla 5a Fucilieri... volò subito alla difesa di questo posto; i nemici però non osarono aspettare i nostri e fuggirono minacciando ritorno e distruzione».

«Volò», frasi di guerra: dalla vetta del Nota a Limone son milleduecento metri di dislivello e parecchie ore di marcia per sentieri da capre!

Il 23 e 24, attacchi austriaci al passo di Bestana (a oriente del Nota). I volontari resistono, respingono il nemico; si conducono benissimo, nonostante la pesantezza di quella guerra in alta montagna. Gli è che per la prima volta in due mesi s'accorgono di servire a qualcosa; Pisacane, poi, è addirittura raggiante: giunti ulteriori rinforzi (pazienza se di qualità piuttosto scadente) egli assume il comando di tutte e quattro le compagnie stanziate nella zona.

Il 25 gli austriaci nuovamente attaccano in forze il piccolo posto stabilito a Bestana: tengono molto, si vede, a respingere i volontari sull'altro versante. Ma si ritirano ancora una volta; senonché, narra la Gazzetta di Milano, invece di recedere fino alla linea abituale, si celano tra i cespugli di Cadrione, alle falde del monte; l'indomani prima dell'alba sorprendono gli avamposti italiani. Cinque ore di combattimento accanito, e a quanto pare con vantaggio degli austriaci superiori di numero. Pisacane, che è in moto dalle tre del mattino, si tiene sulla difensiva sin quando non sopraggiunge una compagnia di granatieri chiamata a rinforzo. Sferra allora il contrattacco, violento. Ma nell'investire «un piccolo ridotto che (gli austriaci) s'erano formati dietro un masso di pietre, e dal quale fulminavano i nostri, fu Pisacane ferito al braccio destro; non pertanto continuò ancora il comando di difesa».26 Quando il nemico, alla fine, ridiscese sconfitto, contava trenta morti e altrettanti feriti; che per le scaramucce del tempo costituiva una cifra assai rispettabile!

Il ferito, che è stato costretto — son sue parole — a «camminare due ore a piedi e quattro sopra una sedia», vien trasportato a Salò. Spaventosa l'organizzazione sanitaria! Gli ospedali non offrono che pagliericci, e qualche volta manca perfino la paglia. I medici, Dio ne scampi e liberi: propongono a Pisacane l'amputazione del braccio; il disgraziato può ringraziar la fortuna che fa sopraggiungere un chirurgo sul serio, certo Leone. Questi gli salva, nonché il braccio, probabilmente la vita stessa.

Enrichetta accorre da Milano, lo vuole assistere lei. Triste era stata, due anni prima, un'altra convalescenza a Napoli; tristissima adesso, nell'assolata Salò. Il tempo che passa lavora infatti per l'Austria che si ristabilisce all'interno e il cui esercito gradatamente riacquista la superiorità del numero e dell'iniziativa sul proprio avversario. Le truppe sarde tengono ancora nel luglio, prima metà; ma il 25 del mese è Custoza. E poi, per scontri perduti, per deficienza di servizi, per la scarsa combattività delle truppe, per l'indecisione del re, per la mancanza di seconde linee preventivamente disposte, di un piano di ritirata, per cent'altre ragioni, le tappe fulminee della disfatta. L'armistizio rifiutato, il proclama agl'italiani, l'ingresso in Milano.

Pisacane, che ha pur già tante volte bollato d'incapacità l'alto Comando Sardo, crede di sognare dinanzi al crescendo di spropositi strategici e tattici che esso va commettendo: possibile che si pensi davvero a difender Milano, città aperta, da entro le mura? Tanto disastro, tanta inettitudine lo infuriano. Mezzo invalido ancora, precipita a Milano, si presenta a Fanti, Maestri, Restelli, membri del Comitato di Difesa: la salvezza, dice, è forse possibile ancora, purché si ardisca di separare senz'altro la causa lombarda da quella della monarchia di Savoia, e si sappia, si voglia, risuscitar per davvero l'animo delle Cinque Giornate. Il piano che egli propone, che altri del resto hanno già proposto, è audacissimo: sgombrar la città, concentrar fulmineamente tutte le forze lombarde — un quaranta o cinquantamila uomini, calcolando su una leva in massa immediata — tra Bergamo e Brescia; di là sferrare un colpo disperato, gettandole tutte dapprima contro il corpo di Thurn, asserragliato a Peschiera, poi contro quello di Welden, che sta bloccando Venezia. Rischioso, sì; ma non ci si trova di fronte a una situazione, peggio che disperata, perduta di già?

Fanti, Maestri, Restelli lo ascoltano in silenzio; poi gli significano che gl'invalidi hanno l'ordine di sgombrare immediatamente Milano: pensano forse che oltre che al braccio egli sia stato ferito alla testa? Al capitano Pisacane è giuocoforza inchinarsi e obbedire; non senza prima avere espresso agli amici la sua convinzione, ahimè confermata anche troppo presto dai fatti, che dai dirigenti la Difesa «non s'avesse alcun fermo proposito di resistere al nemico né di far opera degna di quel popolo che a loro obbediva». Poco più di un mese è passato da quando gli austriaci, sul Nota, gli han fracassato l'arto; ed ora, sulla via di Brescia, non può che apparirgli tutta la dolorosa inutilità di quella scaramuccia di cui pure andava tanto glorioso, del suo sacrificio, di quella guerra insomma al cui richiamo è accorso con tanto ingenuo entusiasmo. Nella voragine della pianura lombarda, tutto, miserevolmente sprofondando, s'annulla: ardori, speranze, eroismi.

Quattro d'agosto, armistizio: la Lombardia torna all'Austria; ma è quello stesso paese che con le forze sue proprie ha, qualche mese addietro, messo in fuga il Radetzki? Piú a nord, la guerra sussulta ancora; e il 7 agosto, ad esempio, il corpo di Pisacane prende parte a una sanguinosa ricognizione tra Lonato e Salò. Ma Pisacane, convalescente, non c'è: precedendo i commilitoni costretti, cinque giorni più tardi, all'esodo definitivo verso il Piemonte o la Svizzera, egli è già riparato, con Enrichetta, a Lugano27.

Estate turbinosa, quell'anno, nel quieto Cantone Ticino, caro ai turisti inglesi, e affluenza di villeggianti inconsueti: figure eminenti della insurrezione e della guerra lombarda e d'altri episodi rivoluzionari italiani, combattenti e feriti pur mò smobilitati, scrittori e agitatori politici, ciurmaglia in miseria. Gruppo compatto, lo stato maggiore repubblicano, Mazzini in testa.

Speranze di ripresa in Italia non mancano, né su tutto il fronte lombardo si è per anco ristabilita la calma: i volontari allo Stelvio resistono fino al 16 agosto, la colonna Garibaldi, concluso l'avventuroso raid da Bergamo a Morazzone, non si ritira in Isvizzera che il 27 del mese, la Valtellina di Quadrio s'agita ancora. La guerra è, sì, ufficialmente sospesa ma l'armistizio potrebbe da un momento all'altro venir denunciato. Fervore eccezionale, impazienze, recriminazioni, dispiegamento senza risparmio del «senno di poi», dunque, tra gli ospiti del Cantone Ticino, ciascuno fantasticando sul quando e sul come riappiccare il grande fuoco sopito, ciascuno a suo modo istruendo il processo al recente passato. Sembra si sian riuniti in quel luogo come a una specie di gran congresso dei rappresentanti d'ogni sezione del partito italiano, per stabilire il programma dell'azione avvenire, innanzi di sparpagliarsi di nuovo — come faranno a principiar dal settembre — giú giú per la penisola inquieta, a lavorar di dettaglio.

Come vive Pisacane a Lugano? Probabilmente se ne sta ritirato, bisognoso ancora di riguardi e di cure pel braccio ferito28; comunque, ridda di conoscenze nuove (di particolare appoggio e conforto gli è senza dubbio il ritrovarsi e poi via via stringersi in deferente amicizia con Carlo Cattaneo, che nel novembre, di ritorno da un'infruttuosa missione diplomatica, si ritira nella villetta della Castagnola presso Lugano) e, appassionato come egli è delle discussioni, certo finisce col passare anche lui, come i più fanno, qualche ora del giorno nei pubblici animatissimi ritrovi dell'emigrazione italiana.

Un corrispondente della torinese Opinione così descrive quelle giornate: «Alla mattina si va ad un caffè della piazza, ove si trovano per tempo gli affamati di notizie», per leggere i giornali: dopo di che «si va all'ufficio del Repubblicano, se si ha avuto il privilegio di essere stati presentati al redattore in capo, e là coi giornali della redazione uno si sbrama un pochino la fame... Ritornato sulla piazza della Riforma vedi qua e là varii gruppi di persone, parte civili, e parte ex militari; t'aggiri fra quelle, e la parola tradimento ti suona sì spesso agli orecchi, come a Milano negli ultimi due mesi la parola aristocratico. Poscia una faccia tra il goffo e il birbo ti sciorina per la trentesima volta la importante notizia che Carlo Alberto chiama e raduna i Lombardi in Piemonte per irritarli e consegnarli all'Austria, che la pace è già conclusa, che noi siamo venduti, e che tutta la guerra non fu che una commedia... Dopo un modico pranzo... tu riedi a prendere il caffè sulla piazza della Riforma, salone obbligato dell'emigrazione italiana, e chiamati privilegiato se non ti viene dinanzi un sere che ti sporge e ti fa comperare qualche libruzzo di prosa o versi, destinato a mantener viva la fiamma... della discordia... Poi vai a fare un passeggino lunghesso il lago con qualche amico... Verso sera entri e t'assidi al Caffè Nuovo, e lí tu vedi qualche bella, anzi divina, milanese, qualche notabilità letteraria lombarda, e parecchi giovani brillanti, ora atteggiati da esuli... Alla sera della domenica vi è d'ordinario teatro aperto, a beneficio dei poveri profughi... All'indomani siamo da capo. — Ecco a Lugano la vita del profugo lombardo»29.

Chiacchiere molte, sì. E molta, tremenda miseria: iniziative varie per soccorrere i più bisognosi, e insieme per cementare i vari gruppi e sorreggere il morale della massa. A Lugano si costituisce fin dall'agosto il Comitato lombardo di Mutuo Soccorso per gli emigrati italiani. Ma nel settembre a questa folla bisognosa e irrequieta vengono ad aggiungersi le migliaia di ticinesi, espulsi di Lombardia dal Radetzki, per rappresaglia contro l'ospitalità concessa dal Cantone agli esuli italiani.

Un gruppetto, raccolto intorno a Mazzini e costituito in Giunta Insurrezionale, lavora accanitamente a suscitare in Lombardia una seconda rivolta antiaustriaca. Per l'onore italiano, bisogna che il popolo riprenda le armi: «Sapete voi — scrive Mazzini a un amico, il 23 novembre — che in Francia, in Inghilterra, qui nella Svizzera ci disprezzano? che il marzo rimane per essi un fenomeno inesplicabile? che dichiarano esser tutto inutile perché non vogliamo batterci?»30 Si aizzano le popolazioni di confine, si disegna di rovesciar giú dai monti di Como e della Valtellina una valanga di armati sulla piana lombarda: va e vieni di corrieri, febbrile corrispondenza, contatti stretti con Parigi, dove, assai vanamente invero, si spera di ottenere una promessa d'intervento francese in appoggio all'attesa insurrezione lombarda; intensa propaganda repubblicana in tutta Italia; rapporti col Provvisorio di Venezia, eccitamenti all'azione autonoma in Toscana, a Roma, perfino a Genova non del tutto rassegnata ancora al giogo piemontese. E poi, cento occhi e cento orecchie a Torino per spiare le mosse di Carlo Alberto: denunzierà o rinnoverà l'armistizio? Prepara o non prepara la guerra? Prevarranno, cioè, i retrivi e gli alti gradi dell'esercito, che premono per la conclusione di una pace sulla base dello statu quo ante, o la sinistra, gli antiaustriaci arrabbiati, i solleciti dell'onore piemontese, i profughi lombardi, che invocano la ripresa delle ostilità?

Pisacane avvicina Mazzini, che ricorderà poi d'averlo veduto, ma di sfuggita, «fra quel turbinio d'esuli che la dedizione regia rovesciava da Milano e da tutti i punti di Lombardia sul Canton Ticino»; ma né approfondisce la conoscenza né, tanto meno, partecipa personalmente all'attività del suo gruppo. Il suo pensiero, è vero, va sempre più improntandosi, teoricamente, alla dottrina repubblicana, dopo la doccia fredda che gli avvenimenti del marzo-agosto hanno inflitto alle sue illusioni sulla politica dei Principi italiani; ma egli non sa ancora spogliarsi del tutto di certi abiti mentali propri al militare di professione. Capitano in licenza di un corpo ormai regolarmente inquadrato nell'esercito sardo (la così detta Divisione Lombarda), egli non soltanto vi si sente legato da un senso di disciplina formale, ma, per quanto conservi in pieno il suo altezzoso disdegno pei generali di Carlo Alberto, non riesce a concepire che l'esercito sardo possa restare sotto il peso di una disonorante sconfitta, e più ancora non riesce a sottrarsi all'idea che la partita antiaustriaca possa venir regolata in altro modo o in altro luogo che da battaglioni di truppa, su campi di battaglia; quasi quasi dimentica che senza le Cinque Giornate non si sarebbe mai avuta la guerra. Come potrebbe dunque consentir con Mazzini sul programma insurrezionale?

Scorrerie di bande armate, scoppiar di rivolte suggerite e alimentate dal di fuori, e perciò circoscritte ed effimere, tutto ciò francamente ripugna alla sua mentalità. Lo vediamo così condannare aspramente il concetto, l'ordinamento e le mosse della colonna garibaldina (che invece Mazzini ha incoraggiato e rifornito), giudicare inopportuni «e perché il popolo non era disposto ad insorgere, e perché di nuovo le speranze e gli occhi erano rivolti al Piemonte, che aumentava considerevolmente il suo esercito» i moti ottobrini della Valle d'Intelvi, dallo stesso Mazzini predisposti e suscitati; affermare che cospirazioni e congiure «non potranno giammai compiere una rivoluzione» e sottolineare l'inconsistenza dei vari Comitati insurrezionali sorti dopo l'armistizio Salasco, formati da «individui i quali pretendevano comandare, e parlare in nome di un popolo da cui non erano nemmeno conosciuti».

Gli è dunque increscioso vivere, senza volervi partecipare, in mezzo a questo crepitio d'iniziative, a questo incessante agitarsi. Non è forse sintomatico che l'epistolario di Mazzini, che ci è stato conservato foltissimo per quei mesi, non nomini neanche una volta Pisacane, mentre che, si sa, di ufficiali «in gamba» egli andava affannosamente in cerca per la sua azione rivoluzionaria, al punto di attirarne a Lugano di quelli incorporati in Piemonte nella Divisione Lombarda?

Volgono i mesi, ricchi di eventi previsti e imprevisti. Piemonte che rinnova l'armistizio, mediazione anglo-francese, caduta di Messina, sollevazione di Livorno (settembre); moti mazziniani in Lombardia, insurrezione a Vienna, riunione a Torino del congresso federativo italiano (ottobre); a Roma, assassinio del Rossi, costituzione del Ministero Galletti, estrema inquietudine popolare, fuga del papa (novembre). Ma intanto l'Austria, minacciosa, ha ragione della timida resistenza svizzera, e impone l'espulsione dal territorio confederale degli emigrati più in vista. Se ne vanno, così, tutti i migliori; Mazzini, risoluto a non staccarsi dalla frontiera lombarda, è costretto a nascondersi. Pisacane non vien disturbato; ma nel decembre, verificatosi a Torino il colpo di scena del nuovo Ministero Gioberti — promessa esplicita di prossima guerra — e ormai risanato il suo braccio, lascia di sua iniziativa la Svizzera, per riprender servizio in Piemonte31. L'idea sola di entrare nei ranghi, dopo tanti mesi perduti in vane discussioni politiche, vale a rasserenarlo; poiché egli non ha potuto rendersi conto ancora fino a qual punto quella lunga licenza, perfezionando la metamorfosi iniziata nel febbraio dell'anno innanzi, abbia fatto di lui un altr'uomo. Se n'accorgerà di lí a poco.

Il suo reggimento — 22° Fanteria, Divisione Lombarda — è accasermato a Vercelli e lo comanda un maggiore Campana. Specialissima la situazione di queste truppe, indispensabili come sono al Piemonte per simbolizzare agli occhi d'Italia e d'Europa i legami che lo avvincono alla provincia «perduta», e insieme tenute in gran sospetto dalle sfere ufficiali a Torino, ancor più che per la loro indisciplina inguaribile, per le pretese e le pose repubblicane e autonomistiche che, dagli ufficiali ai soldati, esse si credono autorizzate ad assumere. Non sono che sei o settemila uomini, spartiti in quattro reggimenti più due battaglioni di bersaglieri, ma pur dipendendo gerarchicamente dal Ministero della Guerra, lasciano intendere anche con troppa chiarezza d'essere disposti, nel caso che il Piemonte non facesse la guerra, a sconfinare e a portare l'insurrezione in Lombardia: amici zelanti e pericolosi! Perciò, frequenti « siluramenti» d'ufficiali e sostituzioni nell'alto comando (dal Durando all'Olivieri, al Ramorino); scontento crescente delle truppe, che tra l'altro lamentano la precarietà della loro situazione e il pessimo equipaggiamento; e, insieme, rivalità tra ufficiali regolari e lombardi, ai quali ultimi i primi non possono perdonare il troppo facile acquisto dei gradi conseguiti nella recente campagna.

È vero che quando Pisacane assume il comando della sua compagnia, l'ordinamento della Divisione Lombarda è notevolmente migliorato, le voci di guerra valendo a sostener l'animo delle irrequietissime truppe, concentrate dapprima a Vercelli, indi a Novi e dintorni; pure egli è presto scontento e di sé e del suo ufficio. Mentre conduce i suoi soldati ai fastidiosi esercizi in piazza d'armi, la sua mente corre alla politica dell'abate Gioberti, che a lui pare tortuosa e esitante; non è che un povero ufficialetto inferiore, ma smania perché alla testa dell'esercito sardo è stato messo, chi sa perché, un generale polacco celebrato per la sua nullità, e che tra l'altro balbetta a mala pena l'italiano32; vede chiaro che a Torino, avvicinandosi la primavera, stagione di guerra, si manca di un piano deciso o peggio ancora se ne caldeggiano di rovinosi: diffida insomma di tutto e di tutti nel Piemonte monarchico, e quella tale parola che a Lugano era in bocca di tutti — tradimento — si insinua adesso, irresistibile, anche nel suo cervello. La sua, d'altronde, è un'anima in perpetuo travaglio: un senso critico fin troppo sveglio e affinato lo fa insofferente di eseguire in sottordine modesti compiti di dettaglio quando si sente o crede sentirsi tale da poter dominare l'insieme assai meglio dei suoi superiori: nato al comando, all'obbedienza negato di certo, egli ha, per concludere, la stoffa dell'oppositore per sistema e per gusto. Qual meraviglia che a reggimento egli appaia ben presto uno spostato? L'esosa vita di guarnigione lo snerva, col troppo tempo che va perduto in inezie.

Potesse almeno passare allo Stato Maggiore! Quello davvero sarebbe il suo posto, là avrebbe modo di rivelare appieno capacità fin qui misconosciute da tutti, e se non altro di rendersi conto in anticipo di come ci si prepari alla guerra in Torino. È un desiderio assurdo; pure farà di tutto per realizzarlo: presenta domanda gerarchica, poi, due febbraio, ne scrive al Durando, suo ex-generale, quello che per aver ricevuto il suo rapporto del maggio '48 conosce per prova la sua idoneità all'ufficio richiesto. Trincerista, ferito di guerra, Pisacane non ha avuto né promozioni né decorazioni; perché non compensarlo adesso accogliendo, previo esame, la sua domanda? Dica una sola parola il Durando, e sarà cosa fatta. «Non ho veruna conoscenza, ella solo Sig. generale, potrebbe essermi di protezione e di appoggio».

S'ignorano la risposta del generale e l'esito della domanda; ma se, come sembra, e l'una e l'altro non furon tali da soddisfar Pisacane, questa fu veramente fortuna per lui. Ché non certo di gloria avrebbe potuto coprirsi nella imminente campagna, militando in quella Divisione Lombarda cui, com'è noto, si volle da molti addossare la colpa della sconfitta; e tanto meno se lo avessero accolto nello Stato Maggiore divisionale, sotto quell'infelice suo condottiero, il Ramorino, al quale per un bisogno irresistibile in Italia, quando le cose volgono a male, fu riservata l'ingrata funzione di capro espiatorio, come se le deficienze da lui tragicamente scontate non avessero coinvolto ben altre e più alte e più generali responsabilità.

Infastidito, deluso, Pisacane continua la serie dei suoi colpi di testa: 26 febbraio, richiede e subito ottiene dal Ministero un permesso, al quale, un mese dopo, seguirà la dispensa dal servizio33.

«Mio caro Filippo — scriverà nel settembre al fratello — ... La risoluzione di lasciare il Piemonte la feci appena la sua politica guerriera principiò a vacillare, tentò l'invasione in Toscana ed io appena vidi solo il dubbio di potermi battere per conto di un individuo contro un popolo, sterzai subito e da Roma inviai le mie dimissioni». Affermazione leggermente inesatta: ché il gabinetto Gioberti cadde, proprio sulla questione dell'intervento in Toscana, il 21 febbraio, e Pisacane non firmò la domanda di permesso che cinque giorni più tardi. Bisognava pur spiegare in qualche modo le dimissioni improvvise, e a Pisacane probabilmente seccava di confessare che, dopo appena due mesi dal suo ritorno in Piemonte, vi si era risolto un poco per offesa suscettibilità, ma assai più per l'attrazione che aveva esercitato su lui la proclamazione della repubblica a Roma. Pure, era questo un così grande fatto che di per sè giustificava appieno, mi sembra, un colpo di sterzo del genere. Con la repubblica a Roma la situazione politica e militare della penisola si era infatti radicalmente mutata: l'asse della rivolta antiaustriaca si era spostato di colpo dalla pianura del Po all'Italia centrale dove, di fianco a Roma, il governo provvisorio del Guerrazzi aveva sostituito la fuggita autorità granducale. Finché la sola Venezia, con la sua resistenza, si era assunta in una Italia ritornata monarchica la difesa della causa repubblicana, il miglior modo per giovare all'indipendenza italiana era sembrato a molti, e a Pisacane tra gli altri, che fosse quello di aiutare il Piemonte a moltiplicare le sue possibilità di rivincita; ma ora, con Roma libera, pareva chiaro a costoro (e lo era stato, da più mesi, a Mazzini) che convenisse finalmente bandire il programma di una guerra «italiana», guerra tutta di popolo, con perno sul Campidoglio, e fini più vasti che non la mera liberazione d'Italia dal giogo dell'Austria: l'attesa campagna dell'esercito sardo si presentava ormai come un episodio parziale di un rivolgimento vastissimo. Non per questo può dirsi che il 9 febbraio improvvisasse la formazione delle opinioni repubblicane in Italia; ma solo precipitò, potenziò e rese attuali quelle che, in numero tutt'altro che esiguo, esistevan di già.

Pisacane vedeva adesso lontano: le deficienze e il finale disastro della crociata dell'anno innanzi non erano stati cagionati appunto dall'avvenuta abdicazione di ogni altra iniziativa di fronte al non disinteressato intervento di re Carlo Alberto? Si era cominciato con una guerra nazionale e si era finito con un ineguale duello austro-sardo. Urgeva adesso rovesciare i rapporti: con la repubblica a Venezia, a Firenze, a Roma, con Milano supposta fremente sotto la rinnovata dominazione straniera, era l'iniziativa originale italiana che ripigliava il sopravvento; e se il monarca sabaudo poteva ormai contare — o almeno avrebbe potuto e dovuto — su larghe fattive solidarietà nel resto d'Italia, si sarebbe potuto altresì controllarlo e infrenarlo, che non avesse a sfruttare a esclusivo vantaggio del suo Stato la pur generica aspirazione all'indipendenza degli italiani tutti.

Innanzi di partire l'ufficiale rifiutato dallo Stato maggiore si prese una singolare rivincita. Lo si credeva immaturo a lavorare nell'alto comando? Ebbene, avrebbe mostrato chi fosse: compilò un dettagliato piano di guerra per l'imminente ripresa e lo rimise senz'altro al generale Bava, ex comandante in capo, e ora ispettore generale dell'esercito sardo. Il concetto informatore, quale si può desumerlo da postumi accenni di Pisacane medesimo, era semplice e chiaro, forse ispirato a reminiscenze delle campagne di Napoleone in Italia. L'esercito sardo ha due vie innanzi a sé: scaglionarsi sulla lunga linea del Ticino per osservare le mosse austriache e dispor la difesa in conseguenza; adottare risolutamente il partito offensivo. La prima via (che per vari segni sembra quella prescelta a Torino) condurrebbe a una sicura disfatta, ché il nemico, irrompendo in colonna, avrebbe facilmente ragione dei singoli corpi affrontati un dopo l'altro. La seconda via, che l'atteggiamento della popolazione lombarda, pronta ad insorgere alle spalle dell'esercito austriaco, vale a rendere assai poco rischiosa, promette invece un successo probabile. Il Comando sardo non ha che da operare una finta su Novara, tale da impegnare l'attenzione nemica, e intanto, col grosso delle forze, filare sul Po, traversarlo e puntare a Cremona. L'esercito austriaco, aggirato, si troverà tagliato d'un tratto dalle sue piazzeforti, con le comunicazioni sbarrate, con la rivolta in casa: non gli resterà che la resa. La vittoria italiana sarà tanto più certa quanto più sollecita sarà la dichiarazione di solidarietà piemontese coi tre governi di Venezia di Firenze di Napoli, dai quali è lecito attendersi un contributo essenziale di un 50 000 uomini almeno.

Per quanto poco assuefatto a tanta audace inframettenza antigerarchica, il generale Bava, sembra, si degnò esaminare l'audacissimo piano34; certo ne scrisse all'autore significandogli che a suo parere esso peccava per soverchio ardimento.

Soverchio ardimento? Agli specialisti di storia militare l'ardua sentenza definitiva ch'io non mi sento di dare. Osservo soltanto esser pacifico ormai che l'inconcludente disegno di mera osservazione e difesa adottato dallo Czarnowski fu il peggiore di quanti mai se ne potessero scegliere, equivalendo al suicidio dell'esercito sardo e alla rinuncia effettiva dell'ausilio lombardo; l'errore commesso venne inoltre aggravato dall'avvenuta denunzia dell'armistizio prima d'aver negoziato e pattuito l'immediato intervento delle milizie offerte dall'Italia centrale.

Facile cosa è criticare la condotta del giuoco quando, a partita ultimata, gli avversari buttan sul tavolo le carte che tenevano in mano; ma Pisacane aveva con acutezza suggerito, innanzi l'apertura del giuoco, qualche mossa importante e, comunque, mostrato quali dovessero ad ogni costo evitarsi. C'era dunque della stoffa in questo petulante ufficialetto inferiore, che per la seconda volta osava infrangere la disciplina gerarchica, offrendo in alto non richiesti consigli.

Capitolo quarto

Difesa di Roma

L'immensa suggestione che l'iniziativa di Roma — repubblica, abolizione del poter temporale dei Papi, riconoscimento della missione religiosa della Chiesa — esercitò sugl'italiani del tempo, non può spiegarsi considerandone soltanto le ripercussioni dirette d'ordine religioso e politico, sia che precipitasse da un verso l'attuazione degli estremi ideali civili dei ceti progressisti, sia che consumasse dall'altro una profanazione inaudita agli occhi della grande maggioranza della popolazione: v'è qualcosa di più. V'è il fascino irresistibile di Roma. Chi era allora, chi è oggi che non senta la incomparabile solennità della parola di Roma, dove ogni idea come ogni pietra, cui grava il peso dei secoli, assume grandezza? In una città dove anche i tuguri nascondon forse nelle fondamenta un tempio, accade infatti che lo scherzo figuri una satira e il dramma assurga a tragedia; su quella ribalta anche un istrione rischia d'esser scambiato per attore immortale. Eroi e avventurieri, santi e briganti, ideali e pretesti vi si confondono spesso, ché su tutti Roma riflette la sua luce, una luce propizia alla formazione dei miti. Il mondo, guardando a Roma, di rado sorride o trascura: osanna o maledice.

Ecco dunque perché il fatto solo della proclamazione della repubblica a Roma, indipendentemente dalla sua fortuna o dal valore poi dimostrato dai suoi governanti, costituí per l'Italia un avvenimento di eccezionale importanza e certo di ben più vaste risonanze che non tutti insieme gli altri episodi rivoluzionari svoltisi, o ancora in via di svolgimento, entro i suoi confini, in quel decisivo biennio: cose italiane eran stati o eran questi, sia pur con ripercussioni europee; ma quella era cosa universale: saliva nel buio cielo del mondo come una colossale réclame luminosa della causa liberale italiana, che così s'imponeva una volta di più, come problema interessante ben oltre le nostre o le altrui caste politiche, la stessa civiltà.

Se Roma forní alla repubblica il consueto apparato della sua grandezza, la repubblica, d'altronde, fu degna di Roma. Che importava se i suoi giorni eran contati, tra il Papa che da Gaeta, furibondo, scagliava scomuniche, il Borbone suo ospite che minacciava la guerra, l'Austria che si preparava al tradizionale intervento, la Francia, pur democratica, che non scordava i privilegi dei suoi re cristianissimi, e la Spagna che, financo essa, si disponeva a fornir nuova prova della sua fedeltà alla Chiesa pericolante? Quel che importava era che la voce di questa libera Roma, prima di venir soffocata, suonasse alta e fiera, romana davvero. Ed ecco precipitarsi a Roma, da ogni parte d'Italia e dalle terre d'esilio, italiani a migliaia, isolati o adunati in schiere armate, risoluti tutti a sostenere una causa che, nonostante il sicuro insuccesso immediato, prometteva, se ben condotta, di render più certo il trionfo finale delle aspirazioni italiane.

Piú alto di tutti e quasi sopraffatto dall'emozione che suscita in lui questa rinnovata «missione» di Roma, pur tanto sognata, giunge Mazzini. «Vi entrai la sera, a piedi, sui primi del marzo, trepido e quasi adorando», ricorderà egli stesso più tardi. Nessuno ha quanto lui il senso religioso di Roma: non è Mazzini infatti che ha sempre veduto e additato, in Roma appunto, la culla di una nuova fede religiosa, che armonizzando le aspirazioni divine e umane, sociali e politiche, individuali e collettive dell'uomo, inizierà un'era migliore? Pauroso dunque per lui, come per tutti gli spiriti veramente grandi, l'atteso confronto di Roma: si riveleranno le sue forze pari a una prova che egli sente suprema?

Ai ciurmadori della politica, quando pervengono a Roma, par necessario, per dimostrare la propria grandezza, indossata la toga e gonfiate le gote, far monopolio delle glorie antiche, di continuo evocate e proposte nei roboanti discorsi, con la pretesa di emularle con gesta mai viste. Mazzini, entrato a Roma umilmente e quasi di soppiatto, si nasconde dapprima in una povera stanza d'albergo, in una via secondaria, «un tavolino d'abete e cinque scranne di paglia... un desinare frugale a tre paoli»: poi, nominato triumviro, bisogna bene che passi alla Consulta, ma anche lí sceglie l'alloggio più umile, che gli permette di tenersi in continuo contatto col pubblico. Assai volentieri cede al collega Armellini gli appartamenti di rappresentanza, che pur sarebbero sua degna sede. Continua, in Roma, la sua vita d'esilio: scrive e scrive, con quei suoi segni sottili ed uguali, anima tutti col suo febbrile parlare, con i suoi occhi febbrili. Ad altri il tenere alto e superbo il capo tra i romani «redenti»: egli non osa neanche chiamarli a raccolta. Trascorre via frettoloso agli uffici, il volto chino, timido innanzi ai monumenti di Roma. Non mai come allora ha così fortemente avvertito la presenza di Dio: più tardi, sfidando i sarcasmi dei più tra i seguaci, vorrà perfino che si riapran le chiese, lui che è contro la Chiesa; tanto gli sembra che tutto, a Roma, abbia una ragione profonda.

Il settario, superata la setta, lavora adesso per tutti, nel nome di tutti.

Verso il 10 di marzo, a Mazzini che, pur semplice deputato, è già fin d'allora regolatore supremo delle cose della repubblica, si presenta Pisacane, giunto con Enrichetta, da Genova, l'8 del mese.35 «Mi si presentava senza commendatizie; — raccontò poi, nei Ricordi, Mazzini — m'era ignoto di nome, benché io ricordassi di averlo alla sfuggita veduto un anno prima..., io non sapeva né gli studî teorici e pratici, né la ferita di palla Austriaca che lo aveva tenuto per trenta giorni inchiodato in un letto, né i principî politici serbati inconcussi attraverso l'esilio e la povertà, né altro di lui. Ma bastò un'ora di colloquio perché l'anime nostre s'affratellassero, e perch'io indovinassi in lui il tipo di ciò che dovrebb'essere il militare italiano, l'uomo nel quale la scienza, raccolta con lunghi studî ed amore, non aveva addormentato, creando il pedante, la potenza d'intuizione e il genio, sì raro a trovarsi, dell'insurrezione».

I due affrontano subito il problema fondamentale della repubblica: la situazione militare. Spaventoso, in proposito, il lavoro che incombe ai governanti di Roma: tien luogo d'esercito, infatti, una disordinata accozzaglia di gente armata alla meglio, disseminata in un territorio vastissimo che va da Ferrara ai confini napoletani, da Civitavecchia ad Ancona: quindicimila uomini circa, molti dei quali tengono più, quasi, all'autonomia delle bande cui sono affiliati e alla gloria dei rispettivi capi che non alla salvezza della repubblica. Il Ministero della Guerra ha fino allora funzionato a rovescio: subalterni incapaci cacciati ai comandi, tecnici di valore sprecati in sottordine; confusione dovunque, dalle uniformi all'armamento; assenza totale di piani organici.

Bisogna, dice Pisacane a Mazzini con la consueta chiarezza, stabilire senza indugio un programma di reclutamento atto a triplicare gli effettivi esistenti; imporre a tutti un regolamento che non soffra eccezioni; precisare il criterio gerarchico, e così via. Cose semplici, è vero, e di lapalissiana evidenza; ma quel che colpisce Mazzini fin dal primo istante (come già un anno innanzi a Milano il Cattaneo) è il tono fermo, severo, sicuro, con cui Pisacane si fa a proporle: il tono d'un uomo che, misurandone perfettamente le inevitabili difficoltà, si rivela disposto e capace di portarle a compimento contro tutto e tutti. La miglior soluzione sarebbe quella di affidare a lui e a nessun

altro che a lui il compito della riorganizzazione militare, per poi riferirne, s'intende, all'Assemblea sovrana; ma anche nella Roma rivoluzionaria di quante suscettibilità pronte ad offendersi bisogna tener conto! Girando perciò la posizione, Mazzini propone la nomina di una Commissione di cinque che lavori all'uopo accanto al Ministro, naturalmente «senza lederne la libertà di azione e la responsabilità»; suggerisce quattro Carneadi, più Pisacane, per Commissari. L'Assemblea, docile, approva.36 È il 17 di marzo: la Commissione si pone subito all'opera con la più grande energia. Pisacane era da prevedersi — fa quel che vuole: in pochi giorni, provocate o spontanee, ecco le dimissioni del sig. Ministro («un asino», per Pisacane); al cui posto, fin dal due di aprile, s'insedia la Commissione. Pisacane, cioè, promosso maggiore il 26 di Marzo, è virtualmente Ministro.

L'accordo con Mazzini è altamente fruttuoso. Pisacane completa infatti come meglio non si potrebbe il futuro triumviro, il quale, felicissimo nell'ideare audaci piani di guerra, si trova poi nell'impossibilità di vararli, ignorando affatto come s'impieghi il fucile o che sia mai la manovra avvolgente o come si appresti a difesa un terreno! Lunghe ore essi trascorrono insieme, chini sulla carta d'Italia, ragionando oltre che dell'immediato avvenire di Roma, d'una guerra d'Italia e del modo di accenderla. Ma se le idee loro collimano per quanto riguarda l'ordinamento delle milizie romane, proprio in tema di fini e condotta di guerra esse divergono assai. Il contrasto è quanto mai curioso: Mazzini, repubblicano per antonomasia, caldeggia la collaborazione con l'esercito di Sua Maestà Sabauda, nell'imminente crociata antiaustriaca sul Po; Pisacane, ex ufficiale borbonico, ex ufficiale nell'esercito sardo (al cui comando ha suggerito, non è che un mese, l'unione militare con Roma) sostiene invece calorosamente che il Piemonte e le Due Sicilie, in quanto monarchici, vanno considerati dalla repubblica nemici né più né meno dell'Austria. Intransigenza, purismo repubblicano d'uno zelante neofita, contrapposti alla duttilità del vecchio lottatore politico? Soltanto in apparenza; come infatti, con i suoi precedenti, potrebbe Pisacane mostrarsi sdegnoso di patteggiamenti e alleanze sperati vantaggiosi al conseguimento di fini comuni? La verità è che egli questa speranza non l'ha. Esaminando le cose da un punto di vista puramente politico-militare, egli, che prevede Novara, trova pazzesco che si voglian legare le sorti della giovane repubblica alla cadente fortuna sabauda. Il fine ultimo del rivolgimento italiano è forse la mera liberazione dall'Austria o non piuttosto la formazione di uno Stato liberale unitario? Ebbene, la situazione del marzo '49 offre, per la prima volta da moltissimi anni, la possibilità di mirare al raggiungimento rapido e integrale di quel fine. L'Austria e il Piemonte essendo infatti immobilizzati sul Po, le tre repubbliche italiane dovrebbero profittarne per far marciare su Napoli un esercito collegato. Napoli, indebolita dalla rivolta in Sicilia, mal difesa da un esercito cui gli avvenimenti del '48 hanno inferto il colpo di grazia, priva per giunta dell'intervento dell'Austria, finirebbe certamente col cedere: sfasciatosi così il regime borbonico, la popolazione farebbe causa comune con Roma, Toscana e Venezia; i due eserciti, espressione di più che mezza Italia, si scaglierebbero allora, in condizioni di netta superiorità, contro i due superstiti nemici del nord, l'un contro l'altro armati. La vittoria darebbe la libertà all'Italia: libertà in tutti i sensi.37

Ma l'attuazione dell'audacissimo piano è resa impossibile non soltanto dalla contrarietà di Mazzini e della maggioranza dei consultori di Roma, fedeli interpreti delle aspirazioni e delle opinioni prevalenti tra i cittadini pensanti, sibbene anche dalla riluttanza notoria e ripetutamente espressa dei governi di Venezia e Toscana a compromettersi facendo apertamente causa comune con gli usurpatori del Papa. A Pisacane, pure imprecante contro il municipalismo, eterna piaga d'Italia, è giuocoforza inchinarsi.

Cosicché non appena il Piemonte denuncia l'armistizio, Roma proclama l'intervento; il 20 marzo Carlo Alberto si muove, il giorno appresso diecimila uomini affidati al comando di Mezzacapo lasciano il territorio della repubblica per raggiungere il Po.38 Ma il 23 marzo Novara, sconvolgendo le speranze italiane, conferma appieno le previsioni di Pisacane. Mezzacapo ripiega, e a Roma tutti comprendono che ormai non più di successi della repubblica si tratta e neanche della sua stessa salvezza, ma soltanto di come più romanamente morire.

A mali estremi estremi rimedi: il 29 di marzo l'Assemblea procede alla nomina del Triumvirato; ormai Mazzini è l'arbitro riconosciuto delle sorti romane. Ma il mese d'aprile, in Italia, è tutto un rovinío: caduta di Brescia, tramonto della libertà siciliana, rivolta e capitolazione di Genova, rovesciamento del governo toscano, calata austriaca. Venezia sola continua a lottare. Di fronte alla molteplicità e all'accresciuta efficienza delle forze contrarie, Roma viene così a trovarsi in un isolamento addirittura paradossale. È vero che dalla Sicilia, dalla Toscana, da Genova è una nuova affluenza di colonne d'armati e di sbandati rivoluzionari ma, con l'anello che le si stringe d'attorno, a che mai può quell'affluenza giovare se non a consegnare alla storia la popolarità della causa romana in Italia?39

Febbrile, in tanto imperversar di bufera, prosegue l'opera della Commissione di Guerra, suprema autorità militare: è la Commissione che, superando resistenze ostinate di piccoli ras gelosi della propria autonomia, crea veramente l'esercito; è la Commissione che ne fissa l'organico; è la Commissione che discioglie le anarchiche bande sostituendole con reggimenti normali e che dispone l'immediato concentramento dell'esercito in due sole piazzaforti; è la Commissione che fa definitivamente naufragare il progetto, caldeggiato da molti, di affidare il comando supremo a un generale straniero; è ancora la Commissione che, accanto alle misure d'ordine generale, emana quotidianamente gli ordini di servizio e di marcia, ciascuno dei quali impone una vera battaglia con i recalcitranti comandi in sottordine; è la Commissione infine che, il 18 di aprile, suggerita la nomina del generale Avezzana, uno dei triunviri di Genova insorta, a Ministro della Guerra e Comandante in capo delle truppe romane, può quietamente sciogliersi con la fiera coscienza d'aver realizzato un miracolo. La Commissione? Ma a chi ne risalissero i meriti dimostrò chiaramente, nel seguito, il fatto che i rancori diffusi e tenaci da essa sollevati s'appuntarono tutti contro il solo Pisacane, che intanto, quello stesso 18 d'aprile, era stato designato a sostituto del Ministro della Guerra.40

Mentre così si apprestano uomini e mezzi alla difesa della repubblica, una colossale fatica di provvidenze e riforme interiori si va svolgendo dai triumviri e dai diversi ministri, in vista soprattutto di legare alla conservazione del nuovo regime le fin qui indifferenti popolazioni romane. Si direbbe, da quanto fanno, che proprio nessun pericolo esterno minacci l'esistenza dello Stato; ma è Mazzini che ha detto: «lavorare come se avessimo il nemico alle porte e a un tempo come se si lavorasse per l'eternità», e tutti intendono e obbediscono a lui.

Attivissimo è anche il lavorio diplomatico volto a persuadere le Cancellerie europee del buon diritto di Roma; ma qui lo scacco è ben grave. Il 16 aprile, infatti, il governo «repubblicano» di Francia, pur imbellettando la mossa con equivoche dichiarazioni d'amicizia pel popolo italiano e di assoluto rispetto per la sua autodeterminazione, annuncia l'intenzione d'intervenire nelle cose romane: il bis della spedizione di Ancona! Non passano otto giorni che 7000 francesi già sbarcano a Civitavecchia. Stupefazione e disorientamento a Roma: sono amici o nemici? Mazzini, appassionato difensore più ancora che della materiale esistenza della repubblica, della sua dignità, raccoglie il consenso generale sfidando superbamente i francesi ad accostarsi a Roma, ch'egli dichiara risoluta senz'altro a respingerli. Ma se avanzano, sarà davvero la guerra?

Sarà la guerra. La fase eroica ha finalmente principio.

Due vie si presentano ai difensori di Roma: serrarsi in città e garantirne ad ogni costo l'accesso; oppure sgombrarla e con tutte le truppe dar battaglia campale al corpo francese. Pisacane — che nel frattempo (carriere rivoluzionarie) è stato nuovamente promosso al grado superiore e addetto alla prima sezione dello Stato Maggiore41 — manco a dirlo propende per il piano offensivo. C'è qualche analogia fra la situazione di Roma nel '49 e quella di Milano nel '48. Ambedue città aperte, ambedue indifendibili; con l'aggravante, per Roma, che oltre l'attacco francese, bisogna attendersi quello austriaco e napoletano, e che alla fine d'aprile le truppe presenti in città sommano appena a un 9000 uomini. La caduta di Roma sarebbe dunque questione di giorni. Quanto più vantaggioso trasformare un assedio passivo in una guerra di movimento: il corpo romano, conservando per sé l'iniziativa del dare o non dare battaglia, potrà a suo agio investire i francesi sul fianco durante la loro marcia dal mare, oppure, radunandosi a nord di Roma con le milizie dell'oltre Appennino, attendere, per piombare sull'invasore, d'aver raggiunto una sicura superiorità numerica. Salva o non salva Roma, finché un esercito rivoluzionario si aggiri in Italia, chi potrà mai dire spenta la causa italiana?

Dal punto di vista strategico Pisacane e qualche altro che la pensa come lui hanno perfettamente ragione; da quello morale e politico, invece, è nel giusto Mazzini quando protesta contro l'assurdo errore che costoro commettono di considerare Roma, cioè, né più né meno che come una qualunque «posizione», abbandonata la quale si possa sceglierne, per la difesa, un'altra migliore. Roma è un simbolo, un mito; se poche, relativamente, son le braccia accorse a difenderla, con l'animo sarà sugli spalti la parte migliore d'Italia. Roma che cade senza colpo ferire è il mito che si dissolve; Roma che cade dopo resistenza accanita son gl'italiani che ne sentiranno poi sempre il tormento e in quel glorioso ricordo sapranno osare e soffrire.

Ancora una volta, in così dire, Mazzini ha con sé la maggioranza dei capi militari e dei deputati all'Assemblea; tanto che in un consesso dei triumviri e dei ministri, all'uopo riunito, il piano di Pisacane viene respinto all'unanimità.

Piú divisi invece i pareri sulla questione se, per contrattaccare i francesi, convenga proprio attendere che questi investano le mura di Roma. Mazzini ritiene di sì, sperando sempre che la spedizione francese, organizzata più che altro per esigenze di politica interna, possa da un nuovo Ministero o da una nuova Camera (pendono in Francia le elezioni politiche) venir richiamata o almeno spogliata di ogni apparenza offensiva; così stando le cose non sarebbe pazzesco anticipare uno scontro, col rischio di scatenare davvero le correnti belligere dell'opinione francese? Questo ragionamento persuade poco, s'intende, la gioventú di Roma, e Pisacane pochissimo; ma l'opinione del Capo, che tutti sanno legato da antichi vincoli ai leaders della democrazia francese, ha sì gran peso che le opposizioni, pur fremendo, si tacciono.

Lanciata dunque all'Europa un'anticipata protesta contro la violazione inaudita del diritto delle genti che la Francia minaccia di consumare, il governo di Roma si limita ad apprestare entro le mura la difesa della città. Tanto ingenua e profonda è l'illusione nella quale Mazzini si culla che, per ordine suo, lungo la strada di Civitavecchia vengono affissi vistosi cartelli, redatti in francese, riepiloganti il buon diritto di Roma!

Abituato agli scacchi (piano di reclutamento suggerito nell'aprile '48, tenuto in non cale; piani di guerra del maggio e del luglio successivi, respinti; piano spedito al Bava, giudicato troppo ardito), Pisacane non s'adonta per il rigetto delle sue proposte, anzi volentieri s'adatta a studiare come meglio si possa tradurre in effetto quel disegno che pur lo persuade sì poco; e tanta buona lena vi pone che, per riconoscimento dei più, si dovrà in buona parte proprio a lui e alle disposizioni da lui escogitate (oltre che, si sa, alla eccezionale capacità combattentistica di Garibaldi) se la prima giornata di guerra delle milizie romane si concluderà con un successo autentico42.

Brusco risveglio per Mazzini ancora ostinatamente gallofilo quel 30 d'aprile, quei diecimila francesi avanzanti su Roma! Violentemente attaccati e respinti, cento dei loro, morti, oltre a quasi trecento arresisi, rimangon lí ad attestare a che sia ridotta la repubblicana fraternità del governo di Francia. Garibaldi, viste le terga nemiche, vorrebbe perfezionar la vittoria, gettandosi all'inseguimento; e forse, per dovere d'ufficio, tocca per l'appunto a Pisacane, che pur sarebbe dello stesso parere, trasmettere l'ordine perentorio del triumvirato di non uscire dagl'immediati dintorni della città. Mazzini, imperturbabile, si sforza adesso di pensare che, avuta una buona volta la prova della risolutezza romana, Parigi rinuncerà a colorire il suo iniquo disegno; animato da tale speranza, che Pisacane, da buon militare, principia a trovare pericolosa e ridicola, non giungerà egli perfino a ordinare la restituzione dei prigionieri del 30?

Le perdite romane, in quello stesso scontro, non sono state gravi: una settantina di morti, un centinaio di feriti, affidati questi, nelle ambulanze reggimentali, oltre che a medici piovuti d'ogni parte d'Italia, all'assistenza e alle cure di un Comitato di Signore presieduto dalla Belgiojoso43. Fra le quali, e delle più attive, brava infermiera espostasi al fuoco a Porta S. Pancrazio, Enrichetta; il 5 di maggio il Monitore romano stamperà anzi di lei, che firma adesso Enrichetta Pisacane, una commossa relazione sulla parte presa dai trasteverini alla giornata del 30 d'aprile44.

Ma quella, dopo tutto, non era stata che una scaramuccia di poco momento; nel seguito l'attività del Comitato dové naturalmente moltiplicarsi ed estendersi, a centinaia affluendo i feriti negli improvvisati ospedali per ricevervi, con le povere cure che la chirurgia sapeva allora apprestare,
l'incomparabile conforto morale che solo la donna può offrire. Duri mesi dunque, quelli di Roma, per Enrichetta, anticipata e oscura Nightingale italiana45; poiché non vi è pena più intensa che il vegliare le pene degli altri.

Roma, ancora tutta vibrante dell'insperato successo, osservava con qualche inquietudine le mosse del corpo francese, accampatosi senza apparenti intenzioni offensive a poca distanza dalle sue mura, quando, dalla frontiera di Terracina, giunse il 2 maggio la notizia dell'avanzata napoletana: 12 000 uomini e più che 50 cannoni!46 Il dilemma era tragico. Per affrontare i borbonici e toglier loro la voglia di compiere nel territorio della repubblica simili passeggiate militari si sarebbe dovuto abbandonar Roma ai francesi, né si poteva. Il mezzo termine scelto fu, com'è noto, l'urgente richiamo del corpo di Mezzacapo e d'altre colonne operanti lontano dalla capitale e insieme l'ordine a Garibaldi di spingersi con la sua legione in ricognizione offensiva verso i colli Albani dove intanto si erano provvisoriamente postate le truppe di Re Ferdinando.

Dopo due lievi scontri la ricognizione aveva termine il 17 di maggio e, caso strano, con pari soddisfazione d'entrambi le parti, i romani vantando il pieno raggiungimento degli obiettivi propostisi, i napoletani nientedimeno che d'aver costretto Garibaldi alla fuga.

Chi fosse il vincitore vero non venne chiarito neanche a guerra ultimata; lo stesso Pisacane polemizzò in proposito col fratello ufficiale borbonico, secondo il quale uno degli scontri — quello di Palestrina — risaliva a gloria immortale dei suoi commilitoni! Guerre e battaglie d'ottant'anni fa.

Comunque i napoletani si guardaron bene dall'avvicinarsi ulteriormente a Roma; e poiché in breve tempo affluirono nella città i rinforzi (portando a diciottomila uomini la guarnigione effettiva) e s'erano intanto iniziate trattative d'armistizio con l'Oudinot generale francese, la situazione della repubblica avrebbe potuto dirsi radicalmente migliore se il terzo nemico, l'austriaco, presa Bologna e tenendo ormai tutta quanta la Toscana, non avesse rappresentato lui adesso la minaccia immediata, polarizzata su Ancona, unico porto che a Roma fosse rimasto.

La necessità della difesa di Ancona, anzi, portò a un nuovo rimpasto nell'alto comando, ché l'Avezzana venne inviato a dirigerla, e un colonnello, il Roselli, prese il suo posto qual generale delle operazioni. Un Bonaparte costui? Tutt'altro, ma senza dubbio il migliore tra gli ufficiali di cittadinanza romana, e un romano sembrò allora che ci volesse a quel posto, per più ragioni, o pretesti, campanilistici. Pisacane, che andava pian piano imponendosi come il factotum del triumvirato, fece in quest'occasione un nuovo balzo in avanti, sostituendo nell'ufficio di Capo di Stato Maggiore il Galletti, che del resto aveva già completamente offuscato e per attività e per competenza. Poco prima lo si era nominato altresì presidente del Consiglio di Guerra e della Commissione per le requisizioni.47 Mazzini aveva sempre più fiducia, e sempre più bisogno di lui. Lo avrebbe attestato più tardi: «Per me egli non era solamente il capo dello Stato Maggiore, esecutore rapido e diligente delle intenzioni del Generale in capo e delle nostre; era l'ufficiale nato per la guerra d'insurrezione, dotato di quella potenza d'iniziativa che trova la vittoria dove il nemico, fidando nella scienza tradizionale, non prevede l'assalto, ed al quale io poteva affacciare i più arditi consigli, securo ch'ei non li avrebbe respinti unicamente perché in apparenza contrarî alle così dette regole dell'arte bellica».

Tra i Roselli e i molti del suo stampo, pedantescamente aggrappati, nonché a quelle regole, all'osservanza di una disciplina formale, assurda in quei frangenti, e i Garibaldini, valorosissimi, sì, ma che intendevan la guerra un poco troppo da anarchici, Pisacane rappresentava infatti, se non il punto d'incrocio e d'intesa (ché il suo carattere non si prestava a quel compito), certo una tendenza media, assai più equilibrata d'entrambi.48

Andavan tutti d'accordo, intorno alla metà di maggio, che bisognasse, ora che Roma era finalmente ben guernita di truppe, uscire dalle mezze misure e finirla con quella inconcludente guerretta; ma chi, al solito, voleva non si pensasse ad altro che a trasformar la città in una piazzaforte sul serio, chi — Pisacane ad esempio — diffidando della buona fede francese, pretendeva si rinnovasse senza indugio, e in proporzioni più vaste, il conflitto del 30 di aprile, per poi passare ai borbonici.

Mazzini, sempre invischiato nella pania francese (il 17 di maggio il Monitore ufficialmente annunziava la sospensione delle ostilità franco-romane), timoroso d'altronde che, ove si lasciassero i napoletani avvicinarsi a Roma, l'Oudinot non ne prendesse pretesto per «amichevolmente» occuparla, aveva un terzo progetto: uscir di sorpresa dalla città con quasi tutto l'esercito e investire i borbonici accampati in Velletri con un'offensiva siffatta da obbligarli a mollare la posizione e comunque da infligger loro una sconfitta che servisse a rianimare i difensori di Roma.

Pisacane — è Mazzini che lo attesta — fu il solo tra i capi militari che, sedotto dall'«audace consiglio», se ne facesse banditore entusiasta; laddove Roselli, in successive polemiche di stampa, orgogliosamente si attribuí e la paternità e il merito di quel progetto. La questione non è ancora perfettamente chiarita; certo è comunque che Pisacane ebbe parte precipua nell'apprestamento tecnico dell'operazione, la quale venne ben presto coronata dal più brillante successo. Non era proprio lui che andava insistendo, fin dai primi di marzo, che Roma s'avesse a difender fuori di Roma?

L'attuazione del piano seguí rapidissima e nel più grande segreto; al punto che quando, alla sera del 16 maggio, i romani stupefatti videro, reggimento dopo reggimento, ben diecimila uomini lasciar la città per porta S. Giovanni con alla testa Roselli stesso e Garibaldi e Pisacane, lo sbigottimento fu intenso, voci di tradimento circolarono subito e mezza Assemblea si precipitò da Mazzini a chiedergli conto di quel che stesse accadendo; ci volle del bello e del buono per acquietarli un poco. La fortuna assistendo, dubbi e sospetti si tramutaron poi presto in sconfinati entusiasmi.

Il comando romano, infatti, o vogliam dire Mazzini, rivelò in questo caso straordinario tempismo. Velletri? Diversivo a uso di politica interna? Altro che questo! I napoletani, incalzati, spariron d'incanto dalla regione dei colli, non solo, ma dovettero ripassare in tutta fretta il confine. Disfatta morale aggravata dalla presenza del re in persona fra le sue truppe. È vero che Ferdinando aveva disposta la ritirata fin dal 17 di maggio — mentre i romani raggiunsero le sue posizioni soltanto il 19 —, non appena cioè gli era giunta notizia della sospensione di ostilità intervenuta tra l'Oudinot e il triunvirato e dell'immediata mobilitazione di tutte le forze romane contro di lui; ma la sua fuga, per quanto ufficialmente attribuita alla fallita intesa con Francia, non mancava per questo di costituire per lui, che il confine romano aveva baldanzosamente varcato due settimane innanzi, uno scacco bruciante e per la repubblica un clamoroso successo (che fosse poco sudato non monta).

L'unico scontro verificatosi in quell'effimera campagna, d'altronde, quello del 19 di maggio, aveva fornito una prova brillante dell'efficienza delle truppe repubblicane, e comunque più che bastevole ad accreditare la vanteria romana avere unicamente il loro valore costretto il nemico alla fuga.49

Altra questione è quella, dibattutissima, se Garibaldi cui risaliva il merito di codesto scontro fosse stato bene o male ispirato nel provocarlo, spingendosi, come avea fatto contro gli ordini espressi di Roselli, fin sotto Velletri con la sola avanguardia.

Fiumi d'inchiostro si sparsero su questo episodio, Mazzini, Roselli, Pisacane e molti altri dei quarantanovisti lamentando la sua imprudenza e indisciplina; Garibaldi e i suoi accoliti e sostenitori, per contro, la lentezza di mosse e una tal quale pedanteria dimostrata dallo Stato Maggiore, il quale — così ironizzavano — si figurava forse di comandare a un agguerrito esercito di veterani anziché a improvvisate colonne di volontari tanto entusiasti quanto «scalcinati». La ragione, come accade, era un po' di qua e un po' di là; è vero, tuttavia, che i fatti l'avevan data, nel caso concreto, a Garibaldi, smentendo appieno le preoccupazioni dei suoi critici non avesse l'intero corpo napoletano a rovesciarsi sull'avanguardia romana. Sí che al solo Garibaldi si dovette se l'esercito della repubblica poté rientrare in Roma recando, tra i molti che gliene aveva regalati il Borbone, qualche ramo di alloro che si era còlto da sé.

Ma neanche Pisacane era rimasto con le braccia in croce la mattina del 19. Bensì, disposta l'avanzata generale, s'era preso il comando di alcune forze miste, puntando su Velletri;50 e se a Velletri era giunto troppo tardi per partecipare alla mischia, s'era segnalato ugualmente eseguendo una fruttuosa ricognizione.

Il piano originale del comando romano, che la sortita garibaldina aveva violato, era quello di girare Velletri, e guadagnando Cisterna tagliare la ritirata ai borbonici o almeno assalirli sul fianco51. Ma ora che conveniva di fare? Tornare al primitivo disegno o tentare di espugnar Velletri? Garibaldi e Pisacane una volta tanto concordano e già questi sta emanando gli ordini perché le truppe discendano al piano quando Roselli, poco sicuro dei suoi uomini e desideroso d'una esplicita autorizzazione di Roma, oppone il suo veto. Si perde così quel pomeriggio prezioso a rinnovare inutili attacchi contro Velletri, che l'indomani mattina, vuota di difensori, cadrà automaticamente; ma intanto l'intero corpo borbonico trae in salvo al di là dei confini.

La vittoria ad ogni modo era più che bastevole; poco opportuno perciò l'invito del triumvirato al Roselli di inseguire il nemico foss'anche sul suo territorio. Si eran pesate tutte le conseguenze di una simile mossa? Al Generale e al suo Capo di Stato Maggiore parve di no e che lo sforzo offensivo si sarebbe tragicamente spezzato contro le due piazzeforti di Capua e Gaeta; onde, anziché muoversi, comunicarono a Roma il loro parere assai ragionevole, ricevendone in risposta l'ordine di rientrare in città. Restò Garibaldi a eseguire con la sua divisione la marcia dimostrativa, che si concluse, naturalmente, senza alcun resultato.

La campagna di Velletri, cagione d'orgoglio ai romani, aveva rivelato in piena luce solare come sia difficile in un esercito interamente composto di volontari, conservare il principio gerarchico. Garibaldi aveva dato lo sgambetto a Roselli, il colonnello Pisacane apertamente censurava il generale Garibaldi, la truppa pensava che il Comandante in capo temporeggiasse esageratamente, tutti avevan l'impressione che il triumvirato si mescolasse troppo nelle cose di guerra. I malintesi, le gelosie, i livori non avevano limite. Ma il più colpito fra tutti fu, come sempre accade, il povero Capo di Stato Maggiore, tenuto responsabile di tutti i mali, estraneo al bene. Basterà leggere, per farsene un'idea, gli scritti sul '49 dei combattenti devoti a Garibaldi: Hofstetter, ad esempio, che si fa eco dei severi giudizi pronunziati su Pisacane da Manara (vero è che Manara fece più tardi ammenda onorevole). Pisacane negligente nell'adempimento dei suoi doveri d'ufficio (perfino dimentico, il 16 di maggio, di trasmettere al reggimento Manara l'ordine di marcia, tanto che si sarebbe buscato dal Manara medesimo un fiero rabbuffo; ma Pisacane «parve non volerne saper nulla — e si ritrasse in fretta...»); Pisacane senza una sola idea nella testa nella notte dal 19 al 20 di maggio, sotto Velletri (Manara si recò da Roselli e «gli espose con italiana vivacità, e senza il menomo riguardo le negligenze del suo Stato Maggiore. Le parole del colonnello fecero impressione sul generale e sui suoi aiutanti. Sentiva quegli la verità del biasimo; gli altri non arrischiarono parola che fosse di difesa. Finalmente Roselli disse al Capo di S. M. e al colonnello Haug che qualche cosa doveva farsi»); Pisacane pavido dinanzi al pericolo! (Hofstetter fu incaricato, verso la fine di giugno, di «mostrare al Capo di S. M. la disposizione della truppa e la giacitura delle fortificazioni. Io m'inchinai e condussi fuori il colonnello:... feci in fretta le solite strade delle nostre linee e fortificazioni, ma nel passare osservai che il colonnello non era tanto indifferente ai saluti nemici come lo eravamo noi; anzi era d'opinione che la tale e tale altra cosa avrei potuto spiegargliela nella città»)52. Peccato che questi appunti su Pisacane contrastino radicalmente con quel che sappiamo di lui! Ché negligente, passivo, inerte, pauroso, povero d'iniziativa davvero non fu; ed anzi ebbe, se mai, proprio i difetti opposti.

Molti attribuirono a lui l'invero pessima organizzazione dei «servizi» durante la spedizione di Velletri. E sia.53 Ma non mi sembra fosse equo pretendere che questi funzionassero perfettamente durante lo svolgimento di una operazione che si era decisa in fretta e in furia, e che si eseguiva con truppe in gran parte appena giunte a Roma, equipaggiate alla meglio, guidate da capi che di mala grazia si adattavano alla necessaria subordinazione gerarchica a un generale di fresco promosso e dotato di scarso ascendente personale. Si aggiunga che molti capi di corpo, avvezzi fino allora a organizzare i servizi in un modo assai sbrigativo, taglieggiando cioè senza riguardo e senza misura i disgraziati paesi attraverso i quali per avventura passavano, mal si acconciavano alla nuova disciplina imposta dal Comando, che, preoccupato del risentimento delle popolazioni, giustamente intendeva porre un freno all'andazzo.

Altre critiche si mossero e ancora oggi si muovono a Pisacane perché, quale Capo di Stato Maggiore, si permetteva di spedire minuti e inderogabili ordini di marcia e d'operazione nientedimeno che a Garibaldi.54 Ma questi critici dovevano e dovrebbero dolersi non tanto con Pisacane, che faceva il mestier suo, quanto con chi, potendo, non solo non aveva posto Garibaldi alla somma delle cose, ma ne aveva anzi precisata la dipendenza gerarchica. Forse che la parola «riguardi» ha una ragion d'essere o un ben che minimo significato nel mondo militare?

Il giudizio severo contro Pisacane fu in qualche modo convalidato e diffuso al gran pubblico dall'Assedio di Roma del Guerrazzi nel quale a un supposto binomio Roselli-Pisacane, simbolo di debolezza, vien contrapposta la geniale iniziativa di Garibaldi.

Ma Pisacane non sembra facesse gran caso di queste critiche, di queste accuse. Sapeva che molte gli derivavano dall'aver egli voluto e imposto quel riordinamento dell'esercito pel quale molti petulanti e pretenziosi capi banda s'eran visti ridotti al rango di modesti ufficiali, chiamati a eseguire, non più a dettar legge e tanto meno a discutere: il quale aveva dunque rintuzzato ambizioncelle, stroncato gloriuzze, ma insieme dato nerbo ed efficienza e unità, per quanto si poteva, alle forze della repubblica. Sapeva che molte altre derivavano, come suole, da gelosie mal dissimulate per l'alto ufficio che gli era stato assegnato e per la reputazione che godeva presso il potere politico. Perciò «tirava diritto», sdegnando pettegolezzi e ripicchi.

Ma a lui la breve campagna contro i borbonici dovette esser fonte d'una particolare penosa emozione. Sapeva già, il 16 maggio, o seppe nel seguito (forse entrando in Velletri), che tra le file nemiche, in qualità di comandante di uno squadrone di cavalleria, combatteva suo fratello Filippo? Di quella cavalleria, per l'appunto, che in un primo momento, sotto le mura della città, aveva messo in difficoltà l'avanguardia garibaldina55, salvando essa sola — col suo impeto e col valore riconosciutole anche da parte romana — la dignità dell'esercito napoletano? Nient'altro che un puro caso, fortunatissimo, avea voluto che i due fratelli non si scontrassero armati, in quell'azione del 19 mattina! Comunque, tragica sorte. Sono due anni che non si vedono, che vivon lontani ed estranei, e l'occasione che materialmente li riavvicina è questa d'una guerra che essi combattono da sponde opposte, l'un contro l'altro!

Né si può dire che sia caso eccezionale, nell'Italia d'allora, questo, dolorosissimo, accaduto ai due Pisacane. Eccezionale è forse che, al di sopra della mischia, essi riuscissero a conservare rapporti affettuosi e financo a intavolare per lettera discussioni amichevoli sulle vicende di quella campagna; ché, s'intende, Filippo non volle mai ammettere doversi la ritirata borbonica neppure in minima parte alla minaccia romana.

Del resto, mi si consenta la digressione, pare a me che si possa e si debba ormai (son passati ottant'anni) guardare con uguale rispetto al Pisacane «italiano» e a quello accanitamente borbonico; e infatti se l'uno contribuí direttamente alla formazione unitaria del nostro paese, l'altro — e con lui gl'innumerevoli dimenticati e vilipesi che fino all'ultimo e con personale sacrificio sostennero i regimi ritenuti legittimi — lasciò un esempio, sempre valido, di coerenza ideale, di dirittura, di serietà, di fedeltà a un principio e nella sua fortuna e nella sua definitiva disgrazia.56

Se il risultato della guerra di Napoli parve galvanizzare il corpo della repubblica, e ne fioriron rinnovate speranze, la loro vita fu breve. In Francia, infatti, lo scontro del 30 d'aprile aveva prodotto una tremenda impressione. Il governo, costretto ad agire energicamente, avrebbe potuto o richiamare la spedizione (ma il prestigio francese, l'influenza in Italia?) o proclamare apertamente la sua intenzione di rovesciare al più presto il regime repubblicano a Roma per ristabilirvi il Pontefice (ma avrebbe l'Assemblea consentito?) Scelse, tra gli scogli, una rotta intermedia, che condusse, com'è noto, a uno fra i più disgustosi episodi della recente storia di Francia e a un «caso» diplomatico assolutamente senza precedenti: missione Lesseps (15 maggio), cioè, con incarico di indurre il governo di Roma ad accogliere come amiche le truppe francesi. Dopo due settimane di promettenti trattative (delle quali Oudinot sa profittare per migliorare la sua posizione strategica e rinforzare il suo corpo), quando di pieno accordo vien stabilito che le truppe francesi seguitino a occupare il territorio romano al solo scopo di garantirlo dall'invasione straniera, e sempre astenendosi dal varcare la cinta dell'Urbe (31 maggio), una improvvisa comunicazione del generale francese al triumvirato (1° di giugno) significa che la convenzione Lesseps è da considerarsi nulla e come non stipulata e che l'investimento di Roma è questione di ore!

La partita è perduta; né si vuole qui sostenere che senza Lesseps, senza cioè che i romani, cullandosi in traditrici illusioni, avessero per quindici giorni trascurato l'apprestamento della città a difesa (tutti presi, dopo Velletri, da disegni di arresto dell'avanzata austriaca), questa si sarebbe salvata; ma certo il suo destino è affrettato e si è perduta comunque la possibilità, fino a poco innanzi esistente, di attaccare i francesi finché inferiori di numero. Mazzini amaramente rimpiange di non aver seguito a suo tempo i consigli di Pisacane. L'ingenuità romana è ancora una volta documentata dalla goffa lettera che il Roselli dirige al generale Oudinot per pregarlo di prolungar l'armistizio in vista della necessità di fronteggiare la minaccia austriaca; la risposta francese, nella sua secchezza, sottolinea la sleale sopraffazione di cui l'Oudinot non ha sdegnato di farsi strumento.

Per quanto la caduta di Roma sia matematicamente sicura e imminente, uno slancio tanto più eroico quanto più inutile dei suoi difensori decide la resistenza ad oltranza. «Le monarchie possono capitolare; le repubbliche muoiono», dirà più tardi Mazzini. Le agguerritissime truppe francesi, che s'imaginano di conquistar la città in un sol balzo e senza colpo ferire, sperimenteranno con un mese di assiduissimi sforzi, con perdite tutt'altro che lievi, con consumo spropositato di munizioni, quel che possa valere, anche in una piazza naturalmente indifesa, la disperata volontà di qualche migliaio di italiani straccioni e avventurieri. E sì che la difesa risente non poco del mancato accordo tra i capi, quali eroicamente avventati, ma ignari della più tecnica tra le guerre, quella d'assedio, quali forniti anche troppo di coltura scientifica, ma inconsapevoli che in talune emergenze val meglio un pugno d'«arditi» che una manovra sapiente.

Pisacane, che ha ferma l'idea della indifendibilità di Roma, insiste ancora nel suo piano di trasformar l'assedio in battaglia campale: per male che vada non altro danno ne deriverebbe che l'anticipata caduta di Roma, ma se si vince le conseguenze sono addirittura incalcolabili! Approva senz'altro, perciò, il piano suggerito da Mazzini di uscir con tutto l'esercito, attaccare il nemico a Villa Pamphilj, che è stata conquistata di sorpresa il 3 di giugno (mentre Oudinot s'era solennemente impegnato a non iniziare le operazioni prima del 4), prendere così al rovescio gli apprestamenti di assedio e caricare i francesi in direzione del Tevere.

Ore e ore a interrogar le carte, ore e ore a studiare il terreno: è lui che stabilisce la disposizione delle forze, è lui che prepara gli ordini di marcia. Mazzini gli rende schiettamente questo onore d'aver lui, lui solo tradotto quel pensiero in un magnifico disegno pratico, dandogli «s'altri non lo rimutava poco prima dell'esecuzione, tutte le possibili probabilità di trionfo».

«Questa idea di una battaglia è nuova», osserva Roselli, che conosce a menadito la storia e la teoria della guerra d'assedio, quando Mazzini lo chiama per sottoporgliene il disegno. «Sarà nuova, ma è adatta alle circostanze», ribatte Mazzini. Roselli aderisce; ma Garibaldi, incaricato di capeggiare l'impresa, s'impone a sua volta al debole condottiero, persuadendolo dell'opportunità di rinunciare alla progettata battaglia campale e d'operare in sua vece una semplice sortita o sorpresa dimostrativa. «Colonnello — così Garibaldi bruscamente interrompe Pisacane, che è venuto ad illustrargli il primitivo piano d'operazione —, con le nostre truppe sono impossibili le manovre». Pisacane si ritira «mortificatissimo». La notte del 10 di giugno, non appena la sortita s'inizia, fuor di porta Cavalleggeri, basta un modesto allarme per scompigliare le truppe, le quali si ritirano nella più gran confusione.57

Giorno per giorno, tra episodi mirabili cari alla memoria degli italiani tutti, ma necessariamente vani, la sorte di Roma precipita, mentre Oudinot, con metodica calma, incalza nell'approccio alle mura. Nel tempo stesso Ancona cade, presa dagli austriaci.

30 di giugno, giornata storica: gran rapporto, tenuto da Mazzini, dei generali e capi di corpo. Mazzini prospetta le tre alternative possibili: capitolare, resistere sulle barricate sino all'ultimo sangue, uscir da Roma esercito, governo, assemblea e a marcie forzate piombare in Romagna alle spalle degli austriaci.

Quanto a sé propende per l'ultima. Discussione: i più inclinano alla resistenza ad oltranza, qualcuno suggerisce di andarsi a serrare in Velletri o in Albano, altri (Pisacane) d'invadere il regno di Napoli per tentar di sommuoverlo; la capitolazione è respinta. Ma l'Assemblea cui compete la deliberazione finale non ha più il coraggio delle grandi coraggiose risoluzioni; la maggioranza presente che la fase rivoluzionaria è provvisoriamente tramontata in Europa.

È dunque la resa.

Il comando militare si mette in relazione col campo francese, il triumvirato si dimette.58 Cosa accadrà dell'esercito? Confusione tremenda: Garibaldi e Roselli associati nel comando supremo. Il primo, smanioso d'agire, pianta in tronco il collega e con 3000 uomini scelti si getta alla straordinaria avventura Sanmarinese. Gli ufficiali superstiti, adunatisi il 2 di luglio, di notte, ascoltan Pisacane che li incita a chiudersi col grosso dell'esercito nella città Leonina per sostenervi un secondo assedio, ascoltan Sterbini di parer contrario. Roselli ondeggia. Si decide finalmente di uscire da Roma, ma la decisione non viene eseguita.

Dum Romae consulitur, i francesi procedono (la mattina del 3) all'occupazione dell'Urbe. Con imperturbabile solennità l'Assemblea, riunita per l'ultima volta, vota intanto la definitiva costituzione dello Stato. E allora, abbattuto il governo, intimata dai francesi l'uscita da Roma ai militari
«stranieri», all'esercito del Roselli non resta che l'auto dissolvimento, preceduto da una solenne protesta, firmata da tutti gli ufficiali, «contro la violenza che ha abbattuto il governo della Repubblica Romana sorto dal libero voto del popolo, durato nel perfetto ordine civile, e fatto sacro dal sangue versato per difenderlo».

Il giorno 4 s'inizia l'esodo dei non romani da Roma, per terra, per mare, diretti i più fuori d'Italia molti anche in Piemonte, l'unica terra che abbia serbato e s'affidi alla libertà costituzionale: triste viaggio quello che da Roma caduta, per Civitavecchia base francese, e Livorno gremita d'austriaci, conduce a Genova pur mo' domata nei suoi fremiti repubblicani e autonomistici; e come triste l'esilio in posti ospitali e liberi, sì, ma che senza accennare a protesta hanno assistito alla grande ingiustizia di Roma!

Si andavano spengendo così gli ultimi bagliori di quel fuoco meraviglioso che, troppo improvviso e troppo splendido, era guizzato sui primi del '48, e che ora la dura lezione dei fatti e la dimostrata immaturità delle pur meno ardite speranze parevano aver soffocato per sempre.

Anche Pisacane se ne va, non senza prima aver sostenuto in Castel S. Angelo alcuni giorni di detenzione. Forse, contando sull'ascendente che il suo nome e il suo grado esercitavano sui suoi commilitoni, aveva deliberatamente violato l'ordinanza oudinottiana per lo sgombro da Roma entro il 4 di luglio, nella speranza di effettuare, d'accordo con Mazzini che si teneva ancora in città, qualche disegno non grato ai francesi. Oppure incappò prosaicamente in qualche disposizione di polizia come quella, del 12 luglio, che vietava in Roma ai non francesi l'uso dell'uniforme militare?59 Potrebbe anche darsi che non avesse ancora risolto dove recarsi: certo è che in un primo tempo sollecitò il rilascio di un passaporto per l'Inghilterra e da Mazzini biglietti di presentazione per i suoi amici inglesi (uno dei quali, assai lusinghiero per lui, ci è stato conservato)60; ma poi, liberato dal carcere mercè le premure di Enrichetta, si risolse a tornare verso la già nota e già cara, ed ora nuovamente gremita d'esuli italiani, terra di Svizzera.

Il 30 di luglio in compagnia dell'ex triumviro Saliceti e del Galletti, la coppia Pisacane — mi pare di poterli ormai chiamare così — sbarcava a Marsiglia.

Capitolo quinto

Dopoguerra difficile

Nuovo riflusso dell'ondata migratoria italiana, nella seconda metà del '49: si diffonde fra gli esuli uno stato d'animo di febbrile impazienza, un intenso bisogno d'operosità, e quell'inquietudine propria di chi avendo assistito all'inaspettata realizzazione dei propri ideali politici e poi al loro brutale soffocamento, attribuito a cause esteriori, logicamente attende l'inevitabile riaprirsi della crisi. È una minoranza sceltissima che lascia l'Italia e che al trionfo, pur variamente prospettato, della causa nazionale, pospone e sacrifica ogni considerazione di vantaggio individuale o familiare. Uomini ostinati e decisi: ben pochi, è vero se paragonati alla gran massa degli acquiescenti, pochi, comunque, che non «molleranno» mai. Il che permise, si sa, ai sostenitori impenitenti dello statu quo italiano di inferire che senza qualche migliaio di intriganti riottosi il nostro paese sarebbe stata la più pacifica terra del mondo; ma valse d'altronde a consacrare agli occhi dei conterranei e d'Europa una causa che doveva pur trovare la sua giustificazione nelle ragioni profonde della vita italiana, rivestire certo carattere di assoluta irresistibilità, se una volta penetrata di sé la volontà di questa minoranza d'uomini, tra i più colti e riflessivi e preparati e moderni d'ogni provincia italiana, poteva assorbirne ogni facoltà a tal punto da non conceder loro più mai d'avere altra cura, altro pensiero, altra speranza che in essa e per essa.

I più, come l'anno innanzi, riparano in Isvizzera; molti forse obbedendo all'ingenuo eppur tanto comprensibile desiderio di non lasciarla troppo, l'Italia, che troppo spazio di cielo, troppa difformità d'idioma e di costumi non si frappongano fra loro e l'Italia. Eppure, non è più l'estate del '48, quando, per tanti segni evidenti, si rivelava imminente agli esuli la possibilità del ritorno. Ora, da un capo all'altro della penisola, l'orizzonte è abbuiato; due anni di lotte, dopo aver tutto sconvolto, non hanno giovato in ultima analisi a mutare d'un palmo la carta d'Italia. Ora, è l'esilio per davvero. Ma l'illusione regna benefica fra gli emigrati.

Poveri quasi tutti, affittano stanzucce mobiliate a Losanna, a Ginevra, a Lugano, a Capolago, a Locarno;61 molti s'aggruppano, per paesi d'origine e più per concordanza d'idee, in una stessa casa o alla stessa mensa, assieme discutendo il recente passato, leggendo gli stessi libri e giornali e riviste, arrabattandosi a scovar lezioni o impiegucci provvisori o traducendo o scrivendo. I giorni di festa si ritrovano in brigata in qualche casa ospitale, o alla Castagnola dai Cattaneo, o a casa Airoldi da Grillenzoni, o presso il poeta Dall'Ongaro.

Piú tardi, quando il colpo di stato napoleonico avrà disperso fuori di Francia gli oppositori democratici, molti di costoro affluiranno in Isvizzera: nomi ben noti ai liberali d'Europa, nomi di scrittori celebri, di giornalisti, di combattenti, saliti ai bagliori della ribalta nel '48; e allora frequenti ritrovi presso costoro, come già presso i profughi delle insurrezioni tedesche, e amicizie salde e speranze comuni che nascono fra i proscritti, ai quali s'aggiungono esuli polacchi e russi e ungheresi: imagine vivente, tutti assieme, di quell'internazionalismo che i più tra questi patriotti sognano come fine ultimo e logico sbocco della lotta per la libertà delle nazioni. I fuorusciti di Roma, di Venezia, di Napoli, che pur già dalla rovina dei sogni quarantotteschi hanno cominciato ad apprendere la necessità di un'impostazione italiana e non più regionale del problema politico, constatano adesso non esser questo che un particolare aspetto d'un vasto problema europeo. Il trionfo o la perdita della democrazia in Francia o in Russia o in Ispagna è trionfo, è lutto per la democrazia europea. La libertà è una, la battaglia vòlta alla sua conquista ha più fronti, ma un esercito solo.

A Losanna, sulle sponde del lago, si riuniscono a vita comune in una modesta villa (Montallegro) Mazzini, l'ex triumviro Saffi, Mattia Montecchi, più tardi il veneziano Varè62; brevi soggiorni vi fanno Filippo De Boni e Maurizio Quadrio, per qualche giorno v'abita lo stesso Pisacane, fissatosi da prima a Ginevra63. «Da sessanta a settanta franchi al mese per testa — racconta il Saffi — bastavano al nostro mantenimento... Spendevamo la giornata a scrivere articoli..., a tener viva una vasta corrispondenza epistolare, a promovere, per quanto dipendeva da noi, l'ordinamento della parte nazionale all'interno e fra gli esuli. Le prime ore della sera erano date al conversare, a ricevere amici, al giuoco degli scacchi, di cui Mazzini molto si dilettava...» E Mazzini, di Pisacane: «Ci ricongiungemmo a Losanna dove io lo vedeva ogni giorno, sereno, sorridente nella povertà, com'io l'aveva veduto in mezzo ai pericoli».

Due grandi iniziative editoriali, accanto ad altre più modeste (tale il foglio luganese il Repubblicano) dànno lavoro e retribuzione, pur esigua, ai più colti fra gli esuli: l'una, varata dal Cattaneo, ahimè ben presto troncata da meschine difficoltà materiali, è l'Archivio triennale delle cose d'Italia dall'avvenimento di Pio IX all'abbandono di Venezia,64 una raccolta cioè di testimonianze immediate intorno a episodi del '48-'49; la seconda, mazziniana, è una rivista di studi politicimilitari, che continua nel nome — Italia del Popolo — il foglio repubblicano stampatosi per qualche mese a Milano nel '48. Gli scrittori son tutta gente che ha molto veduto e fatto e sofferto, in Italia, negli ultimi mesi.

Libri, riviste, opuscoli si spacciano sul luogo, ma soprattutto si mira, attraverso a mille costosi e rischiosi accorgimenti, a spargerli in Italia, e dovunque in Europa sono emigrati italiani, a dispetto delle polizie, come sempre incapaci a impedire la diffusione del libero pensiero.

Segno di declinante fiducia nell'azione questo scriver di storia, questo riandar criticamente il recente passato? Non sembra; ché dagli sforzi riuniti di quegli esuli, buoni a menar la spada a suo tempo (e lo avevano, uno per uno, brillantemente mostrato) e ora la penna, uscí un insieme di scritti che giovò immensamente a dare agli italiani la fondata coscienza del loro diritto alla libertà e all'autogoverno: prologo indispensabile a un'azione risolutrice.

Pisacane che a Roma è stato, più che del Roselli, il Capo di Stato Maggiore di Mazzini, diventa ora l'autorizzato critico e storico militare dell'Italia del Popolo. Esordisce anzi fin dall'agosto con due scritti che vengon stampati come opuscoli, in attesa che la rivista inizi le sue pubblicazioni: un Rapido cenno sugli ultimi avvenimenti di Roma dalla salita della breccia al dí 15 luglio 1849 e una curiosa Lettre du Chef de l'état major de l'armée de la république romaine au géneral en chef de l'armée française en Italie. Il Cenno, composizione di mera cronaca, non offre oggi alcun speciale interesse; la Lettre invece è documento tipico della mentalità pisacaniana.

L'Oudinot, sbarcando sul suolo romano, aveva preteso, s'è visto, che Roma aprisse fidente le porte alle sue truppe, accorse — così diceva — a far atto di «fraternità». Giustamente respinto, s'era mostrato qual era: nemico implacabile e, quel che è peggio, fedifrago; ora, domata Roma, osava seguitare in piena mala fede a deplorare la «inaspettata» necessità nella quale si era trovato di penetrare nell'Urbe con la forza dell'armi. Bisognava inchiodare alla gogna della sua dimostrata doppiezza questo messere, violatore d'ogni norma di buona guerra. Ed ecco la bellissima lettera, fremente di sdegno, grido di protesta di un militare sollecito dell'onor militare contro chi lo trascinava nel fango. Perché evitava costui di precisare i termini della missione Lesseps? Perché non confessava al mondo che il potente governo francese s'era servito d'un inganno volgare per penetrare in Roma? Due mesi per impadronirsi di una città aperta! E il vergognoso rovescio del 30 di aprile, bella gloria davvero per l'«eroe» di Roma!

Ultima parte, la meno buona: avesse il comando romano seguito i consigli suoi, di Pisacane, allora sì che l'Oudinot avrebbe a proprie spese imparato quanto mai ingrata e pericolosa si fosse l'impresa di assalire un popolo intero deliberato a difendere la sua libertà. Dove lo scrittore dimenticava due cose: la prima che i nemici si vincono in campo e a nulla giovano, deposte le armi, le postume rivelazioni, i cavilli e le bravate; la seconda che era ancora un po' presto per arrischiare il computo dei meriti e delle responsabilità della difesa di Roma e che, comunque, non proprio a lui, ex capo di S. M., toccava aprire il torneo delle recriminazioni dando addosso a superiori e a colleghi, e attribuendo col senno del poi ai suoi inascoltati pareri tutte quelle probabilità di successo che sembran sempre arridere alle iniziative inattuate. Petulanza e superbia che gli procurarono inimicizie accanite e, peggio ancora, freddezza di amici provati. Giusto è però concedergli le circostanze attenuanti: ché a principiar da quella estate si verificò un vero diluvio di pubblicazioni, nelle quali ogni capoccia vero o preteso d'insurrezioni, ogni caporalaccio di truppe, ognuno insomma che nel biennio non avesse assolutamente tenuto le mani incrociate sul petto, magnificava quel che aveva fatto e veduto e detto e profetato, ciascuno sentenziando che se si fosse dato retta a lui l'Italia una sarebbe stata a quell'ora un fatto compiuto e assestato.

Meridionale, colonnello a trent'anni, come poteva Pisacane, imperversando l'epidemia, salvarsi dal contagio?

Il suo contegno, d'altronde, era anche determinato da necessità di legittima difesa. Se egli non perdonava agli avventurieri della guerra (tipo Garibaldi) e ai pedanti militari di vecchio stile (tipo Roselli), questi due, e altri molti, non la perdonavano a lui, che nel disimpegno dei suoi uffici romani aveva con la sua rigidezza, s'è visto, irritato e superiori e inferiori. Ripicchi che si rinnovano sempre all'indomani di un grande insuccesso: schiuma residua della mareggiata.

Un passo di una lunga lettera diretta nell'autunno del '50 da Enrichetta a Pisacane illumina vivamente questo stato di cose: «L'altra sera passeggiando» — così ella scriveva — «ebbi una lunga discussione col Boldoni» (l'antico compagno della Nunziatella, poi tra i difensori di Venezia), «il quale diceva che tutti quei che erano stati a Roma non avevano data alcuna prova di abilità; che il solo Garibaldi era comparso e si era fatto amare e che aveva un partito fortissimo in Italia... e tante bestialità simili. È proprio un asino! Io a tutti quei che vengono qua e che hanno qualche merito, cerco indagare ciò che si dice di te, ed ho trovato in tutti che dicono avere tu i difetti ch'io ti trovai allora, cioè fosti debole nel non rinunziare ad incarichi che ti venivano affidati, e che non potevi disimpegnare come avresti voluto, cioè, l'essere sostituito con Avezzana, capo di Stato Maggiore con Roselli. La generalità dei capi dei corpi di Roma che sono tutti qui, attribuiscono a tua incapacità di poter fare il capo dello Stato Maggiore e che non sapevi consigliare Roselli. Dicono che avevi esitazione nel dare gli ordini, e che spesso li cambiavi. Insomma io speravo almeno che tu fossi restato oscuro, ma invece ti dànno molti torti che non hai. Spero non ti dispiaccia ciò ch'io ti dico». Speranza assurda: non era umano che a Pisacane dispiacesse moltissimo, che ne rimanesse offeso e ferito e che abbondasse nella controffensiva?

Ma alla sua guarigione da certe ubbie, da certe smanie di grandezza giovò non poco, di certo, la vicinanza di Mazzini, il quale — di ben più alto e generale riconoscimento meritevole che non spettasse a lui — pur vilipeso nelle polemiche partigiane, calunniato, in cento modi avvilito, di ciò noncurante, si mostrava assai più sollecito del nuovo che di battagliar sul passato. A poco a poco, con molta solitudine e molta riflessione, e soprattutto con l'acquistar l'abitudine di quelle sode letture che agli uomini d'ingegno insegnano infallibilmente a paragonare il poco che sanno col troppo che ignorano e quindi a rispettare opinioni e attitudini discordi dalle proprie, le asprezze e intolleranze del carattere di Pisacane s'andarono attenuando, e con esse quella esagerata e quasi morbosa preoccupazione dell'io di cui egli allora così intensamente soffriva.

Otto furono gli articoli che Pisacane dal settembre 49 al luglio '50 pubblicò sull'Italia del Popolo: articoli di varia dimensione e importanza, ma che a rileggerli rivelano tutti, nella concisa sobrietà della forma, nella risoluta enunciazione del pensiero sempre scheletricamente chiaro, nella precisione degli appunti critici, una mente matura ed equilibrata, particolarmente inclinata, s'intende, alla trattazione delle più diverse questioni in qualche modo connesse con la scienza e la storia della guerra. Il primo fu La Guerra Italiana, indagante le probabili vie della soluzione del problema italiano. Questa, per Pisacane, dipende indubbiamente dall'esito di un formidabile conflitto, ch'egli presente vicino a scatenarsi nella penisola tra forze liberali e forze dispotiche, tra quelle italiane cioè e quelle straniere o legate a interessi stranieri; bisogna dimetter l'idea che il Piemonte possa costituire, con la sua azione supposta a beneficio di tutti, un diversivo da questo binario obbligato. Chi sappia infatti non lasciarsi abbagliare dall'equivoco costituzionale constaterà che in Piemonte le cose non si presentano diversamente che nel resto d'Italia: anche lí una stragrande maggioranza assetata di libertà è oppressa da una minoranza dispotica. Il problema, seppur con carattere d'urgenza maggiore o minore, si presenta identico nella penisola tutta. Orbene, posta l'innegabile preponderanza numerica delle forze inclini a libertà sulle oligarchie di governo, l'esito del conflitto offre una sola incognita: la maturità rivoluzionaria delle prime, e cioè il grado di risolutezza con la quale nel momento decisivo esse sapranno gettarsi all'azione. Con l'esperienza che gli viene dal conoscere appieno sentimenti e aspirazioni dei popoli napoletano, lombardo, piemontese e romano, Pisacane ritiene per certo che la «rivoluzione morale» sia già compiuta in Italia: al cui avvenire è lecito dunque guardare con assoluto ottimismo.

Ma nel conflitto quali saranno le forze operanti italiane? Semplicissimo: i due eserciti piemontese e napoletano, i quali finora obbediscono ai rispettivi sovrani ma che nel dí della lotta, ricordando d'esser fatti di popolo, volgeranno certamente le armi contro il comune nemico; dietro ad essi si affolleranno le moltitudini, insorte progressivamente a principiar dal mezzogiorno d'Italia (dove più diffuso e sentito è il malcontento)65 su su fino al nord. Le forze avversarie, inoltrandosi nella penisola, saran costrette dall'Appennino a sdoppiarsi; e sarà proprio là, allo sbarramento appenninico, che la battaglia dovrà essere imposta; le insurrezioni a catena, dilatandosi nel bacino del Po, serreranno il nemico in una morsa di ferro.

Ottimismo esagerato, d'accordo. Ma l'articolo era importante non tanto per le sue conclusioni discutibilissime quanto per le premesse: non accadeva infatti tutti i giorni che un «rivoluzionario» impostasse il problema italiano in termini di tanta chiarezza staccandosi dalla consueta falsariga della vecchia propaganda insurrezionistica, che faceva sempre discorsi generici e troppo fidava, ammettendo l'insurrezione scoppiata, nelle capacità improvvisatrici del popolo in rivoluzione o nella divina provvidenza. Era, quello di Pisacane, un bilancio di forze che nel suo semplicismo noi oggi tacciamo d'erroneo; il suo merito, per altro, stava in ciò che esso dimostrava la necessità che bilanci preventivi si tentassero e che ogni voce ne venisse rigorosamente controllata. Gran passo innanzi, poi, che un militare, dal suo punto di vista sottolineasse la possibilità e la eseguibilità dell'idea mazziniana d'una rivoluzione integrale e sopraregionale.

Dall'articolo, che confidava la liberazione d'Italia non più alla miracolistica azione d'un dei suoi Principi, ma alla volontà rivoluzionaria dell'intero popolo italiano, balzava dunque l'indicazione di una duplice azione: propaganda insurrezionale in tutta la penisola e particolarmente nelle Due Sicilie, da un verso; neutralizzazione della propaganda piemontese, dall'altro. Ai quali imperativi Pisacane obbedirà strettamente negli anni avvenire. L'idea dell'iniziativa dal sud, in special modo, diverrà la sua fissazione: è vero che essa s'andava allora accreditando anche indipendentemente da lui nell'ambiente mazziniano66, ma Pisacane lo sentiva, ci credeva, v'era portato per istinto profondo più di chiunque altro. Fin dal settembre di quell'anno, ad esempio, volle entrare in corrispondenza con Nicola Fabrizi, meridionale anche lui, che era come il padre spirituale di ogni manifestazione italiana nel mezzogiorno della penisola: Fabrizi concordava appieno67. Ma perché quell'idea potesse diffondersi dappertutto in Italia era necessario dapprima purgare da molti preconcetti e diffidenze antimeridionaliste gli italiani del resto d'Italia: come distruggere ad esempio l'esosa leggenda che
circolava a danno dei meridionali (napoletani e siciliani in un mazzo) essere il loro carattere molle e
arrendevole, atto a prorompere sì, ma non a resistere; o l'altra della loro pretesa incapacità congenita a uno sforzo concorde?

Era stata allora allora pubblicata una relazione sulla campagna del '49 in Sicilia nella quale l'autore, ex aiutante di campo del generale Mieroslawski, aveva tranquillamente attribuito la colpa del disastroso esito delle operazioni agl'isolani indisciplinati e indolenti e al loro rovinoso governo. Pisacane, cui pure non era sfuggito il carattere deplorabilmente più antinapoletano che italiano, più autonomistico che democratico della rivoluzione siciliana, colse la palla al balzo; e in un nuovo articolo dell'Italia del Popolo, in mezzo a censure e sarcasmi all'indirizzo dell'infausto condottiero polacco, che con la sua magra scienza avrebbe condotto alla sconfitta non pure i siciliani ma il più bellicoso popolo del mondo, tracciò un magnifico elogio morale e politico dei meridionali in genere, sottolineando la continuità e l'eroicità del loro sforzo per conquistarsi libere istituzioni. Poteva dirsi altrettanto d'altri paesi più settentrionali, signor Mieroslawski?

Ma anche l'antipiemontesismo ebbe Pisacane, da allora in poi, milite attivo e accanito. Quella formola «lasciar fare al Piemonte» in nome della quale troppa gente da troppo gran tempo andava ponendo bastoni nelle ruote a chi intendesse suscitare un rivolgimento originale italiano lo imbestialiva infatti al di là di ogni dire e gli strappava le più veementi proteste. Poste le sue premesse ideali, non era logico d'altronde che la quiete e la relativa floridezza delle quali godeva il Piemonte venissero da lui considerate come un'insidia all'avvenire d'Italia? A Giuseppe Montanelli che nel '49, esule in Isvizzera, andava tessendo le lodi del Piemonte costituzionale, un «eccellente repubblicano» ribatté «che la sopravvivenza dello Statuto piemontese era, a senso suo, di tutte le nostre disgrazie la maggiore, e bisognava desiderare che cadesse e cadesse presto, affinché l'Italia fosse adeguata allo stesso livello»68. Era Pisacane costui? Il Montanelli non dice: certo, eran quelle le idee di Pisacane. Alle quali, sì, la storia ha dato torto; ma, oltre che le opposizioni giovano sempre ai governi intelligenti (e il Piemonte lo era assaissimo), è proprio impossibile oggi riconoscere che, almeno in parte, aveva ragione Pisacane e con lui i rivoluzionari intransigenti? Lasciamo andare che l'accentramento monopolistico dell'azione italiana svolto dal Piemonte impresse una obbligatoria etichetta monarchica al processo unitario; ma non è forse vero che esso nel fatto scoraggiò, e certo non sollecitò in misura adeguata la pur tanto necessaria collaborazione del popolo italiano alla propria liberazione? Il Piemonte assicurava sì la probabilità di una rapida ricostituzione d'Italia, ma questa rapidità era utile o non piuttosto minacciava di danneggiare il fondamento morale dell'unità? Probabilmente i responsabili della politica piemontese non sospettaron neanche che la progressiva piemontesizzazione delle élites italiane potesse essere indizio, oltre che di realismo politico, di alquanta timidezza e neghittosità; che la delega al Piemonte dell'azione italiana potesse equivalere insomma, nella mente di molti patriotti non piemontesi, a una specie di gravoso premio di assicurazione che conveniva pagare pur di sottrarsi ai rischi, alle fatiche, alle incertezze e lungaggini d'una genuina rivoluzione politica.

Dove per contro riesce anche oggi difficile seguire più oltre quei rivoluzionari si è nel loro considerare decisamente più sano il dominio straniero, più sano l'assolutismo oligarchico che non la «canzonatura» di libertà rappresentata dal monarcato costituzionale; poiché, secondo loro, l'assolutismo se non altro avrebbe eccitato alla reazione e serbato le popolazioni vive e frementi e potenzialmente almeno padrone del loro destino; laddove il costituzionalismo, col gabellarle libere e sovrane, ne avrebbe cloformizzati gli istinti rivoluzionari, smorzando in esse perfino il desiderio della libertà integrale. Sí che il liberale vero avrebbe dovuto e dovrebbe assai più impensierirsi dell'impianto di un regime, diciamo, all'inglese, che non del prolungarsi (o stabilirsi) d'un sistema antiliberale. Paradosso che ormai ha fatto il suo tempo, come quello che ha condotto molti, in piena buona fede, a farsi alleati della reazione per soverchio amore di libertà.

Ma fin che Pisacane sosteneva che la scintilla della emancipazione italiana si sarebbe determinata non già nelle provincie nelle quali si stava meno peggio e si godeva una maggior libertà d'azione, ma in quelle più inermi e addormentate e oppresse, era nel vero e nel giusto (astrazion fatta, s'intende, dall'intervento nel giuoco, all'ultimo, di quelle soluzioni di compromesso delle quali egli, mirando all'autoliberazione degli italiani, naturalmente non teneva conto). E che vi fosse in questa sua opinione buona dose di campanilismo napoletano, non importa davvero. Urgeva dunque di render consapevoli le masse dei mali dei quali soffrivano e della possibilità di rimuoverli. Prematuro sforzo, e in ultima analisi nient'altro che pretesti offerti al Borbone per nuovi «giri di vite» da praticarsi sugli infelici regnicoli, protestavano molti. Tanto di guadagnato: pressione che in una caldaia aumenta oltre il normale, scoppio vicino.

Chiarito l'obbiettivo della rivoluzione italiana, restava da precisarne il come. È quel che Pisacane cercò di fare in altri due numeri dell'Italia del Popolo (settembre-ottobre) col saggio La scienza della guerra, mirante non solo a divulgare principii di strategia e norme tattiche, ma a rimuovere talune delle più gravi difficoltà contro le quali generalmente si urtavano i promotori delle insurrezioni, giovani generosi ma per lo più inesperti. S'aveva da tener presente l'esempio di Milano 1848? Era presto detto: la via da seguirsi era precisamente l'opposta di quella che allora avean scelta. Del possibile apporto di forze regolari alleate (ossia di forze monarchiche) si facesse nessun conto; massimo conto invece dei volontari, i quali andavano accolti con entusiasmo, ordinati immediatamente, utilizzati al più presto, aumentati con ogni mezzo; gli ufficiali si eleggessero dai volontari stessi, compreso il comandante supremo; l'esercito insurrezionale fosse mobilissimo, non tentasse — il nemico avanzando — difesa di piazzeforti o città; evitasse con ogni cura una sorpresa a suo danno; rifiutasse lo scontro, pur di poca importanza, ove non avesse la preventiva certezza della vittoria; quando fosse forte abbastanza per passare all'offensiva, proporzionasse via via gli obbiettivi immediati al crescere della sua superiorità numerica. Monsieur de Lapalisse? Può darsi; ma non era colpa di Pisacane se in più di un'occasione gl'italiani insorti avevan dato prova d'ignorare, in questa materia, lo stesso abbicí e troppo spesso d'apprezzar più la gloria d'una scaramuccia vittoriosa o d'una posizione difesa fino all'ultimo sangue, che non il raggiungimento dello scopo finale.

Quegli articoli fecero chiasso; e per esempio il general Mieroslawski in persona fece a Pisacane l'onore di un'irosa risposta, gremita di rinnovate accuse contro i disgraziati siciliani. Ma a che pro discuter con lui?69 Comunque la fama di Pisacane scrittore o era fatta o s'andava sicuramente facendo. Gran peccato dunque che motivi a noi ignoti, ma facilmente intuibili (d'idee si abbondava nella redazione dell'Italia del Popolo; non così di danaro!) costringessero Pisacane a lasciare Losanna e il tranquillo e operoso cenacolo mazziniano70. S'apriva un nuovo periodo di ricerche infruttuose, di spostamenti, d'inquietudine.

Fu dapprima a Lugano, dove, per quanto non vi si trattenesse che ben pochi giorni, «fece colpo» tra gli esuli italiani. Non era più il capitanuccio ignoto e appartato dell'anno innanzi; era Pisacane, ex Capo di Stato Maggiore della repubblica romana: emergeva dal gregge. Il poeta e patriota Dall'Ongaro si era affrettato a comunicare il suo arrivo al Tommaseo (in Corfú), definendo senz'altro Pisacane come «l'anima e la mente di quel poco che a Roma si poté fare di buono»71. Dall'Ongaro, è vero, era già intimo di Pisacane, che aveva incontrato a Roma appunto; e delle sue doti di militare e di scrittore di cose militari si professava da tempo ammiratore entusiasta. Ma, siamo giusti, v'era di che ammirare questo nobile in volontaria miseria, unicamente assorto, ormai, nel sogno appassionato della emancipazione italiana. Spalle quadre, salute da vendere, idee cristalline, era di quelli che col solo aderirvi aggiungono credito alla causa che servono: un animatore. Bisognava vederlo nelle discussioni! «Aveva scatti improvvisi», ci racconta il Dall'Ongaro; «aveva collere che lo trasportavano intieramente. Bisognava vederlo quando la conversazione s'animava e pigliava un tono vivace, appassionato. Già, non si discuteva che della prossima rivoluzione, delle prossime fucilate, della prossima proclamazione della repubblica. Allora gli occhi di Pisacane scintillavano, la sua barbetta bionda s'agitava convulsivamente e la parola gli usciva dalle labbra calda, animata, fremente. Guai a contraddirlo!... Il suo contradditore dinanzi a quella parola di fuoco piena di figure, accompagnata da una mimica meridionale, espressiva, fantasiosa, era subito costretto a ripiegare; a darsi per vinto. Chi pagava le spese di quella turbinosa eloquenza era quasi sempre il disgraziato tavolino intorno a cui quei colloqui tempestosi avevano luogo: il poveretto scricchiolava da tutti i lati sotto i pugni poderosi che ci batteva sopra il Pisacane»...

I soggetti di discussione, e magari di litigio, non mancavano certo, pur tra colleghi in rivoluzionarismo repubblicano! Lasciamo andare se fra tanti «giacobini» capitasse un monarchico, fra tanti liberi pensatori un cattolico militante, fra tanti progressisti un retrogrado; ma nel loro circolo stesso, pur progressisti, antipapali, repubblicani tutti, erano gravissime scissioni teoriche e pratiche. Propaganda d'azione immediata, o propaganda culturale e spirituale a più lunga scadenza? Programma d'iniziativa italiana, anche se isolata, o attesa d'un moto europeo, con iniziativa prevedibilmente francese? Propaganda puramente politica o anche di riforme sociali? Accordi con l'ambizioso Piemonte o azione indipendente? Alleanza di tutte le forze liberali o intransigenza repubblicana? Queste e molte altre questioni trovavan Mazzini e Cattaneo ai poli opposti: ma se i due capi del movimento repubblicano unitario e di quello federalista, pur seguendo ciascuno la propria via, o non s'urtavano o, urtatisi, s'affrettavano a scansarsi, i loro rispettivi seguaci, bizzosi sacerdoti ortodossi, s'accapigliavano furiosissimamente, scagliandosi a vicenda accuse da non si dire, terminando, s'intende, con lo screditarsi tutti: sciupío d'inchiostro, fioccar d'incidenti personali, sabotaggio delle iniziative reciproche. Chi voglia averne un'idea non ha che da leggere I misteri repubblicani di Perego e Lavelli, maligno libello uscito nel '51, che rimestando in quel mezzo sollevò un non più visto vespaio. Non osava perfino il federalista Giuseppe Ferrari scrivere a Mazzini, a lui direttamente, nell'ottobre del '50: «il vostro sistema se lo seguite perderà il vostro onore», «la reazione vi guadagna», «oggi il nemico vi sdegna; che domani una rivoluzione scoppi a Parigi, accetterà subito la maschera offerta. Non capite che allora tutti i traditori si chiameranno Mazzini?» Né è a dirsi se le stesse divisioni non regnassero tra gli emigrati repubblicani in Francia, ché anzi vi trovavano il terreno più adatto; tre sètte (unitari federalisti e costituentisti), e una guerra a morte tra loro.72

Come precisamente fra tante beghe la pensasse Pisacane non è ben certo. Doveva molto a Mazzini, è vero, e aveva vissuto con lui in quella intimità al cui incomparabile fascino nessuno sapeva sottrarsi, e per lui aveva lavorato e lavorava tuttavia; ma il soggiorno a Lugano, per quanto fugace, e la consuetudine più ancora che col Cattaneo con gli amici di lui non poterono non ispirargli i primi spunti di quella attitudine critica verso il «Maestro» che nei due anni successivi egli svolse impetuosamente e quasi con ira. Furon Mauro Macchi e De Boni, probabilmente, i colpevoli: assidui entrambi alla Castagnola, entrambi per forma mentis, cultura, interessi spirituali diametralmente discosti dal Mazzini il cui misticismo inguaribile e l'apparente indifferenza pel problema sociale a loro, positivisti e liberi pensatori, francamente repugnavano. Da costoro Pisacane, che andava ancora alla cerca di un credo definitivo o, diciamo, di un orientamento filosofico, attinse comunque assai largamente.

Ma il soggiorno più formativo per lui fu senza dubbio quello di Londra, iniziato sugli ultimi di novembre di quell'anno. Neanche a Lugano egli avea trovato l'araba fenice della quale da tanto tempo ormai andava vanamente in cerca, un impiego cioè; e già l'Italia del Popolo, pur mò nata, rivelava minacciosi i segni della crisi finanziaria che ben presto ne avrebbe spenta la voce; e sparivano i risparmi modesti del periodo di guerra; e incombeva su lui come su tutti gli emigrati la spada di Damocle di una possibile espulsione dalla Svizzera. Si era risolto perciò, dopo aver consegnato a Mazzini altri quattro articoli di critica e storia militare73, a ritentare il viaggio oltre la Manica, d'infausta memoria per lui. Sperava che, libero ormai nei suoi movimenti e non ignoto del tutto e peritissimo in fatto d'ingegneria, non avrebbe stentato a sistemarsi in un paese di grande industria. Ma se gli amici di Mazzini lo accolsero letteralmente a braccia aperte e in mille guise si prodigarono in suo favore, neanche lassú potè scovarsi il desiato posto; sì che a Pisacane, confuso tra le migliaia di rifugiati d'ogni nazione d'Europa, piombati lí perché attratti, come lui, ancor più che dal miraggio della libertà inglese, da quello supposto dei facili guadagni, fu giuocoforza far ancora buon viso alle solite lezioni e ripetizioni: si sarebbe detto che agl'italiani non si chiedesse altro, in ogni parte del globo, che lezioni e lezioni. Miseria nera, però!

È vero che fin dall'agosto '49 funzionava a Londra, in soccorso degli esuli indigenti, l'Italian Refugee Fund Committee, ma quanto deboli le sue risorse, e poi come avrebbe potuto onorevolmente ricorrervi il colonnello Pisacane, dei duchi di S. Giovanni? A Londra gli ex combattenti italiani morivano allegramente di fame...74

Il triste soggiorno si prolungò per Pisacane per quasi sette mesi, fino al giugno '50; e non sappiamo neanche se gli fosse d'accanto, a rallietargli l'esilio la sua Enrichetta.75 Ma non ci sono che gl'intelletti miseri che attribuiscono alla miseria la pochezza della loro vita: Pisacane non si lasciò intimidire dall'ostilità della sorte, e bravamente si lanciò alla conquista di Londra, di quella parte di Londra, per meglio dire, che aveva un interesse per lui. Non capitava proprio tutti i giorni la possibilità d'incontrare in un miglio quadrato gente della risma d'un Blanc, d'un Leroux, d'un LedruRollin,76 d'un Cabet, d'un Dupont; né d'imbattersi, tra i banchi del British Museum, col celebre autore del Manifesto dei Comunisti. Chi di costoro riuscí Pisacane a avvicinare? Ahimè, non si sa; alcuni di certo se il Macchi ci attesta che dalla viva voce dei «capi della democrazia francese» egli apprese allora i rudimenti delle nuove dottrine sociali. Le occasioni per frequentarli, d'altronde, non gli dovevan mancare, ché nei salotti dei suoi nuovi amici inglesi i socialisti erano allora alla moda ed era anche alla moda che i democratici si riunissero in «agapi fraterne» in questa o quella taverna, libando alle «immancabili» sorti.

Se dunque il soggiorno in Isvizzera aveva offerto a Pisacane la possibilità di fare un nuovo passo in avanti nel superamento d'un patriottismo troppo esclusivo e d'intuire la stretta interdipendenza che correva tra gli avvenimenti politici dei vari Stati d'Europa, i mesi di Londra riportarono la sua attenzione sulle relazioni esistenti tra problemi politici e problemi sociali. Nel luogo e nell'ambiente in cui un Marx andava studiando ed esponendo le cause economiche dello scoppio rivoluzionario del '48, e un Ledru-Rollin dipingeva nella sua opera sulla Decadenza dell'Inghilterra un quadro impressionante delle condizioni del proletariato britannico; in cui si compilavano, per seminarli poi in tutto il continente, giornali e riviste ispirati al socialismo; in cui si formavano tra gli esuli delle varie nazionalità clubs socialisti e comunisti; in questo luogo e in questo ambiente Pisacane, all'indomani del '48-'49, non poteva trascorrere sette mesi senza che il suo orientamento spirituale ne risentisse profondamente.

È molto contrariante, in verità, che non si riesca a trovare una sola traccia di questi contatti fra Pisacane e gli esuli democratici di Londra. Ma quel che preme di rilevare è che, di ritorno dall'Inghilterra, Pisacane ci appare assolutamente un altro uomo: in un tessuto già favorevolmente disposto questo secondo viaggio in Inghilterra ha inoculato per sempre ormai il germe della insolubile questione sociale; e il primo effetto di questo mutato atteggiamento fu quello di temperare i suoi ardori di rivoluzionario politico, di cacciare nel suo animo un formidabile e inquietante punto interrogativo al posto della baldanzosa affermazione, essere in Italia già compiuta la rivoluzione morale, con la quale alcuni mesi innanzi aveva concluso il suo articolo sulla Guerra italiana.

Ma perché poi, munito di un passaporto sotto mentito nome, quello di Giacomo Stansfeld, lasciasse Londra per tornare ancora una volta a Lugano, è un mistero. Forse una missione affidatagli da Mazzini?77 Oppure Cattaneo e Macchi o qualcun altro gli hanno trovato un provvisorio impiego? Silenzio dei biografi: anzi Mazzini scrive che da Londra ripartí per l'Italia e nei Cenni premessi ai suoi postumi Saggi si legge che nel giugno '50 si trasferí dall'Inghilterra a Genova. E non è vero.78

Eppure anche a Lugano non ha terren che lo regga, per quanto il noto ambiente gli torni oltremodo gradito e gli amici lo accolgano come un fratello: due, tre mesi, poi riparte e questa volta per l'odiato Piemonte. La breve sosta è tuttavia importantissima. Pisacane dev'essere tornato da Londra con la testa piena d'idee nuove e con l'impressione di poter dominare da un punto di vista originale e, almeno per i suoi compatrioti, affatto nuovo il complesso succedersi dei recenti avvenimenti italiani.

Come scrittore militare, pur rivelando una tendenza costante a trarre dai particolari conclusioni di carattere generale, egli ha finora lavorato, si può dire, di dettaglio e intorno a dettagli (anche l'ultimo suo articolo comparso nell'Italia del Popolo, nel quale ha esposto la sua motivata avversione contro gli eserciti permanenti, istituzione ch'egli ritiene storicamente superata e ormai giustificabile solo in funzione e in servizio della tirannia politica e sociale79, si lega sotto questo rapporto ai precedenti suoi scritti). Ora tutto ciò non lo soddisfa più; sente che senza una bussola il navigante anche provetto si perde nel vasto mare, e che per abbracciare un ampio panorama bisogna salire in alto, dove i particolari si fondono in linee e colori. Prima del suo viaggio a Londra egli ha arrischiato delle previsioni politiche; ora s'accorge che il loro valore è zero, in quanto egli ha implicitamente supposto che le forze determinanti il domani sarebbero state le stesse che hanno giuocato in passato. Invece — lo ha capito là fuori — quanti nuovi elementi, interessi, dottrine, punti di vista si vanno elaborando, dalla cui combinazione scaturirà senza dubbio un diverso domani! Se tentasse, in base almeno a taluni di questi nuovi elementi dei quali ha tanto inteso parlare e tanto letto in Inghilterra, una nuova sintesi, una specie di consuntivo dell'epopea quarantottesca? Gli pare che ora saprebbe assai meglio che non l'anno innanzi intenderne certe deficienze e valutarne alcune caratteristiche, oltre che avanzare più meditate e lungimiranti previsioni sui futuri andamenti. Cattaneo, che ha pur mo' pubblicato un suo saggio magistrale sulla rivoluzione milanese, lo incoraggia al lavoro e lo aiuta a chiarire le idee; i suoi consigli, i dati che egli solo può fornire, la sua fobia del generico salveranno Pisacane dal cadere nelle astrazioni inconcludenti. L'occasione anche per altri aspetti è magnifica: i più attendibili testimoni e attori d'ogni importante episodio del '48-'49 sono, si può dire, tutti a portata di mano, a Lugano o a poca distanza di lí; si può quindi verificare ogni versione, chiarire ogni punto oscuro, costruire sul solido; e poi utilizzare la collezione di narrazioni e documenti raccolti per l'Archivio triennale. Al lavoro, dunque.

Si delinea così e poi d'un getto solo, diresti, si forma il primo volume di Pisacane, La guerra combattuta in Italia nel 1848-1849, che reca appunto la data di Lugano ottobre 1850. È un libro appassionato e ispirato, animatissimo dalla prima all'ultima pagina, una cosa perfettamente riuscita. La nuda militaresca concisione della parte narrativa, la estrema vivacità dei giudizi critici, l'originalità dell'assunto, l'equilibrato padroneggiamento della materia, lo stile nervoso e asciutto dànno la misura del fervore da cui è animato l'autore, della freschezza e novità delle sue convinzioni; e insieme rivelano se non m'inganno a partito, una nuova influenza di Cattaneo: incitatore prima ed ora giudice e correttore severo. Ma del libro si dirà più innanzi, ché non venne alla luce se non l'anno appresso.

Racconta il Macchi: «Molti mesi egli allora passò meco in quasi fraterna dimestichezza con Cattaneo, con Dall'Ongaro, con De Boni80; e presto abituatomi alla cara consuetudine della sua compagnia, non dimenticherò mai il dolore, che sentii dentro di me il giorno in cui ci diede addio, per raggiungere incognito quell'egregia signora, che aveva abbandonato la primitiva famiglia, i parenti, gli agi domestici, il paese nativo per dividere le tribolate sorti del profugo politico».

Enrichetta dov'è? Tocchiamo qui forse il motivo dominante della irrequietezza dimostrata da Pisacane negli ultimi tempi. La «compagna» è materialmente e moralmente lontana, molto lontana da lui, smarrita in un'angosciosa crisi spirituale, sulla quale solo di recente il fortuito ritrovamento di una lettera ha gettato una prima luce.

Genova, un piccolo albergo, il 10 di ottobre; scrive Enrichetta a Carlo (dopo avergli narrato della sua vita solitaria, confortata di quando in quando dalle visite di qualche amico di Pisacane e suo): «Conforti è venuto in questo punto..., e mi ha esortato ad amarti sempre, perché lo meriti, e ciò è pur troppo vero, e credo che ben presto ti amerò molto, ed il giorno che avrò la risposta dalla famiglia ti esorterò a venire in tutti i modi a vedermi... Ieri Boldoni mi portò la tua del 7... La lessi, mi commossi molto, ma poi sono ricaduta nell'incertezza di prima... ti prego, non farmi più domande e né parlarmi più di questo nostro ultimo dispiacevolissimo affare. È stata una cosa incomprensibile, e credo unica; io stessa ne sono imbrogliata né so ben capirla... il certo si è che mi ha cagionato solo immenso dispiacere, e molto volentieri cancellerei dalla mia vita questi ultimi due mesi, che mi hanno fatto perdere tutta l'illusione della superiorità ch'io supponeva avere nel mio carattere. L'anello e i tuoi capelli una sola volta pensai di toglierli, ma riflettendo ch'essi altro non erano che l'emblema di dolce memoria, e come mai mi è dispiaciuto il rammentarmi del passato, così li ho tenuti non provandone alcuna impressione. Io ho creduto necessario, senza punto far leggere le tue lettere, dirne qualche idea giusta che tu avevi per questo malaugurato affare, ciò che ha indotto il tuo amico ad allontanarsi, non trovando altro rimedio per dimenticarmi, ed io ho approvato con grande soddisfazione, perché sicuro ci saressimo perduti entrambi, continuando stare sì vicini. Ti confesso che per due giorni fui dolentissima della sua partenza, ma ora la morale, la ragione, e l'affetto che nutro per te non mi fa quasi più accorgere ch'io avessi potuto pensare di amare un'altro...»

Si vorrebbe non credere: Enrichetta, che ha abbandonato marito e figli per seguir Pisacane, Enrichetta, la Nightingale della repubblica romana, la donna onorata dal Mazzini, innamorata di un altro, dimentica d'ogni sua dignità? Dovremo dunque pensarla donna leggera, instabile, colpevolmente volubile negli affetti? Persuaderci che da lei Pisacane, anziché forza e serenità per la sua dura vita, abbia attinto amarezze e delusioni?

Ma proseguiamo. «Né incolpare un solo della colpa di due, perché la cosa più meravigliosa si è stata la prima scambievolezza... Il ritratto che mi fai delle mie due esistenze è vero e crudele assai, e mi ha immerso in tale stato d'incertezza da disperarmi... Ora esaminiamo un poco. Io vorrei riunirmi a te..., ma il dispiacere di rompere coi miei parenti è immenso, la precarietà della nostra esistenza mi spaventa... Cosa decidere! Io non lo so... Se potresti come tu dici divenire cittadino svizzero, allora sì che credo il miglior partito riunirci, perché non potresti mai esserne cacciato e difficilmente ci mancherebbe il pane. Sii più che sicuro che qualunque cosa io scrivessi ai miei parenti essi si disgusterebbero con me perché ora essi sono persuasi che io sia come in famiglia, e punto dubitano ch'io potessi ricominciare a dispiacerli... Allorché ho tue lettere vorrei venire da te, allorché ne ho da casa mia, non vorrei più venire pensando che dispiacere ne avrebbe la povera Mamma. Quest'incertezza mi uccide. Rileggendo il quadro che mi fai della mia vita con te, mi deciderei di restarmi come mi trovo, perché esso troppo mi spaventa, e sono certa che il mio naturale s'irrita tanto della vita provvisoria da renderti troppo infelice. Intanto se credi prudente di spendere qualche centinaio di franchi e vorresti venire qui per meglio discutere a voce, direi non tardare più...»

Arduo compito quello di dover ricostruire la storia di un'anima da pochi frammenti superstiti: fosse anche a me lecito, sorvolando sull'episodio scabroso, ripetere con Mazzini che al «santuario della vita individuale» deve arrestarsi la curiosità del biografo! Ma in quel santuario, ahimè, ficcò lo sguardo indiscreto la polizia, che nel corso della perquisizione operata al domicilio di Pisacane, dopo la sua morte, rintracciò, tra pochissime altre, la lettera di Enrichetta, per sette anni dunque gelosamente custodita.

Quale si sia l'impressione che essa può suscitare al primo istante, guardiamoci dall'avventar giudizi definitivi su circostanze che restano tuttavia incerte ed oscure. Tentiamo di capire. Da qualche accenno contenuto nella lettera stessa risulta che a Genova, in un primo tempo, Enrichetta poteva contare sull'appoggio di un «Achille», poi trasferitosi a Nizza, che a quanto pare era un suo familiare, forse suo fratello. È possibile che il consiglio di riunirsi provvisoriamente a questo suo congiunto le fosse venuto dallo stesso Pisacane, al ritorno da Londra, e forse anche prima di allora: che ella almeno godesse di un po' di pace finché egli non trovasse, in un luogo o nell'altro, un'occupazione stabile.

Lunghi mesi di solitudine per Enrichetta, preghiere dei suoi perché tronchi una buona volta la relazione con un uomo che in tre anni d'unione non ha saputo offrirle che vita agitata e miseria; nostalgia dei bambini lontani; venerazione per la mamma che «piange sempre e domanda al cielo cosa ha mai fatto per esser così punita...»; e non una casa, niente che le riempia le grigie giornate. Questo basta per gettarla in un mare d'angoscie e di dubbiezze. Mentre ella si trova in questo tristissimo stato, lontano il suo Carlo e forse unicamente assorto nella stesura del suo libro, tra quei che la frequentano, uno — il Cosenz, coetaneo e amico d'infanzia di Pisacane — s'invaghisce di lei. Enrichetta, pur non cessando di amare il suo Carlo, sente che una irresistibile forza la trascina suo malgrado a ricambiar quell'affetto. È come se ella non avesse più volontà sua; segue con la lucidità di un'allucinata il progredir del suo male, ne fa una spietata diagnosi come se si trattasse di un'altra persona, non sa reagire; i suoi sensi tendono irresistibilmente verso quel nuovo tepore; la ragione, che si ribella, crea il conflitto interiore, tormentosissimo. Leali fino allo scrupolo, i due non nascondono all'amico lontano il loro dramma, che è il suo dramma. Gliene descrivon le fasi con fredda imparzialità, come se si trattasse di un problema difficile da risolvere: che fare? Cosenz dovrebbe sposarsi di lí a poco, ma come lo potrebbe onestamente?

Pisacane risponde: maledice, minaccia, vitupera? Macché. È straordinaria la capacità che certi sentimentali dimostrano di notomizzare il proprio sentimento affettando indifferenza pei resultati che l'esame darà: Pisacane (lo s'intende dalla lettera di lei) non scongiura neanche; probabilmente, riconosciuta la libertà che ad Enrichetta compete di cercarsi la felicità ove meglio ella creda, si limita alla parte del consulente. Nello stesso modo che, italianissimo com'è, ha fatto un bilancio severo dei recenti avvenimenti italiani, fa adesso, impassibile, il bilancio, che potrebb'essere di liquidazione, della sua esperienza d'amore: come se tutto ciò non fosse in carne viva... Non ha diritti, non ha dunque pretese; ragiona solo nell'interesse di lei. Ma le cose che dice, lui che nell'animo di Enrichetta ha imparato — ormai da dieci anni — a leggere come in un libro aperto, son cose che aiutano lei a veder chiaro, a distinguere, nella crisi, gli elementi puramente sentimentali dai molt'altri di diversa natura: solitudine, malinconia, nostalgia della casa e dei figli. Non è forse possibile che Enrichetta abbia esagerato il suo male a forza di tormentarcisi su? Che ingenuamente abbia veduto nel Cosenz, avvicinatosi quando la crisi aveva raggiunto il suo apice, il deus ex machina che ne l'avrebbe tratta fuori, quando invece nessuno fuorché il suo io profondo avrebbe potuto placare la tempesta interiore? La risposta di Pisacane, comunque, suona ad Enrichetta come la voce amica che la risveglia dall'incubo. Finalmente si muove, reagisce al fatalistico abbandono cui ha ceduto sinora, resiste alla corrente che stava portandola via, nessuno sa perché. Cosenz è un amico provato, capisce, si allontana. Enrichetta scrive meravigliandosi di aver «potuto pensare di amare un altro».

La crisi è dunque superata? No, o almeno non del tutto. Tra la famiglia che la rivuole e Pisacane che non può prometterle se non la continuazione della vita errabonda menata fin qui (chiuse le porte di Napoli, chiuse nel resto d'Italia, nessun punto fermo negli altri Stati d'Europa; e la vita sempre eccitata e irrequieta del profugo) ella esita. Sentendo fino a qual punto il suo «naturale» s'irriti per l'instabilità e il provvisorio, condizioni nelle quali sembra invece che Pisacane trovi il suo miglior rendimento, le vien fatto finanche di dubitare del suo affetto per lui: lo ama davvero? Ma allora perché la spaventa la prospettiva di tornare con lui? È un soliloquio, sono i pensieri e i dubbi e le ipotesi che ogni persona che ama si pone e si discute e scaccia e riprende cento volte al giorno: è la vita dell'anima. Ma Enrichetta è troppo sincera: trascrive queste notazioni intime, che svaporan di solito nel nulla, su fogli di carta e le trasmette al compagno. Forse è un'abitudine loro, di dirsi tutto, anche quello che molti non dicon neppure a se stessi.

Lo so: sarebbe assai più edificante se dal '47 in poi Enrichetta ci si mostrasse sempre a fianco del suo compagno, fedele, innamorata, modesta, contenta di tutto, anche del perpetuo errare; lo so, la crisi del '50 attesta una debolezza. Ma una macchia, ecco il punto, non è. Prova ne sia la deferenza affettuosa che circonderà sempre Enrichetta81, prova il perdurare della fraterna amicizia tra Pisacane e Cosenz.

Era poi senza colpa Pisacane? Chi sa. Come tutti gli uomini cui brucia in cuore una grande passione — per la politica, per la scienza o per l'arte — egli aveva forse vissuto fino allora unicamente preso da quella, travolto nel gorgo dell'attività politica; dedicando, forse, troppo poco di sé, della sua intimità spirituale, alla compagna, alla quale, quando l'aveva strappata alla famiglia, egli aveva pur promessa una vita comune, nel più profondo significato dell'espressione. Era andato in Algeria, e l'aveva lasciata a Marsiglia; poi la ferita, la tumultuosa parentesi dell'esilio in Svizzera, la breve permanenza in Piemonte, i mesi febbrili di Roma, la prigionia, Ginevra, Losanna, Lugano, poi Londra. La donna era giovane, avea bisogno d'amore, e da tre anni anelava a un poco di felicità individuale!

Per questo appunto, perché alla donna pur alta e degna non basta formalmente associarsi alla vita dell'amato, ma le è bisogno irresistibile contribuire a foggiarla e insieme crearsi una vita propria, per questo appunto i più fra gli uomini che si dicono grandi perché hanno creato qualcosa nel mondo dello spirito, vissero senza una donna, se pur seguiti e confortati lungo la via da passeggeri affetti. Per questo appunto Mazzini, se amò, e amò più volte con rara intensità, a nessuna donna mai volle consacrar la sua vita, lui che pure serbò fino alla tomba l'accorato rimpianto di una famiglia propria!

La crisi di Enrichetta è dunque insieme anche crisi di Carlo; c'è della debolezza di qua, c'è dell'egoismo di là: torti reciproci. Si era rasentato il disastro, erano corse parole, peggio che dure, fredde, si era potuto credere che tanto amore naufragasse per sempre nell'indifferenza. Ma la ripresa, previo abbandono immediato di un assurdo dialogo epistolare, non poteva tardare. Minacciato nell'unica consolante certezza della sua vita, Pisacane abbandona le pazze idee per un tratto nutrite di adottare la cittadinanza svizzera o di emigrare, per disperazione, fuori d'Europa e si precipita a Genova. È l'autunno: fine d'ottobre o primi di novembre82. Basta vedersi, parlarsi — dove, se non in un profondo sguardo possono attingersi certe grandi certezze? — e la tempesta pare una cosa lontana. Davvero si era potuta immaginare la vita lontani l'uno dall'altro?

«Pisacane è tornato?» chiede Mazzini a Dall'Ongaro. No, non è tornato e non torna. Resta vicino alla sua compagna, che ha tanto bisogno di lui. Vuol riparare ai suoi torti. Si fisseranno a Genova, dove egli tenterà di tutto pur di darle una casa e quel po' di stabilità che è a lei indispensabile: «Il mio naturale s'irrita tanto della vita provvisoria da renderti troppo infelice», aveva scritto Enrichetta (e sarebbe bastato quel renderti, laddove ci si sarebbe attesi un rendermi per far capire quanto ella ancora amasse il suo Carlo!) Pisacane non lo scorderà più. Dal '50 al '57, infatti, non si muoverà di là, da quei luoghi che avevan veduto sfiorire e rinascere il suo unico amore: né per questo rinunzierà affatto ai suoi ideali politici e sociali, ché anzi li andrà sempre più affinando e approfondendo; né ai suoi amici, ché anzi li coltiverà assiduamente; né, insomma, alla sua vita di azione; ma tutto avrà ormai un suo centro, una sua base, un suo limite, un punto di partenza e d'arrivo, tutto confluirà, tutto troverà ricetto e comprensione nella casa comune.

Dalla rinnovata armonia ideale sgorgherà forza nuova per entrambi, forza che varrà a lui per osare, a lei per comprendere, se non per incitare.

Capitolo sesto

Primo libro

Genova formicolava allora di emigrati politici di tutte le regioni italiane. Qualche anno più tardi una statistica ufficiale ne censiva, tra stabiliti in città e dispersi in provincia, ben 1500!83 A Torino non minore affollamento, con questa differenza: che mentre a Genova, sempre repubblicaneggiante e non per nulla la patria del Mazzini, convergevano per lo più gli uomini di sinistra; nella capitale, attirati dalle maggiori probabilità di cacciarsi in qualche pubblico impiego, affluivano piuttosto gli elementi temperati e costituzionaleggianti. Gran daffare e grattacapi d'ogni genere, pel governo, questi emigrati: su cento che ne giungono ottanta non recan con sé di che campare otto giorni. Conviene per altro aiutarli, mostrar loro che solo il Piemonte, il quale in certo modo rappresenta l'Italia di domani, prende interesse a loro; a trattarli bene, c'è da convertirli tutti pian piano al regime costituzionale e farne amici provati, checché stia per succedere, del regno sabaudo. Bisogna per altro andar cauti per non urtare la gelosa suscettibilità degli altri governi italiani. Eterna questione dell'asilo ai fuorusciti: il Piemonte la risolve con molta abilità, con molto tatto. Stanzia un sussidio annuo in pro degli emigrati affidandolo, per la distribuzione, a un Comitato apposito, col patto che li sorvegli e tenga in freno; spalanca le porte dell'Università a taluni meridionali illustri nelle scienze84; rispetta il più che può le mille iniziative di quest'accolta un po' turbolenta d'ingegni senza patria, lascia che impiantino giornali e riviste, procura che il censore li tormenti quanto meno è possibile; si oppone d'altra parte alle manifestazioni collettive in genere, vorrebbe che smorzassero tutti un poco la voce.

Se gli emigrati gli costano molto, se a volte gli suscitano grossi guai all'interno e pericolosi incidenti diplomatici, un grandissimo bene ne viene in ultima analisi al regno ospitale. Si può dire che il tono della vita culturale piemontese venga rinnovato, sveltito, sprovincializzato dal contatto con questa «intelligenza» italiana. Il brio, la prontezza, la versatilità degl'ingegni meridionali ad esempio (e solo di napoletani e siciliani ve n'erano presso che un migliaio) esercita senza dubbio la più benefica influenza sul massiccio, grave, qualche volta un po' tardo temperamento dei pedemontani. La stampa di Torino, di Genova diventa in pochi anni, non senza merito loro, strumento agilissimo, vivace, battagliero di lotta politica; l'insegnamento superiore acquista in modernità e spregiudicatezza; la letteratura politica in profondità varietà e abbondanza. Talune nuove correnti ideali vengono addirittura importate e propagate per opera quasi esclusiva di emigrati, molti dei quali, viaggiando sovente e tenendo con l'estero assidua corrispondenza, contribuiscono a far del Piemonte, assai più che non fosse, una provincia d'Europa.

Grandi vantaggi politici, poi: nessuno ignora oggi fino a qual punto gli statisti piemontesi — Cavour in ispecie85 — si valessero della loro intrinsechezza con alcuni emigrati non soltanto per averne, in merito alle cose italiane, informazioni precise, spunti e suggerimenti, magari anche leali critiche; non soltanto per allacciare quei discreti rapporti con circoli fiorentini, romani, napoletani, che più tardi si sarebbero rivelati d'inestimabile importanza; ma anche per usarli come ballons d'essai, lasciando stampare a loro, sul conto degli altri Stati italiani, certe cose che al Piemonte comodava fossero dette senza troppo rischio per sé. E finalmente non era merito in parte dei rifugiati politici se il Piemonte tra il '50 e il '59 diventò agli occhi d'Europa un modello di quel che avrebbe potuto essere e sarebbe stato bene che fosse l'Italia, una volta distrutte le anacronistiche sue divisioni?

Ma il gruppo repubblicano di Genova dava più preoccupazioni che altro. È vero che senza quello e il suo continuo agitarsi sarebbe riuscito difficile persuadere l'incredula diplomazia che in tutt'Italia ribolliva un pericoloso scontento, in tutt'Italia, salvo, s'intende, in Piemonte; ma non osavano quegli scalmanati o molti tra loro sostenere l'identità sostanziale tra i vari governi italiani, ponendo nel mazzo, tra quelli che si sarebbero dovuti un dí rovesciare, anche il governo sardo, e non si credevan lecito di mescolarsi nella politica interna del regno, in combutta con gli oppositori d'estrema?

In questo ambiente, autunno del '50, capita Pisacane. Ex ufficiale nell'esercito sardo, dimissionario alla vigilia della guerra per passare alla difesa di Roma, intrinseco di Mazzini, braccio destro di Avezzana, repubblicano dichiarato, egli non è precisamente, in Genova, un ospite desiderato. E infatti l'autorità locale, alla di lui richiesta appoggiata da un ragguardevole cittadino per ottenere un permesso di soggiorno, risponde un «no» tondo, motivandolo col fatto che «la diplomazia dà avvisi di prossimi movimenti insurrezionali». «Che bestia!», commenta Pisacane, che di quel no s'infischia perché sa che con un po' d'accortezza e molta ostinazione potrà benissimo restarsene dov'è, più o meno celatamente. Gli è che Pisacane non è venuto in Liguria unicamente per godersi le bellezze della riviera e le grazie della sua donna: anche di questo sono informate le autorità, bestie perciò fino ad un certo punto. Piani insurrezionali (che comprendono la stessa Genova) non cessano d'imbastirsi tra le file dei mazziniani, facenti capo allora a un'Associazione Nazionale che Mazzini, su mandato di alcuni rappresentanti del popolo, ha fondato a Roma dopo caduta la repubblica, e poi diffuso in tutt'Italia86. Sospette perciò le amicizie, sospetti i rapporti che Pisacane riallaccia con ufficiali dell'esercito sardo, poco chiara fin dal principio la sua attività. Che mai vuol dire Mazzini quando, nello stesso novembre '50, scrive a Dall'Ongaro: «le basi di Pisacane sono giuste. Ma v'è già un'embrione d'organizzazione militare per legioni in alcuni punti, che può benissimo concordare»; o ad altri: «un po' di pazienza ancora per l'organizzazione militare. Stiamo intendendoci coi nostri militari di Genova, amici di Pisacane, per un insieme di disposizioni»? Nessuno lo sa meglio del governo sardo: Mazzini e Pisacane s'adoperano per costituire quel Comitato militare (ben presto entrato in funzione, con Pisacane stesso e Giacomo Medici alla testa) che nel movimento repubblicano dovrà agire come uno Stato Maggiore generale, incaricato di studiare dal punto di vista militare eventuali piani insurrezionali, di apprestare i necessari armamenti, di afferrare in caso di tempesta scatenata la barra del timone87.

Il progetto di una spedizione armata nel Sud, a sostegno di nuclei sediziosi supposti in procinto di levarsi nell'una o nell'altra provincia, ma più probabilmente in Sicilia, incomincia già a delinearsi88. Ben presto un nutrito carteggio tra i mazziniani di Londra, di Svizzera, di Genova, di Malta, di Napoli e Sicilia avrà per oggetto sempre più definito questa impresa, a capitanare la quale i più designeranno Garibaldi, allora imbarcato su bastimenti mercantili nei mari d'America.

Troppo logico che di queste trasparentissime trame e della parte che ad esse prendeva Pisacane il governo di Torino si mostrasse per lo meno uggito. Tanto più che coincidevano con la clamorosa campagna propagandistica iniziata dai repubblicani pel lancio del prestito mazziniano dei dieci milioni. Questa campagna non fruttava, è vero, i grandiosi proventi da costoro sperati, ma era sintomatico il numero delle piccole sottoscrizioni, attestanti la diffusa popolarità nel Piemonte
monarchico del programma e dei metodi di Giuseppe Mazzini. Facile e sotto certi rapporti opportuno sarebbe stato proibir la vendita delle cartelle, ma bisognava pur differenziarsi dall'Austria che nel Lombardo Veneto s'andava coprendo d'infamia agli occhi degl'italiani comminando ed applicando pene severissime contro quanti le detenessero. A malincuore perciò il governo sardo si adattò a tollerare la manifestazione repubblicana, di che la stampa conservatrice non cessò dal maravigliarsi e muover proteste. Pisacane esultava: «Il prestito cammina a gonfie vele, i biglietti si negoziano pubblicamente...; tutti ne abbiamo presi; e gli emigrati più poveri si associano e prendono un biglietto ogni quattro o cinque persone».89

Per quanto seccato dai parenti di Enrichetta (con i quali pendevano probabilmente meschine vicende d'interessi), e urtato dalle incertezze cui lo condannava «il governo di questa Cina», Pisacane a Genova si trovava benissimo: finanziariamente non c'era nulla di nuovo, ma il gran daffare politico e la vicinanza di quasi tutti i suoi amici lo mettevano in vena. Erano là, degli antichi compagni della Nunziatella, oltre a Cosenz, i due Mezzacapo, Carrano e Boldoni; tra i meridionali di sua conoscenza Conforti, Jovene, Carbonelli, De Lieto, gli Orlando, Pilo; e la gente incontrata a Milano, a Roma, fuori d'Italia; venne Macchi, conobbe Acerbi e Napoleone Ferrari, rivide Bertani, Bixio, Medici, Cadolini, Quadrio, Cenni, Sacchi, Gorini.90

Nello stesso novembre '50 erano giunte a Genova, per trattenervisi tutto l'inverno, le due sorelle Emilia Hawkes e Matilde Biggs, nate Ashurst, che Pisacane aveva frequentate durante il soggiorno di Londra: intelligenti entrambe, intime di Mazzini; Matilde aveva con sé le due sue bambine. Enrichetta ne divenne amicissima, e si mantenne in attiva corrispondenza con loro anche quando tornarono a Londra. («Elizabetta et Carolina mandano i loro amori anche alla signora Enrichetta», scriveva ad esempio nel '52, nel suo goffo italiano, alludendo alle figlie, Matilde Biggs).

Luogo di convegno per loro e per molti altri repubblicani genovesi o emigrati era la casa della madre di Mazzini, che nel vedersi d'intorno tutti quegli amici del figlio, nell'ascoltare le loro confidenze e aver parte nelle loro discussioni, nel consegnare o ricever da loro le novità e le istruzioni politiche da e per Londra (dov'egli intanto era tornato), si confortava nella solitaria vecchiezza, quasi illudendosi d'averlo un poco con sé, questo figliuolo che pur non tornando da vent'anni nella sua casa sognava sempre di finire la vita, a Italia rinata, solo con lei e alcuni libri, in qualche romito luogo di campagna! Non di rado, fin quando, invocando il figliuolo, la povera donna morí (nell'agosto '52), Pisacane e la sua compagna varcaron quella soglia91. «Ricordatemi a lei e ditele ch'io non la scordo e non la scorderò», così Mazzini alla madre il 7 agosto '51, riferendosi a Enrichetta; e la madre, dieci giorni più tardi, a Emilia Hawkes: «Ho dato la vostra letterina alla signora Enrichetta che è buona sempre con me e mi visita». L'amicizia devota durò, s'è detto, fino alla morte di Maria Mazzini; seppur fu meno intensa negli ultimi mesi in conseguenza forse dei dissapori che principiavano a manifestarsi tra Pisacane e Mazzini. Il tono è un po' mutato, certo, quando il 24 febbraio '52 Maria Mazzini scrive all'Emilia: «Finora non diedi alla Delorenzi la vostra pap(eletta) non vedendola che di rado ed ignorando la sua abitazione, ma l'avrà». Nel giugno, comunque, l'epistolario mazziniano nuovamente menziona frequenti visite di Enrichetta alla «Scià Maria».

Altro luogo di ritrovo, le redazioni dei giornali e giornaletti di sinistra, che a Genova non scarseggiavan davvero: a principiare dall'Italia e Popolo, quotidiano ufficiale del mazzinianismo, il quale, preso di mira (e ce n'era di che!) dal censore, mise insieme in pochi anni la più ricca collezione di sequestri che mai giornale subisse; per seguitar con la Maga, la Libertà, la Libertà e Associazione, la Bandiera del Popolo, il Lavoro, l'Italia libera, l'Amico del povero, l'Associazione.92 Poi le riunioni consuete nei centri d'emigrazione, dove attorno ai migliori o più ricchi o più dotti si affollavano gli oscuri e i meno anziani. Forse fu anche Pisacane di quella congrega di giovani che scriveva Macchi a Cattaneo il 13 maggio '52 — si radunavano «in certa casa tre volte la settimana» per far lettura della nuovamente uscita e ostica Filosofia della Rivoluzione del Ferrari, i più colti ingegnandosi «di far comprendere i più scabri insegnamenti anche ai meno esperti nelle filosofiche discipline».

Progrediva intanto, nella ritrovata serenità familiare, anche la stesura della Guerra combattuta. Il 23 gennaio del '51 Pisacane poteva spedire a Cattaneo parte del manoscritto, con preghiera di dargliene un giudizio. Il che Cattaneo fece sui primi d'aprile con assoluta franchezza; e Pisacane:

«Vi sono gratissimo della marca d'amicizia che mi date, nell'avermi precisato dei fatti sul mio manoscritto; è questa una cosa che io desideravo moltissimo e che apprezzo immensamente»93. Uguale favore gli fecero il Macchi e il Dall'Ongaro; Dall'Ongaro anzi riguardò tutto il lavoro dal lato stilistico, quello che era sempre stato il tallone d'Achille di Pisacane. Ultimo e cospicuo recensore il Mazzini, che pur lodando il «bel libro», non risparmiò censure e consigli di soppressioni e revisioni.

Si trattava adesso di trovar l'editore: ed era tutt'altro che facile per un'opera informata a principii repubblicani e antipiemontesi. A pubblicarla in Piemonte c'era il pericolo d'un sequestro, aggiunto a rinnovate persecuzioni pel suo autore; e questi preferiva evitarle. Ma le ricerche condotte a Lugano dagli amici di là restaron vane: il Daelli n'avea poca voglia. Pisacane s'era lusingato che il libro potesse contribuire a restaurare le sue scosse finanze; ma sì! Se volle concludere gli toccò rinunciare a cavarne un quattrino94; e allora si profferí per stamparlo il Moretti di Genova, tipografo dell'Italia e Popolo, contribuendo alle spese Nicola Ardoino, ex colonnello di Pisacane in Piemonte ed ora giornalista repubblicano. L'intesa fu che ad ogni buon conto, prima di metter fuori il volume, se ne sarebbero spedite alquante copie in luogo sicuro.

L'autore figurava residente a Lugano; e infatti quando il 6 di luglio l'Italia e Popolo dette l'annunzio della pubblicazione imminente e il «programma» dell'opera, questo, a firma di Pisacane, recava la data: Lugano, 1° giugno 185195. Come programma, o soffietto, era abbastanza polemico:

«Le baionette straniere non hanno distrutto una Rivoluzione, ciò sarebbe stato impossibile, ma hanno vinto gli sforzi di qualche individuo. Far risaltare tutti i punti in cui questa verità rifulge chiarissima è uno degli scopi principali della presente operetta». Mazzini, appena lo ebbe letto, si affrettò a scrivere a Genova per esprimere il timore che il libro di Pisacane non avesse a ridestar «vespai e discussioni, dove il paese non lo richiede»96.

Messo in vendita sui primi d'agosto, esso suscitò infatti straordinario scalpore. Pisacane aveva previsto le furie della censura; gli si scatenarono addosso invece quelle, impreviste e moralmente assai sgradite, degli stessi repubblicani! L'Italia e Popolo dell'agosto non ci conserva che due documenti di quella indiavolata polemica: una lettera di Nino Bixio, del 1897, per rettificare in qualche punto la narrazione dell'episodio del 30 aprile '49 a Roma; e la seguente dichiarazione di Pisacane, del 22: «Avendo per iscopo, nella narrazione dei fatti, la ricerca del vero (l'autore) sarà gratissimo a tutti coloro i quali faranno rilevare le inesattezze del libro per mezzo dei giornali; scorsi tre mesi dalla pubblicazione dell'opera verrà pubblicato un supplemento, il quale contenga tutte le giuste rettifiche, e così la narrazione acquisterà pregio, come quella discussa al tribunale della pubblica opinione». Dichiarazione che era di per sé sufficiente a fare intendere quanto avesse avuto ragione Mazzini nel prevedere il ridestarsi di incresciosi vespai. Altra lettera — privata questa — di Bixio, da Torino, 20 agosto: «Ho veduto un amico che viene da Genova, e mi dice che alcuni a Genova pensano di scrivere contro Pisacane per rivendicare non so cosa a Garibaldi. Secondo me (scriveva il futuro generale garibaldino) se Pisacane ha un torto, è quello di aver detto poco. Quali sono i fatti che vogliono mostrarci perché adoriamo un genio di convenzione? Siamo al tempo degli idoli? Fatti ci vogliono, e non ciarle. Garibaldi può avere delle buone qualità, ma quelle di un generale non certo». Condotta su questo terreno — ha detto male di Garibaldi! — la polemica s'inviperí. La dichiarazione di Pisacane non parve sufficiente. Seguirono incidenti personali, violente diatribe. Il direttore dell'Italia e Popolo, Remorino, che proprio in quei giorni lasciava l'ufficio e che pure era stato fino allora nei migliori termini con Pisacane, lo provocava addirittura a duello! Dallo scontro Pisacane usciva lievemente ferito. E forse a questo primo duello altri sarebbero seguiti senza l'energica intromissione di alcuni amici98.

Il 3 di settembre l'Italia e Popolo pubblicava una risentitissima lettera di alcuni emigrati siculo-calabresi — tra i quali Fardella, Calvino, Natoli — contro certi passi della Guerra combattuta relativi al contegno degl'insorti siciliani nel 184899. Lo stesso mese Macchi informava Cattaneo:

«L'istoria del Pisacane è abbastanza diffusa ma anche contr'essa si sta condensando l'ira dei Garibaldini numerosi e potenti nella Liguria»100.

Insomma un successone di pubblicità, ma ben pochi consensi: Pisacane aveva urtato un po' tutti. Mazzini, in una lettera del 22 settembre, riecheggiava un'opinione diffusa scrivendo: «... mi duole che, col nemico in faccia, italiani abbiano a sciabolarsi fra di loro. Pisacane è buonissimo... Ma egli pecca nella via che prende, come molti di quei che scrivono. Oggi noi dobbiamo considerarci tutti come soldati d'un esercito davanti al nemico: intenti a preparar forze ed accordo per la battaglia. Può esserci dovere di scrivere contro un individuo, se si crede che quell'individuo possa esser chiamato a diriger le cose e possa per incapacità o malafede rovinarle; ma ogni linea che vada più là, ogni linea inutile, ogni linea che dicendo anche la verità dica una verità non importante per la causa, è cagione di discordia e reazione nei ranghi, è una colpa. Pisacane ha moltissime di queste colpe. Non parlo affatto dell'aplomb col quale ei dichiara il governo di Roma aver mancato d'energia e d'idee, benché sia male lo spargere scetticismo sugli uomini capaci ancora di fare un po' di bene e che i padroni perciò appunto vorrebbero minare, ma delle linee che hanno suscitato questo subbuglio tra i Siciliani e lui. Probabilmente, sono linee avventate ed ingiuste; ma quando anche esse nol fossero, era utile scriverle? Credeva questo, ei dirà; ed è debito mio di pagar tributo alla verità. Dico, che l'Italia non ha alcuna necessità di avere storici in oggi, ma grande di avere combattenti. Non si tradisce, tacendo, il vero. E la mia questione è oggi, se importi scriver tutto».

Parole sacrosante in un certo senso, vuote di significato in un altro. Può mai dirsi infatti che un paese non abbia bisogno di «storici», quando gli storici sian uomini che credono d'aver ravvisato nei fatti presi in esame errori gravi o personali o collettivi i quali, se non considerati e perciò ripetuti, possono condurre a disastri avvenire? Quanto poi alla opportunità di tacere alcune volte il vero, la difficoltà sta per l'appunto nello stabilire queste occasioni. Non venne mosso, forse, l'identico rimprovero di parlare secondo coscienza ma contro ogni opportunità politica, al Mazzini quando, alcuni mesi più tardi, vergò parole roventi contro la democrazia socialista di Francia?

Certo che nel suo libro Pisacane non aveva avuto il menomo riguardo per chicchessia; lasciatosi andare sull'invitante piano inclinato delle «stroncature», lo avea percorso tutto senza freni di sorta, diresti quasi con voluttà; nel rilevare le deficienze di questo o di quello raramente aveva sentito il bisogno di rammentarne insieme le benemerenze; è anche vero che qua e là aveva un po' troppo posato a giudice severo e imparziale di avvenimenti cui, non senza suscitar moltissime critiche, aveva egli stesso partecipato. Andò a finire che la modestia da lui dimostrata nel non accennare mai una sola volta in tutto il libro all'opera da lui compiuta nel '48-'49 (tanto più apprezzabile quanto più in contrasto col suo congenito egocentrismo) parve — e non era davvero — una colpa di più.

È assai probabile che Pisacane ricavasse non poca amarezza dall'accoglienza che la critica e il pubblico avean riservata al suo libro; e ciò non tanto perché quasi nessuno lo avesse riconosciuto per quel che dopo tutto e nonostante tutto esso era, un bel libro cioè, solidamente costruito, vigorosamente scritto, personalissimo, d'una cristallina chiarezza, e comunque assai superiore a molti altri che sullo stesso argomento avevan visto la luce («forse la miglior scrittura di guerra allora pubblicata» lo giudicò l'Oriani); ma perché, pronti tutti a pizzicarlo su qualche inesattezza, su qualche giudizio affrettato, nessuno davvero avesse mostrato d'intendere la ragione, l'idea profonda, lo scopo del libro. Con la Guerra combattuta egli si era proposto infatti di dare la dimostrazione storica della intrinseca insufficienza della rivoluzione italiana.

Molto semplice il ragionamento da lui svolto: inutile accapigliarsi sulle responsabilità del «fiasco» del '48-'49; le colpe individuali, importanti per altro verso, non spiegano nulla a questo proposito; la rivoluzione è fatalmente fallita perché, dipendendo il suo successo dall'attiva cooperazione del popolo italiano, si è dato invece che il popolo o non mostrasse alcun interesse a promuovere questo successo, o, una volta ottenutolo, a rassodarlo. Lo spunto che ha indotto alla rivolta antidispotica — il principio nazionale cioè — era sì abbastanza diffuso e popolare in Italia innanzi il '48, e diffuso vi era il disagio per la dominazione straniera e tirannica. Ma quasi ovunque s'era creduto dagli utopisti e dagli stessi individui o gruppi che conducevan la battaglia che gli italiani si sarebbero mossi non per altro che per assicurare il trionfo delle loro idealità; non si era inteso invece che ogni ceto sociale vi avrebbe preso interesse solo in quanto gli fosse dato intravedere, come  conseguenza necessaria di quell'astratto trionfo, vantaggi tangibili e di essenziale importanza101. È vero che in alcuni casi quegli individui e gruppi, stimando di non potere da soli fronteggiare le forze organizzate dalla reazione, si erano una buona volta decisi a sollecitare l'appoggio delle masse, promettendo loro, in compenso di un'attiva collaborazione, che le novità politiche cui si mirava avrebbero portato a un automatico e radicale miglioramento delle loro condizioni sociali; ma non appena ottenuto il successo e cacciate le vecchie oligarchie, quale atteggiamento avevano assunto i nuovi governi insediatisi al loro posto? Si eran forse preoccupati di alimentare il consenso dei più? Di scavare un abisso incolmabile tra l'ieri e l'oggi mercè ardite riforme sociali? Di creare d'urgenza una rete quanto più larga possibile d'interessi conservatori? Neanche per sogno: espressione d'idealità e d'interessi borghesi, essi non d'altro s'eran curati che di soddisfare e quelle e questi e di consolidare le loro posizioni. E perciò non soltanto avevano lasciato che l'ingenuo calore delle masse s'intiepidisse, ma si erano affannosamente adoperati a questo scopo. Sí che, rinfrancatesi in seguito le forze reazionarie e passate alla controffensiva, gli uomini dei così detti regimi liberali si erano trovati naturalmente isolati o presso che tali nella disperata difesa del nuovo ordine di cose; del quale isolamento, con incoscienza incredibile, avevano poi osato stupirsi e non cessavano ancora di rammaricarsi. I disastri del '49 non avevano dunque aperto gli occhi a nessuno? Non si era ancora inteso l'equivoco che aveva determinato così sproporzionate illusioni, prima, ed ora causava così irragionevoli scoraggiamenti?

Gli egoismi di classe avevano soffocata la rivoluzione italiana; questa era la chiave dell'enigma; questo, seppure in altri termini ma con altrettanta chiarezza, diceva la Guerra combattuta; ed era pensiero acuto e fortissimo, cui ben pochi prima di Pisacane erano giunti, e nessuno aveva espresso così incisivamente; pensiero ben degno di venire apprezzato e svolto, almeno per quel tanto di vero che esso conteneva accanto a evidenti semplicismi e inaccettabili generalizzazioni. La rivoluzione italiana usciva dal suo processo con una sentenza d'immaturità: trovandosi concordi nel deprecare i mali del dispotismo e dell'asservimento straniero, gl'italiani avevano infatti compiuta la fase negativa della loro liberazione; ma non erano né risoluti né concordi nel determinare quel che si sarebbe dovuto sostituire ai regimi condannati e ancora concepivano miticamente l'indomani post-rivoluzionario, esponendosi così infallibilmente a nuove delusioni, a nuovi bruschi risvegli. Forse che il problema era proprio quello di stabilire se si dovesse mirare a repubblica o a monarchia, a federazione o a unità? No, si trattava di stabilire qualcosa d'importanza incomparabilmente maggiore: su quali interessi dovesse poggiare il nuovo edificio, su quali contributi s'avesse a contare per la sua costruzione, quali resistenze bisognasse prepararsi a travolgere. Il ragionamento di Pisacane si faceva qui stringente e inflessibile, per giungere a una conclusione d'uno sconcertante radicalismo. Si voleva proprio far l'Italia nazione? Sbaragliare per sempre le innumerevoli forze d'opposizione? Ebbene, occorreva perciò che la stragrande maggioranza degli italiani partecipasse davvero alla lotta; ma l'esperienza del '48-'49 insegnava che questo fenomeno non si sarebbe assolutamente verificato se il fin qui ristretto programma nazionale non si fosse arricchito di qualche grande ideaforza capace di scuoter le fibre delle masse proletarie, ed anzi impostato addirittura su di essa e in vista della sua realizzazione. Tale idea-forza non poteva essere ormai che la rivoluzione sociale; urgeva proclamarne la bellezza e l'utilità e dar opera per bandirla e promuoverla, non già come complemento della rivoluzione politica, sibbene come sua giustificazione e «spiegamento». Ci si persuadesse insomma che la rigenerazione d'Italia non si sarebbe verificata se non in quanto le abusate espressioni di giustizia, di libertà, d'autogoverno fossero venute finalmente a significare giustizia per tutti, libertà per tutti, autogoverno del popolo e non d'una minoranza privilegiata. E infatti che mai poteva al «popolo» importare che in Lombardia ad esempio cessasse la dominazione austriaca se, sparita quella, ne principiasse un'altra, nazionale o no, a eternizzare la sua servitú?

Era considerare il problema italiano sotto un punto di vista di stupefacente modernità. Si poteva non accettare l'ottimismo un po' superficiale del socialismo pisacaniano (si vedrà in seguito che non era soltanto suo), ci si poteva maravigliare che egli lo postulasse, almeno apparentemente, solo in funzione e in servizio della questione italiana, si potevano discutere e magari rifiutare molte sue valutazioni assiomatiche; avrebbe dovuto, comunque, riuscir difficile, dopo la pubblicazione del suo libro e di qualche altro che seguí dappresso, continuare in certe impostazioni confusionarie del nostro problema politico, volte a risuscitare tal quale l'equivoco quarantottista e con esso, seppur sotto altra forma, le amare sorprese del '49. Difficile? Ma non è forse eccezionale il caso, tra noi, che uno scritto politico, di qualsivoglia importanza, abbia esercitato un'effettiva influenza e lasciato un'impronta non cancellabile nella vita reale? I libri in Italia si leggono dagli studiosi e questi non contano nulla nel giuoco delle forze attive. La Guerra combattuta non sfuggí a questa sorte: chi l'ebbe tra mano prese infatti passione (s'è visto) ai pettegolezzi che ne derivarono, lodò più o meno lo stile ecc. ecc.; ma le «proposte» fatte da Pisacane alla classe politica italiana, importanti e nuove, caddero miseramente nel vuoto. Del che, è vero, qualche colpa aveva anche il suo autore; il quale, accingendosi ad esporre un pensiero così inusato e aggressivo, lo aveva sin dalle prime pagine presentato ai lettori nella sua formulazione più intransigente dogmatica ed estrema. Si sarebbe detto che non gli bastasse la pazienza a condurli pian piano, per via deduttiva, ad afferrarne la logica derivazione da premesse accettabili e quindi, se non la convenienza, la ragionevolezza.

Né si vuol lamentare con questo che non si sia davvero, in quegli anni, fatto propaganda per la rivoluzione sociale; scartando questo, che era in qualche modo il «programma massimo» della Guerra combattuta, se ne sarebbe potuto estrarre pur sempre almeno una indicazione di metodo, di praticità immediata. Studiare a fondo cioè le condizioni della vita italiana nelle diverse regioni e nei diversi strati sociali sì da chiarire, in base ai resultati dell'indagine, tre cose importanti: 1) i moventi dell'adesione di taluni ceti al movimento nazionale italiano; 2) le ragioni effettive della indifferenza d'altri ceti — costituenti la grande maggioranza della popolazione — di fronte al movimento stesso; 3) a quali interessi e a quali ideali dovesse il programma nazionale d'ora innanzi ispirarsi per poter guadagnare le solidarietà sufficienti ad assicurarne il trionfo.

Il programma massimo di Pisacane non si presentava in fondo che come la discutibilissima soluzione da lui proposta al terzo paragrafo: non era difficile intravederne di più equilibrate; ad ogni modo l'invito implicito ai partiti italiani per una maggiore concretezza avrebbe potuto venir raccolto con sicuro beneficio di tutti. E invece la minoranza repubblicana seguitò a trascurare affatto nella sua propaganda il fattore sociale, seguitò — per quanto il suo organo massimo, l'Italia e Popolo, mostrasse talvolta d'intendere certe necessità nuove — a eccitare alla lotta e ai sacrifici per la patria operai e signori, preti e soldati, proletari e impiegati, tutti con un solo programma che, quando non era generico e miope al punto da non vedere un palmo più in là dell'attimo rivoluzionario, rispecchiava naturalmente le premesse, gli interessi e le aspirazioni di un ceto ristretto di politicanti smaniosi di «dar l'assalto alla diligenza», beninteso nella convinzione sincera d'imbarcarvi poi tutti quanti. E proprio in quel torno di tempo, tutti quelli che nel campo politico non eran repubblicani arrabbiati principiarono ad ammetter la possibilità di una soluzione limitata della questione italiana che rispondesse alle sole esigenze d'indipendenza e di progressiva unificazione, rassegnandosi a relegare in sottordine e anzi abbandonando in anticipo il terzo comma fino allora considerato, la libertà cioè, e ripudiando una volta per sempre i mezzi rivoluzionari, ossia la conquista profonda di quei beni. Col delegare a un forte potere costituito (il Piemonte) la direzione tecnica e l'accollo dei lavori e i rischi del rivolgimento italiano, i patrioti rinunciavan, s'intende, a controllarne l'esecuzione e si rendeva così possibile di differire a cose fatte (non mai, certo, l'evitare per sempre) quell'esame delle forze di sostegno e di attrito del nuovo edificio, cui Pisacane scrittore riteneva indispensabile l'accingersi preventivamente.

E qui un dubbio affiora: che sarebbe avvenuto se le sinistre avessero adottato programmi e metodi del socialismo rivoluzionario? Si sarebbe raggiunta ugualmente l'unità d'Italia, e in qual modo, e con maggiore o minore sollecitudine?

Assai ragionevolmente lo storiografo si guarda dalla fascinante attrazione dei se, che dal reale lo condurrebbero al fantastico; eppure non di rado accade che il cedere con accorta prudenza al richiamo di un se spinga — per il solo fatto del domandarsi perché mai una certa alternativa non si sia verificata — a meglio profondare lo sguardo nel groviglio di circostanze dalle quali derivò la inevitabile necessità di un determinato corso di eventi.

La propaganda di un pugno d'idealisti per la formazione dell'unità italiana ebbe successo per uno straordinario complesso di circostanze favorevoli; ma fondamentalmente perché collimò col beninteso interesse della nuova borghesia in ogni regione della penisola, avida di spazio, di liberi traffici, di largo mercato, insofferente della rigidezza dei vecchi sistemi, che ostinatamente le negavano ogni valore politico, ansiosa dell'avvento di un regime nuovo, che promettesse di formarsi a imagine sua, al suo servizio, adeguato e soggetto alle sue necessità e alle sue indispensabili esigenze di sviluppo; di un regime il cui nerbo e le cui forze fossero costituiti appunto da essa borghesia, i cui posti di comando fossero spettati a uomini suoi; del quale insomma le toccassero i benefici e gli utili.

Orbene, s'andasse dinanzi a questa gente ad agitare il vessillo della emancipazione del proletariato, della rivoluzione sociale. Si provasse a dir loro che i benefici della grande operazione andrebbero divisi con i nullatenenti; che nel nuovo regime il troppo si falcidierebbe per sovvenire al poco; che alla divisione degli utili futuri delle aziende parteciperebbero anche gli operai; che le imposte sarebbero progressive sul reddito e magari una porzione cospicua dell'asse ereditario verrebbe confiscata a beneficio della collettività; si provasse a suscitare agitazioni nei nascenti centri operai o a metter su i contadini (figuriamoci poi a far propaganda seria di comunismo). Effetto immediato e sicuro, tanto più generale quanto più larga e fortunata si dimostrasse la seminagione del sonoro principio dell'uguaglianza sociale, sarebbe stata la contrazione del patriottismo borghese, l'affermarsi in sua vece di un diffuso conservatorismo attaccato alla salvaguardia dei regimi assolutisti, per principio e per intima necessità contrari a ogni esperienza di rinnovamento sociale. Pochi idealisti disinteressati (oppure politicanti spiantati, sicuri comunque di far fortuna nel nuovo regime) non sarebbero bastati allora davvero a vincere le innumeri forze che si opponevano al compimento della rivoluzione italiana. Quale, per contro, avrebbe potuto essere il contributo popolare? In verità, ipotetico alquanto e, nella migliore delle ipotesi, a ben remota scadenza (non bastarono trent'anni, dopo il '60, a far, non dirò del socialismo, ma del movimento operaio una cosa seria tra noi!) E poi in qual modo si sarebbe potuta svolgere una intensa propaganda sociale nelle masse, tale da trasformare la loro inerte disperazione in attività autoemancipatrice, durando i regimi antiliberali? Possibile determinare un vasto movimento, con quegli esigui mezzi dei quali disponevano gli uomini di sinistra e che si rivelavano miseramente insufficienti anche ai fini di una limitata propaganda su una minoranza già pronta e ben disposta? L'assioma secondo il quale lo sviluppo delle libertà sociali segue e non precede l'acquisto delle più elementari almeno tra le libertà politiche non ha, ch'io mi sappia, sofferto smentite mai.

D'altronde cosa predicare alle masse, i cui bisogni e le cui aspirazioni si presentavan da noi così diversi e quasi in opposizione reciproca da regione a regione? Rivoluzione sociale era un termine troppo generico. Ma a parte questo, supposto anzi che si potesse nell'Italia del '50 lanciare un'efficace propaganda socialistica, non era forse chiaro che essa avrebbe accentuato l'indifferenza del «popolo» per un problema, appetto a quello sociale, tanto formale e di secondaria importanza come quello delle istituzioni e delle etichette politiche?

Era dunque in preda a una ben strana illusione chi credeva che suscitando nel bel mezzo della lotta politica la fiamma dell'odio di classe, si sarebbe aggiunto sangue e vigore alla lotta; chi credeva che il mito socialista proposto a un proletariato analfabeta e di tipo prettamente preindustriale avrebbe giovato, sollecitandone le immense energie vergini, al partito o ai partiti che in un risveglio degli italiani ponevano la condizione di un effettivo rinnovamento politico. Esso in realtà avrebbe avvantaggiate unicamente le forze reazionarie, mentre l'idea italiana, stretta fra i due opposti fuochi del socialismo e del conservatorismo ad oltranza, sarebbe miseramente perita. Invero l'ipotesi che il nostro risorgimento non si sarebbe verificato se non con l'alleanza di tutte le forze interessate a mutar stato (ossia sotto una bandiera che promettesse benefici essenziali a ciascuna di esse) rivelò la sua acutezza più tardi e per l'appunto proprio quando il raggiungimento dell'unità italiana, frutto degli sforzi e concretizzazione degli ideali di una modesta minoranza, parve segnarne il constatato fallimento. Necessariamente fallita nella contingenza, essa trionfava cioè in un senso più assoluto, in quanto passava a costituire la pietra di paragone delle gravi evidenti deficienze proprie a un grande risultato raggiunto con minimi mezzi. Dal '60 in poi avrebbe dovuto essa ispirare la politica italiana: s'era tirato su, in fretta e furia, l'edificio; ora, perché non precipitasse addosso agl'italiani, bisognava rifarlo tenendo presente quell'idea che giustamente s'era dovuta scartare, un tempo, per considerazioni d'opportunità, ma che restava ciò nondimeno impeccabilmente e incontrastabilmente vera.

Capitolo settimo

Piemonte socialista

Pisacane fu il primo che tentasse di spiegare con motivi prevalentemente economico-sociali l'insuccesso del biennio rivoluzionario italiano. Esagererebbe per altro l'importanza della Guerra combattuta chi la definisse perciò come un riuscito saggio di applicazione integrale del materialismo storico: geniale anticipazione, sì, ma troppo generica. Siamo alle soglie del socialismo scientifico. Pisacane dimostra infatti nel suo libro più fede che dottrina, più capacità d'intuizione che forza vera di ragionamento; è il neofita entusiasta che scrive, non l'argomentatore preciso e convincente che ha approfondito il suo credo e sa misurarne la portata e i limiti. Se la Guerra combattuta ha, in terreno italiano, tutto il valore e l'originalità d'una scoperta, questa scoperta attende insomma o dal suo autore o da altri sistemazione e sfruttamento adeguati.

Comunque è una pietra miliare nella storia del pensiero socialista italiano.

Un socialista, nel Piemonte del '51? Stando alle versioni fin qui accreditate della storia italiana recente, questo accostamento fa addirittura trasecolare. Che anche Ferrari s'atteggiasse a socialista in quel tempo, si sapeva; ma si osservava che a forza di stare in Francia e di bazzicare i Proudhon e i Leroux egli si era del tutto infranciosato. Vene socialistoidi si erano notate, è vero, negli scritti del Franchi, ma chi pigliava sul serio questo prete spretato, buttatosi ai più spregiudicati estremismi e a molte altre stranezze, per poi tornare, vecchio pentito e contrito, in grembo a santa madre chiesa?

Pisacane, dunque, isolato precursore e profeta del socialismo, unico veggente in terra di ciechi: questa per l'appunto la leggenda che si è accreditata fin qui. Tanto che quando si son volute stabilire le sue fonti, identificare le suggestioni alle quali soggiacque, si son fatti i soliti nomi dei socialisti francesi, i soliti nomi di Ferrari e di Franchi. Cose viste, da lui, in fatto di associazionismo operaio? Molte, ma tutte fuori d'Italia.

Si direbbe che a quel tempo, nel nostro paese, il problema del lavoro non esistesse neanche.

Se tutto ciò fosse esatto, se Pisacane avesse cioè parlato, nel Piemonte, nell'Italia del '51, un linguaggio nuovo e inaudito, la controprova dovrebbe trovarsi nella stampa contemporanea. Figurarsi se giornali e riviste di destra non avrebbero solennemente condannato il novissimo eretico e quei di sinistra non avrebbero segnalato, lodandola o no, l'audacia del suo scritto!

La controprova, invece, fallisce in pieno. La Guerra combattuta fece sì, come s'è visto, un gran chiasso, ma solo in quanto la maggioranza dei suoi lettori non restò affatto persuasa dei giudizi perentori azzardati dall'autore sulla pretesa competenza di questo o quel generale, sull'accortezza di questa o quella manovra guerresca, e cose del genere. Poco scalpore, niente scandalo, per contro, provocò il dichiarato socialismo di Pisacane. Gli è che di socialismo e di questione sociale, nel Piemonte del '51, contrariamente al supposto, si discorreva non dirò neanche spesso, ma quotidianamente102; che i problemi operai v'erano all'ordine del giorno; che Pisacane socialista non faceva che ricomporre, elevare a sistema, portare alle estreme conclusioni motivi ideali e stati d'animo assai largamente diffusi nell'ambiente medesimo nel quale viveva. Non era, insomma, quel tale solitario navigatore per mari inesplorati voluto dagli ignoranti biografi: quel mare formicolava di vascelli — più o meno rapidi e moderni del suo — mossi dallo stesso vento, diretti alla sua stessa meta. Ma forse è necessario, per ristabilire il vero, distaccare per un poco lo sguardo dal vascello di punta.

Che il problema sociale destasse allora in Piemonte l'interesse più fervido (e, se si vuole, il più «interessato») appare chiaro a chi scorra giornali e riviste del tempo.

Tutta suggestione di Francia, tutti riflessi degli esperimenti quarantotteschi al di là delle Alpi, tutta influenza dei socialisti stranieri amici dei democratici nostrani? No. Che la stampa piemontese calcasse le orme della maggior sorella oltremontana non è dubbio, così strette son sempre state ed erano anche allora le relazioni culturali tra le due vicine nazioni; che la rivoluzione parigina del '48 avesse esaltato e terrorizzato l'Europa intera, e quindi il piccolo Piemonte, è ugualmente sicuro. Ma non per questo si deve ritenere che il rigoglio di idee intorno al problema sociale e di esperienze pratiche nel campo della organizzazione del lavoro manifestatosi in Piemonte nel decennio anteriore al '60 sia nient'altro che frutto d'importazione. Questo bisogno, che appare quasi improvviso e come portato di subitanea esplosione negli uomini colti piemontesi dopo il '49, di rivedere le basi della società e negli operai di migliorare la propria sorte, non si è in realtà verificato d'un tratto, ma preesisteva da lungo tempo. Solo che non ebbe la possibilità di manifestarsi alla luce del sole, di svilupparsi e di lasciar traccia di sé nella stampa se non dopo la concessione dello Statuto, che garantiva la libertà di associazione, di riunione, di parola e di stampa; o meglio, se non dopo il '49, quando cioè, male o bene terminata la duplice guerra con le sue conseguenze inevitabili di limitazione della lotta e delle libertà politiche, al Piemonte fu dato finalmente applicare, e ai piemontesi godere, le benefiche concessioni dello Statuto.

Frutto spontaneo, dunque, condotto a rapida maturazione del regime liberale pur mò inaugurato, non è detto per questo che l'intenso interesse per la questione sociale manifestatosi in Piemonte dopo il '49 non abbia ricevuto fortissimo impulso dagli avvenimenti del biennio precedente: tutti i grandi sconvolgimenti politici recano in sé la radice di successivi perturbamenti sociali; e non è a dire se le guerre e le insurrezioni e le divisioni stesse provocate nell'ambiente sociale italiano dal vario atteggiamento di ceti e gerarchie dinanzi alla crisi del '48-'49, e il generale impoverimento del paese, non abbian prodotto un profondo turbamento dell'equilibrio sociale e anche, come suole accadere, quella certa inquietudine degli strati più bassi della società, che si manifesta nella morbosa ansietà di migliorare il proprio stato economico e nell'allentamento del rigido criterio gerarchico.

Nel biennio rivoluzionario si era parlato un po' dappertutto di socialismo e di questione sociale; e le rivendicazioni del proletariato, più o meno generiche, più o meno spontanee, erano affiorate un po' dappertutto, in qualche luogo assumendo perfino un aperto carattere sedizioso.

Il fenomeno, anzi, aveva cominciato a manifestarsi fino dal 1847, vuoi in conseguenza del generale risveglio delle minoranze liberaleggianti e della avvenuta concessione, in qualche Stato, di alcune riforme; vuoi in conseguenza della carestia determinatasi ovunque per via degli scarsi raccolti del '46103. Rivendicazioni, meglio che del « proletariato», della povera gente; indistinta volontà di miglioramento che proruppe qua e là in agitazioni senza speranza e senza scopo preciso, nelle quali sarebbe vana fatica voler oggi distinguere la parte giocata dalle frazioni operaie o dai dispersi artigiani o dai braccianti agricoli. Quando i giornali conservatori alludevano a questi moti e al rivelarsi di questi torbidi desideri, li battezzavano piuttosto comunisti che socialisti, e giustamente del resto ne additavano il carattere e i limiti in un diffuso risentimento contro le classi ricche e in una sommaria protesta contro l'ordinamento della proprietà. Moti di questo genere si verificarono in Toscana, in Lombardia, in Romagna nei primi mesi del '47, e non furon pochi tra i liberali quelli che, notandone la contemporaneità e il naturale effetto di stringere i timorosi ceti possidenti ai governi conservatori, vollero vedervi lo zampino, oltre che del partito retrivo, del suo grande ispiratore e sostegno: lo zampino dell'Austria104.

Di socialismo, inteso generalmente nel senso di riforme sociali più o meno radicali da ottenersi con mezzi legali, inserite nel quadro della auspicata generale riforma politica, cominciavano invece a discorrere gli uomini colti, le teste calde del partito avanzato. Carlo Marx, da Colonia, inneggiava ai principii professati dall'Alba di Firenze105. Né l'Alba era sola a slanciarsi per quella via: allentata la stretta della censura, la parola magica — socialismo — e l'interesse non dirò predominante ma certo di primo piano — problema sociale — erano affiorati spontaneamente e automaticamente nella Toscana del '47, nell'identico modo che si sarebbe verificato nel Piemonte del '49. Chi voglia saperne di più non ha che da sfogliare la Rivista di Firenze, il Popolano, l'Italia, il Conciliatore, il Nazionale, giornali e riviste che si stamparono in Firenze o Livorno nel corso del 1847.

Con l'anno successivo naturalmente la propaganda socialista andò intensificandosi in tutta Italia. Bagliori di comunismo si ebbero in Puglia nella prima metà del '48, quando — sancita la Costituzione — nella plebe rurale delle Due Sicilie si sparse la mirifica credenza che Costituzione significasse, su per giú, distribuzione delle terre ai lavoratori; e apostoli del comunismo si misero a girar le campagne, incitando i contadini a invader senz'altro demani e latifondi (terrore delle classi possidenti dalle cui stesse fila son pure usciti molti di coloro che hanno spinto alle riforme politiche; diffuse nostalgie di restaurazione del regime assolutista!) Dalla propaganda è breve il passo all'azione: in tutto il Regno si moltiplicarono gli episodi di occupazione di terre comunali106. Nelle città, agitazioni consimili: a Napoli, ad esempio, mentre i fogli democratici profittavano della breve parentesi costituzionale per invocare e discutere ampie riforme sociali, i tipografi dichiaravan lo sciopero, i sarti organizzavano clamorose dimostrazioni di protesta contro il trattamento economico (aprile); a Cava e a Salerno si registravano movimenti fra i tessili.

A Roma e in provincia eran quotidiane, quasi, le dimostrazioni popolari contro la gente ricca.

A Firenze e in tutta la Toscana s'intensificavano le polemiche giornalistiche e le discussioni nei circoli politici intorno al problema sociale e al socialismo. Notoriamente mentiva il Guerrazzi quando, sia pure a fin di bene, dichiarava al Consiglio generale, il 14 ottobre, che «il popolo nostro ignora perfino i nomi di comunismo e di socialismo». A sbugiardarlo stavano le agitazioni dei facchini e tipografi verificatesi a Firenze proprio nel marzo e la grande dimostrazione dei disoccupati del luglio107. Ma la menzogna non era sintomatica?

Neanche le Legazioni eran rimaste immuni dal contagio: c'era a Bologna un giornale dal titolo significativo — Il Povero — il quale svolgeva una così intensa propaganda socialista che ad esso si volle da molti imputare il poco patriottico contegno tenuto da una minoranza del popolino della città nell'agosto del '48. Idee socialistoidi venivano nel contempo diffuse dai circoli democratici di Modena, Ravenna, Faenza, oltre che di Bologna medesima.

Socialismo in Lombardia: dove, tra il marzo e il luglio del '48, assai se ne discorse, un po' per naturale conseguenza della rivoluzione di popolo108, un po' anche per opera d'interessati agenti della monarchia sarda o, peggio, dell'Austria, postulandosi l'equazione: repubblica = avvento del socialismo. Il Lombardo ad esempio svolse, nella sua breve vita, aperta propaganda classista; e L'Operaio, professantesi «egualitario», si pose a dar consigli di associazionismo autonomo ai lavoratori109. Nell'Italia del Popolo, che pure evitò sempre gli accenni alla questione sociale, si poteva leggere, il 25 luglio, a conclusione d'una serie di articoli dedicati a illustrare la tristissima sorte del proletariato agricolo, la seguente sentenza: «... noi siamo ingiusti quando chiediamo ad essi (ai contadini cioè) sacrifici per la patria che conoscono tanto matrigna». E infatti i contadini dell'alta Lombardia che, come è noto, contrastarono passivamente le operazioni dell'esercito sardo, andavan borbottando, e qualche volta dissero forte che «il regno dei signori» (i patrioti antiaustriaci) era ormai tramontato per sempre110. Ai primi d'aprile, a Milano, si verificarono, scriveva un giornale,
«attruppamenti» d'operai reclamanti un aumento di paga. Nel maggio, i tipografi si misero in agitazione per protestare contro l'adozione di un nuovo tipo di macchina; poco dopo fu la volta dei lavoranti sarti.

Socialismo in Piemonte: dove Il giornale degli operai (Torino) si fece banditore di animose rivendicazioni sociali, e in Parlamento una sonora fischiata del pubblico accolse il rigetto, da parte della maggioranza, della proposta instaurazione d'una imposta unica progressiva sul reddito; a Genova, il 4 d'aprile, scoppiò violentissimo lo sciopero dei facchini e quello dei carrozzieri, protestanti contro l'introduzione degli omnibus; il giorno appresso quello dei tipografi. Nel maggiogiugno, si ebbe minaccia di sciopero, a Torino, da parte di lavoranti sarti e calzolai. Le tendenze comuniste nella capitale sabauda erano così accentuate che scrittori liberali mostrarono perfino di nutrire serie preoccupazioni per l'avvenire di Torino industriale! A Genova nel novembre un oratore popolare si permise di fare aperta propaganda classista; nel marzo '48 qualcuno presentò al Parlamento una petizione richiedente addirittura che «in nome dell'eguaglianza», «le sostanze e i beni si dividessero fra tutti i cittadini»111.

Socialismo in senso molto impreciso della parola? Generica espressione di malcontento, chiassate e niente altro? Sia pure. Certo è però che la borghesia italiana cominciò ad aver familiarità con i due «spettri» del socialismo e del comunismo proprio in questo periodo di tempo, e che da allora in poi i suoi portavoce non cessarono più dal dilatarne minacciosamente le proporzioni e i possibili effetti, o al contrario dall'ostentare calorose simpatie socialiste, a seconda che si orientavano verso un conservatorismo ad oltranza, deliberato a tutto pur di distogliere gli italiani dall'impresa dell'indipendenza, o verso un liberalismo di sinistra, ansioso d'interessare in qualche modo le masse all'edificazione dell'auspicato Stato unitario.

Esempi di artificioso ingigantimento del pericolo socialista non difettano davvero, anche a volersi fermare al 1849. La repubblica romana, la sua assemblea, i suoi ministri e i suoi triumviri sono senz'altro socialisti sfegatati per i fogli clerico-reazionari; taluni dei quali non esitano a dichiarare che quell'assoluta dedizione di sé alla patria in pericolo, richiesta da Mazzini ai romani, non ad altro tende che a instaurare «nella teoria e nella pratica il comunismo». Sacrosanta perciò la «crociata» francese: «La Francia che combatte contro Roma — scrive, solenne, Il Saggiatore, torinese, 15 giugno '49 — è il diritto che fa guerra al socialismo di cui il santuario di Vesta... è divenuto centro e sinagoga». Fioccano risposte furenti di quelli fra i difensori di Roma che prendono sul serio le aberrazioni dell'estrema destra: «Qui non siamo, l'ho detto sovente, né socialisti, né comunisti, né montagnardi; noi siamo italiani e repubblicani», prorompe Cernuschi nell'Assemblea romana, il 2 di luglio; e il Torre: «... noi fummo trattati da discepoli di Proudhon e di Cabet. Né ci duole che così la pensassero i diplomatici e gli uomini del francese governo... Ma ci stupisce assai che scrittori italiani e costituzionali non vergognassero di ripetere così stolte accuse».

Il fine propostosi dai clerico-reazionari con questo ricatto del comunismo, che da allora in poi è diventato d'uso frequente, era ben chiaro: dimostrare ai Principi italiani e ai loro governi che fuor del più rigido ossequio alla volontà della Chiesa non c'era rimedio possibile alle crescenti pazze pretese dei rivoluzionari. Dal che, con agile passo, l'occhio volto alla liberale politica sarda, si veniva a dimostrare come e qualmente le confische di beni ecclesiastici, operate dai governi rivoluzionari e accennate da quello di Torino, rientrassero senz'altro negli abominevoli confini del «comunismo».

Pio IX, ufficialmente e privatamente, non parlava che di socialismo e comunismo! Aveva principiato nel '46 (9 novembre), con l'enciclica Qui pluribus; riprese il 20 aprile '49 con l'allocuzione Quibus, quantisque lamentando il diffondersi ovunque del «luttuoso e orrendo sistema del socialismo ed anche del comunismo»; l'8 dicembre '49 fulminò contro le perverse dottrine una furibonda scomunica: i difensori della repubblica romana, vi si leggeva, non avrebbero avuto altro scopo che quello «di spingere i popoli... a rovesciare ogni ordine sociale, e al tempo stesso condurli ad abbracciare i nefandi sistemi del nuovo socialismo e comunismo». E anche: «I maestri tutti, sia del Comunismo che del Socialismo... si sono riuniti in un comune disegno, ed è quello di agitare con perpetue commozioni gli operai, ed altri uomini, specialmente delle ultime classi, dopo averli sedotti con le loro menzogne, e illusi con le promesse di una più felice condizione, e addestrarli a poco a poco ad altri più gravi delitti, affinché in seguito possano servirsi dell'opera loro per combattere il governo di qualunque siasi autorità superiore, per derubare, saccheggiare e invadere, prima le proprietà della Chiesa, poi di qualunque altro, e per violare infine tutti i diritti umani e divini»...112

Calato il sipario sulle disgraziate esperienze del '48-'49, rimessa ovunque la cappa di piombo della censura a soffocare le intemperanze degli intellettuali, le polizie provvedendo a rintuzzare per conto loro, energicamente, le pericolose tendenze della classe operaia, il solo Piemonte, s'è detto, raccolse in qualche modo l'eredità spirituale del biennio.

Il movimento di associazione operaia, intanto, fu incoraggiato, laddove non mostrasse di perseguire larvati scopi politici. Prima del '48 in tutto il regno non esistevano che 12 Società operaie di mutuo soccorso: nel '59 esse ammontavano a 134. Importante passo innanzi, queste Società principiarono fin dal 1851 ad allacciare rapporti fra di loro e a discutere la possibilità di una federazione.113 Nel '53 si riunirono in Congresso e fu da allora in poi, anno per anno, una serie ininterrotta di Congressi (il 3° a Genova, 1855) sempre più affollati, preziose occasioni per uno scambio d'idee tra i più intelligenti operai e i democratici borghesi che dirigevano il movimento: né è a dirsi se e quanto le discussioni in merito a problemi del lavoro iniziate nei Congressi trovassero seguito ed eco nella stampa del tempo.114

Accanto alle Società operaie, le cooperative di consumo e di produzione; e in seno ad esse una marcata tendenza a esorbitare dai fini del mutuo soccorso per sfociare, da un verso, nella politica, dall'altro, nelle agitazioni economiche e negli scioperi.

Il movimento era più intenso e turbolento a Genova, dove Pisacane risiedeva. Non resulta che egli se ne occupasse personalmente, ma certo ne seguiva lo sviluppo e ne ricavò suggestioni per i suoi scritti (nei Saggi ad esempio additò qual sintomo «del nuovo giorno... la tendenza delle moltitudini all'associazione»). È noto infatti che le relazioni fra l'ambiente democratico repubblicano di Genova e la locale classe operaia si mantenevano assai strette e cordiali.

Povero egli stesso e costretto a un mal retribuito lavoro, la dura sorte del proletariato piemontese non poteva non impressionarlo dolorosamente: salari di fame e per alcune industrie notevolmente ribassati in confronto al decennio precedente; né sempre corrisposti interamente in moneta, ma con un supposto equivalente in natura, a tutto vantaggio degl'imprenditori; orari di lavoro abbrutenti, inesistente legislazione protettiva del lavoro115. Le agitazioni e i disordini si succedevano senza posa.

Nel '49 erano i vellutai di Zoagli che, richiedendo aumenti di salario e cessazione appunto del pagamento dei salari in natura, davan grossi fastidi alle autorità; sui primi di maggio del '50 erano i vignaiuoli di Cassolo Lomellina che clamorosamente protestavano contro i licenziamenti arbitrari: seguivano incendi, invio di truppe, arresti; nel '51 la polizia genovese segnalava ufficialmente la «diffusione di massime socialistiche» a mezzo delle associazioni in quella classe operaia; nell'ottobre '55, a Torino, gli operai sarti si mettevano in isciopero; nel gennaio '56, in tutto il Piemonte, si tennero foltissime adunate popolari per protestar contro le tasse e sollecitare l'istituzione della famosa imposta unica progressiva sul reddito. Nel novembre del medesimo anno gli operai sarti di Genova, in un memoriale presentato ai loro principali, chiedevano (ma non ottenevano): aumento nella mercede, pagamento dei salari in moneta, orario di lavoro di... 11 ore!116

Sembrerebbe già abbastanza; ma non ho scelto e citato, tra i molti, che qualche episodio più caratteristico, atto a documentare il progressivo destarsi di una coscienza di classe nel proletariato subalpino.

Accanto a questa «prassi», e in parte come conseguenza di essa, come caloroso il corrispondente interesse o la corrispondente preoccupazione dei ceti borghesi per la questione sociale!117

Si prenda un giornale liberale, il torinese Risorgimento (Cavour, Balbo, Castelli, Ricotti) e si osservi quanto assidua e zelante sia la vigilanza — non saprei come meglio definirla — che esso,
fin dai suoi primi numeri, esercita sull'avanzarsi del socialismo. I suoi articoli in materia sembrano addirittura bollettini di guerra di un esercito assediato!118 Se già nel '48 il Risorgimento ha ritenuto possibile un'ondata socialista in Italia come conseguenza degli avvenimenti francesi, dal '50 in poi questa preoccupazione diventa un'idea fissa: non una parola, non una mossa dei socialisti di Francia sfuggono ai suoi redattori, ogni accenno a socialismo vero o supposto che possa constatarsi in Piemonte vien da costoro denunciato d'urgenza; la nuova barbarie, pretendono, sarebbe lí lí per sommerger l'Europa! Piú combatte il nemico, più s'adopra a gonfiarne l'importanza e il pericolo, e più, s'intende, il Risorgimento contribuisce senza volerlo a fargli réclame.119 «Non passa giorno — si legge nel numero del 29 gennaio '50 — senza che ci alletti l'occhio e l'orecchio qualche massima sociale» sospetta; o non s'intende dai democratici che «ai dí nostri l'attuazione di una tale idea (il socialismo cioè) avrebbe per inevitabile conseguenza il ritorno al principio del governo assoluto»? (8 febbraio). E il 12 marzo: «La parola socialismo... è una parola che scotta; poté essere innocente e nobile nel suo primitivo senso, ma i piccoli Considérant e Proudhon dei nostri dintorni, scherzando troppo sopra certe materie, finiranno per fare scoccare il grilletto di un'arma che poco conoscono». A giornaletti piemontesi di provincia che «fanno il Leroux ed il Proudhon del loro circondario» fa la predica il 20 d'aprile anche il Torelli (che ha preso a stampare nell'appendice del Risorgimento, sotto lo pseudonimo di Ciro D'Arco, una vivacissima serie di lettere sulla questione sociale), lamentando il progredire di certe tendenze «in un paese finora immune dalla tempesta socialista».

Quali erano questi scapestrati fratelli minori del Risorgimento? Vediamone uno, Il Carroccio, di Casale, diretto dal Mellana. Discorre a tutto pasto di socialismo, è vero, e non nasconde la sua viva simpatia per esso, e spesso e volentieri riproduce articoli socialistoidi dalla stampa francese; giusto è osservare per altro che si trattava d'un socialismo all'acqua di rose, tutto riforme e progressive conquiste, niente miracoli, niente violenze. Che importa? Il 31 luglio '50 Il Carroccio vien sottoposto a processo, nientedimeno che sotto l'accusa di bandire le dottrine socialiste (nel caso, qual legge ne aveva mai proibito la diffusione?) Alla udienza, naturalmente, è un gran battagliare sull'idra malefica e le sue varie tendenze. «Non ignoro qual pericolo si corra non solo quando si prende la difesa del socialismo, ma anche quando se ne parla con qualche moderazione...», esordisce uno dei difensori, il Sineo. L'altro (il Rattazzi) nobilmente rivendica il rispetto dovuto alla libertà di stampa, anche quando essa venga utilizzata per divulgar dottrine contrarie al diritto di proprietà; sempreché non si tenda a tradurle in atto con mezzi illegali.

Nel deliberare l'assoluzione del giornale incriminato, tra gli applausi del pubblico, i giurati di Casale seguon l'esempio dei loro colleghi di Alessandria, che pochi giorni innanzi in un processo identico hanno mandato assolto L'Avvenire, altro foglio d'estrema sinistra. Il Carroccio s'affretta a render conto ai lettori del riportato trionfo, malignamente garantendo all'autorità giudiziaria che «i socialisti loro sapranno buon grado della cura che si prendono di far conoscere e propagare le dottrine loro». Piú malinconica la moderata Concordia (Valerio, Correnti): «Il pubblico ministero ieri ha tessuto la storia del socialismo, ed ha così insegnato le più tristi teorie al nostro popolo che le ignorava affatto...»

Mutiamo ambiente: sfogliamo un giornale clerico-reazionario, Lo Smascheratore, di Torino, che ha giurato eterna guerra alla democrazia e alle sue «inevitabili» degenerazioni socialiste. Il 18 maggio '49 esso gravemente c'informa che «tanta parte dei colti operai della città» è dichiaratamente socialista; il 27 giugno addita ai moderati, ciechi e sordi, il «rovinoso torrente del comunismo», che avanza; tre giorni appresso li previene esser l'attuale trionfo del radicalismo preludio «alle brutali triturazioni del socialismo, del comunismo». Non mancano, s'intende, né il ricatto sul «turpe comunismo» considerato quale inevitabile effetto dell'attenuarsi della fede cattolica, né l'indiretto e involontario incitamento all'odio antiborghese («Bel sovrano — il popolo — che una volta era libero sotto nome di schiavo; oggi è schiavo sotto il nome di libero!» — 12 novembre), tutti consueti elementi della propaganda clerico-reazionaria. Di tanto in tanto, invece, qualche azzeccata punta contro le pose della borghesia democratica: «In questi ultimi anni — scrive ad esempio il 21 febbraio '50 — la parola d'ordine, lo specifico per far fortuna si è la tenerezza per il popolo che si ha sempre fra le labbra»; e il 1° di giugno: pare impossibile che non si possan più scrivere due righe «senza levarsi il cappello a monsú il Popolo».

Il Risorgimento, Il Carroccio, Lo Smascheratore sono esempi tipici dell'appassionato fervore sociale che animava in quegli anni le diverse frazioni della borghesia colta piemontese. Ma quanti altri giornali implicati nella grande polemica si potrebbero citare!

Filosocialista è la torinese Gazzetta del Popolo (Borella, Bottero, Govean), avanguardia della democrazia radicale; filosocialista La Fratellanza di Cuneo (ecco forse un altro di quegli imprudenti giornaletti di provincia, ai quali accennava Il Risorgimento), che nel marzo 1850 dichiara non essere le libertà politiche se non «crudele ironia pei molti che soffrono». Nel gennaio 1850 inizia le sue pubblicazioni a Torino L'Universitario, il cui programma reca, oltre l'impegno di dedicarsi al «miglioramento di condizione delle povere classi», un grido di «guerra agli abusi ed a' privilegi». La Voce del deserto, torinese anche essa e diretta dal Brofferio, fa aperta professione di socialismo: ne I Mietitori, ad esempio, poesiola stampata l'8 settembre, mentre si lamentano le crude disuguaglianze sociali («qua si agonizza di fame e sete — là si singhiozza di sazietà»), è stigmatizzata l'assurda pretesa che molti hanno di trovare sinceri affetti di patria in «chi suol non ha»; un articolo del 24 novembre risolutamente afferma («a costo di sentirci a chiamare socialisti») notarsi nell'ordine sociale «capitalissimi vizi da riformare» se si voglia davvero «ricondurre l'Europa a riposate condizioni». Lo stesso giornale mazziniano Italia e Popolo, di Genova, che pur riceve da Londra istruzioni antisocialiste, abbonda nel senso contrario, come dimostra il canto allo Sciesa dovuto a «un operaio» e pubblicato il 19 agosto 1851, come dimostra un articolo dell'11 settembre 1851 in suffragio della tesi, diciamo così, pisacaniana, secondo la quale non vi sarà vera rivoluzione nazionale se non accompagnata da una rivoluzione sociale.120 Accenni filosocialisti del resto non eran mancati, nel 1850, nella stessa Italia del popolo, la rivista mazziniana cui Pisacane aveva collaborato e che, stampata in Isvizzera, aveva forte diffusione in Piemonte.

Qualche anno più tardi, e precisamente nel '54, Tommaso Villa, direttore di un quotidiano torinese d'intonazione mazziniana (il Goffredo Mameli, giornale della gioventú italiana) si buscava un rabbuffo da Mazzini in persona per aver stampato, il 21 dicembre, l'articolo poco ortodosso Un pò di socialismo.

Vi erano poi i giornali prettamente operai: e a sincerarsi dell'immensa suggestione esercitata in quel tempo dal socialismo il lettore non ha che da sfogliare le brevi collezioni del Proletario, Torino; L'Uguaglianza, Torino; Il giornale degli operai, Torino; o dei giornaletti genovesi L'amico del povero; Il lavoro; La Bandiera del popolo; L'Associazione; La libertà e associazione (lodato da Pisacane nei Saggi), stampati tutti fra il '50 e il '55.

Nel 1853 esce a Torino il settimanale L'Imparziale, che propugna una sorta di socialismo legalitario da attuarsi attraverso una grande organizzazione di credito popolare e la moltiplicazione delle associazioni operaie. Due anni appresso è la volta di un importante quotidiano dedicato al popolo, La Speranza: esso apertamente propugna La necessità dello sviluppo del socialismo nelle classi operaie, reca articoli a firma «un operaio socialista», incoraggia il libero associazionismo dei lavoratori, afferma non essere più concepibile un rivolgimento politico che non adduca al popolo «un vantaggio materiale, un miglioramento nella sua condizione d'esistenza». È troppo naturale che un così fatto giornale incappi ben presto nei rigori della giustizia: 20 settembre '55, primo sequestro per un articolo I ricchi ed i poveri; nelle sei settimane successive altri cinque sequestri! Ma i redattori non attenuano il loro linguaggio, si ridono anzi di «chi si abbandona a stolide paure e grida al fuoco, ai ladri, ogni volta che intende pronunciare nome di popolo, di miseria, di problemi sociali»; mettono in luce l'internazionalità della causa della emancipazione operaia, e — a buon intenditor... - dicono chiaro che «la servitú delle classi laboriose è più dura ed umiliante in patria libera che in patria serva».

La Speranza rappresenta in certo modo L'Avanti! degli operai piemontesi, tre quarti di secolo or sono. Né manca l'organo di cultura, La critica sociale di quei tempi, destinato all'intellettualità filosocialista: è questo La Ragione che Ausonio Franchi fonda a Torino il 21 ottobre del 1854 (collaboratori De Boni, Ricciardi, Macchi, Ferrari, Levi e vari stranieri; dapprima quindicinale, poi settimanale, e finalmente quotidiano). La Ragione aderisce al socialismo riformista sul terreno economico, come al repubblicanesimo in politica, e al libero pensiero in materia religiosa. In nessun altro giornale il quadro delle inique disuguaglianze sociali è tracciato con più vivezza e misura; in nessun altro la prolungata discussione sul problema sociale (cui prendon parte, cortesemente ospitati, anche semplici operai) è più proficua ed equilibrata; gente fattiva e di cultura, questi della Ragione, che agiscono all'infuori di qualsiasi partigiano interesse. «Dunque gridiamo anche noi unità e indipendenza, e nasca quel che vuol nascere (si legge nel numero del 15 dicembre '55); dal giorno in cui l'aborrito straniero non calpesterà più la sacra terra italiana, siamo certi sparirà la miseria e la corruzione che ci rodono... e le lodole cadranno dal cielo belle e arrostite... Ma della vostra libertà che ci lascia morir di fame... io me ne rido. Siamo stanchi di tante ludificazioni di libertà... In breve, più che la tirannia straniera, più che lo smembramento della famiglia italiana, ci dan da pensare il nuovo organamento sociale al domani della lotta, e i mezzi radicali, onde sgombrare dal nostro bel paese privilegi, ipocrisia, ignoranza e miseria, al dí della vittoria. Che governi Dio o il Popolo, che si confederi o si agglomeri la popolazione frazionata della penisola, poco importa; saran sempre rivoluzioni da scoiattoli, quelle che non tendono a trasformare da cima a fondo questa fracida e sgangherata baracca».

Fin qui la stampa periodica, o meglio un campionario scelto della medesima. Ma che diluvio di libri e di opuscoli, poi!

Il '51 fu l'anno fecondo: si aprí con La federazione repubblicana di Giuseppe Ferrari, stampata sì all'estero, ma in Piemonte assai letta e discussa (si vedrà come eccitasse insieme l'ammirazione e lo sdegno di Pisacane). Direttamente influenzata da quello scritto, che deve considerarsi fondamentale da chi voglia studiare lo sviluppo dell'idea socialista in Italia, usciva pochi mesi dopo, dovuta al Montanelli, l'Introduzione ad alcuni appunti storici sulla rivoluzione d'Italia. Gran nome, quello del Montanelli: il suo libro quindi circolò dappertutto, al suo generico contenuto socialista conferendo singolare importanza l'anzianità dell'autore quale fautore di riforme sociali. L'Introduzione tenta di impostare la questione italiana da un punto di vista generale europeo, ponendo in rilievo come essa non sia se non un episodio della lotta mondiale tra rivoluzionari e conservatori, quando per conservatori s'intendano i militari, il clero e i «monopolisti del capitale». «Il perno della reazione europea è la plutocrazia», ammonisce il Montanelli, il quale brillantemente riprendendo un argomento già largamente discusso nella stampa democratica, sostiene la vanità d'una rivoluzione meramente politica. «Senza cambiare l'ordine economico d'Europa, resterebbe infeconda la nostra vittoria... la rivoluzione europea si risolve nella riforma delle condizioni sociali economiche d'Europa, e perciò l'Italia non può sperare riscatto altro che dai principî da cui questa riforma s'attende», ossia dall'attuazione del socialismo. I patriotti italiani si chiamino dunque ormai, e apertamente, socialisti, e come tali arditamente operino.121

Dopo l'Introduzione, era la volta della Guerra combattuta. Tornava poi nuovamente in lizza il Ferrari con l'attesa e ancor oggi notissima e per molti aspetti pregevole sua opera, Filosofia della rivoluzione, anch'essa uscita dai torchi di Capolago, ma largamente diffusa a Genova e a Torino. Distaccandosi dai socialisti rivoluzionari, Ferrari vi riconosceva l'impossibilità di abolire d'un tratto l'istituto della proprietà, pur ravvisando nella sua progressiva limitazione fino al termine, assunto a mito, di una generale distribuzione delle terre (legge agraria), il fondamento del progresso sociale. L'evoluzione dell'umanità deriverebbe dall'urto dialettico tra istinto di proprietà e istinto di comunanza; e il diritto ereditario, da limitarsi progressivamente, sarebbe la leva sulla quale la società moderna dovrebbe d'ora innanzi agire per raggiungere un assetto migliore, basato sul principio attuato della maggior possibile eguaglianza sociale. Appassionatamente sensibile alle miserie della maggioranza della popolazione, Ferrari abilmente difende la sua visione ottimistica della società futura dalle tradizionali critiche degli anti-socialisti, con grande acutezza abbozzando altresì una giustificazione preventiva di certe necessità d'azione antiliberale (dittatura del proletariato, per dirla in breve) che s'imporranno ai combattenti per la libertà e l'eguaglianza integrali.

Ma questa non è che la parte ultima, conclusiva di un'opera dedicata, nel suo complesso, alla giustificazione storica, psicologica e filosofica del principio dell'uguaglianza.

Filosocialista era, accanto al Ferrari e al Montanelli, Ausonio Franchi. L'editore della Ragione, infatti, in un suo libriccino sulla Religione del secolo XIX (1853) così presentava ai lettori lo scabroso soggetto: il socialismo «è la religione degli operai; esso dà il carattere al movimento del nostro secolo, che è... l'emancipazione del proletario; esso predomina già su d'ogni altro principio in Francia ed in Germania, e comincia a propagarsi in Inghilterra ed in Italia; esso detterà la legge della prossima rivoluzione». E concludeva, non senza enfasi: «l'onda del socialismo sollevasi di giorno in giorno più alta, s'avanza più impetuosa, rumoreggia più forte».

Gli scrittori minori di cose sociali eran poi legione nel Piemonte del tempo: economisti e filosofi, sacerdoti e liberi pensatori, uomini politici e dilettanti delle più svariate tendenze.122

Rosmini pubblica (Genova, 1849) un pesante studio critico sul comunismo e socialismo. Il padre Tapparelli D'Azeglio agita in un suo diffusissimo opuscolo il pauroso fantasma del socialismo. Il siciliano Corvaja, un genialoide che imbottisce d'insopportabili stramberie poche idee nuove e felici, escogita una panacea generale per guarire la società di tutti i mali del monopolio, né prima né ultima delle sue trovate intorno alla questione sociale; un anonimo che giura nella «supremazia democratica pura» rivolge un appello ai repubblicani, socialisti e comunisti perché s'abbiano a unire fra loro (Genova, 1850); un altro anonimo clericaleggiante stampa nel '51 un saggio sesquipedale sul socialismo e le sue varie dottrine e tendenze; v'è perfino chi traduce Gesú Cristo davanti un consiglio di guerra allo scopo di dimostrare che la dottrina socialista deriva direttamente dal Vangelo (1850); Massino-Turina, un economista, pretende d'aver trovato il verso di fermare il corso della miseria (1850); valanghe di libri e d'opuscoli propugnano l'instaurazione dell'imposta unica progressiva sul reddito. Un deputato, il Turcotti,123 esamina con mentalità di socialista temperato i diritti che a ciascun uomo competono sul frutto integrale del proprio lavoro; Raffaele Conforti124 studia il problema del lavoro da un punto di vista giuridico astratto; un Quaglia considera dottrinalmente il fenomeno dell'associazionismo operaio; il Carpi inizia fin d'ora le sue celebri indagini sulla diffusione del credito; un Giulio si scaglia contro le tasse che colpiscono la povera gente; dozzine di scrittori (Cavedoni, Liberatore, Grimelli, Nobili ecc.) suonan l'allarme contro il socialismo in progresso. Tesi pro e contro il socialismo si trovano svolte, e assai per disteso, nelle trattazioni d'economia d'uno Scialoia (che è un temperato socialista di stato), d'un Boccardo e d'innumeri altri minori (Trinchera, Rusconi, Meneghini). Un di costoro, il Giudice, si protesta antisocialista convinto, ma nel contempo svolge una critica a fondo della società capitalistica e rompe una lancia in pro d'una autoemancipazione operaia e contadina che si potrebbe sollecitare mercè la diffusione del mutuo soccorso. Né è a dirsi se di socialismo non fosse parola nelle troppe pubblicazioni pseudo storiche scritte a fini d'edificazione da penne clerico-reazionarie, tutte in cento modi diversi manipolanti il famoso ricatto del comunismo.

Ma quel che forse colpisce di più chi rievochi le correnti di pensiero prevalenti allora in Piemonte si è il fatto che anche in moltissime pubblicazioni non attinenti alla questione sociale, venute alla luce dal '49 in poi, si trovano pagine e pagine dedicate ad essa come alla più grave preoccupazione del giorno. Di Gioberti e del suo vivo interesse in materia è superfluo parlare125; ma si vedano, a conferma, le opere di Macchi, De Boni, Tuvèri, Mancini126; si leggano, negli Avvedimenti politici del reazionario Solaro della Margarita, i paragrafi dedicati alla sovranità del popolo, alle ineguaglianze sociali, i frequenti apocalittici accenni al socialismo e al comunismo; si veda, tra le Prediche domenicali raccolte in volume dal Bianchi Giovini, quella che tratta del comunismo; si riapra il noto libello di Perego e Lavelli sui Misteri repubblicani, che «nell'attuamento delle società operaie in Piemonte» saluta il «primo gradino al tempio del socialismo».

Perfino l'Enciclopedia popolare consacrava un benigno articolo alla voce Socialisti; perfino un militare, il Roselli, discorrendo della spedizione di Velletri si sentiva tratto a ragionare (o sragionare) sul socialismo; e nelle sue Lezioni di elettricità, o meglio nella prefazione a questo suo libro, il Matteucci, da buon liberale, trovava modo di dare addosso al socialismo.127

Anche i poeti presero la rosolía; poeti come Dall'Ongaro (Libertà e lavoro); come Revere, come Curzio, che piange le ineguaglianze sociali e sogna un avvenire più giusto; come il comunisteggiante Gojarani, che freme dinanzi allo sfruttamento che pochi privilegiati esercitano a danno della «miseranda schiatta»; poetucoli come il Mazzoldi (Il ricco ed il povero)128.

E come fioccavano le traduzioni in lingua italiana di opere straniere pro e contro il socialismo (ma piuttosto contro che pro)! Libri e pamphlets di Thiers, Blanc, Cortez, Schmit, per non citare, fra i tanti, che pochi nomi più illustri.129

Una conclusione, mi sembra, può trarsi da questo arido elenco di nomi, di dati, di libri: e cioè che, dedicandosi allo studio del problema sociale, Pisacane non ha fatto che cedere alla potente suggestione dell'ambiente in cui ha vissuto, sia questo inglese, svizzero o sardo. L'Europa tutta, in quegli anni, vive sotto l'incubo o nella speranza messianica di un imminente cataclisma sociale. Socialista, egli non sta dunque solo e sdegnoso, neanche in Italia, in mezzo a un mondo ignaro dei vizi della società borghese; al suo fianco, o per combattere la stessa battaglia o anche per figurar di combatterla, è anzi in Piemonte, e nella stessa Genova, una frazione non disprezzabile della classe colta, nativa o emigrata; contro di lui, contro di loro è quasi tutta la stampa, espressione dei ceti di governo, che con sproporzionati attacchi li aizza alla lotta; intorno a loro, incapace d'intendere le premesse dottrinarie del socialismo, ma già decisa a conquistare, con l'associazione, col risparmio, con le buone e con le cattive, un miglioramento del proprio tenore di vita, è una élite della classe operaia.130

Pisacane, con la sua Guerra combattuta, dovrebbe avere un posto onorevole tra i socialisti piemontesi. Resta nell'ombra, invece, un po' perché a quasi tutti è stranamente sfuggito il valore del suo libro dal punto di vista sociale; un po' perché gli mancano qualità giornalistiche; ma soprattutto perché, ingolfato nello studio puramente teoretico di un sistema in cui tutto invita all'azione e impone l'azione, egli tarda a rendersi conto che il suo preciso dovere di socialista è quello di «gettarsi» nel popolo. Comunque il suo sogno, dal '51 in poi, resta pur sempre quello di farsi avanti nella battaglia social-politica, d'acquistarvi con la dottrina, più che con la facile audacia dialettica cara agli pseudo socialisti imperversanti nella stampa piemontese d'estrema, la competenza e l'autorità d'un capo, per poi davvero volgersi dal cerchio dei dotti alle moltitudini inerti, e guidarle alla conquista di un mondo migliore e più giusto.

Capitolo ottavo

Raccoglimento

Spentasi l'eco clamorosa e meschina suscitata dalla pubblicazione del suo libro, Pisacane, un po' perché disgustato dalle polemichette astiose, dai malintesi e ripicchi, ma più perché gli preme adesso di approfondire i gravi problemi che ha soltanto sfiorato nella sua Guerra combattuta, muta vita radicalmente. Va ad abitare in campagna (dove, fra l'altro, si spende assai meno), dirada i convegni con gli amici, riduce la sua corrispondenza, e legge, legge, legge. Fervore di vita interiore, quieta serena intimità con Enrichetta, in attesa che il turbine dell'azione — per ora sopito — lo riafferri. «Noi, scrive nel '52, viviamo in campagna ad un tiro di cannone dalla Superba. Amenissimo sito, una buona abitazione per poco ed il vantaggio che il padrone di casa mi ha completamente affidato una ricca libreria, per me risorsa grandissima». La casa sorgeva sul colle di Albaro, poco lungi da quella dei Cadolini, intimi di Pisacane, e dalla villetta «Paradisino» nella quale attorno ai fratelli Orlando solevan riunirsi a conversazione moltissimi loro amici emigrati.

Giudicato dal di fuori, da chi non sapeva capacitarsi che un uomo del '48 potesse trascorrere gli anni fra i libri, in una placida attesa, questo ritiro spirituale di Pisacane poté sembrare dal punto di vista politico indizio di raffreddamento, di rinunzia; e non era. Ogni temperamento ha le sue diverse esigenze. Mazzini, ad esempio, checché protestasse in contrario, non produceva, non era lui, non viveva insomma, se non lo circondava l'affannoso va e vieni degli amici esuli o di passaggio, o non lo elettrizzava il miraggio di un'azione imminente. L'atteggiamento pacato di Pisacane, di molti altri vicini a lui, non poteva perciò non indispettirlo. Li conosceva «italiani» ardenti al pari di lui; come dunque potevano badare ai propri spirituali o materiali interessi, chiudersi o quasi nel cerchio della loro vita individuale, in attesa dei comodi «tempi migliori»? Se l'Austria impiccava e il Borbone colmava le galere, come non sentivano essi l'irresistibile bisogno di balzare in piedi, di gettare il libro, la penna, gli affari, per agire, per gridare al mondo la loro esasperata protesta? «...Amici, concretiamo perdio!... Vogliamo lasciare a mezzo, a furia di discussioni, un duello a morte che abbiamo, con grande apparato di frasi e minaccie, intimato all'Austria e ai nostri padroni?» È vero, essi non condannavano a priori l'azione, anzi, a sentirli, non desideravano altro; ma le condizioni che ponevano alla loro collaborazione, le garanzie che esigevano erano tali e tante che con ciò solo rivelavano appieno la loro intima sfiducia e un crescente pessimismo. Mazzini ora li punge e li esalta, ora pretende di ignorarli e li taccia di imbelli e «neutrali», ora prorompe in disperate catastrofiche previsioni sull'avvenire delle cose italiane affidate a uomini di così fiacca tempra; salvo poi a riaccostarli, a lusingarli, a sottoporre loro un «ultimo» piano, una «ultima base» di intesa. Il perpetuo sfogo contro di loro fa per altro trasparire la convinzione radicata in lui che quel gruppetto di dissidenti, ove avesse davvero voluto, avrebbe fatto incommensurabilmente più e meglio di mille altri rumorosissimi omuncoli che gli si tenevan d'intorno, invariabilmente disposti, loro, ad agire.

Pisacane che fa? Medici è morto? E Cosenz dov'è?131 E Mezzacapo e Gorini e Masi? Faccian di tutto, i fedeli, per smuoverli, pungendoli, «ma in modo amorevole di chi stima». «In tutta Italia v'è un certo fermento, e riescirebbe decisivo, se... i militari di Genova e Torino tornassero nei sensi; ma questo non sarà». Povero Mazzini! «Sono nauseato — scrive una volta — ... La classe media, la cospirazione ufficiale, è pessima... I militari graduati, i più almeno, ostacoli potenti. Dieci di loro che dicessero di esser con me e per movere, spianerebbero le difficoltà... Non vogliono... Siamo frutti avvizziti, diventati marci prima di giungere a maturità. L'azione non è sentita. I migliori... son diventati codardi. Se han fatto belle cose nel '48 e nel '49, tanto peggio per essi ora; ora, sono codardi».

I quali «codardi», rassegnati alla gragnuola, parevan gente che a gran fatica fosse riuscita a sottrarsi a un'influenza potente che per anni avesse paralizzata la loro volontà; a giudicar dal loro contegno avresti anzi detto che temessero di ricaderci da un momento all'altro. Seguitavano a professar reverenza per Mazzini, ma avevan principiato a raffreddarsi con lui, col «tiranno» di Londra, fin dal momento che, radunandosi a Genova, s'eran persuasi dell'importanza cospicua che rivestiva ormai il loro gruppo e per contro della qualità innegabilmente scadente degli emissari ufficiali del mazzinianismo in Piemonte, buoni a nulla se non giungesse loro l'imbeccata di Londra.132 Di Londra, e perché mai? Forse che il legittimo comitato direttivo del moto italiano non risiedeva ormai di diritto fra Torino e Genova, fra le migliaia di rifugiati d'ogni regione che v'avean preso stanza? Fior d'italiani tutti costoro, esperti di carcere di guerra e d'esilio, provatamente all'altezza d'un compito direttivo, dunque. Mazzini, sì, era il migliore tra i veterani del patriottismo italiano, ma non era appunto un po' troppo un veterano, ostinato a imporre nel '50 sistemi d'organizzazione e mezzi di lotta escogitati con successo vent'anni prima ed ora sorpassati? Le istruzioni che spediva dall'Inghilterra non rivelavano forse l'inevitabile distacco suo dalla realtà italiana, un certo che di estraneo, di non commisurato alle necessità del luogo e del momento, di cosa giusta teoricamente, ma stonata, non pratica? Quante volte le sue assicurazioni sulla indubitabile maturità della situazione in questa o quella provincia non s'erano rivelate frutto d'inattendibili informazioni d'uno solo, contrastanti con mille segni palesi a tutti fuori che a lui! Eterno malinteso fra i rivoluzionari di fuori e quelli di dentro: inevitabili accuse incrociantesi d'inerzia a questi, d'imprudenza a quelli. «Questa questione della Direzione diventa esosa, protestava Mazzini. Io dichiaro pormi semplice ed ultimo subalterno sotto quella del primo caporale che sorge e mi dice: organizzo e fo io»; ma poi: «S'io corrispondo come centro, è perché tutti quelli che vorrebbero fare s'indirizzano a me». Non voleva intendere che il dissenso volgeva non solo sulla opportunità o meno di spostare il centro direttivo della cospirazione repubblicana, ma altresì, e anzi principalmente, sulla opportunità o meno di proseguire la sua tattica dell'azione a ogni costo e dovunque: nelle provincie «mature» e in quelle che dormivano, nelle prime perché vi arrideva la speranza del conclusivo successo, nelle seconde perché occorreva pure svegliarle.133 Avrebbe obbedito, sì, a un caporale qualunque, sottinteso però che questo avesse, dall'a alla zeta, le sue medesime idee... E invece questi militari di Genova condannavano aperto lo stillicidio dei piccoli moti da lui messi su, e da un pezzo ripetevano con aria d'importanza che si dovessero concentrare uomini e mezzi, e risparmiarli in attesa d'aver raggiunto un indiscutibile grado di preparazione e che si presentasse un'occasione eccezionalmente favorevole. Bella scoperta! Anche Mazzini diceva così, soltanto che loro non trovavano mai il momento opportuno, e a lui pareva che dieci volte l'anno lo si fosse lasciato sfuggire; per loro le forze non eran mai sufficienti e a lui, per meravigliosa illusione che i disinganni patiti non offuscavan neanche, parevan sempre imponenti. Differiva, insomma, la disposizione profonda dell'animo: se da Napoli, da Milano, dalla Sicilia, s'invocavano aiuti per un moto già stabilito, dovrei io rifiutarmi, domandava Mazzini, in nome della grande iniziativa avvenire? E non assumerei in tal modo la responsabilità del fallimento di quel moto? Rispondevano i dissidenti che a guardar bene si trattava sempre d'iniziativa sua, diretta o indiretta, di spinta originariamente data da lui e che a lui tornava, in seguito, sotto specie d'iniziativa locale; e perciò bisognava boicottarle tutte, queste pericolose proposte partenti dalle varie provincie, a meno che non fossero di tale importanza e non presentassero, già di per sé, tali elementi di probabile successo da rendere opportuna una mobilitazione generale delle riserve del partito. Il giudizio definitivo, comunque, fosse lasciato a loro, riuniti in Comitato militare, a loro esperti in materia.

Mazzini concludeva che se la rivoluzione italiana doveva attendere il beneplacito dei signori ufficiali, tant'era non pensarci più, e acconciarsi una volta per sempre al giogo degli austriaci e del Borbone e del Papa.134

La dolorosa schermaglia si protrasse per anni. Da Londra partivan piani su piani, che i «militari» di Genova invariabilmente bocciavano. Già nel '50, verso la fine dell'anno, Pisacane lamentava che in essi si ripetessero «i passati errori fatali». Nel '51 Mazzini voleva agire in Sicilia: parere contrario. Nel '52 in Lombardia: ma Pisacane e Mezzacapo, pel Comitato, stavan studiando di far qualcosa di serio nelle Due Sicilie (come ben sapevano, del resto, le autorità napoletane).135 I processoni di Mantova, nel dicembre di quell'anno, e il fallimento dell'insurrezione milanese del febbraio '53 (sconsigliatissima, questa, dal gruppo di Genova) non potevano certo rinsaldare i rapporti già tesi tra Genova e «li incorreggibili di Londra», come in una lettera a Pisacane li bollava Cattaneo.136 Tutt'altro: «... Non credere che la fazione mazziniana sia del tutto spenta — scriveva Pisacane medesimo, il 31 di marzo, con freddo distacco, a un suo amico —: essa continua a pretendere il primato. È imminente la pubblicazione di un opuscolo del Mazzini, in giustifica del suo operato, in accusa dei tepidi e codardi, giusta la sua nuova fraseggiatura adottata. Tale fazione non sarà mai nulla, ma ci darà ancora molestia». Povero Mazzini!137

Se i Medici, i Cosenz, i Mezzacapo si erano staccati da lui per le accennate divergenze di natura politica, infastiditi altresì come liberi pensatori o tepidi cattolici dalla sua calda e persistente predicazione di nuovi valori religiosi138, un terzo motivo, anche più grave, valse ad approfondire il dissenso con Pisacane: il diverso atteggiamento intorno alla questione sociale. Nell'affettuoso cenno più tardi dedicato all'amico caduto, Mazzini francamente lo ammise: «Da Genova... ei mantenne corrispondenza con me: corrispondenza liberamente fraterna, come dovrebbe correre fra uomini che sentono la propria dignità, e onorano anzitutto il Vero... E noi dissentivamo su parecchi punti; sulle idee religiose...; sul così detto socialismo, che riducevasi a una mera questione di parole dacché i sistemi esclusivi, assurdi, immorali delle sètte francesi erano ad uno ad uno da lui respinti; e sulla vasta idea sociale... io andava forse più in là di lui».139

«Questione di parole»? Nella Guerra combattuta, è vero, l'argomento non era stato gran che approfondito; ma durante il soggiorno di Genova, né Mazzini poteva ignorarlo, l'evoluzione di Pisacane a sinistra era stata continua e decisa, come si rileva dalle sue lettere. Giustissimamente osservava Mazzini esser il socialismo espressione elastica sotto cui poteva celarsi, e si celò e confuse stranamente in quegli anni, la merce più varia; ma era gratuito cacciar così nel folto mazzo degli pseudo-socialisti Pisacane, che alla palingenesi sociale rivoluzionariamente imposta dalle classi lavoratrici ai ceti privilegiati credeva davvero.

«Sulla vasta idea sociale io andava più in là di lui». Era esatto? Non troppo: Mazzini, si sa, era un riformista temperato; pur sostenendo la necessità di un profondo mutamento nell'assetto sociale, non lo concepiva altrimenti che come frutto d'un lento processo evoluzionista imperniato sul cooperativismo operaio e sulla diffusione del credito; secondo lui, non si trattava tanto di distruggere i fondamenti della società borghese quanto di soppiantarli in progresso di tempo, creando e incoraggiando la formazione di nuovi aggregati sociali, di nuove forme di proprietà che in un futuro più o meno remoto sarebbero state le sole ad avere esistenza legale. Egli contava sull'appoggio della borghesia per l'emancipazione dei lavoratori, non aveva idee intorno al problema del proletariato agricolo, non considerava le conseguenze sociali della nascente grande industria: quando diceva lavoratori intendeva artigiani; protestava contro ogni sistema che portasse attentato alla libertà individuale.140

Pisacane — basta per questo leggere la Guerra combattuta — vedeva le cose in modo radcalmente diverso: negava la collaborazione di classe, concepiva il rinnovamento sociale unicamente come portato d'uno sforzo violento, intransigente, integrale del proletariato contro la ferrea cornice della società borghese. L'evoluzione pacifica era per lui una furba invenzione della borghesia timorosa d'esser detronizzata.

Cosicché se Pisacane diffidava, in terreno sociale, del pacifismo mazziniano, Mazzini, più vecchio, e che conosceva da vicino la storia di molti estremisti, sinceramente credeva, a conti fatti, d'esser più socialista lui, che da dieci anni additava ai lavoratori quel suo programma moderato e immediato, corrispondente alle loro effettive condizioni morali e materiali, che non il suo bollente amico e tutti gli apostoli del socialismo integrale, i quali, agitando miti estremisti e propinando assurde illusioni alle masse, le inducevano a perdere i concreti benefici dell'oggi per le nebulose fantasie del domani.

Il dissenso era grave, ma forse sarebbe rimasto in sordina ove Mazzini non avesse, proprio nel '51, avvertito la necessità di reagire contro la moda del socialismo, imperversante sul continente. Quanti non la pretendevano a socialisti che poi, se avessero davvero veduto scatenarsi la guerra di classe, prender piede gli scioperi o anche soltanto tentarsi qualche esperimento cooperativo su larga scala avrebbero mostrato d'urgenza sotto la maschera progressista il ceffo conservatore! Bisognava bucare questa vescica, pericolosa, per le sorti della democrazia europea, la quale, disperdendosi in cerca di pretesi ideali assoluti, finiva, come sempre accade, col trascurare gli immediati urgenti doveri che le incombevano.

In due manifesti lanciati rispettivamente a nome del Comitato centrale democratico europeo (1° giugno) e del Comitato nazionale italiano (30 settembre), Mazzini s'affrettò dunque a precisare fino a qual punto socialismo e democrazia fossero termini compatibili, quale potesse essere in altre parole il programma massimo d'un democratico in terreno sociale. Riverniciate, le vecchie sue formole suonavan nuove (abolizione della miseria, eguaglianza economica e via discorrendo), ma in ultima analisi eran sempre le stesse, d'un moderato che non crede ai miracoli: più eque relazioni fra contadini e proprietari, fra operai e capitalisti, imposta unica sul reddito, incoraggiamento alle associazioni operaie, scuola di Stato, semplificazione dell'organismo giudiziario. Chi uscisse di lí, chi predicasse sovvertimento delle condizioni sociali, adozione di sistemi violenti ed esclusivisti, tradiva la democrazia. Un'aggiunta, per gli italiani; appena compiuta la rivoluzione politica, ci si affrettasse a dar fuori provvedimenti di sollievo per le classi più povere, che il popolo realizzasse subito «che la rivoluzione s'inizia per esso».

A Pisacane, che non sognava allora se non rivoluzione sociale e non vedeva intorno a sé che inique ingiustizie da vendicare («Qui, aveva scritto a un amico in febbraio, si sono date feste che hanno costato 18 000 franchi, mentre tanti muoiono di fame; sono cose che fanno venir la febbre»), a Pisacane il programma mazziniano parve naturalmente un palliativo ridicolo. Si sfogò con Dall'Ongaro: «il dire più eque le condizioni fra contadino e proprietario, fra capitalisti e operai non ammette che due casi: o P.(ippo) crede possibile risolvere il problema sociale senza abolire la proprietà, ed allora non ha studiato a fondo la società presente; o P. parla così per non intimidire i proprietari, e allora simula; ciò non è da rivoluzionario... Ho studiato con assiduità (e non ho ancora terminato) tutti gli economisti e i socialisti e ti assicuro che per ottenere ciò che vuol P. non ci è mezzo termine; gli strumenti del lavoro debbono essere in comune. Perché temere di parlar chiaro, perché non fare tra le masse una propaganda di questo genere, la quale è facilissima?»

Mazzini avrebbe potuto domandare a Pisacane perché mai non la iniziasse lui, tale propaganda, se gli pareva utile. Pisacane avrebbe probabilmente risposto che nel momento era tutto assorto nell'esame teorico della questione, nella lettura di opere d'economia, di storia, di filosofia, da Vico a Pagano, da Filangieri a Galluppi, da Beccaria a Romagnosi fino a Leroux, a Blanc, a Proudhon, ma che era ben deciso, una volta ferratosi nelle sue convinzioni, a rilanciarsi nell'agone politico. Comunista o collettivista, proudhoniano o d'altra scuola ancora, d'una cosa era certo: che le mezze misure non conducono a nulla e che il mondo, per progredire, ha bisogno di scosse.

L'urto fra i due in materia di politica sociale s'inasprí ancora nel seguito: nel '51 Mazzini era pur sempre, per Pisacane, il vecchio amico Pippo; dal '52 in poi non lo fu più. Pareva adesso che un vero furore antisocialista si fosse impadronito di Mazzini, folgorante scomuniche ai novissimi eretici. Quando mai aveva trovato accenti tanto vibranti e sdegnosi nella sua carriera rivoluzionaria? Mazzini alleato della reazione, Mazzini «dall'altra parte»: era uno spettacolo doloroso davvero.

Il nuovo manifesto del Comitato nazionale italiano (gennaio '52) e poi il vivacissimo scritto Doveri della democrazia (marzo) erano infatti requisitorie spietate. Onta ai socialisti per aver preteso ridurre «alle proporzioni di un problema economico... l'immenso moto delle generazioni anelanti unità di progresso, d'educazione, di fede»; onta a loro per aver spenta nel popolo ogni idea di dovere, ogni virtú di sacrificio; per avere identificato il «nome santo» di repubblica col concetto e la pratica della guerra di classe, con un impossibile annientamento della borghesia; onta ai socialisti francesi responsabili della vergognosa acquiescenza del «popolo iniziatore» alle baionette napoleoniche; onta e rimorso per avere, nell'epoca sacra alla ricostituzione delle nazionalità, infiacchito, per quanto potevano, ovunque, l'amore di patria. Sono essi che, ponendo come fine alla vita anziché il compimento d'una missione la bruta ricerca della felicità, che sospingendo l'operaio all'egoismo borghese, hanno tradito con la Francia il moto di rinnovamento europeo.

Manifesti e scritti se non in tutto equanimi, certo tra i più ispirati commossi e impetuosi che Mazzini avesse mai dettato:141 corsero in un baleno l'Europa, suscitando infiniti commenti, aspre risposte polemiche, goffe adesioni.142 Rabbiosa, s'intende, la reazione dello stato maggior socialista esule a Londra contro l'antico compagno di lotta, rivelatosi in quel triste frangente — dicevano— strumento e complice delle vendette borghesi. Perfino Ledru-Rollin, suo braccio destro nel Comitato europeo, trovò inescusabile che Mazzini avesse atteso la tragica dispersione della democrazia francese per assalirla a quel modo. Tra i radicali italiani, grande emozione, battaglia accanita d'opinioni discordi: a Parigi i più giurano che Mazzini è ammattito, a Torino, a Genova non si discorre d'altro; la madre del grande proscritto teme più adesso per l'incolumità di suo figlio che non mai per l'innanzi! Quanto a Mazzini, egli soffre piuttosto per le interessate lodi di certa stampa che non pel cumulo d'ingiurie che gli piovon sul capo. Ha la coscienza tranquilla: amare sì le verità che ha detto, amarissimo il dirle, ma avrebbe mancato al suo dovere tacendo. Bisognava pure che i lavoratori d'Europa sapessero che mentre il tiranno francese legava la nazione per le mani e per i piedi, la democrazia socialista seguitava a cianciare di giustizia sociale e gli operai imperturbabili a occuparsi di questioni salariali: a tanto, al dispotismo cioè, conduceva senza fallo una dottrina che predicava l'indifferenza per le sorti della lotta politica.

Stesse del resto la Francia, da tempo imbarbarita e corrotta, contenta del suo stato; l'essenziale era che l'esperienza sua (dalla repubblica sociale alla reazione militare) non servisse di comodo pretesto ai ceti conservatori di tutta Europa — Mazzini naturalmente pensava soprattutto all'Italia — per riprendere su vasta scala le note speculazioni sulle «inevitabili» degenerazioni dei regimi liberi. Questione di vita o di morte, dunque, per la democrazia, una volta isolato il caso francese e diagnosticatone il male, segnalarne agli altri popoli, perché potessero combatterli, i germi epidemici.

Pisacane dissentiva toto cœlo: ma a che pro polemizzar con Mazzini? A che pro farsi avanti a dimostrare ad esempio, contro di lui, doversi i guai di Francia, anziché al dilagare del socialismo, alla debolezza di quel movimento in un paese dalla borghesia strapotente? A che pro? Era ormai così lontano da lui in tutte le questioni importanti, così diversamente orientato! Gli pareva che Mazzini, nuovo Giosuè, pretendesse fermare il corso del sole: il sole, avanzando, avrebbe folgorato, nonché Mazzini, tutti coloro che credevano di potere inchiodare l'umanità a ideali e valori sorpassati, incapaci di guardare innanzi, incapaci d'intendere le esigenze e le aspirazioni delle nuove generazioni. Meglio era dunque lasciare che i «vecchi» (Mazzini era sulla breccia dal '30!) sfogassero la loro vana stizza perché i giovani li disertavano, e impiegare il proprio tempo a studiar le vie del domani: radicare le proprie convinzioni nel profondo terreno del passato per acquistar la certezza di saperle poi, quando scoccasse l'ora d'agire, adattare alla tempra degl'italiani, e anche per cercarvi la conferma di certe nuove intuizioni sul meccanismo sociale balenategli nell'osservare la vita moderna.

Nessun desiderio di polemica, molto di solitudine e di raccoglimento. Il naturale distacco dalle cose dell'oggi che prende chi abbia d'un tratto scoperto l'immensità delle cose che furono. E anche quando lo riafferra il giuoco della politica attuale, gli piace intrattenersene con uomini che siano anch'essi un po' distanti dalle meschinità della lotta, al di sopra della mischia, differenti insomma da questi «insopportabili mazziniani» che pretendono occuparsi di tutto, dettar legge a tutti e che vivono nella certezza che niente accada in Italia se non voluto e predisposto da loro.

«Pisacane, che ho promosso e sostenuto fino a farmi nemici, s'è raffreddato con me — constata, non senza amarezza, Mazzini, — credo, perché l'ho biasimato d'aver detto male di Garibaldi: poi per nozione d'indipendenza personale proudhoniana e materialismo teorico».143

Cattaneo, Ferrari, Franchi, Macchi, queste le costellazioni più luminose nel cielo pisacaniano dopo il tramonto, che sembrava definitivo, dell'astro Mazzini: era il gruppo dei federalisti, la cui produttività dottrinale cresceva di pari passo con la sua impotenza e inattività politica.

La corrispondenza tra Pisacane ed essi corse fitta in quel tempo, e svariata: sulle cose d'Italia e d'Europa, su libri, su uomini, su idee, su quel che era stato e su quel che sarebbe.

Era logico che Pisacane studioso si avvicinasse sempre di più alla loro sonante officina intellettuale: non che quei quattro andassero in tutto d'amore e d'accordo, né che egli fosse disposto ad accettare come infallibili oracoli le loro sentenze; tutt'altro. Ma c'era in essi perenne novità d'idee, c'era fervore, c'era l'afflato di una cultura sollecita di conservarsi aggiornata e sopranazionale; c'era una spregiudicatezza totale di principii, e, in seno al gruppo, nessuna necessità di disciplina. Chi poi contribuiva ad unirli era... Mazzini: il quale, con i suoi seguaci, serviva da bersaglio alle loro frecciate epistolari. C'era da sentirlo, ad esempio, Cattaneo, quando gli pigliavan le furie per qualche nuovo colpo inscenato da costoro! «Non s'accorgono — scriveva a Pisacane dopo "le sterili sventure di Mantova" — non s'accorgono che un intervallo di tre anni ha già mutato totalmente le cose materiali, che qualunque siffatta impresa, se potesse riescire, non sarebbe altro che una calamità. Ma essi hanno la dottrina del martirio, stolta e scellerata, e sciupano carte, che, giuocate a luogo e tempo, avrebbero potuto essere preziose... Dicono: azione e silenzio. L'azione è un assurdo, e il silenzio è un tradimento». E concludeva: «Dai professori di rivoluzione non s'intende come le rivoluzioni e le stagioni non sono al comando dell'individuo, e si pretende farle nascere a forza».

Ferrari rincarava la dose; già nell'autunno del '51 s'era dato un gran daffare per un iracondo manifesto antimazziniano del gruppo federalista; nel gennaio seguente, lamentando il colpo di Stato napoleonico, trovava ragione di conforto nel fatto che Mazzini, addossandone la colpa alla democrazia, si fosse una volta per sempre screditato agli occhi di quella; nel maggio se l'era presa col buon Mauro Macchi (che nell'Olimpo federalista rappresentava la divinità più mite e indulgente, ma insieme di minor forza creatrice) perché, pur contrario a Mazzini, aveva osato difenderlo dalle accuse grossolane dell'abate Gioberti.144

Il qual Ferrari era socialista, ma aveva agli occhi di Pisacane, fra tanti meriti d'originalità e d'ingegno, la colpa di veder tutto dal punto di vista francese e di pretendere che Parigi fosse il cervello del mondo. Aveva scritto per esempio a Cattaneo nel settembre '50, e ribadito l'anno di poi nella sua Federazione repubblicana, doversi il concetto della rivoluzione italiana trasformare in conformità delle nuove ideologie rivoluzionarie prevalenti in Francia; farsi socialista, cioè; dovere inoltre i rivoluzionari italiani contare sull'intervento armato francese (o meglio proporsi di determinarlo) come sull'unica probabilità seria di successo per la causa loro. Pisacane, che pure ammirava devotamente come il Ferrari scrittore, rara avis in Italia, camminasse «diritto alla ricerca del vero», trasecolava: sarebbe stato dunque inevitabile per l'Italia «il subire la dittatura francese»? Neanche per sogno: «si supponga sgombro il suolo italiano dagli stranieri, e si paragoni quale delle due nazioni, la Francia o l'Italia, sia più prossima alla rivoluzione sociale... Tanto in Francia come in Italia la potenza è rappresentata dal popolo, la resistenza dalla borghesia; ed egli è fuori dubbio che il rapporto fra queste due forze mostra che l'Italia potrebbe rompere l'equilibrio con maggiore facilità... La Francia non avrà (dunque) bisogno d'inviare i suoi eserciti, perocché le idee valicheranno le Alpi prima delle sue armi, e basteranno a compiere la rivoluzione italiana».145 È vero, soggiungeva più tardi a Cattaneo, che nella corsa al progresso civile un terribile svantaggio grava sull'Italia rispetto alla Francia per l'inferiorità della sua cultura politica e sociale; pure, fra le due nazioni, l'Italia si presenta indubbiamente più matura alla rivoluzione sociale se non altro per l'inveterato distacco della popolazione dalle oligarchie di governo.

Tutt'altro che supina adesione alle tesi del Ferrari, si vede, o a quelle consimili professate dal Franchi, il quale non per nulla, lasciando con la tonaca il suo vero cognome di Bonavino, s'era prescelto quello pseudonimo. Giusto era però riconoscere a entrambi (contro ai mazziniani ortodossi che non si davan neanche la pena di confutarli, parendo loro che a liquidarli per sempre bastasse lo spargere ch'erano antiitaliani) il grandissimo merito di mettere in circolazione, di «muovere» delle idee.

Ma più complesso e profondo e concreto di Ferrari — grande in una parola — era comunque, per Pisacane, Cattaneo. Voi — gli scriveva un giorno — «siete disceso dalle nuvole ed avete iniziato sul versante delle Alpi la scienza che speriamo irradierà un giorno l'Italia!» Prezioso privilegio dunque quello di carteggiare con lui sulle questioni del giorno, e di sorprendere nel travaglio stesso della sua elaborazione, ancora incerto e indagante, quel suo acuto pensiero che poi, negli scritti dati alle stampe, si concretava sempre in espressioni così ammirevolmente chiare e definitive. Prezioso privilegio quello di sottoporre a lui, familiarmente, dubbi teoretici e questioni difficili: ad esempio, come conciliare le opposte esigenze d'unità e insieme di libertà federale, proprie a una nazione moderna? Se «la centralizzazione è il dispotismo (e) la federazione è la debolezza», come mai potrà salvarsi la libertà, soffocata dall'una, compromessa dall'altra? (gennaio 1853). Cattaneo, rispondendo, dava sempre l'impressione di un vento robusto che liberasse il cielo dalle nebbie vaganti.

Eppure, per quanto Cattaneo intendesse come pochi in Italia l'importanza capitale del fattore economico nella storia, Pisacane non poteva non lamentare il suo disinteresse quasi assoluto pel problema sociale, il disinteresse d'uno che si sarebbe detto non ne avvertisse neanche la crescente influenza nel mondo moderno. Stupenda ad esempio e azzeccata nelle sue previsioni la lettera che aveva ricevuto da lui di commento al colpo di Stato napoleonico, la quale terminava invitandolo a prepararsi a prossime guerre. («Io sono quinquagenario e togato, e sto a vedere. Voi siete giovane e soldato, se vi sono uova rotte dovete avere una mano sulla frittata»); ma come poteva Cattaneo limitarsi a trarre da quell'avvenimento illazioni meramente politiche, come mai non ne scorgeva le sintomatiche premesse e derivazioni sociali? Pisacane, a vero dire, non aveva occhi che per quelle, e non vedeva chiare che quelle: «Credo che hai veduto col fatto, scriveva a Dall'Ongaro, che le masse non si battono più per servire l'ambizione di pochi, le masse quindi si muoveranno spinte dal solo miglioramento materiale, e che la sola rivoluzione possibile in Europa, è la grande rivoluzione sociale; è la spogliazione della borghesia, come fu quella della nobiltà nell'89. Credi tu che in Lombardia le masse correrebbero alle armi come vi corsero nel '48? Vane speranze; la bandiera che potrà muoverle è solo quella dell'abolizione della proprietà... Il popolo si muoverà solo quando vuole, quando le idee sono mature, e non già quando gli altri vorranno».146 Aveva proprio la fissazione della rivoluzione sociale! Ma sul terreno politico era miope lui quando, a Cattaneo che s'aspettava l'impero e prossime crisi sul Reno e sul Po quali conseguenze inevitabili del 2 dicembre, opponeva esser Napoleone un omuncolo troppo inferiore a sì gran compiti; ché se poi i fatti lo smentissero e nascesse per davvero la guerra, «mi sentirete in campo... Vivo sempre di questa speranza e attendo con pazienza».

Beato nel suo ritiro, assorto nelle sue gravi letture (cui sempre seguivano copiosissimi appunti), Pisacane faceva tuttavia frequenti gite in città, sia per impartirvi quelle poche lezioni, sia per incontrarvi gli amici, sia per fruire della possibilità, preziosa per lui che s'andava facendo ormai scrittore di professione, di partecipare alle manifestazioni della vita culturale cittadina. Non se ne sa gran che; ma è probabile, ad esempio, che seguisse in qualche modo i lavori di quella Accademia di filosofia italica,147 un po' circolo di conferenze e conversazione, un po' anche casa editrice, che il Mamiani aveva fondata intorno al '50 e della quale era membro, col Bonghi, col Boccardo e con molti altri, il Conforti, intimo di Pisacane; il quale forse da quell'ambiente studioso, seppure politicamente moderato, trasse gusto e abitudine alle letture di filosofia.

Nel '51 Ausonio Franchi, terminata la sua Filosofia delle scuole italiane,148 sorta di manifesto del razionalismo filosofico destinato a far chiasso e per la novità della tesi e per il brio dello stile e per la impeccabile stringatezza del ragionamento, la lesse a una cerchia d'amici e simpatizzanti tra i quali era il Macchi: è abbastanza probabile che Pisacane fosse del numero. Come anche che s'adunasse più volte con altri emigrati per leggere e commentare quella Filosofia della rivoluzione del Ferrari, che sotto il grave pondo e dello stile e della mole e nonostante l'esposizione prolissa, serbava anche ai profani pagine suggestive e piene d'interesse, specialmente laddove trattava del problema sociale.

A Genova eran poi biblioteche e giornali; e i giornali a quel tempo erano di solito, prima che fogli stampati, salotti politici e letterari.

Ancora nel '51 si costituí un Comitato dell'emigrazione italiana, indipendente da quello ufficiale funzionante a Torino. Pisacane di certo se n'interessò, tanto più che aveva colore repubblicano anzi che no e che v'avevano parte cospicua i due suoi amici Medici e Conforti.149

Nel giugno-luglio '52 si trattenne per qualche settimana a Genova il celebre rivoluzionario russo Alessandro Herzen:150 era intimo di Medici, legato a molti altri emigrati italiani da lui già conosciuti nel '49 in Isvizzera. Vide assai spesso Pisacane col quale discusse a fondo della situazione napoletana e, verosimilmente, del problema sociale. Herzen, che tra gli amici italiani si trovava a tutto suo agio e che ne ammirava sinceramente le istintive doti rivoluzionarie, scrisse più tardi in termini di vero entusiasmo per Pisacane. Ma chi potrebbe precisare fino a qual punto i contatti con Herzen non incoraggiassero l'evoluzione a sinistra del «romito» di Albaro?

C'era insomma, vivendo alle porte di Genova, di che riempire utilmente le proprie giornate, quand'anche i politicanti frenetici tacciassero Pisacane d'inconcludente e d'ozioso.

Sui primi del '53, una profonda emozione (che da Napoli condivideva, affettuosa, l'unica sorella di Pisacane, e con essa un suo figliastro professantesi ammiratore delle di lui prodezze rivoluzionarie): Pisacane è doventato babbo; è nata una piccola Silvia.151 Ma da quante ambasce non venne turbata la gioia della paternità: tormento della cresciuta penuria, ora che le bocche da sfamare eran tre e s'era dissipata la speranza, da qualche tempo nutrita, di ottenere una cattedra nel liceo di Lugano, auspice Cattaneo;152 meschinità burocratiche per la registrazione di Silvia, figlia illegittima e negata al battesimo: figurarsi, nel Piemonte cattolicissimo! Si dovette ricorrere a un notaio che attestasse lui, per atto civile, esser la bambina venuta alla luce. Ma Pisacane, fedele ai dettami di quella scuola del libero pensiero razionalista la quale andava in quegli anni combattendo in Italia le sue prime battaglie, si proclamò orgoglioso di avere impedito che il piccolo essere ignaro ricevesse il suggello d'una fede imposta. Sentiva d'averne difeso, lui padre, la libertà.

Ahimè, poca salute fin da principio, povera Silvia, delicata creatura votata a una grigia vita di dolore e di rinunzia. E se non era il Bertani amico dei Pisacane, gran patriota e più gran medico, a prenderne cura, la malattia gravissima che presto la colse e ne minacciò l'esistenza per quasi sei mesi se la portava via di sicuro.153 Sei mesi di angoscia per Enrichetta, sei mesi di doppia ansietà per Pisacane: commossa riconoscenza d'entrambi, a guarigione avvenuta, per l'amico salvatore.

Agli affanni domestici si aggiungevano, non meno preoccupanti, quelli politici: la tempesta furiosa scatenatasi, in conseguenza dei moti milanesi del 6 febbraio, contro gli emigrati in Piemonte. Espulsioni a bizzeffe, tra gli altri del buon amico Macchi, del Crispi, del Maestri; molte altre minacciate e tenute in sospeso; ingiunzione a più d'uno fra i nullatenenti d'andarsene, e sia pure col viaggio pagato, in America; verifica severa dei permessi di soggiorno, e finalmente la proibizione generale odiosissima, che convertiva l'ospitalità in confino, di allontanarsi per qualsivoglia motivo dal comune di residenza.154 Un'ira di Dio: per fortuna durò poco. Sta bene che bisognava pur dare qualche soddisfazione all'Austria la quale pretendeva che il 6 febbraio fosse stato preparato entro i compiacenti confini sabaudi; ma il governo di Torino uscí giustamente malconcio, nonché dalle censure degli emigrati (estranei i più o, se consapevoli, contrari all'ultima impresa mazziniana) da
quelle, indignate ed unanimi, della democrazia piemontese.

Tanta tempesta non impediva affatto che gli emigrati di Genova, simili in questo ai loro colleghi d'ogni tempo e paese, si dividessero in gruppi e gruppetti antagonistici, un po' per varietà di programmi politici, un po' anche per più meschine ragioni: qualche volta pareva che stessero là non tanto perché impegnati a condurre la lotta contro i governi che li avevano espulsi, sibbene contro i loro propri compagni di causa! Il guaio era che avevano tutti molto tempo da perdere e poco o niente da fare.

Nel '53, ad esempio, levò clamore e suscitò polemiche senza fine un libercolo stampato dal general Roselli a propria difesa intorno alla Spedizione e combattimento di Velletri. Dallo scrittore in fuori nessuno che fosse nominato in quelle Memorie se la cavava con meno di un'acida nota: bistrattato, s'intende, anche Pisacane, suo ex capo di Stato Maggiore.155 Pisacane, che del resto non aveva lusingato il Roselli nella sua Guerra combattuta, sferrò d'urgenza il contrattacco con un precisissimo articolo pubblicato in tre numeri della Voce della Libertà di Torino156. Seguí, sullo stesso giornale, una violenta stroncatura di Pisacane a firma d'un tal Massimino Trusiani.157 Ma la testa di turco del Roselli era l'eroe di Velletri, Garibaldi, contro il quale le parole usate eran grosse. Inde irae, battibecchi personali, un finimondo nella stampa democratica. Il 4 agosto 1854, sull'Italia e Popolo, uno sprezzante comunicato di Garibaldi; il 15 una contro dichiarazione di «alcuni ufficiali della repubblica romana» (Pisacane?); il 20 Roselli, senza peli sulla lingua, rincara la dose: la condotta di Garibaldi a Velletri fu «un delitto... certamente più complicato e peggiore di quello del generar Ramorino in Piemonte». Garibaldi infuriato lo manda a sfidare, Roselli... non accetta; e quando gli dànno del vigliacco e bugiardo, senza scomporsi risponde che coi rodomonti a corto di ragioni è inutile battersi.158

Se i pezzi grossi trascendevan così, figurarsi la truppa minuta. E tutto ciò con la presunzione sincera di giovare alla causa italiana, tutto ciò nonostante che non scarseggiassero soggetti di grave e giustificata preoccupazione collettiva. Il '54, infatti, fu l'anno del colèra: un colèra tremendo che infuriò nell'estate e mieté vittime a migliaia dappertutto in Europa, ma a Genova con particolare violenza, assottigliando paurosamente le fila degli emigrati.159 Straordinari servigi rese in quell'occorrenza un'associazione di soccorso gratuito ai colpiti che subito si costituí tra gli emigrati medesimi, offrendosi molti o come medici o come infermieri. Cessato il morbo, l'associazione non venne disciolta, ma trasformata (nel novembre del '54) col nome augurale di Solidarietà nel bene, in un circolo permanente d'assistenza ritrovo e lettura. Centotrentatre gli invitati alle prime adunanze, e Pisacane e molti amici suoi naturalmente tra quelli; ma socio effettivo Pisacane non divenne mai «unicamente perché essendo povero non si sentiva di potersi obbligare alla modesta tangente».

Al colèra si aggiunse la minaccia imminente di una guerra europea. Precipitava infatti la crisi orientale, Russia contro Turchia, e poi Francia e Inghilterra contro la Russia; Austria ondeggiante: febbrile ansietà negli ambienti politici. Una bufera di quella sorta poteva sconvolgere la carta d'Europa!

Febbraio '55, la guerra per davvero.

8 marzo, Cattaneo a Pisacane: «Ne capite qualche cosa?... Vi par possibile che questo vortice di tutti i venti passi rasente l'Italia, senza toccarla? E se la tocca, dove sarà? e dove, e quando, e come sarà?... Dopo il turbine chi resterà in piedi?... Il talento è inutile... e li occhiali sono un impaccio, se ogni volta che si ha maggior voglia di vedere dove il diavolo ci porta è proprio quello il momento che si deve rimanere a occhi chiusi».

Ma se Cattaneo era al buio, figurarsi Pisacane; il quale una cosa sola allora capiva, che cioè quella guerra, in sé e per sé estranea affatto agl'interessi italiani, avrebbe forse potuto fornire un'occasione preziosa per la soluzione italiana della questione italiana: distraendo l'attenzione di Francia e d'Austria dal famoso equilibrio nella penisola, così caro ad entrambe, e soprattutto decongestionando l'Europa di truppe. Non aveva egli scritto quattr'anni innanzi che, supposta l'Italia sgombra dagli stranieri, non era poi tanto difficile di provocarvi lo scoppio della rivoluzione integrale? Perciò a Cattaneo che lo incitava a partir per la guerra «poco importava se coi Turchi o coi Russi, purché potesse acquistarvi esperienza delle guerre grandi e reputazione», egli rispose di no: quello era un momento da non lasciare l'Italia.160

Né egli solo la pensava così: era presentimento abbastanza diffuso, seppure indeterminato, che da quel conflitto anche a noi sarebbe derivato qualcosa. Ridda di vaticini; ma certo eran pochi quelli che s'aspettavano la mossa del ministro Cavour, partecipazione cioè del Piemonte alla guerra a fianco delle potenze occidentali. Colpo di genio che la parte democratica, in blocco, fraintese, scagliando contro di esso il furore appassionato delle sue proteste. Lo sconfitto del '49 alleato dell'Austria? Era dunque la diserzione definitiva dall'impresa italiana ed antiaustriaca! Al punto che, quando l'intervento sardo venne irrevocabilmente deciso (con soli trentun voti di maggioranza alla Camera e venticinque al Senato), e s'apprestò il corpo di spedizione, né Mazzini né la maggior parte dei repubblicani piemontesi o emigrati dubitaron di gridare al tradimento e di sobillare i soldati perché gettassero i fucili:161 «Quindicimila fra voi stanno per essere deportati in Crimea. Non uno forse tra voi rivedrà la propria famiglia... Morrete senza gloria... L'ossa vostre biancheggeranno, calpestate dal cavallo del cosacco, su terre lontane né alcuno dei vostri potrà raccoglierle e piangervi sopra...» Ingiustificabile eccesso, d'accordo; non era da Mazzini l'appello alla paura! Ma, d'altra parte, non lasciava tanto furore comprendere come, nonostante l'antipiemontesismo ufficiale, i rivoluzionari contassero ancora, per risolvere la questione italiana, sull'esercito sardo? Protestavano perché, mentre l'Italia era in ceppi, si mandassero quegli uomini a servire una causa lontana: non era questa una confessione preziosa? Se costoro fossero stati repubblicani al cento per cento, non avrebbero salutato con gioia, dopo l'impegnarsi dell'Austria in quella guerra lontana, l'impegnarsi anche dell'«altro nemico»?

Partito il contingente sardo, comunque, la via da seguirsi per i rivoluzionari parve chiaramente tracciata: profittare della situazione per riprendere in pieno, con disperata energia, il bombardamento d'insurrezioni in Italia. Per l'ennesima volta ecco Mazzini ripetere il suo ora o mai; furono in molti, anche fra i dissidenti di ieri, anche fra i «militari di Genova» che finalmente risposero: siamo con voi. Ma nessuno dimostrò, nel riaccostarsi a Mazzini, più lieto slancio di Pisacane.

Dopo tanto blaterare contro il «tiranno di Londra» gli ex dissidenti eran dunque già tutti a Canossa?

Niente Canossa, nessuna rinuncia ideale, né di qua né di là: le profonde divergenze dottrinali e di metodo che avevano scisso il movimento repubblicano d'azione sussistevano ancora; e i dissidenti stringevan la mano non a Mazzini individuo, ma al capo responsabile d'un grande partito politico. Alla necessità di una tregua, anzi di una azione comune s'era giunti da ambo le parti dopo un coscienziosissimo esame della situazione italiana quale si era venuta sostanzialmente modificando negli ultimi tempi.162

E infatti qual era sempre stato il postulato fondamentale comune ai due gruppi? Quello che esigeva, si sa, una soluzione rivoluzionaria e unitaria del problema italiano. Orbene la consultazione anche superficiale del barometro politico nell'anno '55 indicava invece una tendenza chiarissima verso soluzioni di compromesso per giungere a un sistema di monarchie costituzionali più o meno federate. Bastava, per constatarlo, osservare cosa stesse accadendo in quelle tre regioni della penisola nelle quali lo statu-quo si era costantemente mostrato più instabile e che perciò erano state sempre considerate come probabili focolai d'una crisi rivoluzionaria: il Lombardo-Veneto, gli Stati Romani, le Due Sicilie.

Nel Lombardo-Veneto, un po' per la migliorata situazione diplomatica dell'Austria, un po' per la diminuita tensione dei suoi rapporti col regno sabaudo (alleanza antirussa), lo statu-quo appariva evidentemente più incrollabile che mai; l'unica lontana possibilità d'un suo mutamento era legata a un accordo europeo, in base al quale l'Austria si fosse piegata a una cessione totale o parziale dei suoi dominii italiani al Piemonte, in cambio di compensi territoriali in altre regioni. Comunque, niente da fare per il partito rivoluzionario nella pianura del Po.

Negli Stati Romani, retti da un governo sempre più screditato e inceppato nel suo funzionamento, lo statu-quo era solidamente assicurato dalle baionette francesi; anche qui, dunque, nessuna speranza.

Nelle Due Sicilie, che il cronico malcontento dei ceti medi, la ridda dei processi politici, l'infortunio Gladstone, l'isolamento diplomatico se non proprio l'abbandono delle potenze, designavano come l'epicentro probabile d'un eventuale terremoto rivoluzionario, principiava a prender piede e a raccogliere larghe adesioni una soluzione antirivoluzionaria (seppur violenta) appoggiata, così pareva, a Parigi e a Torino: la restaurazione della dinastia dei Murat.

Il partito rivoluzionario si vedeva così minacciato nelle sue finalità dal pericolo che, ovunque in Italia, la prepotente aspirazione degl'italiani coscienti a un ordine nuovo, anziché servir di lievito a un risorgimento integrale, venisse cloroformizzata e spenta per mezzo delle così dette transazioni realistiche, di baratti, di pateracchi principeschi. Era la missione d'Italia che in tal modo si smarriva, era il sogno unitario che crollava forse per sempre, erano gl'italiani sottratti alla dura formativa scuola del sacrificio. Di fronte al moltiplicarsi delle iniziative dall'alto e al crescer del loro prestigio, cadeva dunque, necessariamente, ogni dissenso tra i rivoluzionari sul fare o non fare immediato; c'era il caso, se si aspettava troppo, di trovarsi un bel giorno innanzi a irrimediabili fatti compiuti, venissero questi da un Napoleone o da un Cavour o da un Murat o da un convegno di Ministri degli Esteri. Occorreva quindi reagir prontamente, precipitando uno scoppio rivoluzionario in quel Mezzogiorno che, nonostante tutto, si presentava ancora come l'unica terra italiana nella quale gli agitatori potessero riporre un filo di speranza; per fortuna la soluzione Murat non era affatto sentita in Sicilia. Ma non c'era tempo da perdere: se alla caldaia napoletana si lasciavano applicare valvole di sicurezza Murat, la partita era definitivamente perduta.

Di tutto ciò Mazzini si rese conto con perfetta lucidità tra il cadere del '54 e il principio del '55; fu allora che, abbandonando la speranza lungamente nutrita di suscitare la rivoluzione italiana coll'istigare i lombardi a rinnovare il conflitto con l'Austria, diramò l'ordine di concentrare il fuoco sulla Sicilia e su Napoli. I «militari di Genova», e con essi molti altri rivoluzionari più o meno antimazziniani fin qui, che avevan sempre sconsigliato l'insurrezionismo a ripetizione nell'alta Italia, si posero senz'altro a sua disposizione.

E così i successi della politica europea del Piemonte, atteggiantesi ormai a potenza rappresentativa d'Italia, e nel Piemonte stesso e in tutta Italia la crescente popolarità del partito nazionale che incondizionatamente appoggiava quella politica, e nel Mezzogiorno i progressi del murattismo, tutto ciò inquadrato in una valutazione forse eccessivamente severa delle cose italiane, resero l'unità e l'energia al movimento mazziniano; lo salvaron cioè da una bancarotta morale che nel '54, all'indomani di due gravi sconfitte (Milano '53 e Sarzana '54), appariva per molti segni e probabile e prossima. La ripresa fu infatti straordinariamente vivace; si sarebbe detto che una scarica elettrica avesse percosse le torpide membra del partito: dissidenti che rientravan nei ranghi, «tepidi» che si rianimavano, affluir di nuove reclute, e intorno al partito quell'alone di consensi, di anonimi incoraggiamenti, quel fioccar di proposte, che da tempo eran venuti a mancare, sintomi tutti della vitalità d'un movimento politico.

Mazzini stesso, rendendosi conto che la battaglia suprema s'approssimava, pareva pervaso da uno slancio nuovo, da un rifiorito ottimismo; le delusioni passate non erano, ancora una volta, che fuggevoli ombre; il suo stile ritrovava il tono ispirato e profetico: «V'è tal momento, scriveva in gennaio, in cui una insurrezione importante non suscita un popolo; tal altro in cui una sorpresa audacemente eseguita, una bandiera inalzata da un pugno d'intrepidi, una banda sull'Appennino, è la scintilla che dà moto all'incendio. Credo che il nostro momento sia questo». Che lo fosse, sentiron tutti, d'un tratto, i rivoluzionari repubblicani, e chi non l'ebbe a sentire, voleva dir proprio che tale non era e non sarebbe stato più mai.

Stretta la prima intesa generica, Mazzini si preoccupò di perfezionarla, e a tal uopo accortamente si serví della intelligente sua amica, e amica insieme di Pisacane, Emilia Hawkes: questa fu a Genova per quasi sei mesi, dal gennaio al maggio del '55. Le donne riescon talvolta mediatrici abilissime: molte cose che Mazzini avrebbe voluto dire agli ex dissidenti, e non sapeva come per l'antica ruggine, scriveva invece a lei ed essa con femminile garbo comunicava a loro, eliminando ogni sorgente di possibile attrito, scegliendo il momento opportuno per battere ora quel tasto ed ora quell'altro. Era ancora l'Emilia che convogliava a Londra le notizie di Genova, e anche questo faceva con conoscenza perfetta dell'amico di lassú, delle sue debolezze e dei suoi punti sensibili, animata sempre dal desiderio vivissimo che quella tregua s'avesse ben presto a tramutare in una pace definitiva. Il suo soggiorno coincise infatti con la progressiva ripresa dei rapporti cordiali d'un tempo fra i due gruppi avversari; né diminuisce affatto il suo merito la considerazione che forse a facilitare l'intesa contribuí anche la prospettiva, grata ai militari di Genova, che il mutamento di fronte del partito avrebbe inevitabilmente portato a un trasloco del quartier generale rivoluzionario da Londra a Genova, testa di ponte obbligata per qualunque movimento antiborbonico.

A partir dal febbraio, il nome di Pisacane ricompare con frequenza nell'epistolario mazziniano; nel marzo il «proudhoniano» è già qualificato «tra i migliori», e nello stesso periodo colui che solo due anni innanzi aveva scritto della «fazione» mazziniana che purtroppo non era per anco del tutto spenta, poteva arricchire le sue povere entrate accettando — su invito della direzione — di collaborare a quell'Italia e Popolo, che era appunto l'organo ufficiale del mazzinianismo in Italia. Era stata, questa, un'idea di Mazzini, un po' per riconquistare l'amico, un po' per rinsanguare con l'ardore di lui l'assai fiacco giornale. «Come siete con Pisacane? (aveva chiesto a uno della redazione). Parmi strano, se non siete nemici, che non abbiate avuto ricorso a lui per qualche articolo sulla guerra attuale di tempo in tempo. È capace assai».

Fatto sta che da mezzo febbraio a tutto aprile comparvero sull'Italia e Popolo frequenti e notevoli articoli di commento militare alle cose d'Oriente. Tutti di Pisacane? Difficile dirlo, ché i collaboratori di quel giornale, Mazzini eccettuato, non firmavano mai. Di Pisacane era certo quello dal titolo audacemente ironico Viva il trattato (il trattato di adesione del Piemonte all'alleanza delle potenze occidentali), stampato il 21 di febbraio: lo si sa da una lettera.163 Altri articoli che direi suoi, a giudicar dallo stile e conoscendo le idee generali e le passate esperienze di guerra di Pisacane e i testi militari cui egli soleva ricorrere, sono Previsioni sulla guerra di Crimea (18 febbraio), Considerazioni sulla guerra d'Oriente (14, 15, 17 marzo), La capacità militare di L. Napoleone (27 marzo), La disciplina degli eserciti e l'ubbidienza passiva (30 marzo), Le condizioni degli alleati in Crimea (4 aprile). Lo scrittore si mostrava scettico sulla possibilità di successi dell'esercito collegato, non credeva alla caduta di Sebastopoli, trovava che il comando alleato era inferiore al suo compito; dalla critica di dettaglio saliva alla dimostrazione della superiorità degli eserciti volontari su quelli stanziali; lodava l'infelice indirizzo di Mazzini alle truppe sarde; stroncava la comoda tesi alleata segnar quella guerra l'urto tra le democrazie d'occidente e l'autocratismo russo; analizzava spietatamente tali pretese democrazie e affermava poter solo l'Europa libera, l'Europa dei popoli associati, atterrare definitivamente i regimi assolutisti. «Chiunque non adagiasi ne' presenti mali, non ha altro faro, né altra speranza che il vessillo della rivoluzione». Aveva dunque tutte le idee di Pisacane; e in più lo stesso gusto suo per le anticipazioni storiche, la stessa sua complessità di vedute e di ragionamento, l'identica specialità dei bruschi passaggi dalla storia alla politica, dalla scienza militare alla psicologia dei popoli.

Di Pisacane o no, questi articoli una cosa dimostrano a luce solare: quanto larga, cioè, o meglio illimitata, fosse la libertà di stampa che il governo di Torino, perfino in tempo di guerra, credeva suo debito e suo pro di liberalmente osservare.

La politica è un'infida distesa di sabbie mobili: finché te ne tieni lontano, stupisci che quei che vi son capitati in mezzo non riescano a sottrarvisi più, e gestiscano e gridino come gente invasata. Ma se per caso ti ci avventuri anche tu, presto ti accorgi che l'uscirne è pressoché impossibile: vi affondi lentissimamente, ma senza mercé.

Pisacane v'era caduto, proprio per caso, nel '47; nel '51, riuscitogli di sollevarsi un poco, s'era illuso di poterla scampare; quattro anni più tardi s'inabissava anche più irrimediabilmente di prima. Qualche lettera a Mazzini, quei pochi articoli sull'Italia e Popolo, nient'altro di concreto aveva fin'allora concesso alla politica attiva; ma era il piede dell'insabbiato, era il rovesciamento totale delle sue posizioni, era la fine del periodo di pace operosa, era l'addio al ritiro di Albaro. Lo aveva tradito, ancora una volta, la tempra esuberante e impulsiva: quando mai gli era riuscito di far le cose a mezzo? Distrattosi, rotto l'incantesimo, non trovò più il verso, per voglioso che fosse, d'inchiodarsi al suo tavolo, al lavoro paziente di tutti i giorni. Giunto dopo anni di dispersione a realizzare che doveva pur qualcosa, oltre che al genere umano, alla famiglia e a sé, avviatosi appena sulla via banale d'una occupazione fissa e retribuita, ecco che retrocedeva d'un tratto, per ricadere nei generosi eccessi di ieri.

Concorso a Oristano, in Sardegna, per l'ufficio d'ingegnere municipale; Pisacane lo vince, ma in Oristano non va: allontanarsi tanto in tempi calamitosi?

Un posto d'addetto alle nuove costruzioni ferroviarie (erano in studio o in corso la MondovíCeva, la Bra-Mondoví);164 Pisacane lo accetta, si reca a Mondoví, ma è cosa che dura non più di qualche settimana: non è egli, che diamine, uomo da stipendio mensile, né ha le attitudini dell'impiegato. Maiora premunt: c'è da fare nel Sud. E allora Enrichetta e Silvia son costrette a lasciare Albaro, a installarsi con lui proprio nel cuore di Genova; di nuovo s'ingolfano tutti nelle alterne grandezze e miserie (questa assoluta e quella assai relativa) che il mestiere d'insegnante privato conduce invariabilmente con sé.

Ma in quel periodo di pace operosa che la nostalgia dell'azione e il conseguente riavvicinamento a Mazzini eran venuti a concludere così bruscamente, Pisacane non aveva soltanto riflettuto parecchio e letto una filza di libri e dettato quei quattro o cinque articoli. Il frutto più cospicuo del suo lavoro era un voluminoso manoscritto che adesso egli riponeva nel suo cassetto, nella vana lusinga di condurlo a compimento un dí o l'altro. Era il manoscritto di quei Saggi storici-politici-militari sull'Italia che rappresentano il punto terminale della sua faticosa evoluzione teorica.

L'opera gli si era venuta componendo pian piano e quasi insensibilmente, fuor dalla congerie di appunti e osservazioni che egli aveva tratto via via dalle sue letture.165 In un primo tempo Pisacane aveva lavorato esclusivamente per sé, assillato dall'esigenza di «formarsi un convincimento che, essendo norma delle sue azioni, fra il continuo mutare degli uomini e delle cose, lo avesse mantenuto sempre nel medesimo proposito». Non voleva, ecco, che la sua politica fosse mera improvvisazione governata dall'intuizione o dal caso. Soltanto più tardi, parendogli di aver raggiunto una visione sintetica di qualche importanza, s'era persuaso dell'opportunità di comunicare al pubblico italiano le sue conclusioni.166 Ma il destino gli negò di vedere i suoi Saggi stampati. Furon gli amici infatti che, morto lui, ne curarono la pubblicazione, in quattro volumi, 700 pagine e più (I, Cenni storici; II, Cenni storici militari; III, La rivoluzione; IV, Ordinamento dell'esercito italiano).167

Qual è il valore dei Saggi? Ultimamente lo si è piuttosto esagerato, probabilmente per reazione all'ingiusto dispregio in cui furono tenuti nei loro primi trenta o quarant'anni di vita. Il libro presenta infatti gravi difetti di costruzione, è sproporzionato e prolisso, generalmente mal scritto, di rado originale, pesante ovunque di faticata erudizione. All'ambiziosissimo intento: «determinare l'avvenire d'Italia studiandone il passato» mal corrispondeva la preparazione dell'autore, digiuno o quasi di cultura giuridica e storica (relativamente più dotto, se mai, in quella che allora si diceva «filosofia civile»). Molte le sue letture, sì, ma frettolose e troppo immediatamente sfruttate; le sue fonti — gli scrittori politici napoletani del '700, s'è detto, da Vico a Pagano, più Romagnosi, Ferrari e i socialisti francesi del tempo suo, capofila Proudhon — affiorano, nei Saggi, continuamente: Pisacane non ha saputo farne sangue del suo sangue, convertire cioè l'erudizione in cultura.

Di storia d'Italia, dall'antichità preromana su su fino al secolo decimonono, ce n'è forse anche troppa nel primo Saggio; ma dove non ti si rivela meramente manualistica, ben t'avvedi che Pisacane la conosce solo attraverso le interpretazioni dei suoi economisti e filosofi. Né d'altronde questa minutissima indagine sulla fortuna e la decadenza dei successivi regimi politici-sociali gli serve gran che per determinare l'avvenire d'Italia: tra la molteplice esperienza del passato e le vie del domani la discontinuità, il distacco sono evidenti. Difetta a Pisacane il rigor logico delle deduzioni; le sue profezie risultano perciò il più delle volte arbitrarie.

Maestro egli si rivela, è vero, tanto nel tracciare la storia dell'arte bellica (nel qual campo orgogliosamente e abilmente rivendica la superiorità italiana) quanto nel disegno di una radicale e originale riforma degli ordinamenti militari (sostituzione della nazione armata agli eserciti stanziali);168 ma questa parte, che riempie interamente i Saggi 2° e 4°, viola l'armonica economia del lavoro con la sua successiva lunghezza e minuzia.

Opera mancata, dunque? Nel suo insieme, e in relazione all'intento assegnatole, direi senz'altro di sì. Probabilmente lo stesso Pisacane, se avesse potuto riprenderla in mano qualche anno dopo la prima laboriosa stesura, avrebbe constatato che i Saggi non erano che il materiale dal quale un libro buonissimo e utilissimo avrebbe potuto cavarsi, a condizione che quel materiale venisse vagliato, ordinato, padroneggiato. Egli si era, invero, cimentato un po' leggermente con un assunto, diciamolo schietto, più grande di lui. Si veda ad esempio, sempre nel primo volume, la sua argomentazione, molto più brillante che solida, doversi la decadenza dei cicli di civiltà imputar sempre all'ineguale distribuzione delle ricchezze: coi dati stessi da lui fornitici (nonostante che siano di scelta più che arbitraria) non si sentirebbe chiunque di sostenere dieci tesi diverse dalla sua, seppure altrettanto partigiane e fragili? E per esempio quella che il declinare del mondo romano sia seguito non tanto alla crescente sperequazione economica quanto alla degenerazione del sistema militare?

Col che non vuol negarsi affatto che nei Saggi non siano pagine belle (anche stilisticamente) e, quel che più importa, pensieri e intuizioni di notevole acutezza e importanza. Tutt'altro: chi riducesse i quattro Saggi alla mole d'un solo farebbe d'uno zibaldone indigesto un'antologia storica e critica leggibilissima, e utilmente leggibile. Ma per venire a quel che più c'interessa conviene sottolineare che i Saggi costituiscono la prima applicazione in Italia (rozza e approssimativa fin che si voglia) di quel metodo economico-storico che nella Guerra combattuta era stato appena annunciato: il metodo poi definito del materialismo storico. «Scorgeremo come un importantissimo fatto o legge di economia pubblica trovasi, con le medesime conseguenze, ripetuto in tutte le antiche società, e quindi sarà indubitato che, esistendo fra noi, dovrà produrre l'effetto medesimo». Così fin dalle prime pagine dei Saggi: questo fatto o legge Pisacane ravvisa, risalendo di causa in causa, nell'istituto della proprietà privata, corruttore d'ogni assetto sociale, ispiratore di pessime costituzioni, fonte prima d'ogni nequizia umana. L'uomo, volto alla ricerca dell'utile, non è, per questo benthamiano integrale, buono o cattivo in sé: sono le leggi sociali che, facendo coincidere o meno il suo utile privato con quello della collettività, gli dànno o gli tolgono l'apparenza della virtú; è l'istituto della proprietà privata che fa l'uomo homini lupus; rimossolo e resane impossibile la ricostituzione, la società umana potrà finalmente trovare un assestamento duraturo e migliore. La disamina del meccanismo sociale si fa qui penetrante: la storia ha già mostrato a Pisacane l'inevitabile tendenza delle ricchezze all'accumulazione, di conseguenza l'accentrarsi del potere politico in un ceto sempre più ristretto, causa prima di decadenza. Studiando la civiltà capitalistica egli fa un passo innanzi: quanto più crescono le ricchezze sociali — e il mondo ne produce in assai maggior copia che non nei secoli andati — tanto più la classe lavoratrice s'immiserisce.169 «Le macchine e la divisione del lavoro hanno accresciuto il prodotto netto e nello stesso tempo ribassato grandemente il salario». La traiettoria fatale delle civiltà sarebbe dunque nuovamente al suo termine (che Pisacane ravvisa nel dispotismo militare); senonché l'enormità stessa dei mali che affliggono la società moderna porta in sé il suo rimedio definitivo: la rivoluzione sociale, la rivolta degli sfruttati cioè, mirante appunto all'abolizione integrale della proprietà privata. Sulla fatalità di questa benefica catastrofe Pisacane non nutre dubbi di sorta; di più: nega esplicitamente che essa si possa incanalare, ritardare o affrettare. I riformatori sociali non fanno che antivederla: le loro profezie sul suo svolgimento sono esercitazioni intellettualistiche utili solo per dimostrare ai conservatori impenitenti che un assetto sociale diverso in tutto da quello esistente è pensabile.

Come socialista, Pisacane sfugge alle classificazioni consuete: anarchico federalista nel battere in breccia ogni rudimento di governo centrale (superbe, vibranti queste sue pagine sulla libertà!) e nella dinamica del processo rivoluzionario, ti si rivela comunista autoritario laddove prevede che nella società post-rivoluzionaria ogni forma di attività farà capo e verrà disciplinata da due grandi, onnipossenti Associazioni monopolistiche, di lavoro agricolo e di lavoro industriale, all'una delle quali ogni cittadino verrà obbligato ad iscriversi e alle quali verranno devolute tutte le forme di proprietà.170 Né il suo socialismo ha alcun carattere internazionale; concepito soprattutto in funzione e presentato qual soluzione della crisi italiana, esso non solo non implica superamento del patriottismo, ma anzi intensificazione, sviluppo massimo dei caratteri distintivi d'ogni nazione.171 L'Italia socialista di Pisacane non vuol essere, insomma, nel mondo, la grande proletaria e basta: d'idealità pacifiste non è parola nei Saggi, anzi si discorre anche troppo di quel che potrà essere l'ordinamento militare più efficiente e più adatto alla sua importanza avvenire. Gli è che nonostante
che la sua utopia lo porti a vagheggiare la trasformazione della società in un eden per tutti, imperniato sulla solidarietà degli interessi (Libertà ed Associazione è la sua formola preferita), il suo temperamento lo costringe nel contempo a conservare l'istintiva visione della vita come aspra continua lotta d'individui e collettività e a considerare il perfezionamento morale e materiale degli istituti e degli uomini come condizionato appunto al perpetuo rinnovarsi di quella lotta (e cioè della concorrenza).

Ma quali che siano le contradizioni del suo socialismo (principalissima appunto la contradizione fra il fondamento liberale della rivoluzione sociale e quello illiberale, antiindividualistico, costrittivo che informa la sua concezione del novus ordo post-rivoluzionario) la sua importanza nella storia del nostro pensiero politico, e insieme ai suoi limiti, risiedon di certo nella saldatura che esso presenta tra rivoluzione sociale e scioglimento del problema nazionale italiano. Sul qual punto, del resto, i Saggi non fanno che approfondire e stringere le considerazioni già abbozzate nella Guerra combattuta: per vincere la battaglia politica che deve dar vita all'Italia libera, una sola forza è veramente efficiente, quella costituita dagli italiani tutti che ravvisino nella vittoria il conseguimento di un beneficio comune.

Se poi, chiusi i quattro volumi dei Saggi e distolto lo sguardo dalle questioni speciali in essi trattate, si domandasse in che mai consista, nonostante ogni loro difetto, l'attrazione che ancor oggi indiscutibilmente essi esercitano, credo sarebbe giusto rispondere che essa deriva in gran parte dalla personalità dell'autore. Commovente e nuovo è vedere quest'uomo di media cultura, non nato agli studi, ma ansioso di contribuire con tutto se stesso al risorgimento della sua patria, sobbarcarsi a una fatica così gigantesca come quella di andar ricercando nel passato d'Italia il riposto perché delle sue condizioni presenti e i sintomi e il senso probabile della sua ripresa imminente, e d'anticipare le vie che la sua patria ricostituita a nazione dovrebbe proporsi di battere.

I Saggi non sono, in conclusione, un gran libro e Pisacane, non appena deposta la penna, si dimostrò ben poco fedele allo spirito loro e ai postulati teorici che v'avea svolti. Ma quale mirabile esempio, nella stessa loro insufficienza, non offrivano essi agli italiani!17

Gli amici federalisti, che conoscevano il Pisacane dei Saggi, non intendevano come colui che aveva scritto in testa a un suo libro: «le rivoluzioni materiali si compiono allorché l'idea motrice è già divenuta popolare», colui che aveva ripetutamente bollato l'inutilità e la fragilità di una rivoluzione puramente politica, potesse da un giorno all'altro far marcia indietro e tornare all'insurrezionismo di Giuseppe Mazzini.173 Ma Pisacane non li ascolta più, quegli amici, o gli par che sragionino; serba in pieno le sue concezioni sociali e le sue riserve politiche, ma in sede teorica. E che, dovrebbe dunque, mentre le cose precipitano, mentre di giorno in giorno si corre il pericolo di veder Murat a Napoli, meriggiar quietamente sulla dolce riviera ligure, in attesa che lo spirito santo faccia germogliare nel cuore e nel cervello d'ogni italiano idee e volontà smarrite da secoli? No, queste idee, queste volontà, la fiducia nella propria energia e lo spirito di sacrificio, vanno suscitati e incoraggiati d'urgenza. Il processo di combustione interna italiana minaccia di risolversi, anziché in un gigantesco incendio purificatore, in una gaia luminaria di festeggiamenti a monarchi ambiziosi e fortunati: non spetta dunque agl'italiani del suo stampo di correr tutti, col tizzo acceso in mano, ad appiccare il fuoco? Se poi nella fretta accadrà di strafare o far male, vuol dire che il mal fatto si correggerà in appresso. Tutto fuorché l'adattarsi ai ripieghi e ai mezzi termini.

Né s'avvede, Pisacane, o non vuole far mostra d'avvedersi, della contradizione in cui si dibatte. Precipita all'azione perché terrorizzato dalla possibilità che le cose italiane trovino una via d'uscita arivoluzionaria, ma intanto prosegue imperturbabile a proclamare che non può darsi soluzione definitiva se non nel senso propriamente rivoluzionario; pensa a una spedizione nel Sud in
parte come contro-mina a Murat, ma intanto affetta non temere minimamente costui; nega che mai i

Savoja possano farsi liberatori d'Italia, ma agisce esattamente come chi più li paventa.

Contradizione che è tutto un angoscioso dramma di coscienza: l'eterno dissidio, che ci tormenta tutti, tra esigenze di ragion pura e esigenze e richiami di ragion pratica. Ma in questo caso la contradizione non si spiega compiutamente, ahimè, se non ammettendo che l'esaltazione entusiastica della intelligenza, del valore, del carattere degl'italiani cui egli si è abbandonato nei Saggi (una specie di «Primato» in bocca a un socialista!) dichiarando di derivarne la certezza d'una soluzione integralmente rivoluzionaria della crisi italiana, corrisponda assai poco alle sue convinzioni profonde; e forse non sia che un accorgimento politico abilmente usato da chi, inclinando a pessimismo, voglia ciò non pertanto incitare i suoi connazionali all'osare. Poiché accade talvolta che i poltroni impenitenti si scuotano piuttosto a immeritate lodi che a giusti rimproveri.174

Capitolo nono

Questione borbonica

Per taluni suoi avversari politici Mazzini era, si sa, una specie d'Iddio onnipossente e maligno che, ingelositosi delle fortune italiane, si fosse fitto in capo, per mala sorte nostra, di contrastarle e spegnerle con ogni sua forza e dovunque. Disfattista a Milano nel '48, pericoloso estremista a Roma nel '49, e poi carnefice della migliore gioventú, complice de' governi tirannici con quel suo continuo offrir loro nuovi motivi di repressioni violente, diffamator del Piemonte «palladio delle libertà italiane», vergogna dell'Italia all'estero. Tutte le colpe eran sue.

Vollero adesso costoro che il murattismo, del quale egli andava parlando come d'un grave imminente pericolo, non fosse che una bolla di sapone da lui sapientemente gonfiata per giustificare il suo intervento nelle cose di Napoli e per riattirare al suo giuoco molti emigrati meridionali che da un pezzo ne avevano abbastanza di lui.175 Chi mai, da Mazzini in fuori, prendeva sul serio in Italia la fola Murat?

L'odio di parte annebbiava loro la vista: fola, sì, ridevole per giunta, era stato il murattismo fin quando Napoleone non s'era fatto padrone di Francia; da allora in poi, stabilitosi il pretendente ufficioso (Luciano) a Torino qual Ministro francese e poi salito ai sommi gradi massonici, s'era mutato in un pericolo vero.176 Luciano infatti si era subito messo attivamente al lavoro, stabilendo contatti sempre più numerosi nell'ambiente degli emigrati napoletani, sfruttando abilmente il rimpianto che i più vecchi tra loro nutrivano per re Gioacchino: impareggiabile nell'arte di dire e non dire, attento a non compromettersi troppo, Luciano era insinuante nelle lusinghe, largo nelle promesse, regale addirittura nell'assumere impegni politici; il suo regime, se mai si fondasse, sarebbe schiettamente costituzionale, egli si porrebbe deciso alleato del Piemonte nella crociata antiaustriaca, godrebbe l'amicizia, non mai la tutela di Francia. Lui re, insomma, l'Italia sperimenterebbe finalmente l'indipendenza, la prosperità e, chi sa, la grandezza!

Tale propaganda, autorizzata a Parigi e, per amore o per forza, tollerata a Torino, aveva gradatamente attecchito. Nel '50 e nell'anno seguente si era ancora ai «si dice»; nel '52 avea già portato a misteriosissimi viaggi di Guglielmo Pepe in persona a Nizza e a Genova, seguiti da abboccamenti con Mezzacapo, Musolino, Carrano, Boldoni, Cosenz, verosimilmente con Pisacane medesimo.177 Conversioni? Se ne sapeva poco (solo più tardi si venne a sapere di Mezzacapo), ma Pepe era pure un gran nome e una gran garanzia, e se inclinava a murattismo lui... Dal '52 al '55 la situazione francese si era andata stabilizzando, quella napoletana aggravando: le azioni di Murat automaticamente salivano. Ma fu proprio nel corso del '55 che fecero un balzo in avanti: opuscoli-manifesti lanciati con chiasso a Torino e a Parigi, dichiarazioni di Murat alla stampa, quotidiani passati al suo servizio, un Saliceti, ex triumviro a Roma, stipendiato da lui, Montanelli sostenitore aperto, voci abilmente messe in giro sul filomurattismo di Cavour.178 Nei circoli diplomatici, che ormai consideravano la situazione napoletana con assoluta «fluidità» di vedute e assenza totale di solidarietà dinastica, molti dicevano forte che una restaurazione Murat rappresentava il più pratico rimedio possibile. Se alcuno obiettava non doversi i mali italiani curare con medicine di fuori, gli agenti del murattismo replicavan vantando l'italianità dei Murat e sbandierando l'antico proclama di Rimini. Il pericolo c'era!

Il 20 luglio '55 anche Pisacane, in una vigorosissima lettera stampata sull'Italia e Popolo, lo denunciò, ponendo in rilievo con mordente irrefragabile argomentazione la bassezza, l'inutilità ai fini della liberazione d'Italia, e soprattutto l'assoluta inattualità dei disegni murattisti. Rincarò la dose il 22 settembre, sulla stessa Italia e Popolo: era tempo di finirla con le poetiche reminiscenze del re fucilato; chi era stato costui, in Italia, se non un «seide» di Napoleone, un violatore d'istituti di tradizioni d'aspirazioni italiane? Quale la sua gloria, in cosa mai la prosperità del suo regno, che solo la gran distanza di tempo indorava? Il giudizio della storia non era dubbio: la dominazione francese a Napoli si era risolta in un vergognoso disastro. E si sarebbe dovuto lottare e soffrire, e si sarebbe dovuto esporre il paese ai rischi d'uno sconvolgimento per ripiombare, volontariamente, nelle condizioni di allora?

Quattro giorni appresso, un reciso comunicato alla stampa sarda: gli emigrati delle Due Sicilie dichiarano «che siccome avversano l'attuale governo (borbonico)... perché incompatibile con la nazionalità italiana, per la ragione istessa avversano qualsiasi forma di governo che potesse costituirsi col figlio di Gioacchino Murat, e tanto maggiormente che in tal caso quel regno diverrebbe indirettamente una provincia francese». Trenta firme: tra l'altre, quelle di Pisacane, Cosenz, Boldoni, Pilo. Non molte, invero, nella gran massa di emigrati meridionali! Murattista, dunque, la maggioranza?179 Tutt'altro; ma diffidente de' mazziniani e dei loro metodi e non disposta a mostrarsi in combutta con loro, sì certo. La qual discordia fra i liberali napoletani giovava immensamente, s'intende, anzi tutto ai borbonici, poi anche alla frazione Murat.

Prima misura di guerra antiborbonica e antimurattista era dunque, pei mazziniani, il procurare, sottolineando la gravità del pericolo e temperando il proprio programma, la formazione d'una provvisoria alleanza, d'un fronte unico tra le varie correnti dell'emigrazione che non fossero passate a Murat. Nell'autunno '55 non ebbero altro pensiero. Il blocco riuscí, come sempre riescono quando a proporli si fa la frazione estrema, la più intransigente; in questo caso, poi, si dimostraron negoziatori preziosi quei «militari di Genova» che potevan ben dire: fummo anche noi contro Mazzini, ora ci uniamo a lui perché agire bisogna; Mazzini comunque è in mano nostra, niente farà senza che noi vogliamo. Nacque così tra il cadere del '55 e i primi del '56, con sede a Torino, un Centro politico avente per scopo dichiarato quello di controllare unificare e finanziare eventuali iniziative (oltreché proporne d'originali) volte ad agitare dinanzi all'opinione europea la questione napoletana e a sollecitarne una soluzione impostata sulla detronizzazione borbonica e sul veto a Murat.180 Membri del Centro gli emigrati delle Due Sicilie, senza distinzione di confessione politica; componenti il Comitato d'agitazione quattro o cinque costituzionali piemontesizzati tipo Scialoia e Massari, quattro o cinque rivoluzionari repubblicani tipo Pisacane e Cosenz.

Nei primi mesi tutto andò a meraviglia: un diluviare di lettere da e per Napoli, da e per la Sicilia, da e per Parigi e Londra; molte adunanze; intensa campagna finanziaria; viaggi d'intesa in Italia e fuori d'Italia (Musolino, ad esempio, fu a Londra «per delegazione dei nostri di Piemonte ed in ispecie di Pisacane»).181  In che consisteva la propaganda che si faceva? Ce lo dice una lettera, ch'io riassumo, di Pisacane a Plutino, 30 dicembre '55, intesa a cavargli quattrini: passato è il tempo delle discussioni teoriche, egli argomentava; in sede teorica né i piemontesisti posson convincer me che Vittorio Emanuele sia la fortuna d'Italia, né io convincer loro che lo sia la repubblica. Piemontesisti e repubblicani presumiamo tutti che i «fatti» ci daranno un bel giorno ragione. È dunque nell'interesse di entrambe le parti di promuovere «fatti» e rimetterci, pel bene del paese, alla risposta dei fatti. Se il Piemonte ha davvero, come dice, intenzione di agire per la causa italiana, essi gliene offriranno l'occasione; se i repubblicani interpretano davvero la volontà dei più solo i fatti lo mostreranno. C'è poi il pericolo murattista: pazienza quei che ne ridono e non voglion perciò dar mano libera ai rivoluzionari, ma vi son altri che pur ritenendolo grave vi si rassegnano supinamente perché supposto conforme agl'incontrastabili interessi francesi. «Se otto milioni d'italiani debbono sottostare necessariamente al governo che gli potrà essere imposto da 20 a 30 mila francesi, allora con sì poca coscienza delle nostre forze, ogni ulteriore ragionamento è inutile, lasciamo ai nostri padroni di casa la cura di migliorare le nostre condizioni ed ognuno pensi a sé».

Murattismo a parte, si vede chiaro come il Centro si fondasse assai più sull'equivoco che su un'intesa leale. Era facile infatti stendere un programma magari anche insurrezionale, con impegno reciproco di assoluta astensione da ogni propaganda di partito; ma nel fatto, come eseguirlo? Come evitare che ognuna delle parti contraenti si limitasse a proporre quelle sole iniziative che giudicasse convenienti al raggiungimento dei propri fini e si opponesse ad ogni altra? Come annullare gl'inevitabili sospetti reciproci di contribuire senza saperlo alla vittoria dell'alleato d'oggi, sicuro avversario di domani? Sarà vero o non vero (e a me non pare credibile) quel che scrisse il La Farina che la costituzione del Comitato «era stata una finta per allontanare la sorveglianza di Napoli da quelli che realmente operarono» — e intendeva gli emissari del governo piemontese —;182 certo è comunque che quanti avvertivan davvero l'imperativo categorico di affrettare una soluzione definitiva del problema napoletano, non stentarono a rendersi conto qual sorta di cappa di piombo si fossero messi addosso, assumendo l'impegno assoluto di neutralità di bandiera; un Pisacane, che dichiarava di preferire l'assolutismo borbonico al costituzionalismo piemontese non poteva continuare a lungo a lavorare a fianco d'uno Scialoia, ad esempio, il quale dal canto suo avrebbe preferito le mille volte di morire in esilio piuttosto che veder la repubblica a Napoli!

Tramontata la breve luna di miele, nuovamente pensosa ogni parte della propria responsabilità, il primo scoglio che il Centro incontrò sulla sua rotta bastò quindi a sfasciarne il fragilissimo scafo.183 Lo scoglio fu la proposta formale avanzata dai repubblicani in seno al Comitato d'una spedizione armata nel Sud, che ponendo gli oppositori napoletani dinanzi al fatto compiuto e offrendo loro così la prova della fattiva solidarietà del resto d'Italia, li forzasse a tradurre finalmente in azione la fin qui inconcludente querimonia verbale contro il regime borbonico.

Disperazione dei costituzionali, persuasi che si sarebbe in tal modo irreparabilmente compromessa, precipitandola, una situazione, come quella napoletana, promettentissima e tuttavia non ancora del tutto matura; della quale immaturità, secondo essi, fornivano, senza volerlo, la più bella prova gli stessi repubblicani, quando insistevano sulla inderogabile necessità preventiva d'introdurre forze esterne nel regno, per farlo insorgere. Ribattevano questi, chiedendo che mai, dunque, si dovesse fare per Napoli. E giú i costituzionali a magnificare le campagne di stampa in Piemonte e fuori, le pressioni sistematiche sulle cancellerie europee, e nell'interno del regno non tanto insurrezioni, buone a riempir le carceri, sibbene solenni, pacifiche dimostrazioni popolari antiborboniche. Il guaio era che non si trovava mai l'occasione per promuovere queste tranquille dimostrazioni. Era stata sì lanciata una proposta Manin per indurre i napoletani a rifiutar le imposte, ma si era finito col trovarla — giustamente del resto — più rivoluzionaria e più problematica di qualsivoglia spedizione armata.

Restò ciascuna delle parti, come accade, della propria opinione: quei di sinistra anzi sempre più infervorati nel loro progetto e sospinti ad effettuarlo dalla minaccia murattista; quei di destra sdegnati e deprecanti, a profetar sciagure. Né valse che i primi promettessero di non dare alla spedizione carattere repubblicano; gli altri ribattevano che il progetto in sé era tutta una dichiarazion di principii!184 Nel contrasto, s'è detto, il neonato Centro politico chetamente cessò di vivere.

L'idea della spedizione era tutt'altro che nuova (e del resto sorge sempre spontanea, irresistibile quasi, tra i fuorusciti d'un paese tiranneggiato): si ricollegava a varie proposte affacciate da Napoli, dalla Sicilia, da Londra; era un tempo, quello, nel quale pareva anzi che i rivoluzionari italiani avessero tutti la monomania delle imprese antiborboniche!

I rivoluzionari di Napoli avevano costituito, sin dal '53, un Comitato insurrezionale repubblicano delegato a dirigere il moto antiborbonico nelle provincie (dove si erano fondate numerose sezioni) e a corrispondere con gli emigrati repubblicani a Malta, a Genova, a Londra. Nicola Mignogna, Teodoro Pateras, Giuseppe Fanelli, Luigi Dragone e qualche altro n'erano i più cospicui esponenti.185 In breve tempo il Comitato era doventato il monopolista della propaganda rivoluzionaria nelle regioni continentali del regno.

Sullo scorcio del '55, nonostante che fosse stato arrestato, per venir poi bandito dal regno, il Mignogna,186 factotum del Comitato, i suoi colleghi erano giunti alla conclusione che la preparazione rivoluzionaria del paese in genere, e l'efficienza del loro gruppo in ispecie avessero raggiunto un punto così soddisfacente da render consigliabile quel passaggio all'azione diretta, cui la minaccia del murattismo, d'altronde, conferiva un carattere di grandissima urgenza.

Preparazione rivoluzionaria, azione diretta, cosa significavano queste solenni parole, senza dubbio pronunciate e scritte in piena buona fede? Su quali dati poggiavano? In qual misura esprimevano il pensiero di quel manipolo d'uomini che sparsi nelle varie provincie rappresentavano lo strumento della rivoluzione da farsi? Fino a qual punto tenevano conto del naturale scarto che esiste sempre tra le intenzioni più generose e la loro attuazione? In base a quale criterio chi usava quelle parole valutava le forze di resistenza del regime che si voleva rovesciare?

Tutto ciò era assai poco chiaro, e v'eran ben poche idee concrete nella mente di Giuseppe Fanelli (un giovanotto sui venticinque anni, che nel '48 e nel '49 aveva brillantemente assolto il dover suo battendosi in Lombardia e alla difesa di Roma),187 quando, per incarico del Comitato, egli comunicò ai dirigenti il movimento mazziniano l'intenzione dei rivoluzionari napoletani di dar fuoco alle polveri, e chiese loro appoggio di consigli e di mezzi. Il Comitato voleva far qualcosa atto a «svegliare» il popolo, pensava a una serie di grossi colpi terroristici e insurrezionali, che non dessero tregua al governo e suscitassero sempre più viva l'impressione in Europa che alle falde del Vesuvio mugghiasse un tremendo vulcano morale. Proposte generiche, tutte. Una sola concreta: quella appunto d'una spedizione armata che avesse per scopo di liberare un gruppo di prigionieri politici per poi sbarcarli, armati, in un punto designato della costa napoletana, a iniziar la rivoluzione.188

Un'idea molto simile, ma assai più limitata, l'aveva avuta Antonio Panizzi, esule a Londra, fin da quando Settembrini e compagni eran stati rinchiusi nell'ergastolo dell'isola di S. Stefano, in rivoltante promiscuità con centinaia di condannati comuni (imperdonabile obbrobrio, a quei tempi, per l'Europa civile!): farli fuggire.189 Il progetto, piaciuto a moltissimi, italiani ed inglesi, pareva avviato sul principio del '55 a sollecita esecuzione: avvisati e favorevoli gli ergastolani, complici preziosi lo stesso ministro d'Inghilterra a Napoli (William Temple190, fratello di Palmerston!) e il suo collega a Torino; Garibaldi disposto a capitanare l'impresa, Bertani impresario, danaro fin che se ne voleva. A Genova era il segreto di Pulcinella.

Ma un primo tentativo d'esecuzione, operato nell'autunno di quell'anno, fallí miseramente con un naufragio nel mar d'Inghilterra. Ci si preparò per la primavera seguente.

Fu all'indomani di quel disastro che giunsero a Genova e a Londra le proposte di Napoli:191 era troppo naturale che si pensasse a coordinare i due piani. Il popolo meridionale è un popolo sentimentale: quando avesse saputo che i prigionieri politici, fuggiti dal carcere, levavan la bandiera della rivolta, li avrebbe appassionatamente seguiti. Così pensò Pisacane, così pensarono molti altri mazziniani con lui. Non li sfiorava neanche il dubbio che forse gli ergastolani avrebbero preferito ricuperar la loro libertà per vivere quieti in paese straniero anziché compromettere con essa la vita in una sommossa violenta. Nacque in tal modo il progetto dai mazziniani caldeggiato, senza fortuna, in seno al Centro politico. La nave liberatrice, raccolti gli ergastolani a S. Stefano, avrebbe dovuto far scalo a Ventotene (ché tra le due isolette, l'una un cupolotto roccioso, sormontato da un solo immenso edificio, l'ergastolo, l'altra più grande e piatta e popolata, non corre che un brevissimo tratto di mare) per imbarcarvi i relegati politici — i confinati cioè192; quindi, a un trenta miglia da Ventotene, a Ponza: altri relegati da liberare; e finalmente, armatili tutti, gettarli su qualche remoto tratto della costa donde, col concorso d'altre forze, iniziare la marcia insurrezionale sulla capitale.

Il piano era elettrizzante: di quelli che, quando una volta ti si sono affacciati alla mente, ti metton la febbre in corpo e ti vietano il sonno la notte.

Squagliatisi i «codini» del Centro, bisognava adesso conquistare all'idea della spedizione il gruppo Panizzi-Garibaldi-Bertani; nonché... gli ergastolani. Si tentò all'uopo il tentabile: Mazzini in persona si portò a Genova segretissimamente, nel giugno '56, per «lavorare» ad uno ad uno i seguaci di Garibaldi, per rinsaldare i rapporti con gli ex dissidenti.193

Per quanti anni non aveva sognato di ritornare a casa! Ma la casa era chiusa, la santa madre riposava a Staglieno. Mazzini visse quegli affannosi mesi di Genova mutando frequentemente d'alloggio (ospite per un tempo anche dei Pisacane), uscendo di rado e solamente di notte: «uno scoiattolo in gabbia».

Da principio pareva che l'accordo fosse facile a stringere: «Li ho veduti tutti», scriveva Mazzini il 12 luglio, «siamo di bel nuovo d'accordo... Pisacane è quello che mi dimostra la più calda amicizia e a cui parve fare il maggior piacere vedermi». Sul più bello invece andò tutto per aria: Garibaldi, Bertani, Medici (antico beniamino di Mazzini), significarono seccamente che il progetto Panizzi o si eseguiva tal quale o non se ne sarebbe fatto di nulla. Gelosia per Mazzini?194 Contrarietà degli ergastolani? Pressioni torinesi? Le tre cose insieme, probabilmente; ma più di tutto, io credo, l'aver Mazzini lasciato fin d'allora intendere che alla spedizione e alla conseguente insurrezione nel Sud sarebbe stato opportuno associare una serie di moti da scatenarsi nel resto d'Italia a sostegno di quella; segnatamente, una rivolta a Genova.195 Formidabile errore. Mazzini, deluso, infuriava nella sua corrispondenza contro Medici e Bertani, che riteneva responsabili primi del rifiuto di Garibaldi: stigmatizzava la loro «inerzia assoluta», la loro «ostinazione» da presuntuosi. Ma in questo caso non ci si poteva domandare: di chi la colpa? Accadeva anche a Mazzini talvolta di sostenere disegni manifestamente assurdi o rovinosi; non gli accadeva mai, questo era il guaio, di trovare chi, pari per genio a lui, capace di resistere alla sua sfavillante eloquenza, riuscisse a persuaderlo del suo errore. Tra quei che lo ascoltavano, i più finivano sempre per stringersi a lui in un impeto di fede e d'ammirazione commossa, che magari non presupponeva ragionato convincimento; i meno, che non gli cedevano, passavano per ostinati solo perché i motivi pur fondatissimi della loro opposizione, nel contraddittorio, si spezzavano contro l'invincibile superiorità dialettica spiegata da lui. Il genio può esser pericoloso.

La mancata cooperazione di Garibaldi e dei suoi era un intoppo gravissimo, ma non poteva costituire per Mazzini una ragione sufficiente per abbandonare i suoi piani. Se Medici era «perduto», Pisacane, Pilo, Cosenz, Acerbi, uomini di eccezionale valore, erano tutti suoi. Contando su di essi, contando sui molti che subivano a Genova la loro influenza, contando sul Fabrizi di Malta, contando sui fondi che si sarebbero potuti, certo, racimolare all'estero, si poteva tranquillamente rispondere a Napoli: la spedizione, come voi la volete, verrà eseguita.196

Ai primi di novembre Mazzini tornò in Inghilterra. Ma Pisacane continuava a sperare che all'ultimo Garibaldi si sarebbe unito a loro: il progetto panizziano, infatti, sconsigliato nell'agosto dal Temple in vista di una probabile amnistia politica e poi danneggiato dall'improvvisa morte di quel ministro avvenuta poco dopo, scivolava pian piano nel nulla. Parimenti nel nulla, all'incirca nel medesimo tempo, finiva un altro audace progetto, vagheggiato da emigrati meridionali (da Pisacane per più ragioni mal visto), quello cioè di far sbarcare in Sicilia, per sollevarla, un contingente della Legione anglo-italiana, di stanza a Malta.197

Pisacane tornava perciò all'assalto col vecchio amico Bertani:198 perché opporsi al progetto Mazzini, gli scriveva il 24 settembre, progetto che rispondeva in tutto e per tutto alle richieste degli amici di Napoli, e alla cui esecuzione era condizionato lo scoppio della rivoluzione nelle Due Sicilie? Non sapeva Bertani che esso si sarebbe in ogni modo eseguito? Mazzini non faceva question di bandiera: arbitro «il paese che sollevasi»; né di persone, che anzi Pisacane era autorizzato a delegare a Bertani la scelta dei partecipanti alla spedizione. Quanto al comandante, nessun dubbio: «non potrà essere che Garibaldi».

Che Bertani tenesse duro, non è meraviglia: la lettera, tra le altre cose, non accennava neanche al punto controverso delle insurrezioni di Genova e d'altri centri italiani.199 Può stupire, piuttosto, l'improvviso accesso di garibaldinismo di Pisacane stesso. Tanto mutato, dunque, di fronte al suo antico e «riottoso» superiore di Roma contro il quale, non eran trascorsi che pochissimi anni, avea ritenuto suo preciso dovere scrivere e dire «tutta la verità»? Affatto mutato (e lo dimostra una nota nel IV dei Saggi); solo che Pisacane, il quale non aveva adesso altro pensiero che la spedizione e la sua migliore riuscita, non poteva non riconoscere, e sia pure con qualche amarezza, la straordinaria popolarità goduta da Garibaldi in ogni regione d'Italia;200 non poteva non riconoscere di quanto sarebbero aumentate le probabilità di successo dell'impresa se ad essa fosse legato il suo nome ormai leggendario (leggendario nel Mezzogiorno proprio in virtú dell'episodio di Velletri, povero Pisacane!) Sacrificava perciò le sue personali opinioni e si poneva senza esitare in sottordine a Garibaldi; che si voleva di più da lui?

Era un esempio altissimo che Pisacane dava ai patrioti italiani: non avrebbe egli servito foss'anche il diavolo in persona se in così fare avesse potuto aumentare d'un ette le probabilità di successo della spedizione?

Poiché per scuotere i suoi placidi connazionali e gettarli nella rivolta, Pisacane lo capiva benissimo, non bastava fornir loro una propizia occasione e mezzi adeguati (come avevano erroneamente supposto quei della Legione Anglo-italiana); ma bisognava appunto colpire l'imaginazione popolare ponendo a capo dell'impresa destinata a suscitar la rivolta un di quei nomi di eroi che la plebe meridionale venera come santi e rispetta come briganti; e insieme fare appello, clamorosamente, alla innata generosità del sentimento popolare, notoriamente assai più incline alla pietà che all'odio, assai più largo di commiserazione alle vittime della tirannia che atto a rovesciare il tiranno in nome della comune libertà conculcata. La marcia degli ergastolani su Napoli, capeggiata da Garibaldi, era stupendamente calcolata per esasperare fino all'esplosione il senso di giustizia dei napoletani, offeso giorno per giorno, in una lunga serie di anni, da imperdonabili enormità giudiziarie. (Come remoti, astratti e dottrinari, al confronto, i pensieri sulla rivoluzione già svolti nei Saggi! Ma Pisacane si era adesso buttato al fare, e lo servivano meglio ormai certe azzeccate intuizioni di psicologia della folla che non i rigidi postulati della sociologia e della scienza economica).

Da quell'estate del '56 Pisacane, si può dire, non ebbe più un giorno, non ebbe più un'ora che non fosse dedicata a concretare il progetto di spedizione, a perfezionarne la tecnica dell'esecuzione, a studiar nuove forme di propaganda nel Sud. Cosenz e Pilo gli eran validi collaboratori. Da principio, pur cominciando a esaltarsi, egli esigeva formali garanzie da Mazzini che l'impresa si sarebbe compiuta solo nel caso che si potesse disporre di larghissimi mezzi e d'uno scelto contingente di uomini.201 Pian piano però, e quasi impercettibilmente, le sue esigenze si ridussero, si fecero condizionate, finirono con l'annullarsi. Il successo d'una rivoluzione non poteva, che diamine, dipendere da così poco. Si dovea fare? E si sarebbe fatto, a costo di partire con quattro seguaci e due pistole a testa!

Buona parte dell'attività pisacaniana fu spesa altresì nella redazione d'un periodico clandestino, destinato a «tener su» gli animi nelle «provincie schiave». Mazzini non ne voleva sapere: fremeva a sentir ciarlare di stamperia quando gli pareva che fosse tempo di «vendere l'orologio e fare côute qui côute in Sicilia, in Lunigiana, in Rocca Cannuccia, al diavolo, qualche cosa». Ma quando ebbe letto i primi numeri della Libera Parola (venuta alla luce in agosto per opera oltre che di Pisacane, di Quadrio, Pilo, Savi, Cadolini) e poté constatarne gli effetti nelle Due Sicilie, mutò radicalmente parere.

Di piccolo formato, tirata su carta sottilissima, recante da principio la falsa indicazione di Malta, poi quella d'Italia, la Libera Parola veniva spedita a migliaia di copie dappertutto nella penisola; durò fino all'aprile seguente, un po' settimanale, un po' quindicinale e mensile; morí non tanto per la cronica scarsezza dei fondi quanto per la paura de' tipografi.202

Il programma era volutamente generico o almeno pretendeva di esserlo: «Noi vogliamo la nostra patria grande e felice. Vogliamo dunque la rivoluzione, altro mezzo non vi ha. Rivendicarsi in libertà per acquistare l'indipendenza e quindi costituire la grande unità italica è l'esplicamento naturale di questa maestosa e terribile forza che deve dare alla patria figura ed essere di nazione.

Qual italiano potrebbe rifiutare il suo concorso? Questa della rivoluzione è bandiera unificatrice. Possono schierarsi sotto con tranquilla coscienza tutti i patriotti... Si combatta e si vinca. Al giorno del trionfo le discussioni sull'assetto politico... Fedeli al principio della conciliazione dei partiti sul terreno comune della rivoluzione, vigorosamente combatteremo le pretensioni di monopolio dinastico che qua e là potessero scaturire a danno e vergogna nostra...»

Che era come dire: vedete, non parliam di repubblica; sia chiaro però che di monarchia non ne vogliam sapere...

Il punto di vista rivoluzionario veniva energicamente ribadito in un secondo articolo (Dove siamo? che faremo?) di evidente paternità pisacaniana, concluso a mo' di un ordine del giorno:

«Considerando che la rivoluzione italiana è generalmente riconosciuta probabile e vicina; che la diplomazia non crea i fatti, ma li sancisce; che nello stesso tempo in cui teme lo scoppio d'un moto italiano, e si ingegna allontanarlo con ripiego di riforme, è pur pronta a transigere coi fatti compiuti; che il Piemonte è vincolato alla diplomazia per antichi e recenti trattati; che è quindi contro ogni verosimiglianza poter giammai la monarchia sarda iniziare l'insurrezione italiana, inimicandosi così tutti i governi d'Europa ed esponendosi ai pericoli d'una rivoluzione. Risulta che tanto i monarchici quanto i repubblicani devono, con tutti i mezzi di cui dispongono, spingere le popolazioni italiane delle provincie oppresse; i repubblicani, perché han fede soltanto nella insurrezione nazionale; i monarchici, nell'intendimento di creare al principato sardo un'occasione d'intervento».

Dopo i primissimi numeri il pensiero degli scrittori s'andò chiarendo e rinforzando in senso estremista (di pari passo con l'aggravarsi del dissidio tra il gruppo mazziniano e quello garibaldino): l'èra della inconcludente resistenza passiva, delle proteste platoniche contro i regimi dispotici aveva ormai fatto il suo tempo; urgeva adesso passare a una decisa azione rivoluzionaria in tutta Italia; il punto morto, e cioè il reverenziale timore che il popolo, ignaro della sua immensa energia potenziale, nutriva per le baionette dei tiranni, andava superato con la violenza, d'un balzo solo. La penisola era tutta percorsa da una «striscia di polvere»: trovare chi le appiccasse il fuoco, ecco il problema immediato, risolto il quale il più era fatto.

L'accento cadeva naturalmente sulla situazione di Napoli, giudicata rivoluzionaria per eccellenza; e quindi, per contrasto, sul murattismo: diffidassero i napoletani degli aiuti stranieri! Si persuadessero esser preferibile le mille volte il dispotismo domestico «che almeno ha certi limiti» e «considera lo Stato come suo patrimonio» alla libertà concessa da un regime straniero. La libertà è una conquista attiva; libertà donata è un bisticcio di parole. Peggiori dei borbonici, più antiitaliani degli stessi austriaci, i fautori di Murat, che pretendevano insegnar l'odio al tiranno, non alla tirannia.203 Se mai un giorno l'Italia sarà libera, essa potrà dimenticare «che molti, costretti dall'imperiosa necessità e dalla forza delle circostanze saranno stati costretti a servire i caduti governi, ma nei murattini non vedrà che uomini i quali per una bassa ambizione, o per cupidigia... tentavano arrestare e distruggere parte di quel lento ed angoscioso lavoro, volto alla conquista della nazionalità, che tanti martiri costa alla nostra patria».

Scuola di coraggio, d'italianità, di fiducia nelle proprie forze, dunque, questa Libera Parola, che investiva il lettore col prorompente entusiasmo dei suoi redattori: perfino i succinti commenti dedicati alla cronaca politica parevano scritti con la febbre a quaranta!

Bellissimo, trascinante, fra i tanti, l'articolo Esempi all'Italia. Se la coscienza della loro forza e le memorie del '48 non bastano a convincer gli italiani «che l'Austria e i principi suoi satelliti possono essere abbattuti e vinti; se l'ambizione di emulare gli studenti alemanni i quali al canto degli inni di Körner iniziarono nel 1813 la gloriosa lotta dell'indipendenza, non sorride alla gioventú delle Università d'Italia...; se qualche ignoto Wallace italiano non sente l'ispirazione di tentare con dieci uomini, come l'eroe scozzese, l'animo della sua nazione...; se i patrioti italiani d'ogni località non sono così santamente compresi del dovere d'insorgere, e non dànno il segnale, sicuri di essere seguiti da tutta la penisola... se invece preferiscono far mostra della loro mezza scienza, contando con la carta geografica alla mano, le difficoltà politiche e militari da vincersi; se nel paese classico di Fra Diavolo, di Rinaldini, del Passatore e dei Lazzarini... non sorge nell'anima di alcuni strenui giovani il generoso pensiero di farsi i Fra Diavolo e Lazzarini della libertà, di tentare e soffrire per l'indipendenza d'Italia quanto Gasparone, De-Cesaris e migliaia dei loro simili hanno tentato e tentano tutt'oggi per un pugno d'oro; se a questi giovani non sorride l'idea di levare la sacra bandiera nazionale, di combattere all'aperto, di collina in collina, di valle in valle..., di raccogliere intorno a loro la popolazione pugnace... o infine di cadere combattendo, colpiti nel petto, guardando il nemico in viso, rendendo percossa per percossa... oh allora, ogni parola è inutile. I minatori di Carrara scaveranno marmi, i canapini bolognesi flagelleranno le canape, i montanari bresciani faran carbone... ma l'Italia sarà schiava! Vogliono questo gli Italiani?»

Stupende parole ch'io non saprei attribuire se non a Mazzini o a quello tra i suoi seguaci che fin d'allora si preparava coscientemente a tradurle in azione, facendosi, alla lettera, il Fra Diavolo del risorgimento italiano.

Il crescente isolamento delle Due Sicilie in Europa (autunno '56, rottura delle relazioni diplomatiche con Inghilterra e con Francia, disinteresse austriaco; Russia, la sola potenza filoborbonica, poco ascoltata e comunque troppo lontana; gennaio '57, Palmerston che parlando di Napoli conferma in pieno la tradizionale politica inglese del non intervento) veniva intanto largamente sfruttato dai mazziniani, che ne interpretavano talune manifestazioni come un lasciar «via libera» a loro e un invito a far presto;204 uguale incoraggiamento ne cavavan però, dal canto loro, i murattiani, che negli ultimi mesi avevano visibilmente guadagnato terreno e dei quali si diceva da bene informati che andassero compiendo preparativi militari;205 sì che ad esempio se ai mazziniani riuscivan preziose le cortesie dei consolati inglesi (senza le quali le comunicazioni con Napoli sarebbero state pressoché impossibili) chi mai sapeva fino a qual punto non si giovassero gli avversari di quelle de' consolati francesi?206 Il pericolo di vedersi scavalcati dai murattiani rendeva dunque sempre più rabbiosa e frenetica l'attività dei mazziniani. I loro corrispondenti di Sicilia e di Napoli venivan continuamente incalzati perché, in attesa della spedizione, facessero: gesti individuali, dimostrazioni, rivolte locali, non monta, purché facessero e arroventassero l'ambiente e disponessero il terreno all'imminente sforzo finale. Fu, negli ultimi del '56 e sull'inizio del '57, una tempesta spaventosa e cruenta, tanto più che molte altre iniziative terroristiche si svolgevano autonome, senza controllo di partito.

Il barone Bentivegna alzava nel novembre del '56 la bandiera dell'insurrezione nella Sicilia occidentale; in altri luoghi dell'isola seguivano moti e tumulti. Sorpresa dei mazziniani in Piemonte dai quali si era pur concertata quell'impresa, ma pel gennaio del '57. Pisacane a Fanelli: «... quello che fece era colui che aveva moltissimo cooperato al lavoro; erasi avvisata Messina di attendere il piano, l'eroe temendo la cosa si scoprisse, e che le mire erano su di lui, senza avvisare anticipò... Noi dopo che avemmo l'accordo per la paccottiglia, ricevemmo inaspettato avviso del fatto ed assicurazione della risposta di Palermo, poi non più nuove...» Comunque, poiché le prime informazioni inducevano a bene sperare, una ventina di emigrati napoletani, riunitisi immediatamente a Genova,207 risolvettero di provocare un'agitazione, ed anche, ove ciò fosse possibile, un movimento insurrezionale nelle provincie di terra ferma del regno di Napoli. Pisacane, De Lieto e Salomone, incaricati di diriger l'azione, si posero senz'altro al lavoro;208 Rosolino Pilo partí per la Sicilia; e già si pensava di precipitare la spedizione che s'andava faticosamente organizzando, quando Bentivegna e compagni venivan disfatti dalle forze borboniche; Bentivegna, catturato, mandato a morte!209

L'8 dicembre, a Napoli, il soldato calabrese Agesilao Milano attentava alla vita del re.210 Processato e condannato alla forca sublimava, con le dichiarazioni rese nel dibattimento, la sua figura di tirannicida: «... vi prego di far giungere ai piedi del Sovrano l'umile preghiera di visitare le sue provincie, per vedere a che son ridotti i suoi sudditi».211 Si dette invano la caccia ai suoi supposti complici: tra gli altri giunse a sottrarsi all'arresto, fuggendo, un giovane, Falcone, suo conterraneo e compagno di studi, il più indiziato di tutti;212 il quale, riparato a Malta, si portò poi a Genova, a tempo per fraternizzare in extremis con Pisacane.

In tutto il regno, dopo l'8 dicembre, si ordinarono (è la parola e corrisponde del resto a consuetudine invalsa) memorabili feste per celebrare la salvezza del re; ma un diplomatico dalla politica piuttosto obliqua, il ministro del re sabaudo a Napoli, «cercava invano lo scoppio di quell'entusiasmo spontaneo e sincero, che credeva poter attendersi dalla popolazione napoletana»; e mentre egli ne inferiva con mal celata soddisfazione «che parziali moti sediziosi possono da un momento all'altro verificarsi», nel suo Piemonte bonariamente il governo chiudeva un occhio, o tutti e due, sulle clamorose manifestazioni indette dagli emigrati per esaltar la memoria di Agesilao Milano!213

In quello stesso mese di dicembre, un altro colpo: lo scoppio della polveriera di Napoli; e il 4 di gennaio saltava in aria una fregata rigurgitante di truppe. Disgrazie? Pare di sì; ma tali non parvero, sul momento, né a palazzo reale, né al grosso della popolazione turbata, né ai residenti stranieri.214 «L'allarme della corte — scriveva infatti al suo ammiraglio il comandante di una nave da guerra inglese stazionante a Napoli — è giunto all'estremo, e il re si è improvvisamente ritirato a Caserta»;215 fioccano gli arresti, la polizia sembra impazzita. E il console inglese: «La paura e l'eccitamento generali sono grandissimi. Il terrore regna a Palazzo».

In febbraio, brutte notizie dalla Sicilia: conflitto verificatosi il 6 di quel mese tra la pubblica forza e un gruppo di rivoltosi latitanti della banda Bentivegna; processo e fucilazione (16 marzo) di Salvatore Spinuzza.216 Le autorità siciliane vivevano sotto il terrore continuo di uno sbarco di fuorusciti!

A Napoli le truppe di terra e di mare venivano eccitate alla ribellione con manifestini incendiari inneggianti ad Agesilao Milano; altri proclami, che bollavano lo spergiuro del re nel '48, si trovavano affissi per le strade o venivan temerariamente lanciati nei pubblici ritrovi.217

Ed eran rivolte o attentati o manifestazioni che, nel mentre rendevan furente la polizia borbonica, si ripercuotevano in tutto il regno in ondate di commozione e di paura, e queste alla lor volta in una isterica attesa ahimè passiva di novità sempre più gravi. Lo stesso accadeva fuori del regno, se non peggio ancora, gonfiate come venivan quelle notizie, sistematicamente, dalla stampa democratica, che ne rilevava il nesso con altri avvenimenti significativi taciuti dal governo e dai giornali napoletani.218 Sí che pian piano si persuadevano tutti che lo scontento di quel popolo fosse giunto all'estremo ed accennasse ormai a tradursi in una di quelle generali e definitive proteste, che mentre nascono dalla sensazione diffusa della impossibilità di star peggio, conducon d'un tratto a sincronizzare gesti isolati e a far fruttare al cento per uno sacrifici individuali o di pochi, fin allora giudicati di nessun rendimento.

Eran loro medesimi che le inscenavano; pure, ogniqualvolta giungesse ai mazziniani fuori del regno notizia di «novità» ivi scoppiate, la loro volontà rivoluzionaria si tendeva fino allo spasimo. Febbrile era principalmente l'opera spiegata da Mazzini a Londra, Fabrizi a Malta, Pisacane a Genova, in connessione col Fanelli di Napoli, come ben s'intende leggendo la Cronaca del Comitato segreto di Napoli (stampata venti anni più tardi),219 che raccoglie il carteggio scambiato fra costoro dal principio del '57 al fatalissimo luglio del medesimo anno220. Fra centinaia di lettere non una che non si riveli vergata sotto l'assillo della massima urgenza, non un rigo che non si riferisca al grande soggetto; in tutte, quell'ardore quasi maniaco, quella concisione, che pare precipiti al dramma, imposta dalle difficoltà della scrittura criptografica. Documento dunque, quel libro, di eccezionale valore, seppure più psicologico che storico. Fra intese e malintesi, entusiasmi e depressioni, crisi di debolezza e parossismi di disperata energia, vi si disegna nettissimo uno dei più tragici conflitti d'anime che sia dato ricostruire: dissonanza di strumenti uno per uno perfetti e purissimi, che non riuscivano a intonarsi a concerto.

Colpisce a tutta prima il contrasto netto di tempra fra quelli che si possono dire i due protagonisti dell'epistolario: Pisacane e Fanelli.

Fin dall'estate del '56 Pisacane, s'è detto, è doventato «l'uomo della spedizione», il massimo esponente delle speranze ad essa legate; tanto che mentre egli, modestamente, conta sempre su Garibaldi quale grande riserva da reclutarsi all'ultimo, Mazzini vuole invece che i napoletani guardino a lui con piena fiducia, non soltanto per la direzione dell'impresa, ma anche per eventuali altissimi incarichi post-rivoluzionari: cerca insomma, con ogni mezzo, di accreditare il «mito» di Pisacane.221 Pisacane ne è degno: le sue lettere a Fanelli, precise, sicure, animatrici, denunziano infatti uno stato d'animo di perfetta calma interiore; egli ne balza fuori, se confrontato col Pisacane del primo periodo rivoluzionario, come più maturo, più solido, più disinteressato; le sue vedute sono semplici e rettilinee, la volontà, meglio che ferrea, implacabile. «Se nessuno si muove?... Creperemo», scrive tranquillamente una volta.222

Varia esperienza, molteplicità un po' dispersa d'interessi spirituali, certa saccente superficialità di cultura sembra che s'equilibrino, ora, nello sforzo, per confluire in quel solo fermissimo volere, tutto teso a uno scopo. Dinanzi alla sua dichiarata certezza (e insisto sull'aggettivo) ogni dubbio finisce col cadere, ogni contrasto si spiana; la penna pesante dei Saggi ci si rivela d'un tratto capace di scrivere con una robusta asciuttezza e un rigor logico davvero insospettati. Le sue lettere si rovesciano su Fanelli con tanta precipitosa irruenza che solo un freddo indifferente o un altro Pisacane potrebbero salvarsi dall'esserne travolti.

Fanelli, si sa, non era né questo né quello: ma un entusiasta e un debole. D'aperta intelligenza, mazziniano convinto, gran volontà di fare, sì; ma anche un carattere morbidamente incerto, impressionabile, a scatti: nei momenti più critici, quando soprattutto importa di conservare la calma, egli si perdeva invece in esaltate crisi d'entusiasmo o di terrore, sotto l'incubo di sproporzionati fantasmi.223 Fisicamente incapace, dunque, nel suo squilibrio, di assumere o sostenere responsabilità, ché anzi la sola prospettiva che gliene venissero addossate bastava a paralizzarlo; e insieme, per generosità e per ingegno, uomo nato di prima fila!

Tale il disgraziato corrispondente di Pisacane e Mazzini a Napoli, che avrebbe senza dubbio lasciato di sé migliore ricordo, se il Comitato di Napoli avesse seguitato ancora, dopo il '56, a disporre le pedine per la grande partita rivoluzionaria da giuocarsi in un lontano avvenire. Fanelli, non sapeva neanche lui com'era andata, si trovò invece, sui primi del '57, impegnato a fondo nella partita

«bella», quando del giuoco ignorava affatto (e a lui pareva sinceramente d'averne avvertiti gli amici) le regole e perfino le mosse. Nel comprensibile affanno finí col perder di vista il bersaglio medesimo, tanto che giunse al finale persuaso, diresti, che la minaccia di scacco gli venisse non già dal regime borbonico, ma proprio e unicamente da quel dannato binomio: Pisacane-Mazzini.

Né questa può dirsi un'imagine sforzata del vero. Bisognerebbe, per convincersene appieno, leggere ad una ad una le sue missive, povero Fanelli, così vaghe, ineguali e contradittorie, dalle prime che parevano addirittura ordinanze o richieste d'un comandante in capo, alle ultime somiglianti piuttosto a timide giustificazioni del subordinato cui, col rimprovero solenne, sia stato impartito l'ordine di condurre senza più discutere il suo reparto all'assalto.224

Ma basteran qui pochi esempi.

Siamo nel febbraio '57. Son già vari mesi che Fanelli ha scritto a Genova e a Londra: la rivoluzione è matura nelle Due Sicilie; a farla esplodere occorre solo una scintilla esterna; sia questa una spedizione armata. Adesso, nuove insistenze.

2 febbraio, Fanelli a Mazzini e a Pisacane: «Io adunque ricorro a voi in nome del paese infelice, e vi domando consiglio ed aiuto... Noi abbiamo un lavoro che mi sembra bastevole elemento per una iniziativa imponente e decisiva... Manchiamo di direzione interna proporzionale all'opera da iniziarsi, manchiamo d'armi e danaro: voi potete coadiuvare in ciò che a noi manca?»

10, 16 febbraio, risponde Pisacane: Fanelli conti pure su appoggio illimitato di consigli, di danari, di uomini. Non ad altri che a lui spetta però l'esporre il piano d'azione, studiato in accordo con le possibilità locali. La spedizione concordata partirebbe, e presto, da un porto da destinarsi: quali la rotta, lo scalo, il punto di sbarco migliori?

Fanelli, 25 febbraio: gli sembra che la spedizione possa seguire il primitivo piano, scalo a Ponza cioè per liberarvi i deportati politici, e poi sbarco con essi in qualche punto della costa a mezzogiorno di Napoli.225 Ma non vorrebbe, per carità, che ci si rimettesse unicamente a lui in cosa di tanta importanza: «Ammetto che sul luogo soltanto si è giudice competente... però non credo che io solo possa essere questo giudice...»

Pisacane lo tranquillizza il 10 di marzo: intenda bene Fanelli, la responsabilità di risolvere o contromandare la spedizione non spetta affatto a lui, ma tutta allo scrivente e a Mazzini. Egli non ha
che a precisare, una volta per sempre, in qual misura un contingente armato che sbarchi sulla costiera napoletana possa contare su appoggi locali.226 Accettata la rotta proposta da lui, il punto d'approdo verrà scelto sulla costa del Cilento (fra Sapri e Salerno, cioè); il momento dell'azione? Vicino, probabilmente; perciò si tengano pronti, Comitato e sezioni.

Stupore di Fanelli; il quale, come se nulla fosse, vien fuori il 19 di marzo con la notizia fino allora chi sa perché gelosamente taciuta esser le fila della cospirazione in Cilento quasi completamente disperse. L'affare, scrive adunque con imperturbabile calma, «mi sembra che debba pigliare un po' per le lunghe». Furia santissima di Pisacane, che comincia a conoscere il suo uomo. Vedo, gli risponde il 31, che il «vostro termometro segnava varii gradi sotto il zero, mentre il giorno antecedente... aveva ricevuta una (lettera) da Mazzini che sembrava alla temperatura dell'acqua bollente. Io amo meglio bollire che gelare; in luogo di farla da moderatore ho risposto con temperatura anche più elevata». Il Cilento è sconsigliabile? «In nome di Dio abolite i condizionali, io dico Cilento perché così mi hanno suggerito le notizie da voi fornite; ma tale scelta è assolutamente subordinata alla vostra volontà; voi avreste dovuto dirmi: no Cilento non vale, bisogna attenersi a Basilicata ed indicarmi la spiaggia... avreste potuto scrivermelo recisamente». Bando agl'indugi, Fanelli scelga immediatamente e definitivamente il luogo opportuno per lo sbarco; e in quel luogo, al momento dato, si faccia trovare egli stesso con i gruppi d'azione, e a Ponza una persona fidata pensi a organizzare la rivolta da suscitarsi all'arrivo del vapore.227 L'epoca della spedizione resta fin d'ora stabilita per la fine di aprile o primi di maggio.

Dallo stupore Fanelli, nel buscar la strigliata, precipita addirittura in una crisi di disperazione: l'organizzazione non è a punto! Mancano danari e armi! Manca la «direzione interna»! Si crede forse ch'egli sia «Padre eterno»? prorompe il 2 d'aprile.228 Chiede un mese, un mese solo di proroga. Ma nella chiusa si contraddice: «... Se Mazzini e voi giudicate... si possa dal fatto di Ponza avere il resultato dovuto, io allora essendo fuori dei miei calcoli di probabilità... sarò non ostante l'individuo di cui potrete disporre come v'aggrada, e soldato che non manca al suo posto...»

Invocato a chiarire il malinteso, interviene Fabrizi scrivendo a Mazzini perché non precipiti, a Fanelli perché abbandoni una buona volta l'idea di poter perfezionare a tutto suo agio i preparativi, necessariamente febbrili, di un'insurrezione.

Pisacane è più esplicito: «Voi... pensate costituirvi promotori di rivoluzione, e fate dipendere dalla vostra personale cooperazione il risultamento buono o tristo... Mazzini ed io siamo convinti che rivoluzione è nel cuore..., e vogliamo mandare ad effetto una congiura ristretta, rapida... Vista la cosa sotto questo lato, importa sommamente non far precedere il fatto d'armi da nulla che possa dar sospetti al governo...» E poi, appassionatamente: «amico caro, unito a voi ho cercato a far rivolgere Mazzini verso il Sud;229 ho superato tutte le difficoltà prevedibili prima, ho offerto me stesso, vi ho scritto le mie ragioni e le cose che mi sono indispensabili, le quali non richiedono tempo lungo; se poi si rimanda alle calende greche... comincio a vederci nero; tali cose, quando si spandono troppo, si prolungano... finiscono per abortire, spero che rimarrò bugiardo».

Per non restar bugiardo e per tagliar corto ai fanelliani tentennamenti, s'induce, se mai, ad affrettare ancora: e il 5 d'aprile ecco una lettera al malcapitato suo corrispondente, per informarlo che la spedizione si farà, senz'altro, alla fine del mese; si accetteranno da lui osservazioni e consigli sul modo, non una parola sul tempo. «Noi non pretendiamo da voi l'assicurazione che tutti insorgano, tutt'altro... noi desideriamo che Isola (Ponza) accetti dal luogo, e quando ci dite Isola accetta tutto è fatto».

Mazzini, con solenni parole, rincalza: «Noi individui, qualunque sia la nostra attività, non possiamo creare l'insurrezione d'un popolo: noi non possiamo che crearne l'occasione. O il popolo fa; e sta bene; o non fa, e non siamo mallevadori che davanti a Dio e alla nostra coscienza. Unico debito che ci corre è quello di studiare coscienziosamente l'opportunità del momento: coglierlo, e offrire con una mossa audace l'iniziativa alla nazione, è il genio rivoluzionario. Per me, per noi, il momento è giunto».230

Prevedibile la risposta dell'atterrito Fanelli (16 aprile), che disperatamente s'abbranca all'unica leva lasciatagli in mano: «Nell'isola di Ponza non abbiamo relazione»; sei settimane di tempo sono il minimo indispensabile per stabilir dei contatti.

Perché non dirlo prima? Perché aver perduto mesi preziosi? Perché ridursi alla vigilia dell'azione per confessare che organizzazione non c'è? Tali le accorate e sdegnose recriminazioni di Pisacane a Fanelli; al che questi, già rimbrottato dall'amico Fabrizi: ma «l'affare delle isole fu da me proposto quasi ad esempio... mentre molti altri avrei potuto proporvene». L'indulgenza di Pisacane ha questa volta un limite: «Voi — così lo fulmina il 12 di maggio — volete sciogliervi da ogni responsabilità, e fate bene, io per parte mia ve ne ho sciolto completamente...; ma dire che il negozio isola era un'idea, un esempio, perdonate ciò è un voler spingere la cosa troppo oltre...»231

Il drammatico colloquio si prolunga così; da un lato disperati sforzi per rimandare, il sollevare ogni giorno nuovi e più gravi ostacoli all'azione imminente; dall'altro la risoluta volontà di concludere (meglio concluder male che rinunciare), che risponde con l'isolare e travolgere ad una ad una le rinascenti difficoltà, qualche volta, mezzo più spicciativo, col non considerarle neanche. Se il rimandare, così ragiona Pisacane, avesse almeno contribuito a far avanzare di un pollice l'organizzazione! Ma no; col trascorrer del tempo, come sempre accade, le energie si sono afflosciate, son cresciuti i timori, diminuiti gli adepti, rimaste le difficoltà tali e quali. O non lo sente perfino Fanelli e nel suo perpetuo ondeggiare non avverte egli stesso il bisogno di scrivere agli amici (il 30 d'aprile): «Il generale volere è per un cangiamento e sia qualunque... La rivoluzione è indispensabile... veggo chiaro essere impossibile o almeno lunghissimo il tempo per ottenersi de' grandi preparativi...

Nel Sud dovrebbe farsi al più presto la rivoluzione... Ma non ostante, se v'è tempo...» ecc. ecc.?

Come regolarsi con un nevropatico di questa forza, che, soverchiato da cose più grandi di lui, anziché cedere ad altri la direzione del moto, si contenta di sfogarsi in deplorazioni puerili:

«Com'è dura la condizione di chi ha anima che ribolle oltre il confine, di chi è tenuto generalmente, ed è forse il più eccitato in tutto il partito del Sud e deve per dovere parlar parola di ghiaccio!!»? Non resta, evidentemente, poiché è troppo tardi ormai per sostituirlo, che esautorarlo di fatto, limitandosi a trasmettergli ordini, istruzioni, incitamenti e rimbrotti, cestinando senza pietà le sue geremiadi inutili.

Così, ai primi di maggio, gli si comunicava seccamente la nuova data «definitiva»: il 25 del mese. Tanto meglio se ci si potesse accordare coi deportati nell'isola; in caso diverso, nessun rinvio: la spedizione avrebbe puntato direttamente alla costa.

E mentre Fanelli, al quale Mazzini e Pisacane dovevano sembrare geni furiosi e implacabili, esprimeva il dubbio che a Genova si facesse «la burletta per divagarsi dalle gravi preoccupazioni», o lamentava che lo si facesse «morir di palpiti, parlandomi sempre di otto in otto giorni e al più da un mese all'altro per l'insurrezione», Mazzini, fulminandogli l'«adesso o più mai per forse dieci anni», gli dava ordini minuti e precisi, in tono di chi non ammetta repliche: vedere il tale a Napoli, dir questo, chieder quello, minacciare così e così, recarsi qua o là, preparar queste e queste manifestazioni, scriver questi proclami; eseguire insomma, e appuntino, le istruzioni di Pisacane.232 Pur non cessando dal protestare, dal declinare ogni e qualsiasi responsabilità, Fanelli finalmente chinò il capo; si perse meno in lettere e si mise a fare di più, tentando di ripigliare il molto tempo sprecato: allacciò rapporti con gli esponenti delle varie opposizioni di Napoli,233 mandò avvisi alle isole, alle sezioni tutte, agli amici residenti in località litoranee, tentò il tentabile per scuoter le provincie, facendo coi suoi corrispondenti — ma troppo tardi! — quella parte di animatore gagliardo e risoluto, insofferente degli altrui indugi e dubbiezze, che Pisacane aveva fatto con lui; con la differenza che mentre per Pisacane era quello l'atteggiamento spontaneo corrispondente al fuoco interiore, per Fanelli non era che una parte male appresa e goffamente recitata sotto gli occhi minacciosi e severi del suggeritore. Chi mai poteva subire la sua suggestione?

A Genova, intanto, il piano della spedizione si delinea senza incertezze, se pure con successivi spostamenti di date (dalla fine di aprile si va alla fine di maggio, e poi al 10 di giugno): resta inteso che Pisacane, Cosenz e Pilo, a capo di una trentina di volontari (reclutati, questi, da un Barbieri di Lerici, uomo di mare) s'imbarcheranno sul postale bimensile Genova-Cagliari-Tunisi; Fabrizi procurerà per alcuni di essi una falsa richiesta di lavoro, datata da Tunisi.234 Una goletta, da

tempo acquistata, caricherà in precedenza una provvista d'armi, recandosi poi a incontrare il vapore in un punto fissato della sua rotta normale. Giunta in vista la goletta, quei del vapore daranno il segnale per l'ammutinamento; riuscito il quale, e trasbordate le armi, lo dirigeranno su Ponza; là, sorpresa la guarnigione, imbarcheranno quanti più relegati sarà possibile; indi, ripetuto o no il tentativo, a seconda delle ultime informazioni che perverranno, a S. Stefano e a Ventotene, fileranno verso la costa a sud di Salerno (nell'aprile si decide per Sapri):235 ivi avran luogo lo sbarco generale, la riunione con le squadre rivoluzionarie dell'interno, l'inizio della marcia su Napoli. Nel frattempo, giunta a Genova notizia telegrafica dell'avvenuto sbarco, immantinente vi scoppierà, e scoppierà anche a Livorno, la sommossa da tempo disposta. La scintilla da Sapri si propagherà così nell'Italia settentrionale e centrale; e se non altro l'esser padroni di quei due porti metterà in grado gli amici di Pisacane di soccorrer d'urgenza la sua spedizione con l'invio, su navi requisite, di uomini, d'armi e di quant'altro mai possa occorrere.

La cosa più urgente dunque, verso la fine di aprile, è l'allacciare rapporti diretti con S. Stefano e con Ventotene: Fanelli, che è finalmente entrato in relazione con Ponza, a questo non è ancora riuscito; ed è abbastanza importante sapere se gli interessati gradiscono d'esser liberati e spediti in guerra contro Napoli! È Pisacane che si assume l'incarico: scrive a un Pisani in Ventotene, a Filippo Agresti in S. Stefano. Della prima lettera è notevole l'esordio drammaticamente conciso: «Amico. Noi siamo un'antica conoscenza, i vostri principî mi son noti, i miei sono anche noti a voi, ma io non vengo a discorrere di principî; da molti anni si discute e si ciancia, senza ottenere il minimo frutto. L'opinione pubblica europea che prima ci era favorevole, ora si rivolge contro di noi, vedendo che un popolo che si sopporta tale tirannia e non fa altro che svelarne le infamie al mondo per eccitarne la compassione come quei mendicanti che pongono in mostra le piaghe di cui è coverto il loro corpo è un popolo degradato. Noi sentiamo ogni giorno mormorare a voce sommessa siffatte ingiurie, premiamo l'affanno del cuore nella speranza di splendide condizioni. L'opportunità ci si offre, mi diriggo a voi».236 Prosegue la lettera esponendo in breve il piano di sbarco nell'isola. Accetta il Pisani di dar man forte all'impresa? E quanti con lui?

L'interpellato dovette risponder favorevolmente se Fanelli, il 30 di maggio, lo avvertiva di tenersi pronto per l'11-13 giugno e lo pregava di fornirgli al più presto le indicazioni opportune per eseguire nel miglior modo la sorpresa sull'isola.

Con l'Agresti fu diverso. Rispose dapprima in modo generico;237 otto giorni dopo (ma sì, c'era un regolare servizio di posta... clandestina tra S. Stefano e la terra ferma, povero re Ferdinando!), pur professandosi favorevole all'esecuzione del progetto, nobilmente avvertí l'obbligo d'informare gli amici che gli ergastolani politici eran sì e no una cinquantina, dieci de' quali o per età o per acciacchi inamovibili; si correva dunque il gravissimo rischio di liberar dei delinquenti veri in gran numero e pochi patrioti (avessero quei di Ponza dato lo stesso avviso!).238 Ma la terza sua lettera — ispirata, sembra, dallo Spaventa suo compagno di pena, mal prevenuto contro Mazzini e le sue iniziative — dovette contenere un risoluto invito a non occuparsi di S. Stefano;239 imbarazzato e preoccupato, Fanelli gli rispondeva infatti il 29 maggio, così: «spero far arrivare il protesto vostro al traente prima di quest'epoca (la data della partenza da Genova), ma è bene che voi facciate ogni sforzo per apparecchiarvi almeno per un acconto pel possibile caso che il protesto non arrivasse in tempo al suo destino». Fatto sta che allo scalo a S. Stefano si finí col rinunciare affatto, fissando invece come obiettivo principale Ponza, e accessorio e subordinato alle circostanze, Ventotene.

Alle difficoltà derivanti dalle deficienze di Fanelli e dalle ritardate comunicazioni si aggiungevano naturalmente quelle dovute alla mancanza di fondi.240 Ventimila lire, versate da Adriano Lemmi, qualche altra oblazione, sta bene. Ma si dovevano spedire migliaia di lire a Napoli, di abbondante danaro doveva esser fornito il capo della spedizione, e bisognava acquistare intere casse di armi! Mazzini non aveva requie: sollecitava gli amici e gli amici degli amici, caricava d'ipoteche il suo minuscolo patrimonio. È doloroso, scriveva, «ch'io debba arrossire mendicando qua e là lire sterline agli inglesi che le dànno a un po' d'influenza personale, ma inarcando le ciglia, e dicendomi: dove diavolo è il Partito fra voi?»241 Procurarsi daghe, fucili, pistole, d'altronde: non era agevole ottenerli neanche a pronti contanti, e tanto meno trasportarli, una volta acquistatili. Un certo stock, a quanto sembra, venne fornito dagli Orlando di Genova; altri giunsero a Genova, celatamente, da Torino. Pisacane a Cosenz, 17 maggio: «Avrai ricevuto la mia ultima in cui ti annunziavo l'arrivo di 116 (cifrario: armi), collocati in luogo sicuro ed opportuno pel resto da farsi... L'italianissimo Cavour ha fatto inviare da Torino una circolare a tutti i carabinieri onde visitare i carri sullo stradale, per fortuna il nostro arrivò quasi 24 ore prima di quello che avevamo calcolato, altrimenti chi sa che cosa sarebbe avvenuto...»

Notizie vaghe su questo tramestio d'armi trapelavano alle autorità genovesi e ai consoli stranieri, specie a quello toscano e napoletano. S'incrociavano dispacci allarmati accennanti a un supposto deposito di fucili nell'isola di Capraia, o a una imminente spedizione armata nel Sud, o semplicemente a misteriosi imbarchi di misteriose casse su vapori in partenza da Genova.

Pisacane contava massimamente, pel successo della sua impresa, nel segreto.242 Ma sì! Già nel dicembre '56 il governo francese era informato di una macchinazione mazziniana in Genova; e nel gennaio '57 quello napoletano sapeva della sospetta azione svolta da un sedicente inglese, di nome Charles, in connessione con gli oppositori in Sicilia (Charles era il nome di guerra di Pisacane!); e nel febbraio perfino il Times di Londra arrischiava supposizioni in proposito, ripetendo quel nome;243 il 4 d'aprile la polizia toscana veniva informata essere «stati noleggiati nel porto di Genova per rilevante prezzo due bastimenti da servire a segrete speculazioni che dovevano aver luogo sulle coste della bassa Italia»;244 il 30 dello stesso mese Fanelli avvertiva gli amici che «un vapore da guerra costeggia la Calabria per evitare un... presuntivo sbarco di murattisti»;245 il 21 maggio l'Intendente di Genova, chiamato a render ragione delle supposte spedizioni d'armi da quel porto, non poteva recisamente smentire i rumori corsi in proposito, ammetteva comunque «che armi vecchie d'ogni sorta sono state comperate in città e spedite all'estero»;246 il 29 dello stesso mese agl'Intendenti di tutte le provincie litoranee delle Due Sicilie si spedivan da Napoli istruzioni d'intensificare la vigilanza costiera, e speciali raccomandazioni venivano fatte all'Intendente di Salerno, sotto la cui giurisdizione cadeva appunto la costiera di Sapri!247 E finalmente, il 13 giugno, la polizia genovese accertava che il postale Cagliari della linea Sardegna-Tunisi compiva carichi d'armi abbastanza inspiegabili.248

Altro che segreto! I preparativi della spedizione venivano seguiti, passo per passo, dalle polizie di tutta Italia; e se il progetto poté, dopo tutto, eseguirsi, ciò si dovette proprio al fatto che, a forza di gridare per mesi e mesi al lupo, i rapporti di polizia finirono per lasciare increduli i rispettivi governi. Non quello di Torino, è vero; ma su i molti e coscienti peccati di debolezza da esso commessi verso i rivoluzionari napoletani (i quali, va detto, non ne ebbero, per parte loro, che un assai vago sospetto), sembra superfluo anzi che no l'insistere; poco se ne sa, più s'intuisce; la verità vera, forse, non la sapremo mai.249

Capitolo decimo

Testamento

Mentre si approssimava la data per l'esecuzione del tentativo, una crescente agitazione s'impadroniva di quasi tutti gli organizzatori, sia che temessero per loro stessi, sia che soltanto allora riuscissero a misurare qual sorta di responsabilità si fossero assunti, sia finalmente che l'ostinata contrarietà alla spedizione di molti fra i migliori amici li rendesse proprio all'ultimo dubbiosi. Pisacane no. Era anzi sempre più calmo: più affettuoso e indulgente nelle lettere a Fanelli, meno concitato in quelle a Mazzini o a Fabrizi, sereno e rasserenante nei colloqui coi «complici». Nonostante l'imminente ciclone la sua normale attività proseguiva imperturbabile.

Ed eccolo modestamente occupato a impartire lezioni di matematica fino al giorno della partenza, eccolo dissipare col franco sorriso i sospetti degli amici non a parte del segreto, eccolo, nella corrispondenza coi conoscenti, distendersi a ragionare del più e del meno, come se nulla fosse.

Il 9 maggio '57, per esempio (quando pare che la spedizione debba effettuarsi alla fine del mese), così risponde a una lettera di Giovanni Cadolini, il quale gli ha offerto un posto d'ingegnere nel suo studio a Oristano: «Il lavoro che mi proponete mi sarebbe molto omogeneo, ed i patti accettabili, perché proposti da amici in compagnia dei quali sarei contentissimo di lavorare; ma per tutto questo mese e l'entrante sono già impegnato e non potrò lasciar Genova, quindi non posso che ringraziarvi di cuore della memoria che avete conservato di me, sperando rivedervi in migliori occasioni. In politica qui si vegeta... Al Parlamento subalpino si recita sempre, non saprei se il dramma, commedia, o farsa. Quando finirà? Spero... (sic) ed abbracciandovi sono».

17 di maggio, lettera a Cosenz: di tutto un po'. D'una partita d'armi che è felicemente arrivata,250 di certe medaglie fatte coniare in memoria di Agesilao Milano, d'un libro del Carrano sul Pepe, della giornalista inglese Jessie White.

Il 26 trasmette a un amico, a Milano, informazioni minute su una partita di bachi e di «semi di Calabria»;251 ma è una formola convenzionale per annunziare il prossimo imbarco... Tutto fuoco di dentro ma all'aspetto esteriore quieto e composto è Pisacane; né solamente per deviare, col contegno, l'eventuale vigilanza della polizia. Come mutato dal Pisacane di pochi anni innanzi (quello descrittoci dal Dall'Ongaro), gesticolante, rumoroso, parolaio! Lo conobbe in quelle ultime settimane un mazziniano fiorentino, Andrea Giannelli, allora ospite a Genova di Costantino Mini, che abitava, a un piano diverso, nella casa medesima di Pisacane (Via Colombo, numero quattro).252 «Il Mini — racconta il Giannelli — mi presentò al Pisacane, che rividi solo qualche altra volta; e sebbene non mi spiegasse minutamente i suoi disegni, pure capii che qualcosa di straordinario egli stava preparando». Pisacane «lasciò in me un'indicibile espressione (sic) d'uomo predestinato. Di carnagione candida, barba e capelli rossi-biondicci, gli occhi celesti, di statura media ed abbastanza complessa, il portamento composto, di non molte parole e misurate tutte ed a proposito, rivelavano in lui, preso così nell'assieme, un uomo superiore...»253

L'11 di maggio, con prodigiosa disinvoltura sfidando le ricerche della polizia, Mazzini — via Torino — ritorna a Genova. Il sapere che c'è, che è fra loro, il poterlo qualche volta vedere, galvanizza i compagni.

Non ha un momento di requie; tre distinte gigantesche imprese da condurre a punto e sincronizzare: Sapri, Livorno e Genova! E, insieme, amici sicuri da raffermare, incerti da scuotere, tepidi da neutralizzare, nemici da tenere a bada; proclami e manifesti da dettare e passare alla stamperia clandestina; cento dettagli da stabilire per le imbarcazioni, per le armi; intese da precisare; e in più sviare i sospetti delle autorità: un inferno!

Il giorno 12 Mazzini si abbocca con Pisacane; poi, quasi tutte le notti, sono convegni segreti e di decisiva importanza. Pochi giorni dopo, ecco a Genova Jessie White, mazziniana esaltata, ben nota per una serie di clamorose conferenze sull'Italia tenute in Inghilterra, venuta adesso in Italia per assicurare al Daily News, nell'imminenza dei moti insurrezionali, corrispondenze tali da guadagnare ad essi la simpatia del pubblico inglese.254 L'arrivo di questa rumorosa e imprudente reporter (imprudente al punto da discorrere a voce spiegata di quel che sta per succedere, in una stanza d'albergo, a Torino)255 è particolarmente importante in quanto è proprio per mezzo di lei che gli organizzatori della spedizione fanno un ultimo tentativo per ottenere la cooperazione di Garibaldi. Già nel febbraio di quell'anno, a ripetute pressioni della White in proposito, il generale ha risposto:

«Se io fossi sicuro d'esser seguito da un numero ragguardevole presentandomi con una bandiera sulla scena d'azione del mio paese e soltanto con piccola probabilità di successo — dubitereste voi ch'io mi lancerei con gioia febbrile al conseguimento di quell'idea di tutta la vita, abbenché mi si presentasse, per compenso, il martirio più atroce?... Se non mi lancio a capitanare un movimento — è perché non vedo probabilità di riuscita... non dirò agl'Italiani — Sorgete! per far ridere la canaglia...»256 La White non si dà per vinta. Agli ultimi di maggio combina un ritrovo a Torino fra Garibaldi e Pisacane, presenti lei medesima e Nicotera, allora giovane di studio del Mancini. Ma Pisacane, munito dei piani della spedizione e della corrispondenza col Comitato di Napoli, spiega invano la sua appassionata eloquenza: Garibaldi, appoggiato a Genova da Bertani e Medici, è fermissimo nel diniego, ben persuaso che senza l'appoggio del governo sardo sia impossibile ormai raggiungere in Italia per via d'insurrezioni alcun resultato apprezzabile.257 A Nicotera invece sembran più che esaurienti le documentate assicurazioni di Pisacane esser tutto «disposto nel Regno, e che soltanto vi bisognava un'iniziativa»: tanto più che gli consta che Pisacane s'è rifiutato di prender parte in passato ad altri movimenti insurrezionali da lui considerati immaturi. L'acquisto di Nicotera, intellettuale di fegato, popolare nella nativa Calabria, è incoraggiante e importante.258

Piú tardi, il 22 o il 23 di giugno, trovandosi Garibaldi in Genova, Pisacane s'abboccherà un'ultima volta con lui, ma senza frutto.259

Mazzini spedisce intanto a Fanelli le istruzioni definitive sull'azione da svolgersi a Napoli a sbarco avvenuto. Bisogna che Napoli insorga. Si badi bene però: «astenersi da manifestazioni esclusive», affermare fin da principio il carattere nazionale del movimento, stroncare inesorabilmente ogni deviazione murattista. Sfruttare senza esitazione il primo fermento che la notizia dello sbarco produrrà nella popolazione, non lasciarsi «sedurre dalla tendenza così facile e funestissima ad aspettare che lo sviluppo del moto provinciale assuma proporzioni imponenti». Si tenti subito un colpo d'audacia, per esempio impadronirsi di sorpresa d'uno dei forti che circondano Napoli; nel tempo stesso, non prima, si spargano tra i militari e i borghesi proclami insurrezionali e si faccian sparire «per fatto individuale» gli alti gradi dell'esercito.

Stia tranquillo, Fanelli: poco prima del «fatto» giungerà a Napoli, per assisterlo, un Commissario politico (il Quadrio); fors'anche un tecnico militare (il Cosenz). Mazzini intanto gli acclude due abbozzi di proclami, rivolti ai cittadini e ai soldati: concitati, trascinanti, generici; mazziniani, nell'intonazione, al cento per cento.

Tutto ciò il 24 di maggio. Il 1° di giugno parte per Napoli un altro proclama ancora: a Genova evidentemente si teme che Fanelli non sappia, nel giro di poche righe, riepilogare le cause dell'insurrezione e scuotere l'animo dell'anonima folla. Il nuovo proclama è scritto di pugno di Pisacane, Mazzini non ha fatto che correggerlo qua e là.260 Che differenza fra questo e i due precedenti! In quelli ricorrono le parole dovere, missione, patria, sacrificio, onore; questo non è che un contratto proposto ai napoletani dagli iniziatori del moto: seguiteci e noi vi daremo, sul terreno politico, suffragio universale, libertà di associazione, di parola e di stampa, educazione nazionale, libertà dei comuni, unità nazionale; su quello economico, assistenza obbligatoria ai nullatenenti infermi e vecchi, abolizione dei dazi e delle imposte indirette, tassa unica sul reddito con esenzione dei redditi minimi, imprendimento d'immensi lavori pubblici per sovvenire alla disoccupazione, larghissimi crediti alle associazioni di lavoro, sfollamento della burocrazia.

Tutte riforme che Mazzini bandisce da un pezzo, ma quando mai ha egli fatto leva così esplicitamente su di esse per trascinare le masse all'insurrezione? Il proclama è dunque un tipico frutto della collaborazione tra il suo dogmatismo morale e il pragmatismo di Pisacane. Pisacane concede un fuggitivo accenno introduttivo alla tradizionale formola Dio e Popolo261 e acconsente a ridurre a poche ricette d'un blando riformismo il vasto suo programma sociale; Mazzini si rassegna per parte sua a che l'appello alla rivoluzione politica venga contaminato da una serie di materialistici do ut des. Pisacane sa fin troppo che la stragrande maggioranza della popolazione non avverte gl'imperativi di libertà se non in funzione del problema economico; Mazzini si affretta a mettere in chiaro, scrivendo a Fanelli, come «le promesse contenute in questo scritto possano verificarsi tutte senza sovversioni di diritti acquisiti, senza sconvolgimenti sociali».

Non mancano gli accenni alla questione militare, e questi son tutti di pretta marca pisacaniana: esercito nazionale, gli ufficiali eletti a suffragio indiretto dalla truppa medesima; non appena raggiunta l'unità italiana, organizzazione della nazione armata. In un proclama speciale dedicato all'esercito, l'invito all'insurrezione è accompagnato naturalmente dalla promessa di promozioni speciali a quelli tra i militari che v'aderiranno più presto.

La notte del 4 di giugno, in Genova, gli organizzatori e i fautori della spedizione si riuniscono segretamente per prendere gli ultimi accordi, rivedere punto per punto il progetto e valutarne definitivamente le probabilità di successo. Salvo Castelli, meridionali tutti: Pilo, Pisacane, Nicotera, Cosenz, Carbonelli, Mignogna, Falcone, portavoce di Fabrizi, di fresco giunto da Malta.262

All'ora designata, con quel tanto di mistero e di rischio che vale a dare il batticuore agli astanti, ecco Mazzini. Sebbene particolarmente ottimista in quei giorni, Mazzini era tuttavia molto perplesso. Lasciamo andare Fanelli che con le sue crisi alterne di disperazione e di esaltazione avrebbe fatto dubitar della fede un dei dodici apostoli; ma sconcertavan Mazzini la contrarietà d'un Saffi e d'un Crispi all'impresa di Genova, il pessimismo d'un Musolino, l'atteggiamento intransigente dell'equilibrato Bertani che perfino evitava d'incontrare gli amici per non saper da loro a che punto ne fossero 263(onde Pisacane: «Pare impossibile! così entusiasta l'anno passato, ora così irremovibile»). Per di più mancavano ancora notizie precise su Ventotene e su Ponza; di Sapri non si sapeva che quello che ne dicevano le carte geografiche, e non ci si fondava che su presunzioni generiche quanto allo stato d'animo dei gruppi di opposizione nel napoletano: in quali e quanti paesi la notizia dello sbarco avrebbe determinato l'insurrezione? Fino a che punto si poteva contare sull'affluire di compagni armati sul lido di Sapri? Mistero, mistero. Ed eran sei mesi abbondanti che non ci si occupava di altro!

Ragionevole dunque che a Mazzini tremassero i polsi nell'atto di dar fuoco alle polveri: fuor che Mignogna non eran tutti ragazzi, appetto a lui cinquantenne, gli otto adunati? Tremenda la responsabilità che per l'ennesima volta in sua vita gli gravava le spalle, insopportabile la ricorrente tempesta del dubbio. Su tutti pesava, quella notte, come un oscuro presagio, l'ombra di Bentivegna; perfino Nicotera, un vulcano di solito, si diceva poco persuaso della maturità rivoluzionaria del suo Mezzogiorno.

Ma come un improvviso raggio di sole disperde una densa cortina di nuvole, così la sicurezza pacata, il logico ragionare, la voce insieme ferma e appassionata di Pisacane valsero a dissipare ogni esitazione con tale facilità, con tale prontezza che alle postume riflessioni di coscienze turbate il miracolo dovette sembrare spiegabile solo qual frutto di una vera suggestione collettiva. Perché mai tormentarsi di dubbi? Troppi segni accusavano ormai l'esistenza di una situazione tipicamente pre-rivoluzionaria nelle Due Sicilie, troppe scintille eran sprizzate qua e là perché si potesse mettere in forse l'imminenza e la gravità dell'incendio. La cronaca degli ultimi mesi non era stata che una lunga teoria di sedizioni, rivolte, attentati, collettive proteste: falliti tutti, tragicamente scontati, è vero, ma non forse esclusivamente perché quegli episodi si erano svolti indipendenti e isolati l'uno dall'altro né alcuno di essi si era rivelato di tanta importanza da costituire seria minaccia per la conservazione del regime borbonico? Non più si trattava dunque di star lí a soppesare le disposizioni del popolo napoletano, fin troppo chiare: o che si voleva, che esso insorgesse d'un tratto, tutto insieme, inerme di fronte alle baionette tiranniche? Era tempo di offrirgli un'occasione irresistibile, una base d'appoggio se si voleva che osasse: la spedizione, precisamente, la marcia dei prigionieri armati. Inadeguata la preparazione? E poco risoluti sembravano i rivoluzionari, laggiú? Ben naturale: quante volte, dietro precise promesse di aiuto esterno, pochi audaci si erano mossi per cadere da soli! La dolorosa esperienza rendeva diffidenti adesso anche i più generosi. Ma se mai un giorno essi avessero veduto le vecchie promesse tradursi in realtà e la troppo decantata solidarietà italiana manifestarsi davvero attraverso altri moti scoppiati in altre regioni della penisola, chi mai li tratterrebbe più? Il ricordo dei compagni caduti centuplicherebbe la loro energia, e il mondo, anche troppo disposto sin qui a deplorare l'inerzia dei napoletani, stupirebbe del numero e della foga degli antiborbonici. Se gli animi, nella fase della preparazione, oltre che intimidirsi, si dividevano, non era anche questo ben comprensibile? Solo la magia dell'azione sa far tacere i dissensi.

Così, quella notte, parlava Pisacane; e i volti dei suoi ascoltatori si contraevano in un'espressione di risolutezza incrollabile e i sedici occhi mandavano lampi. Fatuità nel parlatore? Leggerezza negli altri? No: Pisacane esercitava sugli amici, su Mazzini pel primo, l'ascendente invincibile di chi, sostenendo la necessità e la bellezza d'una impresa arrischiata, assume per sé, del rischio, la massima parte.264

Fu così che venne irrevocabilmente decisa, nei suoi minuti dettagli, l'impresa di Sapri, combinata con i moti minori di Genova e Livorno; Pisacane capo della spedizione, Nicotera e Falcone in sottordine; Pilo distaccato sulla goletta destinata a incontrarsi col Cagliari; Cosenz capo militare nel napoletano; Mignogna incaricato di informare telegraficamente Fanelli; partenza della goletta il 6 giugno, della spedizione il 10.265

Dopodiche l'adunanza si sciolse.

Due giorni di ansiosi preparativi.

Il 6 giugno, a notte alta, accompagnato da altri emigrati fra i quali un Pisani, fratello del relegato, Rosolino Pilo si portò presso Rivarolo di Ponente, in una villa sul mare dove in precedenza si erano trasportate dodici casse di «letti di ferro» (duecentocinquanta fucili, con relative munizioni, e duecentocinquanta daghe). A mezzanotte, mentre qualcuno pensava a tener lontane le guardie di dogana, si trasferí questo carico sulla goletta già pronta in attesa.

Era comandata, questa, da un vecchio lupo di mare cui si eran promessi lauti guadagni purché si fosse prestato a tener mano a un contrabbando. Ma il pover'uomo, osservate che ebbe le casse, non stentò a rendersi conto di che mai si trattasse; sì che, nel timore d'incorrere in rischi più seri dell'usato, bruscamente rifiutò di partire. Lieve impaccio per quei giovanotti già d'accordo col rimanente dell'equipaggio! Al vecchio, che tra molte bestemmie piangeva e profferiva minaccie, si tolse il governo della nave e fu lasciato in un canto a ruminar la sua ira.

Pure quel pianto fu un cattivo presagio. I primi due giorni si ebbe infatti a lottare con l'assoluta mancanza del vento, che fece dubitare non si sarebbe raggiunto in tempo il luogo destinato; e quando, la notte dall'8 al 9, finalmente, le vele si gonfiaron d'un tratto, non era vento, era bufera scatenata. «Il mare divenne più che burrascoso, un vento tutt'affatto contrario cominciò a soffiare: il battello ruppesi nella carena e l'ondate del mare penetravano dentro, di modo che in pochi momenti si giunse ad avere quattro palmi d'acqua. Per maggior mala sorte il bastimento trovavasi con la pompa inservibile, s'era senza carta di navigazione, con attrezzi e cordaggi vecchi, che rompevansi ad ogni infuriar di vento. Li marinari per la folta nebbia non sapevano più dove stava la terra e quindi perdevansi d'animo. Si raccolsero tutti a consiglio col vecchio capitano».266 Impossibile approdare in un porto vicino, per via del carico; impossibile d'altronde proseguire per via del vento contrario; imminente il naufragio se non s'invertiva la rotta e non si gettavano immediatamente a mare le dodici casse. Netta ripulsa di Pilo: mancare all'incontro, gettare le armi — ognuna delle quali era costata miracoli di audacia, di astuzia, di passione — significava compromettere irreparabilmente la spedizione. Ma come tre giorni innanzi alla volontà contraria del vecchio si era violentemente imposta la forza del numero, così ora la disperata resistenza di Pilo s'infranse contro il pànico timore dei suoi compagni.

Liberata dunque la goletta dal peso e il capitano dal gran pensiero, questi riprese il comando e quella, il vento aiutando, filò verso Genova.

E se non si giungeva in tempo per fermare gli amici? (Il Cagliari avrebbe dovuto salpar l'indomani). Dopo il mancato incontro, cosa avrebbe risolto Pisacane? Proseguirebbero inermi? E ammesso pure che si giungesse a prevenirli, che fare se fosse intanto già partito il dispaccio per quei di Napoli, perché iniziassero il moto? Ma il vento, per fortuna, soffiava talmente impetuoso che «in 3 ore circa si rifece il cammino che si era fatto in tre giorni e si giunse alle 3 ore pom. del giorno 9 giugno nel porto di Genova». E allora le ansie dello sbarco. I doganieri non si sarebbero insospettiti nel veder calar giú da una goletta quei tipi così poco marinareschi? Nessun genovese si trovava tra i passeggeri e Pilo era noto anche troppo alla locale polizia. Ma no: il mare agitato favorí la manovra; e poté il povero Pilo mandare altri dapprima e poi correre disperato lui stesso a casa di Pisacane ad annunziare lo sciagurato incidente.

A Genova tutto era pronto. Senonché si era dovuto, la mattina stessa del 9, superare una imprevista difficoltà, provocata (ebbe a dire Mazzini) dal «voltafaccia» di Cosenz;267 questi, si è visto, avrebbe dovuto partire per Napoli per assumervi la direzione militare dell'insurrezione. Recatosi a Genova per prendere imbarco, aveva appreso, all'ultimo, che Quadrio era stato designato a Commissario politico e lo avrebbe accompagnato nel viaggio. Perché gli si era taciuta la circostanza? Porre Quadrio alla testa delle cose non significava forse assegnare al moto quell'etichetta di mazzinianismo assoluto, che secondo le intese corse avrebbe dovuto evitarsi? Cosenz avea fin qui tutte le ragioni del mondo e avrebbe potuto giustamente pretendere la sostituzione di Quadrio; si mise dalla parte del torto prendendo precipitosamente una risoluzione ab irato: quella di tornare a Torino senza cercar di Mazzini, lasciando solo «una lettera nella quale dichiarava che non voleva essere lo strumento di nessuno». Ma forse Cosenz non si era reso conto di sabotare con quel ripicco le sorti stesse e della spedizione e del moto di Napoli.

Toccò a Pisacane, avvezzo d'altronde a certe sorprese da parte di quell'amico, di rabberciare alla meglio le istruzioni a Fanelli, avvertendolo che a Napoli si sarebbe recato soltanto il Commissario politico: alle cose militari provvedesse da sé.

Quanto agli uomini della spedizione, marinai e artigiani della Liguria, della Lombardia e delle Marche, gente devota a Mazzini, essi erano agli ordini. Pisacane, addí otto di giugno, li aveva con maschie parole sommariamente informati dello scopo e delle modalità dell'impresa.268 La rotta era stata accuratamente studiata, e a Pisacane si era affidato il magro «tesoro» dell'impresa. Il dispaccio per confermare al Comitato di Napoli la imminente partenza era infine stato spedito quando, trafelato e disfatto, giunse Rosolino Pilo.269 Era il disastro! S'imponeva il rinvio sine die della impresa; ma come avvertire Fanelli? Le menti agitate di Pisacane e Enrichetta, di Pilo e dell'amico genovese Mazzini, che era con loro, si figuravano già Napoli in tumulto e nuclei di insorti del Cilento, di Basilicata e Calabria in marcia verso la costiera di Sapri, nella rischiosissima attesa del Cagliari, e paesi e città più lontani in rivolta, nella fidente attesa della rivoluzione italiana, attesa che si tramuterebbe ben presto in disperata angoscia, mentre la repressione borbonica avrebbe soffocato nel sangue quegli efimeri focolai d'incendio. Senza capi, senza programma, male armati, delusi, i compagni laggiú sarebbero caduti ancora una volta da soli, maledicendo.

No, questo non doveva accadere.

I quattro corsero da Mazzini, che si teneva allora celato in casa Pareto: Mazzini rimase atterrito. «Un intiero edificio costrutto con una difficoltà infinita, — scrisse a un amico — successo insperato fino a ieri, ed avverti che oggi era il giorno decisivo, venne abbattuto da un colpo di vento, a cagione di un naviglio sbattuto dalla tempesta, che gittò in mare il materiale e gli altri oggetti... Ce n'è da darsi la testa nel muro... »270 Che fare? Impossibile spiegar l'accaduto per telegramma; per lettera, sì, profittando del postale per Napoli che partiva nel pomeriggio; ma a chi affidare uno scritto così compromettente? Si pensò, al solito, al consolato inglese e la lettera, vergata in grandissima fretta, vi fu recapitata; ma il consolato era chiuso!

Fu allora che parlò la compagna di Pisacane. Essa aveva assistito con grande inquietudine a tutti i preparativi della spedizione, troppo generosa per dissuaderne il suo Carlo in nome del suo amore o dei diritti della piccola Silvia, troppo intelligente e sensata per non prevederne il tragico esito; aveva, per mesi e mesi, taciuto. Ora parlò con rude schiettezza.271 Non sapeva intendere come ci si potessero fare tante illusioni sulla serietà e l'entità dei preparativi compiuti dal Comitato di Napoli. E infatti, delle due l'una: o laggiú si andava organizzando davvero una vasta rivolta, e allora che bisogno poteva mai esserci di questa pericolosissima spedizione di pochi? O invece una spinta dall'esterno — così lieve! nessuno come lei poteva sapere quanto terribilmente lieve! — si riteneva proprio indispensabile, e allora che mai doveva pensarsi di quei preparativi? Il forzato rinvio, comunque, giungeva forse provvidenziale: già che occorreva ad ogni costo avvertire Fanelli, andasse Carlo in persona a Napoli, prendendo imbarco sul postale in partenza, e profittasse della gita per accertarsi della situazione effettiva. Troppo aveva detto e disdetto, promesso e ritirato il Fanelli: sì che soltanto dopo il controllo eseguito sul posto da Pisacane si sarebbe potuto risolvere in tutta coscienza se fosse il caso o meno di ripigliare il progetto.

Animata dalla segreta, umana speranza che Pisacane tornasse da Napoli deluso e sfiduciato, persuaso cioè come lo era essa da tempo, e come egli stesso s'era mostrato in passato, che il forzare con imprese avventate la dura realtà del regime borbonico, resistente a ben altre scosse, sarebbe stata pura pazzia; allucinata dal ricordo anche recente dei tanti che, scambiando lo stato d'animo proprio con quello di tutto un popolo, si erano invano sacrificati, essa non esitò un istante a esporre il suo compagno al pericolo immediato, che pur non si dissimulava affatto, di cadere nelle mani della polizia napoletana: Pisacane era disertore dell'esercito borbonico! Gli è che essa non agiva soltanto per fini egoistici: al rischio, supposto inutile, di molti, preferiva malgrado tutto il rischio corso da un solo, fosse quest'uno il suo caro, il padre di sua figlia, la ragione stessa della sua vita.

Senza indugio Pisacane accettò; e gli altri approvarono. «In due ore — attestò Mazzini nei Ricordi — ei decise; fece tutti i preparativi opportuni, abbracciò la donna del suo cuore, che si mostrò in tutto degna di lui, e partí. Era determinazione per lui più grave dell'altra; era l'esporsi a tortura e a morte solitaria, senza difesa, non coll'armi in pugno e lottando. E nondimeno, chi lo vide in quelle ore avrebbe detto ch'ei s'avviava a diporto». Aveva infatti nel cuore una pace profonda: se la spedizione forzatamente mancava, non lui mancava; se il rinvio avesse malauguratamente prodotto, laggiú, una catastrofe, era ben giusto che travolgesse lui pel primo. Ma una voce interiore, ottimista, gli diceva che col suo arrivo a Napoli tutto si sarebbe appianato e il tentativo, a breve scadenza, si sarebbe potuto ripetere; chi sa mai, fors'anche gli si sarebbe rivelata la possibilità di una iniziativa immediata nella capitale; e in quel caso, nessun rinvio (pericoloso sempre) dei moti di Genova e Livorno.

Degno di Mazzini — che, vinto il primo smarrimento, era già pronto a ricominciare tutto da capo — Pisacane assicurava un amico che «accostumati ormai alle disgrazie ed alle delusioni, esse non ci scoraggiano — ma con maggiore pertinacia ci legano all'impresa».

Munito d'un passaporto falso, inosservato dalla polizia, s'affrettò dunque sull'Aventino in partenza.272 Il viaggio fu turbato da continue apprensioni; ancora da Civitavecchia, dove il postale faceva scalo, egli scriveva a Fabrizi: «se ci sarà fallimento non voglio rimproverarmi né debolezza, né mancanza di energia; ma soccombere con la coscienza degna di me e de' miei amici». Forse travestito, sbarcò incolume a Napoli, venerdí dodici giugno; si precipitò da Fanelli.273

Non appena ricevuto il famoso dispaccio, Fanelli, pur mal persuaso e sconvolto, aveva diramato nelle provincie l'ordine d'azione per il 13 giugno. Il contrordine fu adesso comunicato d'urgenza: ma ci volevano altro che ventiquattr'ore per giungere ovunque! Sí che, come si seppe di poi, all'indomani il lido di Sapri si mostrava insolitamente animato e la polizia borbonica notava, in varie località di provincia, segni di agitazione. Però niente di grave accadde, né tumulti né arresti.274 Si eran salvate le possibilità di un prossimo bis e insieme si era inscenata una sorta di prova generale del movimento nei piccoli centri lontani, della quale e Fanelli e Pisacane, un po' alla leggera, si dichiararon soddisfatti appieno. La complicazione più grave provocata dal rinvio era costituita piuttosto, o così parve, dalle confidenze pur vaghe che nella imminenza del moto Fanelli aveva creduto di dover fare agli esponenti del partito moderato costituzionale275; vero è che in risposta alle sue sollecitazioni di aiuto o di benevola neutralità gli si eran prodigati molti no, se e ma; restava comunque il fatto, per niente rassicurante, che molta gente per principio contraria ai metodi rivoluzionari era ormai a conoscenza o subodorava il «segreto».

La sera del 13 il Comitato di Napoli tenne riunione in casa Dragone, presenti, oltre Pisacane e Fanelli, Giuseppe Lazzaro, Teodoro Pateras, Giovanni Matina, Antonio Rizzo, Luigi Fittipaldi, Raffaello Basile e Giuseppe De Mata. I convenuti, a ciascuno dei quali faceva capo l'organizzazione rivoluzionaria in questa o quella provincia, resero conto dell'opera svolta, presentarono nominativi e statistiche, esibirono l'intero carteggio scambiato coi rispettivi nuclei.276 Il problema da risolvere era il seguente: è in grado il Comitato di Napoli di suscitare l'insurrezione nel regno senza che a muovere gli animi intervenga dapprima il fatto nuovo, sensazionale dello sbarco dei fuorusciti e dei prigionieri? Si dovette concluder pel no. Pisacane riferí subito a Pilo: «non vi è nulla di concreto pel momento; vi sono elementi disgregati, né possono concretarsi in pochi giorni: contavano tutti sul fatto nostro».

Ritentare, dunque, la spedizione mancata? Pisacane, il giorno 14, si pone a valutarne in concreto le probabilità di riuscita: continua con le consultazioni con gli amici del Comitato, s'abbocca con moderati, scrive di nuovo alle isole.277 Il giorno appresso ha già ritrovato il perduto ottimismo, per quanto non ancora si senta di prendere una decisione in proposito. Scrive a Pisani: se la spedizione si farà, si farà con i duecentocinquanta fucili in meno; quaranta uomini armati, e basta. Ci sono speranze di successo a Ventotene, e i relegati accetterebbero questo piano ridotto? «Le cose sono in modo, che un impulso, una scintilla può produrre un incendio, questo è il mio convincimento morale...»

Il 16 giugno è la risoluzione finale: lo sbarco a Sapri avrà luogo, avvenga che può. Ultime istruzioni a Fanelli, agli altri membri del Comitato, più o meno le stesse già concertate a Genova; unica variante essenziale, certo suggerita dalla poca incoraggiante esperienza fatta in quei giorni, quella di «evitare ogni discussione» coi moderati, «procedendo sempre ad assimilarsi gli elementi di azione,... opponendosi occultamente con ogni mezzo alle dimostrazioni. Cedere alle loro pretese di ammettere il grido di costituzione (perché l'avvenire è nostro) nel solo caso che da questo dipendesse il fare o il non fare immediato».

Contemporaneamente, Pisacane informa Fabrizi: «Ho trovato una gran quantità di ottimi elementi; e più di quelli che assicurava il coscienziosissimo Kilburn (nome di guerra usato da Fanelli); manca (come egli dice) un centro intorno a cui questi elementi indissolubilmente rannodarsi; ma non vi è mezzo per crearlo ed a questo male che dipende da esuberante individualità, non v'è che un solo rimedio: che il nostro operosissimo si tenga strettamente unito con costoro, e si accrediti presso di loro coi mezzi che noi dobbiamo fare ogni sforzo per fornirgli... Ed ora è d'uopo, che io e lui (Fanelli) prefiggendoci come scopo lo stabilito, pieghiamo come si dovrà alle circostanze».

Fanelli subisce in pieno la suggestione ottimistica esercitata dal suo amico, e quella sorta di contagiosa serenità che ne emana si impadronisce di lui. Il 17 giugno, infatti, trasmettendo un biglietto di Pisacane — nel frattempo partito — assicura l'Agresti che dopo il disastro avvenuto «noi... non siamo men fermi nel nostro proponimento, e speriamo o col ripetere il progetto o con imprenderne qualche altro (che abbiamo pur da gran tempo ruminato e disposto) di venire sollecitamente allo scopo desiderato». Due giorni dopo, lettera a Pisacane: «...per carità, sbrigate l'opera vostra. I moderati ci stanno tendendo una contromina nella provincia. I murattisti si apparecchiano ad approfittare dell'opera nostra, bisognerà che agiamo di sorpresa... Tutto ciò che dovete sbrigatelo; io non credo che possiamo durare a lungo senza avere arresto, ed allora le faccende potrebbero rimanere sospese per un pezzo e con grave danno». Gli stessi appelli, febbricitanti, rivolge agli amici di provincia. «Tenete tutto prontissimo», raccomanda a Giacinto Albini (il 18); l'insurrezione non è che ritardata «di qualche giorno». Lo stesso scrive al Libertini (20 giugno): l'azione è «sospesa» per «pochissimo», bisogna «intanto giovarci della poca dilazione»; lo stesso al Magnone (22 giugno).

Ma non sarebbe stato Fanelli se quando poi Pisacane, tornato a Genova, gli annunziò l'imminente concretarsi dell'impresa, non ne fosse rimasto sbalordito addirittura e non avesse per l'ennesima volta maledetto il momento nel quale s'era messo in contatto con quel pazzo furioso.

Pisacane era ripartito da Napoli, per via di mare, il 16 giugno.278 Si sentiva tranquillo e pieno di speranza: il resultato più importante del suo viaggio era stato quello di avergli permesso di rendersi conto pienamente, in anticipo, dell'immenso effetto morale che lo sbarco a Sapri avrebbe provocato in tutto il regno; i rivoluzionari napoletani, ricchi delle migliori intenzioni, ma incerti e indolenti, avrebbero indubbiamente reagito, di fronte al fatto compiuto, con quell'energia che spesso gli irresoluti dispiegano all'improvviso quando una travolgente forza esterna non lascia loro altra alternativa che quella di agire in una certa direzione o di passar da codardi. Del loro zelo antiborbonico non si poteva dubitare: bisognava dunque cacciarli per forza in questa via senza uscita. Altra certezza che egli portava via con sé era quella del fracidume dell'edificio borbonico, ritto ormai per sola forza d'inerzia. La piccola folla dei discordi rivoluzionari napoletani stava lí quieta a riguardare il palazzo; tutti architetti, perdevano il tempo a disputarsi l'accollo della demolizione, vantando ciascuno la superiorità del proprio progetto e delle proprie maestranze. Non intendevano dunque che al primo colpo di piccone un po' deciso l'oggetto delle chiacchiere loro si sarebbe sfasciato in un nuvolone di polvere?

Il vapore si staccava dal porto. Lontanava nel sereno orizzonte Napoli,279 la sua Napoli, per la quale Pisacane soffriva la nostalgia senza requie di tutti i figli del Vesuvio raminghi nel mondo: Napoli, dove aveva sognato i sogni della sua adolescenza, dove era nato il primo, l'unico amore della sua vita, dov'era la sua casa di un tempo, con sua madre, con la sorella sposata. Aveva potuto abbracciarle e rivedere il fratello ufficiale borbonico cui, pel tramite di Fanelli, aveva, alcuni mesi innanzi, mandato un suo messaggio? Chi sa.280

Patriota italiano, egli restava ancora e innanzi tutto napoletano: fiero del suo paese, lieto di sentirsi parte di quella folla variopinta, rumorosa ed espressiva, in mezzo alla quale si era mescolato ancora una volta, dopo dieci anni di assenza; fiducioso che quel popolo sobrio e paziente, ma all'occasione valorosissimo, fosse il più degno in tutt'Italia e il più pronto a dare il segno di una generale insurrezione per la libertà.

Via via che si dileguava nella distanza il volto materiale della città, doveva vibrare nella commossa imaginazione di Pisacane l'altra Napoli, quella delle sue speranze: Napoli insorta, la Napoli generosa ed eroica che la reazione del 15 maggio aveva soffocato; e, a Napoli insorta, il lieto affluire di volontari da ogni parte d'Italia, per ripigliar la guerra, dai Borboni malamente troncata nove anni innanzi.

Pensieri esaltati certo lo accompagnarono in quel viaggio, che alcuni giorni prima aveva compiuto in direzione opposta, il cuore turbato da miste speranze e timori.

A Genova il ritorno di Pisacane era ansiosamente atteso dagli amici: avevano passato, dal 9 di giugno, giorni d'inferno. La sera stessa della partenza dell'Aventino si era loro improvvisamente e dispettosamente presentata la possibilità di «rimbarcare altra partita di mercanzia», e cioè di non rimandare la spedizione neanche di un giorno;281 poi si erano accorti che la polizia piemontese stava ormai sull'avviso e, pure ignorando ancora che al governo francese si era da qualche ignoto giuda
comunicata la cifra usata nella loro corrispondenza settaria, si eran persuasi che, con tanta gente a parte delle loro intenzioni,282 o si agiva entro pochissimi giorni o l'iniziativa era da considerarsi come senz'altro perduta.283 «Tento di fare il lavoro del ragno — così si esprimeva il 20 di giugno la formidabile volontà realizzatrice di Giuseppe Mazzini —; se poi tutto avesse a fallire, sarò costretto, non dirò contro coscienza, ma certo con molta riluttanza, a finirla con un coup de tête». Intanto nuove armi si eran raccolte e nascoste, altro danaro era affluito. L'ultima parola spettava a Pisacane.

Questi sbarcava a Genova il 19 di giugno, determinando addirittura un'esplosione generale di ottimismo; si sarebbe detto che avesse recato notizia della rivoluzione trionfante nelle Due Sicilie!

«Tornò trasfigurato e raggiante — scrive la Mario —:284 tutto era combinato nuovamente cogli amici a Napoli. Vinceremo, disse, basta una scintilla: da per tutto la mina è preparata, le comunicazioni stabilite, audaci i capi, sicuri i seguaci. La rivoluzione è nei cuori di tutte le classi colte; il napolitano andrà in fiamme. Il murattismo non esiste se non nella testa di Napoleone e de' suoi fidi di Piemonte. L'esercito sarà con noi, la plebe con chi vince». Presso a poco negli stessi termini scrive Nicotera. E Mazzini: «Tornò lieto, convinto, anelante azione, e come chi sente, toccando la propria terra, raddoppiarsi in petto la vita. Gli balenava in volto una fede presaga di vittoria. I nostri non lo avevano ingannato; non gli avevano celato le gravi difficoltà che si attraversavano alla riscossa; avevano ripetuto che un indugio le avrebbe spianate. Ma, al di là delle obiezioni pratiche, egli aveva veduto gli animi risoluti e vogliosi, il terreno disposto, il fremito dei popolani... e mi scongiurò di rifar la tela pel 25... Fui convinto...» A sentire il Carrano, Pisacane avrebbe, scherzando, asserito che perfino i cocchieri delle carrozzelle di Napoli erano ormai repubblicani convinti!285

In realtà fu un eccitarsi reciproco: ciascuno nutriva dei dubbi su qualche punto del vasto progetto, ciascuno, nel mentre si sforzava di dissipare gli altrui, si lasciava volentieri tranquillizzare sui propri. Mazzini ad esempio era certo di Genova, poco persuaso di Napoli; Pisacane, viceversa:286  a forza di discorrere assieme, ogni dubbio svaní. L'aver da mesi l'attenzione concentrata, e quasi gli occhi sbarrati, sul medesimo intento, tolse forse ad entrambi la necessaria calma, quel certo distacco che era necessario per valutare la situazione effettiva. È anche vero però che persone fino allora tenute all'oscuro di tutto, cui si svelarono all'ultimo i piani d'azione, dichiararono, dopo averne coscienziosamente esaminate le basi, di ritenerle serie e fondate; tale quel capitano di mare Danèri, cui venne offerto in extremis d'imbarcarsi sul Cagliari per assumerne il comando dopo avvenuto l'ammutinamento. In massima accettò lí per lí, ma poi si recò da Mazzini (nascosto allora in casa di suo fratello Francesco) e gli chiese: «Che fiducia avete voi in questa spedizione? non sarà una seconda spedizione dei fratelli Bandiera? Ed egli: al punto in cui sono le cose, giudicate voi se si deve tentare o no. E mi porse diverse carte dicendo; queste sono le ultime corrispondenze del Comitato di Napoli, sapete che oltre ciò Pisacane andò a Napoli travestito da prete (?) e ritornò più entusiasta che mai. Letta la corrispondenza del Comitato, risposi a Mazzini: se la centesima parte delle promesse ed assicurazioni che dànno, è vera, noi siamo colpevoli per avere aspettato tanto».287 Non dunque fu il solo Pisacane che convertí gli altri all'azione immediata; furon tutti e nessuno, fu un qualche cosa che era più forte di loro, una fatalità alla quale, inconsci, obbedivano tutti.

La partenza venne nuovamente stabilita pel 25 di giugno col piroscafo Cagliari; Pilo avrebbe preceduto di un giorno, con una flottiglia di barche, recando un nuovo seppur più modesto carico d'armi; arrivo presunto a Sapri domenica 28. Lunedí 29 era S. Pietro, festività solenne; ed era parso importante che Pisacane, nel primo giorno di marcia all'interno, non avesse a trovare i paesi deserti, la gente tutta dispersa nei campi, al lavoro. Nella notte dal 28 al 29 sarebbero intanto scoppiate le insurrezioni di Livorno e di Genova.

Tremendamente affrettata la cosa, è vero, anche rispetto agli accordi che si erano stretti col Comitato di Napoli, ma in quegli stessi giorni non scongiurava lo stesso Fanelli che si facesse presto, il più presto possibile? Fanelli venne avvertito alla prima occasione di postale in partenza, martedí 23; sì che al più presto la notizia non poteva raggiungerlo che venerdí 26, all'indomani della partenza del Cagliari! «Gl'indugi — spiegò Pisacane in quella lettera che era la conclusione del loro lungo carteggio — (sono) impossibili per ragioni troppo lunghe ed inutili a dirvi. Io ho accettato, e perché accetto sempre quando trattisi di fare, e perché sono convinto che questo è l'ultimo gioco che per ora si farà, e se mai non cercheremo trarne tutto il profitto possibile, faremo tale errore, che verrà scontato con lunghissimo sonno...» E poi, con magnifica tranquillità: «Appena saprete il contratto conchiuso a Sapri, spedite quelle merci dispaccio. Finalmente se per caso in luogo di sapere la conclusione del contratto per le merci Sapri, venisse a vostra conoscenza un disastro nostro, spedite qui le merci dispaccio all'indirizzo medesimo, ma con questo altro così stabilito. La cambiale è stata rifiutata. Dunque queste merci significano disastro... Spero che la cosa vada, ma non possiamo esser certi di nulla, voi continuate a lavorare alacremente su quelle basi, giacché se per imprevedibili eventualità ciò non avesse luogo, il monopolio di Genova è inevitabile; e quindi la conseguenza immediata, è il nostro contratto, dunque, comunque vadano le cose, ritenete, che se il tutto non sfuma, la cosa avverrà con differenza di pochi giorni».

Pisacane si lusingava che Fanelli avesse, dopo la sua partenza da Napoli, sistemato le poche pendenze importanti che ancora restavano, e nella lettera glielo diceva; poi aggiungeva, a mo' di poscritto: «Se nella vostra che ricevo leggerò tutte queste cose, sarò contentissimo». Gli era dunque pervenuta, nel mentre scriveva, la lettera Fanelli del 19, la quale — come tutte le altre — andava decifrata; ma in essa, s'è visto, non c'era di concreto che l'invito a sbrigarsi, di tutto il resto ne quidem verbum.

Dal 23 alla partenza non giunse più altro; sì che Pisacane, quando si mosse, si trovava nella situazione seguente: ignorava se i relegati di Ponza e Ventotene fossero disposti a dargli man forte, mancava di una carta o di un disegno di quelle due isole che servissero a indicargliene almeno gli edifici importanti, i depositi d'armi e gli appostamenti difensivi;288 non sapeva neanche con assoluta certezza se Fanelli avrebbe fatto in tempo a diramare in provincia l'avviso dello sbarco imminente. Sapeva solo una cosa, e su questa contava, che ad ogni modo a Napoli lo si sarebbe appoggiato con moti di piazza e con colpi di mano; né dubitava ormai dell'esito, di decisiva importanza, delle rivolte di Livorno e di Genova.

Il 24 di giugno — manca un sol giorno all'imbarco — Pisacane riunisce in una casa fidatissima — quella dell'ardente mazziniana Carlotta Benettini — l'intero «corpo» della spedizione (oh non son molti, entrano tutti in una stanza sola...), e a ciascuno consegna una pistola, uno stilo ed un berretto rosso; null'altro. Poi Pisacane va dalla White, la sola straniera addentro alle segrete cose, e le consegna alcune sue carte alle quali tiene di più: non vuol che finiscano nei polverosi archivi di polizia. C'è una cara vecchia lettera di Carlo Cattaneo; ci sono alcuni ricordi, c'è soprattutto il suo Testamento politico. Jessie, commossa, promette di tenerli per sacri: promette di vegliare su Enrichetta e su Silvia.

Nel Testamento Pisacane ha tentato un'impresa difficile: quella di giustificare l'imminente suo gesto con le dottrine sociali e politiche già svolte nei Saggi. È il socialista che va volontario alla guerra e che partendo dice: morirò socialista. Il documento è breve, sdegnoso; il suo stile incisivo e sicuro, quasi a coprir con la forma la fragilità dell'assunto: ma chi legga attentamente e non si lasci trascinare dalla foga irruente del discorso (che scandalo quell'improvvisa uscita: «per me dominio di casa Savoia e dominio di casa d'Austria è precisamente lo stesso!») e dalla sicurezza apodittica degli enunciati, ben s'avvede che Pisacane non è riuscito a conciliare le antinomie del suo spirito.

Nella prima parte è il socialista determinista che parla e profetizza: «Io credo che il solo socialismo... sia il solo avvenire non lontano dell'Italia e forse dell'Europa... Sono convinto che le ferrovie, i telegrafi, il miglioramento dell'industria, la facilità del commercio, le macchine, ecc. ecc. per una legge economica e fatale, finché il riparto del prodotto è fatto dalla concorrenza, accrescono questo prodotto, ma l'accumulano sempre in ristrettissime mani, ed immiseriscono la moltitudine; epperciò questo vantato progresso non è che regresso: e se vuole considerarsi come progresso, lo si deve nel senso che accrescendo i mali della plebe, la sospingerà ad una terribile rivoluzione, la quale, cangiando d'un tratto tutti gli ordinamenti sociali, volgerà a profitto di tutti quello che ora è volto a profitto di pochi». È qui in pieno, si vede, la dottrina dei Saggi, con la medesima concezione della meccanicità del processo sociale, lo stesso schematismo semplicista, lo stesso catastrofismo: la rivoluzione sarà non tanto perché è giusto che sia, e neppure perché le masse lotteranno per imporla, ma semplicemente perché è inevitabile che sia, come resultato immancabile d'un contrasto di forze sfuggenti al controllo degli uomini. Nessun appello alle masse: determinismo puro.

Ma nella seconda parte del Testamento (che con un brusco «Sono convinto che l'Italia sarà libera e grande oppure schiava» immediatamente fa seguito al passaggio su riportato) Pisacane ci appare un altro uomo. Poiché, se egli vi riconferma la necessità d'una soluzione rivoluzionaria del problema politico italiano, subito aggiunge: «Ma il paese è composto d'individui, e poniamo il caso che tutti aspettassero questo giorno (della rivoluzione) senza congiurare, la rivoluzione non scoppierebbe mai». E poi: «Con tali principii avrei creduto mancare a un sacro dovere, se vedendo la possibilità di tentare un colpo in un punto, in un luogo, in un tempo opportunissimo, non avessi impiegato tutta l'opera mia per mandarlo ad effetto... Cospirazioni, congiure, tentativi, ecc. sono quella serie di fatti attraverso cui l'Italia procede verso la sua meta». La rivoluzione, adunque, potrebbe anche non essere; v'è, sì, in Italia un equilibrio instabile, ma per rovesciarlo occorrono colpi di maglio. Volontarismo, violenza: «Il lampo della baionetta di Milano fu una propaganda più efficace di mille volumi scritti dai dottrinari». Dov'è lo scientifico autore dei Saggi? E come può egli, che attende la rivoluzione integrale dal maturarsi d'un processo economico, appassionarsi ai problemi così detti della libertà borghese? Se è vero che il socialismo è «il solo avvenire d'Italia», cos'è mai questa «meta» di cui adesso ci parla e per raggiunger la quale gli sembra che valga la pena di mettere a repentaglio la vita? È forse quella di conquistare ordinamenti liberi perché il popolo, godendone, acquisti le capacità necessarie a promuovere in un secondo tempo la rivoluzione sociale? Ma allora addio determinismo: l'avvento del socialismo sarebbe dunque condizionato alla volontà socialista del popolo!

Ad ogni modo, si vede, la contradizione è gravissima; così grave che sembra quasi legittimo dubitare che il socialismo testamentario di Pisacane, meccanica ripetizione di formole evidentemente già superate nel suo spirito, non abbia ormai altro valore che quello d'un ingenuo tentativo di salvataggio: salvataggio della sua coerenza ideale, compromessa dal suo atteggiamento politico.

«Se mai nessun bene frutterà all'Italia il nostro sagrificio, sarà sempre una gloria trovar gente che volonterosa s'immola al suo avvenire». L'ex socialista Pisacane, adesso mazziniano esaltato, non farebbe dunque che continuare la tradizione, ormai lunga in Italia e tutt'altro che socialmente rivoluzionaria, di eletti campioni dei ceti più alti, che periodicamente si sacrificano al bene supposto o reale di un popolo inerte; non altri egli sarebbe che il successore dei Bandiera, l'emulo di Bentivegna e dell'attentatore Milano. E nemmeno egli s'illude, col suo «colpo», di doventare «il salvatore della patria»: no, non altra missione egli rivendica a sé che quella di propagar la scintilla. «Giunto al luogo dello sbarco... per me è la vittoria, dovessi anche perire sul patibolo». Ma come è pessimista, «disincantato», remoto le mille miglia dal misticismo del Dio e Popolo, questo eroe mazziniano!

«La propaganda dell'idea — scrive nel Testamento — è una chimera,... l'educazione del popolo è un assurdo. Le idee risultano dai fatti, non questi da quelle... se non riesco, dispregio profondamente l'ignobile volgo che mi condanna, ed apprezzo poco il suo plauso in caso di riuscita». Quando mai un gesto così profondamente idealistico come quello di Sapri fu preparato con maggiore freddezza e con meno illusioni?

 In conclusione: è, questo Pisacane ultimo, un transfuga del socialismo, un disperato, un vinto?

Io non lo penso. Penso invece che il Testamento, vergato con mano febbrile, sia l'espressione di una profonda crisi interiore in pieno sviluppo; penso che esso avrebbe preluso, ove l'autore fosse sopravvissuto a Sapri, a una profonda revisione della sua concezione sociale e politica (cristallizzata nei Saggi) e propriamente nel senso, più sopra adombrato, volontaristico. Di questa crisi, è vero, il Testamento non offre che incerte indicazioni; ma si confronti, in esso, la freddezza dogmatica con la quale son ripetute le formole socialiste ricavate tal quali dai Saggi, combattivo calore che anima i successivi passaggi sull'azione politica riservata a una minoranza decisa; si rifletta all'«ignobile volgo». Tutto si spiega, e le contradizioni s'intendono, se appunto si ammetta che Pisacane stia evolvendo in quest'ora (verosimilmente sotto l'influenza e l'esempio del più volontaristico tra i grandi lottatori politici, Mazzini) verso un socialismo rivoluzionario antideterministico per eccellenza, fondato sull'azione diretta, e anzi sulla violenza esercitata nel nome e nell'interesse del popolo da una ristretta élite ardita e dinamica: socialismo d'un uomo d'azione che, avendo ricavato dall'esame scientifico della costituzione sociale la convinzione della fatalità economica della rivoluzione proletaria, intende poi come il processo vada sollecitato e moralizzato dall'azione sovvertitrice, se non del proletariato medesimo, dei suoi interpreti e rappresentanti. È insomma il socialismo d'un democratico senza illusioni; vogliam dire la parola moderna? D'un sindacalista rivoluzionario, d'un Sorel avanti lettera. Il passaggio, frequentemente ripetutosi di poi, è quello che dal mito dell'eguaglianza, della libertà assoluta e del livellamento di classi conduce pari pari a giustificare la violenta sopraffazione della volontà della maggioranza (che può essere anche non volontà) da parte di una minoranza auto-proclamatasi depositaria delle sue aspirazioni profonde; dal postulato della identità dei diritti alla enunciazione della missione privilegiata delle élites. Lotta contro l'adattamento, la cristallizzazione, l'immobilità: allenamento rivoluzionario delle élites, e loro rinnovamento attraverso l'affluenza di elementi nuovi via via staccantisi dalla gran massa amorfa.

Il sindacalista rivoluzionario moderno mira allo sciopero generale (paralisi dello Stato borghese) attraverso una serie di scioperi violenti di categoria; ma pur di sottrarre il ceto operaio alla pratica riformistica distruttrice del mito rivoluzionario aderisce magari alla guerra borghese. Pisacane a che mira, a che ha sempre mirato fin da quando, dopo il '50, s'è messo a pensare con la sua testa? A risolvere i problemi politici e sociali d'Italia con forze che siano originali italiane ed espressione di esigenze autentiche del corpo sociale italiano. Di fronte alla pratica riformista (azione dei principi), mietitrice di sempre nuovi successi, egli ha inteso la necessità non priva di urgenza di suscitare, dal corpo inerte della nazione, sussulti, scintille, affermazioni violente e spontanee di una potenziale sovranità popolare. Rivoluzione sociale, rivoluzione politica non son che vane parole se non presuppongono, se non si risolvono appunto in uno sforzo di liberazione interiore che muova dal basso, dal sottosuolo sociale, trovi espressione in élites rappresentative e si imponga come volontà di lottare. Per un rivoluzionario dello stampo di Pisacane il problema già tanto discusso dell'ordine di precedenza tra le due liberazioni, l'una dall'asservimento politico, l'altra da quella sociale, ha perso dunque ogni concreto interesse, poiché si tratta piuttosto di creare l'atmosfera favorevole ad entrambe, pregna d'intolleranza d'ogni giogo, satura di volontarismo, dinamica; di allenare frazioni sempre più numerose della popolazione ad osare, a infranger barriere e divieti, a reclamare i diritti di libertà conculcati, ed anzi a conquistarseli con la violenza. Solo in un'atmosfera siffatta, solo partendo da queste premesse potranno gli italiani doventare un popolo libero. S'intende dunque come, per Pisacane, Sapri non costituisca che una delle tappe obbligate di questo itinerario, necessariamente assai lungo. E come ai sindacalisti rivoluzionari d'oggidí, tutti tesi verso il grande sussulto finale, riescono alquanto indifferenti le cause e le finalità contingenti dei singoli scioperi, così si spiega perché Pisacane assegni così scarsa importanza ai particolari d'esecuzione del suo progetto e perfino alle stesse probabilità maggiori o minori d'un suo successo. Gli «scioperanti» del Cagliari verranno aggrediti e sopraffatti dai «krumiri»? È ben possibile, è anzi assai verosimile; ma che importa? L'essenziale è di agire, di scuotere: scagliare il sasso nella morta gora. La catena di scioperi parziali, per sfortunati che siano, condurrà poi fatalmente al grande sciopero ultimo, alla liberazione integrale cioè delle masse asservite.

«Giunti al luogo dello sbarco per me è la vittoria». Non sembra adesso che questa espressione, scambiata sin qui per una volata romantica assai poco in accordo coi precedenti di Pisacane, acquisti un significato positivo e preciso? E che la sfida di lui morituro all'«ignobile volgo» perda quel carattere di odiosa sprezzante superiorità da un verso, di desolata disperazione dall'altro, che a tutta prima ci aveva colpiti, leggendo il Testamento politico?

Ma sia che si voglia interpretare quel documento come sintesi superficiale e affrettata d'un pensiero ormai tarato dalle contradizioni, sia che si voglia considerarlo, come a me pare più giusto, quale espressione d'una cosciente crisi interiore in pieno sviluppo, certo è che mai un testamento — sinonimo di volontà estrema, chiara e sicura — dette al lettore, meno di questo pisacaniano, il senso consolante di una pace raggiunta e d'una verità, sia pure parziale, nella quale lo spirito abbia trovato la quiete.289

Lo stesso 24 di giugno, mentre il pensoso Pisacane dà in questo modo il suo addio alle lotte della vita, Falcone — ventitre anni — si congeda dagli amici con una breve lettera di commovente semplicità: diano essi il suo ritratto alla madre e dicano ai suoi fratelli «nel caso che non debba più rivederli... essere mio desiderio che imitassero il mio esempio. Ei sono dotati di un'indole energica, e volendo son sicuro che faranno ciò che forse non potrò fare io medesimo». Nient'altro: solo le scuse per essere partito senza dare all'amico Sprovieri «l'ultimo addio!»290

Cuore saldo, questi giovani. «I vostri operai inglesi — disse alla White uno dei due Poggi,291 marinaio, imbarcandosi sul Cagliari — vedranno che i loro fratelli italiani sanno conquistare la loro libertà, o morire per essa». Dodici giorni innanzi, questi umili seguaci di Pisacane292 (non tutti, ché alcuni di essi vennero prescelti o si offersero nei giorni successivi), avevano firmato una commovente bellissima dichiarazione Ai fratelli d'Italia; chi la dettò?293 Non monta; essi la sottoscrissero e, consegnandola a persona di fiducia, espressero il desiderio che «quando che sia» venisse data alle stampe «perché il nostro popolo non disconosca i motivi che determinano la nostra accettazione».

«Noi partiamo. Partiamo, non allettati da... speranze di guadagno e di gloria,... non costretti da invasione straniera o da crudele tirannide domestica... Cittadini di uno Stato comparativamente sicuro in Italia... tuttavia non ci sentivamo liberi e felici. Dal Nord e dal Sud ci giungeva il pianto e il fremito di genti schiave e martirizzate!... La coscienza ci dice: fino a tanto che 20 milioni d'italiani sono schiavi, non abbiamo diritto di essere liberi se non a patto di consacrare la vita all'emancipazione di tutti. La piccola patria di Genova e di Piemonte non ci basta più... E perciò partiamo... Siamo ben pochi a tentare la prova, perché chi governa non ama l'Italia, e avversa chi s'adopra a liberarla... Noi, da un governo egoista e codardo siamo costretti a involarci fra le tenebre a guisa di contrabbandieri... La prova è difficile; il nemico che intendiamo assalire è forte...: la provincia, in cui speriamo piantare la bandiera Italiana, è abitata da gente buona ma ignorante, a cui forse si farà credere essere noi masnadieri o pirati scesi al saccheggio. Forse ci toccherà d'essere accolti, come il drappello dei Bandiera, quali nemici dei nostri fratelli. E sia pure! Poveri popolani, non abbiamo se non la vita da dare all'Italia, e di gran cuore l'offriamo... Se l'impresa riesce, secondateci, fratelli di Genova... Trasformate lo Stato Sardo in provincia italiana... Se cadiamo, non ci piangete... Se non ci è dato più vedere le nostre Riviere bagnate dal mare, date una carezza d'affetto agli orfani bambini che lasciamo tra voi: educateli nella religione della Patria: raccogliete la bandiera che, nel morire, ci sarà sfuggita di mano; e se — libera l'Italia dalle Alpi al mare — vi sovverrà dei morti fratelli, ergete allora — non prima — a coloro che per la Patria hanno incontrato la morte, una tomba. Una tomba, in terra libera e per mani libere, consolerà le anime nostre. Viva l'Italia!»

La dichiarazione, si noti, fu scritta il giorno dodici: per tredici giorni dunque quei poveri popolani seppero tenere il tremendo segreto, pur vivendo la tumultuosa vita della grande città, fra tentazioni d'ogni sorta. Tredici giorni per ripensare le parole sottoscritte, valutare i pericoli dell'impegno assunto, ritrarsene, o guadagnarsi favori e compensi a mezzo di delazioni. Ma non fiatarono. Dei dodici firmatari, poi, tre furono uccisi, gli altri tutti, fatti prigionieri, intristirono a lungo nelle carceri borboniche. Che importa se, dopo mesi e mesi, fallito il grande disegno, alcuni di costoro, tra le gravi more del processone di Salerno, pensando alle famiglie lontane e in miseria, protestarono al giudice d'aver sempre ignorato lo scopo del viaggio? D'esser stati costretti, una volta attirati sul Cagliari, a eseguire nolenti gli ordini dei capi? Se uno affermò che gli s'era promesso, per indurlo a imbarcarsi, certo lavoro a Tunisi, e un altro che riteneva trattarsi d'una impresa di contrabbando? Troppo logico che ci si fosse accordati in anticipo perché i gregari, in caso d'insuccesso, venissero sollevati da qualunque responsabilità. Non altrimenti, del resto, si comportò il Danèri, cui convenne allora protestarsi innocente, e che solo più tardi, caduto il Borbone, menò gran vanto del suo operato: i nove popolani superstiti, come accade, si tacquero, e nessuno per lunghissimi anni si ricordò in alcun modo di loro.294

Sereni e animosi fino all'ultimo, gl'impresari della «pazza» impresa, Pisacane, Pilo, Nicotera; ma come materiata di dolore, quella serenità, e con quanta disperata energia conquistata! Il loro sorriso brillava tutto di lacrime.

Pilo si era creato da tempo una famiglia illegale: la sua compagna, Rosetta, e un loro bambino. Era fragile, appassionata, egoista, — donna! — questa Rosetta; e tratteneva, adesso, disperatamente il suo uomo. Già l'anno prima, quando Pilo era partito per la Sicilia, essa aveva giurato di uccidersi; e l'aveva torturato come solo la donna che ama sa fare: «Io per te ho rinunziato alla stima di tutti, perfino a quella di mio padre (aveva infatti abbandonato, per seguir lui, il marito che non aveva mai amato); e tu mi lasci per non rinunziare alla stima dei tuoi amici...!» Questa volta Pilo ha tentato di farle credere che parte per vendere un quadro di grande valore; Rosetta dubita, esige giuramenti solenni. Quando sa il vero, n'è come infranta. Il 6 giugno — prima partenza di Pilo —:

«Questa tua partenza mi ucciderà, te lo giuro — gli scrive — ma tu lo vuoi, sia; comprendo bene che tu mi malediresti, se io ti trattenessi; ebbene, io ti lascio libero. Rosolino, tu mi hai giurato..., che la notte del 17 giugno 1857 sarai in Genova. Bada di non mancare; se no non troverai più me in vita». — Il martirio ricomincia, dopo il 20 di giugno; Rosetta vorrebbe salpare con lui! Ma poi si rassegna: basta che Rosolino s'impegni a ritornare al più presto «per pietà del mio stato, di me, della tua povera Rosetta, che muore di amore, di dolore per te, che t'ama, t'ama alla follia; che per te muore»; il cuore impazzito le detta infine parole tremende: «Dio non è né può essere con la tua causa. Dio non permette le guerre civili, nelle quali il fratello uccide il fratello» — e allude spietatamente alla circostanza che un fratello di Pilo, come il fratello di Pisacane, è un borbonico reazionario!295 — «Tu ami tuo fratello come un tuo padre, e siete nemici di partito, e... fate la guerra tra voi. Se vince il tuo partito, è in pericolo la vita di tuo fratello; se la tua causa perde, ecco gli amici politici di tuo fratello faranno il possibile per darti in mano della polizia e fucilarti. E tu chiami questa una guerra santa? Oh, è un'infamia!...» Ma Pilo tien duro, riparte. E il 25 la povera donna gli scrive (chi sa dove!): «Io cerco di stare ridente per tema sempre che un mio sospiro possa comprometterti... lo crederesti? alla notte non dormo per tema di parlare nell'agitazione, nella quale mi trovo, e tradire in sogno il tuo segreto».296

Nicotera, che aveva nettissimo il presentimento di non più tornare, s'era fidanzato, a Torino, con Gaetanina Poerio, figlia di Raffaele. Altra creatura fragile e innamorata, che la bufera schiantava. Sposatasi nel '60, essa diventò poi «donna politica» e divise gli ideali e i cospicui onori toccati al marito. Ma allora! Nel '59 — mentr'egli scontava in galera l'audacia — Gaetanina, rievocando il '57, freddamente scriveva a Pilo: «La parte profonda, che naturalmente io doveva prendere negli avvenimenti, in cui Giovanni era involto, fece sì ch'io fui messa a parte di molte cose... alle quali ero perfettamente estranea sia per convinzione, sia per altri riguardi. Non partecipo alle speranze ed alle opinioni di Giovanni... perché giudicando freddamente le cose veggo che sono impossibili a realizzarsi e che sono propugnate da pochi...»297

Pisacane, che aveva scritto il suo Testamento, che aveva disposto minutamente delle sue povere cose,298 lasciava Enrichetta, lasciava Silvia di appena quattro anni; e come le amava! Enrichetta, più temprata, più esperta, più intelligente della compagna di Pilo o della fidanzata di Nicotera, non poteva neanche disapprovare in tutto la risoluzione di Carlo: aveva discusso con calma il pro e il contro, aveva suggerito il sopraluogo a Napoli, divideva gl'ideali di Pisacane; eppure avrebbe voluto, come donna, abbrancarsi disperatamente al suo caro che (essa lo sentiva come una certezza interiore) non sarebbe tornato più mai, e rinnegare una fede prodiga unicamente di tanti dolori. Ma s'impose e riuscí a farsi forza. Di più: s'offri, pel caso che la rivolta divampasse a Genova, qual direttrice delle ambulanze; come a Roma nel '49.299 Pisacane salpa, ed essa, come Rosetta, in una atroce eventualità ahimè fin troppo prevista, non potrà dirsi neanche sua vedova; «druda» di Pisacane la designeranno le spietate carte di polizia!

Anche in questa sua pagina estrema, la storia d'amore di Pisacane conserva la sua gelosa intimità: non una lettera loro, non un accenno d'altri ci restano per fissare nella nostra imaginazione quell'addio consapevole, che dovette pur essere infinitamente triste.300 Amore che aveva accompagnato tutta la vita di Pisacane, fin dalla lontana adolescenza; che aveva avuto i suoi splendori e le sue ombre presto dissipate, e la definitiva consacrazione, in Silvia. Amore dei sensi e dello spirito,

fusione d'anime, illimitata confidenza reciproca. «Amore delle epoche di credenza», lo definí giustamente Mazzini, notando come i due amanti, anziché rinchiudersi in esso e ricercarvi la individuale felicità, ne avessero tratto una sempre più viva e operante devozione a finalità collettive; e Mazzini fu a Genova, nel maggio e nel giugno del '57, intimo dei Pisacane. La sua parola assurge perciò a incomparabile testimonianza d'onore per Enrichetta cui, umana giustizia, neanche un raggio della postuma gloria di Pisacane visitò poi nei tetri anni di solitudine, ché anzi la sua povera vita parve, nel contrasto, farsi più oscura e gelida: dimenticata da tutti.

Capitolo undicesimo

Fine

Havvi un'altra chimerica idea sparsa in Italia. Sognano alcuni che fra un gruppo di montagne, anche un pugno di giovani arditi, potrebbero difendersi contro un prepotente nemico. Ma in primo luogo, la guerra rivoluzionaria essendo d'offesa e non già di difesa, così operando mancherebbesi al fine prefisso; inoltre, tal genere di guerra può combattersi solamente da coloro che abitano in questi monti... Ma può combattere in tal modo gente a cui siano nuovi i luoghi, e che non possegga neppure una capanna, neppure le vettovaglie necessarie per un giorno?

Saggi, IV, 143-144

«Questa volta — scriveva Pilo a Fabrizi alla vigilia d'imbarcarsi col nuovo carico di fucili e munizioni — m'auguro che si sarà più fortunati. Per Dio! Non credo che si debba una seconda volta scatenare un diavolerio tale da farci mancare all'impresa».

Il tempo fu, invero, galantuomo; ma Pilo e i suoi diciassette compagni, fissando per le ore della notte e per un punto a 30 miglia al largo di Sestri il ritrovo col Cagliari dimostrarono ahimè di avere appreso meno che niente dalla prima esperienza fallita: le poche barche a remi sulle quali, la sera del 24, essi presero il largo, non disponevano neanche dei più elementari strumenti di orientamento! Al Danèri, tecnico navale, nessuno aveva chiesto consiglio.

Nel pomeriggio di giovedí 25 partirono quelli del Cagliari.301 S'imbarcarono alla spicciolata, ostentando di non conoscersi fra loro; alcuni hanno il biglietto per Tunisi, altri (come il «possidente» Pisacane e l'«avvocato» Nicotera) per Cagliari; più d'uno viaggia sotto mentite spoglie: Falcone ad esempio è il sig. Giuseppe Capatti.302

Allegria generale. Mazzini, che li abbraccia uno per uno, resta colpito dal «sorriso di fede ignara del tempo» che lampeggia sul volto di Pisacane: lo stesso sorriso che lo ha stretto a lui «nel primo nostro colloquio a Roma». Eppure, nessuna notizia da Napoli! Ma Pisacane tranquillamente ripete: «S'io riesco ad eseguire lo sbarco, se non mi arresta qualche vascello da guerra del Borbone, potete ritenere sicuro il buon successo, e certo il trionfo della rivoluzione».

Sale a bordo, per salutare i partenti, un gruppetto d'amici: tra gli altri Jessie White; anch'essa, che reca a Nicotera «un fervorino pei macchinisti inglesi a bordo del Cagliari»,303 resta ammirata del sorridente aspetto, della maschia risolutezza di quei trenta giovani.

Altri complici e amici — e forse Enrichetta tra loro — spiano ansiosi dall'alto della collinetta del Carignano la partenza del vapore. Si è notato che la vigilanza della polizia sulle banchine è stata intensificata in quei giorni; si teme (qualcuno forse lo spera in cuor suo?) che nasca qualche trambusto, prima del levar delle àncore.

Niente: gli ufficiali di sanità discendono tranquillamente a terra, il Cagliari (sono le sette pomeridiane) finalmente si stacca; dal Carignano se ne segue con emozione la rotta, finché la nave non si cela nell'orizzonte brumoso.

Venerdí 26 fu giorno di passione per Mazzini e i suoi complici trattenutisi a Genova. Bruciava nelle loro mani il telegramma convenzionale da spedirsi a De Mata: solo al ritorno delle barche si sarebbe potuto sapere se l'ammutinamento a bordo era riuscito, e queste non tornavano mai! Spedir senz'altro il dispaccio? Aspettare ancora? Nell'uno e nell'altro dei casi si correva un pericolo grave, quello di scatenar la sommossa nel napoletano senza l'appoggio della spedizione, o di esporre Pisacane a sbarcare inatteso.

«Fin ora non ho notizie esatte — spasimava Mazzini in un biglietto alla White, la sera inoltrata di quel giorno —. Ma tutto fa credere che le barche e il vapore non si siano incontrati. Se il vapore è nostro, a Pisacane mancheranno 19 uomini, 100 fucili ecc. Tuttavia è uno di quei passi dai quali non si può tornare indietro; e se hanno agito, qualcosa debbono tentare; è delitto di pirateria, il loro. Se le barche avessero incontrato il vapore, le più piccole sarebbero ritornate di pieno giorno; il non esser giunte dimostra che, cariche come sono di uomini e di fucili, non osano venire se non di notte... Questa fatalità... è veramente troppo grave da sopportare per un uomo; tuttavia, la sopporto...» Non aveva suggellato la lettera che gli toccò aggiungere, con la morte nel cuore; «No; non si sono incontrati».304

Come il 9 di giugno, ma disfatto questa volta, preda di una violentissima crisi nervosa, era tornato Rosolino Pilo: nonostante l'accensione di razzi luminosi e di fuochi, nonostante che le barche avessero perlustrato durante tutta la notte la zona stabilita, nessuna traccia s'era trovata del Cagliari! Colpa del vento, che aveva soffiato furioso, e forse inavvertitamente spinto a deriva le barche?305 Pilo non riusciva a spiegarselo. Si era dovuto comunque passar la giornata al largo, per poi, dopo il tramonto, approdare al promontorio di Portofino e nascondervi alla meglio, in caverne, le casse dei fucili.306

Che n'era dunque di Pisacane? Pilo vedeva terribilmente nero:307 secondo lui, era il disastro definitivo. Mazzini poi! Raddoppiavano in lui le incertezze per Napoli, per Livorno e per Genova.

Ma ecco, il mattino del 27, a rianimare le cadute speranze, un telegramma convenzionale da Cagliari: il postale, atteso in giornata del 26, non v'era giunto. Segno certissimo che Pisacane non s'era dato per vinto, dopo il mancato incontro. A precipizio allora venne spedito — ma era assai tardi! — l'avviso a De Mata, e si confermarono gli ordini per Livorno e per Genova.

Mazzini, pur dubitoso che Pisacane potesse, con quei pochissimi mezzi, eseguire il suo piano, andò pian piano ricuperando la calma abituale: il grande giuoco, e forse il giuoco finale, stava per iniziarsi.

L'ammutinamento a bordo del Cagliari era infatti perfettamente riuscito, appena un'ora dopo la partenza da Genova.308 Quattro urlacci (Italia, libertà, repubblica) dei congiurati, radunatisi all'improvviso in coperta, pistola alla mano, berretti rossi in capo,309 e il capitano, Sitzia, più morto che vivo dallo spavento, s'era lasciato tradurre dal ponte di comando in cabina, dove l'avevano lasciato con una sentinella alla porta; il resto dell'equipaggio, macchinisti inglesi compresi, aveva ceduto con marcata sollecitudine all'intimazione degli ammutinati di non tentar resistenza di sorta.310 Quanto al Danèri, egli aveva finto benissimo di cedere a una sopraffazione inaudita quando s'era piegato ad assumere, lui semplice passeggero, il comando della nave.

Il cambio della guardia, bisogna convenirne, non avrebbe potuto svolgersi più incruento e pacifico. Ad aggiungergli comicità pensò poi il cuoco di bordo, nella deposizione resa dinanzi ai giudici salernitani: «Io stava in cucina in coperta ad una cotteletta pel capitano (sic), quando sentii un gran rumore, e delle grida, e vidi che vari, afferrato il capitano, che dava ordini, lo fecero entrare nel suo camerino pure in coperta. Rimasi spaventato di quell'operato, ma pur essendo colla cotteletta m'accostai al camerino del capitano per chiedere se voleva esser servito, ma trovai il capitano tutto spaventato e piangente, e mi disse che egli non comandava più. Intanto un certo Nicotera mi afferrò pel colletto della camicia, e con pistola in mano mi disse che era egli che comandava, e io risposi che avrei fatto da mangiare... e durante quel viaggio il Nicotera mi dava gli ordini di tenermi ad economia, vedendo che pochi erano i viveri che avevamo». Era quel cuoco medesimo che, giunto il Cagliari a Sapri e invitato a sbarcare, così modestamente se ne schermiva: «che avevo il brodo al fuoco, e che non potevo abbandonare la cucina», sì che «mi lasciarono quieto».311

Mentre il Cagliari, mutata rotta, si dirigeva al punto stabilito per l'incontro con le barche di Pilo, Pisacane — su richiesta del Sitzia, che non ad altro pensava che a «mettersi a posto» con la sua Compagnia — verbalizzava l'accaduto sul giornale di bordo. Il suo resoconto, immediatamente firmato da ventuno dei suoi seguaci, si chiudeva con una Dichiarazione di superba bellezza:312

«Sprezzando le calunnie del volgo, forti della giustizia della causa e della gagliardia delle nostre anime ci dichiariamo gli iniziatori della rivoluzione italiana. Se il paese non risponderà al nostro appello, noi senza maledirlo sapremo morire da forti seguendo la nobile falange dei martiri italiani. Trovi un'altra nazione del mondo uomini che come noi s'immolino alla sua libertà, ed allora solo potrà paragonarsi all'Italia, benché sino oggi ancora schiava».

Dalle nove alle dieci le barche avrebbero dovuto essere in vista; il Cagliari accese speciali lumi a prua, incrociò nei paraggi, più avanti, più indietro, a velocità ridottissima: inutilmente. Si scrutò il mare da ogni parte, si ordinò, a bordo, il più assoluto silenzio: le macchine sussultavano appena, si sarebbe potuto cogliere anche un grido lontano. Ma che: nessuna luce nella notte fonda, nessuna voce nel vasto silenzio.313

Passavan le ore: si stava perdendo del tempo prezioso, in una ricerca probabilmente vana. Che fare? Gli stessi dubbi lancinanti che un po' più tardi avrebbero attanagliato l'animo degli amici di Genova. Tornare a terra, come se niente fosse? Una fine tragicomica... Oppure attendere, incrociando in alto mare, il 29 di giugno, per sbarcare in qualche punto della Liguria, e marciare su Genova?314 Ma le scorte di carbone non eran bastevoli;315 e poi il moto di Genova non sarebbe stato contromandato, nella incertezza sulla sorte del Cagliari?

Fu una fortunata scoperta quella che indicò la via da seguire: nella stiva del vapore, tra l'altre merci, si trovavano «tre casse di boccacci di venticinque ognuna, tre di fucili a due canne di venti ognuna, ed una cassa di semplici canne», dirette a Tunisi. Era il carico d'armi che il Cagliari, da qualche tempo, recava in ogni suo viaggio da Genova, e che tanto avea dato da pensare allo zelante console napoletano. Come mai né Mazzini né Pisacane l'avevan saputo?316 Comunque, era la manna dal cielo! È vero che non c'eran cartucce; ma con la polvere da sparo di dotazione del Cagliari i rivoltosi le fabbricaron da loro. La nave allora (era il mattino ormai) prese la via del Sud. Navigazione normale. Pisacane profittava di quella provvisoria quiete per studiare i suoi appunti topografici, per scriver lettere ed abbozzare proclami, che Falcone poi ricopiava; Nicotera fungeva da commissario di bordo.

L'alba, il primo mattino: niente di nuovo. All'undici apparve alla vista una squadra di legni da guerra. Non si sa mai: venne sgombrato il ponte, si serrarono giú nella stiva passeggeri ed equipaggio. Le navi sfilarono dappresso, potenti e sicure, senza far caso del Cagliari, dileguandosi poi verso levante; era la squadra mediterranea inglese che, al comando dell'ammiraglio Lyons, si trasferiva dalla Sardegna a Livorno, in giro di visite ufficiali. Del viaggio del Cagliari il Lyons, nonostante qualche apparenza sospetta, sapeva in verità meno che nulla.317

Scorse tutto il resto del giorno, che era venerdí 26, senz'altri incidenti. Si procedeva a nove miglia all'ora.

Ponza, vigilata dalle due isolette minori, disabitate, di Palmarola e Zannone, non comparve che all'alba di sabato; essa si presenta rocciosa, allungata ad ellisse, le sponde tormentate precipitanti a picco nel mare; la vegetazione è povera e bassa. In faccia a Ponza, sulla lontana costa, s'indovina Gaeta; a un trenta chilometri, in direzione sud-sud est spicca il profilo schiacciato di Ventotene e l'altro, rigonfio, di S. Stefano.

Il Cagliari giungeva da nord-ovest; Ponza gli si offriva dal suo fianco più aspro dove non è luogo all'approdo di navi grosse, ché l'incantevole insenatura falcata detta Chiaja di Luna, tutta serrata da una ciclopica muraglia naturale, e — all'estrema punta settentrionale — il porticciuolo di Forni hanno fondali assai bassi. Dalla Chiaja di Luna un passaggio in parte scoperto, in parte sotterraneo, di costruzione antichissima, mena con breve tragitto all'opposta sponda dell'isola dove, attorno a un buon porto, l'unico di Ponza, s'addensa l'abitato principale.

A Napoli qualcuno pratico del luogo aveva suggerito che il Cagliari, anziché attaccare nel porto, calasse scialuppe innanzi alla Chiaja di Luna; e infatti di là la sorpresa su Ponza sarebbe stata più facile; ma i venti o i venticinque uomini che l'avessero eseguita avrebbero dovuto attraversare tutto il borgo prima di poter affrontare la guarnigione, prima di potersi incontrare col grosso dei relegati; né la loro azione avrebbe potuto essere appoggiata dal Cagliari, lasciato dall'altra parte dell'isola: l'esito, dunque, si presentava infausto. Molto più promettente e sicuro, se pur necessitava più astuzia, il piano che si seguí.

Il vapore doppiò l'isola e, invertita la rotta, avanzò fino all'imboccatura del porto, intorno al quale il paese raduna a gradinata semicircolare le sue casette dai colori vivaci. L'arrivo di un bastimento di quella stazza a Ponza era allora un fatto più eccezionale che insolito: piccoli navigli a vela bastavano pel servizio dell'isola, e solo di tanto in tanto vi capitava, dalla prossima Gaeta, qualche scorridora borbonica in missione militare. Quando dal Cagliari, dunque, si fanno le segnalazioni d'uso per la richiesta del «pilota pratico», necessitando la nave di riparazioni, non è meraviglia che i ponzesi tutti e i relegati318 — liberi questi di circolare in paese dall'alba al tramonto, e ghiotti, s'intende, d'ogni novità che venga a rompere la desolante monotonia di quella vita d'esilio — s'affrettino alle finestre e alla spalletta fronteggiante il porto, per godervi l'inatteso spettacolo.

Il pilota s'accosta con la sua barca alla nave, disposta in modo da celare al paese la murata recante la scaletta d'imbarco: giunto che egli è sotto bordo, un gruppo di rivoltosi che ha preso posto in una lancia, ghermitolo, lo costringe con minacce a salire sul ponte per fornir schiarimenti sull'isola. Lo stesso trattamento, sempre inosservato da terra, viene usato al capitano del porto e a un ufficiale della piazza, sopraggiunti di lí a poco. Poi, mentre una signora che è fra i passeggeri (un'italiana residente a Tunisi) compiacentemente si presta a stornare eventuali sospetti camminando tranquilla su e giú sopra coperta,319 il Cagliari s'avanza nel bel mezzo del porto, getta l'àncora, cala le imbarcazioni. I rivoltosi si dividono in tre squadre: la prima, per ogni evenienza, rimane sulla nave (saggia precauzione, ché — depose poi al giudice il fuochista Rebora — già era corsa fra gli uomini dello spodestato equipaggio l'«intelligenza» di far partire il vapore piantando a terra gl'incomodi nuovi padroni); la seconda, con Nicotera, Falcone e Danèri, accosta alla banchina, e là garbatamente domanda il permesso di visitare l'isola; la terza, con Pisacane in testa, s'è riservato il compito più arduo: girare in barca la gettata del molo e assalir di sorpresa il posto di guardia (la Gran Guardia, secondo la pomposa nomenclatura borbonica). Non appena impegnato da questa squadra il conflitto - quattro feriti fra i rivoltosi — il gruppo Nicotera si avventa su altri militari di fazione sulla banchina, due ne getta in acqua, i restanti fa prigionieri. Indi corre a rinforzar Pisacane. La Gran Guardia si affretta a deporre le armi. Due cannoni che minacciano il porto vengon resi inservibili. I rivoltosi, a squarciagola inneggiando all'Italia, alla repubblica, alla liberazione dei relegati, si scagliano adesso contro il palazzetto dove ha sede il comando, fronteggiante la Gran Guardia. Per le scale dell'edificio un coraggioso ufficiale, il tenente Cesare Balsamo, li affronta con la sciabola sguainata; ma è sopraffatto, e stramazza colpito al petto. Un aiutante, che da un terrazzo del secondo piano invoca al soccorso, resta ferito. Il comandante la guarnigione non è un eroe: si dà prigioniero320 (salvo poi, nei suoi rapporti, a gonfiare per sua giustificazione l'impresa del Cagliari fino a paragonarla a quelle dei «tempi del Barbarossa» e anche all'«inumana e barbara pirateria africana»). Tra quel frastuono ecco intanto affollarsi nella via sottostante i relegati a centinaia, pochi «politici» e molti «comuni» (o coatti, come oggi si direbbe): non han tardato a prender fuoco anche loro ed ora gareggiano con quelli del Cagliari nell'affrontar militari, nel far razzia d'armi, e più nel gridare evviva ed abbasso.

Resta da conquistare il castello, un massiccio edificio che incombe, dal sommo del poggio, sul paese e sul mare: in esso, col grosso delle forze borboniche, è alloggiata la compagnia dei militari in punizione, assai numerosa dopo l'attentato Milano. Il castello, chi lo guardi, sembra addirittura imprendibile; senonché, mentre a difenderlo son dei «territoriali» poltroni, resi esitanti, per di più, dalla voce che subito circola tra loro non essere il Cagliari che il messaggero d'una gran rivoluzione scoppiata in terra ferma (voce, questo è il guaio, non affatto incredibile), ad assalirlo è una mano d'arditi; s'aggiunge il caso che quasi tutta l'ufficialità dell'isola, acquartierata in una casa a mezza salita, anziché precipitarsi al primo allarme in castello, si lascia sorprendere inerme, e in blocco ridurre all'impotenza. In men che non si dica, dunque, il castello, con tutti i suoi difensori, col suo fornitissimo magazzino d'armi, coi suoi bravi cannoni puntati, passa ai rivoltosi, coi quali i militari in punizione fanno immediatamente causa comune.321

Pisacane è il padrone di Ponza; o piuttosto lo è la marmaglia dei relegati comuni, i quali — liberati per prima cosa i detenuti dal carcere — a modo loro gioiscono della conseguita vittoria, sfogando il rancore della lunga massacrante disciplina forzata: il paese (sono le dieci appena) è in pieno tumulto, i ponzesi spauriti si barricano in casa o fuggon nei campi, l'archivio giudiziario e quello di polizia vengon dati alle fiamme, vari edifici pubblici sottoposti al saccheggio, abitazioni particolari visitate e spogliate. «Senza una camicia» rimasero perfino gli agenti della pubblica forza!322

Così l'ideale rivoluzionario di Pisacane e compagni principiava a trovare attuazione. L'elemento più preoccupante della situazione era costituito, senza dubbio, dalla vastità stessa del successo, dalla stessa unanimità dei consensi trovati fra le varie categorie di quegli obbligati residenti di Ponza: relegati delle due specie, militari in punizione, detenuti comuni. Non era facile per quelli del Cagliari frenare lo zelo... rivoluzionario dei loro troppo numerosi accoliti, quietare il paese, tentar di discernere, in quella folla in tumulto, chi fosse meno indegno di seguirli a Sapri.

Sul Cagliari avrebbero voluto salir tutti quanti. Come fare a distinguerli? Salí chi poté. 117 militari in punizione, 128 detenuti, 75 relegati, dei quali solo una dozzina politici, 3 presidiari e due povere donne, consorti di relegati!323 La ressa, il tramestío eran terribili; quelli che restavano a terra reclamavano a gran voce promesse che presto si tornerebbe a liberarli tutti. È vero che poi, al processo di Salerno, qualcuno di quei fuggitivi venne fuori con l'asserzione che Pisacane e compagni «qualunque giovane incontravano nel paese a viva forza gl'imponevano di seguirli»;324 ma è mai possibile che trenta individui potessero forzar la volontà di oltre trecento? La fola venne d'altronde smentita da tutti i testimoni. Piú verosimile, se mai, che le presunzioni ottimistiche sul successo finale dell'impresa, partecipate da quei del Cagliari, in perfetta buona fede, ai loro seguaci di Ponza, si tramutassero, passando di bocca in bocca, complice l'eccitamento di tutti, in assicurazioni categoriche. Tipica a questo proposito la deposizione del relegato Signorelli Rocco: «Sí il cosiddetto generale che gli altri... faceano intendere nell'esortare la massa che ben altri 18 vapori sparsi nel mare conteneano lor compagni, e che tutti doveano vedersi al Pizzo..., che eran protetti dal Turco e dallo Inglese».325 Dove si vede come certe speranze, invero assai problematiche, nutrite dai capi si fossero trasformate, nella fantasia di ignoranti seguaci, in dati di fatto accertati.

Il programma della spedizione preventivava una sosta a Ponza di non più che otto ore, per poi, se necessario, far tappa a Ventotene. Nel fatto, un po' per la gran confusione, un po' per la necessità di rifornire di combustibile il Cagliari, l'intera giornata del 27 di giugno trascorse prima che si fosse pronti alla partenza. A Ventotene si dové rinunciare.326 Ritardato sull'ultimo da un disgraziato incidente, il vapore non levò l'àncora che a mezzanotte circa. Danèri stava infatti per ordinare l'avanti,327 quando — nell'oscurità — fu intravveduta una barca che a gran forza di remi si allontanava dal porto. Non era un momento, quello, propizio alla pesca: sospetta, dunque, la barca. Dal Cagliari si cala all'inseguimento una lancia; ma mentre Nicotera, con altri, fa per prendervi imbarco, nell'orgasmo e nel buio, precipita in acqua. Lo tiran su vivo per puro miracolo. Nell'incidente si perde del tempo, e intanto la barca si è perduta di vista: prudenza vuole che il Cagliari, ormai già tanto in ritardo sull'orario previsto, non si trattenga più oltre nelle acque di Ponza; e dunque, partenza direttamente per Sapri. La barca misteriosa, intanto, si dirigeva a Gaeta, dov'era la Corte reale, recandovi le straordinarie notizie dell'isola e, tra molte voci infondate, quella esattissima della destinazione del Cagliari. Gran merito, questo notturno raid, del parroco di Ponza, Vitiello, che n'avea presa l'iniziativa un po' per paura di nuovi eccessi dei relegati a suo danno, un po', disse lui, per senso di dovere, ma più che tutto per ragionata speranza di ricompense e favori: certo si è che la casata sua figura oggi tra le più facoltose e altolocate dell'isola.328

Quando si venne all'inchiesta ufficiale sullo straordinario episodio della «presa di Ponza», le supreme autorità napoletane non poterono acquietarsi di certo alla versione, premurosamente accreditata dagli interessati, che la forza discesa dal Cagliari fosse ingentissima. Ma la ricerca delle responsabilità dovette riuscire alquanto penosa. Molto si disse e fantasticò, è vero, sulle intese che evidentemente i relegati politici dovevano aver stretto in precedenza, per chi sa quali vie misteriose, con gli organizzatori della audacissima impresa329 (siamo giusti, chi poteva mai imaginare che Pisacane fosse davvero partito da Genova così digiuno d'intese da ignorare perfino che a Ponza i relegati politici fossero quantità trascurabile?) La versione ufficiale, dovendo spiegare la paralisi della guarnigione militare dell'isola, preferí dunque attribuirla piuttosto alla rivolta di varie centinaia di relegati che non alle mosse abilissime di una ventina di «esteri». Ma come dar buono che codesta guarnigione, sia pure costretta alla lunga ad arrendersi, non avesse almeno tentato una resistenza onorevole? Il furibondo rapporto di quel genio strategico del maggiore D'Ambrosio330 (4 di luglio) poneva in rilievo che «niuno dei funzionarii militari — a principiare da lui! — aveva adempiuto al proprio dovere, per salvare l'onore militare... talché senza l'onorevole risoluzione di tre individui di truppa, avrebbe quell'orda di settarii lasciato sul terreno un ufficiale, ferito un aiutante, portando via armi, munizioni e denaro, senza che un colpo di fucile nemico l'avesse risposto, caso unico nella storia di siffatti attentati». Su tutto ciò i giornali borbonici serbarono, s'intende, il più accurato silenzio.331 Era infatti un caso unico di vigliaccheria e d'insipienza. Ma alle supreme gerarchie napoletane non isfuggí di certo, seppur repugnassero ad ammetterlo pubblicamente, che la spiegazione vera, oltre che nello scarso valore delle loro milizie, dovesse cercarsi nella perplessità che aveva preso la guarnigione di Ponza al precipitoso divulgarsi della notizia, che la rivoluzione fosse già bell'e scoppiata nel regno; cioè nel fatto che male si battono, quando non arrida loro certezza assoluta di vittoria, i difensori di un regime quotidianamente discusso, minato e minacciato e messo al bando degli Stati civili. Come pretender da essi eroica fermezza nella repressione dei ribelli quando li turbi la sensazione che i ribelli di oggi potrebbero diventare i dominatori di domani?

Non restava al Borbone che consolarsi al pensiero che quel dannato brigante di Pisacane, sbaragliatore di truppe e conquistatore di castelli, avesse apprese la strategia e la tattica, così magistralmente applicate nella «presa di Ponza», sui banchi della sua Nunziatella!

Il ponte del Cagliari, finalmente in navigazione, brulicava di gente. Ponza era già un episodio lontano, conchiuso: la spedizione principiava allora.

Uomo di guerra e teorico della guerra, ecco dunque Pisacane al suo vero posto, e nelle circostanze migliori per applicare i suoi principii teorici! Non aveva egli infatti sognato sempre di trovarsi alla testa di un piccolo corpo insurrezionale, veloce, omogeneo, entusiasta, che partisse dall'Italia meridionale per risalire al nord, suscitando al passaggio ondate rivoluzionarie di crescente violenza ed ampiezza? Ebbene, ecco qua al suo comando trecento non già «soldati» ma volontari autentici, animati, se non da un comune desiderio di gloria, da un comune interesse: quello di seppellire nelle rovine del regime borbonico il loro turbinoso passato; incoraggiati da un clamoroso successo pur mo raggiunto; velocemente diretti verso un punto dove ad attenderli sono altri nuclei di armati; favoriti in pieno dal coefficiente «sorpresa». Potevano darsi condizioni migliori? Piú promettenti?

Chiuso in cabina, Pisacane stillava — ricavandole dalla decennale esperienza di insurrezioni combattute o criticamente studiate — minute norme disciplinari e strategiche per le operazioni future del suo piccolo esercito: gli uomini divisi in tre compagnie, le compagnie in dieci squadre, i gradi assegnati a relegati politici o a militi della compagnia di punizione,332 lui stesso generale, Nicotera colonnello, Falcone maggiore; distribuite le armi; nominato un Consiglio di guerra chiamato ad applicare un molto sommario codice militare. Ma non alzava mai dunque i suoi limpidi occhi dai fogli, il general Pisacane? Non lo colpivano i ceffi dei suoi seguaci? Ladri e ricettatori, lenoni, barattieri... Qual nuova insania poteva travestirli in militi iniziatori della indipendenza italiana? Come poteva egli seriamente incitarli a «battersi con le truppe di Ferdinando per riscattare la libertà», a battersi «con coraggio e bravura»?333 Con venti giovinotti di cuore egli era riuscito, sì, d'impadronirsi di Ponza; ma ora, con quei trecento lazzaroni, che andava a fare nel regno di Napoli? Non gli sovveniva la dichiarazione dei suoi compagni di Genova, quella del 12 giugno: «Forse si farà credere essere noi masnadieri o pirati scesi al saccheggio»? O quel che egli stesso, nel quieto tempo di Albaro, aveva scritto intorno al reclutamento degli eserciti: «l'ammettere nelle (loro) file quelle classi di persone, che alla miseria estrema aggiungono pessimi costumi... rende l'esercito terrore ai cittadini. In Napoli si è toccato l'estremo confine dell'avvilimento; l'esercito viene ingrossato dei condannati alla galera»?

È vero che a Ponza, in tanto tumulto, con una folla frenetica addensata sulla banchina, invocante l'imbarco sul Cagliari, non era stato possibile far distinzioni troppo sottili fra politici e non politici: due terzi dei delinquenti comuni amano sempre atteggiarsi a vittime di persecuzione politica; come dunque controllare l'identità di ciascuno, poi che era andato distrutto l'archivio di polizia? Era pur logico, d'altronde, che lí per lí si decidesse a quella che pareva la condizione fondamentale per la buona riuscita della spedizione: armare quanta più gente fosse possibile per assicurare almeno i primi passi della marcia insurrezionale. Ma poi, staccatasi la nave da Ponza, esaminati un po' più da vicino i loro nuovi compagni, ben si erano avvisti Nicotera e Falcone del colossale errore compiuto; e a Pisacane avevano affannosamente proposto di rimediarvi, sia sbarcando d'urgenza in un punto qualsiasi della costa quella pericolosa zavorra, sia, raggiunta Sapri, lasciandola a bordo del Cagliari.334 Perché mai Pisacane si rifiutò di ascoltarli? Gli repugnava tradire, sia pur di fronte a cotal gente, gl'impegni presi, o forse gli apparve la cosa impraticabile, in trenta o quaranta che erano contro quasi trecento? Difficile dirlo, difficile ricostruire nelle sue fasi quello che dovette pur essere un tormentoso dramma interiore. Certo è però che l'atteggiamento visibile di Pisacane, da Ponza in poi, non ha niente che riveli penosa accettazione di una realtà considerata repugnante. Egli si mostra anzi fermamente convinto della possibilità di trasformar quella feccia, durante il breve tragitto, in una banda disciplinata, combattiva e, chi sa, valorosa. L'idea di farne il primo nucleo del futuro esercito insurrezionale italiano non gli pare mostruosa. I due sentimenti profondi e istintivi che ha inteso vibrare in quelle anime buie — l'aspirazione alla libertà e l'odio al «governo» — lo hanno forse tratto in errore? Non si è reso conto che l'odio al governo è odio alla legge, che la libertà desiderata non è che libertà individuale? Che costoro non hanno alcuna idealità collettiva, che mirano soltanto al tornaconto personale? Chi sa. Può anche darsi che, fuor d'ogni considerazione morale, egli abbia intuito il partito che nella imminente lotta antiborbonica è possibile trarre dalla disperata volontà di difesa di un'accolta di evasi dal carcere. Ma, posti i suoi precedenti di lottatore politico e di riformatore sociale, è assai più probabile che lo lusinghi davvero la speranza di riuscire ad appassionare costoro, sì bramosi di libertà per se stessi, all'impresa di liberazione di tutto un popolo, alla conquista di ordini liberi.

Di pochi giorni innanzi è il suo dichiarato disprezzo per l'ignobile volgo; ma ora, al cospetto di quel volgo nel volgo, di quella povera scoria d'umanità, diresti che uno slancio nuovo di fraternità lo pervada. Il moralista riaffiora, e quasi sembra che si compiaccia della prospettiva paradossale che gli si para dinanzi: lanciare cioè due o trecento amorali al rovesciamento di un regime dichiarato decaduto in quanto immorale. Gesto sublime, e ingenuo fino al ridicolo; da moralista appunto, che si diparte dalla premessa esser la colpa, nell'uomo, un portato dell'iniqua costituzione sociale, e perciò, nella maggior parte dei casi, non addebitabile al singolo che la commette.

La spedizione di Sapri, concepita come sfida a un regime politico, acquista in tal modo un ben più vasto significato di sfida deliberata contro la società in generale. La morte del suo protagonista, tra quei galeotti terrorizzati e fuggenti, assurgerà ad una incomparabile donchisciottesca grandiosità da epopea.

Domenica sera, 28 di giugno. Ecco il golfo, largamente arcato, di Policastro: nel fondo, la bellissima, ridente baia di Sapri; il paese è un po' discosto dalla riva, tra due poggi che digradano al mare; duemila abitanti, i più pescatori e pastori. Il Cagliari, dopo una giornata di quieta navigazione, si arresta a una certa distanza, protetto alla vista dal promontorio che serra Sapri a nord-ovest. Si attende, per lo sbarco, l'ora convenuta col Comitato di Napoli. Annotta. A terra, di qua, di là, privati cittadini e impiegati governativi avvistano la nave; una barca della dogana s'approssima; il Cagliari, riconosciutala, la saluta con un colpo di «boccaccio». Sapri è avvertita. Dispacci d'allarme partono precipitosamente pel capoluogo e per la capitale remota.

Disposto lo sbarco, il Cagliari s'avvicina alla spiaggia. Restano a bordo i passeggeri, il vecchio equipaggio,335 eccezion fatta d'un cameriere di bordo — tale Mercurio336 — spontaneamente aggiuntosi ai rivoltosi, i feriti di Ponza337, il capitano Danèri. Pisacane consegna a quest'ultimo, che dovrà curarne ad ogni modo il recapito (chi mai prevede l'imminente cattura del Cagliari?) due lettere, una per Mazzini, l'altra per Enrichetta. La prima contiene il resoconto dell'episodio di Ponza e riassume gli elementi favorevoli sui quali egli conta per il buon proseguimento dell'impresa; la seconda — riferisce il Danèri — «prometteva eterno affetto, conchiudeva esortandola a sperar bene prendendo buon augurio dal primo colpo riuscito».

Alla svelta, non senza qualche confusione, i rivoltosi scendono a terra, nei pressi di una casetta bianca, isolata, prescelta pel luogo di convegno. (Nessuna spigolatrice, oh! Mercantini, è presente: è notte, e sulla spiaggia non crescon le spighe).

I capi gridano la parola d'ordine: Italia degli Italiani; il grido viene ripetuto una, due, dieci volte: nessuno risponde, nessuno appare. Silenzio che diffonde un primo sottile disagio. Possibile che sul lido di Sapri non abbia a trovarsi nessuno degli amici o che questi, trattenuti altrove, non abbian mandato qualcuno a recar notizie di loro? Eppure sul lido, fuor dei trecento, non c'è anima viva: due impiegati al telegrafo, che sopraggiungono, vengon senz'altro arrestati.

Per rinfrancare i suoi uomini, Pisacane li arringa come se fossero veterani di cento battaglie:

«Figliuoli, noi siamo stati ventuno individui che vi abbiamo liberati dall'Isola, adesso voi dovete liberare il Regno...»338 Poi dà l'ordine che si avanzi su Sapri. A Sapri la Guardia urbana (una piccola squadra) è da tempo radunata a battaglia; ma non appena scorge vicino il nemico, scaricati per debito di coscienza i fucili, si dà alla campagna. Sapri viene così occupata, lo stemma reale abbattuto e calpestato; ma le case del paese sembran deserte, porte e finestre restan serrate; la maggior parte degli abitanti son scappati in campagna, solo qualche donna o ragazzo curioso occhieggia dalle persiane socchiuse. Da un'osteria ancora aperta escono pochi uomini, ma oppongono un impacciato silenzio o rispondono per monosillabi alle infiammate perorazioni dei comandanti quella caterva di male in arnese. Il solo che abbocchi è un vecchio pregiudicato: unica recluta in Sapri! E sì che a Pisacane resulta, di certa scienza, che il 13 giugno, in attesa del primo mancato sbarco, numerosi amici vi si son dati convegno.

Queste eran le accoglienze «imponenti» sulle quali si poteva sicuramente contare, questo era il paese gremito di «liberali». C'era, in verità, da sperar bene pel séguito! Non aveva assicurato Fanelli che l'inoltrarsi dei rivoltosi sarebbe stato né più né meno che una marcia trionfale attraverso una fila di paesi festanti? Lo spaventoso silenzio di Sapri deserta e buia faceva presagire invece chi sa quale misterioso agguato dietro quei monti ignoti.

Sul suo libretto di appunti Pisacane avea segnato il recapito di un sicuro e facoltoso liberale di Sapri: il barone Giovanni Gallotti. Da lui, dai suoi familiari, gli avevan detto a Napoli, avrebbe ottenuto non solamente danaro e provvigioni, ma ogni sorta d'appoggi. Identificata la casa, Pisacane bussò, fu freddamente ricevuto: lo sbarco? E che ne sappiamo noi, protestarono i Gallotti. Di preparativi rivoluzionari compiuti nella regione non abbiamo mai inteso parlare! In casa poche armi, qualche chilo di pane, che Pisacane, indignato, requisì: in abbondanza non avevano i Gallotti, i quali appartenevano a una famiglia d'antichi patrioti, che una paura grandissima e un fanelliano terrore di responsabilità. Piú tardi — nelle segrete salernitane — si affannarono in untuose proteste di devozione al trono, rammentando gl'importanti servigi resi, e imprecando, furibondi, contro i «maledetti rivoltosi».339

Andata a vuoto la visita ai Gallotti, fallita del pari l'incursione eseguita dal bollente Nicotera contro le case dei Peluso, responsabili dell'eccidio del patriota Carducci nel '48, fu giuocoforza acconciarsi a pernottare a Sapri. Notte d'angoscia pei capi, che pur si sforzavano di tranquillizzarsi a vicenda; notte di terrore pei loro seguaci, che solo adesso — sparito il Cagliari, e i fantasmi delle tenebre ingigantendo i pericoli — principiavano a misurare la tremenda avventura alla quale s'eran mischiati. Folle in tumulto, confusione, entusiasmo, fucilate magari, questo sì s'aspettavano; ma non quell'atroce silenzio più pauroso di qualunque minaccia. Si era parlato loro di appoggi imponenti, e non avevano visto nessuno; si parlava ora della marcia da compiere, ma chi di loro conosceva quei luoghi? E i capi stessi, quel generale, quel colonnello, esigenti e severi, chi erano, donde venivano, come potevano illudersi di vincere il governo del re, che disponeva di soldati a migliaia, e avea vapori sul mare, e il «telegrafo elettrico»? Ed essi eran fuggiti dalla relegazione, dal carcere, ma che forse eran liberi adesso, o non erano invece passati sotto una disciplina più dura e arbitraria? A Ponza, almeno, il domani seppur triste era certo, e la libertà s'avvicinava ogni giorno. Perché dunque si erano indotti a fuggire?

Disertarono alcuni, quella notte medesima: chi per puro terrore, chi nella speranza di guadagnarsi indulgenza con delazioni all'autorità, chi per profittare delle case deserte e delle donne indifese; qualcuno, nostalgico, prese la via del paese lontano, Puglie, Calabria, centinaia di miglia.340

Dietro quella cortina di monti, intanto, la bufera si andava addensando.

Gaeta era stata avvertita, in giornata del 28, dell'episodio di Ponza. Nonostante fosse domenica, il telegrafo, cui s'ebbe d'urgenza ricorso, funzionò egregiamente, recando la notizia dell'imminente sbarco alle autorità costiere, agli Intendenti, ai comandi militari. Quando i rivoltosi prendevan terra, già Salerno, sotto la cui intendenza era Sapri, era stata informata che i fuggiaschi di Ponza sarebbero, d'ora in ora, approdati; e quell'Intendente, senza indugio mobilitate le truppe, provvedeva d'urgenza a diramare l'avviso. Non era la mezzanotte di quella stessa domenica che due fregate trasportanti soldati, incuorati alla partenza dall'intervento del re in persona, lasciavan Gaeta per lanciarsi all'inseguimento del Cagliari; poche ore dopo un altro vapore con altre truppe. In due giorni, tra bastimenti effettivamente partiti ed altri mobilitati e sotto pressione, non meno di dieci unità vennero impiegate alla cattura degli evasi di Ponza!

Il Cagliari, insomma, aveva appena doppiato, sulla via del ritorno, il capo del golfo di Policastro, che già la Corte, il governo e tutte le autorità interessate sapevano dell'avvenuto sbarco. L'elemento primo di successo sul quale Pisacane contava, la sorpresa, veniva dunque a mancare del tutto. La mattina di lunedí 29, mentre due legni borbonici catturavano il Cagliari all'altezza di Capri, e i passeggeri e l'equipaggio subivan l'arresto,341 sei compagnie di cacciatori si mettevano in marcia da Salerno verso la regione di Sapri (oltre 150 chilometri!) e il Sottintendente di Sala, radunando tutti i distaccamenti militari e di guardia urbana che avea sottomano, li fondeva in un unico corpo di battaglia, avviandoli su Padula. Fra le popolazioni del distretto venne diffusa la voce che 300 briganti, evasi dal bagno di Ponza, si avanzavano da Sapri saccheggiando, uccidendo, stuprando; fidassero, «quei buoni villici», nel valore delle truppe reali accorrenti; e ove non si trovassero in grado di opporsi all'invasione dei malfattori, si concentrassero armati verso l'interno. Una vera e propria mobilitazione generale.342

E a Napoli? Cosa faceva Fanelli?

Nel pomeriggio di venerdí 26, il disgraziato aveva ricevuto l'ultima lettera di Pisacane. Invece di precipitarsi dagli amici per concretare immediatamente il da farsi, invece di spedire d'urgenza avvisi in provincia, invece insomma di utilizzare anche i minuti di quei due giorni che ancor gli restavano, Fanelli prese la penna e... scrisse a Pisacane, che pur sapeva già in viaggio! Scrisse concitato, risentito, fuori di sé: impossibile predisporre le cose pel giorno 28, impossibile prevenire in tempo i nuclei lontani, non tutti condotti a termine ancora i preparativi concordati. «Ardo per la sollecitudine, ammetto la fretta, ma il precipizio in cose di tale importanza... non è opera che approvo... Mi pareva bene morire in guerra; ma invece pare che lo debba di crepacuore, di bile, e di attacchi nervosi». E in un poscritto febbrile, a Mazzini, assicurandolo che comunque avrebbe fatto del suo meglio: «Onorevole maestro e fratello. Rifletto che questa mia non potrà pervenire all'amico a cui è diretta; perché a questa ora forse è già in via; perdonate il modo con cui è scritta. Addio di somma fretta».

Il giorno dopo — quando Fanelli, immerso nella più nera disperazione, ancora non si è mosso — ecco gli giunge il dispaccio Mazzini. Non gli restano che ventiquattr'ore per dar fuoco alle polveri: ma con qual mezzo avvertire gli amici, almeno quelli in provincia di Salerno? Il Comitato, organizzatore di un così vasto moto, non ha neanche dei corrieri a disposizione! Fanelli aveva poi sempre mentalmente scaricato le difficoltà finali sulle spalle del supposto «capo militare» che avrebbe dovuto arrivare da Genova: di quali miracolistiche virtú risolutrici non lo riteneva egli capace, se avea di giorno in giorno rimandato, in sua attesa, l'adozione di certi minuti ma indispensabili provvedimenti che soprattutto esigevano gran tempo, e che alla vigilia del moto neppure il padreterno avrebbe ormai potuto condurre a buon fine! Questo capo non era giunto e non giunse; con esso venne a mancare a Napoli la volontà inflessibile di mantenere a ogni costo tutti gl'impegni assunti. Nel Comitato qualcuno espresse perfino dei dubbi sull'autenticità del dispaccio; e avanzando la comoda ipotesi che si potesse trattare d'un poliziesco tranello, si cavò dagli impicci, ecclissandosi. Così, discutendo, si persero altre ore preziose. Fanelli, pover'uomo, raccolse le sue poche energie e, in quell'ultimo giorno, superò se medesimo. Ma non era temperamento adatto a travolgere prevedibili, umane riluttanze e incertezze. «L'ora solenne è presta: apparecchiatevi a coglierla diffinitivamente», scrisse ad esempio a Giacinto Albini, che da Montemurro dirigeva il movimento in Basilicata. Apparecchiatevi? Ma se lo sbarco a Sapri doveva aver luogo di lí a poche ore! Ci voleva, al suo posto, un che ordinasse: radunatevi alla tal ora in tal luogo; marciate in direzione tale, fate così e così; un che dicesse: noi tutti stiamo per muoverci, se voi mancate siete un vigliacco.

E invece, in altra lettera (era già il due di luglio), Fanelli si raccomandava inutilmente così:

«Per carità non tardate un momento; aiutate l'eroismo di quegli uomini preziosi, salvateli col vostro moto... insorgete, che noi insorgeremo appena ricevuto l'avviso della vostra insurrezione per rendere più colossale il movimento». Ma Montemurro pensava: se non si muove Napoli, perché dovremmo sacrificarci noi?

I capi politici del movimento in provincia si trinceravano inoltre dietro un comodissimo alibi: anche a loro era stato promesso l'invio di tecnici militari per assumere il comando dei nuclei d'azione; questi non s'eran visti; e che, si pretendeva forse che delle personalità politiche si tramutassero in quattro e quattr'otto in caporali di truppa? Ohibò!

In alcuni centri anche importanti, poi, le comunicazioni del Comitato o non giunsero affatto, per incredibile trascuratezza degl'improvvisati corrieri, o giunsero quando era già troppo tardi. Il povero Fanelli, in quei giorni di passione, seguitava dunque a ricevere, anziché le attese conferme di quelli che egli, in perfetta buona fede, riteneva i suoi «ordini», tiritere accademiche sul modo da tenersi per organizzare una rivoluzione o risciacquate per la sua incapacità o, peggio ancora, recriminazioni per la «sua fretta»! In più, pacatamente esposte, le ragioni buonissime per le quali questo o quel nucleo non s'era, armi alla mano, buttato alla campagna. Fanelli non impazzí, chi sa come, in quei giorni; ma la follia lo ghermí, senza rimedio, pochi anni più tardi.343

A Napoli avrebbe dovuto aver luogo una grandiosa dimostrazione di popolo, di pieno accordo coi costituzionali; ma questi con un pretesto o con l'altro — non ci vedevano chiaro, volevano evitare a ogni costo spargimenti di sangue, preferivano scendere in piazza non appena dalla località dello sbarco giungessero notizie un po' più incoraggianti — la rimandarono di giorno in giorno fino al 4 di luglio; il 4 di luglio, tenuto concistoro, buttarono all'aria ogni cosa.344 La polizia della capitale andava intanto ricercando e scoprendo a suo agio casse d'armi malamente celate qua e là, e si poneva indisturbata alla caccia dei complici di Pisacane. Il giorno 5 giunsero a Napoli pessime nuove di laggiú...

E sì che l'emozione prodotta in città dalle prime voci sullo sbarco e sull'episodio di Ponza, giunte nella tarda serata del 28 di giugno e subito diffuse nei caffè e nei teatri (particolarmente notato il precipitoso ritorno degli ufficiali in caserma), era stata grandissima: mancò, ecco tutto, chi sapesse, chi osasse trarne profitto. Durante il 29 le autorità notarono non senza preoccupazione «molti capannelli», e in questo o quel rione un'agitazione inconsueta; non si era perfino accreditata la voce di una imminente spedizione navale del regno sardo contro il Borbone?345 Ancora il 30 di giugno l'inviato piemontese segnalava al suo governo il «grande eccitamento degli animi» che seguitava a regnare in città. Piú esplicito di lui l'agente consolare inglese: «A giudicare dalle interviste che ho avuto con esponenti del partito liberale — egli scriveva —, dai sentimenti che per quanto a me consta animano in genere tutta la nazione, nonché dal dubbioso stato d'animo prevalente nell'esercito, io ritengo che, essendo ormai sprizzata la scintilla, tutto il paese andrà in fiamme; prevedo che un attacco come questo, d'un'audacia senza precedenti, compiuto contro una delle prigioni principali, di pieno giorno, vicino a Gaeta, sotto gli occhi stessi del re, deciderà il popolo a ricorrere alle armi pur di liberarsi da quest'oppressivo governo. È assai probabile che fra non molto abbia a dichiararsi in città un serio movimento popolare, il cosiddetto "Partito d'azione" è indaffarato a promuoverlo». L'eccitata missiva si conchiudeva asserendo che fra gli organizzatori della spedizione «erano alcuni dei più abili e audaci ufficiali italiani, ex combattenti nelle rivoluzioni del 48», e dando al governo inglese le più ampie assicurazioni che Murat e il murattismo non avevano assolutamente niente a che fare col movimento in parola, seppure volto a detronizzare re Ferdinando. Bene informato, il Console Barbar!

In tanta rovina di intese e di speranze, agli uomini del Comitato, allo stesso Fanelli mancò il cuore di mostrare, se non altro, personale coraggio, tentando a Napoli una di quelle azioni di sorpresa che avrebbero potuto, riuscendo, costituire un diversivo e alleggerire la pressione militare su Sapri; e comunque, anche fallendo, impedire al governo napoletano di menar vanto in Europa della esemplare quiete serbata dalla popolazione durante quel periodo di crisi. Perfino Fabrizi, che si erse poi sempre a difensor di Fanelli, da molti tenuto responsabile primo del disastro, avvertí l'obbligo di rimproverarlo: «Debbo dirlo, un atto puranco disperato di pochi, protesta d'onore e di dovere, rimprovero ed imputazione all'intrigo dei codardi, non avrebbe dovuto da qualche lato mancare, e forse chi sa che questo atto non salvasse il tutto, ma certo avrebbe salvato l'onore, se non di un popolo di sette milioni, almeno della sua attitudine allo avvenire. La mancanza d'ogni fatto, l'abbandono al martirio, in mezzo al silenzio, dei più valorosi figli dell'Italia, per Dio, è uno spettacolo terribile e disperante».346

È vero che Fabrizi non si era mosso da Malta.

Alieno da intrighi, intanto, ignaro d'esitazioni, materialmente lontano, moralmente remoto addirittura da tutti costoro, colui che aveva virilmente promesso ed ora, senza curarsi di che facessero gli altri, manteneva a qualunque costo gli impegni assunti — Pisacane — pagava lo scotto, perduto fra le squallide giogaie d'intorno a Sapri.

La mattina di lunedí 29, assai per tempo, la colonna di insorti si pose in marcia verso l'interno della regione, seguendo la medesima angusta vallata che tre anni più tardi, fra evviva e canti e presagi di vittoria, avrebbe percorso Garibaldi con i suoi volontari.347 Eran le sei quando — coperte tre miglia e saliti oltre quattrocento metri — si giunse al borgo di Torraca. A Torraca si celebrava, come se nulla fosse, la festività di S. Pietro: gran processione, la statua del santo solennemente trasportata per le vie del paese. Il sopraggiungere della masnada non parve impaurire nessuno: anzi alle grida sediziose molti fecero eco, e ci fu tra i paesani chi prontamente esibí coccarde tricolori; qualcuno vociò: Viva Murat. Corse del vino, qualche stretta di mano. Il cuore di Pisacane e dei suoi s'aprí un poco alla speranza: non che Torraca proclamasse la rivoluzione, ma li accoglieva almeno come cristiani!

Nel bel mezzo del paese qualcuno lesse alla folla il proclama insurrezionale. Diceva: «Cittadini — È tempo di porre un termine alla sfrenata tirannide di Ferdinando secondo. A voi basta volerlo. L'odio contro di lui è universalmente inteso. L'esercito è con noi. La capitale aspetta dalle provincie il segnale della ribellione per troncare in un colpo solo la questione. Per noi il governo di Ferdinando ha cessato d'esistere; ancora un passo ed avremo il trionfo; facciamo massa e corriamo dove i fratelli ci aspettano. Su dunque: chiunque è atto a portare le armi ci segua. Chi non è abbastanza forte per seguirci, ci consegni l'arma. Noi abbiamo lasciato famiglia ed agi di vita per gettarci in una intrapresa che sarà il segnale della rivoluzione e voi ci guardate freddamente come se la causa non fosse la vostra? Vergogna a chi potendo combattere non si unisce a noi; infamia a quei vili che nascondono le armi piuttosto che consegnarle. Su dunque, cittadini, cercate le armi nel paese e seguiteci. La vittoria non sarà dubbia. Il vostro esempio sarà seguito dai paesi vicini, il nostro numero crescerà ogni giorno ed in breve tempo saremo un esercito. Viva l'Italia».

L'accenno alla freddezza e viltà degli abitanti rivela che il proclama era stato probabilmente compilato, o corretto, la notte stessa, dopo l'esperienza di Sapri.

Ma nessuno, a Torraca, terminata la lettura, si mosse, nessuno mostrò di divider quell'odio per la sfrenata tirannide, da nessuno vennero armi. Come ignorare che più in là, verso Sala Consilina, si andava febbrilmente operando il concentramento delle forze borboniche e che anche i componenti la locale guardia urbana vi si eran diretti?348 Gli stessi «liberali» del paese (ché alcuni ve n'erano, già noti alla polizia e attentamente sorvegliati) si rivelarono nell'occasione severi tutori dell'ordine, barricandosi in casa o prodigando tutt'al più ai rivoltosi il prudente consiglio di abbandonare al più presto una posizione così poco sicura.

Il contegno di alcuni della masnada, d'altronde, non era fatto per conciliar simpatie e incoraggiare adesioni; ché, col pretesto di requisire armi, non pochi s'introdussero nelle case private, impadronendosi di danaro e di oggetti. Se mai non fossero giunte ancora a Torraca le informazioni ufficiali sulla provenienza e lo stato civile della maggior parte dei seguaci di Pisacane, provvedevan costoro ad anticiparle! Né i capi, per quanto facessero, riparavano ad impedir ruberie e vandalismi o, una volta commessi, a indennizzare i queruli danneggiati.

Ripresa, senza entusiasmo, la marcia, gl'insorti imboccarono l'impervio sentiero che da Torraca, pei monti della Serra, mena al Fortino di Cervara (a 780 m. sul mare), punto di confine tra la Campania e la Basilicata. Il Fortino si trova sulla grande rotabile delle Calabrie, a mezza strada fra Lagonegro e Casalnuovo. Oltrepassato Casalnuovo e raggiunto il Vallo di Diano, ci si poteva gettare, a seconda dei casi, o verso l'interno, nel cuore della Basilicata, o verso il mare, in Cilento, oppure, continuando per la via consolare, direttamente su Eboli e Salerno.

«I faziosi — così deposero al giudice due evasi da Ponza, Venturini e Catapano — credevano di essere attesi nelle vicinanze di Sala da 2000 correligionari ed altri 500 in Padula (borgata importante fra Casalnuovo e Sala), dopodiché sarebbero piegati in Potenza da dove dietro la venuta dei Calabresi si sarebbero volti per la Capitale». C'era esagerazione nel numero, ma la deposizione era sostanzialmente esatta. Padula (lo avevano poco prima confermato alcuni di quei saggissimi liberali in Torraca) era un centro importante di cospirazioni settarie; resultava a Pisacane che vi si potesse contare, a dir poco, su «duecento militari, dei quali un terzo incirca munito di schioppi»; a Sala cento individui si sarebbero tenuti pronti ad agire; molti altri simpatizzanti si sarebbero racimolati nelle frazioni intermedie. Possibile che tutto questo, tutto, tutto, tutto fosse millanteria di loquaci capi popolo di provincia?

Ma gli organizzatori della spedizione non avevano tenuto conto di una circostanza di capitale importanza: e cioè che in quel periodo dell'anno, in quella regione, gran parte della popolazione maschile soleva emigrar nelle Puglie per la mietitura del grano.

La tappa Torraca-Fortino (12 miglia) occupò quasi l'intera giornata. I trecento, stanchissimi, tormentati dall'arsura, avanzavano con faticosa lentezza. «In quel tragitto — confidò poi uno di loro - patimmo tanta sete che credo fosse uguale a quella che soffersero i Crociati!»349 Sul far della sera, al Fortino, fu dato l'alt: gli uomini si accasciarono, affranti; i capi si radunarono nella miserabile osteria del luogo. Mancavano perfino i viveri: si dovette comprare della farina guasta e infornar quella, malamente impastata, per essere in grado, il giorno dopo, di proseguire la marcia.

Passarono di là due militari in congedo, che tornavano al paese d'origine: ecco l'occasione di saggiare lo stato d'animo delle truppe borboniche. La prova, se vogliam credere alla deposizione giurata dei due malcapitati, non fu incoraggiante; ché, invitati ad unirsi alla banda, essi tentarono di svignarsela. Ma non ci fu verso: «Carogne f..., avete finora servito il re, ora dovete servire a noi», avrebbe detto loro «uno di quei malviventi in tono di sdegno»; altri li avrebbero percossi. Meno male che un «galantuomo», che tutti chiamavano il «comandante», li trattò umanamente offrendo loro, nell'osteria, qualche ristoro.350

I capi tenevan consiglio. La fascia paurosa di silenzio seguitava ad avvolgerli: nessuna notizia degli amici, nessuna dei nemici; la gente loro manifestamente spossata, non in grado di certo di sostenere un conflitto un po' serio. Conveniva, così stando le cose, discendere, secondo il piano fissato, per la rotabile a Padula, presidiata dalle forze borboniche? O non piuttosto, allontanandosi immediatamente dalla vicinanza dei grossi centri abitati, guadagnare posizioni montuose in Basilicata e magari in Calabria, ove attendere in relativa sicurezza che pervenissero rinforzi? Nicotera e Falcone propendevano per questo diversivo; ma Pisacane, che ancora e nonostante tutto fidava negli appoggi rivoluzionari di Padula e Sala, fermamente si oppose. L'idea di una fulminea marcia da sud a nord, verso la capitale, lo ipnotizzava tuttavia, né lo atterriva minimamente la possibilità di un prossimo scontro con truppe borboniche anche superiori di numero: valeva così poco, l'esercito napoletano! La regione di Padula-Sala, d'altronde, per l'accurato studio topografico e logistico che n'avea fatto, gli era ormai familiare: mutare itinerario non sarebbe stato come affrontare l'ignoto?

Parve per un momento che trionfasse tra gli opposti pareri una tesi intermedia: giunse infatti al Fortino nel cuor della notte (chi sa come benedetto e festeggiato: era il primo segno di vita che, dallo sbarco in poi, fosse venuto a rincuorare la banda!) un emissario degli amici di Lagonegro. Questi mandavano a dire che il paese era sgombro di truppe, che gli «affiliati» eran molti e che i trecento v'erano attesi al più presto. Ma Pisacane, dopo qualche esitazione, tornò al suo parere più convinto di prima. Se a Lagonegro il partito era in piedi, perché dubitar che lo fosse, e ben altrimenti efficiente, a Padula e a Sala? Un successo a Lagonegro non avrebbe portato a nulla; un successo nel Vallo di Diano apriva invece la via di Salerno! Gli amici di Lagonegro, dunque, facessero massa e convergessero immediatamente, anche loro, su Padula: non bisognava lasciare il tempo alle truppe borboniche di concentrarsi in troppo gran numero.

Il dubbio, ahimè, non lo sfiorò neppure che i prodi rivoluzionari di Lagonegro, professantisi disposti a tutto pur di scuotere il giogo borbonico entro la cerchia del borgo natío, potessero essere campanilisti al punto da rifiutarsi di far dieci miglia per conquistare la libertà di Padula...

Che Pisacane fosse stato bene ispirato parve a tutti evidente quando, poco innanzi il mezzogiorno del 30, la banda fece il suo ingresso a Casalnuovo, a mezza strada fra il Fortino e Padula. Il paese era infatti in pieno tumulto; i gendarmi s'eran ritirati su Sala, la loro caserma era stata presa d'assalto, e una quantità di persone aspettavano adesso, festanti, i trecento. Scrosciaron gli applausi alla lettura dei proclami sediziosi, stemmi e insegne borboniche volarono in pezzi, vennero abbattuti  i pali telegrafici, saltarono fuori armi in buon numero. I capi della spedizione ebbero un momento di vero ottimismo: eran dunque maturi alla rivoluzione, quei buoni casalnuovesi!

Il guaio si fu che quando la banda di lí a poco lasciò il paese, non uno di quei cittadini sì prodighi in evviva fu capace d'imbracciare il fucile e porsi al suo séguito. Un voltafaccia improvviso. Come spiegarlo? Pisacane, il quale partiva dalla supposizione che quella gente avesse l'odio antiborbonico nel sangue, non si trovava nelle condizioni migliori per scioglier l'enigma. Si cacciò in capo che qualche furtarello, qualche grassazione meschina commessa anche lí da rivoltosi isolati avessero alienato alla banda la simpatia di Casalnuovo; e risolvette di dare un esempio terribile, che valesse a tagliare alle radici quel male. Il disgraziato che pagò per tutti fu Eusebio Bucci, che aveva derubato di pochi centesimi una povera donna: tradotto innanzi al «Consiglio di guerra», venne, con poche o punte formalità, condannato alla fucilazione.351 La sentenza spietata si eseguí senza indugio, a un miglio da Casalnuovo. Povero ladro Bucci, la parte di combattente non era tagliata per te: oh quanto meglio se nessun Pisacane t'avesse dischiuso, a Ponza, le porte del carcere!

Poi fu ripreso il cammino. Padula, il centro più ragguardevole fino allora toccato, venne raggiunto in serata.

Sapri, Torraca, Casalnuovo avevan crudelmente deluso le aspettazioni di Pisacane; ma eran piccoli borghi rurali, senza importanza. Il disinganno patito a Padula (nessun amico che si facesse vivo, salvo qualche liberale del tipo Gallotti, nessuna notizia delle attese bande sussidiarie, silenzio assoluto da Lagonegro) segnò invece di colpo il fallimento della spedizione, ormai difficilmente evitabile. Improvvisamente, nel terzo giorno da che v'eran sbarcati, i trecento sentirono infatti di essere in terra nemica, all'assoluta mercè del nemico. Perfino il fatto che la cittadina, naturalmente sgombra di truppe, non offrisse resistenza alcuna all'occupazione (marcata dalle solite requisizioni e sequestri, e dalla liberazione dei detenuti dal carcere), parve sottolineare la gravità della situazione, accrescendo l'angoscia di tutti. Altro che marcia trionfale! Intorno a Padula si andava serrando il cerchio di ferro delle forze borboniche: a Sapri, quella mattina medesima, eran sbarcate le truppe provenienti da Gaeta; a Sala, dove si concentravano i distaccamenti di gendarmeria e di guardia urbana del circondario, le compagnie di cacciatori, partite da Salerno, erano attese da un momento all'altro.

Nel cortile di casa Romano (designata in anticipo per quartier generale delle forze rivoluzionarie) gl'insorti inquietamente bivaccarono; finché, nelle prime ore del mattino seguente (era il primo di luglio), non venne segnalato l'avanzarsi di nuclei borbonici dalla parte di Sala. Terrore? Fuggi fuggi? Disordine? No: la stessa prossimità del pericolo, il suo concretarsi in alcunché di preciso e visibile, parvero anzi sollevare i trecento, che già, secondo il piano scartato due giorni innanzi, stavano per iniziare la marcia di ripiegamento sulla Basilicata. Era la fine di un incubo.

Gli ordini di Pisacane vennero puntualmente eseguiti: evacuato alla svelta il paese, gli uomini vennero piazzati in posizione elevata, disposti a battaglia. Nonostante tutto, il generale era tornato sereno e quasi ottimista: non che s'illudesse minimamente ormai sulla sorte del conflitto, se conflitto si fosse davvero impegnato; ma gli s'era risvegliata l'estrema speranza che, nel momento di scaricare le armi contro i loro fratelli, quei soldati (commilitoni di Agesilao Milano!) e soprattutto quelle guardie urbane, rivelando d'un tratto l'animo loro d'uomini liberi, o avrebbero rifiutato di battersi o addirittura fatto causa comune con loro. Gli ufficiali che guidan quelle truppe, egli andava dicendo, son miei antichi colleghi, so ben io come la pensano, mio fratello è tra loro, come dunque potete temere che intendano sterminarci? E a chi, nel recargli del cibo per la giornata, esprimeva il dubbio che dovessero poi mancargli il tempo e la voglia per consumarlo, egli, alludendo ai borbonici, ribatteva con un sorriso che voleva essere tranquillizzante: «Bene, mangeremo assieme».

Divisi in due colonne, guardie urbane e gendarmi avanzavano con evidente cautela. S'arrestarono a rispettosa distanza, aprirono il fuoco: un fuoco blando, incerto, inoffensivo; a sentire gli spari si sarebbe detto una caccia. Durò così per due ore. Pisacane avrebbe potuto benissimo, profittando della superiorità numerica, ordinare l'attacco a fondo o proseguire nella ritirata già predisposta; ma era sicuro che gli urbani non aspettassero se non il momento opportuno per abbracciare la causa della rivolta. Temporeggiò. D'un tratto, invece, sopraggiunsero le soldatesche del colonnello Ghio, il fronte borbonico s'avvicinò, la fucileria si fece intensa; molti rivoltosi caddero feriti od uccisi, il pericolo d'un accerchiamento completo si fece imminente. Le guardie urbane gareggiavano d'accanimento coi regolari. Pisacane si perse d'animo: quanto più ostinatamente s'era ribellato fino allora a quel crescendo di disinganni che avevano accompagnato la marcia su Sapri, tanto più tragicamente essi lo percotevano adesso, culminando, sintetizzandosi quasi, in quelle raffiche micidiali. Smarrí l'usata energia. Presentiva la fine: di sé, dei suoi, d'una Idea.

La resistenza fu rabbiosa, in qualche punto anche eroica; ma bisognò ben presto desistere: troppo schiacciante era la superiorità del nemico. E allora, la resa? Ma la resa significava indubbiamente fucilazione pei capi, ergastolo per tutti gli altri. Ritirata, dunque: abbandonare quella maledetta regione per rifugiarsi in qualche località meno esposta, tagliata fuori dalle grandi vie di comunicazione. Data la posizione delle truppe borboniche, l'unico scampo possibile era ormai quello in direzione nord-ovest, verso il Cilento, cioè: il Cilento, terra classica delle rivolte. Ma sotto il grandinar delle palle la ritirata divenne fuga, scompiglio, si salvi chi può. Gli sciagurati seguaci di Pisacane, fuorché un centinaio che gli si strinsero disperatamente d'intorno, gettaron le armi, follemente correndo chi incontro al nemico, chi verso l'aperta campagna, chi a rintanarsi tra le case di Padula. Battaglia? No, caccia, massacro: feriti sgozzati, prigionieri inermi passati per l'armi, i fuggitivi rincorsi e atterrati. Trentacinque, che in cerca di scampo traversavano precipitosamente il paese, infilarono, inseguiti, un vicolo cieco: impossibile uscirne, si addossarono allora, terrorizzati e inebetiti, al muro terminale, e i fucili borbonici, puntati e scaricati al sicuro, nel cumulo, li abbatterono urlanti come cani randagi, un dopo l'altro, gli uni su gli altri.

Pisacane, Nicotera, Falcone, quel centinaio dei migliori con loro, capaci ancora d'orizzontarsi, si gettavano intanto, distanziando con la rapida corsa il nemico, per una viottola che, traversato il Vallo di Diano, menava a Buonabitacolo, verso il Cilento. Formavano un piccolo corpo, ancora relativamente omogeneo, ma privo o quasi di munizioni, senza conoscenza dei luoghi, spossato. Se le truppe borboniche li avessero inseguiti, era finita per loro. Ma il colonnello Ghio — il quale, secondo fu ripetuto allora da molti, aveva sostituito all'ultimo momento, nel comando di quelle truppe, lo stesso fratello di Pisacane, da re Ferdinando generosamente esentato352 — aveva anche troppo da fare, quel giorno, a redigere un bollettino della vittoria da trasmettersi a Napoli, che fosse degno del memorabile evento. Era un pezzo che all'esercito borbonico non toccava la gloria d'una battaglia vinta, e così a buon mercato, tre morti e sei feriti in tutto... Né volle mancare altresì di presenziare, in veste di trionfatore, alle solenni festività religiose ordinate per quella sera medesima dall'arciprete di Padula, per render grazie al Signore.

(Il giusto destino castigò tre anni dopo quel Napoleone: il quale, promosso generale, doveva arrendersi, in Calabria, alle bande garibaldine, con diecimila uomini, senza neanche combattere!)353

«Non è facile provocare l'insurrezione di un popolo che, per quanto saturo d'odio, ha l'inveterata abitudine di sfogarlo soltanto a parole; l'impresa, verosimilmente, non condurrà che al sacrifizio della vita di questi uomini coraggiosi e disperati, i quali l'hanno arrischiata nel pazzo tentativo di conquistare al loro paese la libertà e la pace. In questo stesso momento, sulle colline di Calabria o nei boschi del Salernitano, centinaia di uomini dai piedi sanguinanti, affamati, sofferenti, errano col moschetto e il pugnale, affrontando ogni ostacolo e ogni pericolo, spinti dalla disperazione loro e dalla miseria insopportabile della loro patria. La vita per essi non ha alcun valore. Esuli rovinati, tornano a casa per farsi fucilare...»

Così, con fantasia commossa e pietosa, intuendo a tanta distanza la tragicità della loro situazione e la vigliaccheria dei loro compatrioti, un giornalista inglese scriveva di Pisacane e dei compagni suoi, due giorni dopo la loro fuga da Padula. Né mai descrizione romanzesca ammannita al pubblico inglese, sempre ghiotto di thrills, corrispose più esattamente di questa a una spaventosa realtà.

Buonabitacolo: non suonava promessa quel nome? Sembrava infatti abbastanza probabile, dato il concentramento di Padula, che si sarebbe potuto sorprendere il paese sguernito di forza; a Pisacane risultava inoltre, dai pochi appunti fornitigli a Napoli, che la lista dei «sospetti in linea politica» vi fosse particolarmente abbondante. Chi sa, pensava, mentre coi suoi disgraziati compagni arrancava a quella volta, chi sa che a Buonabitacolo non s'abbia finalmente a trovar qualche aiuto; ma certo potremo riposarvi, e avremo cibo, e qualcuno di là saprà guidarci in salvo. Ma alle soglie di Buonabitacolo, minacciosamente vietanti l'ingresso e la sosta, vegliava un manipolo di guardie urbane. Rapide le comunicazioni nel regno di Napoli! Attaccarle? Sarebbe stata follia: quei cento superstiti del disastro di Padula stentavano a reggersi in piedi. Proseguire, dunque, in quella marcia estenuante che durava da ore e ore? Ma dove vettovagliarsi e come rintracciare la via, mentre già calava la notte? Ebbero il torto di non diffidare d'un pastorello, incontrato un po' troppo per caso, che spontaneamente si offerse di condurli per vie traverse al paese di Sanza, poche ore di strada. Errarono a lungo, dietro a lui, in una zona montuosa tormentatissima, senza riuscire a raggiunger la meta; anzi la guida confessò a un certo punto d'aver smarrita la strada. Non si resero conto che poche ore potevan decidere dalla loro salvezza: non inghiottivano cibo e soffrivan la sete dall'alba di quella giornata terribile! S'adagiarono in terra. Gli orrori veduti, l'incertezza del loro domani, la spossatezza medesima tolsero loro anche il conforto e il ristoro del sonno.

Erano in piedi, di nuovo, sul fare del giorno seguente. Sanza non era lontana: in poche ore guadagnarono una piccola altura sovrastante il paese. Erano affamati e sfiniti, ombre di uomini; non volevano né saccheggiare né uccidere, non si sognavano neanche più di «fare la rivoluzione». Domandavan di vivere, ecco, d'essere aiutati a fuggire: come non li avrebbero quei terrazzani soccorsi, che soccorrevano per tradizione perfino i briganti, e dato loro del pane e dell'acqua e insegnata una via di salvezza?

Ma ecco dall'abitato farsi innanzi una piccola squadra d'urbani, undici uomini in tutti. Coraggiosi, quei difensori del regime borbonico! Appena riconosciuta la banda, spianarono i fucili, tirarono senza esitare. Sessanta dei rivoltosi si ritirarono immediatamente e, girando il colle, fecero per avvicinarsi al paese; qualche minuto più tardi sventolavano, in segno di resa, delle pezzuole bianche. Gli altri — il gruppo dei provenienti da Genova — restavano fermi sotto la gragnuola di colpi. Concitato colloquio tra i capi; poi Nicotera si staccò, rincorse i fuggenti. Perché mai capitolare, in cento che erano? Delusione su delusione, era vero; ma non si poteva, alla peggio, lasciando Sanza, proseguire il cammino? O almeno mantenersi in gruppo, per trattare una resa onorevole?

Ma s'intese in quel mentre il perché dell'audacia spiegata dagli undici urbani: nel paese le campane suonavano a stormo; il parroco, d'accordo col comandante le guardie urbane, radunava a precipizio la gente. Una torma di briganti — egli si pose a gridare, e le concitate parole trovavano conferma ed acquistavan forza nel crepitio delle fucilate — calava su Sanza per spogliarvi le case, oltraggiare le donne, attaccare il colera. Buona caccia per chi li atterrasse, quei galeotti fuggiti dal bagno, ricolme le tasche di danaro rubato; il re, per sovraprezzo, pagherebbe ogni testa a peso d'oro. E brandiva la croce, eccitando abilmente ora la cupidigia, ora il timore, ora lo zelo religioso dei suoi parrocchiani ignoranti. Povera gente di Sanza, perché non avrebbero dovuto credergli? Ammazza ammazza, sono i briganti che vogliono il sangue del popolo! I lupi rapaci! Gli assassini, gli untori! Contadini, artigiani, boscaioli, parve che con improvviso furore si risvegliassero in loro istinti e tendenze selvaggi, sopiti da secoli. Corsero alle case, s'armarono d'ogni arnese che capitò sottomano, che fosse massiccio o tagliente, roncole, falci, randelli, spiedi; e seguíti dal prete, aizzati dalle donne, si buttarono su per l'erta, a sterminare i briganti.

Pisacane, che avrebbe resistito fino all'ultimo sangue a uomini pagati per difendere i Borboni, che aveva poco prima sussultato di sdegno quando i più tra i suoi s'eran vilmente arresi, ora ordinò — e fu l'ultimo ordine suo, né alcuno osò trasgredirlo — che non si reagisse.

Era il «popolo» che si precipitava su di loro, urlando, avido di strage; il popolo schiavo e sfruttato ch'egli aveva voluto redimere, e perciò s'era mosso da lungi e aveva affrontato le pene di quel tremendo calvario. Ma certo, quando avesse veduto «i briganti» immobili e inermi, si sarebbe fermato e avrebbe gettato gli strumenti del lavoro, con sacrilegio infame impugnati per dar la caccia all'uomo. Ed egli, Pisacane, avrebbe parlato e detto loro chi fosse e come mai venuto, lui colonnello e nobile, a combattere un re che era il loro comune tiranno; avrebbe saputo esaltarli nella speranza di un regime migliore, tutto del popolo, tutto pel popolo. Fors'anche li avrebbe infiammati con la lettura del suo proclama, quello di Torraca, di Casalnuovo: «Cittadini — È tempo di porre un termine alla sfrenata tirannide di Ferdinando II... Su dunque, chiunque è atto a portare le armi»...

Le avevano impugnate, finalmente, le armi: né solo gli uomini, ma perfino le femmine, e gl'indemoniati ragazzi; e tutti insieme si rovesciavano, con incontenibile slancio satanico, su di lui, sui pochi compagni.

Oh, quelle parole accese ch'egli stesso, forse, dodici mesi prima, aveva scritto per la Libera Parola; «se nel paese classico di Fra Diavolo, di Rinaldini, del Passatore e dei Lazzarini... non sorge nell'anima di alcuni strenui giovani il generoso pensiero di farsi i Fra Diavoli e i Lazzarini della libertà, di tentare e soffrire per l'indipendenza d'Italia quanto Gasparone, De Cesaris e migliaia dei loro simili hanno tentato e tentano tutt'oggi per un pugno d'oro... oh allora, ogni parola è inutile...»

Atroce presentimento: ora gli toccava in sorte anche la fine ignominiosa del brigante.

Lo colpiron di fucile, al fianco sinistro; Pisacane piegò a terra. «... Siete assassini, si dice che mormorasse, mi derubate, ed ora mi uccidete: conducetemi alla giustizia»...354 Non un barlume di estrema speranza, non la fierezza d'un dovere compiuto, e neanche il conforto della cristiana rassegnazione potevano rianimarlo o rendergli sereno il passo estremo. Non era questa la sognata ebbrezza della morte in battaglia. Misconosciuto, tradito dai suoi conterranei, confuso in una turba vile di galeotti, forse anche raddoppiava il suo affanno la coscienza della tremenda responsabilità che gl'incombeva proprio di fronte a questi umilissimi tra i suoi seguaci. Disperatamente deluso, solo nell'anima, tra gli urli selvaggi di quelle furie e il bestemmiar delle vittime, per cui neppure nel dolce pensiero della sua Silvia lontana e ignara gli era dato quietamente chiuder gli occhi alla luce, volle almeno morir di sua mano. Gli eran quasi sul capo, ormai, roncole, falci, spiedi, pronti ad abbatterlo come belva famelica, calata dai monti a devastare gli ovili: impugnò fermo la sua pistola, e con un colpo si sottrasse allo scempio.

Falcone, il più giovane, che gli era accanto e che a malincuore aveva obbedito al suo ordine di non resistenza, vistolo cadere, si uccise a sua volta; Foschini, sembra, si cacciò nel cuore il pugnale. Altri sei del gruppo di Genova vennero massacrati intorno a loro; Nicotera, accorso, gravemente colpito, venne lasciato per morto. Dei dispersi, chi trucidato, chi, ferito o malconcio, catturato; e i morti, per l'insanire dei colpi, cento volte morti. Non un solo ferito fra i popolani di Sanza; la cui rabbia di sangue, se non l'avesse impedito un capitano Musitano sopraggiunto al comando di poche truppe borboniche, non avrebbe risparmiato neppur gli arrestati! Non si voleva finire lo stesso Nicotera perché rifiutatosi di gridar «viva u' re»?

Ultimata la strage, i poveri corpi non furon neanche sepolti, ma, in omaggio al preteso interesse della salute pubblica (cui non nocque per altro la spogliazione accurata!) vennero immediatamente bruciati in un immenso rogo.355 Solo inumato, si disse, Pisacane, per volontà pietosa di quel Musitano, memore d'esser stato alla Nunziatella, vent'anni prima, suo compagno di studi.

Terminava così la spedizione di Sapri.

Dichiarazione dei capi urbani di tutto il distretto, all'indomani della vittoria: «I popoli affidati alle cure dell'adorato Ferdinando II, non vogliono che lui assoluto al governo del Regno, perché da lui ottengono il bene con la salvezza dell'onore e della proprietà». (È vero che tre anni dopo accoglievano con immenso entusiasmo il «liberatore» dell'efferrata tirannia, Garibaldi...)

Rapporto sullo «scontro» di Sanza del giudice regio: «Il clero prestossi anch'esso piamente, mostrando al pubblico nel momento in cui ferveva la pugna le sacre immagini dei protettori S. Sabino e S. Antonio di Padova». (È vero che il clero di quella regione, da tempo minacciato di inchiesta e sanzioni per notoria, scandalosa condotta privata, cercava ogni occasione per riacquistare le grazie della suprema autorità...)

Seguí, s'intende, un'abbondante distribuzione di ricompense, promozioni e onorificenze. Ma non tutti rimasero contenti; tra gli altri il molto reverendo don Domenico Castelli, arciprete di Sanza, il quale si rammaricò col direttore di polizia che, mentre la «gloria» del massacro risaliva unicamente a lui e ai suoi parrocchiani, altri se la fosse attribuita e ne avesse ritratto vantaggi: sì che nessuno aveva pensato a rimeritare i suoi «poveri figliani, che eransi esposti al pericolo della vita... mentre ebbero molti colpi di archibugi; e per miracolo della Vergine di Loreto loro tutelatrice e protettrice non furono colpiti... Ed essi loro dopo tanti sforzi e pericoli, posti in non cale, sono rimasti dispiacentissimi, e molti avveliti!»356

Mentre la diplomazia e la stampa napoletana menavano gran vanto del tentativo abortito, inferendone la provata solidità del regime;357 mentre la polizia borbonica incrudeliva contro i sospetti complici della spedizione, e a Salerno s'istruiva il mastodontico processo contro i superstiti; mentre Fanelli (miracolosamente sfuggito alle ricerche) e i «rivoluzionari» di provincia si palleggiavano accuse e recriminazioni; mentre i «costituzionali» napoletani declinavano pubblicamente ogni loro
responsabilità nella sciagurata impresa; negli ergastoli, nelle isole di relegazione, dove tante fiorenti
energie si consumavano invano, calava ancora una volta, più tetra, l'ombra della delusione. Sarebbero dunque tutti morti là dentro senza veder la fine di quell'iniquo regime e riacquistare la libertà perduta? Disperato Pisani perché il Cagliari non avesse fatto scalo a Ventotene, «siamo proprio — scriveva agli amici di Napoli — in un orgasmo che ci divora»; fremente Magnone, detenuto a Salerno: «Io mi sento ardere le vene e le ossa dalla febbre d'azione. Ma non v'è speranza che mi togliessero da questa bolgia... Pensate escogitare come farci uscire di qui...» Indignato invece Settembrini: «Sono addoloratissimo — così alla moglie — e maledico quegli scellerati che sotto specie di libertà, standosi da lontano, mandano giovani generosi a morire, anzi ad esser macellati... Povero paese, lacerato in mille guise dagli sciocchi e dai tristi... Quanto sangue, quanti mali, quante lagrime per queste imprese sconsigliate»; e dopo qualche giorno: «Ho un peso sull'anima, che m'opprime: e l'ergastolo mi sembra più tormentoso, e chiuso, e stretto, e pesante». Severo, come lui, Silvio Spaventa nel biasimare «il colpo che ci fa perdere il frutto di dieci anni di persecuzioni sofferte e il vantaggio d'una situazione che si rendeva ogni giorno più difficile pel governo. Pazienza!»358

E a Genova? Pervenutovi il sospirato dispaccio convenzionale da Napoli annunziante lo sbarco di Pisacane a Sapri (dispaccio spedito da un dipendente del consolato inglese!)359, il 29 di giugno era scoppiato, come è noto, per poi miseramente fallire, il tentativo insurrezionale; lo stesso giorno a Livorno: né qui s'addice di ricalcare narrazioni esaurienti, per ritracciare e dell'uno e dell'altro la precipitosa parabola. Mazzini sfuggito alle rabbiose ricerche condotte in tutt'Italia;360 arresti a migliaia in Piemonte e in Toscana, espulsioni numerosissime, processi. Ecco — oltre ai morti e ai feriti di Livorno — il triste bilancio della doppia avventura.

La notizia del disastro di Sanza giunse a Genova con grande ritardo.361 Fino all'ultimo si era sperato nel successo e quasi tutti i giornali — compresi quelli che avevano stigmatizzato con roventi espressioni i tentativi di Genova e Livorno — avevano diffuso in proposito notizie ottimistiche, commentandole in tono di ostentata simpatia: intere provincie in rivolta nelle Due Sicilie, le truppe borboniche unitesi agli insorti, clamorose dimostrazioni a Napoli. L'8 di luglio, quando pure già tutti conoscevano la verità tristissima, l'Italia del Popolo insinuava che le notizie del disastro fossero state diffuse da Napoli «per ispaventare gli animi nostri e fare esaltare quelli dei realisti».

La disgraziata Enrichetta aveva trascorso quei giorni in una inesprimibile angoscia; solo di tanto in tanto l'impenitente ottimismo di Jessie White era riuscito a sommergere sotto ondate esaltatrici di speranza e di fierezza i suoi tristi presagi. In giornata del 29 le avevano comunicato il telegramma da Napoli; poi era stato l'eccitamento effimero del moto genovese, lo stordimento per la sua rapida fine, l'ansia per gli arresti e le fughe. Il 2 di luglio l'amico De Lieto aveva potuto comunicarle i primi particolari sul «felice» sbarco della spedizione a Sapri. Seguirono altri due giorni senza alcuna notizia se non le poche, contradittorie, stampate dai giornali; brutto segno, comunque, la loro stessa incertezza. E quel vuoto pauroso che le si faceva d'intorno, amici in prigione, altri celati, altri timorosi di recarsi da lei! Il 4 di luglio, mentre la White veniva senz'altro arrestata,362 la polizia si presentava a perquisire la casa di Enrichetta sotto pretesto che essa «si faceva centro dei complici del tentativo di sommossa avvenuta in questa città la notte dal 29 al 30 p. p. Giugno per diramare le notizie dell'andamento delle cose ai diversi complicati». Al primo scorgere gli sbirri, Enrichetta tentava invano di far sparire, gettandole dalla finestra, due lettere, una delle quali compromettente per l'amica inglese. La polizia le sequestrò insieme ad altre due lettere di Cosenz, a varie ricevute sospette e a una nota cifrata. La povera donna, pur intuendo quel che la perquisizione significava per lei, ebbe la forza di rispondere con disinvolta accortezza alle domande rivoltele. Passarono altri sei giorni d'inferno: l'11 luglio venne il colpo di grazia. In quel giorno — riferí poi la torinese Gazzetta del Popolo (16 luglio) — «si recavano in casa della Signora Di Lorenzo il Giudice del sestiere Vincenzo; il Vice console di Napoli ed il loro codazzo. Il giudice appena entrato disse per tutto saluto alla sconsolata compagna di Pisacane, che essendo morto Carlo Pisacane egli doveva mettere i suggelli alla sua roba nell'interesse dei suoi eredi: ed il vice console profittando dello sbalordimento, del dolore della Signora, si recò nella camera da letto, ne frugò ogni cosa, ne trasse delle lettere...

Ora la sfortunata compagna di Pisacane, ridotta ad uno oscuro salotto d'entrata, avendo tutte le altre camere suggellate, fu costretta a disertare da casa sua cercando un ricovero altrove...»363

Sequestrate tutte le carte del suo diletto Carlo (minute di scritti politici, lettere di Cattaneo e, cocente per lei, la «confessione» che ella gli aveva mandata a Lugano, nell'ottobre '50), portati via tutti i libri, cacciata essa stessa fuori di casa, priva del conforto degli amici migliori, senza risorse economiche, con la piccola Silvia malaticcia, e, in un ambiente così stretto e severo come il Piemonte d'allora, senza neanche la suprema fierezza di venir rispettata qual vedova di Pisacane, Enrichetta si trovò, indifesa, alla mercè della polizia e, peggio, della loquace stampa. Ne compiangeva più che ogni altro la durissima sorte (cui era essa stessa — per allora! — miracolosamente scampata) Rosetta, l'amica di Pilo, lamentando che sui giornali si fosse «scritta e pubblicata la loro storia amorosa; e anzi quella povera donna venisse anche disprezzata da molti, e chiamata donna venduta e di mondo».364 E nonostante tutto Enrichetta non poteva, non voleva, non sapeva credere a quel che era accaduto: si difendeva contro l'atroce dolore, respingendolo, negandolo. «La povera Enrichetta... ancora non crede tutto quel che le dicono. Come sarà terribile il giorno in cui se ne persuaderà», scriveva Mazzini ancora il 14 luglio. Ed essa stessa, il 13 d'agosto, a Rosolino Pilo, rivelandogli tutta la sua tragedia interiore: «Sono 48 giorni dacché il mio Carlo m'abbandonò, si dice ch'ei sia morto da 41 giorni, ed io nol posso ancora credere... Ho perduto l'uomo impareggiabile! Ed è molto crudele che la sua morte non ha giovato menomamente al nostro paese!... Ei non prevedeva; ma io sì, e glielo dissi l'ultimo giorno, ma il povero Carlo era afferrato, non poteva più ragionare... Saprete tutte le sevizie che mi sono state usate... Oh come era illuso il povero Carlo su tutto!... Le voci, che corrono qui ora, sono che Carlo vive; ma io nol credo... Alle volte mi balena il pensiero che forse ei voglia provarmi e vedere se era vera la sua convinzione che anche la sua morte mi avrebbe giovato...»

Tornata nella sua casa, questa divenne — col progressivo normalizzarsi della situazione genovese — luogo di riunione degli amici di Pisacane, e in genere dei mazziniani e dei fuorusciti napoletani. Enrichetta, nel perpetuo va e vieni degli amici, che in quelle stanze si recavano (notava la polizia) «come se vi fosse la tomba di Pisacane», riusciva a stordirsi se non a trovar distrazione. Ma non piacque la cosa alle autorità piemontesi; ed ecco lo sfratto da Genova! La poveretta vi si oppose fin che poté, accampando tutti i pretesti possibili, e principalmente la delicata salute di Silvia; ma dopo che nel gennaio '58, nel corso di una nuova perquisizione, le si rinvenne una lettera firmata Mazzini, il provvedimento non fu più revocabile.365 Nell'aprile '58 dové dunque trasferirsi a Torino, sempre sorvegliatissima:366 quanto più sola, nella capitale, e quanto più morto, ivi, e dimenticato dovea sembrarle il suo Carlo! La polizia attestava come essa vivesse ritiratissima, poco frequentata dagli emigrati, «anzi poco curata, e generalmente disprezzata pe' suoi antecedenti poco morali sebbene l'amica da lunghi anni di colui che viene portato alle stelle dai Mazziniani».

Non le concessero di ritornare a Genova che sulla fine del '58.367 «Pensa solo all'educazione della figlia, scriveva quell'Intendente, non vede che le famiglie Boldoni e Camozzi e qualche altro emigrato; non pensa alla politica, vive di aiuti che riceve dalla famiglia del marito e dei frutti di un suo capitaletto di 3000 lire».

Ma oltre alla missione di educar Silvia (che nel '60 Nicotera, liberato dalla galera, adottò come figlia ed ebbe poi sempre carissima, fin quando, ancor giovane, essa morí, nel 1890)368, altri due grandi scopi aveva allora la grama vita di Enrichetta: la pubblicazione dell'ultima opera di Pisacane, lasciata da lui mal compiuta e scorretta,369 e il soccorso materiale e morale ai superstiti di Sanza, invidianti, nei durissimi ergastoli, Pisacane caduto.370

Cavour, sinceramente indignato contro le delittuose iniziative di quell'«infame cospiratore, vero capo di assassini e demonio» che rispondeva al nome di Mazzini (tanto da augurarsi di vederlo un bel giorno «appiccato sulla piazza dell'Acquasola»), esprimeva al governo napoletano la sua solidarietà; e intanto anche la falange dei patrioti costituzionaleggianti e un'ampia frazione degli stessi repubblicani si levavano a rumore, scagliando furiose invettive contro il grande fuggiasco: fu un plebiscito d'odio che avrebbe sommerso per sempre, fuori di Mazzini, chiunque.371  Né solo le vecchie accuse d'incapacità e di codardia gli piovvero addosso: ché si giunse perfino a stampare aver egli saputo provveder con vantaggio a' suoi meschini privati interessi mentre il Cagliari navigava alla volta di Sapri!372 Mazzini, per fortuna di tutti, non esclusi coloro che più rumorosamente maledicevano a lui, teneva duro; amareggiato, deluso, ferito nell'anima, stringeva le mascelle e tirava innanzi; pareva non avvertisse neanche il coro delle imprecazioni! «Come potete ideare — scriveva a un'amica, in settembre —, ad ogni ritorno, ad ogni anno, s'aggrava più sempre su me quel tedio della vita che non ha nome ed al quale porrei in qualche modo una conclusione, se qualche affetto non mi confortasse a durare». Ma poi, stupenda ripresa: «Le cose d'Italia sono com'erano; i tentativi falliti sono conseguenza di casi che possono riprodursi, ma che non cangiano la natura delle condizioni generali. Si può fare. Vi sono elementi più che sufficienti. Una vittoria li porrebbe tutti in moto. Con questa convinzione, è dovere il tentare sempre; e se riesco a raccogliere mezzi sufficienti ritenterò». Cecità? O, come si volle da alcuni, insensibilità di fronte al disastro? Non gli pesava dunque il corpo straziato di Pisacane? Anzi lo risuscitava, l'amico perduto, facendo del suo nome un'idea, lui solo! Gli si gridava il crucifige, ed egli, (in ottobre) in una circolare del partito d'azione, osava scriver così: «Il sacrificio eroico d'uno dei migliori nostri, Carlo Pisacane, ha suscitato simpatie universali. A noi, fratelli suoi nell'Associazione, impone un nuovo dovere di costanza e di attività. Noi non siamo uomini se non ci adoperiamo a compirlo».373

Chi dava tanta prodigiosa forza a quell'uomo precocemente invecchiato, malato e incanutito? Morale eroica! A Rosolino Pilo — altra sua «vittima predestinata» — scriveva: il colpo è gravissimo, «ragione di più perché noi rimaniamo fermi sulla nostra via di predicazione e d'azione». La disfatta, le ingiurie lo trasumanano, moltiplicano all'infinito la sua attività, dànno un commosso fremito d'ali alla sua prosa. Processo di Genova? «Badate — fulmina i magistrati — che a giudici Italiani i quali nel 1858 pronunziassero: gl'Italiani che volevano morire o vincere con Pisacane per la libertà della Patria meritano il patibolo o la galera, né Dio né gli uomini perdoneranno». Sottoscrizione per far la dote a Silvia?374 Opera santa, Italiani, «ma ricordatevi, che se santo è l'aiuto agli orfani dei martiri del paese, più santo è l'impedire che martiri siano, e ricordatevi che, se mezzi maggiori concedevano a Pisacane l'inoltrarsi securo fin dove popolazioni numerosamente accentrate e meno ignoranti potevano secondarlo, fors'a quest'ora egli sollevava da Napoli tutte le popolazioni che s'agitano tormentate fra le Alpi e il Faro». E via e via, in un crescendo allucinante che ai contemporanei dové sembrare monomaniaco. C'è un momento nella vita delle nazioni schiave «nel quale ogni tentativo, fallito o no, giova visibilmente alla causa del popolo che combatte. L'Italia ha raggiunto questo periodo». Fino a quei commossi Ricordi su Pisacane, culminanti nella espressa certezza che se l'amico «avesse potuto, cadendo, mandarci un ultimo grido, questo grido ci avrebbe detto: rifate, tentate, tentate sempre fino al giorno in cui vincerete».

Perché Pisacane morto era per lui, ormai, quel che Jacopo Ruffini, i Bandiera, Tito Speri, morti, erano stati: una pausa di sbigottimento, di dubbio, di rimorso; poi un nuovo balzo in avanti, quasi disperato, più risoluto che mai. Era la grande sua idea che cacciava sempre più fonde le radici nel tessuto vivo della nazione italiana. Alla testa d'una colonna di martiri, egli, cui pur pareva che incombesse da un dí all'altro la fine, respinta solo da una volontà indomita, poteva ormai parlare parole solenni: non s'incarnavano in lui, con i diritti e le aspirazioni dei vivi, i diritti e le aspirazioni dei compagni caduti?

Quanti, nei necrologi stampati per Pisacane o in intimi sfoghi, avevano deprecato il suo vano sacrificio!375 Perfino Enrichetta: «è molto crudele che la sua morte non ha giovato menomamente al nostro paese». Mazzini solo misurava e capiva.

Il viandante ansioso di varcare il torrente getta pietre una sull'altra, nel profondo dell'acqua, poi posa sicuro il suo piede sulle ultime, che affiorano, perché sa che quelle scomparse nel gorgo sosterranno il suo peso.

Pisacane, anche lui, pareva sparito nel nulla. Ma sulla sua vita, sulla sua morte poteva posare, e posa, uno dei piloni granitici dell'edificio italiano.



Note

Non volendo ingombrare il volume con note non strettamente necessarie, ho eliminato le innumerevoli citazioni della più corrente bibliografia pisacaniana, limitandomi solo a riportar nelle note quei dati che, pur rivestendo una qualche importanza, non hanno potuto trovar luogo nel testo, e in generale le citazioni da fonti meno frequentemente usate; oltre che, s'intende, le notizie tratte da fonti fin qui inedite.

Le citazioni delle opere di Pisacane, quando non vi siano indicazioni in contrario, s'intendono sempre tratte dalla ed. originale dei Saggi e da quella MAINO della Guerra combattuta. Le citazioni di lettere di Mazzini dalla Edizione Nazionale dei suoi scritti (S.E.I.), ove l'Epistolario, è noto, si trova ordinato cronologicamente. Di quasi tutte le opere citate nelle note è data l'indicazione precisa nell'appendice bibliografica.

Capitolo I.

1 Lo stemma dei Pisacane (di Trani e di Napoli) viene così descritto dal MANNUCCI, Nobiliario e blasonario, fasc. XXII, 374: «D'azzurro alla sbarra d'oro accompagnata in capo da tre stelle di sei raggi dello stesso ordinate in banda, ed in punta da un cane d'argento con la testa rivoltata».

2 Strano ravvicinamento: due altri famosi «ribelli» del sec. XIX, Kropotkine e Bakunin, servirono in giovinezza quali paggi a Corte!

3 D'AYALA, Vite degli italiani, 329, racconta che anche più tardi, mentre si trovava a Napoli quale ufficiale, P. si era attrezzato in casa «una specie di ginnasio per le continue esercitazioni ginnastiche».

4 Nel Museo del Risorgimento di Genova trovasi uno stato nominativo dei pionieri addetti ai lavori di quella strada ferrata, datato settembre 1841 e recante la firma dell'Alfiere P. (Museo del Ris. di Genova. Catalogo, I, 364, n. 1194).

Di P. non ci resta che una sola fotografia, quella pubblicata in capo al presente volume. Fu stampata la prima volta, credo, nel volume postumo della WHITE MARIO, Birth of modern Italy, London, 1909, di contro alla p. 270. La stessa imagine, ridotta a mezzo busto, venne riprodotta nelle op. cit. di BILOTTI, CARPI ecc. ed è ancor oggi la più nota. Tre disegni assai fedeli, dei quali il I° dal vero, ci trasmettono altre imagini di P.: I) lo sfumino eseguito da LO RUSSO, pubblicato a fronte del vol. LVIII degli S.E.I. di Mazzini; II) il disegno del RIVA che è riprodotto nel II vol. dei Saggi (e poi nella ed. Sandron di Come ordinare la nazione armata, in DE LUCA, I liberatori ecc.); III) un altro disegno di LO RUSSO, eseguito dopo la morte di P., che si vede riprodotto in COMANDINI, L'Italia nei Cento anni
del sec. XIX, III, 719 (se ne parla nel vol. LVIII degli S.E.I. di Mazzini). Da questi 4 originali — ai quali si può forse aggiungere il ritratto di P., Capo di S. M. della repubblica romana, conservato nel Museo del Risorgimento di Milano, che io non ho veduto — son derivate tutte le riproduzioni o pseudoriproduzioni successive (cfr. ad esempio le cit. op. di VENOSTA e BESANA, l'Almanacco nazionale per il 1858 del MACCHI, la Vita di Mazzini della MARIO, ed. illustrata, il giornale La rivendicazione, Forlí, n. cit. ecc.).

5 Il passaporto utilizzato da P. per la sua fuga fu quello di un tal Francesco Guglielmi, cui P. avea promesso di assumere al suo servizio nell'occasione di un viaggio all'estero (ROMANO).

6 Sull'impressione destata a Napoli da questa «romanzesca fuga», v. MAZZIOTTI, La reazione borbonica, 114. Il carteggio scambiato fra i due amanti (che si scrivevano quasi sempre in francese) passò poi in eredità a Silvia, figlia loro, e venne ultimamente distrutto da una troppo pia sorella di Nicotera, in casa del quale, è noto, Silvia visse e morí (ROMANO).

7 Sullo strazio di Enrichetta, che non sapeva rinunziare né al suo Carlo né ai suoi figli (uno dei quali in tenerissima età), cfr. altri passi della lettera di addio di P., in ROMANO.

8 Sul vero movente dell'aggressione subíta da P. si veda il cit. Rapporto del Questore di Torino (pubblicato da LUZIO, Carlo Alberto e Mazzini); ma anche D'AYALA, 329, lascia intravedere la scottante realtà. La notizia della fuga dei due venne recata al disgraziato Lazzaro dal più intimo amico di P., Enrico Cosenz: il quale gli consegnò, la sera stessa dell'8 febbraio, due lettere di Enrichetta e Carlo. La lettera di Carlo fu giudicata dalla polizia napoletana documento di profonda immoralità.

9 Cfr. nei Saggi, III, 177, un passo ugualmente sdegnoso sul matrimonio di convenienza.
«Bella ed avvenente» fu descritta Enrichetta, dal Lazzari, nella sua denunzia alla polizia napoletana
(ROMANO).

Capitolo II.

10 Nel Record Office di Londra (H. O. 5 | 32; 3 | 43; 2 | 162) si conserva il certificato di sbarco a Folkestone, 4 marzo 1847, di Enrico Dumont e Signora, provenienti da Boulogne col vapore Queen Of The Belgians. Dumont è qualificato «gentleman», di nazionalità italiana, fornito di passaporto rilasciato da un governo italiano.

11 P. non recava con sé che poche economie; Enrichetta circa 2000 ducati, parte in contanti e parte in gioie. Non risulta che la famiglia, da principio almeno, aderisse al discreto invito contenuto nella lettera di addio di P.: «Accettiamo soccorsi, ma non ne domandiamo». 137

12 A. CONSIGLIO pubblica adesso (Italia letteraria, 26 giugno 1932) una lettera di P. a Giuseppe Ricciardi, da Parigi, 31 maggio 1847. Al R., che lo aveva scongiurato di lasciar ritornare la sua donna a Napoli, P. rispondeva presso a poco negli stessi termini usati nella lettera di addio ai familiari, aggiungendo per altro che Enrichetta sarebbe forse tornata ai suoi bambini solo nel caso, giudicato improbabile, che il Lazzari avesse consentito a una separazione legale.

Da questa lettera si apprende che il Lazzari era cugino di P.; e che tra le conoscenze parigine di P. è da annoverarsi l'esule bolognese F. Canuti.

13 Il biglietto di Rossetti a Pepe (datato 13 aprile 1847) in CARRANO, Vita di Pepe, 317-318. Rossetti, a dir vero, presentava Dumont, non P.; ma P. stesso dava più tardi la chiave dell'enigma in una lettera, sin qui inedita, al Cosenz, che in questo vol. si pubblica. Altra conoscenza quasi sicura di P. a Parigi: C. A. Vecchi, di poi serbatosi sempre suo amico, che era allora una delle personalità più cospicue dell'emigrazione italiana a Parigi.

14 VENOSTA, op. cit., 28, assicura che l'episodio Bandiera commosse profondamente P. Sembra inoltre probabile che, se non altro, P. nel 1845 si fosse interessato del VII Congresso degli Scienziati, tenutosi a Napoli, cui, in rappresentanza dell'esercito borbonico, aveva partecipato il suo amico e collega Mezzacapo (PESCI, 7). Ma non è forse significativo che, nelle denunzie e nei rapporti fioccati a carico di P., non si facesse mai il minimo cenno di lui come di un oppositore politico?

15 Anche tra gli emigrati italiani a Parigi molti inclinavano già a idee socialiste: valga per tutti il Vecchi, il quale collaborava alla Démocratie Pacifique del Considérant (VECCHI V. A., Al servizio del mare italiano, Torino, 1928). 16 Cattaneo, conscio della necessità per la gioventú militare italiana di impratichirsi sui campi di battaglia, deplorava nella sua Insurrezione, 133, che re Carlo Alberto, cedendo a «timori di polizia» si fosse rifiutato sempre di mandare in Algeria ufficiali del suo esercito. 17 Le notizie fantastiche sull'attività di P. in Algeria ne Il Diritto, Torino, 21 luglio 1857, ne L'Armonia, ivi, 17 luglio 1857 e nel cit. Rapporto del Questore di Torino. 18 L'altro compagno di viaggio di P. era il triestino Angelo Tedesco, che combatté poi tutta la guerra del '48 a fianco di P., suo pari grado.

Capitolo III.

19 P. era giunto a Milano indossando la sgargiante uniforme degli ufficiali della Legione straniera.

20 A proposito della sproporzione tra ufficiali e truppa, che si ebbe a deplorare in Lombardia nel '48 (come a Roma nel '49), v. Saggi, IV, 154. E, sulle cause, ivi, III, 130.

21 Sulla pretesa vanteria di P. «capitano nel Reggimento della morte» si veda, ad es., Cattaneo, nella pref. al Momentaneo ordinamento delle milizie lombarde di P. — Sulla organizzazione del Reggimento v. GHISI, Il tricolore italiano, Milano, 1931, 194.

22 Nel suo scritto sul Momentaneo ordinamento P. proponeva altresì un sistema atto a diminuire il fabbisogno di ufficiali, e reclamava l'unità di comando nelle milizie volontarie.

23 La dichiarazione di De Turris e compagni sui giornali milanesi del tempo.

24 Nel suo articolo La guerra italiana, pubblicato l'anno di poi, P., con sintomatico seppur forse involontario spostamento di date, attribuí alla metà di aprile del 1848 la presentazione di questo suo piano, e deplorò che i responsabili del governo lombardo non si fossero neanche degnati di esaminarlo.

Ricavo la notizia di questi eventuali ordini di ritirata, impartiti da Durando, dalla Gazzetta di Milano, 3 luglio 1848.

25 Sul vero motivo dell'invio di rinforzi a P. cfr. i giornali milanesi del tempo, cit.

26 L'esatta data del ferimento si ricava, oltreché dai giornali cit., da una lettera di P. al Durando, 2 febbraio 1849, pubbl. da FALCO. Nella lettera di P. al fratello Filippo, 24 settembre 1849, si legge invece la data erronea 27 giugno.

27 Sembra assolutamente fantastica l'informazione contenuta nel Rapporto del Questore di Torino, secondo la quale P. sarebbe stato «a Brescia nell'assedio dei Tedeschi e poté fuggire nascondendosi in una casa di paesani».

28 Nella già cit. lettera a Durando, P. ricorda la «lunga cura» cui dovette sottoporsi per risanare il braccio ferito.

29 Una vivace descrizione dell'ambiente luganese nel '48 si legge in CADOLINI, Memorie.

30 La lettera di Mazzini è diretta al Binda. Il 4 dicembre successivo Mazzini rincara la dose scrivendo al Lamberti. «... A me, caro L., la stupidità dei nostri italiani comincia a riescire incredibile. Hai veduto mai cumulo di circostanze così provvidenziali?... e noi duri, fermi a dire al mondo: siamo un popolo nato fatto pel basto».

31 La data del trasferimento di P. da Lugano a Torino, e di qui a Vercelli, è incerta; i più fra i biografi si limitano a dire che si recò in Piemonte quando ivi risorsero le speranze di guerra (dunque non prima del dicembre). NEGRI, 878, attribuisce invece il viaggio ai primi del '49. Ma si osservi che da tutte le fonti concordi resulta che P. raggiunse il 22° fanteria a Vercelli; orbene questo reggimento fu trasferito a Novi, da Vercelli, sui primissimi di gennaio. Siccome P. fu, prima che a Vercelli, a Torino, la sua partenza da Lugano non poté certo aver luogo dopo il dicembre.

32 Un giudizio severo di P. sullo Czarnowski si legge nella Guerra combattuta, 201 33 Proprio negli stessi giorni nei quali P. «sterzava», e precisamente il 24 febbraio, anche C. A. Vecchi, capitano nel 23° di linea (Div. lombarda) chiedeva da Roma al Ministero piemontese la sua dimissione, confessando a suo 138 padre: «Mi vergogno... di appartenere ai quadri di una armata diretta dall'abataccio Gioberti». È vero che il V. era cittadino degli Stati romani. In un Rapporto al Ministro dell'Interno, in Torino, datato il 29 aprile 1853, sul conto del V. si leggeva che «Improvvisamente comparve capitano nel 23° reggimento di fanteria, ove poco tempo dopo, con un suo compagno (P. forse?), dimandava, ed otteneva la sua dimissione, esprimendo l'avversione sua a servire i Re, ed esternando massime ultra Repubblicane». (Archivio di Stato, Torino. Emigrati, al nome Vecchi).

34 Per questo piano di P. si veda la Guerra combattuta, 189 sg.

Capitolo IV

35 La data di arrivo di P. a Roma si ricava dal Mon. Romano, 12 marzo 1849, nella rubrica Arrivi: «P. Carlo, napoletano, capitano, da Livorno».

36 Sulla nomina dei membri della Commissione di guerra v. VECCHI C. A., lettera al padre 17 marzo 1849. V. dice P. «amico mio e del Mazzini, nostro da più anni». Nella votazione che seguí all'Assemblea, sui nomi dei Commissari proposti, P. ottenne, numericamente, il secondo posto, con 113 suffragi su 125 votanti. Primo riuscí il Giusti (Mon. Romano, 18 marzo 1849).

37 Nei Saggi, I, 100, P. illustra l'audace piano.

38 Il nome di Mezzacapo quale condottiero dell'esercito romano sul Po venne per altro suggerito, a quanto pare, da P. Stesso (MAZZINI, Ricordi su P.).

39 Tra le forze che affluiscono a Roma in aprile si nota una compagnia di quel 22° fanteria, Divisione Lombarda, cui P. ha appartenuto.

40 Di P. membro della Commissione di guerra scriveva Mazzini nei Ricordi: «Se le di lui cure attive non avessero apprestato materiali alla difesa, i generosi propositi di Roma sarebbero forse stati strozzati in sul nascere». E in un altro punto: «L'unità dell'esercito, l'abolizione in esso di ogni privilegio e disuguaglianza, il miglioramento degli elementi direttivi, il concentramento... furono opera in gran parte di P.».

Critiche acerbe alla Comm. di guerra sollevò Garibaldi, e dietro a lui i suoi biografi e apologisti. S'intende che Garibaldi fremesse di dover sottostare agli ordini di una Commissione; ma un esame rigoroso dell'attività svolta e delle direttive emanate dalla Comm. medesima non sembra giustificare tali critiche. Il più grave appunto mosso da G. alla Comm. fu quello di non avergli permesso di eseguire, sui primi di aprile, una puntata offensiva in Abruzzo; ma, considerate le poche forze che erano allora a disposizione di G., pare a me che la Comm. agisse in quell'incontro assai saviamente!

— Altre critiche alla Comm. di guerra sollevò tra gli altri il GABUSSI, 190.

41 La prima sezione dello Stato Maggiore era la più importante, in quanto incaricata della «riconcentrazione di tutti i rapporti delle diverse sezioni ed emanazione degli ordini» (Mon. rom., 27 aprile 1849). Nella sua nuova qualità, P. aveva tra gli altri, alle sue dipendenze, Mameli, Bixio e Vecchi.

42 Il merito di P. nel successo del 30 di aprile vien sottolineato dagli anonimi autori del Cenno premesso ai postumi Saggi di P.; e si sa che sotto il velo dell'anonimo si nascondevano nomi di militari esperti e informatissimi come Cosenz, Carrano e Mezzacapo.

43 Il Comitato di Signore iniziò la sua attività il 26 di aprile indirizzando un Manifesto alle donne romane, che recava tra le altre la firma di «Marietta Pisacane Al Corso rimpetto al palazzo Chigi n. 192» (Mon. Rom., 27 aprile 1849).

44 Dò qui per disteso la Relazione di Enrichetta, considerando che di lei non altro scritto ci resta, all'infuori di poche lettere, una delle quali non eccessivamente lusinghiera per lei. «Se lode meritaronsi i prodi che a fianco del primo Reggimento di Fanteria di Linea, loro vita esposero nella memorabile giornata dei 30 Aprile contro lo sleale straniero, non minore devesi a quei Cittadini di quest'alma Città che tanto cooperarono col loro zelo e colle loro premure per il sollievo de' propri fratelli combattenti: e valgano fra i molti fatti questi di cui fu spettatrice l'ambulanza del primo Reggimento suddetto. Erano già i prodi militi attaccati in più punti, fra i quali a Porta S. Pancrazio, ove vivo il fuoco si faceva sentire nelle ore più calde del giorno. Molti e molti trasteverini si presentarono alla retroguardia ed agli avamposti, dimostrando il più vivo desiderio di dividere i pericoli con noi, ed esternando un marcato dolore che non vi fossero più armi da poter loro distribuire onde, inermi quali erano, si posero fra le nostre file per essere pronti a trasportare quei prodi che rimanevano morti o feriti sul campo dell'onore. Accorgendosi poi che momentaneamente mancava alla truppa vino per dissetarsi, ne prevennero il bisogno coll'apprestare istantaneamente vino e pane; cosa che alleviò moltissimo i nostri defaticati soldati, che ne esprimono la più viva gratitudine. Le donne incoraggiavano i fratelli e i mariti ad essere pronti a prestarsi per noi; ed esse stesse gareggiavano con loro per coadiuvarci in qualche cosa. L'ambulanza suddetta trovavasi allo scoperto sulla Piazza delle Fornaci in prossimità della porta anzidetta, quando venivano portati varj feriti, ed il tempo sembrava minacciare pioggia. Una tale situazione commosse le donne del vicino Conservatorio Pio, che spontanee apersero il loro parlatorio ed andito, con tre o quattro ambienti forniti di letti e materassi e di ogni occorribile; ed avresti detto che il tutto fosse stato preparato da lungo tempo tanta ne fu la sollecitudine nel far ritrovare tutto ciò che abbisognava. Quivi non pochi feriti vennero con ogni comodità curati, e quelle donne divisero l'assistenza coi curanti, dimostrando in ogni atto quanto caritatevole e sensibile fosse il cuore di quella comunità. Lode adeguata e lode eterna ai valorosi figli del Gianicolo: lode a quelle donne cristiane che sentono il primo de' doveri del Divin Maestro, la carità cioè ed il soccorso a chi soffre. Serva tutto ciò di sprone a qualcuno, se ancora fosse restío alla già incoata salute della Eterna Città». 139

45 Delle cure da Enrichetta prestate in Roma al ferito Teodoro Pateras tenne memoria essa stessa nell'Album del Pateras, due anni appresso. (FALCO).

46 L'ufficiosa Relazione della campagna militare nello Stato romano fatta dal Corpo napoletano l'anno 1849, stesa dal D'AMBROSIO (Napoli, 1851) riduce a dir vero le forze napoletane a poco più di 8000 uomini.

47 Sull'attività di P. quale presidente del Consiglio di guerra si v. il Mon. Rom., dal 5 al 22 maggio 1849. Il Cons. di guerra durante questo periodo pronunciò, tra le altre, due condanne a morte, che il Triunvirato poi si affrettò a commutare. Il 22 maggio P. e gli altri membri del Consiglio vennero sostituiti perché «assenti e presso il corpo di operazione».

Su P. presidente della Commissione per le requisizioni v. ancora il Mon. Rom., 7 maggio 1849. P. vi pubblicava un suo ordine del giorno del 6 maggio, che così esordiva: «Infiniti ed inconcepibili abusi e bassezze, commessi da taluni nelle requisizioni degli oggetti pel servizio della Repubblica, ci obbligano a provvedere energicamente per scoprire il triste che vestito di arbitraria missione, che dovrebb'essere santa come il suo scopo, approfitta della urgente bisogna di questi solenni momenti per adempire a delle particolari mire di cupidigia, e manomettere, così rendendo grave e dannoso il savio provvedimento del vigilante, dell'operoso, del giusto». Gravi pene eran comminate a questi prevaricatori.

48 Sui rapporti fra P. e Roselli da un verso, Mazzini dall'altro, scriverà P. nell'articolo del 1853 su La Voce della libertà: «Non mi diressi mai al generale Rosselli, ma sempre al triumviro Mazzini, e perché questi mostrava accettare con piacere le mie idee, e perché allora sentiva per esso sincera ed affettuosa amicizia, e perché il triumvirato suppliva in parte, con la sua autorità, al difetto di disciplina dell'esercito». Il Trusiani, rispondendo a questo articolo, insinuò che P. lo avesse scritto unicamente per soddisfare alla sua smoderata ambizione; della quale gli pareva prova lampante l'asserzione di alcuni amici suoi «che quando furon promossi generali i colonnelli Mezzacapo, Haugh e Milbitz, il P. cessò di colpo dall'andare al quartiere generale, a rischio s'incagliassero gli affari, e mandò al generale supremo un foglio di rinunzia alla carica di capo di Stato Maggiore». Superfluo aggiungere come tale asserzione, che neanche il Roselli, interpellato, si sentí di confermare, resulti pienamente infondata.

49 Intorno ai motivi della ritirata napoletana, ragionevolmente osservava P. al fratello, il 18 settembre, che se i borbonici si eran ritirati per volontà loro, ciò «è credibile, ma ti assicuro che è un genere affatto nuovo di tattica che forse sarà tutto vostro... Si cambia politica col nemico a fronte? Eravate venuti per attaccarci nello Stato, perché ritirarvi al nostro avvicinarsi?»

50 Sull'azione personale svolta da P. sotto Velletri v. la sua lettera 18 sett. 1849, cit., al fratello.

51 È di Mazzini l'osservazione che la mossa di Garibaldi impedí l'esecuzione della contromarcia su Cisterna. Ma si osservi che Garibaldi agí la mattina del 19, quando il grosso delle forze romane non si trovava davvero in procinto di iniziare la marcia. Ci assicura inoltre il D'AMBROSIO, che il comando napoletano aveva previsto il movimento romano ed era pronto a contrastarlo energicamente.

52 Scrive ancora lo Hofstetter che i componenti lo Stato Maggiore romano «suggerivano o sconsigliavano, senza precedenti accordi tra loro, secondo che l'aura del momento veniva in ciascuno d'essi soffiando» (90). All'Hofstetter e al suo libro dedicò P. poche sdegnose parole nel suo articolo su La Voce della libertà. H. «non fu che un partigiano, e come tale scrisse; ed i libri scritti con ispirito di partito non si confutano»; onestamente aggiungeva però che «quel libro può essere utile a qualche cosa, a porgere qualche dettaglio del servizio del fronte attaccato, sceverandolo sempre da ciò che riguarda personalmente l'autore».

53 TORRE, II, 129, accentua le responsabilità di P. riguardo al cattivo funzionamento dei servizi.

54 Sui rapporti fra P. e Garibaldi durante la repubblica romana; V. LOEVINSON, passim. Significativa fra tutte la lettera di P. a Garibaldi, probabilmente del 9 aprile (ivi, III, 212-213): «La sua soverchia suscettibilità — cominciava P. — Le ha fatto credere un'offesa quello che la Commissione di guerra ha esposto»; e concludeva: «Sono troppo noti i suoi sentimenti patriottici. Ella è troppo apprezzata dal governo della repubblica per dubitare dell'interesse che si attacca alla sua persona ed al suo corpo. Le raccomandazioni per la disciplina sono conseguenza del desiderio che si ha di rendere (il corpo) di partigiani amato in ogni paese, giacché su tale corpo da Lei capitanato è fondata la parte principale del piano di difesa». Sulla sua esperienza di Capo di S. M. scriverà più tardi P.: «In Roma mi trovai ad un posto contrario al mio carattere, alle mie naturali inclinazioni; ho abborrito sempre le cancellerie; avrei le mille volte preferito il comando di un battaglione. Subii la mia posizione, e mi tenni strettamente fra i limiti delle mie attribuzioni; fui quale doveva essere, con espressione oltremontana, l'homme du général en chef. Amatore di disciplina, l'osservai per primo. Nei dettagli del servizio emetteva, come era mio dovere, la mia opinione, poi mi uniformava alla parte di esecutore d'ordini» (artic. su La Voce della libertà).

55 La carica della cavalleria borbonica contro l'avanguardia romana era stata così impetuosa che lo stesso Garibaldi, è noto, corse serio pericolo della vita. Nella lettera al fratello, 18 sett. 1849, P. contesta che Garibaldi, sul cui valore di generale egli pure non si fa grandi illusioni, sia mai stato fugato dal corpo napoletano. 140

56 Sulla carriera di Filippo Pisacane, cfr. BUTTÀ, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta, II, 113 e DORIA, Un re in esilio, Bari, 1930, 6, 74. Filippo partecipò alla campagna del '60 e seguí poi re Francesco a Roma, ottenendone nel '61 un sussidio; più tardi, sempre in Roma, lo si trova citato quale padrino in un duello tra ufficiali.

57 Che non fosse troppo opportuna, dal punto di vista del rendimento effettivo, la tattica garibaldina dei frequenti piccoli scontri durante l'assedio, riconosce lo stesso Vecchi, pur fedelissimo del generale (La Italia, 463). Gabussi reca particolari intorno all'urto fra P. e Garibaldi verificatesi in occasione della progettata azione del 10 di giugno (437).

Il 27 di giugno il Mon. Rom. stampa una breve relazione sui fatti del 26 e 27 a firma di P. Lo stesso giorno P. venne incaricato di sostituire Manara, indisposto, quale Capo di S. M. di Garibaldi. Ciò resulta da lettera in pari data di Mazzini a Manara appunto. E poiché Mazzini raccomandava: «Spero del resto che voi e P. v'intenderete benissimo. P. è giovine di core e di mente; ed ama il paese innanzi tutto. Siete dunque fatti l'uno per l'altro», Manara gli rispondeva: «Ho parlato con P.; siamo perfettamente d'accordo. Animati ambedue dal medesimo spirito, è impossibile che tra noi possano essere false gelosie. Statene certo».

58 La squisita cortesia formale conservata da parte francese e romana nei rapporti ufficiali, pur nei giorni più accaniti di lotta, suona quasi ridicola. Il 1° giugno Oudinot, si è detto, comunica il differimento dello «attacco della piazza sino a lunedí mattina per lo meno». Il 13 giugno i triumviri chiudono una loro comunicazione a Oudinot con «l'assicurazione della nostra distinta considerazione». Rosselli da parte sua abbonda ancora di più: «Non sono che i bravi quelli che sono degni di stare a petto de' soldati francesi... Vi desidero salute e auguro fratellanza...», scrive al suo avversario quel giorno stesso!

59 Della detenzione di P. non si seppe mai la causa vera, scrivono gli autori del Cenno premesso all'ed. originale dei Saggi, che pure erano intimi di P. Nell'articolo su La Voce della libertà P. afferma che, entrati i francesi a Roma, giuocoforza gli fu rassegnarsi «all'umiliante condizione di ragionare col nemico; più di una volta fui obbligato di portarmi al suo quartier generale, e ne trassi poche simpatie. Sciolto l'esercito, rientrato nella vita privata, venni arrestato e condotto in Castel S. Angelo».

60 Il biglietto di Mazzini (a Emilia Hawkes, 10 luglio 1849) così si esprimeva: «P. è un amico, uno dei nostri. È stato capo di S. M. nel nostro esercito romano, e si è comportato coraggiosamente e patriotticamente. A me piace moltissimo, e sono certo piacerà a voi. Volete presentarlo a tutta la vostra famiglia, e a tutti gli amici che possono riuscirgli utili? Egli deve naturalmente cercarsi un'occupazione, ed è degno di trovarla sia come ingegnere, sia altrimenti. So che questo è assai difficile; vale tuttavia la pena di tentarlo».

Capitolo V

61 Soltanto a Ginevra — scriveva la torinese Concordia, 24 agosto 1849 — trovansi «circa la metà dei deputati dell'Assemblea romana e del governo repubblicano di Roma».

62 Sull'amicizia tra Varè e P., v. Varè a Dall'Ongaro, 6 nov. 1850, in DE GUBERNATIS, op. cit., 294. Ma poi Varè e P. si guastarono, sembra, in seguito a dissensi politici: quelli stessi che travagliavano allora l'intero movimento repubblicano. «Chi sa se questo libro ci unirà di nuovo?» chiedeva P. a Dall'Ongaro, accennando al V. appunto, il 4 giugno 1851, nella imminenza della pubblicazione della sua Guerra combattuta. Anche Varè s'interessava di problemi sociali, seppure da un punto di vista assai diverso da quello di P. In un articolo stampato sulla mazziniana Italia del Popolo (dic. 1849), egli si compiaceva del fatto che in Italia la questione sociale si presentasse assai meno urgente e assillante che altrove, e ne additava la causa nel dispotismo, livellatore delle classi, e nella scarsa sproporzione fra le fortune individuali.

63 Del soggiorno ginevrino di P. parla Quadrio in una lettera a Dall'Ongaro, pubbl. da DE GUBERNATIS (284), con la data evidentemente erronea 10 febbraio 1849: essa non può essere invece che dell'agosto di quell'anno. E da Ginevra fu senza dubbio scritta la lettera 18 sett. 1849 di P. al fratello, che il Negri ha pubblicato con la data fantastica di Genova. Anche Mazzini scriveva allo Stansfeld il 20 agosto 1849, da Ginevra, per pregarlo di procurargli certa lettera di credito «su Ginevra all'ordine di P. che è qui».

64 Come si sa, l'Archivio triennale era integrato dalla importante collezione Documenti della guerra santa d'Italia.

65 Nei Saggi (III, 39) P. chiarisce che «il popolo non trascorre mai alla violenza perché animato da un concetto, ma perché stimolato dai dolori». — Della guerra insurrezionale in Italia, dei suoi metodi, delle sue finalità, del suo ordinamento si occupavano in quegli anni, oltre P., molti scrittori. Cfr. fra gli altri GENTILINI, Guida alla guerra d'insurrezione. Capolago, 1848; LA MASA, Della guerra insurrezionale in Italia, Torino, 1856; le opere di G. PEPE ecc.

66 Anche Maurizio Quadrio, ad esempio, credeva che a Napoli, oltre che, s'intende, in Francia, fosse «il nodo della rivoluzione europea» (a Grillenzoni, 28 aprile 185o: In Epistolario di M. Q., II, 19).

67 Al Fabrizi scriveva Mazzini il 24 settembre 1849: «Vedo in questo momento la tua lettera a P... Convengo in teoria quanto al Sud; ma diffido della possibilità; bisogna nondimeno occuparsene».

68 Il passo di Montanelli si legge nelle sue Memorie sull'Italia, I, XI. 69 Intorno alla polemica Pisacane-Mieroslawski v. R. VILLARI, Cospirazione e rivolta, 113. 141

70 Lasciando Montallegro, P. vi depositò un suo baule del quale più tardi ebbe ad occuparsi Mazzini (S.E.I., XLIV, 221).

71 Una prova della giusta considerazione nella quale era allora tenuto P. quale uomo di guerra si trova nell'Almanacco di Giano 1849-1850, stampato in Isvizzera nel 1850, il quale accenna (199) a lui e a pochi altri come allo «stato maggiore» del «futuro esercito insurrezionale italiano».

72 Sui dissensi interni che travagliavano il movimento repubblicano, cfr. MONTI, Un dramma fra gli esuli, Milano, 1921, 117 sg.; MAZZINI, S.E.I., XLIV, XLV, passim (Mazzini contro Ferrari; Ricciardi, Cattaneo, Cernuschi contro Mazzini, ecc.). Dall'Ongaro tentava invano di far da paciere (SAFFI, Cenni biografici e storici a proemio del vol. IX degli Scritti di Mazzini ed. Daelli, XXVI-XXVII), a ciò incoraggiato da Tomaseo (DE GUBERNATIS, 183) e da Gustavo Modena (Politica e arte, 56). Ricciardi, che viveva in Francia, definiva i mazziniani «miserabile setta, fecciume e vergogna d'Italia» (a Dall'Ongaro, 16 febbraio '51; in DE GUBERNATIS, 297). Sulle diatribe fra gli emigrati repubblicani in Francia, v. IACINI, Un conservatore rurale della nuova Italia, I, 36.

73 I quattro ultimi articoli pubblicati da P. ne l'Italia del Popolo furono, nell'ordine, Qualche osservazione sulla relazione scritta dal generale Bava della campagna di Lombardia nel 1848; Poche parole sulla campagna di Bade del 1849; La neutralità della Svizzera; Pensieri sugli eserciti permanenti. Le idee espresse nel 1° articolo vennero poi travasate da P. nella sua Guerra combattuta e perciò non se ne tien parola (per quanto l'articolo venisse giudicato di tale importanza, che Mazzini lo volle ristampare in un volumetto a parte, a forte tiratura, quale appendice del suo scritto sulla Guerra regia in Lombardia; Mazzini a Fabrizi, 29 marzo 1850). Il 2°, in sé poco importante, richiamava l'attenzione per la sua conclusione: avere cioè il partito delle autonomie nazionali, ovunque in Europa, nel biennio, dato prova di spiccata incapacità militare; la gioventú italiana, dunque, si addestrasse senza posa alle armi, in vista dell'inevitabile ripresa avvenire. Nel 3° articolo è interessante la critica all'impegno di neutralità perpetua assunto dalla Svizzera, assurdo finché in Europa continua a prevalere il nemico d'ogni democrazia, l'assolutismo monarchico. Oh, «se nella guerra del 1848 in Lombardia la Svizzera con tutte le sue forze fosse intervenuta, ora l'Italia sarebbe una e forte, l'Austria distrutta, e la Francia non sarebbe caduta sì basso». Del 4° articolo è fatto cenno nel testo. L'Italia del Popolo sospese le pubblicazioni nella primavera 1850; le riprese poi nel novembre, ma per cessarle definitivamente nel febbraio seguente. Già il 27 novembre 1849 Mazzini scriveva alla Hawkes, a Londra: «Suppongo che abbiate veduto P.: ditegli che lo ringrazio per la sua lettera». Altri accenni al soggiorno di P. a Londra si trovano nell'Epistolario di Mazzini, 26 dic. 1849, 24 gennaio, 20 febbraio, 12 aprile 1850. Ricerche compiute nel Record Office di Londra condurrebbero in verità a anticipare la data del viaggio di P. Secondo i documenti ivi conservati, resulterebbe infatti che il 14 novembre 1849 sbarcava a Londra, da Boulogne, un signore napoletano, di 32 anni (P. era appunto nel suo 32° anno di età), il cui nome, assai malamente trascritto dal commissario di bordo, potrebbe anche leggersi Pisacane. Per strana combinazione non esiste, fra i certificati di sbarco raccolti nel Rec. Off., quello riguardante il predetto signore, sì che non è possibile controllare la incerta lettura del nome. Da osservarsi però che in tutto il mese di novembre non sbarcò in nessun porto d'Inghilterra alcun altro napoletano. È probabile dunque si trattasse proprio di P., il quale, in tal caso, sarebbe partito dalla Svizzera sui primissimi del mese. La lettera di Dall'Ongaro a Tomaseo, cit., recherebbe dunque una data errata. — Quanto a Medici, risulta dai documenti del Rec. Off. ch'egli sbarcò a Dover il 23 novembre 1849 (H. O., 2, 1849).

74 In pro degli esuli e per batter cassa per quel Comitato aveva scritto un bellissimo, commovente indirizzo lo stesso Dickens, nell'agosto 1849 (Italia del Popolo, sett. 1849). 75 Fu Enrichetta a Londra? Non si può affermarlo con sicurezza; per quanto due accenni contenuti in una lettera di lei a Carlo dell'ottobre '50 e un biglietto di Mazzini alla Hawkes, 14 aprile 1850, rendan l'affermativa piuttosto probabile. Che la partenza di P. da Londra fosse già avvenuta nel giugno si rileva da una lettera di Mazzini a Saffi, da Londra appunto, giugno 1850.

76 Blanc, Ledru-Rollin, Leroux eran, si sa, amicissimi di Mazzini; fu verosimilmente pel tramite di lui che P. poté avvicinarli.

77 Sul passaporto di P. v. lettera di Mazzini alla Biggs, agosto 1850. A una missione affidata da Mazzini a P. non credo. Scriveva infatti Mazzini al Grillenzoni (il quale abitava, si sa, a Lugano) il 7 ottobre '50: «Pel lavoro politico di dettaglio... ci vogliono giovani o uomini invecchiati in siffatte pratiche. Tu, Clerici, Dall'Ongaro, Pisacane, del quale nessuno mi parla e ch'è buonissimo, etc., siete quei che dovreste riunirvi, intendervi, operare concordi, formare insomma un Comitato d'azione». Il 14 dello stesso mese lamentava ancora che nessuno gli facesse «cenno di P.».

78 La cronologia di questi spostamenti di P. da Ginevra a Losanna, a Lugano, a Londra, e poi nuovamente a Lugano, e finalmente a Genova, è stata assai imbrogliata dai biografi. Mi sembra di averla ristabilita ormai con sufficiente esattezza, basandomi, oltre che sulle lettere di Mazzini, sullo scritto, cit., del MACCHI e sui doc. del Record Office.

79 Si legga, nei Pensieri sugli eserciti permanenti, l'invito rivolto da P. ai soldati piemontesi e napoletani perché, incrociando le braccia, mettano una buona volta alla prova la supposta popolarità goduta dai loro sovrani. 142

80 Asserendo di avere allora passato «molti mesi» con P., il Macchi cade in una leggera inesattezza. Ché il M. non giunse in Isvizzera (da Genova, donde era stato espulso) se non verso la metà di settembre (MAZZINI, S.E.I., XLIV, 53).

81 Mazzini, intimo di P., non avrebbe certo potuto scrivere (nei cit. Ricordi) che l'amore di P. per Enrichetta era stato «ricambiato apertamente e con rara fedeltà... sino agli ultimi giorni» se a Enrichetta si fosse potuto imputare un fallo, sia pur passeggero.

82 «Pisacane è a Genova», attesta ancora Mazzini (a Saffi) il 12 novembre 1850. Capitolo VI

83 Il numero degli emigrati stabiliti a Genova e provincia è precisato in una comunicazione dell'Intendente di Genova al Ministro dell'Interno, 14 dic. 1857 (Archivio di Stato, Torino, Materie politiche interne in genere, mazzo 18). Oltre a questi 1500 politici, ve n'eran circa 250 che avevan lasciato il loro paese d'origine per reati comuni. Sulla emigrazione politica a Genova v., oltre i voll. cit. in append., RIDELLA, C. Cabella, Genova, 1923, 249 sg.

84 850 eran gli emigrati napoletani e siciliani stabiliti in Piemonte, dei quali circa 300 nella sola Genova (D'AYALA, Memorie, 231).

85 Gran parte del merito della politica liberale seguita dal Piemonte nei confronti degli emigrati risale certo al Cavour (si veda a conferma TORELLI, Ricordi politici, 245 sg.). Di Dabormida, Ministro degli Esteri nel '53, si ricorda questa bella risposta data al Ministro sardo a Firenze, che si era fatto eco delle lagnanze toscane per l'ospitalità concessa a fuorusciti toscani (26 ott. 1853): Se «il Governo del Re... richiede dagli esuli, ai quali... concede l'ospitalità, che non trascendano ad atti di natura a turbare la interna tranquillità del Regno, né quella degli Stati vicini, esso non può penetrare nelle loro coscienze e chiamare loro conto dei loro sentimenti: e gli è impossibile soffocare negli animi degli emigrati il desiderio della patria e quindi le aspirazioni verso mutamenti che loro ne aprano le porte» (ROSI, Il Risorgimento italiano e l'azione di un patriota, Torino, 1906, 125).

86 L'atto di costituzione dell'Associazione nazionale era stato firmato anche da P. (Mazzini alla Hawkes, 12 aprile 1850).

87 Il Medici era allora, si sa, tra i più devoti amici di Mazzini; poi le cose mutarono alquanto. Alle relazioni con elementi militari della guarnigione di Genova Mazzini teneva moltissimo. Si vedan sue lettere ad Accini, 12 e 15 aprile 1850, a Remorino, 23 aprile 1850.

88 Sulla maturità rivoluzionaria della Sicilia in questo periodo, o piuttosto sull'inguaribile disgusto dei Siciliani pel giogo napoletano, che avrebbero scosso in cambio di qualunque altra dominazione, cfr. il carteggio di Mazzini e Crispi, dicembre 1850, in S.E.I., XLV, 100. Per le offerte di Mazzini a Garibaldi perché capitanasse un moto in Sicilia, ivi, XLVII, 88 (ott. 1851).

89 La grande maggioranza dei giornali liberali piemontesi parlarono favorevolmente del prestito mazziniano. L'effetto morale raggiunto dal successo del prestito fu immenso, anche fuori d'Italia. In un rapporto di polizia diretto allo Home Office, Londra, 14 agosto 1852, trovo precisato che ad esso sarebbero state sottoscritte oltre 20.000 lire sterline! (Rec. Office, H. O., O. S., 4302).

90 Gli emigrati si riunivano allora preferibilmente in associazioni regionali. Contro di esse tuonava Mazzini (a Remorino, 2 nov. 1850), parendogli che esse offendessero il principio dell'unità italiana che bisognava «cominciare a preparare in ogni luogo». Tutti questi amici di P. s'ingegnavano, per campare la vita, nei modi più svariati. Boldoni dava lezioni di matematica, Cenni faceva il legatore di libri, Sacchi l'assistente ai lavori, Gorini stava a bottega (CADOLINI). A Genova si stabilí più tardi anche il Guerrazzi; ma tra lui e P. non corsero evidentemente cordiali rapporti. Il G. bollò di debolezza P. nel suo Assedio di Roma (920-21, 1029, 1032); P. definí il G. (nella sua Guerra comb., 169) «uomo dubbio ed ambizioso». Passò a Genova parecchio tempo anche il Cironi, che senza dubbio fu in rapporti diretti con P.; e forse se ne trova notizia nel Diario ms. che il Cironi tenne in questi anni e che a me non è stato possibile di consultare (il Diario, depositato nella Nazionale di Firenze, è da più anni infatti a disposizione della Commissione Editrice degli Scritti di Mazzini, in Roma). — Quanto al Bertani, P. lo aveva molto probabilmente conosciuto a Roma, durante l'assedio; e lo aveva riveduto in Isvizzera, ché il B. era intimo di Cattaneo. — Macchi, che era stato espulso una prima volta dal Piemonte, tornò a Genova nel giugno 1851.

91 A una prima visita di P. a lei allude probabilmente la madre di Mazzini in un biglietto a Macchi, 27 nov. 1850. Scriveva Mazzini alla Hawkes il 21 dic. '50: «La Signora P.(isacane) sta spesso con loro (le figlie di Matilde)? ed egli (P.) è ancora costí? ricordatemi ad ambedue». Abbastanza enigmatico l'accenno di Mazzini in altra sua alla H., 4 febbr. '51: «Idealizzare è la missione dell'arte; ma se v'è riuscito di idealizzare la Signora Pis(acane), avete raggiunto l'acme». La Hawkes, com'è noto, era una valente pittrice; ritengo perciò che l'uscita di Mazzini possa riferirsi a un ritratto di Enrichetta da lei tentato. Enrichetta era dunque così poco attraente? — Altro accenno di Mazzini a P. si trova in una terza sua lettera alla H., 8 febbr. 1851, e in una lettera alla madre, 25 aprile 1851. Nel febbr. di quell'anno Mazzini, scrivendo a Remorino, gli suggeriva di ricorrere a P. per collaborazione militare sull'organo repubblicano. I suoi articoli — gli diceva — «saranno sempre buonissimi; ma solamente hanno bisogno d'un po' d'esame in fatto di stile...» — Si noti che P. non figura tra i pochi intimi che si recano in casa Mazzini durante l'agonia della madre, nell'agosto '52. 143

92 La Maga, che successe alla Strega, iniziò le pubblicazioni il 1° luglio 1851; La Libertà e Associazione nel maggio '52; Il Lavoro nell'agosto; L'Italia Libera successe all'Italia, che avea diretto il Macchi, il 1° maggio '50, e durò fino al 21 maggio '51. L'Amico del Povero si stampò nel '51, poi continuato, ma per poco, dalla Associazione (che s'iniziò nell'ottobre '51). Questi giornali di estrema sinistra eran sottoposti a continui processi per reati di stampa. Li difese più volte, e quasi sempre con successo, il Cabella (RIDELLA, 230).

93 La lettera di P. a Cattaneo (una delle sue più significative) continuava, rispondendo alle osservazioni di C.: ... «Riguardo poi alla cosa, che non eravi opinione Repubblicana, io credo di averlo detto nel mio manoscritto; essendo mia intima convinzione; anzi credo anche di averlo scritto, che la Repubblica in Venezia non fu proclamata per un'opinione dell'epoca, ma per una tradizione... Non solamente io credo che non siavi partito Repubblicano nel vero senso, ma anche l'opinione è formata in pochissimi. Intanto, dalle notizie che si hanno da per tutto, pare che le masse siano pronte, anzi impazienti di operare, ma senza concetto. La sola differenza fra un movimento di oggi, con quello del '48 sarebbe che la fiducia nei Principi è spenta; e la parola Repubblica è diventata popolare; ma se il Piemonte ha il tempo di uscire in campo, temo che la libertà d'Italia sarà sepolta. Vi sono qui vari entusiasti per Mazzini, ma sono entusiasti della libertà né sapendo come manifestare questa loro opinione, tengono il suo nome quasi come simbolo dei loro desideri. Fra gli uomini pensanti Mazzini è caduto affatto, e particolarmente quando si legge qualche lunga declamazione, ove egli parla da ispirato o da profeta».

94 Su la Guerra comb., invocando un editore, così scriveva P. a Cattaneo: «attesa la mia posizione finanziaria, sarei contentissimo trarre profitto da queste mie fatiche. Essendo il primo libro del nostro colore, il quale abbia raccolto tutti gli avvenimenti militari della passata Insurrezione, mi lusingo dello smaltimento, e credo un editore non potrebbe correre alcun rischio assicurandomi un tanto per cento sul guadagno netto». Aggiungeva però che, nella peggiore delle ipotesi, si sarebbe contentato di «una ventina di copie per gli amici».

95 Era stato Cattaneo a suggerire che la Guerra comb., anche se stampata altrove, recasse la data di Lugano (a Macchi, 20 marzo '51). — Sulle cure prestate da Cattaneo al manoscritto della Guerra comb., cfr. Macchi a Cattaneo, 1° agosto 1857. — P. si scusava con Cattaneo di importunarlo per la stampa della sua opera, adducendogli che «circondato da codini io non posso che far capo da voi» (23 gennaio '51). — Scrivendo al Daelli il 5 marzo '51 per sollecitare una risposta in merito alla stampa della Guerra comb., Cattaneo così premeva: «Pare impossibile che trovi accoglienza migliore il Gualterio e persino il Negri!» — I dettagli della stampa della Guerra comb. in lettera di P. a Dall'Ongaro, 4 giugno '51, cit.

96 È Mazzini stesso che, nei cit. Ricordi, narra dei consigli da lui dati a P. dopo la lettura del ms. della Guerra comb.; e aggiunge: «Non assentí; l'amore al Vero era in lui più potente d'ogni altra considerazione; la discussione fra noi fu animata abbastanza, perché ne seguisse un lungo silenzio».

97 La lettera di Bixio in NERI, Un episodio della vita di B., Genova, 1912, 102-103; 106-108. Bixio proseguiva: «Chi ama il proprio paese deve pensarci due volte prima di contribuire ad inalzare certe reputazioni, che la storia non conoscerà che per i mali che ne seguirono». Al B. accenna altresì P. in una lettera a Dall'Ongaro, 4 giugno 1851, cit. — Bixio teneva a chiarire che da parte romana, il 29 aprile 1849, non si era operato contro i francesi alcun guet-apens; la lotta era stata aperta e leale. — Altre lettere di B. a Remorino con accenni alla Guerra comb. in NERI, op. cit.

98 Scrisse Mazzini: «Gli amici procurino di far sì che non succedano altri duelli quando egli (P.) sarà risanato». — Col Remorino P. era stato fino allora nei migliori termini.

99 La dichiarazione dei calabresi e siciliani protestava contro la versione accettata da P. degli avvenimenti del giugno '48 in Calabria (cfr. Guerra comb., 104); e narrava che il primo dei firmatari (il Fardella) aveva già avuto un inutile colloquio con P. per persuaderlo del suo preteso errore; l'ostinazione di P. obbligava i firmatari — che pur professavano la massima stima per lui — a dichiarare solennemente «che apporre la nota di defezione ai Siciliani è segnare una vile calunnia... Che se dopo questa... aperta confessione taluno avrà il mal vezzo di... ridire l'immeritata accusa, sappia che d'oggi stesso essi lo dichiarano basso e spregevole calunniatore». Il 7 sett. l'Italia e popolo pubblicava varie adesioni alla dichiarazione dei siciliani. — La tempesta d'altronde si placò presto; ché con molti dei firmatari della protesta P. si strinse più tardi in amichevole e operosa solidarietà.

100 L'accenno di Macchi si riferisce alle accoglienze ancora peggiori toccate alla Federazione repubblicana di G. Ferrari. Della Guerra comb. l'Italia e pop. stampò, nei n. dal 27 sett. al 3 ott. 1851, una recensione favorevolissima. A P. veniva riconosciuto il merito di aver per primo tentato una storia d'insieme del biennio; generiche lodi venivano tributate altresì alle sue «politiche e filosofiche considerazioni». — Ignoro se del libro si occupasse criticamente il Ferrari, il quale esprimeva tale intenzione a Cattaneo (lettera ottobre 1851), ma nel contempo lamentava di non aver giornali a sua disposizione (MONTI, 101).

101 Anche David Levi, rievocando molti anni più tardi su La Nuova Antologia (s. IV, vol. 69, 433) Le prime fasi del socialismo in Italia, scriveva: «Si sentiva il bisogno di infervorate le masse alla causa nazionale...; non bastava a tale intento il principio politico, conveniva creare un interesse che corrispondesse ai loro bisogni materiali..., unire alla politica la questione sociale».

Capitolo VII

144

102 Sulla diffusione delle idee socialiste in Italia nel '47-49 si vedano, oltre le op. cit. in appendice, SALVEMINI, Mazzini, Roma, 1920, MONTI, L'idea federalistica nel Risorg. Italiano, Bari, 1922, BACHI, Una pag. di storia del lavoro in Liguria, estr. dal vol. commemor. in onore di G. Prato, Torino, s. d., GORI, Gli albori del socialismo, Firenze, 1909, TIVARONI, Storia critica del Risorgimento, vol. VI, LEVI D., Ausonia, vita d'azione, Torino, 1882.

103 Accenni a socialismo, del resto, si hanno in Italia anche negli anni precedenti al '47. Importanti e sintomatiche anche se di dubbia autenticità, ad es., le Istruzioni inviate nell'ottobre del 1846 dai «capi socialisti Italiani» residenti in Francia ai loro emissari nella Penisola; cfr. MARTINETTI, Des affaires de l'Italie et de l'avenir probable de l'Europe. Paris, 1849. Sulla diffusione del socialismo, le paure borghesi ecc., in quel periodo, si veda la felice prefazione di BARBAGALLO alla cit. Op. di ANDRIANI. Prima del '48, attesta il LEVI (Ausonia, 51), «era delitto... parlare di associazioni d'operai, di società cooperative, di previdenza sociale. Era massima consacrata dal Governo e dalla Chiesa, essere la povertà necessaria per suscitare le opere di carità, essere inoltre la miseria del popolo, l'ignoranza delle plebi... sagacia di governo e mezzo politico per dominarle». E del resto, anche dopo il '49, non pretendeva un tal BROGGIA in un suo Trattato de' tributi di dimostrare la convenienza sociale della miseria delle classi agricole? Quanto al significato che alla espressione «socialismo» molti davano allora, cfr. il discorso del Ministro dell'Interno piemontese, alla Camera, 14 maggio 1850, in risposta al Brofferio, che aveva proposta la vendita delle proprietà ecclesiastiche. «Queste misure, lo dichiaro, non le accetterò mai, perché non ho fede nelle massime socialiste, e credo socialismo lo spogliare altrui delle sue proprietà». Sull'incerto, equivoco significato di socialismo scriveva assennatamente La Concordia, Torino, 22 marzo 1850; cfr. anche TORRE, op. cit., II, 240-242. — In verità, come bene mise in rilievo LABRIOLA nel suo Socialismo contemporaneo, 121 — «la parola comunista è servita a qualificare il socialismo dei proletari sin verso il 1870»; per socialisti s'intendevano il più delle volte i democratici filo-operai, ma estranei al movimento operaio, i quali «cercavano aiuti presso le classi colte».

104 Che l'Austria, o piuttosto suoi zelanti agenti bandissero nel '46-47 dottrine socialistoidi in Italia (e segnatamente in Toscana e in Piemonte) è ormai sicuramente provato. La corrispondenza dei diplomatici inglesi, ad es., ne è piena. Cfr. anche BIANCHI, Vicende del mazzinianismo, Savona, 1854, 380-382; CAPPONI, Epistolario, II, 278-285; LINAKER, in La Toscana alla fine del Granducato, Firenze, 1909, 201-203.

105 La lettera di Marx in La Critica sociale, Milano, 1897, 239. 106 I contadini invasero, per dividerselo, il bosco di Lagopesole (Rionero); a Teramo i proprietari si strinsero in una sorta di sindacato anticomunista. A Olevano (Salerno) si predicava apertamente la divisione dei beni. Una tal quale propaganda socialista fecero perfino, a Civitavecchia, le truppe d'occupazione francese nel '49! (Mazzini alla Sand, 8 agosto 1849).

107 Capponi e Giusti si attendevano a sorprese comuniste m Livorno. — Sul socialismo in Toscana v. anche GENNARELLI, Atti e documenti, ecc., Firenze, 1863, p. III-IX.

108 CANTÚ (Cronistoria, II, 2) alludendo al '48 scriveva: «Erano cominciate le lunghe processioni al grido pane e lavoro, scioperi, macchine rotte, cotoni bruciati». 109 Lo stesso Operaio, di Milano, 19 giugno 1848, in certi suoi Consigli agli operai, scriveva: «È dunque ormai tempo di togliere questo avanzo delle tiranniche leggi del medioevo, che prescrive al popolo di passare un'intiera giornata lavorando per guadagnarsi un tozzo di pane; al ricco di dormire i suoi sonni... Uguaglianza! Tu, o ricco, vuoi del pane? lavora!»

110 Sul contegno dei contadini lombardi nel '48-49 cfr. su L'Italia del Popolo, di Lugano, un notevole articolo (dic. '49 genn. '50) «... Come si avrebbe coraggio di fare rimprovero ad essi se... non riconobbero come propria la guerra? Mal sapendo apprezzare il valore della nazionale indipendenza (i contadini) non rilevarono... gran differenza nel regime amministrativo, che è quanto più davvicino li tocca, fra il governo insurrezionale ed il governo straniero. Quindi avveniva che nelle campagne il Provvisorio lombardo era qualificato come il governo dei ricchi. E non senza ragione». L'articolista osservava che, mentre era di moda attribuire «tutti i rovesci politici e tutti i mali economici dei tempi nostri» al socialismo, sarebbe stato più giusto farne carico alla inveterata, iniqua sperequazione sociale. — Nel '51 (5 agosto) scriveva la Gazzetta d'Augusta: «Pare d'altronde che la nobiltà (lombarda) abbia finalmente compreso che la conseguenza di una rivolta ad altro non potrebbe condurre che al socialismo e al comunismo, che sotto il manto della indipendenza d'Italia potrebbe accagionare il più gran male al paese». Due anni dopo, il moto milanese del 6 febbraio venne da molti giudicato, specie all'estero, come una prova generale della rivoluzione sociale. «I nobili italiani — scriveva re Leopoldo del Belgio alla nipote regina d'Inghilterra — si sono mostrati dei grandi pazzi, operando come hanno fatto ed aprendo così la strada alla rivoluzione sociale».

111 Il primo sciopero genovese — secondo il BACHI, 3 — si sarebbe verificato nel dicembre '42 fra gli operai di una fabbrica di tessuti. — Di un minacciato sciopero dei setaioli torinesi parla il Ministro inglese a Torino in un dispaccio al suo governo, 13 gennaio 1834 (Record Office, F. O. 67 | 191). — I tipografi di Genova invocavano da un mese quegli stessi miglioramenti di tariffa che già eran stati concessi ai loro colleghi di Torino. Non appena (dopo 3 giorni) ai giornali fu possibile riprendere le pubblicazioni forzatamente interrotte, i tipografi scioperanti vennero naturalmente additati quali «perturbatori della pubblica quiete». Risposero gli operai con una pioggia di volantini stampati 145 alla macchia: «Molti principali Genovesi — si leggeva in uno di essi — hanno già fatto discrete e giuste concessioni; ma molti sono duri nel persistere... infelici costoro dovranno cedere loro malgrado ai giusti reclami dei loro maltrattati operai». Cedettero invece, senza nulla ottenere, i tipografi. (Questo ed altri volantini genovesi dello stesso periodo si trovano conservati in una importante raccolta, chi sa come pervenuta al British Museum di Londra: Miscellanee politiche genovesi. In un altro di essi, Due parole ai ricchi, invocante soccorsi per le famiglie dei feriti in guerra, si legge il passo seguente: «... ma che mi faccio io a dipingervi l'orridezza della classe miserabile, mentre voi, più duri ancora, mi vantate innanzi, e i soccorsi dei magistrati di misericordia, e i piccoli pegni restituiti, e i pani della città...? E che son questi soccorsi, pur sempre lodevolissimi, in paragone dei bisogni della società? E a che li mettete voi innanzi se non a vostra vergogna?... In questi momenti di tanto dubbia agitazione... non potremo noi, non potranno i posteri accusarvi dei disordini, dei partiti, dalla miseria quasi necessariamente prodotti?») — È il Promis che manifesta timori per l'avvenire di Torino industriale (GORI, 400). — Udí l'oratore popolare in Genova (tal Pellegrini) il TORELLI (Ricordi politici, 193), il quale ne trasse ispirazione per le sue lettere, più oltre cit., di Ciro D'Arco.

112 Al Papa rispose subito, con un ispirato travolgente appello ai sacerdoti italiani, Mazzini nella sua Italia del Popolo. Insistendo sulle profonde antinomie fra socialismo e comunismo, insieme confusi nello scritto vaticano, M. condanna il secondo «siccome concetto anti-progressivo, ostile alla libertà umana, e praticamente impossibile», ergendosi invece a difensore aperto del socialismo.

113 Nel mio vol. Mazzini e Bakounine trovasi un frettoloso cenno sul movimento operaio svoltosi in Piemonte fra il '49 e il '60. I dati qui riportati, frutto di successive ricerche, vanno considerati quali sviluppo e integrazione di quel primo cenno. — Il periodo più intenso per la fondazione delle Società operaie fu quello fra il 1850 e il '53 con 85 Società nuove (cifra accertata dalle statistiche ufficiali, peccanti piuttosto per difetto che per eccesso). La prima Società di resistenza sorse a Torino nel '48.

114 Già nel '51 si era avuto un convegno di 600 operai, membri di varie Società, ad Alba. E nell'ottobre di quello stesso anno si riunirono a Torino i delegati di 33 Società per discutere in merito alla convenienza o meno di una federazione delle varie Società. Nel maggio seguente altra riunione dei delegati di 39 Società, nella quale vengono presi accordi per i futuri Congressi generali. Cfr. Le Società operaie di Torino e di Piemonte, Roma, 1883, 12 sg. — In un fascicolo della Democrazia italiana, 1851, Genova, 1852, P(iero) C(ironi) si occupava delle Società operaie piemontesi, asserendo che se esse avessero seguitato a moltiplicarsi come avevano fatto fino allora, avrebbero finito col rendere «il popolo arbitro delle condizioni sociali». E aggiungeva: «I governi osteggiano ed avversano le associazioni, le quali se non possono affatto troncare, cercano corrompere traendole per mezzo dei capi nella loro dipendenza. I sacerdoti le fulminano di ecclesiastiche censure dai pergami... I giornali reazionari le combattono... Però a ragione le associazioni mostraronsi qui gelose di serbare la propria indipendenza, rifiutando quel tentativo di loro accentramento che si partí da Torino, il quale tendeva nientemeno che a togliere ogni libertà d'azione a tutte le associazioni operaie dello Stato, con sostituire un nuovo sistema di centralizzazione». — Nel 1855 un Congresso medico, riunito a Cuneo, discusse la questione della durata del lavoro negli opifici.

115 Da un dispaccio del Ministro inglese a Torino al proprio governo (3 agosto 1841) si rileva ad es. che il salario di un setaiolo, in città, è di L. 1,20 al giorno (di una donna, 0,60; di un ragazzo, 0,25); di un cotoniere L. 1,00. A Biella esser salario massimo di un operaio L. 1,50; a Genova, L. 2,00. (Record Office, F. O., 67 | 116). GEISSER, PUGLIESE, PRATO, nelle note loro opere di storia economica, offrono qualche dato sulla estrema bassezza dei salari industriali in Piemonte intorno al 1850.

116 Anche gli operai sarti, nonostante avessero costituito una cassa di resistenza e deliberato l'astensione dal lavoro fino a completo accoglimento delle loro richieste, finirono col cedere senza aver nulla ottenuto, vinti dallo spettro della disoccupazione.

117 Nel progetto di risposta del Senato piemontese al discorso della Corona, 7 agosto 1849, si leggeva che ogni sforzo andava fatto per premunire il popolo «contro quelle dottrine sovvertitrici, che audacemente bandite hanno troppo facile accesso negli animi non corroborati dagli insegnamenti della morale e dal conforto della religione». Indirizzo di ringraziamento di «alcuni proletari» al dep. Radice, che si è scagliato, alla Camera, contro le imposte che colpiscono le classi meno abbienti: «Che altro è questa maledetta invenzione dei tributi... se non un diabolico lambicco, entro cui si distilla, voi dite, il sudore, noi aggiungiamo il sangue, le midolle del povero popolo?» (Lo Smascheratore, Torino, 31 ott. 1849). Osservava Brofferio alla Camera subalpina il 14 maggio 1850, criticando la eccessiva severità della censura sui libri di provenienza estera: «si teme l'introduzione di libri socialisti, ma tutti i giornali liberali parlano del socialismo; perché non li proibite?»

118 Anche Lo Smascheratore, 31 dic. 1849, lamentava che «il socialismo e il comunismo più isfacciato e sanguinario predicasi in tanti giornali di provincia».

119 «Signori, di questo socialismo ve ne fate un grande spauracchio», ammoniva lo stesso Sineo, alla Camera, il 16 maggio 1850. 120 Del Canto allo Sciesa trascrivo qui i versi più significativi: «Operaio all'officina — Perché sudi insino a sera? — La campana alla mattina — Che ti chiama all'officina — Perché dice in suo linguaggio — Tu sei figlio del servaggio?... — La tua lima, il tuo martello — Il telaio e lo scalpello — Operaio fan potenti — I padroni ed opulenti — 146 E il salario a te non basta... — Ma se un dí quella campana — Manda un suon diverso affatto... — Quello è il giorno del riscatto... — Libertà lavoro e pane — Vorran dire le campane». Sulle istruzioni antisocialiste da Mazzini impartite alla Italia e Popolo, v. S.E.I., XLVII, 108, 127. — Un articolo sulla necessità della rivoluzione sociale oltreché politica stampava lo stesso giornale l'11 sett. 1851. Altri articoli sul socialismo v. nei n.i 12 sett., 3 ott. 1851; 31 dic. 1854; 27 nov. 1856.

121 «Socialisti», fautori della «bandiera rossa» venivan definiti Montanelli e i suoi seguaci nei Misteri repubblicani; e Jacini diceva di loro, nel '51, che «promettono un eden di delizie, fra cui primeggiano le confische e la ghigliottina ai moderati, ai ricchi, agli aristocratici» (Un conservatore rurale, I, 36).

122 In un trattatello reazionario Della vera e falsa libertà, stampato a Torino nel 1850, trovo un sarcastico Dizionario della demagogia, contenente definizioni di questo genere: «Diritti del popolo. Facoltà di fabbricarsi nuove catene di schiavitú per mezzo di rivoluzione». «Sovranità del popolo. Diritto di eleggersi qualche centinaio di tirannelli, e di pagarli a caro prezzo». — Ne La nemesi subalpina ossia dieci anni di liberalismo in Piemonte. Canzoniere politico. Torino, 1858, l'anonimo autore (un reazionario di tre cotte) tocca sovente il tasto socialista, s'intende bene con quali intenti.

123 Il Turcotti — si noti — insegnava diritto costituzionale nella Scuola della Società degli operai di Torino (Le soc. Op., 22).

124 MAZZIOTTI, 318, ricorda una conferenza tenuta a Genova dal Conforti nel 1851 intorno al migliore ordinamento del lavoro.

125 GIOBERTI nel Rinnovamento assomma a tre principalissimi i bisogni dell'epoca: predominio del pensiero, autonomia della nazione, riscatto delle plebi.

126 Importante il Programma della Associazione degli operai pubblicato da Macchi a Torino nel nov. 1848. Il Macchi, veramente, avrebbe preferito che le discussioni sul problema sociale venissero rimesse a quando si fosse già risolta la questione politica; ma — scriveva al Cattaneo, 14 gennaio '50 — «poiché non dipende da noi il sospendere la questione socialista... sento come un debito di coscienza di farvi qualche attenzione» (SAFFIOTTI, op. cit., 734-735). Nel nov.-dic. 1856 Macchi sostenne una vivacissima polemica con L'Italia e Popolo intorno al socialismo e alla questione sociale. Si veda, oltre al cit. giornale, MACCHI, La conciliazione dei partiti, Genova, 1857, appendice. De Boni era filosocialista come tutti i razionalisti, ma nettamente anticomunista: «Il comunismo in Italia — scriveva nel 1850 — non esiste che nella fantasia dei retrogradi e nelle calunnie della polizia» (GORI, 352). MANCINI, nella sua Introduzione allo studio del diritto pubblico marittimo, Torino, 1853, segnala l'immensa importanza della questione sociale. «Le masse — egli osserva — dove più, dove meno han mostrato di non saper che farsi di una libertà formale vôta ed infeconda dei prodigiosi benefizi da esse sperati, e tante volte invano promessi». Socialista, ma anticomunista era il Vecchi (La Italia, 46). Nel 1853 egli aveva caldeggiato il progetto di stabilire a Rodi una colonia italiana su basi ugualitarie (VECCHI V. A., op. cit., 35). Gustavo Modena attraversò, pare, un periodo di vero entusiasmo pel socialismo. Ne lo rimproverava Mazzini (alla Hawkes, 16 febbr. 1855).

127 N. BIANCHI (Vicende del mazzinianismo, 281) si studia di mettere in guardia la società contro i pericoli derivanti dalla distruzione del sentimento religioso nelle masse. «Si badi, egli ammonisce, che il popolo potrebbe compiere una di quelle violente perturbazioni, in cui la guerra si fa a coltello contro i pasciuti e i vestiti, e le turbe accostano la libertà come una meretrice». In quel caso le classi agiate sarebbero costrette a fare un fronte unico di resistenza «a necessario vantaggio del dispotismo». Nel 1858 Cavour confessava che se non fosse stato tutto preso dalla questione nazionale, si sarebbe volto a quella delle relazioni fra capitale e lavoro e delle condizioni della classe lavoratrice (CROCE, Storia d'Europa, Bari, 1932, 208).

MINGHETTI (Miei ricordi, Torino, 1888-1890, III, 130) riporta una sua lettera del '56 contenente il seguente passaggio: «La questione sociale per noi sovrasta anche alla questione politica». 128 Del Curzio, nativo di Acquaviva in Puglia, accerta LUCARELLI, 109, che era amico di P., di Cattaneo, Nicotera ecc., e che «cercava di trarre nell'orbita della rivoluzione non solo il ceto abbiente, ma anche le classi operaie». Gojorani era pesciatino; mazziniano (poi socialista), venne espulso dal Piemonte nel 1854. CECCHI (pref. alle sue Op. scelte) scrive che nel '57, dalla Svizzera, G. si precipitava a Genova «per unirsi alla spedizione P.», ma giunse troppo tardi. Cfr. in proposito la lettera di Mazzini a Pigozzi, del luglio 1856: «Vorrei che Gojorani e Rocchi si tenessero presti a recarsi in Genova sopra un avviso che venisse loro da me». Ritengo per altro che Mazzini intendesse utilizzare il G. per il moto in Toscana. Di lui cfr. specialmente Il legato di un proscritto, 1854; Una visita, 1856; La terra promessa, 1857. Anche il Mercantini, stabilito a Genova dal 1854, toccava argomenti sociali nelle sue poesie. Si veda ad es. la sua Canzone del mendico, 1842.

129 Ai tempi di P., scrive ORANO, I patriarchi del socialismo, 135, «gli scritti di Proudhon, di Leroux, di Blanc avevano, a malgrado della censura feroce, una diffusione sufficiente ad una cultura discreta del... pensiero socialista ». Cfr. nell'Appendice bibliografica l'elenco delle opere cui in questo capitolo si è accennato. Il lettore avrà notato che esse son tutte ed esclusivamente stampate in Piemonte. Una bibliografia del genere estesa all'Italia tutta richiederebbe moltissimo spazio. 147

130 Non era dunque troppo esatto il Ferrari quando (a Cattaneo, sett. 1850, in MONTI, 90) scriveva: «in Italia il socialismo è sconosciuto, calunniato, sfigurato». Piú nel vero P. (Saggi, III, 53): «non tutti sono socialisti, ma tutti; comeché professando dottrine opposte al socialismo, si compiacciono dirsi tali... il socialismo riguardasi ancora dottrina e tutti cercano farne pompa senza comprenderlo o approvarlo».

Capitolo VIII

131 Cosenz era assai stimolato da Mazzini che, in una lettera alla Hawkes, 2 dic. 1850, lo aveva definito «un repubblicano perfetto ed alieno da quello spirito intrigante ed ambizioso di quasi tutti i militari».

132 Sulla inopportunità che il movimento rivoluzionario repubblicano avesse ad esser diretto da fuorusciti scrisse ripetutamente anche il Medici (CADOLINI, Memorie, 240). ORSINI più tardi ripeté nelle sue Memorie le stesse osservazioni (p. 135-136 dell'ed. Franchi). Cfr. anche Mordini (ROSI, 117).

133 Nei Ricordi su P., Mazzini, dimenticando questi dissensi, attribuirà a P. pensieri e vedute non suoi; e per es. affermerà che P. «ripeteva spesso... con me che, o le nostre moltitudini non erano preparate alla lotta suprema, e bisognava educarle con forti fatti, o lo erano, e bisognava guidarle. A questo dilemma non abbiamo mai, né egli né io, trovato risposta chiara da quei che dissentono». Dove Mazzini scordava che proprio su questo punto, per più anni, P. aveva seguitato a dargli una risposta chiarissima.

134 L'ORSINI nelle sue Memorie, cit., 121, scrive che i mazziniani di Londra chiamavan partito militare gli ufficiali repubblicani di Genova; «ossia quel partito, che sino a che non abbia centomila soldati organizzati e disciplinati, non vede speranza di riuscita nella rivoluzione».

Le lettere di Mazzini cit. nel testo sono, nell'ordine: a Mordini, 3 sett. 1853; a N. Ferrari, 9 gennaio 1854; alla Hawkes, 31 luglio 1854; a Fabrizi, 4 ott. 1854; e poi ancora a Mordini, lettera cit.; a Medici, 16 luglio 1853. Si veda anche la lettera a Fabrizi 14 dic. 1853, contenente la supplica, tutta mazziniana: «ricospira per un mese...»

135 Sulle trame di P. per promuovere un movimento nelle Due Sicilie nel '52, cfr. ROSI, Mazzini e le critiche, ecc., cit., 976. P. scriveva in proposito al Mordini in Nizza il 3 di luglio, chiedendogli l'indirizzo di tre ufficiali napoletani suoi conoscenti (Balzani, Bosco e Sanzio) nonché l'assicurazione che eventuali lettere a loro dirette «saranno consegnate nelle loro proprie mani». Il Ministro degli Esteri napoletano (che stipendiava un nugolo di spie in Piemonte e in Genova particolarmente) sapeva benissimo che il piano di insurrezione nelle Due Sicilie era stato tracciato da «due ufficiali napoletani disertori: Luigi Mezzacapo e C. P.» (GAVOTTI, 56). Altre notizie sullo spionaggio napoletano fra gli emigrati a Genova nel cit. art. di POGGI.

136 Di netta condanna fu il giudizio di P. sugli avvenimenti del 6 febbraio: «Tristi avvenimenti» egli li definiva nei Saggi, I, 102. I rapporti con Mazzini peggiorarono decisamente dopo di allora, mentre pochi giorni innanzi (il 25 gennaio) Mazzini invitava ancora il suo Cironi, che si trovava a Genova, a valersi del «consiglio d'un militare di fiducia, che può essere P.» per le istruzioni insurrezionistiche da spedirsi in Toscana. Nel '54, invece, Mazzini non fece che lamentare l'atteggiamento dei militari di Genova, nei quali, scrivendo al Sirtori (6 aprile), riconosceva «dopo noi, l'unica potenza».

137 La lettera di P. sulla «fazione» mazziniana in PESCI, 46 (era diretta a C. Mezzacapo). Esagerato senso d'indipendenza di P. o intransigenza effettiva di Mazzini? P., ancora nel '52, accennando al «Maestro», aveva scritto: ... «noi (italiani) siamo sempre cattolici e papisti, anzi gesuiti; la discussione, la critica sono per gli italiani bestemmia, i nostri apostoli gridano: silenzio ed obbedienza, come i capi d'una compagnia religiosa». 138 Anche P. era infastidito della predicazione religiosa di Mazzini. «Perché parlarne? perché sempre cadere nel mistico?», domandava a Dall'Ongaro. Nel III dei Saggi dedicò un ampio esame critico alle idee religiose di Mazzini. P., si sa, era un ateo perfetto.

139 Altrove Mazzini fu più esplicito (La situazione, 1857, in Scritti, ed. Daelli, vol. IX, 290-291): «Voi sapete che su questioni sociali, ed altre, correva dissenso tra P. e me; ma quando pensavamo d'Italia,... l'anime nostre s'immedesimavano in un solo palpito d'opere concordi e d'azione».

140 Le idee sociali di Mazzini eran già perfettamente e definitivamente chiarite nel 1840. Fino da allora egli propugnava per l'Italia una rivoluzione che fosse insieme politica e sociale, affermando che dai moti puramente politici il popolo faceva bene a tenersi lontano, perché non ne ricavava se non delusioni. – Già il 21 novembre 1855, scrivendo a Remorino dell'Italia e Popolo, Mazzini gli raccomandava di non accomunar mai, negli elogi, repubblicani e socialisti sistematici; e precisava: «noi... apparteniamo al socialismo tendenza,... mentr'essi vogliono impiantare e organizzare l'associazione per decreto, noi la vogliamo aiutar volontaria».

141 Tra gli scritti antisocialisti di Mazzini di questo periodo si veda anche il Discorso agli amici d'Italia, febbraio '52.

142 Scriveva Macchi a Cattaneo, 13 maggio '52: «Anche ai più fervidi apostoli di Mazzini spiacquero oltremodo le superbe accuse da lui mosse ultimamente ai socialisti francesi». — Mordini scriveva da Nizza, nell'aprile, che da quegli attacchi si sentivan colpiti anche i democratici italiani per la maggioranza dei quali «rivoluzione e socialismo erano diventati una sola identica cosa» (ROSI). La prima risposta pubblica a Mazzini fu quella del Consiglio democratico francese-spagnuolo-italiano, rivendicante la nobiltà del socialismo federalista. Tra i redattori della risposta figura il Montanelli; notevole che essa venisse 148 elogiata dal giornale Il Progresso, di Torino (S.E.I. di MAZZINI, XLVI, p. XCVII sg.). La risposta di Blanc, Cabet ecc. ai Doveri della democrazia può leggersi in (S.E.I., XLVI, p. XLVIII sg.). HERZEN, nelle sue Memorie (III, 112) scrive che Mazzini il quale «era stato socialista nei giorni precedenti al socialismo, divenne il suo nemico non appena questo da generica tendenza si tramutò in una nuova forza rivoluzionaria », perché non gli sapeva perdonare di essere stato formulato fuori del suo Circolo e della sua influenza! Bertani, nel '53, pensava di costituire un nuovo partito repubblicano assolutamente indispensabile da Mazzini! (S.E.I., XLIX, 259).

143 Il passo di Mazzini su P. in lettera a Fabrizi, 4 ottobre 1854. 144 Sull'attività antimazziniana di Ferrari, v. MONTI, Un dramma, 102, 121. — Contro gli eccessi antimazziniani di Ferrari nobilmente protestava il Macchi (a Cattaneo, 27 maggio 1852). 145 Le osservazioni di P. sul libro di Ferrari in un'appendice della Guerra comb. Su questo punto P. non faceva del resto che ricalcare le orme di Mazzini, che al Ferrari aveva eloquentemente rimproverato più volte tal concezione. 146 Il 24 gennaio '51 — sull'album di Pateras, cit. — P. scriveva: «La nostra cara patria spezzerà le sue catene quando al culto dell'individuo succederà il culto delle idee. Quando ogni Cesare troverà il suo Bruto».

147 Sull'Accademia di filosofia cfr. COLLETTI, 173; MAZZIOTTI, 318. Gran camminatore, P. amava anche le passeggiate in aperta campagna. A Dall'Ongaro, 30 ott. '51, scriveva ad es. di essersi «esercitato a girare tutte le posizioni ove Massena diede tanti combattimenti».

148 Sul Franchi e la sua Filosofia, COLLETTI, 104.

149 Sulle associazioni fra emigrati politici in Piemonte in questo periodo cfr. l'articolo del POGGI, l'op. cit. di LOERO, e inoltre MAZZINI, S.E.I., XLII, 210, 237. — È LOERO, 35, che afferma non aver potuto P. appartenere alla Solidarietà per ragioni economiche. — Sulla Solidarietà v. ROMANO-CATANIA, 99; MAZZIOTTI, 321.

150 Herzen venne espulso da Nizza nel giugno del '51. 151 La precisa data di nascita di Silvia è incerta, per quanto generalmente attribuita ai primi del '53. La MARIO (Bertani, I, 245), parla invece del 9 novembre 1852.

152 Sulla cattedra di Lugano v. Cattaneo a P., 4 agosto '52 (NERI, Una lettera di C. a P., in Il Ris. ital., 1909, 306-307). Si trattava della cattedra di matematica e meccanica; ma i concorrenti eran numerosissimi.

153 Il carteggio fra P. e Bertani relativo alla malattia di Silvia in MARIO, Bertani, I, 200.

154 Fu probabilmente in questo periodo che P. ebbe a raccomandarsi a Carlo Mezzacapo perché procurasse la liberazione dell'amico Vincenzo Carbonelli, arrestato quale sospetto agente mazziniano. (PESCI, 50). — L'America e del sud e del nord s'aveva un po' in conto di penitenziario dalle potenze europee in quel tempo! L'Austria, il Borbone e il Papa, per non dir d'altri, vi spedivano, o promettevano di farlo, i loro troppo numerosi ergastolani politici; il Piemonte gli emigrati più incomodi!

155 Scriveva il ROSELLI, 133: «l'accusa poi datami a torto, di falli seguiti per la mia debolezza, poteva forse giovare ad ogni altro, ma giammai al mio capo di Stato maggiore; perché accusando me di debolezza, veniva insieme ad accusar se stesso di errore; onde per trarre qualche opinione più favorevole a sé dal pubblico, miglior consiglio sarebbe stato piuttosto dirmi invece uomo ostinato e caparbio, e che non aderii ai suoi salutari avvisi...» Con particolare cura ribatteva poi il R. l'accusa pisacaniana d'aver egli inopportunamente affidato il comando della sortita del 10 di giugno 1849 a Garibaldi e d'aver rifiutato la proposta (fatta da P. il 3 di luglio) di chiudersi con le truppe nella città Leonina per sostenere un secondo assedio.

156 Nella sua risposta al Roselli, cit., P. affermava che la Guerra comb., in complesso, aveva giovato anziché nuocere al generale. «Stimando il generale, credendolo amantissimo di libertà, tollerante perciò dell'altrui opinione, amante di critica, era sicuro che avesse con piacere visto il mio lavoro; e tant'era profonda la mia convinzione a questo proposito che m'affrettai ad inviargli un esemplare della mia opera. Ma... il generale è offeso ch'io l'abbia detto debole, e la sua debolezza causa d'errori. Sperava egli forse da me la sua apologia?» E concludeva: «Lasciamo agli animi servili lo stizzirsi, come donnicciuole, ad una semplice osservazione, ed accettiamo con animo pacato la discussione. Grandeggiano, è vero, nei brevi rivolgimenti, uomini non degni, altri onestissimi vengono calunniati; ma il tempo fa giustizia di tutti... Consoliamoci ad ogni critico che sorge; le pleiadi di questi scrittori precedono sempre il risorgimento delle nazioni. Né potrà mai un popolo conquistare la libertà, se prima non conosca gli errori che lo condussero alla disfatta».

157 Dell'articolo cit. del TRUSIANI non merita conto dire gran che: era una smaccata apologia di Roselli e un'acidissima stroncatura di P., ricolma di insinuazioni e mezze calunnie, espresse, per prudenza, in forma dubitativa. A proposito degli avvenimenti romani della notte fra il 2 e il 3 di luglio, ad es., scriveva il T.: «Sarebbe lecito credere quello che asserivano alcuni, cioè che il colonnello in quella notte se ne fosse ito a dormire a casa? Noi, rispettando il patriottismo di lui, nol crediamo; tuttavia potrebbe egli querelarsi di noi se lo credessimo?» Altrove il T. affermava che era stato destino del Roselli di venir sempre calunniato da parte di «uffizialetti imbecilli e soldati codardi». Pisacane, nella polemica, si dimostrò invece invariabilmente misurato e corretto.

158 Sulla polemica Roselli-Garibaldi si conservano numerosi documenti nell'Archivio garibaldino del Museo del Risorgimento in Milano, cart. 814; tra gli altri una lettera di Roselli al Vecchi, 23 settembre 1854, e una Narrazione intorno ad un invito di sfida ecc. di mano dello stesso Roselli.

159 Sul colèra del '54 cfr. CADOLINI, Memorie, 210. A Genova, su 5.000 casi circa, si verificarono 2.600 decessi! In quell'anno appunto, infuriando il colèra, accadde che a Genova, nell'albergo della Vittoria, il Vecchi e sua 149 moglie invitassero a cena una sera Pisacane e la sua compagna con alcuni altri amici fra i quali il gen. Masi e il magg. Fontana. Una subitanea indisposizione della Signora Vecchi obbligò per altro i convitati ad andarsene; la povera Signora morí poche ore più tardi, vittima di un fulmineo attacco di colèra. Il figlio del Vecchi, l'illustre scrittore JACK LA BOLINA, decano dei letterati italiani — allora un fanciullo — ricorda benissimo la triste scena, che ha narrato in Al servizio del mare italiano, 41. La figura di P. — biondo, stempiato, occhi celesti, tipo tutt'altro che napoletano — gli è rimasta tenacemente impressa nella memoria.

160 L'incitamento di Cattaneo a P. perché partecipasse alla guerra venne rievocato da Cattaneo stesso in una lettera a Bertani, 24 febbraio 1859, nella quale concludeva che «forse in suo cuore (P.) avrà sprezzato il mio consiglio, perché troppo fuori della linea retta...»

161 Esempio tipico della incomprensione dei democratici per le conseguenze dirette e indirette dell'intervento sardo in Crimea le sdegnose parole del Macchi nel suo vol. La Pace (Genova, 1856, 42): «E per sì poca cosa (qualche memoria presentata ai ministri alleati e qualche lor buona parola al Piemonte) la stampa d'Europa si commosse in modo, che molti furono indotti a credere il Piemonte disposto a rompere quando che sia le ostilità contro l'Austria con una terza ripresa... I nostri figli avranno a durare non lieve fatica per convincersi che ai nostri giorni si trovava ancora tale e tanta dabbenaggine nei politicanti di questo vecchio continente». Medici scriveva a Fabrizi, 18 dic. 1855 che «Quanto alla guerra d'Oriente il meglio per noi è che vincano oggi i russi, domani gli alleati, e così via finché non ne rimanga uno...»

162 Il 15 nov. '54, Mazzini esultante informava Fabrizi di aver ricevuto «un bigliettino da Cosenz, che dichiara l'opportunità per fare venuta, e dice essersi scritto in questo senso dai suoi amici». Sulla fine del '54 la febbre di agire per via insurrezionale s'impadronisce di tutti i patrioti, epidemicamente. Garibaldi scriveva al Vecchi, il 6 dicembre (lettera in mio possesso): «Andiamo! Mettete d'accordo, tutta sta Italiana famiglia — a qualunque costo — e veder se facciamo una menata di mani, anche noi, passato il Verno; oggi o domani non serviremo più che a magramente ingrassarla questa terra». E Sirtori a Mazzini: «... Siamo d'accordo che è urgente di preparare le armi ecc. — Siamo d'accordo che s'ha da prevenire la guerra regia e imperiale coll'insurrezione nazionale... Riservando la mia azione politica, obbligo la mia azione militare a chiunque faccia, purché non sia una follia». (SAFFI, Cenni ecc. a proemio del vol. IX degli Scritti di Mazzini ed. Daelli, 120-121). Anche il colonnello Pasi si riavvicinò in questo periodo a Mazzini.

163 È una lettera di N. Ferrari a Cironi che attesta esser di P. l'articolo Viva il trattato (MAZZINI, S.E.I., LIV, 52). — Mazzini alla Hawkes, 28 febbraio '55: «Sono lieto che P. e Cosenz scrivano...»

164 Secondo D'AYALA, VENOSTA e gli anonimi autori dei Cenni premessi ai Saggi si trattava della ferrovia da Mondoví a Ceva («Ed ancora i Monregalesi conservano di lui dolce memoria» — Cenni). Secondo Macchi, del tronco da Bra a Mondoví. Falco ha fatto in proposito infruttuose indagini.

165 Dal Disegno dell'opera: «Questi miei studi, che per quasi cinque anni mi hanno rimosso dall'ozio». Nel Testamento politico, invece, P. afferma che i Saggi son «frutto di circa sei anni di studio».

166 P. si adoperò in ogni modo per trovare un editore ai Saggi, ma invano: evidentemente l'esperienza della Guerra combattuta non era fatta per incoraggiare... PESCI, 50, menziona sue lettere a Mezzacapo per sollecitarne la pubblicazione nelle appendici del giornale Il Diritto. Si vedrà in appresso come l'Italia e Popolo ne pubblicasse alcuni estratti, di argomento militare.

167 Gli amici che si occuparono della pubblicazione dei Saggi furon Cosenz, Carrano, e Mezzacapo. I due primi voll. vennero stampati a Genova; indi la pubblicazione venne interrotta per venir ripresa solo nel 1860, a Milano, a cura dell'avv. Enrico Rosmini «amicissimo del martire e della famiglia», secondo c'informa il VENOSTA, C. P. e G. Nicotera. (cfr. anche MAZZINI, S.E.I., LX, 137, n.). Alberto Tucci — uno dei primi seguaci napoletani di Bakunin — narrò al Nettlau che Nicotera avrebbe «soppresso certi manoscritti socialisti di P.» (NETTLAU, Bakunin e l'Internazionale in Italia. Ginevra, 1928, 56-57). La cosa non sembra molto probabile: ché Nicotera non uscí di galera se non nel 1860, quando già il socialismo di P. era stato consacrato dalla pubblicazione integrale dei Saggi. Piú probabile invece che eventuali mss. inediti di P., posseduti da Silvia, venissero distrutti dalla sorella di Nicotera, dopo la morte del fratello e di Silvia; s'è già detto infatti come costei, mossa da scrupoli religiosi, desse alle fiamme l'epistolario d'amore Carlo-Enrichetta. Alla pretesa distruzione di opere di P. accenna anche G. PISELLI ne La Rivendicazione, di Forlí, 12 luglio 1890, prendendone lo spunto per un parallelo abbastanza ardito fra P. e Dante! Quel che par certo si è che dei 4 voll. dei Saggi non circolarono che ben poche copie; le altre, si dice, finirono al macero in obbedienza agli scrupoli di timide coscienze antisocialiste (La Rivendicazione, 27 agosto 1887). Corse anche, avvalorata da Mazzini, la voce che gli editori dei Saggi si fossero permessi di sopprimere, nel ms., notevoli passaggi giudicati troppo audaci. Ma Mario Menghini, che ha in mano il ms. originale con tutte le correzioni e le soppressioni introdotte dagli editori, mi assicura che queste non riguardano che mende stilistiche o ripetizioni di nessun conto. Il II Saggio, che è tutto di storia militare, si apre con una pungente stroncatura del pacifismo. Non che P. rifiuti di credere a un avvenire in cui la guerra verrà considerata un'assurda pazzia, ma a lui par certo che la conquista della pace definitiva non potrà esser portata che da una gran guerra, lunga e terribile. D'altronde, egli osserva, la guerra è forse ancora necessaria per rendere il mondo più giusto. «Finché in Europa la decima parte degli abitanti vive... nell'opulenza, mentre nove decimi vivono producendo nella miseria, parlare di pace perpetua... è inutile ipocrisia». 150 CROCE, nella sua fondamentale Storia della Storiografia, II, II, non riserva ai Saggi di P. che una semplice menzione. Io non son portato davvero a esagerare i meriti di P. storiografo, ma non posso non augurarmi che il C., successivamente, voglia dedicare al P. un esame più approfondito.

168 L'idea della nazione armata trovò allora, oltre P., parecchi calorosi sostenitori. Tra gli altri il gen. ALLEMANDI (Il soldato cittadino, 1850; e Del sistema militare svizzero applicabile al popolo italiano, 1850) e il D'AYALA (Degli eserciti nazionali, 1850). — Sul valore di P. quale storico e teorico militare si veda quel che dice un competente, il VAIRO, art. cit. Secondo il quale P. fu «un avvenirista ardito e dotto, e tale da porlo all'avanguardia di tutti i moderni sostenitori delle milizie cittadine». Il Saggio IV «come concezione, indirizzo e metodo, appare assai più fresco di tanti scritti dovuti ad autori a noi contemporanei». «Il giorno in cui vorremo dare alle nostre istituzioni militari forma e sapore nazionale, forse potremo trarre qualche cosa di assai utile da questo libro».

169 Da buon socialista, P. non ha che parole di sdegno e di irrisione per il liberismo dottrina economica, e il liberalismo dottrina politica. La libertà fu comunque la vera e unica religione di P.; intorno ad essa, il suo concetto, i suoi limiti, la sua conquista ecc. egli scrisse pagine davvero non periture: quelle pagine appunto che conferiscono ancora oggi alla sua opera tanta freschezza e tanta attualità. «Rinunziare alla propria libertà per accrescere quella della patria, è lo stesso che mutilarla, per renderla intera; è un assurdo», scrive nel III Saggio, 155. E altrove (I, 35): «Non è già nel modo di concedere il suffragio e nella universalità di esso che consiste la libertà; ma bensì nelle istituzioni volte a limitare l'autorità». E ancora: «Agli Italiani è mestieri di educarsi a libertà... la libertà non può apprendersi... Per educarsi a libertà bisogna vivere, per quanto possiamo, liberamente; in tal guisa ognuno, educando se medesimo, educa tutti, e tutti compiono l'educazione di ognuno» (III, 155). E finalmente (III, 140): «Non parliamo di coloro che sotto il despotismo pretendono che il popolo si educhi a libertà per poi esserne degno; tanto vale dire ad un uomo legato: prima di scioglierti è d'uopo che impari a correre». «Il secolo XIX — scrive P. (III, 101) — sarà famoso nei fasti dell'umanità... perché in tal epoca il socialismo, d'aspirazione fattosi sentimento, ebbe partito, ed avrà attuazione».

170 Pur negando la necessità teorica e pratica di un governo centrale, P. ammetteva che nella società riformata socialisticamente si sarebbe dovuto organizzare una specie di consiglio nazionale, revocabile e sindacabile, cui devolvere la trattazione degli affari comuni. Il socialismo autoritario di P., si è detto, è in piena contraddizione col di lui innato, prepotente individualismo libertario. Si veda ad es. con quanta foga P. si scagli contro l'opinione volgare secondo cui sarebbe da ritenersi disgrazia che «l'energia arricchisca l'Italia di tanti diversi concetti per quanti uomini pensanti essa conta» (III, 116).

171 «Sono umanitario — scrive P. (III, 186) —; ma innanzi tutto italiano, e come in una nazione non può costituirsi il nuovo patto fra i cittadini, se ognuno di essi non acquisti piena ed intera la sua individualità, così non vi sarà fratellanza, o meglio associazione di popoli, se prima ogni popolo non ottenga la sua completa autonomia; e come è impossibile sorgere a libertà prima che ognuno senta ed operi liberamente, del pari il primo passo che dobbiamo fare noi Italiani... è quello di sentirci e di costituirci esclusivamente Italiani». Scriveva molti anni or sono PAOLO ORANO (I patriarchi, cit., 136): «Importa poco a noi... che le sgrammaticature socialiste di P. non abbiano trovato il loro posto... nei manuali ufficiali del bel regno. Dinanzi al socialismo contemporaneo, dinanzi a noi, per quelle sgrammaticature — e non per il tragico gesto di Sapri — il buon senso italiano è salvo e P. non muore».

172 Il mio esame dei Saggi essendo forzatamente sommario, non tutto quel che converrebbe in essi sottolineare ho potuto mettere nel debito rilievo. Assai importanti sono, per citare un es., certi passi nei quali P. si dichiara in favore del federalismo più avanzato (I, 101). P. socialista ebbe ben poca influenza sul successivo sviluppo del movimento in Italia, se non altro perché i suoi scritti restaron sconosciuti, o quasi, per più e più anni dopo la sua morte. Ma si deve ciò non per tanto rilevare che Fanelli, suo principale collaboratore nella impresa di Sapri, si dimostrò poi socialista convinto e attivissimo, ed è lecito supporre che fosse il P. o a convertirlo o a radicarlo in quella sua fede. Bakunin, giunto in Italia nel 1864 con le idee non ancora ben ferme in merito alla questione sociale, attinse, pare, assai largamente dalle opere di P. segnalategli appunto dal Fanelli (DOMANICO, op. cit., XXIV). Le analogie fra il pensiero del rivoluzionario russo e quello del suo predecessore napoletano son certo assai cospicue. Anche Carlo Cafiero, il notissimo agitatore pugliese, studiò profondamente i Saggi pisacaniani «Eureka! ho trovato gli scritti di Pisacane», avrebbe egli esclamato quando, ultimato il suo compendio del Capitale di MARX, poté constatare che alcune delle idee di Marx eran state anticipate dal dimenticato martire di Sapri (FABBRI, op. cit., 14); tanto che se la pazzia non l'avesse colto, ci viene assicurato che C. avrebbe dedicato uno studio completo alle «idee rivoluzionarie, razionaliste, socialiste e libertarie di C. P.».

173 Critico severo del révirement pisacaniano, seppur sempre amico devoto, si mostrò il Macchi, ad es. (op. cit., 34-39). Quanto ai moventi della determinazione di P. di capitanare l'audacissima impresa, il M. misteriosamente insinuava: «Tempo non è ancora di rimuovere dinanzi al Pubblico il velo dell'infausto mistero».

174 Assai pessimista sulle conseguenze sociali e politiche della propaganda cattolica, P. — è chiaro — rimprovera nei suoi Saggi agli italiani d'essersene lasciati «rammollire» e fiaccare, troppo proni a codesto ideale di rinunzia e 151 di rassegnazione. Tanto che in un passo quasi nascosto del IV Saggio egli si lascia sfuggire la disperata definizione degli italiani: «un popolo avvezzo a servitú, che tende sempre a crearsi nuovi padroni» (153).

Capitolo IX

175 Scriveva l'Ambasciatore napoletano a Londra al suo Ministro degli Esteri, 10 febbraio 1852: «Mazzini nel chiarirsi ostile a tali progetti (quelli murattiani), li fomenta sotto mano... Quello ch'egli se ne ripromette è aprir la via a disordini, a convulsioni nel nostro Reame, qualunque si fossero, per trarne profitto ai suoi chimerici sogni»... (GAVOTTI, 48). Da molti rivoluzionari si rimproverava a Mazzini il disinteresse per la questione napoletana. Mazzini protestava contro l'ingiusta accusa, pur ammettendo che, dal '49 in poi, «Napoli — e fu grave danno — si raggruppò in sé, si riconcentrò, temo, soverchiamente nei suoi dolori, e fu troppo poca la comunione che tenne con noi tutti quanti siamo figli delle altre province» (a Fabrizi, 15 agosto 1854).

176 Sugli appoggi ottenuti da L. Murat dalla Massoneria, cfr. LUZIO, La Massoneria nel Ris. Ital., Bologna, 1925, I, 253, 255. Già nel gennaio '50 Mazzini dava la sveglia contro il pericolo murattista (a Fabrizi). — Il 12 febbraio dello stesso anno Il Risorgimento pubblicava una protesta di emigrati napoletani stabiliti in Piemonte contro una insinuazione, stampata dal National, su pretese loro pratiche in pro di Murat.

177 Sulle gite di Pepe a Genova, cfr. GAVOTTI, 66; CHIALA, Lettere di Cavour, II, 480. — Quanto a Cosenz, egli era così contrario a Murat che — scriveva il Console napoletano in Genova al Ministro degli Esteri in Napoli — tanto lui che il Musto avean dichiarato che «in caso d'invasione del regno da parte della Francia... avrebbero rimesso sul loro petto il giglio dei Borboni e si sarebbero battuti contro i Francesi». GAVOTTI, 61.

178 Nel settembre '55 usciva a Parigi La question italienne, Murat et les Bourbons, di SALICETI; l'emigrato napoletano F. TRINCHERA stampava a Torino nello stesso anno La quistione napoletana. Ferdinando Borbone e Luciano Murat (entrambi murattisti). Rispondeva DE SANCTIS nel Diritto, n. 237, e l'anno di poi LA FARINA, con Murat e l'unione italiana. Replicavano i murattisti con L'unità italiana e L. Murat re di Napoli (Torino, 1856). Sul Times scriveva Murat il 24 settembre 1855: «Dichiari il Piemonte di inalberare la bandiera della indipendenza e libertà d'Italia ed io mi obbligo non solo a non preparare ostacoli, ma anche a dargli tutto il mio aiuto»... Vennero tentati, dai murattisti, perfino gli ergastolani politici di S. Stefano, di Montesarchio ecc. Ma le risposte che n'ebbero dovettero far arrossire gl'incauti proponenti almeno quanto c'inorgogliscono, oggi. Ed eran risposte che volevan dire: alla libertà per mano vostra preferiamo ancora la galera! (MAZZIOTTI, 350; SETTEMBRINI, Epistolario; PANIZZI, Lettere). Del MONTANELLI si veda Il partito nazionale italiano, Torino, 1856. — Anche SIRTORI (La questione napoletana. Metodo di soluzione), con l'isolare il problema napoletano da quello generale italiano, spianava in pratica il terreno a Murat. Cavour, è un fatto, dava a credere di non veder quelle trame troppo di mal occhio. Il 10 aprile 1856, infatti, nell'informare Rattazzi di un colloquio che avrebbe prossimamente avuto con Clarendon, Ministro degli Esteri inglese, gli diceva testualmente: «Credo potergli parlare di gettare in aria il Bomba. Che direbbe di mandare a Napoli il Principe di Carignano? O se a Napoli volessero Murat di mandarlo a Palermo?» Il 16 settembre '55 La Farina assicurava il Torrearsa, e il 31 ottobre il Ricciardi, che si era alla vigilia di una restaurazione murattista. «Ritenete queste mie parole non come notizie di giornali e come supposizioni, ma come un fatto positivo, stava quasi per dire un fatto compiuto». (La Farina, si sa, aveva le sue entrate in Piazza Castello). Pallavicino, a séguito di colloqui avuti coi ministri sardi, confermava (7 agosto '56): «Il governo piemontese non favorisce i... murattisti, ma non li avversa». Gli è che Cavour non si credeva né in diritto, né in grado di opporsi a una rivoluzione napoletana in favore di Murat. La sua politica fu quella di non avversare le ambizioni francesi, ma piuttosto di suscitare contro di esse le gelosie inglesi. A Corti, Incaricato a Londra, 5 settembre '56: informi Clarendon che il partito murattista guadagna giornalmente terreno e «qu'il agit désormais à découvert, ce qui ferait supposer un appui formel de la part de la France. En présence de tels faits, nous nous trouvons placés dans une situation extrémement pénible. Il est évident que nous ne pouvons nous disposer à combattre Murat... surtout si nous ignorons l'opinion... du cabinet Britannique sur cette question». Allo stesso, 17 settembre: «vous aurez soin... de vous montrer très préoccupé des efforts de ce parti. Vous tâcherez de... faire comprendre que l'inertie de l'Angleterre fait sa force; et que son succès est à peu près certain si le cabinet britannique, après avoir ténu un langage hautain et provocateur envers Bomba, s'absténait d'exercer une pression efficace à son égard» (CHIALA, II, 390, 395). Cavour batteva, così facendo, la via giusta. Anche Ruggero Settimo, per minare la propaganda murattista, scriveva a Palmerston (AVARNA, Ruggero Settimo, Bari, 1928, 225).

179 Il giorno appresso altri dieci emigrati aggiungevano le loro firme alla protesta antimurattista (tra gli altri, cospicui, i nomi di De Sanctis, Nicotera, La Cecilia, Plutino).

180 Le finalità del Centro politico obbedivano a quell'imperativo d'azione che allora era universalmente sentito. Anche Silvio Spaventa, tutt'altro che un esaltato, scriveva allora: «il punto che più importa è di operare» (CROCE, 217). E, non molti mesi dopo, il Guerrazzi, pur nemico acerrimo dei mazziniani «La Italia ha bisogno di ferocissimi che sappiano morire ed uccidere; se questi non sorgono..., allora bisogna che aspetti salute da una invasione di barbari che le rinnovino il sangue» (Lettere, Livorno, 1880, II, 321; 6 giugno '57). 152

181 È Musolino stesso, che in una lettera a Ricciardi, 11 luglio '57, parla della sua gita a Londra.

182 L'asserzione di La Farina in lettera a Settimo, 13 maggio '56 (AVARNA, 220).

183 Sul Centro politico cfr. Pallavicino a Manin, 26 giugno '56 (MAINERI, Manin e Pallavicino. Milano, 1877).

184 «So che si vorrebbe fare insorgere Napoli senza la parola d'ordine: Vitt. Eman. re d'Italia — scriveva ancora Pallavicino a Manin, il 17 giugno '56 —; queste pratiche sono evidentemente un maneggio mazziniano; ho quindi ricusato di prendervi parte».

185 Altri membri del Comitato di Napoli (Capitale e provincie); V. Padula, i fratelli Magnone, G. Matina, G. B. Matera, i fratelli Albini, F. e G. Salomone, G. Lazzaro, P. Lacava, S. Verratti, G. Libertini, L. Fittipaldi ecc. (BILOTTI, 66).

186 Mignogna si era rifugiato a Genova; quivi raddoppiando, naturalmente, di attività. Si dimostrò collaboratore prezioso di P. nella preparazione dell'impresa di Sapri.

187 Dopo aver combattuto in Lombardia nel '48, Fanelli si era unito alla compagnia Medici con la quale aveva raggiunto, l'anno di poi, Roma. Quivi combatté al Vascello e venne promosso ufficiale. Caduta la repubblica, emigrò dapprima in Corsica, indi a Malta; e finalmente fece ritorno a Napoli. Su di lui v. anche PUPINO-CARBONELLI, 126.

188 Sulla progettata spedizione per liberare gli ergastolani cfr. CAPASSO, I tentativi per far evadere L. Settembrini dall'ergastolo di S. Stefano, in Il Risorgimento italiano, 1908, 22-65; e MARIO, Birth, 255-56. — Settembrini si trovava a S. Stefano dal 1850; così l'Agresti. Silvio Spaventa, invece, dal 1852.

189 Il progetto Panizzi non divenne realizzabile che nel '55, in seguito a fortunati spostamenti di cella dei detenuti politici (cfr. anche CROCE, Dal 48 al 61, Bari, Laterza, 1911, 200 sg.). Il 14 giugno 1855 Pilo informava Fabrizi aver Pisacane aderito con entusiasmo all'«affare che Garibaldi dovrebbe capitanare» (v. anche MARIO, Bertani, I, 222).

190 La polizia borbonica si era avveduta per tempo di questa attività extra diplomatica del ministro Temple; anzi re Ferdinando in persona aveva ordinato si «mettessero guardie presso l'abitazione del T. per notare quei che con la legazione inglese avessero rapporti» (NISCO, 336). Per altre fonti ci sono note le simpatie del T. per la causa liberale e i suoi generosi contatti con le famiglie dei condannati politici. Quanto al suo tollerare che la corrispondenza settaria da e per Napoli godesse della franchigia e della immunità diplomatica, ogni dubbio si elimina esaminando i documenti delle indagini ordinate al proposito dal Clarendon, nel '57 (Record Office, Londra, F. O., 70 | 288, 290; e C. O., 158 | 184- 186). Il Console inglese a Napoli, Barbar, a Clarendon, 25 ott. 1857 (dispaccio in cifra): «Il sig. Fagan — ex attaché alla legazione inglese di Napoli — asserisce... che sir W. Temple permise a varie famiglie di Napoli di mandar lettere ai loro congiunti rifugiati a Malta, e di riceverne, attraverso la missione inglese». Lo stesso a sir Hammond, 10 ott. 1857: il commissionario della legazione ammette che da circa sei anni sir Tempie riceveva al suo nome corrispondenza da e per Genova e Malta, da e per quel tale Dragone ex membro del Comitato segreto di Napoli! Morto il Temple, e poi interrottesi le relazioni diplomatiche fra le due Sicilie e l'Inghilterra, s'incaricò di trasmettere la corrispondenza settaria il consolato inglese di Napoli. Scriveva infatti il Governatore di Malta al Ministro delle Colonie, 26 giugno 1858 (confidenziale): Son venuto a sapere che «for some time» il segretario capo del governatorato ha accettato dai rifugiati politici napoletani le loro lettere, le quali, suggellate come corrispondenza ufficiale e chiuse nel «Government bag» venivan trasmesse al consolato a Napoli. Ho ordinato la cessazione immediata di tale pratica. — Il Ministro delle Colonie ritenne suo obbligo in tale emergenza di chieder spiegazioni all'ex segretario del Governatorato maltese; questi si giustificava (in data 4 luglio 1858) ammettendo che il privilegio della corrispondenza in tal modo sottratta alla censura napoletana era stato concesso soltanto a tre o quattro persone ben note da molti anni al Governatorato; e s'intende che le lettere loro eran «di natura strettamente privata». Al Ministro non restò che esprimere la speranza «che questa pratica si smettesse in avvenire», essendo inammissibile «che il governo inglese si facesse lo agente di una corrispondenza clandestina a danno di Stati amici» (6 luglio 1858).

191 Che la prima idea della spedizione fosse partita da Napoli attestano innumerevoli fonti e conferma Mazzini (La situazione, nel vol. IX dei suoi Scritti, ed. Daelli, 292) «a rimprovero di chi doveva far altro, e non fece». Evidentemente da Napoli si era informato Mazzini (il quale trasmetteva la notizia al Mordini, 17 agosto 1856) che in quella capitale «con centomila franchi si compra l'azione di un nucleo militare, intorno al quale si raggrupperebbero i nostri elementi».

192 Di questi «confinati», si parlava spesso nella stampa liberale europea nei termini della più grande commiserazione. Si veda ad es. la notizia stampata dalla Concordia, di Torino, il 17 ott. 1850, delle battiture inflitte a quelli di Ponza, rei d'aver gridato un evviva alla Costituzione: «È noto che questi sono coloro i quali valorosamente combatterono in Venezia, e che gli Austriaci consegnarono nelle mani del Borbone. Uno di questi infelici spirò non ha guari in conseguenza delle sofferte battiture». — A uno stampato clandestino da essi dedicato ai deportati nelle isole e diffuso nel Mezzogiorno (1857) accennano ripetutamente nella loro corrispondenza P. e Pilo. Nei primi mesi del '57 vennero relegati a Ponza anche i supposti complici di Agesilao Milano (CADOLINI, 272).

193 Leggendo i Ricordi di Mazzini su P. («Esaminata la proposta, P. l'approvò, e me ne scrisse, sollecitandomi, s'io pure approvassi, a recarmi ov'esso era. Esaminai, approvai..., mi affrettai a recarmi a Genova... La spedizione in Ponza doveva aver luogo il 10 giugno...»), si potrebbe dedurre che Mazzini fosse stato informato del progetto solo nel 1857 (ché qui egli allude evidentemente alla sua seconda gita a Genova, compiuta appunto in quell'anno). Ma nessun 153 dubbio è possibile: l'intero epistolario di Mazzini nella seconda metà del '56 smentisce appieno l'ipotesi. Bisogna tener presente che i Ricordi furon vergati da Mazzini nel '58, quando egli aveva ancora delle buone ragioni per non parlare del suo viaggio in Italia del '56. Il soggiorno di Mazzini a Genova si prolungò da giugno a novembre 1856. Come sfuggí alle ricerche della polizia? Questa sapeva benissimo dove il temuto cospiratore si trovasse (Pilo a Fabrizi, 29 luglio: «Il Governo ha saputo l'esistenza di Pippo in questa, e lo ha ricercato, ma non è riuscito né riuscirà a sapere dove si trova domiciliato»; Mazzini allo stesso, 16 settembre: «Il Governo sa benissimo ch'io son nello Stato. E non me ne importa»). Sta bene che Mazzini rimaneva solo e celato tutto il giorno, ricevendo gli amici o recandosi a colloqui soltanto di notte; sta bene che egli mutava frequentemente d'alloggio. Ma bisogna per forza ammettere che le ricerche della polizia non fossero troppo zelanti (non vide egli perfino la sua sorella?)! Nel settembre '56 Emilia Hawkes fu a Genova per qualche giorno; vide naturalmente Mazzini, vide molto i Pisacane con i quali rinsaldò l'antica amicizia (MAZZINI, S.E.I., LVII, 79, 103).

194 Lo stato d'animo di Garibaldi verso Mazzini in quel periodo ci è chiarito dall'atteggiamento dei suoi più fidi. Medici a Garibaldi, 26 sett.: «Come vedi siamo alla vigilia di vedere altra pazzia mazziniana, la quale, riesca o no, finirà come le altre in modo ridicolo... Quell'uomo rovina ogni cosa». Iddio ci liberi da quelle «piattole» dei mazziniani, esclamava Pallavicino il 4 ottobre. Garibaldi medesimo, c'informa Foresti, s'andava augurando allora d'avere almeno una volta «sotto le unghie per Dio» quel guastafeste del Mazzini! — Quanto a Bertani, Saffi assicura (Cenni ecc. a proemio degli Scritti di Mazzini, ed. Daelli, IX, 130) che egli «insistette indarno per tentare la prova con mezzi maggiori, guardando alla liberazione de' prigionieri e del paese ad un tempo: ma non se ne fece altro»; e anche la MARIO (Bertani, I, 222) dice che nell'agosto '56 il B. avrebbe informato il Panizzi «di altri progetti a cui egli teneva mano, sollecitandolo ad ottenergli dagli amici inglesi il permesso di unire il danaro loro a quanto si poteva raccogliere in Italia per tentare la liberazione di tutti i prigionieri, poi tentare la rivoluzione nel Regno».

195 In un primo tempo (Pisacane a Fanelli, 16 febbr. 1857) Mazzini insisteva perché la spedizione venisse preceduta dalle insurrezioni di Genova e Livorno «per poi correre con una parte dei mezzi al Sud». Ma P. e Fanelli riuscirono a persuaderlo dell'opportunità di rovesciare il piano, per non subordinare la spedizione al dubbio successo delle sommosse e comprometterne l'esito con la «sveglia» che queste avrebbero dato al governo napoletano (DE MONTE, XXXV). Come è noto, Mazzini si giovò (o sperava giovarsi) per l'insurrezione di Genova del vivissimo malcontento ivi regnante in seguito al trasferimento dell'arsenale alla Spezia e all'aumento del dazio sui generi di prima necessità. «V'era per me un problema militare e un problema politico da sciogliere — spiegò più tardi Mazzini —; il primo dovea sciogliersi in Napoli, il secondo in Piemonte. Bisognava e bisognerà sempre avere una base all'insurrezione nazionale; e bisognava e bisognerà sempre impedire alla monarchia di Piemonte di prendere la direzione del moto e tradirlo. Quindi il moto di Genova» (a Medici e Bertani, 27 nov. '57).

196 Una lettera di Mazzini a Mordini, 1° agosto '56 («Dí a Pisacane che va aumentando il materiale in modo da imprendere non solamente sorprese, ma attacchi») sembra alludere a un viaggio di P. a Nizza in quel tempo: ché Mordini risulta, dall'indirizzo della lettera, residente appunto a Nizza in quei giorni. La cosa è possibile, per quanto strano sia che non ci consti anche da altre fonti; o forse l'indirizzo (scritto da Mazzini? o aggiunto, per chiarezza, dagli editori della lettera?) è sbagliato. Ma quel che escludo senz'altro è che P., nell'agosto, si recasse a Malta per conferir col Fabrizi, come sostiene il Menghini semplicemente perché, in una sua a Fabrizi, del 19 agosto, Mazzini allude a un C. che si reca appunto nell'isola. Menghini non ha dubbi nel risolvere C. in Carlo e Carlo in Pisacane; io ne ho moltissimi. Di più: foss'anche Pisacane costui, non potrebbe darsi che una gita progettata fosse poi andata a monte (come andò, l'anno di poi, quella di Londra)? Un viaggio a Malta non era una bazzecola allora, ed è impossibile ammettere che P. l'abbia compiuto senza lasciarne ricordo che in questo frettoloso accenno di Mazzini. Durante il suo soggiorno a Genova Mazzini lanciò la famosa sottoscrizione per i 10.000 fucili. Nella decima lista di sottoscrittori — pubblicata dall'Italia e Popolo, 21 nov. 1856 — figuran tra gli altri i nomi di P., Cosenz, Bertani ecc. Un primo malinteso fra Mazzini e Cosenz (primo d'una lunga serie) s'ebbe fin dal settembre '56 (MAZZINI, S.E.I., LVII, 107).

197 La Legione anglo-italiana era, si sa, un corpo di volontari che l'Inghilterra aveva reclutato in Piemonte nella seconda metà del '55 per la guerra d'Oriente. Fra gli emigrati più poveri, molti eran stati quelli che vi s'erano arruolati; ma i più, e i migliori (P. fra quelli), contrari a che forze italiane si allontanassero da un possibile teatro di guerra nostrano, non solo avean rifiutato di assumervi grado e stipendio, ma s'eran dati a contrastarne il reclutamento. Senonché era sorta nel frattempo in taluni l'idea di profittare della traversata che la legione avrebbe dovuto compiere da Genova a Malta per forzar l'equipaggio a sbarcarla in qualche punto della costa italiana, a dar fuoco alle polveri. Ma la partenza venne ritardata fino al marzo '56 (a guerra finita!) ed eseguita a scaglioni. Nel giugno, disciolta la legione in Malta, 700 uomini vennero diretti in Inghilterra: fu per l'appunto durante la traversata che il luogotenente Angherà, siciliano, vanamente e a suo danno incitò i compagni ad eseguire il progetto, sbarcando in Sicilia. (RAULICH, Giudizi di un esule, 462). Pisacane era stato informato del progetto dal Musolino, il quale accerta che P., mutata opinione, «non solo si fece ad incoraggiare il reclutamento anglo-italiano, ma dié opera a guadagnare ufiziali» (a Ricciardi, 11 luglio 1857). Nel che è assai probabilmente qualche esagerazione: non s'intenderebbe infatti perché mai P. non avrebbe cominciato, more solito, col dar l'esempio agli altri, arruolandosi per primo nella Legione. 154 L'Angherà, scampato al carcere della Vicaria di Napoli, era riparato (nel '50) a Genova, indi a Torino e Malta. P. lo conosceva di certo; nella Libera Parola, n. 6, sett. '56, il suo gesto sfortunato veniva ampiamente elogiato. Su di esso e sulle insistenze di Mazzini perché lo sbarco dei legionari si eseguisse in Toscana, v. Mazzini a Fabrizi, 12 agosto '56.

198 Le insistenze di P. verso Bertani si spiegan non solo con la vivissima stima che egli nutriva per lui; ma anche col fatto che in mano a B. erano i fondi destinati alla liberazione degli ergastolani... Panizzi scrisse decisamente al B. essere escluso di poterli utilizzare per altre e diverse imprese (MARIO, Bertani, I, 223).

199 La lettera a Bertani (di mano di P., ma firmata anche da Pilo) in MARIO, Bertani, I, 225-226. In essa era detto: «Il battello c'è». Si alludeva probabilmente al Ligure, piccolo piroscafo, che i fratelli Orlando avevano messo in un primo tempo a disposizione dell'impresa, da essi più tardi sconsigliata. Il Ligure era affidato al Kirckiner «il quale, intimo di P., alloggiava con lui» (ITALICO, 106. Sul K. cfr. anche PAOLUCCI, 212). Bertani, pur contrario alla spedizione e soprattutto al proposto moto di Genova, non escludeva che Garibaldi, se interpellato all'ultimo, alla vigilia della esecuzione, avrebbe finito coll'accettare di farne parte (MARIO, Bertani, I, 42).

200 Sulla popolarità di Garibaldi scriveva Mazzini (fonte non sospetta...): «Il nome di G. è onnipotente tra i Napoletani, dopo l'affare romano di Velletri. Voglio mandarlo in Sicilia, dove sono maturi per l'insurrezione e lo invocano come condottiero» (a Taylor, 16 febbr. 1854).

201 Musolino (a Ricciardi, 11 luglio 1857) accerta che nel '56 P. «conveniva completamente su queste mie vedute » (sulla necessità cioè di non dar corso alla spedizione se non nel caso che si fossero raccolti mezzi imponenti).

202 Anche Cadolini collaborava alla Libera Parola; ed è lui che attesta (Mem., 213) che P. fu il direttore del giornaletto. — Copie della Libera Parola (divenute rarissime) si trovano oggi negli archivi Cadolini e Mordini, nonché nella Biblioteca Nazionale di Firenze (legate insieme all'Italia e Popolo). — Sulla diffusione della L. P. in Lombardia, molti documenti si trovano appunto nell'Archivio Cadolini (Museo del Risorgimento, Milano): agente per la diffusione era Ernesto Cairoli; per la diffusione nell'Italia meridionale e centrale, oltre alle notizie contenute nell'Epistolario di Mazzini, in DE MONTE, in PALAMENGHI CRISPI, varie notizie si trovano in una lettera di Pilo a Fabrizi, 17 febbr. '57, che si conserva nell'Archivio garibaldino del Museo del Risorgimento in Milano, cartella 792. — Stampata dapprima in una tipografia regolare, la L. P. dovette poi tirarsi alla meglio in un locale offerto dagli Orlando nella loro officina. — La crisi finale della L. P. coincise con quella dell'Italia e Popolo che, per contrasti col tipografo Moretti, dové cessare le pubblicazioni, per riprenderle poi, indipendente, con il titolo leggermente modificato di Italia del Popolo. — Della L. P. uscirono in tutto, pare, 12 numeri (9 maggio '57, P. a Cadolini: «La L. P. è morta poi resuscitata, e poi credo, sotterrata per sempre»).

203 Le citazioni della L. P. riprodotte nel testo son ricavate in ispecie dai primi 6 numeri. Di articoli contro Murat ne comparvero parecchi nella L. P.; quello Murat e i Borboni era di P. (come l'altro su A. Milano). Fin dal 1° numero si leggeva in proposito: «Alla rivoluzione dunque intenda tutta la operosità dei patriotti delle Due Sicile. Solo in caso di invasione straniera soprasiedano; concorrano anzi a respingerla. Conseguita la vittoria ripiglino l'impresa contro la tirannide domestica».

204 Pisacane, Mazzini, Fanelli, Fabrizi seguivano con intenso interesse lo svolgersi della politica generale europea, attenti soprattutto alla Francia e all'Inghilterra. Il loro carteggio formicola di notizie, di induzioni, di profezie più o meno azzeccate sull'azione di Palmerston, di Clarendon, di Napoleone III ecc. Cercavano di regolare i loro movimenti in conformità: il minimo accenno a crisi europea li riempiva di speranze. Sulla fine del '56, ad es., si ebbe un ennesimo riacutizzarsi della questione svizzera (tensione fra l'Austria e la Svizzera). P., il 1° gennaio '57, scrisse all'amico Cosenz che, caso mai si arrivasse a guerra austro-svizzera, egli si sentiva di andare a combattere contro l'Austria con una legione italiana, a meno che «tutti facessero proponimento di farsi ammazzare individualmente, anche senza legione, per la povera Italia» (FALCO, 265).

205 A proposito degli armamenti di Murat, correva voce allora che egli avrebbe potuto disporre della disciolta legione polacco-ungherese e che avrebbe organizzato altresì una legione franco-italiana. — Per combatter Murat i mazziniani ricorrevano a tutti i mezzi (P. a Fabrizi, 11 marzo '57: «Cercheremo di stampare un proclama murattista, facendo la caricatura di quello che ci han spedito»).

206 Sono arcinote le simpatie che, dal 1811 in poi, la Sicilia antiborbonica nutrí per l'Inghilterra; ed è anche noto che, in fondo a ogni insurrezione antiborbonica in Sicilia, il governo napoletano credé poter ravvisare la segreta influenza della politica inglese. Il moto del Bentivegna non andò esente da tale sospetto, tanto più che, essendo interrotti i rapporti diplomatici con l'Inghilterra, le crociere navali inglesi intorno alla Sicilia, compiute all'incirca in quel tempo, non parevano a Napoli potersi spiegare senza reconditi motivi. Interessante a questo proposito una lettera di G. Bonomo, marchese di Castania, a lord Clarendon, da Londra, 27 febbraio 1857. Il B. sollecitava un passaporto per Genova, ma si diffondeva a ragionare delle «calde simpatie ormai sempre sentite dai Siciliani per la nazione Inglese», assicurando che proprio esse avevan dato luogo «in novembre 1856 a diverse vicende in taluni punti della Sicilia, ed in particolar modo vicino a Palermo», vicende cui egli stesso aveva preso parte. (Record Office, F. O., 70 | 292). — Il governo napoletano, per parte sua, favorí in quel tempo, specialmente in Sicilia, la diffusione di un opuscolo stampato a Genova che accusava di perfidia e di riposte mire la politica inglese nel Mediterraneo. Ne davan notizia, concordemente, il Console inglese a Palermo (Goodwin) a lord Clarendon, 3 gennaio '57; e il comandante la corvetta Wanderer all'ammiCarlo Pisacane nel Risorgimento italiano Nello Rosselli 155 ragliato in Malta, da Malta, 9 marzo '57 (Ivi, 70 | 291, 292). Si trattava probabilmente dell'opuscolo Situation politique de l'Angleterre et sa conduite machiavélique à l'égard des puissances éuropéennes et en particulier de la France (Gènes, 1856). Che i sospetti napoletani avessero, allora, qualche fondamento dimostra assai chiaramente un passo del dispaccio 13 gennaio '57 del suddetto Console Goodwin al Clarendon, nel quale egli prendeva atto della «approvazione » trasmessagli dal Clarendon «per non avere incoraggiato l'ultima rivolta in quest'isola!» (Ivi, 70 | 291). Dalla medesima fonte apprendeva il Clarendon che il governo napoletano più di una volta aveva segnalato alle dipendenti autorità in Sicilia il presunto arrivo di viaggiatori inglesi, incaricati di recar denaro e messaggi da parte di Mazzini ai rivoluzionari isolani (Ivi, dispacci 24 gennaio, 4 febbraio 1857).

207 Della riunione di Genova dette notizia il VISALLI, De Lieto, 38 sg.

208 Al lavoro compiuto in comune in questo periodo si riferisce probabilmente la letterina di P. al De Lieto, da Genova 7 febbraio '57 (con la quale gli fissava un appuntamento), che si conserva a Roma nel Museo d. Risorgimento. (Mss., Busta 175, n. 14).

209 La Libera Parola dedicò quasi un intero numero al resoconto del processo Bentivegna (P. a Fabrizi, 3 marzo 1857).

210 La stampa napoletana esaltò, in occasione dell'attentato, il sangue freddo dimostrato dal re; né sembra che avesse torto. Ma d'altra opinione era il Console inglese a Napoli, che nei suoi dispacci lo dipingeva come un codardo. «Si è tentato di fare del re un eroe — scriveva egli l'11 gennaio al suo Ministro degli Esteri —. Ma la verità è ben diversa. L'attentato del soldato Milano fu così improvviso e fallí così immediatamente, che il re non ebbe il tempo di spaventarsi; e come può chiamarsi un eroe, quando vediamo gente innocua arrestata nei caffè, un gran ballo rinviato sine-die, i teatri chiusi, l'illuminazione a gas sospesa», tutto ciò per ordine suo? (Record Off., F. O., 70 | 289).

211 Le ultime parole di A. Milano in DE CESARE, III, 65.

212 Falcone era stato compagno di Milano in collegio; si rividero poi a Napoli, dove ebbero frequenti riunioni politiche. Assai drammatica fu la fuga di Falcone da Napoli a Malta (DE CESARE, I, 204-207, 212 sg.).

213 Sulla Libera Parola e poi su L'Italia e Popolo, 11 gennaio '57, comparve un infiammato art. di esaltazione di Agesilao Milano rivelante, s'è detto, la penna di P. Stupiva, il Gropello, della freddezza dimostrata dal popolo napoletano di fronte al re dopo l'attentato (DE CESARE, III, 57). Abbondarono in Piemonte le pubblicazioni di carmi apologetici di Agesilao Milano (che la polizia fece mostra, in pochi casi, di sequestrare), furon coniate medaglie in suo onore, gran voga ebbero i suoi ritratti. L'Italia e Popolo, 19 gennaio '57, proclamava essere egli «il miglior figlio d'Italia». Una settimana prima, a Torino, gli emigrati siciliani avevano solennemente celebrato, in chiesa, un rito funebre in suffragio di Bentivegna.

214 Sicuramente doloso era stato, pel Console inglese a Napoli, lo scoppio del Carlo III. «Questa — egli scriveva al Clarendon il 6 gennaio '57 — è una situazione spaventosa, milord, che cagiona a tutti molta paura e ansietà»; e suggeriva che, a rinforzo del Malacca già ancorato a Napoli, vi s'inviasse altra nave da guerra, a protezione dei residenti inglesi. Il qual desiderio, avallato dal comandante il Malacca, venne prontamente soddisfatto, coll'invio, da Malta, dell'Osprey. (Record Office, F. O., 70 | 289, 292).

215 La lettera del cap. Farguliar (com. il Malacca) all'ammiraglio Stopford era del 14 gennaio '57. 216 Fu in occasione del processo Spinuzza che il Console inglese a Palermo mandò al suo governo gli atroci particolari sulla procedura giudiziaria borbonica, accludendo fra l'altro il disegno di quella «cuffia del silenzio» che, assicurava, era stata adoperata in istruttoria per estorcere confessioni. Donde grida di indignazione della stampa inglese, furiose smentite napoletane, risolute conferme del Console (rimaste, queste, naturalmente sepolte negli archivi inglesi, ché non si volle dir mai da che parte giungessero a Londra tali notizie). Record Office, F. O., 70 | 291, disp. 14 marzo, 8, 14 aprile, 5 maggio '57.

217 Rapporto del com. la corvetta Wanderer al suo ammiraglio (da Malta, 16 maggio '57) intorno al giro della Sicilia pur mo compiuto, con fermate nei vari porti per aver dai Consoli notizie sulla situazione. A Catania «circolava la voce che gran numero di rifugiati in armi stavano per sbarcare in qualche punto della costa in quei dintorni. Il governo, di conseguenza, sorvegliava accuratamente l'intera costiera sudoccidentale». E il Console inglese a Palermo (a Clarendon, 24 gennaio): il governo ha messo in guardia le autorità locali contro un temuto sbarco di fuorusciti da Genova e da Malta «sotto la vantata protezione di una forza straniera». (Record Off., F. O., 70 | 291. 292).

218 Il governo borbonico — era logica difesa — s'appigliava alla dimostrata futilità degli isolati tentativi rivoluzionari per magnificare, in una circolare diretta ai suoi rappresentanti all'estero (27 dicembre), la fondamentale tranquillità dello Stato e l'attaccamento della popolazione alla dinastia regnante.

219 L'opera del DE MONTE, non sempre esattissima e comunque incompleta, va integrata con gli scritti cit. di PALAMENGHI CRISPI.

220 La corrispondenza settaria si svolgeva, oltreché con la complicità dei consolati inglesi, con l'aiuto di camerieri di bordo dei vapori Genova-Napoli. Il sistema più usato per celare le lettere era quello di cacciarle tra la fodera e la sottofodera di certe spazzole, delle quali ci si serviva anche per scambiare la corrispondenza in provincia (Resoconto, cit., 74; Fanelli a P., 29 maggio '57). Né solo a trasmettere lettere si prestavano questi camerieri, né essi appartenevano solo a linee italiane. Difendendosi infatti dall'accusa, insinuata dalla polizia napoletana, che il Malacca avesse introdotto a Napoli armi e munizioni, il suo comandante scriveva all'ammiraglio Stopford, da Palermo, 5 marzo '57: «Il facente 156 funzione di Console inglese a Napoli mi ha informato... che il cameriere di un vapore mercantile inglese è stato arrestato mentre recava su di sé, nascoste, delle rivoltelle che la polizia ha sequestrate». (Record Office, F. O., 70 | 292).

221 Mazzini a Fanelli, 21 nov. '56, a proposito della eventuale costituzione, a rivoluzione avvenuta, di un governo insurrezionale; «Non tocca a me proporvi nomi; soltanto vi dico che tra i vostri a me noti da lungo Carlo Pisacane congiunge forse meglio d'ogni altro al coraggio, al patriottismo, all'onestà il concetto strategico della guerra nazionale. Se mai gli eventi mi portassero a rappresentare nel governo d'insurrezione un'altra provincia italiana che insorgerà, avrei in lui tutta fiducia».

222 Il 30 dic. '56 P. scrive a Fabrizi: «Ora, secondo me... è d'uopo tentare anche a costo di essere schiacciati». La calma conservata da P. in questo periodo è magnificamente documentata anche dalla lunga e meticolosa recensione che, sull'Italia del Popolo del 7 marzo '57, egli dedicava a uno scritto di VINCENZO ORSINI (Lettera di V. O. all'anonimo autore delle Memorie storico-critiche della rivoluzione avvenuta in Sicilia nel 1848). Come poteva, fra tanti e così gravi pensieri, addentrarsi nell'esame critico delle operazioni condotte dal governo e dall'esercito siciliani, nove anni innanzi? P. lodava assaissimo l'amico Orsini (antico compagno della Nunziatella) per quanto aveva compiuto in quel tempo, ritorcendo contro il La Farina le accuse di debolezza e peggio da questi rivoltegli (lo lodava altresì perché, «dopo aver sofferto, durante la rivoluzione, molte amare delusioni, e dopo dieci anni di esilio, egli professa i medesimi principii che allora professava, pregio grandissimo fra il continuo altalenare delle opinioni, oggi divenuto costume»). Tecnicamente e politicamente, l'articolo di P. era la logica continuazione e dell'altro pubblicato sette anni innanzi su L'Italia del Popolo, a Lugano, e della Guerra combattuta, laddove si occupava della Sicilia. Ma quel che importava a P. (e forse la sola ragione del suo scritto) si era la possibilità che tal recensione gli offriva di battere a palle infuocate ancora una volta contro la tesi lafariniana: la tesi secondo la quale la Sicilia non avrebbe avuto salute che in una rivoluzione compiuta nel nome del re di Sardegna: «È inutile dimostrare — egli scriveva — che il governo sardo non vuole né può abbandonare la colleganza dei potentati d'Europa e farsi il sostegno di una provincia in rivolta contro la legittimità ed il diritto divino, che sono i principî su cui esso governo è basato; questa verità è confermata dalla storia... Il governo sardo, se avvi sollevazione nelle provincie italiane sue limitrofe interverrà senza dubbio, ma interverrà per soffocare la rivoluzione, o padroneggiandola come fece in Lombardia nel '48, o combattendola a forza aperta, come tentò di fare in Toscana, e come fece a Genova, e come fa sempre ogni qual volta un tentativo minaccia di turbare la quiete in Italia, sperando così che le altre potenze lascino ingrandire i suoi possedimenti, in grazia dei servizi prestati alla causa dell'ordine. — L'11 aprile '57, nuovo scritto di P. sull'Italia del Popolo, per prender atto di qualche rettifica che Ignazio Calona aveva creduto di addurre alla narrazione militare di Orsini, e quindi anche alla sua recensione (sul Calona, v. il Dizionario del Risorgimento, cit.). Con questi due scritti si concludeva l'attività giornalistica di P.

223 Una conferma tipica del disgraziato carattere di Fanelli si ebbe assai più tardi, quando — legatosi egli nel '65 col rivoluzionario russo Bakunin — venne da questi incaricato di un importante giro di propaganda socialista in Ispagna. Le sue lettere di là sembrano calcate su quelle napoletane: perpetuamente dominato da una volontà più forte della sua, e nel contempo ribelle contro di essa, F. trovò dapprima il suo tormento in P., di poi nel Bakunin. Vittima sempre! (Sul viaggio in Ispagna, 1868, v. NETTLAU, 151).

224 Giusto è per altro osservare che alla radice di molti ondeggiamenti di Fanelli stavano le informazioni contraddittorie che gli pervenivano dalla provincia. Le lettere pubblicate da DE MONTE son più che bastevoli a dimostrare che se Fanelli non era al suo posto, ancor meno di lui lo erano i suoi immediati collaboratori. Come conciliare ad es. le infiammate dichiarazioni di un Nicola Albini, 6 marzo '57 («Siate certi che all'apparire degli ufficiali insorgeranno pure le gatte»), o di suo fratello Giacinto, 7 marzo («... Si è pronti, prontissimi a insorgere... il fuoco è celato e divamperà in modo sorprendente... »), col contegno tenuto poi alla prova dei fatti dai nuclei rivoluzionari da essi controllati?

225 Nel febbraio il disegno preferito era quello di far partire 20 uomini armati su di un vapore salpante da Londra; nelle acque di Pianosa esso avrebbe dovuto incontrarsi con una goletta proveniente da Genova, con a bordo altri 15 uomini e carico d'armi; indi proseguire per Ponza.

226 «Per la cooperazione io conto più sulla disposizione morale che sugli accordi — aveva già scritto P. a Fanelli, il 16 marzo. — Tutto ciò che mi verrà da voi sarà utilissimo, preziosissimo, ma il puro necessario v'è». — Si tenga presente che P. partiva sempre dalla premessa che il movimento nel napoletano non avrebbe dovuto essere che un episodio, sia pure essenziale, di un sistema insurrezionale pan-italiano. Genova e Livorno, si sa; ma anche si ricevevan grandi promesse dalla Sicilia e dalla Toscana (Lunigiana segnatamente).

227 P. ordinava a Fanelli di trovarsi a Sapri; ma Fabrizi lo consigliò invece di trattenersi fino all'ultimo a Napoli: chi altri che lui avrebbe potuto infiammare la popolazione napoletana quando fosse giunta notizia dell'avvenuto sbarco? (a F., 15 aprile).

228 Lo stesso 2 d'aprile Fanelli si sfoga in termini ancora più pietosi col Fabrizi.

229 Ancora nel gennaio '57 Mazzini nutriva dei dubbi sulla possibilità e l'utilità di agire nel sud: fu P. a travolgerli (Mazzini a P., 26 gennaio: «Amico, intendetemi bene: darei il sangue perché si facesse nel Sud, ma non voglio sprecare gli ultimi elementi che posso mettere in moto sull'incerto»).

230 Mazzini rincarava la dose con Fanelli sei giorni appresso («Le minorità non fanno rivoluzioni; le provocano: la minorità che provocò le giornate di marzo in Milano, se avesse esatto, prima della scintilla produttrice, cifra uguale all'impresa, non avrebbe tentato mai»). 157

231 Offeso da tanti rimproveri, rispondeva il 20 maggio F., fieramente vantando gli elogi in altri tempi prodigatigli da Mazzini come a uomo non certo indegno di assumere responsabilità.

232 Di P., nella lettera 24 maggio, Mazzini tracciava questo magnifico elogio: «Migliore uomo non potreste avere ad ispiratore: principio radicatissimo, assenza d'ambizione di potere, pericolosa nell'avvenire, concetto strategico della Guerra d'Insurrezione, energia nell'esecuzione. Troverete tutto in lui. Non posso abbastanza raccomandarlo a voi e ai vostri».

233 Sullo stato d'animo dei «costituzionali» napoletani, coi quali Fanelli allora si poneva in contatto, getta un fascio di luce il dispaccio del Console inglese a Napoli a lord Clarendon, 23 aprile '57, nel quale è il resoconto di un colloquio da lui avuto con uno dei loro capi. Questi ha dichiarato che la popolazione aspira a un governo costituzionale; che i fautori di Murat sono pochi, ma che se questi riuscisse a sbalzare il Borbone, il partito costituzionale lo appoggerebbe, pur di cambiare in meglio. I capi del movimento costituzionale «guardavano da tempo all'Inghilterra, nella speranza che qualche circostanza facesse trasparire le vedute del governo inglese rispetto al regime che esso preferirebbe veder stabilito a Napoli, e il partito desiderava quanto mai di regolare i propri movimenti in modo da incontrare i disegni del governo inglese, al quale naturalmente guardava come a governo costituzionale». Alle quali dichiarazioni il Console ha evasivamente risposto, trincerandosi dietro il carattere puramente commerciale (?!) della sua missione e concludendo nel senso che «non poteva offrire la sua opinione né incoraggiare o dissuadere il partito costituzionale dall'aderire a qualsiasi movimento di tendenza rivoluzionaria» (Rec. Off., F. O., 70 | 289). Il Clarendon, 30 aprile, sanzionava la condotta del suo saggio dipendente (Ivi, 70 | 288). — Ma se i rivoluzionari napoletani di tutte le sfumature cercavano contatti col governo inglese, non da meno si mostrava il governo napoletano, naturalmente in via non ufficiale. Il Bianchini, Direttore generale di polizia, venuto un giorno a discorrer di politica col Barbar, lo assicurava infatti che, quanto a lui, non risparmiava sforzi per indurre il re a volgersi verso l'Inghilterra, l'unico paese della cui amicizia ci si poteva fidare. L'Inghilterra si era lasciata trascinare da quel «parvenu» di Napoleone III alla contesa con Napoli, ma ormai cominciava ad accorgersi che la Francia perseguiva esclusivamente i suoi propri interessi. L'Inghilterra non voleva affatto la caduta dei Borbone, ma solo la supremazia nel Mediterraneo; era dunque sperabile che accettasse le aperture che il governo napoletano aveva di recente fatte a Londra. Il Barbar si limitò ad ascoltare e a prendere atto delle assicurazioni essere falso che Napoli fosse caduta sotto la tutela austriaca. (Ivi, 70 | 289).

234 Sulle intese per la falsa richiesta di lavoratori da Tunisi e per il nolo della goletta, v. P. a Fabrizi, 22 aprile '57. Nell'aprile '57, P. avrebbe dovuto fare una gita a Londra per perfezionare le intese; ma poi la cosa andò a monte (Mazzini alla Biggs, 19 aprile '57; DE MONTE, LIII).

235 Della decisione di eseguire lo sbarco a Sapri venne subito e misteriosamente a conoscenza la polizia napoletana. Deposizione Ajossa al processo della Gazzetta d'Italia (Firenze, 1876): «... nei primi giorni dell'aprile 1857, epoca in cui occupavo il posto d'Intendente della Provincia di Salerno, venne a trovarmi un individuo del quale non posso declinare il nome, manifestandomi che dal Comitato rivoluzionario di Napoli... si era progettato uno sbarco a Sapri». (Resoconto, 274).

236 L'autografo di questa lettera di P. è stata pubblicata, senza indicazioni di data o di destinatario, sul Risorgimento Italiano, 1914, 123-124. Ma che si tratti proprio della lettera a Pisani della fine di aprile '57 appare chiaro a chi la confronti col carteggio P.-Fanelli e colle circostanze a noi note riguardanti il fratello del Pisani relegato, Enrico, che prese poi parte alla prima spedizione mancata dell'8 giugno.

237 La prima lettera spedita dall'Agresti — che conteneva indicazioni topografiche su S. Stefano — venne poi rinvenuta sul cadavere di P. (Resoconto, 453).

238 Le informazioni date dall'Agresti il 20 maggio, e chi sa perché tenute in non cale, eran precisissime: «In Ponza vi sono pochissimi relegati politici... in Ventotene vi sono circa una cinquantina... In S. Stefano siamo tra condannati a' ferri ed all'ergastolo trenta, e circa 800 condannati comuni» (lettera pubblicata sul Ris. Ital., 1914, 779).

239 Che l'Agresti fosse stato persuaso dallo Spaventa a sconsigliare P. dall'impresa su S. Stefano asserisce NISCO, 367. Anche Settembrini dichiarò nettamente che non si sarebbe mosso dall'ergastolo in compagnia dei condannati comuni. (TORRACA, Settembrini. Notizie. Napoli, 1877, 45).

240 Cfr. in MAINERI, 397-403, le lettere di Cosenz a Pallavicino (1856) per ottenere contributi finanziari. Nel dicembre Pallavicino, pregato anche da Mordini e Varè, elargí 7000 lire per l'acquisto di fucili (Ivi, 249). Ma ad ulteriori pressioni — e alludendo a quanto, per incoraggiarlo, gli aveva scritto Cosenz, che l'Inghilterra cioè non vedesse di mal occhio l'impresa, — Pallavicino rispondeva: «Ma se l'Inghilterra è realmente disposta ad assistervi, come avviene che abbiate difetto del danaro occorrente ad iniziare l'impresa?... Io non ci vedo chiaro». Alla ricerca di fondi si dette anche, prima in Inghilterra e poi in Piemonte, la WHITE (In memoria di Nicotera, 4).

241 Le sdegnose espressioni di Mazzini sulla questione finanziaria in lettera a Mordini, 29 febbraio '57.

242 P. teneva talmente al segreto che, il 22 aprile, scriveva a Fabrizi: «Io poi protesto, che se a forza di voler preparare, si darà la sveglia al (Governo) e si comincerà a parlare della faccenda, siccome sono responsabile non di me stesso, ma di molti, che vengono per fiducia in me, avrò il coraggio di rifiutarmi».

243 Fino dall'8 agosto '56 l'Intendente di Genova scriveva al Ministro dell'Interno: «... Altri poi dicono con tutta certezza imminente un moto, ma questo verrebbe iniziato a Firenze, Livorno e Napoli, e si estenderebbe in tutta la Toscana e nei Ducati» (Archivio di Stato, Torino, Materie politiche interne in genere, mazzo 18). — Il 4 dicembre 158 Villamarina (Ambasciatore a Parigi) assicurava Cavour essere l'Imperatore informato di un imminente scoppio insurrezionale in Italia e particolarmente nel territorio sardo. — Il Console inglese a Palermo citava in un dispaccio a Clarendon 24 gennaio '57 il testo delle circolari spedite da Napoli alle autorità siciliane per porle in guardia contro sbarchi di fuorusciti (Rec. Off., F. O., 70 | 291). La citazione del Times in lettera di P. a Fanelli, 16 febbraio. — Il 4 febbraio il cit. Console a Palermo informava che «la polizia marittima ha ricevuto l'ordine di ricercare un tal Giorgio Glassford accusato di essere un emissario di Mazzini, mandato con denaro in Italia e in Sicilia a fini rivoluzionari. Questo personaggio non è apparso finora in nessun luogo dell'isola». (Rec. Off., F. O., 70 | 291).

244 Sulle informazioni del governo toscano, cfr. Monitore Toscano, Firenze, 11 maggio 1857.

245 La lettera di Fanelli 30 aprile era diretta a Mazzini; le stesse cose F. scriveva il 14 maggio a P.

246 Le informazioni dell'Intendente di Genova nell'Archivio di Torino, 1. c., mazzo 17. Era stato il Ministro Rattazzi che il 18 di maggio aveva messo in guardia l'Intendente contro possibili trame dei mazziniani. (CHIALA, II, CCXXV). Questi comunque assicurava che le spedizioni di armi «se si dovesse prestare fede alle dichiarazioni fatte in dogana, tutte sarebbero seguite per Tunisi».

247 Il 13 giugno l'Intendente di Salerno assicurava le superiori autorità d'aver già dato tutte le disposizioni opportune (Archivio di Stato, Napoli, Ministero di polizia, fascio 551).

248 Nel suo dispaccio 10 giugno, l'Intendente di Genova precisava che sul Cagliari in partenza per Tunisi sarebbero stati imbarcati 75 fucili, 250 canne da fucile, 128 platine. Nello stesso dispaccio affermava non sussistergli che fossero state spedite delle casse sospette a Capraia. Questa informazione era stata richiesta dall'Incaricato d'affari toscano a Torino, cui il Ministro Lenzoni aveva scritto «che un tal Cuneo, di Genova, si è impegnato a depositare casse di carabine in Capraia, a disposizione del Comitato rivoluzionario di Genova. Queste casse sarebbero dichiarate come contenenti lastre di piombo» (Archivio di Stato, Torino, 1. c., mazzo 17).

249 Sul contegno ambiguo del governo piemontese di fronte ai rivoluzionari disposti ad agire nel resto d'Italia, cfr. lettera di Mazzini a Pallavicino, 2 agosto '56. Il governo lasciava o prometteva di lasciar mano libera soprattutto in Toscana, ché se vi fossero scoppiati movimenti insurrezionali si sarebbe potuto invocare il principio del non intervento. Altre notizie sul «contatto indiretto» fra Mazzini e il Ministero sardo in quel tempo, in lettera a Taylor, 8 agosto. Sulla politica che «a molti fa l'effetto di essere a doppio fondo» del gabinetto torinese, cfr. D'Azeglío a Sforza Cesarini, 2 gennaio '58 (CHIALA, II, CCXLV). Sul contegno di Rattazzi, Ministro dell'Interno, nella crisi del giugno-luglio 1857 e sulle accuse che da molte parti gli piovvero d'aver chiuso consapevolmente gli occhi sulle trame mazziniane, salvo a reprimerle poi quando irrimediabilmente fallite, cfr., oltre alle sue biografie e ai suoi discorsi parlamentari, CHIALA, II, CCXXV, CCXXXII.

Capitolo X.

250 Del clandestino traffico d'armi, che continuava, così dava notizia, il 2 giugno, l'Inviato inglese a Torino (Hudson) a lord Clarendon: «È giunto a mia cognizione che casse di moschetti si stanno trasportando da Marsiglia a Torino via Genova, e che vi è ragione di credere che queste casse, le quali a Genova vengono trasbordate ostensibilmente per Tunisi, siano in realtà spedite a qualche Stato dell'Italia meridionale. I moschetti, mi si assicura, non sono di buona qualità né si trovano in condizioni troppo buone» (Rec. Off., F.O., 67 | 226).

251 Le notizie sui «semi di Calabria» in lettera al mazziniano Bellazzi, che si conserva (inedita, credo) nella cartella Pisacane del Museo del Risorg. in Milano (n. 12707 | 25). La chiave della formola convenzionale nel carteggio P.-Fanelli, passim.

252 È FALCO, 268, che precisa, in base a documenti di polizia, l'indirizzo di P.; Danèri invece (PAOLUCCI, 1. c.) asserisce che P. abitava allora in via Edera.

253 Il racconto del Giannelli (che era reduce allora dalla relegazione scontata nel castello d'Ivrea) nel suo vol. Cenni autobiografici. Milano, 1925.

254 Hudson a Clarendon, Torino, 19 maggio 1857: Cavour lo ha informato «che una miss White la quale si è recentemente acquistata notorietà in Inghilterra per la sua calorosa propaganda delle dottrine repubblicane applicate all'Italia, è giunta a Genova, munita di calde raccomandazioni di Saffi, Mazzini e altri di quel partito; e che le teste calde, aderenti all'Italia del Popolo, hanno organizzato in suo onore una dimostrazione, durante la quale sono state emesse grida sediziose. Mettendomi al corrente di tali circostanze, il conte Cavour ha aggiunto che il Governo non vuole attribuire soverchia importanza al comportamento di questi sconsigliati; ma io ritengo mio dovere di richiamare l'attenzione di V. S. su quanto sta accadendo, per il caso che ciò provochi commenti in Austria o altrove, e altresì perché non è improbabile che la condotta di miss White finisca con l'obbligare il Governo Sardo a richiedere la sua partenza dal Regno» (Rec. Off., F. O., 67 | 226).

255 Hudson a Clarendon, 10 luglio 1857: Sulla fine di giugno Mazzini «andò a visitare miss White... che viveva in una pensione; in questa pensione si discuteva così apertamente e così rumorosamente di progetti rivoluzionari che un piemontese, alloggiato in una camera adiacente a quella di miss White, udendo di che si trattava, nonché grida di viva la repubblica, picchiò all'uscio e gridò viva il re» (Rec. Off., F. O., 70 | 293). Altro episodio venne narrato dal Times, 9 luglio 1857: giunta la W. a Genova, una Società operaia volle eseguire in suo onore, una notte di pioggia, una serenata sotto le sue finestre. Per il che, esprimendo la W. la sua gratitudine e complimenti per la perseveranza degli esecutori, 159 «finí col dire che avrebbero fatto assai meglio, secondo lei, ad andarsene a casa per prepararsi a combattere per la loro libertà».

256 La lettera di Garibaldi venne dalla Mario (Vita di Garibaldi, I, 149) erroneamente attribuita al febbraio '56. L'errore venne corretto nel vol. postumo Birth of modern Italy, 139-40.

257 La White si era presentata ai P. munita d'una lettera di presentazione di Emilia Hawkes, in data 13 maggio (in parte pubblicata, ma con datazione inesatta, da FALCO, 268). La lettera prova i rapporti fraternamente amichevoli che correvano fra Enrichetta ed Emilia. Ferme dichiarazioni filo-piemontesi aveva fatto Garibaldi, nel marzo, a P. in persona (Mazzini alla White, marzo 1857). P. e Nicotera si erano conosciuti a Roma, nel '49 (MARIO, In memoria, 3). Sul convegno di Torino, cfr Resoconto, 347, 357; CASANOVA, Sulla preparazione, cit., 511-513.

258 Sullo scorcio del '56, Nicotera — su mandato generico di Cavour — si era preparato a compiere un viaggio di... esplorazione in Sicilia, poi andato a monte in séguito al fallimento del moto Bentivegna. — Da una lettera della White alla Biggs, stampata da FALCO, 283, nasce ora il sospetto che anche l'adesione di Nicotera al piano di P. fosse stata in qualche modo consigliata o autorizzata da Cavour. Scriveva infatti la W. (sdegnata pel contegno del governo sardo dopo la catastrofe di Sapri): «Chi potrebbe mai imaginarsi che quelle stesse Autorità, che diedero un compagno all'eroe che partí per morire per l'Italia, ordinino...» ecc. È desiderabile che ulteriori ricerche fra le carte di Cavour, o meglio di La Farina, chiariscano la questione, finora assai oscura, e di superlativo interesse.

259 La lettera di Nicotera a Garibaldi, del 1864, pubblicata da CASANOVA, dà notizie precise sull'incontro P: Garibaldi, a Genova, nel giugno '57. Nicotera aggiungeva che P. era tornato così entusiasta dalla sua gita a Napoli (v. nel testo, a pag. 272 sg.) da vincere «tutte le opposizioni che voi (Garibaldi) facevate per far precedere il tentativo di Genova alla spedizione». Garibaldi fautore dell'insurrezione genovese? Ecco qualcosa di assolutamente nuovo, smentito da tutte le altre fonti.

260 Cfr. le correzioni di Mazzini al proclama pisacaniano in PALAMENGHI CRISPI. 261 L'accenno a Dio e Popolo suonava così: la rivoluzione si farà «non per passare da un padrone a un altro, ma per non avere padroni fuorché Dio in cielo e il Popolo sulla terra».

262 Sul convegno di Genova, BILOTTI, 127 sg.; PUPINO-CARBONELLI, 135. Nell'inviare per l'appunto il Falcone a Genova con la missione di ispirare prudenza a P. e Mazzini, Fabrizi rivelava invero ben povere doti di penetrazione psicologica! Ché più ardente e generoso giovane non era facile trovare. Del resto le ultime parole che, nel salpare da Malta, Falcone gli aveva rivolte, avevano procurato al Fabrizi (lo raccontò lui stesso) un triste presentimento: non gli aveva infatti detto il Falcone che avrebbe sì ottemperato all'incarico, ma «avendo luogo l'impresa in qualsiasi momento, vi si sarebbe gettato con tutta gioia»?

263 Sulle opinioni di Saffi, v. i suoi Cenni ecc. a proemio del vol. IX degli Scritti di Mazzini, ed. Daelli, CXXXV-VI; su quelle di Crispi, le sue Lettere dall'esilio; su quelle di Musolino, la cit. sua lettera a Ricciardi, 11 luglio '57; su quelle di Bertani, MARIO, I, 242.

264 P. insisté moltissimo anche sul pericolo murattista che, a suo avviso, prendeva corpo ogni giorno di più (cfr. la deposizione Fabrizi al processo di Firenze, in Resoconto).

265 Si scelse la data del 10 di giugno posto che i vapori per Cagliari-Tunisi partivano da Genova il 10 e il 25 di tutti i mesi.

266 I particolari sulla navigazione della goletta da lettera di P. ad Agresti, 16 giugno '57 e da un memoriale di Pilo pubblicato da PAOLUCCI. Danèri invece narrò le cose altrimenti; ma egli non era fra i compagni di Pilo, e d'altronde le sue asserzioni vanno sempre accolte con ampio beneficio d'inventario (specie laddove si riferiscono all'opera da lui personalmente prestata).

267 Sul contegno di Cosenz, cfr. la severissima lettera di Mazzini alla Hawkes, 30 nov. '57; e anche Pilo a Fabrizi, 16 giugno '57, e P. a Fanelli, 9 giugno. FALCO (270-71) argomenta che a Cosenz fu facile ritirarsi dall'impresa perché non lo si era mai tenuto troppo al corrente. Orbene, se è vero che il 1° aprile P. aveva scritto a Fanelli che C. «non vuol saper nulla, dice che le cose prese a lungo non riescono, vuol saperlo solo al momento del fatto», è anche vero che, il giorno precedente, lo aveva esplicitamente assicurato che C. avrebbe partecipato alla spedizione (così anche a Fabrizi, 21 aprile; e Fanelli a Fabrizi, 28 maggio). La lettera P. a Cosenz, 17 maggio, che qui si pubblica, elimina d'altronde ogni incertezza in proposito. C. era più che informato e si era solennemente impegnato a partire. Strano, comunque, che con la prospettiva imminente di doversi recare a dirigere l'insurrezione napoletana, C. non si fosse curato di stabilire rapporti diretti con gli uomini del Comitato di Napoli!

268 SAFFI, l. c., CXXXVII sg., riporta le parole da P. rivolte, l'8 di giugno, ai suoi seguaci, ricavandole da una memoria inedita di Giovanni Gagliani, milanese, un di costoro.

269 Sul temperamento nervoso di Pilo (malato anche di convulsioni) v. ROMANO-CATANIA, Del Risorgimento d'Italia, Roma, 1913, 92; MARIO, In memoria, 9.

270 La lettera di Mazzini 10 giugno '57, che non vedo riprodotta nella Edizione nazionale, in Resoconto, 568- 69. Era indirizzata a C. F. (Campanella?), e venne sequestrata alla posta di Parigi.

271 Le parole di Enrichetta in PAOLUCCI, 216-17, il quale sfrutta appunti di Pilo.

272 Il passaporto usato da P. era quello stesso che si era preparato per Cosenz, intestato a Francesco Danèri. 160 Qualche informazione sul viaggio di P. giunse, è vero, alla polizia napoletana; ma troppo imprecisa. Scriveva infatti il Carafa (Incaricato del portafoglio degli esteri) al Direttore di polizia, il 15 giugno: «Mi si assicura... esser partito per Cagliari il noto Carlo Pisacani» (sic). (Archivio di Stato, Napoli, Min. di Polizia, f. 551). La polizia non si curò di indagare. Sí che non solo ignorò allora la presenza di P. in Napoli, ma ostinatamente continuò a smentire che egli vi si fosse recato, anche quando, all'indomani di Sapri, venne richiesta di spiegazioni in proposito dall'autorità giudiziaria. In un suo rapporto 11 dicembre '57 il Procur. gener. Pacifico scriveva infatti: «Quantunque la Polizia di Napoli sostenga che il P. non sia stato in Napoli poco prima di effettuare l'insensata spedizione, pure non è del pari ciò chiaro per l'istruzione» (Resoconto, 663). — Il Carafa, oltre alla notizia sulla partenza di P. aveva comunicato alla Polizia altre informazioni sull'imbarco di armi compiuto dal Cagliari, con dichiarazione per Tunisi, osservando che «trovandosi tra le armi un numero non indifferente di tromboni, arma inusitata fra gli arabi, conviene dedurne, che abbia un tal fatto uno scopo rivoluzionario» (l. c., lettere 15 e 20 giugno 1857).

273 Che P. ricorresse, per sottrarsi alle grinfie della polizia, a qualche travestimento, è abbastanza probabile; ma certo non si tagliò la barba né si travesti da prete come pretesero Catapano e Venturini, due imputati al processo di Salerno, che svesciarono al giudice quel che sapevano e anche quel che non sapevano (Archivio di Stato, Napoli, Min. di Polizia, f. 551: Rapporto telegrafico dell'Intendente di Salerno al Dir. di polizia, 4 luglio 1857), e poi Danèri (RONDINI, 166) e COMANDINI, L'Italia nei Cento anni ecc., ad diem. Ché con la sua barba solita partí da Genova pochi giorni appresso, e a Napoli giunse qualificandosi «Francesco Danèri, genovese, causidico» come si rileva dal Giornale del Regno delle Due Sicilie, Napoli, 20 giugno 1857 (arrivi di venerdí 12 giugno).

274 Niente di grave accadde nel regno di Napoli il 13 giugno per la ragione assai semplice che gli elementi rivoluzionari della provincia erano ben decisi a non muoversi se non dopo aver ricevuto notizia di movimenti già scoppiati e affermatisi altrove. Ciascuno si proponeva di seguire l'iniziativa altrui, nessuno di assumerla! Tipico, a questo proposito, quel che scriveva Magnone a Fanelli, 6 giugno: «Salerno non vuol muoversi se non vede prima rivoluzionato il regno intero e disfatto interamente il tiranno». E da questo punto di vista tutte le città e i paesi del regno si chiamavan Salerno!

275 Sui contatti tra Fanelli e i «trattenitori» (gli elementi più moderati) cfr. la sua lettera a Fabrizi, 12 giugno '57.

276 Era la casa di Dragone, tutta fori e nascondigli, che custodiva l'archivio del Comitato.

277 Secondo il Times, 8 luglio '57, P., nella sua visita a Napoli, si sarebbe procurata perfino «l'opportunità di esaminare l'arsenale».

278 La data di partenza di P. da Napoli (fin qui precisata nel 17 o nel 18 di giugno) si ricava dal cit. Giornale del Regno delle Due Sicilie, 25 giugno 1857. Le autorità sarde non vennero a conoscenza del viaggio di P. che dopo il disastro. Hudson, informato da Cavour, scriveva a Clarendon il 10 di luglio che «il colonnello Pizza Cane (sic)... aveva visitato due volte, recentemente, gli Stati Napoletani» (Rec. Off., F. O., 70 | 293). La versione, infondata, della duplice visita venne più tardi ripetuta da FOSCHINI, op. cit., 38.

279 Non mi si giudichi pedante se, a tranquillizzare il lettore più scrupoloso, assicuro di aver ricavato la notizia del tempo bello regnante a Napoli il 16 giugno dal Bollettino meteorologico, stampato sul Giornale del Regno delle Due Sicilie, 25 giugno 1857!

280 Scriveva Fanelli a P., 26 marzo '57: «La mia posizione di latitante non mi permette tutto quello che vorrei. Non so se potrò giungere sino a vostro fratello, ma cercherò».

281 Alle nuove possibilità presentatesi ai rivoluzionari di Genova la sera del 9 di giugno accenna Pilo (a Fabrizi, 16 giugno '57).

282 Il governo piemontese era stato ripetutamente ammonito da quello francese di stare in guardia contro un'imminente insurrezione che sarebbe scoppiata a Genova; da Torino si era risposto che si era pronti a tutto e che la polizia di Genova vegliava. Ma se vien voglia di dire che questa chiuse un occhio sui preparativi dell'insurrezione locale, forza è concludere che li chiuse tutti e due sui preparativi della spedizione. Proprio il 10 giugno '57, ad es., l'Intendente di Genova tranquillizzava il Ministro dell'Interno così: «lo scrivente si pregia di partecipare... non apparire alcun indizio che vogliasi qui tentare qualche movimento insurrezionale, né, da indagini fatte, risulta che Mazzini sia nascosto in Genova». (Archivio di Stato, Torino, Materie politiche interne in genere, m. 17). E il governo francese seguitava a sequestrare lettere di Mazzini da Genova! (Resoconto, 460). Non del tutto immeritata giunse a Cavour, dunque, all'indomani di Sapri, l'aspra nota napoletana, rinfacciante all'indignato conte gli avvenimenti «che avrebbero certamente potuto evitarsi con tenersi conto dei noti preparativi che li hanno preceduti, come conviene ai governi che vogliono mantenersi all'altezza della loro propria dignità e posizione». Cavour, si sa, respinse la nota.

283 È impressionante osservare quante persone più o meno amiche di P. attestino di averlo dissuaso dall'impresa, della quale, dunque, avevan contezza. D'AYALA (Mem., 235) «adoperò tutti gli argomenti che seppe per sconsigliarla »; Macchi lo stesso; Bertani, si sa (è vero che poi, avvenuto il disastro, riconobbe nell'animoso P. «il prode dei prodi»: cfr. I Cacciatori delle Alpi nel 1859, in Il Politecnico, 1860, 291); Musolino, Cadolini, Calvino, idem; Sprovieri scriveva a Fabrizi il 4 agosto '57: «De Dominicis, Mazziotti, Carducci ed altri, fin dal primo momento che seppimo essersi scelto Sapri per luogo di sbarco, dubitammo dell'esito dell'impresa e ognuno può attestarvi che prima dell'esito 161 noi facemmo questi discorsi» (MAZZIOTTI, 361, 362). Perfino Guerrazzi era informato dei disegni sulla Toscana e su Napoli (lettera 8 giugno '57 al Mangini).

284 Le parole della MARIO nel suo In Memoria di Nicotera, 6-7. — Tornato da Napoli — scriveva a Bertani e ad altri il Mazzini il 27 nov. '57 — P. «mi scongiurò di rifare pel 25». — La versione di Nicotera nella cit. lettera a Garibaldi del 1864; un po' diversamente egli si era espresso nei suoi interrogatori di Salerno, è vero, ma unicamente per motivi di difesa.

285 Sullo stato d'animo di P. di ritorno da Napoli, v. anche SAFFI, l. c.; S. attinse a una relazione di G. Profumo, testimone oculare.

286 In una lettera del 20 luglio '73, Musolino asserí, quanto alla spedizione di Sapri, «che non solamente Mazzini la sconsigliò aspramente, ma che fu P. che volle eseguirla ad ogni costo, ed in questa occasione la ruppe con Mazzini » (RAULICH, 458). Esagerazione, né più né meno che l'altra diceria riportata, già l'8 luglio '57, dalla torinese Gazzetta del Popolo, secondo la quale il colonnello P. era niente affatto d'accordo con Mazzini a proposito del tentativo su Genova... P. glie ne lasciò l'intiera responsabilità, senza romperla con lui perché aveva bisogno di ottenere alcuni uomini, fucili e danari per il suo tentativo su Napoli».

287 Il racconto di Danèri, infarcito d'inesattezze, in RONDINI.

288 P. non disponeva che di pochissimi appunti e schizzi pseudo topografici, poi repertati sul suo cadavere: tra di essi una «pianta delle Isole di Napoli», e «un pezzo di carta che contiene notizie riguardanti il porto di Ponza» (Resoconto, 722). In più, un Prospetto delle operazioni a farsi nello sbarco di Sapri (LACAVA, 213-14).

289 La pubblicazione del Testamento di P. — comparso la prima volta nel Journal des Débats, luglio '57, e poi in traduzione nei giornali piemontesi e in quelli inglesi — sollevò grande scalpore. I più, anche tra gli amici di P., ne deplorarono il tono; e la White, alla quale ne venne attribuita la prima pubblicazione, buscò generali rimproveri (BERTANI, I, 245). Cavour, che negli avvenimenti del '57 vide l'occasione opportuna per screditare definitivamente il mazzinianismo in Italia, accolse invece il Testamento quasi con gioia (Nuove lettere, ed. Mayor, 550); e il Boldoni insinuava addirittura che il governo piemontese avesse procurata la maggior possibile diffusione del Testamento; certo, aggiungeva, esso ha prodotto «cattiva impressione sul pubblico» (MARIO, Bertani, I, 246). «Un'assai sinistra impressione », precisava Macchi, a Cattaneo, 1° agosto '57. La clericale Armonia non si lasciò naturalmente sfuggir l'occasione per stillare un Avviso ai proprietari (già cit.), nel quale, more solito, i radicali principii pisacaniani venivano estesi a tutto il movimento liberale italiano, con imaginabili deduzioni... Il Morning Post — pubblicandolo in parte il 24 di luglio — così lo commentava: «L'insieme di questo documento è caratterizzato da uno sforzo di esaltata logica, che dimostra come il pover'uomo fosse travagliato da un eccitato stato mentale, e insieme comprova l'odio profondo nutrito da tutti i cospiratori e i radicali verso il governo piemontese». Il Times, 28 luglio, offriva ai suoi lettori il Testamento qual «prova di che sia capace un rivoluzionario integrale... Per noi inglesi è quanto mai sorprendente vedere energia, coraggio indomabile, e ferma tenacia di propositi basata su sogni nei quali a fatica imaginiamo che alcuno possa credere sul serio». Al Times pareva incredibile addirittura come gli «ultra» di tutta Europa potessero considerare male abominevole tutto ciò che valeva a render la gran massa rassegnata al proprio stato e aliena dalle rivoluzioni, inconcepibile che per siffatte teoriche si potesse trovare alcuno disposto a giocare la vita. — Del resto, ancor prima che il Testamento vedesse la luce, venne da taluni insinuato che quella catena di moti insurrezionali avesse carattere e finalità socialisti. Il Cittadino, Asti, 7 luglio, scriveva ad es. aver Mazzini lavorato «coll'aiuto della Marianna... si voleva la distruzione, ed il saccheggio per odio alle famiglie agiate»; e il Cattolico, Genova, ascriveva il moto genovese alla «rapacità socialista».

290 La lettera di Falcone (a Vincenzo Sprovieri, 24 giugno) in BILOTTI, 422.

291 I due Poggi lasciavan la madre, coraggiosa donna, che assisté poi al processo di Salerno e rese preziosi servizi ai vari coimputati (Resoconto, 176).

292 Degli umili seguaci di P., v. notizie e nomi in BILOTTI; Resoconto, passim; SAFFI, l. c., CXXXVIII; MORANDO, Mazziniani e garibaldini, Genova, 1931; GIANGIACOMI, Anconitani precursori dei Mille, Ancona, 1910.

293 Per robustezza di stile, per virile concitazione, per le doti tutte di questo magnifico scritto, inclinerei ad attribuire a Mazzini la paternità della dichiarazione Ai fratelli d'Italia.

294 Di Lerici eran molti dei marinai seguaci di P. Significativo perciò quel che il 6 novembre '57 scriveva il Comandante dei Carabinieri reali, da Torino, al Ministro dell'Interno, essersi trovato, cioè, il giorno d'Ognissanti, affisso sulle cantonate di Lerici il seguente stampato: «Non di lagrime — Ma di virili propositi — Oggi la memoria dei prodi — Che per la Italia morirono — Reverenti onoriamo — A. Milano, B. Bentivegna, C. Pisacane — Fortissimi — Aspettano vendetta — Per la patria e per sé — Per le ossa dei martiri — Seminate sulla terra — Che nostra lo straniero — Ci toglie giuriamo — Trucidare i tiranni» (Archivio di Stato, Torino, Materie pol. interne in genere, m. 17). Alcuni fra i componenti della spedizione da Genova, superstiti di Sanza, usciti nel '60 dalla galera, combatteron poi con Garibaldi: e tre restaron feriti, due vennero uccisi! (MARIO, Camicia rossa, 15 sg.).

295 Il fratello di Rosolino: Ignazio Pilo.

296 Le lettere di Rosetta in LABATE, op. cit.

297 Il 2 febbraio '61, ad es., la Nicotera, in veste di promotrice della sottoscrizione per Roma e Venezia, scriveva, con altre Signore, a Garibaldi, una lettera che si conserva a Milano, Museo del Ris., Archivio garibaldino, c. 554. 162

298 Lo stesso 24 di giugno — alla presenza di Lorenzo Montemayor, Pasquale Mileti e Federico Salomone — P. faceva dono di tutti i suoi libri a Enrichetta «perché dovendo partire per la Sardegna faceva cento di non più ritornare in Genova» (FALCO, 279).

299 Dell'intenzione di Enrichetta di occuparsi delle ambulanze si ha notizia da una Memoria del Colonnello dei Carabinieri, Arnulfi, al Giud. Istruttore di Genova, 6 luglio 1857 (Genova, Museo del Risorgimento).

300 Secondo il Danèri l'estremo saluto di P. a Enrichetta avrebbe contenuto anche un accenno alla scena piuttosto violenta dell'ultima notte (quella dal 24 al 25 di giugno), durante la quale essa avrebbe investito P. dicendogli che aveva sì il diritto di ammazzarsi, ma non quello di sacrificar tanti giovani. Che tale fosse il pensiero di Enrichetta, sappiamo di già; che fra i due nascesse in proposito una scena violenta, escludiamo. Preferiamo credere alle altre fonti concordi, che ci dipingono Enrichetta degna fino all'ultimo istante dell'ardimentoso sacrificio del suo compagno, piuttosto che a questo loquace miles gloriosus, non d'altro sollecito, nel suo racconto, che di attenuare a suo pro il merito dei suoi compagni di spedizione, o di spargere pettegolezzi sul conto loro.

Capitolo XI.

301 Sull'ora della partenza del Cagliari, qualche discordanza. Ma dovette aver luogo poco innanzi alle sette pom., come si rileva dalle deposizioni dell'equipaggio, rese a Genova nel '58, e dal Ministro sardo di Grazia e Giustizia trasmesse all'Hudson (Rec. Off., F. O., 167 | 100).

302 Dalla Gazzetta del Popolo, Torino, 2 luglio '57: «poco prima della partenza si presentarono trenta passeggeri, non dello Stato, e che parevano formare una sola compagnia»; ma la Gazzetta dà questa notizia quando si è già diffusa la voce dello sbarco a Sapri. La lista dei passeggeri del Cagliari, 25 giugno, nell'Archivio di Stato, Torino, Mat. pol. int. in gen., m. 17).

303 Il testo del biglietto della White in Resoconto, 236. Nicotera, nell'interrogatorio 8 agosto '57, dichiarò che la W. lo aveva scritto «perché si era fatto credere che (il macchinista)... lungi dal condiscendere, avrebbe fatto saltare in aria il vapore» (Ivi, 589).

304 Il biglietto di Mazzini è stato pubblicato dalla WHITE MARIO (In memoria, ecc., 9). Ma la ristampa, pubblicata adesso di su l'autografo nell'Ed. Naz. degli Scritti di Mazzini, offre — se ce ne fosse bisogno — nuova conferma della disinvoltura con cui essa dava alla luce i preziosi documenti storici da lei posseduti.

305 Rosetta a Pilo, 25 giugno '57: «La notte scorsa... sentii che faceva un vento fortissimo». Secondo VENOSTA, invece, il mancato incontro sarebbe stato motivato da una fitta nebbia (81).

306 Gazzetta del Popolo, 8 luglio '57: «A Portofino, punto dove si fanno molti contrabbandi, i doganieri hanno sequestrato diverse casse di fucili».

307 Pilo non si rimise più da quel colpo: ne fanno fede le sue lettere, documento, da allora in poi, di un'anima travagliata da una incontenibile angoscia. La sensazione d'aver suo malgrado danneggiato la causa di P. e contribuito alla sua perdita, gl'infusero una disperata volontà di agire e di sacrificarsi per lo stesso ideale: non eran passati tre anni che, precedendo i Mille, egli cadeva eroicamente in Sicilia.

308 Anche sull'ora dell'ammutinamento sul Cagliari, qualche discordanza: ma ebbe luogo poco innanzi alle nove pom., come si rileva dalle deposizioni, cit., dell'equipaggio del Cagliari (Rec. Off., 1. c.).

309 Badino, fuochista del Cagliari, depose (l. c.) che i rivoltosi eran vestiti «con berretto rosso e camicia rossa»; lo confermarono Travi e Boffa, camerieri di bordo. Questa circostanza, unita all'altra, fantastica, ma ampiamente diffusa nella stampa del tempo, che il Cagliari cioè battesse bandiera rossa, impressionò sinistramente gli stessi ambienti liberali in Italia e fuori d'Italia. Bandiera rossa è simbolo «di socialismo», notava severo il Morning post, 7 luglio, «e queste non sono le misure gentili che ci vogliono per attirare a confederazione il popolo italiano». I governi italiani possono essere reazionari e corrotti, «ma quando si pensa a rovesciarli a mezzo di pirateria e proclamando comunismo e repubblica rossa..., gl'italiani, per quanto mal governati, preferiranno tenersi i guai attuali piuttosto che precipitare verso altri ignoti». E l'8 luglio (alla bandiera rossa accostando il Testamento di P.): «tale è il terrore del socialismo e dell'anarchia che perfino negli Stati continentali del re Siciliano, la gente è piuttosto disposta a sopportare la tirannia di un solo che quella di molti. Sono ben pochi, o non esistono affatto, i partigiani... del comunismo tanto a Napoli che in Sicilia».

310 I marinai del Cagliari deposero tutti di essere stati minacciati colla pistola alla mano, di essere stati tenuti, nel resto del viaggio, quali prigionieri, di esser stati costretti a far tutto quello che i rivoltosi ordinavano, compreso il gridare «viva la repubblica, viva l'Italia». Uno di essi, durante l'ammutinamento, prese tanta paura che avrebbe voluto gettarsi in mare! (Rec. Off., l. c.). Falcone (pratico d'inglese) s'incaricò di consegnare il famoso biglietto ai macchinisti inglesi. Deposizione Badino: il capo macchinista venne minacciato «che se le macchine si fossero guastate gli andava la vita»; ond'è che egli lo vide «rallentare alquanto la forza alle macchine per tema che prendendo qualche disastro, non si credesse fatto a bella posta, ed effettuassero le loro promesse quei rivoltosi». Un altro fuochista fece osservare che la macchina era vecchia e si era già più volte guastata...

311 Carlo Noce, da Genova, di anni 34, era il cuoco di bordo. La sua dep. nel Rec. Off., 1. c.

312 Qualche differenza fra RONDINI e BILOTTI nel precisare il numero e i nomi dei firmatari della Dichiarazione. Alcuni di costoro deposero poi di aver firmato senza leggere... (Resoconto, 522). 163 Secondo la deposizione del fuochista Rebora, avendo P. riunito l'equipaggio del Cagliari «che mostravasi poco affezionato a quel loro nuovo governo», e intimato «che si farebbero saltare le cervella a chi si fosse mostrato renitente », il nostromo richiese, e ottenne, altro attestato scritto, a giustificazione dell'equipaggio.

313 Altra deposizione di uno dei marinai: «Ordinarono che si bordeggiasse sul Monte di Portofino (sic) senza far cammino dicendo che aspettavano una barca... e vi si stette sino allo spuntar del giorno, e poi si diressero a capo Corso dell'isola di Corsica..., ma neanche là si trovò».

314 Secondo Danèri (RONDINI, 8) sarebbe stato Mazzini, prima della partenza della spedizione, a consigliare che, in caso di mancato incontro con le barche di Pilo, si perdessero «due giorni in alto mare per aspettare la notte del 29 e sbarcare a Lerici i 25 uomini quasi tutti di quel paese, provocare una insurrezione, riunire il maggior numero e marciare su Genova...»

315 Che il carbone mancasse dimostra il fatto che a Ponza s'imbarcò molta legna da ardere (MARIO, In memoria, 17). Nelle cit. depos. Saponi e Rebora si legge anzi che «prima di arrivare al capo Corso trovarono una barca napoletana..., speravano che fosse carica di carbone per approvisionarsene perché ne eravamo un poco mancanti..., ma quel legno era carico invece di granturco»; non sembra però notizia attendibile.

316 Che il Cagliari fosse adibito a trasporto di armi, abbiam visto, lo sapevano tutti, fuorché P. e Mazzini. Il 5 luglio, ad es., il Console inglese a Cagliari informava il suo Ministro degli Esteri che, nel suo precedente passaggio da quel porto (17 giugno), il Cagliari recava a bordo un ingente carico di armi (Rec. Off., F. O., 70 | 293).

317 La squadra inglese si ancorò a Livorno la mattina del 27 di giugno. Secondo la cit. dep. Saponi, il Cagliari l'avrebbe incontrata «verso la Bastia». Il 4 agosto '57 la Gazzetta del Popolo scriveva: «Ognuno ricorda che allo scoppio del tentativo, la flotta inglese... trovavasi nelle acque di Toscana. La stampa retrograda suppose dunque tosto che nella congiura vi fosse la zampa dell'Inghilterra... In questa versione l'incapacità di Mazzini di raccozzare meglio che tre dozzine di congiurati sarebbe il vero motivo del malumore della stampa inglese contro i mazziniani». La Gazzetta definiva stravagante tale versione. Il 15 luglio il Morning Post stupiva che la stampa clericale piemontese «ardisse accusare il governa reale (inglese) di complicità con la sanguinaria setta mazziniana, e... mescolare i nomi di lord Lyons, della diplomazia inglese, della squadra inglese del Mediterraneo ecc. allo scopo di dimostrare con ciò che l'Inghilterra... ha incoraggiato e favorito gli assassini di Livorno e i mancati saccheggiatori di Genova». Il Console inglese a Napoli dava a lord Clarendon il 30 di giugno una notizia, se vera, assai grave, ma che non ebbe conferma; e cioè che il Cagliari avrebbe navigato, fino a Ponza, battendo bandiera inglese (Rec. Off., F. O., 70 |

293).

318 MAZZIOTTI, 178, 182 dà vari nomi di relegati politici (civili e militari) trovati da P. a Ponza.

319 La coraggiosa signora era Rosa Mascherò, genovese, per tutto il viaggio dimostratasi simpatizzante coi rivoltosi. (VENOSTA, 87. Per il viaggio del Cagliari, il V. ha potuto disporre della relazione di un testimone oculare).

320 Il comandante la guarnigione di Ponza denunziò poi «la condotta indegna del sergente Camarda (che comandava allora la Gran Guardia) ... che si diede ai rivoltosi». Nello stesso rapporto (da Ponza, 4 luglio) si legge che «era il tenente Balsamo non sano di mente, si mostrò attaccato ai propri doveri, ma morí qual visse». Povero Balsamo! Ed era stato l'unico ufficiale che avesse opposto resistenza ai rivoltosi! La rel. D'Ambrosio nell'Archivio di Stato, Napoli, Ministero di Polizia, f. 550.

321 Sulla resa del castello corsero versioni discordi. VENOSTA, e poi altri, la attribuirono a un ordine del comandante, fatto prigioniero e trasportato a bordo del Cagliari.

322 Il lamentevole caso degli agenti della pubblica forza in un Rapporto del caposquadra di polizia al giudice del Circondario, 12 luglio '57 (Archivio di Stato, Napoli, Min. di Pol., f. 550).

323 La nota ufficiale dei fuggiti da Ponza nell'Archivio di Stato, Napoli, l. c.

324 Fu Carmine Alifano, interrogato dall'Intendente di Avellino il 17 di luglio, che inventò la storiella dei relegati costretti a seguire P. sul Cagliari (Archivio di Stato, Napoli, l. c.).

325 La deposizione Signorelli (resa a Catanzaro, 7 luglio) nell'Archivio di Stato, Napoli, l. c.

326 A giudicare da una lettera di Pisani a Fanelli, da Ventotene, 29 giugno, sembrerebbe che il Cagliari avesse fatto tappa, per una mezz'ora, inosservato dai relegati, a Ventotene (DE MONTE); ma era chiacchiera di relegati eccitati e male informati.

327 Anche sull'ora della partenza del Cagliari da Ponza, versioni discordi. «Verso la mezzanotte», dice il Giornale del Regno delle Due Sicilie, 30 giugno; alle tre e mezzo scrive Bilotti, a p. 167; sulle ore della sera, scriveva Agresti a Fanelli, 30 giugno.

328 Una seconda barca venne o dal Vitiello o da altri spedita, la notte stessa, a Ventotene (lettera cit. di Agresti, 30 giugno). È il LACAVA che ha stabilito la responsabilità del parroco Vitiello, scagionando così da una insinuazione del Venosta il relegato politico De Leo, colpevole tutt'al più di leggerezza, per aver comunicato al Vitiello notizie riservate da lui apprese appunto pel suo carattere di relegato.

329 Le chiacchiere più assurde si accreditarono allora sul modo tenuto dagli iniziatori della spedizione per concertarsi coi relegati. Uno di essi (relegato comune, naturalmente) assicurò, nell'interrogatorio subíto il 4 di luglio a Mormanno, che Nicotera «otto giorni prima era stato nell'Isola vestito da prete, e fingeva adoperarsi alla confessione e si racconta che in tal modo concertò qualche cosa!» (Arch. di Stato, Napoli, l. c.). — Piú credibile informazione è quella 164 fornitaci dalla WHITAKER (op. cit., 258) secondo cui un Giuseppe Caputo, commilitone di Agesilao Milano, sarebbe stato confinato a Ponza sui primi del '57. Nel corso della sua traduzione nell'isola «egli fu tenuto alcuni giorni in prigione a Napoli e... entrò in comunicazione con la società segreta, stabilendo coi suoi organizzatori che avrebbe preparato una insurrezione a Ponza». Al Caputo, che poi partí da Ponza col Cagliari e fu ferito e arrestato e a suo tempo rispedito nell'isola, attribuisce effettivamente la W. il merito della sollevazione dei relegati. Del Caputo v. la deposizione al processo di Firenze, in Resoconto, 84.

330 Era, questo D'Ambrosio, quello stesso ufficiale che nel '51 aveva steso la già cit. e ridevole Relazione della campagna militare su Roma?

331 Se le autorità borboniche seppero il vero sull'episodio di Ponza, non così, more solito, lo seppe il pubblico grosso; al quale si dette a bere (Giorn. del Regno d. Due Sicilie, 30 giugno) che i «veterani» avevano opposto disperata difesa, tanto che «taluni ribaldi... pagarono il fio del loro misfare, restandone degli uccisi (?) e de' feriti».

332 Ma non tutti quei militari in punizione eran farina da far ostie! Un Rocco La Cava, ad es., nominato caposquadra nella prima compagnia, non solamente si offrí, appena arrestato, di fare amplissime rivelazioni, ma altresì di riferire all'autorità inquirente, «quando gli si usassero considerazioni», le eventuali confidenze dei suoi compagni di causa! Lo spingeva a ciò fare il desiderio di «dare al reale governo un attestato che un inganno mi trasse dall'isola» (Resoconto, 462).

333 Gli incitamenti di P. ai suoi seguaci nella dep. cit. di Signorelli Rocco.

334 È Danèri che ci informa della proposta di Falcone e Nicotera.

335 Nonostante il carcere sofferto senza colpa, i marinai del Cagliari serbarono cordiali rapporti coi superstiti della spedizione, tanto che, giunta la loro liberazione (il 12 giugno '58), indirizzarono a Nicotera una lettera di simpatia, augurando «giorni migliori sì a voi che alla patria comune» (MARIO, In mem., 20). Vero però che, reduci a Genova, non si mostrarono eroi nelle loro deposizioni al patrio governo!

336 Del Mercurio (Marcori secondo altri) v. la deposizione nel processo di Firenze del 1876 (Resoconto, 73).

337 Oltre ai feriti, sembra che a Sapri si rifiutasse di sbarcare, «facendo da pazzo», un altro componente del primo gruppo partito da Genova (Depos. Boffa, nel Rec. Off., l. c.).

338 Le parole incitatrici di P. vennero riferite da Michele Esposito, uno dei relegati a Ponza, arrestato a Montemurro (Arch. di Stato, Napoli, l. c.).

339 BILOTTI, generalmente equanime e bene informato, scrive (189) che i Gallotti eran così avversi alla dinastia borbonica che... ignoravan perfino il nome della madre di re Francesco, cui, nel '59, rivolsero una supplica... Ma la prova non è troppo suadente. Sussiste che, in una delle tante suppliche umiliate al trono, essi giunsero al punto di dichiarare che «si aspettavano una Croce d'onore, per esser fuggiti al sentire lo sbarco, avvisare la forza di Lagonegro che fosse marciato contro...» (Arch. di Stato, Napoli, Min. di Pol., f. 551). E BILOTTI scrive (199) che, al Fortino di Cervara, P. «da nessuno ebbe visite, fuorché da due dei figli del barone G. Gallotti... i quali poco dopo si distaccarono, forse con la promessa di affrettare l'arrivo di uomini e di vettovaglie»! Povero Pisacane!

340 «Questi — scriveva il corrispondente da Napoli del Morning Post, alludendo alle ruberie e peggio commesse da elementi sbandati della masnada pisacaniana — questi, suppongo, sono i segni fraterni dei socialisti» (13 luglio).

341 La cattura e il conseguente sequestro del Cagliari dettero luogo, è noto, a una celeberrima questione di diritto internazionale, dibattutasi a lungo fra Torino e Napoli, la quale destò il più vivo interessamento dei vari gabinetti europei, e segnatamente di quello inglese. L'Inghilterra, infatti, pretese riparazioni da Napoli per la illegale detenzione dei macchinisti inglesi del Cagliari. La questione, che dette la stura a numerosissime pubblicazioni politiche e giuridiche, ufficiali e non ufficiali, si chiuse poi con la sconfitta della tesi napoletana. — Quanto al Cagliari, nell'ottobre 1860 Garibaldi dittatore assegnava alla Soc. Rubattino, che n'era l'armatrice, un'indennità di 450.000 franchi.

342 La rapida azione svolta dalle autorità borboniche per schiacciare la tentata insurrezione, conferma che a Napoli una impresa del genere era attesa da tempo. Da ogni parte d'Italia (e segnatamente da Genova) affluivano in quei giorni nella capitale borbonica notizie atte a facilitare e rendere più efficiente la repressione (si ricevevano perfino notizie da Londra su spedizioni di armi per l'Italia in partenza dalle fabbriche inglesi... Arch. di Stato, Napoli, Min. di Pol., f. 550). I dispacci del Console inglese a Palermo (4, 11 luglio) dimostrano che il governo borbonico aveva da tempo preso le sue precauzioni (Rec. Off., F. O., 70 | 291). Quanto allo spionaggio esercitato a Genova, v. i Rapporti d'un confidente a Cavour, giugno-luglio 1857, pubbl. da LUZIO (420-430); e le notizie raccolte da MORANDO, op. cit., secondo cui Pisacane avrebbe precipitato l'azione proprio perché accortosi del tradimento d'un dei suoi fidi (forse lo stesso estensore dei cit. Rapporti?) Il traditore sarebbe poi stato aggredito e ucciso, due anni dopo, a Lugano, da G. B. Capurro, uno dei compromessi nei fatti di Genova.

343 Fanelli morí nel 1877 in una casa di salute, «tormentato da gravi disturbi nervosi, ma non pazzo» (TEOFILATO, op. cit.). Soffriva di «una specie di sovraeccitazione nervosa che lo rendeva melanconico, sospettoso» (Fabrizi al processo di Firenze, in Resoconto, 115).

344 Fanelli ad Albini, 4 luglio '57: «Noi questa sera faremo la parte nostra cominciando con una imponente dimostrazione che porteremo all'azione». Ma la dimostrazione (Console Barbar a Clarendon, 9 luglio) «non venne effettuata in seguito al fallimento del tentativo in Calabria e per avere uno del partito informato la polizia in proposito» (Rec. Off., F. O., 70 | 289). Su quei giorni di passione per Fanelli e sul comportamento dei moderati, cfr. specialmente l'op. cit. di FABRIZI. 165

345 Era l'Italia del Popolo, Genova, 7 luglio, che in una corrispondenza da Napoli riferiva la voce ivi diffusasi di una spedizione navale sarda. In un rapporto del Prefetto di Polizia al suo Direttore, Napoli, 11 luglio '57, si legge che vicino a Capodimonte vennero trovate armi bianche e bandiere tricolori. «In conclusione però si può francamente ritenere che gli agitatori, i quali avean concepito la stolta mossa rivoluzionaria la sera dei quattro, scorati dall'imponenza della forza, la quale con tutta diligenza piazzata nei luoghi minacciati, li costrinse (sic) a gittar le armi nel pozzo, e le bandiere in una campagna poco lontana» (Arch. di Stato, Napoli, Min. di Pol., f. 551).

346 Son note le polemiche vivacissime cui il contegno di Fanelli dette luogo quando, nel 1860, i superstiti di Sapri vennero liberati dalla galera. Addirittura feroce si mostrò con lui Nicotera, che per altro non era andato immune da censure severe per la grande loquacità dimostrata durante l'istruttoria salernitana. Seguirono incidenti personali anche violenti nel '60 e nel '64, giurí d'onore, interventi conciliativi di Garibaldi, Mazzini, Fabrizi, pubblicazioni di documenti sulla spedizione di Sapri (FABRIZI, DE MONTE, VENOSTA), riavvicinamenti subitanei (come quello fra Nicotera e Fanelli, appunto, in occasione della campagna elettorale del '65 a Napoli). Fanelli era sinceramente convinto di avere fatto tutto il possibile e più del possibile per assicurare il successo dell'impresa pisacaniana; e aveva ragione, tenuto conto delle sue limitate capacità, e avevan torto coloro che gli davan del traditore. La parola più equa, nel dilagar di tanta polemica, fu quella pronunciata da Mazzini, che attribuí l'inazione di Napoli, oltreché alla riluttanza dei moderati, al «difetto d'iniziativa» congenito al carattere di Fanelli, «difetto che un discorso di mezz'ora con lui basta a rivelare»; e concludeva, invitando il F. a cessar le diatribe, consacrando invece la «vita a qualche fatto generoso ed energico». Consiglio che il F., già dei Mille, seguí; tanto è vero che nel '66, nonostante la contrarietà e lo sdegno di Bakunin, che non sapeva perdonare certi sentimentalismi nazionali, volle prender parte alla guerra. Nel '57 «era arrivato troppo tardi», ora non voleva mancare al posto del sacrificio e del dovere (NETTLAU, 74). — Quanto al giudizio di Nicotera su Fanelli, giusto è ricordare che esso si era formato unicamente in base agli elementi fornitigli da terze persone con le quali aveva potuto corrispondere dalla galera. Gravissima ad es. la lettera scrittagli il 10 agosto '58 dal Pilo («Oh! che vigliaccheria, che nullità ho constatato nel Wilson — nome di guerra di Fanelli — e nei suoi compagni. Per Dio! non credevo mai che la somma delle cose stesse nelle mani di un uomo tanto meschino di cuore, d'ingegno e d'ardire»...) Fabrizi, nel mandare a Garibaldi la sua Relazione, lo assicurava invece (8 febbraio 1864) esser Fanelli «giovane della più alta stima... pronto a tutto, sensato, attivo» (Museo del Ris., Milano, Arch. garibaldino, c. 829).

347 Sullo sbarco di Garibaldi a Sapri nel 1860 e le impressioni provate da lui e dai suoi seguaci ripensando a Pisacane, cfr. MARIO, Bertani, II, 185-186. Eran con Garibaldi anche Cosenz e Bertani!

348 Il Giornale del Regno d. Due Sicilie, 3 luglio, sottolineava la valorosa condotta degli Urbani, tanto più apprezzabile, osservava, che essi «trovavansi quasi tutti in quella stagione alle messi»; eppure, «trascurati i propri interessi, corsero ad amarsi ed a combattere».

349 La dep. Venturini ecc. nell'Arch. di Stato, Napoli, l. c. I particolari sulla sete sofferta dai componenti la banda in VENOSTA, 90.

350 Uno dei due soldati era Domenico Ciampi, da Tufo; sue le parole riportate (all'Intendente di Avellino, 11 luglio; Archivio di Stato, Napoli, Min. di Pol., f. 550).

351 Contrario alla pena di morte nel codice civile, P. l'aveva sempre trovata indispensabile invece in quello militare (Saggi, IV).

352 Debbo la notizia dell'aver re Ferdinando sostituito F. Pisacane col Ghio, a Jack La Bolina, che la tiene da fonte ritenuta attendibile.

353 Nel 1860, a Napoli, Bertani fece arrestare il Ghio, che figurava comandante la piazza; ma il governo dittatoriale lo rilasciò, troncando il processo che contro di lui era stato iniziato (FALDELLA, op. cit., 255).

354 Le ultime parole pronunciate da P. in VENOSTA, 99. Altre versioni sulla morte di P. in RONDINI, NISCO, ZINI (Storia d'Italia), FOSCHINI. Quella seguíta nel testo è ormai generalmente ammessa ed è quella suffragata da più numerose testimonianze. A tergo di una cartella stampata di una Lotteria a beneficio di G. Nicotera (lotteria probabilmente organizzata a Milano nel 1859) si legge esser stato P. «ucciso, tagliato a pezzi e gettato in mare» (il mare a Sanza?!) Il biglietto, del valore di «franchi 2», è in mio possesso.

355 La giustificazione del rogo e della conseguente impossibilità di procedere al riconoscimento dei cadaveri, in una missiva dell'Intendente del Principato citeriore al Direttore di Polizia, da Salerno, 25 luglio 1857 (Arch. di Stato, Napoli, l. c., f. 551).

356 L'esposto di don Castelli (30 ott. '57) venne pubblicato da D. MAZZONI in Il Risorg. ital., 1920, 400.

357 Sulla Gazzetta d'Augusta, 24 agosto '57, compariva ad es. un articolo tendente a dimostrare, in base agli ultimi avvenimenti, «ciò che la diplomazia non ha voluto comprendere..., vale a dire che il Regno di Napoli non ancora offre un terreno atto a rivoluzioni. Vero è che si trovano anche lí dei malcontenti, come ve ne sono in Germania, in Francia e in Inghilterra. Ma le masse del popolo e quelli che posseggono beni sono tranquilli e buoni, e affezionati al Re, e ancorché sperassero in qualche miglioramento, sono ben lungi dall'attenderlo da insurrezioni». Ahimè, è che questo articolo era stato redatto a... Caserta, da un tal La Grange, il quale, il 7 sett. successivo, si affrettava a compiegarne la traduzione al Direttore di Polizia... (Arch. di Stato, Napoli, Min. di Pol., f. 551). Sulla fuga di Fanelli preziose notizie si ricavano dal carteggio di uno che la sapeva lunga in proposito, il Console inglese a Napoli! Scriveva infatti egli al suo collega a Smirne, 20 luglio '57, che tre napoletani (Fanelli e la coppia 166 Dragone) «ai quali m'interesso, essendo riusciti con grande difficoltà a sottrarsi alle grinfie della polizia, che li perseguita per le loro opinioni liberali», avevan preso imbarco, alcuni giorni innanzi, su uno shooner inglese, il Rival, diretto appunto a Smirne. Procurasse il collega di facilitare loro lo sbarco, tenendo conto che essi eran sforniti di passaporto. Il 26 agosto seguente il Console a Smirne informava a sua volta il Governatore di Malta essere i tre felicemente pervenuti a Smirne; adesso il Fanelli intendeva proseguire, via Malta, per l'Inghilterra, con l'intenzione di proseguire là i suoi studi di... architettura. Lo scrivente aveva perciò ritenuto opportuno di munirlo di un passaporto provvisorio (connotati: anni 30, statura alta, capelli neri, occhi idem, naso regolare, bocca idem, di professione scritturale), qualificandolo «impiegato di questo Consolato». Rispondeva il f. f. di segretario del Governatorato di Malta, da La Valletta, 24 settembre: Fanelli ha ottenuto il permesso di sbarco «con la precisa intesa che avrebbe lasciato Malta di sua iniziativa entro sei settimane»; sembra che adesso abbia mutato intenzione, ma sarà imbarcato d'autorità. Il Console a Smirne è vivamente pregato di non rilasciare mai più passaporti per Malta a persone che non hanno diritto di prendervi residenza. Il 30 nov. il Governatore di Malta in persona informava il Ministro delle Colonie che Fanelli si era ostinato a non voler partire. «Io ho cercato, da che son qui, di arginare la tendenza a far di Malta un luogo di convegno per gente che cospira contro il proprio governo, e Fanelli è considerato qui come un agente di Mazzini. Per questo motivo... l'ho fatto proseguire per l'Inghilterra a mie spese». Acclusa la ricevuta di 12 sterline! (Rec. Off., C. O., 158 | 182). Il Morning Post del 20 di luglio pubblicava una Dichiarazione dei Napoletani, in data di Napoli 4 luglio, in cui si leggeva che essi non altro volevano che la costituzione, e non avevano niente a che fare col «pazzo attentato» che ha «riempito i Napoletani di stupore e di sospetti di nuove manovre poliziesche». Degli sbarcati, si precisava, «due soli eran regnicoli» (tre, per la verità).

358 Le parole di Spaventa in lettera al fratello, 16 agosto '57 (CROCE, 235).

359 Il testo del telegramma, indirizzato a un tale Massoni a Genova, era il seguente: «Le vostre tratte furono pagate a giorni si pagherà il saldo». Risultò alla polizia napoletana che speditore del telegramma figurava certo Giovanni Bazigher; orbene il suo nome, o un nome esotico molto simile al suo, si era trovato segnato sul taccuino rinvenuto sul cadavere di P.; e un Bazigher era impiegato quale usciere al Consolato inglese di Napoli! Edotto della strana concomitanza dal conte Bernstoff, che a Londra — in assenza di un rappresentante napoletano — curava gli interessi del governo delle Due Sicilie, il Ministro degli Esteri inglese richiese schiarimenti al suo agente in Napoli (29 luglio). Questi rispondeva (8 agosto) essere il B., effettivamente usciere della Legazione inglese da 33 anni, e ora in servizio presso il Consolato; avere il B. ammesso, durante un interrogatorio severo, di aver spedito un telegramma per conto di un tale Alfonso Praito, suo conoscente, ma di essere interamente all'oscuro del suo contenuto; aver egli ciò fatto perché il P. era sconosciuto all'ufficio telegrafico e non poteva perciò spedire dispacci. Aggiungeva il Console che, in merito alla circostanza del taccuino di P., bastava a toglierle qualunque importanza la considerazione che il B. era analfabeta, e cioè nella impossibilità di tener rapporti con P. Il B. d'altronde giurava di non averlo mai neanche sentito nominare. — Ribadí Clarendon (24 agosto): Praito esisteva davvero o era un nome fittizio, come pretendeva il governo napoletano? Barbar rispondeva esser sua impressione che il Bazigher fosse stato messo in mezzo da qualche conoscente indelicato. Ma Clarendon non ammetteva scappatoie: voleva conoscere intera la verità (23 settembre). Finalmente il Barbar, incalzato anche dal governo napoletano (nota Carafa 25 sett.), rispondeva al Clarendon così (10 ott.): «Ho di nuovo interrogato il Bazigher, e questi dichiara di aver conosciuto Praito circa 6 anni addietro, in relazione a certe lettere che venivan spedite da Malta e Genova all'indirizzo di Praito, sotto coperta pel fu sir William Temple; nello stesso modo lettere di Praito venivan trasmesse ai suoi corrispondenti in quei luoghi pel tramite della Missione. P. si diceva un commerciante e fu per questo che B. consentí a favorirlo recando un suo dispaccio all'ufficio telegrafico...»; ma adesso il P. risultava scomparso da Napoli. «Con molta difficoltà... son riuscito a sapere — continuava Barbar — da persone connesse col partito liberale che... il nome di Praito è fittizio, essendo il suo vero nome Luigi Dragone, e che egli ha parenti in città che verrebbero completamente rovinati se il suo nome venisse a conoscenza del governo napoletano». Barbar si guardava bene però dall'avvertire Clarendon che il Dragone era riuscito a fuggire da Napoli unicamente per merito suo! Fu giuocoforza a Clarendon tener per sé le gravi rivelazioni di Barbar; ma mentre il governo napoletano seguitava a dare infruttuosamente la caccia al presunto Praito, pur intuendo che il Consolato inglese dovesse saperla assai lunga, il Ministro inglese (giudicata «improper» la condotta di Bazigher, cui certo, egli osservava, eran noti e il vero nome di Praito e la natura del telegramma) ordinava una severa inchiesta interna sulla questione della corrispondenza settaria spedita pel tramite della missione inglese. Dei resultati di questa inchiesta ho già tenuto parola nella nota a pag. 227. Ulteriori documenti verranno dati altrove alla luce. (Per tutto ciò, cfr. Rec. Off., F. 0., 70 | 288, 289, 290; C. O., 158 | 184, 186). Molta corrispondenza su questo episodio trovasi anche nell'Archivio Ministero Esteri, Roma (Corr. politica Min. Esteri Due Sicilie, IX, 4, cart. X). Si veda altresì quanto scrisse Danèri a proposito degli avvenimenti di Genova del 9 di giugno: «Pisacane scrisse un biglietto all'usciere del Consolato inglese in Napoli perché avvertisse Fanelli».

360 Son note le ricerche compiute a bordo della nave inglese Corinthian per scovarvi Mazzini. Su questo episodio il Rec. Off. (F. O., 67 | 227; 70 | 288, 289, 290) conserva numerosi documenti. Alla luce dei quali e di quelli poco più su pubblicati sembrano invero piuttosto fuor di posto i furori del Console Barbar per la visita a bordo del Corinthian ordinata dalla polizia napoletana senza darne avviso, come d'obbligo, a lui! Il Barbar suggeriva al suo governo che si facessero rimostranze; ma il Ministro degli Esteri giudicò saviamente che era meglio rinunciarvi... 167

361 Il 2 luglio — il giorno stesso di Sanza! — l'Italia del Popolo dava le prime incerte notizie sull'avventuroso viaggio del Cagliari; il 3, fra discordi informazioni, anche la prima voce dell'avvenuto disastro; tre giorni appresso riportava le notizie correnti in città, secondo le quali «le truppe spedite dalla capitale per disperdere la colonna comandata dal col. Pisacane si sarebbero miste alla stessa. Si aggiunge ancora che più provincie fossero in piena rivolta». Il 7 di luglio, l'Italia del Popolo stampava addirittura essere Napoli insorta, la caserma degli Svizzeri saltata, re Ferdinando ucciso!

362 Comprensibile il tormento di Jessie White (che poi, nella non breve prigionia, forní bella prova di fermezza, non disgiunta, è vero, da esaltazione) per non poter «mantener la promessa che feci... di non perdere di vista nessuno di loro». Sulle vicende della White il Rec. Off. conserva numerosi documenti, dai quali resulta che né il Console inglese a Genova né il Ministro a Torino credettero opportuno di far passi in suo favore, ritenendo più che dimostrata la sua condotta politicamente scorretta. Dalla lettera Brown a Hudson, Genova, 4 luglio, resulta che, a detta dell'Intendente, la White, arrestata, si sarebbe qualificata addirittura «moglie di Mazzini». Offertale la liberazione, purché abbandonasse immediatamente il territorio piemontese, la W. superbamente dichiarò di voler dividere il fato dei suoi compagni di causa. Il 14 nov. Hudson informava il suo governo che la W. era stata posta in libertà, con 5 giorni di tempo per lasciar il Piemonte; la scarcerazione veniva motivata col fatto che si era trovata la W. più esaltata che colpevole. (Rec. Off., F.O., 67 | 227). FALCO, 280 sg., ha pubblicato interessanti documenti sulla carcerazione della W. Una pepata lettera di lei a Garibaldi, dal carcere, trovasi in LUZIO, 408.

363 L'arrendevolezza delle autorità sarde ai voleri napoletani parve indizio di inqualificabile debolezza alla Gazzetta del Popolo. «Del rimanente, essa osservava, con che diritto permettere anche al vice console di leggere tutte le carte per cercare di servire il governo napoletano... se queste contenevano il nome di qualche napoletano dimorante in Napoli.. Oh! è un orrore!» La casa — faceva osservare la Gazz. del Pop. — era intestata alla Di Lorenzo. E anzi P. figurava di pagarle dozzina... Nel corso di un'altra perquisizione subíta il 17 luglio, alla Di Lorenzo si sequestravano, tra le altre cose, due brevi mss. di Pisacane: un foglio col titolo Principii sui quali è d'uopo fondare le istituzioni militari d'Italia: e un ms. di 30 fogli intitolato Principii fondamentali del nuovo patto sociale e costituzione provvisoria d'Italia.

364 Scriveva ancora Rosetta, il 13 luglio '57: «P. ha abbandonato una donna, la quale aveva per lui abbandonato la sua famiglia; ha lasciato una bambina, che sarà infelice senza padre...; ti pare che abbia fatto bene? No, e tu facevi lo stesso, se il caso non te lo impediva...» Anche nei Cenni premessi ai Saggi si legge (I, XVIII): «Si serbò anzi per lunga pezza speranza che il P. potesse essere scampato alla strage dei suoi».

365 Sui rapporti fra Mazzini ed Enrichetta dopo il fatale luglio '57, cfr. Epistolario di MAZZINI (S.E.I.). Il 19 ott. Mazzini riceveva da lei una lettera «scritta in tono di profonda angoscia»; ai primi di novembre corse corrispondenza fra i due e fra Mazzini e la White in merito alla miglior residenza per Enrichetta se davvero sfrattata dal Piemonte: Inghilterra o Svizzera? Enrichetta scartava a priori l'Inghilterra (Mazzini alla Hawkes, 3 nov.). Nello stesso mese — mentre nasceva, per dissiparsi quasi immediatamente, un pettegolezzo fra i tre a proposito di certe osservazioni mosse da Mazzini sui rapporti sentimentali fra la W. e Alberto Mario, mal riportate, sembra, da Enrichetta — Mazzini lanciava in Inghilterra l'idea di coniare per sottoscrizione popolare una medaglia in onore di P. La medaglia non venne poi eseguita, nonostante che venisse raccolta una bella lista di sottoscrizioni, che Mazzini si proponeva di mandare «come ricordo», «come una specie di consolazione» a Enrichetta: alla «moglie di P.», cioè. Il 17 dic., scrivendo alla Hawkes, Mazzini lamentava che di tre lettere da lui dirette ad Enrichetta, questa ne avesse ricevuta una sola: «Si vede che a Genova trattengono le mie lettere». Altro che trattenerle! Lo sfratto di Enrichetta venne motivato unicamente in base alla sua corrispondenza con Mazzini.

366 Nella lettera famosa Al Conte di Cavour, Mazzini stigmatizzava con roventi espressioni lo sfratto della «vedova » di P. contro il quale nessuna voce si era levata alla Camera. È vero che un nugolo di deputati di sinistra avevano assediato di raccomandazioni e di proteste l'Intendente di Genova (cfr. LUZIO), ma nessuno di essi aveva creduto di deplorare pubblicamente l'odioso provvedimento. — Dello sfratto dava notizia il Console napoletano a Genova al suo Ministro degli Esteri, l'8 marzo '58, adducendo però d'ignorare dove la «famigerata» donna si sarebbe recata. «Sembra però che è andata o andrà in Inghilterra» (Arch. Min. Est., Roma, Corr. politica Min. Esteri Due Sicilie, Busta IV, f. 26) Era la White che consigliava Enrichetta a recarsi in Inghilterra; altrove «colla sua tempra, senza amici, morrebbe di dolore (FALCO). Il 20 maggio '58 il Ministro dell'Interno sardo comunicava al Questore di Torino che, «sulla fiducia che la Sig.a Enrichetta Di Lorenzo non dia luogo ad osservazioni sulla sua condotta, e relazioni», la si autorizzava a prolungare il suo soggiorno nella capitale (Arch. di Stato, Torino, Emigrati, nominativo Di Lorenzo).

367 Di Enrichetta e Silvia tornate a Genova non molte notizie ci restano: senonché figurano entrambe alla prima prova dell'inno di Garibaldi eseguita l'ultimo giorno del 1858 in casa Camozzi (LOERO, 39). Silvia venne per allora sistemata nel Collegio delle Peschiere, diretto da Mercantini, il cantore della spedizione di Sapri.

368 Sull'adozione di Silvia da parte di Nicotera, notizie in VENOSTA, FALDELLA, nella MARIO, In memoria, e Bertani. Nell'ottobre '60 Silvia figura con Nicotera a Napoli: Garibaldi le aveva fatto assegnare una pensione di 60 ducati al mese; ed essa (con letterina 15 ottobre, che si conserva, con altre, nel Museo del Ris. in Milano, Arch. garibaldino, c. 585) ne lo ringraziava, aggiungendo: «Mi dispiace d'essere così piccina perché non posso esprimervi l'affetto e l'ammirazione che sento per voi che tanto bene avete fatto al nostro paese. Spero che presto scaccerete da Roma e Venezia gli stranieri, ed allora il mio papà Nicotera manterrà la promessa che m'ha fatto di condurmi da voi che desidero immensamente vedere». L'altra lettera a Garibaldi è del 3 gennaio '64, sempre da Napoli, ed esprimeva auguri e sensi di caldo patriottismo; da essa resulta che Enrichetta viveva accanto alla sua Silvia, accanto ai Nicotera. Saluti di Enrichetta e di Silvia trasmetteva ancora, a Garibaldi, Nicotera, il 23 dicembre di quell'anno (l. c., c. 554); invece, in altra lettera del 10 ott. '66, quelli solo di Silvia. Era morta in quel frattempo Enrichetta? O forse era tornata alla famiglia maritale? Di una gentile intromissione di Silvia, memore delle paterne idealità socialiste, presso il genitore adottivo, ormai Ministro, in pro degli anarchici arrestati a Benevento nel 1877, dette notizia il MONTICELLI (ORANO, 214-215).

369 Sui timori del governo piemontese per l'annunciata stampa dei Saggi di Pisacane, cfr. LUZIO.

370 Sulle pietose cure da Enrichetta prestate fino al 1860 ai superstiti di Sapri languenti nelle carceri borboniche, v. MARIO, Bertani, I, 248. Enrichetta ringraziava Bertani (maggio 1860) per una cospicua offerta «per i nostri prigionieri», scusandosi di aver lasciato passare un giorno a causa di una indisposizione di Silvia. A pro di Nicotera molto si adoperò anche Mazzini. La corrispondenza con lui era facilitata dal guardiano dell'ergastolo e dal Console sardo a Trapani (MARIO, In Mem., 27).

371 Si potrebbero riempir pagine e pagine col solo passare in rassegna le diatribe antimazziniane seguite al luglio '57, più acri e più diffuse che dopo lo stesso febbraio '53! Pochi intuirono quanto grande Mazzini uscisse da quell'ennesima sconfitta; tra i pochi, G. Modena. Senza i suoi tentativi «iti a vuoto» — egli scriveva l'11 luglio '57 — «Cavour non poteva dir altro a Parigi, come avvenire d'Italia, che essa produce bozzoli, fichi e maccheroni deliziosi» (Pol. e arte, 204).

372 Era la Gazzetta del Popolo, 13 agosto '57, che riferiva l'odiosa calunnia su Mazzini sollecito dei suoi interessi pecuniari durante il compimento della spedizione di Sapri; tali rivelazioni si concludevano, degnamente, così: «Il sig. Mazzini è un rivoluzionario che grida agli altri avanti ma che quanto a lui pensa di salvare la pancia per i fichi». L'Indipendente, Torino, 9 luglio, scriveva «che nella storia non vi ha tiranno che abbia versato tanto sangue come Mazzini; questo sciagurato è circondato da una immensa quantità di capi mozzi di giovani da lui portati al patibolo». A rivendicare l'onore di Mazzini pensava un giornale inglese, l'Illustrated London News, 11 luglio '57, il quale asseriva che se le imprese del giugno '57 avessero sortito buon esito, Mazzini e compagni sarebbero stati salutati da tutti come gli eroi dell'epoca. «Tutto il mondo vede e ammira l'altezza cui s'è inalzato l'Imperatore dei Francesi col colpo di stato...; e tutti possono figurarsi l'abisso di miseria e di degradazione cui quell'illustre personaggio sarebbe pervenuto se la sua audacia non fosse stata ricompensata da un completo successo. Così è col sig. Mazzini e con i cospiratori italiani — con questa differenza che essi lottano per la libertà e non per il soggiogamento della loro patria». Del coro d'invettive antimazziniane si faceva eco il Ministro inglese Hudson, osservando, in un dispaccio del 10 di luglio, che «Mazzini, come al solito, procurava di tenersi lontano da ogni pericolo», che i suoi piani rivelavano «la solita presunzione e ignoranza» di un uomo «malvagio, orgoglioso e senza scrupoli» (Rec. Off., F. O., 70 | 295). Marx — che nutriva per Mazzini il più franco disprezzo — si limitò a registrare la sua ultima impresa con poche parole di compatimento: «Il Putsch di Mazzini assolutamente nel vecchio stile ufficiale. Avesse almeno lasciato fuori Genova!» (a Engels, 6 luglio — Briefwechsel, Stuttgart, 1921, II, 168). Ben altrimenti sensibile di fronte a quella prova di sfortunato coraggio un altro rivoluzionario socialista, Alessandro Herzen; il quale, premesso che non intendeva giustificare il piano di Pisacane, evidentemente intempestivo, così scriveva: «Questi uomini ci sopraffanno con la grandezza della loro tragica poesia, la loro terribile energia fa tacere qualunque biasimo o critica. Non conosco esempi di più grande eroismo, né fra i greci né fra i romani né fra i martiri del cristianesimo o della riforma. ... La morte di P. e quella di Orsini furon come due spaventosi schianti di fulmine in una notte soffocante» (Mem., III, 70).

373 Con P. «noi abbiamo perduto un uomo che valeva per sé una Legione», scriveva Mazzini a Dragone, il 26 febbraio '58. La circolare del Partito d'Azione in PALAMENGHI CRISPI, 542-44.

374 Furon Bertani, Medici, Cosenz e Boldoni che presero l'iniziativa di raccogliere fondi per costituire una dote a Silvia Pisacane. Ma la scarsità delle offerte — determinata in parte dallo scandalo che la pubblicazione del Testamento e dei Saggi sollevò fra gli stessi emigrati e in seno alla sinistra piemontese — consigliò gl'iniziatori a rinunciare alla dote, provvedendo invece a stipulare una assicurazione in pro della fanciulla, con contro-assicurazione in favor della madre (MARIO, Bertani, I, 245-248, 270; PALAMENGHI CRISPI, 439-441; MARIO, In mem., 27). La somma raccolta fu di 3134 franchi (Bertani a Plutino, 13 dic. 1859, OLIVIERI, 96-97). — Mazzini scriveva a Lemmi, 30 novembre '57, che avrebbe contribuito alla sottoscrizione, per quanto fosse meglio «provvedere a che l'Italia dia, emancipata, la dotazione».

375 A criticare le operazioni di P. furono buoni tutti: Cadolini (Mem., 215, 267), Carrano (L'Italia dal 1789 al 1870, IV, 260), Macchi (SAFFIOTTI, 773), Musolino (a Ricciardi, 11 luglio '57), Ruggero Settimo (AVARNA, 237) ecc. Il Ministro inglese a Torino deplorava anche lui che P., «coraggioso personalmente e assai competente nel suo ramo di scienza militare», avesse ceduto a Mazzini, col quale non andava affatto d'accordo (Rec. Off., F. O., 70 | 293). 169

Nota bibliografica

La nota bibliografica vuol essere completa per quanto riguarda gli scritti di Pisacane a noi fin qui noti; pressoché

completa (con omissione cioè soltanto di pochi opuscoli o articoli di scarsa o nessuna importanza) per quanto

riguarda gli scritti su Pisacane o su Sapri; per tutto il resto non offre invece che una scelta delle sole pubblicazioni più

utili o più direttamente riferentisi a Pisacane.

Si omettono le citazioni della sterminata bibliografia mazziniana, la cui conoscenza è naturalmente indispensabile

per la ricostruzione della vita di pensiero e d'azione di Pisacane. Particolarmente importante è la consultazione

dell'epistolario mazziniano per gli anni dal 1849 al 1857: gli accenni a Pisacane vi sono assai frequenti.

Non sono citate le opere d'informazione generale sul Risorgimento italiano, ancorché dedichino pagine e pagine

a Pisacane e alla sua spedizione.

a) Scritti di P. e loro principali edizioni (in ordine cronologico).

b) Scritti su P. — Onoranze postume a P.

c) Scritti sulla spedizione di Sapri.

d) Scritti principali da consultarsi sui tempi e gli amici di P.

e) Scelta di opere pubblicate in Piemonte fra il 1849 e il 1855 intorno alla questione sociale.

a)

1. Sul momentaneo ordinamento dell'esercito Lombardo in aprile 1848 (pubblicato postumo da C. CATTANEO ne Il

Politecnico, Milano, II serie, 1860, pp. 270 sg.).

2. Piano di Guerra presentato al Comitato di Guerra di Brescia, da Tremosine, 26 maggio 1848 (pubblicato postumo da

G. FALCO, op. cit., pp. 246-47).

3. Bollettino del Corpo di Operazione (pubblicato ne Il Monitore Romano, Roma, 25 maggio 1849, a firma ROSSELLI

e PISACANE).

4. Cenni sui fatti del 26 e del 27 (pubblicati ne Il Monitore Romano, Roma, 27 giugno 1849).

5. Ordini del Giorno, Relazioni, Sentenze, Ordinanze, ecc. vergate da P. a Roma nel 1849, nella sua qualità di Membro

della Commissione di Guerra, di Presidente del Consiglio di Guerra, di Sostituto del Ministro della Guerra, di

Capo di Stato Maggiore, ecc. (pubblicate ne Il Monitore Romano e nel Bollettino delle Leggi e Regolamenti

della Repubblica Romana).

6. Rapido cenno sugli ultimi avvenimenti di Roma dalla salita della breccia al dí 15 luglio 1849, per C. P. capo di S. M.

generale dell'esercito della Repubblica Romana, Losanna, Soc. Ed. L'Unione, 1849, in 8°, pp. 4-32 (ristampato

nella Biblioteca democratica educativa, Roma, 1892, in 16°, pp. 32).

7. Lettre du Chef de l'état major de l'armée de la Republique Romaine au general en chef de l'armée Française en

Italie, Lausanne, L'Union, 1849, in 8°, pp. 14 (traduzione italiana: Torino, Fontana, 1849).

8. La Guerra Italiana (pubblicato ne L'Italia del Popolo, Losanna, n. I, sett. 1849, pp. 29-42).

9. Rapido cenno sugli avvenimenti di Roma (breve estratto del n. VI; pubbl. ne L'Italia del Popolo, Losanna, n. II, sett.

1849, pp. 107-13).

10. Sulla scienza della Guerra. Pensieri (pubbl. ne L'Italia del Popolo, Losanna, n. II, sett. 1849, pp. 181-89; n. III, ott.

1849, pp. 277-301).

11. Poche parole sulla relazione della campagna nel 1849 in Sicilia, pubblicata da S. J., aiutante di campo del gen.

Mieroslawski (pubbl. ne L'Italia del Popolo, Losanna, n. II, sett. 1849, pp. 207-12).

12. Relazione storica delle operazioni militari eseguite dalla Repubblica Romana (pubbl. ne L'Italia del Popolo, Losanna,

n. V, dic. 1849, pp. 676-91; n. VI, dic. 1849, pp. 858-69).

13. Qualche osservazione sulla relazione scritta dal Gen. Bava della campagna di Lombardia nel 1848 (pubbl. ne

L'Italia del Popolo, Losanna, n. VII, gennaio 1850, PP. 33-47).

14. Poche parole sulla campagna di Bade del 1849 (pubbl. ne L'Italia del Popolo, Losanna, n. VIII, genn. 1850, pp.

179-86).

15. La neutralità della Svizzera (pubbl. ne L'Italia del Popolo, Losanna, n. IX, febbr. 1850, pp, 318-23).

16. Pensieri sugli eserciti permanenti (pubbl. ne L'Italia del Popolo, Losanna, marzo 1850, pp. 735-45).

17. Programma del libro di imminente pubblicazione La Guerra Combattuta, a firma P. (pubbl. ne L'Italia e Popolo,

Genova, 6 luglio 1851).



170

18. Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49. Narrazione di C. P., Genova, Pavesi, 1851 (tip. Moretti), in 16°,

pp. 372 (ristampato nella Biblioteca storica del Risorgimento, Roma, 1906, in 16°, pp. 340, a cura di L.

MAINO; tradotto in tedesco da A. CLOTZMANN. Chur, Hitz, 1852, pp. 28-370: presenta, rispetto all'originale,

leggere varianti, opera di P. stesso).

19. Dichiarazione a firma C. P. (pubbl. ne L'Italia e Popolo, Genova, 22 agosto 1850 a proposito della Guerra combattuta).

20. Recensione di C. P. al volume di P. ROSELLI, Memorie relative alla spedizione e combattimento di Velletri (pubbl.

ne La Voce della Libertà, Torino, sett. 1853, nn. 260, 261, 262).

21. Viva il Trattato (pubbl. ne L'Italia e Popolo, Genova, 21 febbraio 1855).

22. Altri articoli ispirati alla guerra d'oriente pubbl. sullo stesso giornale, ma di non certa attribuzione. Si vedano i nn.

18 febbr.; 14, 15, 17 marzo; 27 marzo; 30 marzo; 4 aprile 1855.

23. I Muratisti (pubbl. ne L'Italia e Popolo, Genova, n. 199, 20 luglio 1855).

24. Il partito Muratiano e la questione Italiana (pubbl. ne L'Italia e Popolo, Genova, 22 sett. 1855).

25. Articoli vari pubbl. ne La Libera Parola, Genova, agosto 1856, aprile 1857 (l'articolo Murat e i Borboni, ivi compreso,

venne ristampato ne L'Italia e Popolo, Genova, n. 263, 1856; e poi, con la firma di P., in Pensiero e Azione,

Londra, 1° gennaio 1859. Un altro, Italia e Murat, venne ristampato ne Il Diritto, Torino, n. 225, 1856,

ed è comunemente attribuito a P. Sicuramente di P. è finalmente un terzo articolo dedicato ad Agesilao Milano,

che L'Italia e Popolo, Genova, ristampò l'11 gennaio 1857).

26. Saggi Storici-Politici-Militari sull'Italia (pubbl. ne L'Italia e Popolo, Genova, 25 ott., 4, 10, 26 nov. 1856: sono

alcuni paragrafi di argomento militare tratti dall'opera, inedita allora, di cui al n. 32).

27. Recensione di C. P. a Una lettera di V. G. Orsini all'anonimo autore delle memorie Storico-Critiche della Rivoluzione

avvenuta in Sicilia nel 1848 (pubbl. ne L'Italia del Popolo, Genova, 7 marzo 1857, n. 15).

28. Abbozzo di Proclama spedito al Comitato rivoluzionario di Napoli, 1° giugno 1857 (pubbl. da DE MONTE, op.

cit., nella redazione originale; da PALAMENGHI CRISPI, op. cit., con le correzioni addottevi da MAZZINI).

29. Saggi Storici-Politici-Militari sull'Italia, 4 voll., Genova, Stab. Tip. Naz. Milano, Agnelli, 1858-1860, in 8°, pp.

XX-102, 168, 178, 187. (Non ha mai avuto ristampe integrali. Il 1° saggio, Cenno storico d'Italia, è stato ripubbl.

dall'Ist. Ed. Ital., Milano, 1917, Breviari intellettuali, n. 83. Il 3°, Sulla Rivoluzione, è stato ripubbl. a

Bologna, Virano, 1894, pp. IX-269, come I vol. della Biblioteca socialista, con avvertenza di MALAGODI,

OLIVETTI, GRAZIADEI, e pref. di COLAJANNI; in appendice il Testamento Politico e qualche estratto degli

altri saggi. Successivamente lo stesso 3° saggio, in edizione molto purgata, è stato ripubbl. da Sonzogno, Milano,

1905, Biblioteca universale, n. 339. Il 4° saggio, Ordinamento e Costituzione delle Milizie Italiane, è stato

ripubbl. da Sandron, Palermo, 1901, con pref. di G. RENSI, col titolo Come ordinare la Nazione armata, n. 4

della Biblioteca rara; e in parte dall'Ist. Ed. Ital., 1919, Breviari intellettuali, n. 176, col titolo Pensieri sulla

strategia). Una edizione critica dei saggi è, sembra, in preparazione a Roma.

30. Testamento Politico (pubbl. nel Journal des Débats, Parigi, luglio 1857 e poi su parecchi giornali politici italiani e

stranieri. Venne successivamente ristampato più volte: in appendice all'edizione originale dei Saggi, come opuscolo

a sé, su giornali e riviste. È certamente il più noto fra gli scritti di P.).

31. Dichiarazione sul libro di bordo del Cagliari, 25 giugno 1857 (pubbl. sui giornali del luglio 1857 e poi più volte

ristampata).

32. Proclama letto a Torraca il 29 giugno 1857 (come sopra).

Lettere di Pisacane. Se ne trovano stampate nelle opere più oltre cit. di DE MONTE, MARIO J., SAFFIOTTI,

CORRIDORE, NEGRI, PALAMENGHI-CRISPI, PESCI, ROMANO, FALCO, LOEVINSON, OLIVIERI; in

ROSI, G. Mazzini e le critiche di un emigrato (Rivista d'Italia, giugno 1905); nella Rivista di Roma, 23 gennaio

1902, pp. 51-53; nell'Epistolario di Cattaneo, Firenze, Barbera, 1901; in VALZANIA, Ai Ministri Nicotera

e Mancini. Memoria, Cesena, 1876; in CONSIGLIO, Un amore di G. P. (Italia letteraria, Roma, 26 giugno

1932). Una lettera inedita, al Masi, da Roma, 6 maggio 1849, trovasi nell'autografoteca Campori, a Modena

(ma di nessun interesse); molte, dello stesso periodo e d'interesse puramente militare, trovansi nella Biblioteca

Naz. Vitt. Em. in Roma (Il Catalogo della mostra storica del Risorgimento Italiano, ivi ordinata nel 1895, ne

numera cinque dell'aprile e giugno 1849, nonché una, a Dall'Ongaro, da Genova, 28 sett. 1852). Nel testo, in

fronte a p. 216, ho pubbl. la fotografia di una lettera sin qui inedita a Cosenz; e a p. 257 ho dato notizia di un'altra

lettera inedita custodita nel Museo del Risorgimento in Milano, Cartella Pisacane. Ciò nonostante può

dirsi che l'epistolario di P. sia andato in grandissima parte perduto; a meno che gelosi depositari non ci riservino

gradite sorprese.

Un breve autografo di P. trovasi riprodotto ne Il Risorgimento Italiano, 1914, p. 125; d'un altro ha dato

notizia il FALCO, op. cit. P. 258: trattasi di due righe scritte da P. nell'Album di Pateras, il 24 gennaio 1851.



171

[Le Opere complete di Pisacane sono state curate da A. Romano per le Edizioni «Avanti!», Milano 1957-64 (Saggi

Storici-Politici-Militari sull'Italia..., 4 voll., 1957; Guerra combattuta in Italia..., 1961; Scritti vari, inediti o

rari, 3 voll., 1964). Le lettere di Pisacane sono state raccolte da A. Romano nell'Epistolario, Milano-Genova

1937.

Per gli studi su Pisacane, si veda la Nota bibliografica di F. Della Peruta in C. PISACANE, La rivoluzione, Einaudi,

Torino 1976].

b)

La letteratura su P. è estremamente misera.

BELLONI G. A., Bibliografia di C. P., in Rassegna storica del Risorgimento, 1929, fasc. I, pp. 253-59.

CAVALLI A., P., in La rivoluzione liberale, Torino, 31 maggio 1925. Cenni sulla vita di C. P., premessi al I vol. dei

Saggi, ed. originale, pp. v-xx.

CONVERTI N., Brevi cenni su P., in La questione sociale, Paterson, 1895-1896.

CORRIDORE F., Autografi di C. P., Torino, 1911.

C. S., Articolo su P. nel Giornale delle associazioni operaie, Genova, 3 luglio 1864.

DA CIMBRO, C. P., in Pagine critiche, 1926, p. 171 sg.

DEL RE, C. P. e le sue opere postume, in Rivista contemporanea, Torino, marzo 1859, pp. II-VIII.

FABBRI L., C. P. La vita, le opere, l'azione rivoluzionaria. Cenni storici, Roma-Firenze, 1904, pp. 32.

FALCO G., Note e documenti intorno a P., in Rivista storica italiana, Torino, luglio 1927, pp. 241-302.

GHISALBERTI A. M., Il capo di S. M. della Repubblica Romana del 49, in Rassegna storica del Risorgimento, Roma,

1925, pp. 681-687.

Grido (il). Numero unico dedicato a P. nel I centenario della nascita. Napoli, 22 agosto 1918.

MACCHI M., C. P., in Almanacco nazionale per il 1858, Torino, 1858, pp. 26-41.

C. P., in La Ragione, Torino, 25 luglio 1857.

MALON B., C. P., in Revue socialiste, Paris, nov. 1888.

MAZZINI G., Ricordi su C. P., in Italia del Popolo, Genova, 2, 4, 5, 7 maggio 1858. Poi in opuscolo e nelle raccolte

dei suoi Scritti.

MERLINO F. S., C. P., Milano, 1878.

MONTICELLI C., Da C. P. alle bande di Benevento, ne L'Avanti!, Milano, 2 luglio 1911.

N(EGRI) E., L'idea politico-sociale di C. P., in La rivendicazione, Forlí, n. 45, 27 agosto 1887. (All'articolo segue una

lunga scelta di passi dei Saggi, brevemente commentati: si vedano i nn. 46-52, 55, 57, 61-62 del sett. dic.; nel

n. 51, 8 ott., compare un ritratto di P.

NEGRI L., C. P. e la campagna del 1848-49, in Rassegna storica del Risorgimento, Roma, 1924, pp. 874-85.

NERI A., Una lettera di Cattaneo a P., in Il Risorgimento italiano, Torino, 1908, pp. 306-8.

NOI (COLAJANNI N.), Gli avvenimenti e gli uomini: C. P., in Rivista popolare di politica lettere e scienze sociali,

Roma, 1904, 15 luglio, pp. 337-39. Con ritratto di P.

ORANO P., I patriarchi del socialismo. Pisacane. Roma, 1904, pp. 130-136 e 214-15.

PALAMENGHI-CRISPI T., All'eroe di Sapri precursore di Garibaldi. Documenti inediti, in Il giornale d'Italia, Roma,

3 luglio 1904.

Fabrizi, P., Pilo, in Il Risorgimento italiano, 1914, pp. 323-409.

R. Pilo e C. P., ivi, p. 533.

PISACANE (C.). Numero unico. Napoli, 2 luglio 1884, pp. 4.

Pisacane in L'Avanti della domenica, 1907, n. 32.

in Humanitas, Napoli, 2 luglio 1887.

P. e i Mazziniani, in La questione sociale, Firenze, 29 dic. 1883.

PISELLI G., Articoli commemorativi di P., in La rivendicazione, Forlí, 7 luglio 1888, 6 luglio 1889, 12 luglio 1890.



172

PUGLIONISI C., P., in La rivoluzione liberale, Torino, 31 maggio 1925.

RENSI G., I profeti dell'idea socialista: C. P., in La critica sociale, Milano, 1-15 aprile 1901.

ROMANO A., Contributo alla biografia di C. P., in La civiltà moderna, Firenze, 15 giugno 1931.

SAFFIOTTI U., Un periodo sconosciuto della vita di C. P., in La nuova antologia, 16 marzo 1913, p. 227 sg.

SAVELLI A., P., Firenze, 1925, pp. 116.

SPADONI D., Una voce della tomba, in La Critica sociale, Milano, 16 apr. 1897.

TRUSIANI M., Considerazione sopra un articolo del colonnello P., in La voce della libertà, Torino, 1853, n. 306;

1854, nn. 3, 8, 14, 21,

VAIRO F., C. P. e la nazione armata, in Nuova riv. di fanteria, Roma, 15 maggio 1910, p. 429 sg.

VENOSTA F., C. P. e compagni martiri a Sanza, Milano, 1863 (in appendice un articolo di P. PICCARDI, di critica ai

principî socialisti di P.).

C. P., A. Milano ed altre vittime napoletane. Notizie storiche, Milano, 1864.

C. P. e C. Nicotera. Notizie storiche, Milano, 1876.

Vittime (le) del fanatismo. C. P., Firenze, Nerbini, s. d., pp. 12.

ZUCCARINI E., P. e il socialismo moderno, Napoli, 1887.

Articoli vari in morte di P. comparvero ne L'Indipendente, Torino, 13, 21 luglio 1857; nel Diritto, Torino, 21 luglio

1857; ne L'Italia del Popolo, luglio 1857 (cit. nel testo); ne L'Armonia, Torino, 17 luglio 1857; in vari giornali

inglesi ecc.

Articoli biografici su P. si trovano nelle opere di CARPI, Il Risorgimento italiano, Milano, 1884, vol. III; di BONOLA,

I patrioti italiani, Milano, 1871; di D'AYALA, Vite degli italiani benemeriti della libertà e della patria, Firenze,

1868, vol. I, pp. 328-31.

Notevoli accenni a P. si trovano nelle seguenti opere:

ANGIOLINI A., Cinquant'anni di socialismo in Italia. Firenze, 1919, pp. 23-43.

DE CESARE R., La fine di un regno, Città di Castello, 1900.

DEL CERRO E., Fra le quinte della storia. Torino, 1903, pp. 199-215.

DOMANICO, L'Internazionale, vol. I. Firenze, 1911, pp. XVIII-XXVIII.

FALDELLA G., Dai fratelli Bandiera alla dissidenza. Torino, 1883.

FERRARI A., I precursori del movimento socialista in Italia, in Nuova rivista storica, 1926.

LUCARELLI A., La Puglia nel sec. XIX. Bari, 1927.

LUZIO A., Carlo Alberto e Mazzini. Torino, 1923, pp. 416-34.

MALON B., Histoire du socialisme, vol. IV. Paris, 1884.

MARIO J., Opere più volte cit.

MICHELS R., Storia critica del movimento socialista in Italia. Firenze, 1927.

MORANDO F. E., Mazziniani e Garibaldini. Genova, 1931.

NETTLAU M., E. Malatesta. New York, 1922.

NITTI F. S., Gli eroi della rivoluzione, in La vita italiana nel Risorgimento, serie IV, vol. I, p. 59 sg.

ORIANI A., La lotta politica in Italia. Bologna, 1925, vol. II, pp. 406-413.

Onoranze postume a Pisacane:

Monumenti ecc. A Salerno, nei giardini pubblici, venne nel 1864 inaugurato un monumento a P. [A questa cerimonia si

riferisce probabilmente La rivendicazione, Forlí, 6 luglio 1889, quando afferma che nel 1875 fu inaugurato in

Salerno un monumento a P., oratore il Bovio e che il socialista Covelli non venne lasciato parlare.] (V.

ASPRONI G., Il simulacro di C. P. inaugurato in Salerno addí 2 luglio 1864. Napoli, 1864. Nel Museo del Risorgimento

in Milano, cartella P., trovasi una scheda di sottoscrizione per questo monumento, intestata Associazione

dei Comitati di provvedimento preside Garibaldi. Comitato centrale Genova; s. d.). A Napoli, nel cimitero

di Poggioreale, venne eretto nel 1872, a cura di Nicotera, un altro monumento a P. [Presso al quale nel

1890, veniva sepolta Silvia, ricordata in una bellissima epigrafe di G. Bovio (v. BILOTTI, op. cit., p. 437). Il



173

monumento sorge in uno speciale recinto dedicato agli uomini illustri. Quanti amici di P. sepolti lí presso!

Conforti, Mezzacapo, D'Ayala, Dall'Ongaro, Boldoni,Cosenz...] (v. ORANO, op. cit., p. 133). In Sapri la spedizione

non venne ricordata che da una concisa epigrafe; similmente a Ponza. Il 2 luglio 1903 venne posta, a

Sanza, la prima pietra di un cippo ai caduti (v. il giornale Masuccio, di Salerno, 2 luglio 1903, numero unico

dedicato alle onoranze a Pisacane, con articoli di Morvillo, Natoli ecc. Il 3 luglio 1904 il cippo venne solennemente

inaugurato, presenti un nipote di P. e i fratelli di Falcone. Parlarono per l'occasione i deputati Camera e

De Marinis (v. La cronaca di Salerno, 6 luglio 1904; La rivista popolare, 15 luglio 1904; Il giornale d'Italia, 3

luglio 1904). Nel 1906 venne deliberata l'apposizione di una lapide commemorativa al Fortino di Cervara

(BILOTTI, 20). In Napoli Pisacane non è ricordato che dal nome di una modesta strada (come in molte altre

città italiane). Nel 1911 venne inaugurata a Tatti (Massa marittima) una targa di marmo a P. precursore di Garibaldi

e primo banditore del socialismo in Italia (e nella stessa occasione ristampato in opuscolo il suo Testamento

politico. Grosseto, 1911). A Genova P. è ricordato da una lapide murata sulla facciata di casa Benettini,

nella via a porta degli Archi.

Varie. Fin dall'ottobre 1857 Mazzini pensò a fare coniare una medaglia in onore di P., raccogliendo contributi fissi di 50

cent. in Italia e all'estero; ma l'iniziativa, s'è detto, non ebbe attuazione. Nel 1860 Garibaldi dittatore assegnò

una pensione vitalizia a Silvia, figlia di P. (v. MARIO J., In memoria di Nicotera, 48 sg.; A. Bertani e i suoi

tempi, I, 245).

Una proposta di legge per «lo assegnamento di una pensione vitalizia ai superstiti della spedizione P. nel 1857»

venne presentata alla Camera nel 1877 da Cairoli, Garibaldi, Sprovieri, Fabrizi, Bertani ecc. La discussione ebbe luogo

il 29-30 gennaio, oratori principali il Cairoli (in favore), Sella (contro). Il progetto venne preso in considerazione, ma

restò poi sempre allo stato di progetto (v. MARIO, In memoria, p. 117 e i giornali del tempo, ad es. Il Dovere, Roma, 1°

febbraio 1877. Il discorso Cairoli venne anche pubbl. a parte: Roma, 1877, pp. 10).

Gruppi socialisti ed anarchici intitolati a P. vennero fondati qua e là in Italia dopo il 1880: ad es. a Forlí nel

1886, a Cervia e a Villa Savio nel 1888. Le date anniversarie di P. vennero frequentemente commemorate dai socialisti,

la prima volta, credo, dalla Federazione socialista forlivese, il 2 luglio 1882.

Tre numeri unici di giornali vennero, per quanto mi consta, dedicati a P.: il 2 luglio 1884, il 2 luglio 1903 e il

22 agosto 1918 (già cit.).

Nell'ottobre 1887 Antonio Fratti, mazziniano, tenne a Forlí una conferenza in gran parte dedicata a P. (v. La rivendicazione,

Forlí, 15 ott. 1887) [Fratti rivendicò il sostanziale accordo di pensiero tra Mazzini e P., ma venne vivacemente

rimbeccato dalla stampa socialista].

Il nome di P. echeggiò spesso alla Camera italiana: ad es. l'1 luglio 1861 (Crispi); il 29-30 gennaio 1877 (Cairoli,

Sella); il 17 giugno 1882 (Cavallotti); il 13 giugno 1891 (Imbriani); il 13 giugno 1894 (idem); il 10 aprile 1897

(Bissolati); l'11 aprile 1897 (Imbriani) [Bissolati esaltò «l'atto dell'eroe di Sapri, che, socialista, si immolava per creare

l'Italia borghese, perché sapeva che lo sviluppo della borghesia e la costituzione della nazionalità sono preparazione

necessaria della società comunista». Imbriani ribatté che «P., sbarcando a Sapri, non aveva che un pensiero: l'unità

italiana sotto la bandiera della repubblica».]

c)

ALBINI D., La S. di S. e la provincia di Basilicata. Roma, 1891, pp. 24.

AMABILE A., La genesi storica e il contrib. ideale della S. di S. Nocera, 1899.

Ansie (le) del governo borbonico nel 1857. In Il Ris. ital., 1920, p. 399 sg.

BILOTTI P. E., La S. di S. Da Genova a Sanza. Salerno, 1907.

C.(ASANOVA) E.(UGENIO), Sulla preparazione di S., in Rass. stor. del Ris., 1924, p. 511 sg.

DE LEO A., Commemorazione della S. di S. Salerno, 1885.

DE MONTE L., Cronaca del Comitato segreto di Napoli su la S. di S. Napoli, 1877.

FABRIZI N., La S. di S. e il Comitato di Napoli. Napoli, 1864.

FISCHETTI G., Cenno storico dell'invasione dei liberali in Sapri nel 1857. Napoli, 1877.

GIANGIACOMI P., Anconitani precursori e soldati dei Mille. Ancona, 1910.

LABATE V., R. Pilo e la S. di S., in Rivista d'Italia, gennaio 1908, pp. 145-64.

LACAVA M., Nuova luce sulla S. di S., in Atti dell'Accad. Pontaniana, vol. XXII.

MAZZIOTTI M., Documenti relativi alla S. di S., in Rass. stor. del Ris., 1916, p. 765 sg.

MESSAGGI G., Della sommossa di Genova, dei fatti di Livorno e dello sbarco dei rivoltosi in Sicilia nel 1857. Milano,

1857.



174

PAOLUCCI G., Rosolino Pilo. Memorie e documenti dal 1857 al 1860, in Archivio stor. sicil., 1899, pp. 210-84.

POGGI F., Sapri (sped. di), in Dizionario del Ris. nazionale, Milano, 1931, pp. 949-54.

RACCIOPPI G., La S. di Carlo Pis. a S., con nuovi doc. inediti. Napoli, 1863.

Gli echi di Sapri. 1897.

RONDINI D., La S. di S., in Il Ris. Ital., 1911, pp. 160-88.

SAFFI A., Cenni biografici e storici a proemio dal testo, in Scritti ed inediti di G. MAZZINI, vol.. IX, pp. CXXXCLIV.

ZAGARIA R., La parte del Mazzini nella spedizione di Sapri, in Rass. stor. del Risorg., aprile-giugno 1927.

(Si vedano in TABARRINI, Vita di Lenza; MINGHETTI, Miei ricordi; PASOLINI, Memorie raccolte da suo figlio, le

impressioni destate su Pio IX, allora in viaggio nelle Legazioni, dalle notizie della Spedizione di Sapri).

La spedizione di Sapri dette luogo a numerosi componimenti poetici, quasi tutti assai scadenti, seppure calorosi e

ispirati. Vanno citati, in ordine di tempo: MERCANTINI L., La spigolatrice di Sapri, stampata la prima volta

nel Movimento, Genova, 3 agosto 1857; RICCIARDI C., Novissima verba. Carme ai caduti di Sapri, in La

Gazzetta del Popolo, Torino, 29 luglio 1857: VECCHI C. A., Canto funebre, ivi, 17 agosto 1857; CURZIO F.,

L'eroe di Sapri (4 sonetti), 1858, ristampati in Poesie edite ed inedite di F. C., Milano, 1883. LOMBARDI E.,

La spedizione di Sapri, letta la prima volta nel 1865 e poi stampata nella Biblioteca universale del Sonzogno;

QUARTA A., La spedizione di Sapri. Versi, Roma, 1877; versi di TERZI R., e di CAPASSO G. si leggono sul

giornale Masuccio, Salerno, 2 luglio 1903. Fra gli stranieri che cantarono la spedizione si veggano

SWINBORNE, Song of Italy; HARRIET HAMILTON-KING, The disciples, London, 1873 (v. il brutto poemetto

Nicotera). CARDUCCI dedica due versi a Pisacane in una delle sue odi barbare (Scoglio di Quarto). È

noto che anche VICTOR HUGO tessé l'apologia di P., dicendolo più grande di Garibaldi nello stesso modo che

Brown era da considerarsi più grande di Washington.

d)

Sugli amici di Pisacane:

CARRANO F., Ricordanze stor. del Ris. ital., 1822-1870. Torino, 1885.

CASONI F., G. Cadolini, in Rass. stor. del Ris., 1922, p. 45 sg., 315 sg. (anche: CADOLINI, Memorie, Milano, 1911).

CATTANEO C., Opere ed epistolario, varie edizioni.

COLLETTI A., A. Franchi e i suoi tempi. Torino, 1925.

DE GUBERNATIS A., F. Dall'Ongaro e il suo epistolario scelto. Firenze, 1875.

(FANELLI, intorno a): CHIARELLI G., Un patriota martinese: G. F., in Il Mondo, Roma, 12 aprile 1925.

TEOFILATO C., G. F. dalla Giovine Italia alla Intern., in Vita e pensiero, Roma, 1° agosto 1925, pp. 205-8.

MALATESTA E., G. F. Ricordi personali, in Vita e pensiero, Roma, 16 sett. 1925, pp. 252-54. LUCARELLI

A., La Puglia nel sec. XIX, cit., p. 223 sg.

FERRARELLI G., L. Mezzacapo e i suoi tempi. Roma, 1885.

FRANCHI A., A G. Mazzini. Torino, 1857.

GROPPA B., B. Falcone: discorso. Corigliano cal., 1911.

GUARDIONE F., Il generale E. Cosenz. Palermo, 1900.

HERZEN A., My past and thoughts. The memoirs of. London, 1924.

ITALICUS, L. Orlando e i suoi fratelli. Roma, 1898.

MACCHI M., La conciliazione dei partiti. Genova, 1856.

MARIO J., A. Bertani e i suoi tempi. Firenze, 1888.

In memoria di G. Nicotera. Firenze, 1894.

NERI A., Un episodio inedito della vita di N. Bixio. Genova, 1912.

OLIVIERI G., I Plutino nel Risorg. nazionale. Campobasso, 1907.

PESCI U., Il gen. C. Mezzacapo e il suo tempo. Bologna, 1908.

PUPINO CARBONELLI C., G. Mignogna nella storia dell'unità d'Italia. Napoli, 1889.

ROMANO N., G. B. Falcone, Città di Castello, 1888.



175

SAFFIOTTI U., Lettere ined. di C. Cattaneo a M. Macchi, in Rass. stor. del Ris., ott.-dic. 1925, pp. 721-800.

VISALLI V., C. De Lieto. Roma, 1919.

Sui tempi di Pisacane:

(Sulla vita militare nelle Due Sicilie borboniche) D'AYALA M., Memorie di M. D'Ayala e del suo tempo. Torino, 1886;

FERRARELLI G., Memorie militari del Mezzogiorno d'Italia. Bari, 1911.

(Sulle condizioni civili delle Due Sicilie borboniche) DE CESARE, op. cit.; MAZZIOTTI M., La reazione borbonica

nel regno di Napoli. Milano, 1912.

(Sulla Legione straniera) MOREL, La Légion étrangère. Paris, 1912; GRISOT et COULOMBON, Historique de la L.

E. de 1831 à 1887. Paris, 1888.

(Sulle campagne di guerra del 1848-49 le citazioni sarebbero innumerevoli, perciò si omettono; le op. seguenti vengono

notate solo perché hanno riferimenti diretti a Pisacane) DE HOFSTETTER G., Giornale delle cose di Roma

nel 1849. Torino, 1851; LOEVINSON E., G. Garibaldi e la sua legione nello Stato romano 1848-49. Roma,

1902-907; ROSELLI P., Memorie relative alla spedizione e combattimento di Velletri. Torino, 1853;

GABUSSI G., Memorie per servire alla storia della rivoluzione degli Stati romani. Genova, 1850.

(Sulla emigrazione politica in Isvizzera e in Piemonte) CADOLINI G., Memorie del Ris. dal 1848 al 1862. Milano,

1911; LOERO A., Gli emigrati politici in Genova nell'epoca del Ris., Bologna, 1911; CASANOVA E., L'emigrazione

siciliana dal 1849 al 1851, in Rass. stor. del Ris., XI, 1924; POGGI F., Emigrazione politica italiana

nel Regno di Sardegna, in Dizion. del Ris. Naz., cit., vol. I, pp. 964-972.

(Sulla emigrazione politica in Inghilterra) CALMAN A. R., Ledru-Rollin après 1848 et les proscrits français en Angleterre.

Paris, 1921; WHITAKER T., Sicily and England. London, 1907.

(Sul dissidentismo nel movimento repubblicano) La bibliografia è molto vasta; si vedano, per una prima informazione,

LAVELLI E., PEREGO P., I misteri repubblicani e la ditta Brofferio, Cattaneo, Cernuschi e Ferrari. Torino,

1851; ROSI M., Mazzini e la critica di un emigrato, in Riv. d'Italia, 1905.

(Sul murattismo) L'opera più recente è GAVOTTI M. V., Il movimento murattiano dal 1850 al 1860. Roma, 1927.

(Su La libera parola) CASONI F., La Libera parola. Sua diffus. e influenza, in Rass. stor. del Ris., 1928, p. 362 sg.;

MICHEL E., Un giornale rivoluzionario: La Libera Parola, in Riv. d'Italia, 30 giugno 1915, PP. 942-48;

ITALICUS, op. cit.; ROSI M., I Cairoli. Torino, 1908.

(Sui movimenti di Genova e di Livorno, 1857) MICHEL E., L'ultimo moto mazziniano. Livorno, 1903; PARETOMAGLIANO

B., Lettere e ricordi di Mazzini. Torino, 1924; scritti vari di J. MARIO, cit., e specialmente il seguente:

La spedizione di C. Pisacane e i fatti di Genova del 1857, in La Riv. popolare a G. Mazzini nel 100°

anniversario della nascita; Processo di Genova, 1858, in La gazzetta dei tribunali, febbraio 1858.

(Sul processo di Salerno, 1858) Atto di accusa proposto dal Proc. del Re... contro G. Nicotera ed altri imputati... e

decisione emessa dal G. C. su di essa. Salerno, 1857; Atto di accusa per i fatti di Ponza e di Sapri. Salerno,

1859.

(Sulle polemiche determinate dall'insuccesso della spedizione di Sapri) Oltre alle opere già citate sulla spedizione:

Resoconto del processo di diffamazione promosso da S. E. il Min. dell'Interno G. Nicotera contro S. Visconti,

gerente della Gazzetta d'Italia. Firenze, 1877; FOSCHINI L. D., Processo Nicotera Gazzetta d'Italia. Resoconto

stor. aneddotico. Milano, 1876; PALLESCHI F. G., G. Nicotera ed i fatti di Sapri, Firenze, 1876; DE

BELLIS F., L'eroe di Sapri. Napoli, 1877; ed altri scritti sul processo di Firenze di CARRARA F.,

CERLENIZZA L., CORSI T., MARI A.

(Sulla questione del Cagliari) Voluminose memorie ufficiali dei governi napoletano ed inglese si trovano a stampa;

intorno ad esse si ebbe una vasta fioritura di opuscoli; molto materiale trovasi ancora inedito negli Archivi di

Napoli, Torino e Londra. Si veda BIANCHI N., Storia della diplomazia europea in Italia, VII, pp. 408-24.

e)

ACERBI C., Progetto di miglioramento morale e materiale, a uso delle classi operaie. Casale, 1851.

BIANCHI-GIOVINI A., Prediche domenicali. Torino, 1856.

Biblioteca democratica settimanale. Genova, 1850-51.

BOCCARDO G., Trattato teorico pratico di economia politica. Torino, 1853.

CAPELLO G., Pensieri sul miglioramento morale e materiale della classe degli operai. Torino, 1849.



176

CARPI L., Del credito agrario e fondiario. Torino, 1854.

C. G. A. R., Timori e speranze per la Chiesa dalle ultime vicende di Roma. Genova, 1850.

CORVAJA G., La bancocrazia. Torino, 1853.

La lega industriale, ossia la panacea generale per guarire la società di tutti i mali del monopolio. Torino, 1853.

Demagogia (la) italiana ed il papa-re. Torino, 1849.

F. T., Cenni sull'attuale politica europea, ossia il nuovo sistema di. Genova, 1850.

GIUDICE L. M., Elementi di economia politica e industriale. Torino, 1855.

GIULIO C. I., Della tassa del pane. Torino, 1853.

MACCHI M., Dell'importanza sociale acquistata dalle moltitudini. Valenza, 1856.

MASSINO-TURINA P. G., La beneficenza ordinata a sistema, ossia ricerca delle cause della miseria e dei modi

pratici di fermarne il corso. Torino, 1850.

MENEGHINI A., Elementi di economia sociale ad uso del popolo. Torino, 1851.

MONTANELLI G., Introduzione ad alcuni appunti storici sulla rivoluzione d'Italia. Torino, 1851.

MORELLI G., Enosetnismo. 1855.

QUAGLIA L. Z., Sulle società di operai formatesi in Piemonte dopo lo Statuto. Torino, 1854.

Repubblica (la) italiana del 49. Suo processo. Torino, 1850.

ROSMINI A., Comunismo e Socialismo. Ragionamento. Genova, 1849.

RUSCONI C., Prolegomeni di economia politica. Torino, 1852.

Saggio intorno al socialismo e alle dottrine e tendenze socialiste. Torino, 1851.

SCIALOIA A., I principii della economia sociale. Torino, 1849.

Carestia e governo. Torino, 1853.

(TAPARELLI D'AZEGLIO P. L.) Sette libere parole di un italiano sulla Italia. 2a ed., Torino, 1849.

TRINCHERA F., Corso di economia politica. Torino, 1854.

TURCOTTI A., Dei diritti dell'uomo su la produzione del lavoro nell'interesse delle classi operaie. Varallo, 1853.

TUVERI G. B., Specifici contro il codinismo. Cagliari, 1849.

Del diritto dell'uomo alla distruzione dei cattivi governi. Cagliari,1851.

Indice dei nomi citati nel testo e nelle note

Abd-El-Kader

Accini, Nicola

Acerbi, Giovanni

Agresti, Filippo

Ajossa, Luigi

Albini, Giacinto

Albini, Nicola

Alifano, Carmine

Allemandi, M. N.

Andriani, Giuseppe

Angherà, Francesco

Arago, D. F.

Ardoino, Nicola

Armellini, Carlo

Arnulfi, colonnello

Ashurst, sorelle

Avarna di Gualtieri, Carlo

Avezzana, Giuseppe

Bachi, Riccardo

Badino, fuochista del Cagliari

Bakunin, Michele



177

Balbo, Cesare

Balsamo, Cesare

Balzani, ufficiale napoletano

Bandiera, fratelli

Barbagallo, Corrado

Barbar, console inglese a Napoli

Barbieri, Luigi

Basile, Raffaello

Bava, Eusebio

Bazigher, Giovanni

Beccaria, Cesare

Belgiojoso, Cristina

Bellazzi, Federigo

Benettini, Carlotta

Bentivegna, Francesco

Béranger, P. G.

Bernstorff, conte

Bertani, Agostino

Besana, Davide

Bianchi, Nicomede

Bianchi-Giovini, Aurelio

Bianchini, Ludovico

Biggs, Carolina

Biggs, Elisabetta

Biggs, Matilde

Bilotti, P. E.

Binda, Antonio

Bixio, Nino

Blanc, Luigi

Blanqui, L. A.

Boccardo, Gerolamo

Boffa, cameriere del Cagliari

Boldoni, Paolo

Bonavino, Cristoforo, vedi Franchi, A.

Bonghi, Ruggero

Bonomo, G., marchese di Castania

Borella, Alessandro

Borra, maggiore

Bosco, ufficiale napoletano

Bottero, G. B.

Brambilla, capitano

Brofferio, Angelo

Broggia

Brown, console inglese a Genova

Bucci, Eusebio

Buttà, Giuseppe

Cabella, Cesare

Cabet, Stefano

Cadolini, fratelli

Cadolini, Giovanni

Cafiero, Carlo

Cairoli, Ernesto

Calona, Ignazio

Calvino, Salvatore

Camarda, sergente

Camozzi, fratelli

Campana, maggiore

Campanella, Federico

Cantú, Cesare



178

Canuti, Filippo

Capasso, G.

Capponi, Gino

Capurro, G. B.

Caputo, Giuseppe

Carafa, Luigi

Carbonelli, Vincenzo

Carducci, Costabile

Carducci, G. B.

Carignano, principe di

Carlo Alberto, re di Sardegna

Carpi, Leone

Carrano, Francesco

Casanova, Eugenio

Castelli, Agostino

Castelli, don Domenico

Castelli, Michelangelo

Catapano, evaso da Ponza

Cattaneo, Carlo

Cattaneo, Giovanni

Cavedoni, Cel.

Cavour, Camillo

Cecchi

Cenni, Guglielmo

Cernuschi, Enrico

Chiala, Luigi

Ciampi, Domenico

Cironi, Pietro

Clarendon, lord Giorgio

Clerici, Cesare

Colletti, Arturo

Comandini, Alfredo

Conforti, Raffaele

Considérant, Vittorio

Consiglio, Alberto

Constant, Beniamino

Correnti, Cesare

Cortez, Donaso

Corti, Luigi

Corvaia, Giuseppe

Cosenz, Enrico

Crispi, Francesco

Croce, Benedetto

Cuneo, G. B.

Curzio, Francesco

Czarnowski, Adalberto, generale,

Dabormida, Giuseppe

Daelli, L. G.

Dall'Ongaro, Francesco

D'Ambrosio, Gaetano

D'Ambrosio, maggiore

Daneri, Francesco

Daneri, Giuseppe

Dante Alighieri

D'Ayala, Mariano

D'Azeglio, Massimo

De Boni, Filippo

De Cesare, Raffaele

De Cesaris



179

De Dominicis

De Gubernatis, Angelo

De Leo, D.

De Lieto, Casimiro

De Luca, Pasquale

De Mata, Giuseppe

De Monte, Luigi

De Sanctis, Francesco

De Turris, maggiore

De Sauget

Dickens, Carlo

Di Lorenzo, Enrichetta

Domanico, Giovanni

Doria, Gino

Dragone, Luigi

Dumont, Carlotta

Dumont, Enrico

Dupont De L'Eure

Durando, Giacomo

Engels, Federico

Esposito, Michele

Fabbri, Luigi

Fabrizi, Nicola

Fagan, Giorgio

Falco, Giorgio

Falcone, G. B.

Faldella, Giovanni

Fanelli, Giuseppe

Fanti, Manfredo

Fardella, Vincenzo

Farguliar, comandante il Malacca

Ferdinando IV, re di Sicilia,

Ferdinando II, re delle Due Sicilie

Ferrari Giuseppe

Ferrari, Napoleone

Filangieri, Gaetano

Fittipaldi, Luigi

Fonseca, capitano

Fontana, maggiore

Foresti, Felice

Foschini, Federico

Foschini, L. D.

Fourier, Carlo

Fra Diavolo, vedi Pezza, Michele

Francesco I, re delle Due Sicilie

Francesco II, re delle Due Sicilie

Franchi, Ausonio

Gabussi, Giuseppe

Gagliani, Giovanni

Galletti, Giuseppe

Gallotti, famiglia

Gallotti, Giovanni

Galluppi, Pasquale

Garibaldi, Giuseppe

Gasparone

Gavotti, M. V.

Geisser, A.



180

Gennarelli, A.

Gentilini, Enrico

Ghio, colonnello

Ghisi

Giangiacomi, P.

Giannelli, Andrea

Gioberti, Vincenzo

Giudice, L. M.

Giulio Cesare

Giulio, C. I.

Giusti, Giuseppe

Giusti, membro della Commissione di Guerra a Roma

Gladstone, Guglielmo

Glassford, Giorgio

Gojorani, Ciro

Gonzales, capitano

Goodwin, console inglese a Palermo

Goti, Agostino

Gorini

Govean, Felice

Grillenzoni, Giovanni

Grimelli, Genn.

Gropello di, Giulio

Gualterio, F. A.

Guerrazzi, F. D.

Guglielmi, Francesco

Hammond, sir

Haug, colonnello

Hawkes, Emilia

Herzen, Alessandro

Hofstetter, Gustavo

Hudson, Giacomo

Iacini, Stefano

Italicus

Jack La Bolina, vedi Vecchi, V. A.

Jovene

Kirckiner

Körner, Gottfried

Kropotkine, Pietro

Labate, Valentino

Labriola, Arturo

Lacava, Michele

Lacava, Pietro

La Cava, Rocco

La Cecilia, Giovanni

La Farina, Giuseppe

La Grange

Lamartine, Alfonso

La Masa, Giuseppe

Lamberti, Giuseppe

Lamennais, Félicite

Lamoricière, Luigi

Lavelli, Enrico

Lazzari, Dionisio

Lazzarini



181

Lazzaro, Giuseppe

Lechi, Teodoro

Ledru-Rollin, A. A.

Lemmi, Adriano

Lenzoni

Leone, chirurgo

Leopoldo I, re del Belgio

Leroux, Pietro

Lesseps, Ferdinando

Levi, Davide

Liberatore, Luciano

Libertini, G.

Linaker, Arturo

Loero, Attilio

Loevinson, Ermanno

Longo, Giacomo

Lo Russo, T.

Lucarelli, A.

Luigi Filippo, re dei Francesi

Luzio, Alessandro

Lyons, ammiraglio

Macchi, Mauro

Maestri, Pietro

Magnonc, fratelli

Magnone, M.

Maineri, B. E.

Maino, Luigi

Mameli, Goffredo

Mamiani, Terenzio

Manara, Luciano

Mancini, P. S.

Mangini, Antonio

Manin, Daniele

Mannucci

Manzini, Angelo

Marco Bruto

Mario, Alberto

Mario White, Jessie, vedi White, Jessie.

Martinetti

Marx, Carlo

Mascherò, Rosa

Masi, Luigi

Massari, Giuseppe

Massino-Turina, P. G.

Massoni

Matera, G. B.

Matina, Giovanni

Matteucci, Carlo

Mayor, Edmondo

Mazzini, Giuseppe

Mazzini, Maria

Mazziotti

Mazziotti, Matteo

Mazzoldi, Luigi

Mazzoni, D.

Medici, Giacomo

Mellana, Filippo

Meneghini, Andrea

Menghini, Mario



182

Mercantini, Luigi

Mercurio, cameriere del Cagliari

Metternich, principe di

Mezzacapo, Carlo

Mieroslawski, generale

Mignogna, Nicola

Milano, Agesilao

Milbitz, generale

Mileti, Pasquale

Minghetti, Marco

Mini, Costantino

Modena, Gustavo

Montanelli, Giuseppe

Montebello, duca di

Montecchi, Mattia

Montemayor, Lorenzo

Monti, Antonio

Monticelli, Carlo

Morando, F. E.

Mordini, Antonio

Moretti, tipografo

Murat, famiglia

Murat, Gioacchino

Murat, Luciano

Musitano, capitano

Musolino, Benedetto

Musto

Napoleone I, imperatore

Napoleone III, imperatore

Natoli, Vincenzo

Negri

Negri, Luigi

Neri, Achille

Nettlau, Max

Nicotera, Giovanni

Nightingale, Florence

Nisco, Niccola

Nobili, Luigi

Noce, Carlo

Nugent, generale

Olivieri, generale

Olivieri, Giovanni

Orano, Paolo

Oriani, Alfredo

Orlando, fratelli

Orsini, Felice

Orsini, Vincenzo

Oudinot, generale

Pacifico, Francesco

Padula, Vincenzo

Pagano, Mario

Palamenghi-Crispi, T.

Pallavicino, Giorgio

Palmerston, lord

Panizzi, Antonio

Paolucci, G.

Pasi, colonnello



183

Passatore, il

Pateras, Teodoro

Pellegrini

Peluso, famiglia

Pepe, Guglielmo

Perego, Pietro

Pesci, Ugo

Pezza, Michele (Fra Diavolo)

Pianell, Giuseppe

Pigozzi, Francesco

Pilo, Ignazio

Pilo, Rosolino

Pio IX, papa

Pisacane, famiglia

Pisacane, Filippo

Pisacane, Luisa

Pisacane, Silvia

Pisani, relegato a Ventotene

Pisani, Enrico

Piselli, G.

Plutino, Agostino

Poerio, poi Nicotera, Gaetanina

Poerio, Raffaele

Poggi, F.

Poggi, fratelli

Praito, Alfonso, vedi Dragone

Prato, Giuseppe

Profumo, Giacomo

Promis, Carlo

Proudhon, P. J.

Pugliese, S.

Pupino-Carbonella, Giuseppe,

Quadrio, Maurizio

Quaglia, L. Z.

Radetzki, generale

Radice, dep. al Parlamento

Ramorino, generale

Rattazzi, Urbano

Raulich, Italo

Rebora, fuochista del Cagliari

Remorino, Girolamo

Restelli, Francesco

Revere, Giuseppe

Ricciardi, Giuseppe

Ricotti, Ercole

Ridella F.

Rinaldini

Riva

Rizzo, Antonio

Rocchi

Romagnosi, G. D.

Romano, Aldo

Romano, famiglia

Romano-Catania, Giuseppe

Rondini, Druso

Roselli, Pietro

Rosetta, compagna di Pilo

Rosi, Michele



184

Rosmini, Antonio

Rosmini, Enrico

Rossetti, D. G.

Rossetti, Gabriele

Rossi, Pellegrino

Rubattino, Società

Ruffini, Jacopo

Rusconi, Carlo

Sacchi, Achille

Saffi, Aurelio

Saggiotti, U.

Saint-Simon, C. E.

Salasco, generale

Saliceti, Aurelio

Salomone, Federico

Salomone, Giustino

Salvemini, Gaetano

Sand, Georges

Sanzio, ufficiale napoletano

Saponi, fuochista del Cagliari

Savi, B. F.

Schmit, G. P.

Scialoia, Antonio

Sciesa, Amatore

Serra-Capriola, duca di

Settembrini, Luigi

Settimo, Ruggero

Sforza Cesarini, Lorenzo

Signorelli, Rocco

Sineo, Riccardo

Sirtori, Giuseppe

Sitzia, Antioco

Solaro Della Margarita, Clemente

Sorel, Giorgio

Spaventa, Silvio

Speri, Tito

Spinuzza, Salvatore

Sprovieri, Vincenzo

Stansfeld, Giacomo

Sterbini, Pietro

Stopford, ammiraglio

Tapparelli D'Azeglio, P. L.

Taylor

Temple, Guglielmo

Teofilato

Thiers, Adolfo

Thurn, generale

Tivaroni, Carlo

Todesco, Angelo

Tommaseo, Nicolò

Torelli, Giuseppe

Torraca, Francesco

Torre, Francesco

Travi, cameriere del Cagliari

Trinchera, Francesco

Trusiani, Massimino

Tucci, Alberto

Turcotti, Aurelio



185

Tuveri, G. B.

Ulloa, Girolamo

Vairo, Francesco

Valerio, Lorenzo

Varé, Daniele

Vecchi

Vecchi, Vittoria

Vecchi, V. A.

Venosta, Felice

Venturini, evaso da Ponza,

Verratti, Silvio

Vico, G. B.

Villa, Tommaso

Villamarina, marchese di

Villari, Raffaele

Visalli, Vittorio

Vitiello, parroco di Ponza

Vittorio Emanuele II, re di Sardegna

Wallace, Guglielmo

Welden, generale

Whitaker, Tina, 338.

White, Jessie, poi Mario, Jessie,

Zini, Luigi,